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PIER PAOLO PASOLINI 3. Il tempo della caduta. L’omologazione antropologica degli italiani

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di Luca Vidotto

Pasolini, nel 1974, riprende in mano le sue prime poesie friulane e ne scrive una nuova versione, aggiornata in base ai cambiamenti che si sono susseguiti nei trentatré anni che dividono le due raccolte. Il tono cambia radicalmente: l’Italia è, ormai, agli occhi del poeta, stravolta. Il nuovo potere e la moderna tecnica si sono fatti coscienza, causando il genocidio di quei corpi, poveri ma liberi e ricchi, che Pasolini aveva incontrato nella prima parte della sua vita. È stata annientata ogni forma alternativa di cultura, nell’istante stesso in cui risultava in opposizione a quella borghese, la quale, nella sua modernità, è totalmente irreligiosa e non lascia spazio a nessun sentimento che non sia lo sfrenato edonismo legato al consumo, trasformando ogni credenza e ogni culto antico in un insieme di gesti vuoti e parole incapaci di evocare alcunché, lasciando spazio unicamente alla fede nel progresso e nel benessere.
Sotto alla croce di Cristo si riunisce la sola carne vecchia degli anziani, che per fortuna d’anagrafe non riescono a comprendere totalmente il messaggio della modernità. Il sacro si è ridotto da alito vitale a puzzo putrescente, a una maschera di esangue ripetitività, in cui Cristo, la Madonna, Dio e lo spirito da simboli evocativi sono diventati niente più che parole mute e vani pensieri. L’etica cristiana è diventata patetica: la libertà è data dal potere d’acquisto, e si è tanto più liberi quanto maggiore è la possibilità di possedere. Il poter avere e l’aver potere fanno tutt’uno.
Le poesie in dialetto friulano che Pasolini scrisse un anno prima di morire si presentano irriconoscibili rispetto a quelle dei suoi vent’anni, e ciò risulta evidente fin dall’inizio della raccolta, nel confronto tra le due dediche a Casarsa. Così si esprime nel periodo fra il 1941 e il 1943:

 
Fontana di aga dal me país.

A no è aga pí fres-cia che tal me país.

Fontana di rustic amòur.
 

Così nel 1974:

 

Fontana di aga di un país no me.

A no è aga pí vecia che ta chel país país.

Fontana di amòur par nissún.

 

Durante la lettura de Le litanie del bel ragazzo restiamo colpiti da come il mondo contadino, che viveva sotto la luce dell’eternità, in cui tutto era chiaro e fermo, e non solo il riso e la serenità del cielo, ma anche la pioggia, le nubi e “un pianto d’inferno” erano avvolti in quella luce, non è ora altro che un mondo vecchio, che non ha più niente da dare, come il dialetto che un tempo lo animava. Ma, afferma Pasolini, “non sono vecchio io, è vecchio il mondo, vivendo fino in fondo, io muoio e lui no”, perché quella terra friulana “non morendo, lascia chi vive senza fondo”. Il cattolicesimo di cui era permeato si è stemperato, esangue, lasciando che la figura del Cristo, anche lì tra le campagne, si risolvesse completamente nella marca di blue-jeans Jesus: non c’è altro dio se non quello del consumo.
Lo stesso David, il «povero giovane», che avevamo già incontrato e che, «appoggiato al pozzo», ci aveva rivolto lo sguardo, ora diventa «un segno dei secoli» finiti per sempre e non più «di un Aprile», destinato ciclicamente a ritornare: nulla più che «una luce nella storia del niente».
La stessa gioia che provava Pasolini quando tornava nella sua terra materna, umile e poetica, viene totalmente stravolta e annebbiata da nuovi sentimenti: “Mi sono ingannato giocando al pellegrino che arriva come uno spirito nel mondo contadino. Ma era un gioco nel gioco, e adesso che tutti e due sono finiti nel fuoco spento della storia, maledico la storia che non è in me che non la voglio”.
Ne Il canto delle campane, Pasolini in un certo senso spiega questo suo sentimento disperato.

 
I no rimplàns ‘na realtàt ma il so valòur.
I no rimplàns un mond ma il so coloùr.

Tornànt sensa cuàrp là che li ciampanis
a ciantavin peràulis di dovèir, sordis coma tons,

i no plans parsè che chel mond a no’l torna pí,
ma i plans parsè che il so tornà al è finít.
 

Si è conclusa la storia dell’uomo, e ora inizia qualcosa di assolutamente nuovo, che si fa vanto di tale condizione, e che costruisce un mondo non più a misura d’uomo, ma assecondando nuove logiche tecnicizzate, che guardano all’individuo come se fosse un automa. L’atomismo sociale è becero, perché non si prefissa di cancellare ogni intimità fra gli uomini e la natura, ma reinventa il nostro ruolo nel mondo: uomini-massa costruiti sotto la buona stella del consumo.
Che ne è di quei luoghi che avevano generato la vita così come l’aveva conosciuta Pasolini?

 
Diu,
a làssin la ciasa ai usièj,
a làassin il ciamp ai vièrs,
a làassin secià la vas’cia dal ledàn,
a làssin i copsa la tampiesta,
a làssin a l’erba il codolàt,
e a van viae là ch’a a erin
a no resta nencia il so silensi.

Coma il vis’ciu
qualchidún a resta,
‘na fruta cui me vuj,
un fantàt fuàrt e immusàt,
i sint li so vòus.
Ma cui ch’a resta
al è pí lontàn
di chei ch’a son zus.
 

Pasolini si trova costretto in un’isola solitaria in mezzo al mare della modernità, è il poeta imprigionato in un mondo in cui tutto funziona con una precisione meccanica e l’uomo stesso è diventato un’“arancia ad orologeria”. In questo mondo è ancora possibile la poesia? Tutto è serio e perbene, e gli occhi sono sempre più ciechi di fronte a quelle presenze del mondo che ci parlano con un linguaggio che scaturisce dalle emozioni e dal turbamento. Sembra persa per sempre la polisemia dei simboli del mondo, tutto ciò di cui si nutre voracemente la contraddittoria poesia e che un tempo si presentava pacificamente nella sua immediatezza e nella sua normalità.
Regna l’ignoranza e la volgarità di chi ha preteso che la cultura di un territorio debba essere una cultura in cui vige una ragione, mortificando lo spirito e la carne degli italiani, imbruttendoli, abolendo il sorriso e l’allegrezza dal loro viso, e dando in cambio il ghigno e la smorfia della presunzione e il tremore della nevrosi.
L’omologazione è una pianta infestante, che non dà, attraverso il proprio modello, nuova vita alla flora preesistente, ma la divora

 
E, in tale coscienza, la realtà si spoglia,
si fa una cosa ripugnante, nuda, come nei sogni.
Solo: io, e la Bava che il mostro lascia passando sul mondo.
 

Quel mostro di cui parla Pasolini nel finale della poesia, altro non è che il nuovo potere, che ha dato una nuova forma agli oggetti e ai ragazzi che abitano gli antichi luoghi della vita, la quale, ora, si presenta come un ammasso di corpi malaticci e di visi pallidi, completamente immersi nel cemento dei nuovi palazzi che ingombrano e deturpano i profili delle città, le cui vie hanno l’aspetto spettrale dei gironi e delle bolge dantesche, tra il silenzioso frastuono dei centri urbani e l’assordante rumore delle mute periferie. La colpa di questo mondo ce l’hanno infatti i padri, i quali, per una promessa di benessere, hanno venduto al diavolo la propria coscienza e la propria cultura alla società consumistica, dimenticando Cristo e gli antichi valori, per lasciare aperte le porte delle loro case all’Edoné. Ma le tragedie dell’antica Grecia, per bocca del Coro e della sua saggezza, ci insegnano, misteriosamente e quasi in modo per noi (moderni!) inconcepibile, che i figli sono destinati “a pagare le colpe dei padri”. Quale, allora, la condanna per i figli? “Non c’è segno più decisivo e imperdonabile di colpevolezza che l’infelicità. Sarebbe troppo facile e, in senso storico e politico, immorale, che i figli fossero giustificati – in ciò che c’è in loro di brutto, repellente, disumano – dal fatto che i padri hanno sbagliato”.
Pasolini non ferma qui la sua critica, e la sua è la voce della disperazione – lui, che nonostante la magrezza e gli spigolosi angoli del viso, aveva sempre avuto degli occhi vivaci e curiosi durante tutti i periodi passati tra i ragazzi che aveva amato, nelle campagne o nelle borgate, ora, durante i suoi ultimi anni di vita – le interviste e i documenti video che ci sono rimasti lo testimoniano – ha lo sguardo coperto da un velo di cupezza spaventosa, ancora più magro di quanto già fosse, ancora più duro e amareggiato nei suoi ragionamenti e nelle sue risposte. Dei sogni e delle palingenesi che avevano segnato la sua giovinezza, resta poco o nulla e la parola speranza viene totalmente abolita dal suo vocabolario, perché, ora, le speranze non sono altro che alibi. Ma Pasolini è ancora più radicale: la sua disperazione ha valore retroattivo e ricopre ogni cosa, distruggendo ogni frammento di passata felicità.
Il 15 giugno 1975, pochi mesi prima del ritrovamento del suo corpo martoriato tra la polvere dell’idroscalo di Ostia, abiurò alla sua Trilogia della vita, che aveva lo scopo di rappresentare l’ultimo baluardo della realtà da contrapporre alla trionfante “irrealtà della sottocultura dei mass media” e che mostravano “gli innocenti corpi con l’arcaica, fosca, vitale violenza dei loro organi sessuali”. L’abiura è dettata dalla constatazione della definitiva fine di quel mondo e dalla “degenerazione dei corpi e dei sessi”, che getta una lugubre luce anche nel passato:

se coloro che allora erano così e così, hanno potuto diventare ora così e così, vuol dire che lo eran5o già potenzialmente: […] se ora sono immondizia umana, vuol dire che allora […] erano degli imbecilli costretti ad essere adorabili, degli squallidi criminali costretti ad essere dei simpatici malandrini, dei vili inetti costretti a essere santamente innocenti ecc. ecc. Il crollo del presente implica anche il crollo del passato. La vita è un mucchio di insignificanti e ironiche rovine.

Il mondo si è rovesciato e non ha lasciato nemmeno lo spazio per la nostalgia e il rimpianto di un’epoca che, pur nelle sue misere condizioni di vita, era allegra e necessaria Questo calvario è la genesi stessa delle sue ultime opere, tra le quali sarebbe stata emblematica la Trilogia della morte, di cui conosciamo solo il primo, terribile film, Salò o le 120 giornate di Sodoma, e il titolo del secondo, Porno-Teo-Kolossal.

In Salò è inscenata l’anarchia del potere, il totalitarismo della ragione calcolante, che avvolge la scena – la quale rappresenta allegoricamente la realtà – di una vuotezza sconvolgente, perfettamente resa dallo stile freddo che non lascia spazio né a sentimentalismi né ad alcuna forma di retorica o pietismo, rivelandosi molto fedele al libro del Marchese de Sade. Il sadomasochismo – diventato l’ideale di vita dei quattro libertini, che sono i protagonisti e i padroni della scena – è la metafora del rapporto che il potere ha con tutto ciò che gli è sottoposto, siano questi corpi, ridotti a mera merce, o oggetti, svuotati di ogni significato che non si identifichi immediatamente con la loro funzionalità.

Il potere edonistico-consumistico annienta cioè l’individualità dell’altro. È violenza assoluta. Il titolo e l’ambientazione del film hanno una particolarità, infatti inseriscono la storia, immaginata da de Sade in un lontano castello incastonato nella solitudine delle altezza montuose, all’interno della Repubblica di Salò, cioè dell’ultima sopravvivenza del nazi-fascismo.

Facendo ciò, Pasolini vuole sottolineare, ancora una volta, come la manipolazione dei corpi delle persone operata dalla società dei consumi, che ha causato la loro mutazione antropologica, non abbia niente da invidiare all’applicazione scientifica che mirava alla realizzazione di un’eugenetica ariana, nel nazismo, ad opera di Himmler e di Hitler. Inscena, in altri termini, quel genocidio a cui ha dovuto assistere.

Dopo questa caduta, che l’ha lasciato solo, lacerato ed esangue, mi piace pensare che la morte, l’orribile morte che ha incontrato quella notte a Ostia, sia caduta su di lui come una benedizione.


PIER PAOLO PASOLINI 1. Il tempo dell’innocenza. Il Friuli e Roma

PIER PAOLO PASOLINI 2. Il tempo del disincanto. L’avvento della società dei consumi

L’ineluttabilità

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di Fiorella Malchiodi Albedi

Nella sala d’attesa, in fila per la mammografia, siamo rimaste in due, io e la Donna Perfetta. Appena entrata, mi è sembrato subito di riconoscerla: longilinea, elegante ma in modo poco appariscente, con un taglio di capelli impeccabile. Il sorriso calmo che ha rivolto a tutte noi è stata la conferma. Perché la Donna Perfetta ama mostrarsi condiscendente con la massa e sa mischiarsi tra gli individui di rango inferiore senza palesare ripugnanza, anzi elargendo benevolenza. Ha preso a sfogliare una rivista con la sua mano affusolata, dove naturalmente splendeva una vistosa fede (va da sé che la Donna Perfetta è sposa felice e madre amorevole). E mentre noi altre poverette, chi più, chi meno, mostravamo segni di nervosismo (certo è un esame di routine, il verdetto sarà senz’altro favorevole, ma sempre di un verdetto si tratta), lei no, tranquilla, non un accenno di ansia a scompigliarle i capelli, a incresparle quella fronte vergognosamente liscia, a spegnerle il sorriso lieve sulle labbra.

Quindi ormai siamo rimaste solo noi due. L’ultima paziente esce dello studio, il medico si affaccia e scandisce:

– Crosetti.

– Sono io – sto per dire, ma per un attimo mi blocco: il mio cognome pronunciato con quel tono perentorio mi riporta indietro nel tempo. Alle elementari, forse, una suora che mi rimproverava? Oppure è stato al liceo? E mentre mi abbandono a quella memoria, ma solo per una frazione irrisoria del nostro tempo infinito, la Donna Perfetta si alza e dice:

– Eccomi – e segue il medico fuori della stanza.

Ma come? Finalmente sono in piedi anch’io.

– Sono io Crosetti! -, dico davanti allo studio, ma la porta chiusa non mi risponde. Che strano, penso, forse era un cognome simile, magari ha detto Corsetti o Rosetti e ho immaginato di sentire il mio, di cognome. Così vado dalla segretaria. La donna ha indosso il cappotto e si vede che sta preparandosi a uscire.

– Mi scusi, hanno chiamato Crosetti?

La donna dà un’occhiata al registro.

– Sì, certo, la signora Crosetti era l’ultimo appuntamento. Mi spiace, ma non posso farla aspettare, il medico lascerà lo studio subito dopo quest’ultima visita.

– Ma Crosetti…

– Mi scusi davvero, ma devo uscire di gran fretta. Mi telefoni, le fisso un nuovo appuntamento.

Rimango sconcertata. È un’incredibile coincidenza, che due donne con lo stesso cognome si siano prenotate per lo stesso giorno. La segretaria avrà pensato a uno sbaglio e ha cancellato il doppione. Dovrei chiedere conto dell’errore, protestare per l’appuntamento mancato. E invece mi metto a pensare che ho scorto una emme puntata dopo il cognome Crosetti, sul registro. Ancora più buffo, ma certo la mia omonima non si chiamerà banalmente Maria, come me. Forse Matilde. O Maddalena.

La donna ora è sull’uscio e mi guarda impaziente. Il tono gentile sta scemando rapidamente.

– Guardi che non posso lasciarla sola nella sala d’attesa, la prego di uscire.

Di nuovo dovrei obiettare, farmi valere, ma sento avvicinarsi l’ineluttabilità, sta per sommergermi. Così la seguo fuori, lei chiude la porta dietro di noi, mi saluta brevemente e poi scende veloce, il ticchettio dei suoi tacchi si perde nella tromba delle scale.

Magda? O magari Melissa. Chissà.

 

Mi sono seduta su una panchina dall’altro lato della strada, sperando di godermi l’ineluttabilità. Chiamo così un sentimento che spesso mi prende di consapevole e rassegnata impotenza: quanto è inutile l’umana fatica che tenta di opporsi al destino! È gradevole, come sensazione; dà un certo sollievo arrendersi di fronte alle difficoltà, rinunciare a combattere. Mi sento un granello di polvere nel turbinio cosmico, come potrei contrastare il divenire dell’universo? È come lasciarsi trascinare da una corrente immaginaria, in un fiume che scorre lentamente verso un lago sterminato. Ha anche un vago sapore di trasgressione, perché una parte di me dice che è sbagliato, che dovrei reagire e continuare a lottare. Ma è un retaggio di età lontane, ed è dolce tacitare quella voce interiore indisponente, ormai è flebile al punto che quasi non la sento più.

Da qualche tempo, però, l’antico meccanismo si è inceppato: mi capita di cedere all’inerzia, come sempre, è ormai la cifra della mia vita, ma senza riuscire ad assaporarne il potere consolatorio. Anche adesso, ad esempio, vorrei starmene qui tranquilla, a gustare il senso di resa e ricavarne il conforto che in genere porta con sé ma non ci riesco. C’è una nota acida. Mi ricorda il sapore agrodolce di certe pietanze delle mie zie, che noi bambini trovavamo rivoltante. Una punta di aspro, inattesa, che rovinava il dolce. Volevano darci un insegnamento, le amate zie? Prepararci alla vita? Questo insolito doloroso fastidio mi scava dentro. Continuo a guardare il portone dello studio medico con un malessere che non comprendo.

Ora il portone si apre ed esce la Donna Perfetta. L’esito dell’esame non ha scalfitto il sorriso sul suo volto; certo le sue ghiandole mammarie non conoscono termini come “cisti”, “sclerosi”, “fibroadenoma”, o peggio “carcinoma”, o altre amenità del genere che toccano invece a noi povere mortali. La guardo dirigersi verso la fermata dell’autobus, che è anche la mia, e di colpo provo un’intensa curiosità di sapere dove vive.  Ma sì, perché no, ho qualcosa di meglio da fare? Oggi andrà così: la seguirò per scoprire la sua Casa Perfetta. Provo un gusto un po’ perverso a perdere tempo dietro a questa follia e forse mi distrarrà dall’amara confusione che oggi mi invade.

Sale sul 60, che è anche la mia linea; almeno non dovrò girare mezza Roma per assecondare questa stravaganza. Il mezzo è semi vuoto; potrebbe sedersi, come ho fatto io, ma no, lei rimane davanti alle porte, dritta come un fuso. Già, dimenticavo che il portamento è un’altra caratteristica della Donna Perfetta: fiero ma senza alterigia, e soprattutto senza sforzo apparente, come se sconfiggere la gravità fosse la cosa più naturale. Senza accorgermene mi trovo a raddrizzare le mie spalle curve e la mia schiena gibbosa, ma è un attimo, il peso della vita ha subito la meglio sulla mia spina dorsale ormai viziata.

Arriva la mia fermata e, che strano, la donna scende. Mi precipito dietro di lei. Ma abita nel mio stesso quartiere? Come mai non l’ho notata prima? Forse è solo in visita. Continuo a seguirla, sempre più sconcertata. Ora siamo proprio nella mia strada e un brivido freddo comincia a scorrermi lungo la schiena. Ecco che si ferma davanti alla mia casa, tira fuori le chiavi, ora è dentro. Fisso immobile, in attesa, le finestre buie del mio soggiorno e ormai non mi stupisco quando vedo che all’improvviso si illuminano.

 

Sono ormai ore che spio la mia casa. Il mio doppio ben riuscito ha preparato la cena per il marito e i figli, poi tutti si sono seduti intorno al tavolo e hanno mangiato, allegri e tranquilli. Ora i ragazzi sono nelle loro stanze, e la Donna Perfetta e il suo marito perfetto sono sdraiati sul sofà, a guardare la TV. Ho visto accendersi e spegnersi le lampade nelle varie stanze, tutte luci allegre, così diverse dalle mie. C’è anche un’illuminazione esterna, e le sedie a sdraio, il tavolino e le fioriere che avevo deciso di mettere anch’io sul terrazzo, tanto tempo fa. Ma che poi non ho messo.

Basta, è inutile restare qui, devo allontanarmi anche se non so dove andare. Neanche l’ineluttabilità oggi mi è di conforto: ha un sapore stantio e reca solo un senso di penoso smarrimento. Ma come alleviarlo, non ho più risorse dentro di me: il fiume immaginario in cui mi lascio trasportare oggi si è inaridito. E allora cercherò dell’acqua in cui immergermi, ma questa volta acqua vera, non sognata. Sì, questo mi aiuterà. Immagino il suo abbraccio liquido; so che mi sentirò accolta, l’angoscia sarà lavata via e proverò di nuovo una sensazione di sollievo. Cercherò dei sassi per riempire le mie tasche.

 

 

“Una specie di alone”: guardare il mondo con Luigi Ghirri

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ph. Luigi Ghirri, "Verso la foce del Po", 1989

 

ph. Luigi Ghirri, “Verso la foce del Po”, 1989

 

di Daniele Ruini

«ho cercato nel gesto del guardare
il primo passo per cercare di comprendere»
(Luigi Ghirri)

Il nome di Luigi Ghirri (1943-1992) è diventato quasi un sinonimo della fotografia italiana degli anni ’70 e ’80 del secolo scorso: dopo aver mosso i primi passi nella provincia modenese (decisivo il suo incontro con artisti concettuali di stanza a Modena come Franco Vaccari, Franco Guerzoni, Claudio Parmiggiani, Giuliano Della Casa, Carlo Cremaschi), Ghirri si è ben presto imposto in ambito nazionale e internazionale. E la sua fama continua ad essere in ascesa: lo certificano sia le esposizioni delle sue opere (tra cui l’importante retrospettiva consacratagli dal MAXXI di Roma nel 2013: Pensare per immagini), sia l’interesse per la sua attività teorica. Quest’ultimo aspetto è testimoniato dalla recente ripubblicazione dei suoi scritti da parte di Quodlibet (casa editrice che già nel 2010 aveva fatto uscire le sue Lezioni di fotografia) sotto il titolo di Niente di antico sotto il sole; la prima edizione per i tipi di SEI (1997), corredata da alcune foto, era da tempo fuori catalogo (intanto nel 2016 era stata pubblicata a Londra la versione in inglese con il titolo di Luigi Ghirri – The Complete Essays 1973-1991).

Come ha sottolineato la figlia Adele, nata due anni prima dell’improvvisa scomparsa di Ghirri, la riproposizione degli scritti del padre in un’edizione economica (priva di fotografie) da un lato vuole favorire la conoscenza di questo importante fotografo presso le generazioni più giovani, e dall’altro ambisce a stimolare una conoscenza non semplificata del suo ampio lavoro (spesso circoscritto alla sola fotografia di paesaggio). Attraverso testi in cui Ghirri parla sia delle sue opere sia di quelle di suoi colleghi e maestri, il volume si configura come un’unitaria dichiarazione di poetica costruita sulla giustapposizione e ripetizione –sfumata ma insistita– di alcuni nodi concettuali dominanti.

Sfogliando queste pagine si assiste ad una grande lezione di consapevolezza da parte di un grande artista, che non ha mai smesso di interrogarsi sul senso del suo lavoro, cercando ogni volta di rimettere in discussione i risultati acquisiti. È la curiosità, forse, la cifra dominante di Luigi Ghirri, ovvero lo sforzo indomito per non cedere alla pigrizia del già visto e del già fotografato (da qui il titolo del volume, rovesciamento del «nihil sub sole novum» dell’Ecclesiaste). Il suo si configura come un bisogno urgente di ripulire ogni volta il suo obiettivo dal luogo comune, in un mondo che se negli anni ‘70 gli appariva come ormai trasformato «in una colossale fotografia» (p. 36) e negli anni ’80 appannato dalla foschia prodotta dai nuovi media visivi che impediscono «di vedere con chiarezza» (p. 130), all’inizio dei ’90 risulta definitivamente «travolto dalle immagini» (p. 321). Ecco allora la necessità di ritrovare uno sguardo stupito sulle cose, osservando la realtà «in uno stato adolescenziale» (p. 306): solo così sarà possibile produrre quello scarto decisivo per cancellare l’abitudine e riattivare un sentimento. Si capisce quindi la dichiarazione di Ghirri per cui quello della fotografia è per lui «un compito etico, ancor prima che estetico» (p. 321).

Fare foto allora, secondo Ghirri, non è mai produrre testimonianza di qualcosa in senso cronachistico, bensì sovrapporre sulle cose una lente conoscitiva funzionale ad indagare sia l’oggetto rappresentato e il suo rapporto con il contesto, sia il senso stesso del fotografare e del fotografare proprio quell’oggetto (e proprio in quel determinato momento e in quel determinato modo). Anche perché se, come si è detto, il mondo appare come costruito –è già esso stesso fotografia, fotomontaggio, quinta teatrale–, al fotografo non potrà essere richiesto uno sguardo obiettivo: egli è «già dentro il libro» (p. 62), fa già parte cioè del fotografato. Da lui ci si aspetterà invece un’indagine su quegli aspetti inediti che è possibile svelare all’interno del già visto («l’aspetto che ci è invisibile nelle cose e negli oggetti, e che si nasconde nei meandri della nostra percezione»: p. 94): mettersi in cammino «tralasciando le strade conosciute» e «cercando nuovi percorsi visivi e nuove strategie di rappresentazione» (p. 88), mantenendosi «in equilibrio tra rilevazione e rivelazione» (p. 97).

E per fare questo, per riuscire a bucare l’«eccesso di visibilità» (p. 151) della società dei consumi «stravolt[a] e stordit[a] dall’abbondanza» (p. 181), diventa opportuno riappropriarsi della storia della fotografia. Ma non per coltivare ambizioni di perfezionismo tecnico e formale, bensì per recuperare ciò che, alle sue origini, la fotografia aveva intuito:

Daguerre, avvicinandosi per primo alla frontiera del già visto e contemporaneamente del mai visto, intuisce che da quel momento la vita degli uomini sarà accompagnata da questo doppio sguardo, da uno scarto, una specie di alone che abiterà persone e luoghi; un doppio sguardo sul mondo visibile presente o evocato e sul mondo visibile fotografato. (p. 186)

Non a caso lungo il volume ritornano alcuni nomi che hanno fatto la storia di questa arte come Eugène Atget, André Kertész, Henri Cartier-Bresson o Paul Strand (per quanto decisiva sia stata su Ghirri soprattutto l’influenza della fotografia americana degli anni ’70, con Lee Friedlander e Walker Evans su tutti). Ma non meno importanti sono stati per il fotografo emiliano artisti del calibro di Piero della Francesca, Bruegel e Van Gogh, o un musicista come Bob Dylan (rivendicato come punto di riferimento determinante). E non manca l’omaggio a quegli emiliani come Zavattini, Fellini o Antonioni che hanno saputo descrivere la provincia, «luogo per antonomasia» (p. 65) su cui tanto ha insistito lo sguardo di Ghirri.

D’altra parte, si sa, l’Emilia è sempre rimasta il suo mondo, quel luogo del cuore su cui perfezionare la vocazione conoscitiva e affettiva della fotografia, alla ricerca di «nuove possibilità di percezione» (p. 97): di qui la preferenza per soggetti non particolarmente esotici («Nei viaggi non mi sono mai spinto troppo lontano», scriveva nel 1973 in apertura del suo primo scritto: p. 27), che si tratti di paesaggi, di architetture (come quelle di Aldo Rossi) o di interni (come lo studio bolognese di Giorgio Morandi, altro artista che Ghirri sentiva vicino a sé per la sua pittura fatta di variazioni minime del quotidiano; si veda ad esempio qui su Nazione Indiana).

A trent’anni dalla scomparsa, leggere le riflessioni di Ghirri fa aumentare il rimpianto per la sua assenza (a maggior ragione ora che se ne è andato anche il suo grande amico e compagno di esplorazioni Gianni Celati). Anche perché, oltre al suo lavoro di fotografo, Ghirri è stato un infaticabile curatore di progetti espositivi ed editoriali (come la fondazione della casa editrice Punto e virgola). E se dovessimo dire qual è la sua eredità maggiore, potremmo forse indicare un’idea tanto umile quanto nobile di fotografia, che aiuti a capire sé stessi e gli altri, ma anche ad avere una visione non indifferente sul mondo: perché –come Ghirri dichiara nella frase che chiude il volume (tratta da un’intervista del 1991 di Arturo Carlo Quintavalle)– se non si è grado di guardare all’esterno, allora aumenterà inevitabilmente «la possibilità di deturpare qualsiasi luogo senza che nessuno se ne accorga» (p. 340).

 

PIER PAOLO PASOLINI 2. Il tempo del disincanto. L’avvento della società dei consumi

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di Luca Vidotto

2. Il tempo del disincanto. L’avvento della società dei consumi

Dalla prima parte degli anni Sessanta, in Italia iniziò un periodo che venne definito boom economico: tra il 1959 e il 1960, gli speculatori degli altri paesi europei e dell’altra sponda dell’Atlantico iniziarono a investire massivamente sui titoli italiani, poiché avevano un basso costo e un’alta rendita finanziaria, e questo trend venne seguito dagli stessi italiani. L’euforia generale venne rafforzata dall’entrata nel Mercato Europeo Comune (MEC), con la quale si aprirono le frontiere e le dogane al commercio con gli altri paesi appartenenti all’Unione Europea, favorendo l’aumento degli scambi commerciali e delle esportazioni. Aumentò come mai prima nella storia repubblicana il Prodotto Interno Lordo, a cui corrispose un aumento della ricchezza dei cittadini, che determinò un forte incremento della domanda di beni durevoli. L’evento più significativo nell’Italia di quegli anni fu l’industrializzazione, che aumentò di più dell’80% rispetto a una decina di anni prima, e si concentrò nel cosiddetto triangolo industriale del nord, i cui vertici erano Torino, Milano e Genova.
Fu questo il momento che segnò l’avvento del progresso.
Pasolini, però, senza adagiarsi sulla superficie dell’onda di quel mare tumultuoso, ascrisse il fenomeno del miracolo economico non all’Italia e agli italiani, ma alla rivoluzione borghese che in quegli anni stava avvenendo e che era costituita da due aspetti fondamentali: la rivoluzione delle infrastrutture e la rivoluzione del sistema d’informazione. Entrambi causarono un avvicinamento tra le periferie e i centri urbani, da una parte “abolendo ogni distanza materiale”, dall’altra facendo entrare nelle case degli italiani un’unica voce, quella della televisione.

L’industrializzazione fece diminuire il lavoro nelle campagne e in generale nel settore agricolo, distruggendo quel contesto che aveva dato alla luce la cultura particolare del mondo contadino e, parallelamente, abbatteva le distanze con la costruzione di nuove strade, sia a livello locale sia nazionale.

Nelle periferie l’asfalto iniziò a sostituire il fango e la polvere e, tra nord e sud Italia, se crebbe un divario economico ancor più accentuato rispetto al passato, a causa dalla scelta degli investimenti industriali tutti concentrati nel Settentrione, si concretizzarono delle condizioni che rendevano meno complicata l’emigrazione.

L’emigrazione ha rotto come un’alluvione gli argini che chiudevano il popolo dei poveri nelle antiche riserve. Attraverso quegli argini spazzati via, fiumane di giovani poveri sono andati a popolare altri mondi. […] Contemporaneamente anche dal centro si è avuta un’espansione intrattenibile verso i margini: le antiche infrastrutture (il treno, il tranvetto, la bicicletta, il carrettino, la posta) sono state a loro volta spazzate via, sostituite dai mezzi rapidi (la motorizzazione e specialmente la televisione). Lo spirito della classe dominante – distrutte (sia dal di fuori che dal di dentro) le mura che dividevano la città dei ricchi dalla città dei poveri – è dilagato.

Abbattute le mura, vengono a mancare anche quelle fondamenta che permettono a ciò che è diverso di dar vita a un mondo. Inizia cioè a vacillare quell’intraducibilità della cultura che rendeva liberi i suoi appartenenti. Sradicate dalle radici, le culture particolari muoiono, diventano invivibili.
Se la rivoluzione delle infrastrutture ha determinato un tale stravolgimento dal punto di vista materiale, ben peggiore è ciò che opera la televisione. Essa diventa il centro di diramazione dell’euforia edonistica e dei nuovi valori che fatalmente gli italiani saranno costretti a seguire. Nonostante, essendo fondamentalmente una tecnica audio-visiva, utilizzi per esprimersi il linguaggio scritto della realtà, si rivela immorale, infatti “l’unico intervento non naturalistico della televisione è il taglio della censura, fatta in nome della piccola borghesia”, cosicché il video diventa “una fonte perpetua di rappresentazione di esempi di vita e ideologia piccolo-borghese. Cioè di «buoni esempi». Ecco perché la televisione è ripugnante almeno quanto i lager”.
Questo potentissimo mezzo di comunicazione è riuscito ad attuare un’acculturazione che ha permesso di assimilare la moltitudine di aree differenziate geograficamente, economicamente, socialmente e linguisticamente a un unico centro, cioè a quella parte della società che si identifica con il boom economico e che – coscientemente o involontariamente – ha causato una disgregazione di ogni particolarismo e di ogni sua reale concretezza. “I poveri così si sono trovati di colpo senza più la propria cultura, senza più la propria lingua, senza più la propria libertà: in una parola, senza più i propri modelli la cui realizzazione rappresentava la realtà della vita su questa terra”[5]. E, continua Pasolini, il segno lampante che fa emergere una tale condizione di crisi è

l’umiliazione e l’annichilimento del dialetto, che pur restando intatto – statisticamente parlato dallo stesso numero di persone – non è più un modo di essere e un valore. La ghitarra del dialetto perde una corda al giorno. Il dialetto è ancora pieno di denari che però non si possono più spendere, di gioielli che non si possono regalare. […] è come la mammella di una madre a cui tutti hanno succhiato, e ora ci sputano sopra.

E se è vero che permane una certa vitalità e musicalità nel modo in cui viene parlato dalle persone, nella voce e nei tratti del viso che lo esprimono e lo rendono caratteristico, tutto ciò si rivela come una mera sopravvivenza, destinata anch’essa a scomparire. Morte del mondo contadino che non è semplicemente tale, infatti non è semplicemente finita un’era, ma un periodo che sembra ormai addirittura lontanissimo nel tempo, remoto: quel “mondo agricolo, […] il mangiare schietto, […] i tempi lenti dell’esistere, le abitudini ripetute indefinitamente, i rapporti duraturi e assoluti” rappresentavano quel rito della quotidianità che, ora, inizia a disgregarsi e decomporsi “al di là di un limite già lontano”. Il campo è ora occupato dalla società dei consumi, che tutto ha divorato, col suo sviluppo economico che è il frutto della volontà della destra economica, del neo-liberismo, e dunque degli industriali che vogliono una produzione intensa e illimitata di beni superflui. E non ci si è resi conto che beni necessari determinano una vita necessaria, i beni superflui una vita superflua.

Il consumismo consiste infatti in un vero e proprio cataclisma antropologico: e io vivo, esistenzialmente, tale cataclisma che, almeno per ora è pura degradazione: lo vivo nei mei giorni, nelle forme della mia esistenza, nel mio corpo. Poiché la mia vita sociale borghese si esaurisce nel lavoro, la mia vita sociale in genere dipende totalmente da ciò che è la gente.

Magari tutti i cambiamenti che sono avvenuti sono semplicemente il segno dei tempi che mutano e si spostano necessariamente verso un futuro che non può in alcun modo essere negato, e non c’è nessun male nella direzione specifica che essi hanno preso, ma per Pasolini in questo spettacolo si sta consumando un dramma – o una tragedia? Per lui è come essere una madre al tempo della guerra, quando vedeva partire i suoi amati figli, giovani e pieni di vita, per affrontare un’avventura che li avrebbe fatti tornare o rinchiusi in una bara o con gli occhi privi del brillio che avevano al momento di partire, bruttati per sempre dalla crudeltà della morte e dalla distruzione a cui hanno dovuto non solo assistere, ma partecipare

 
[…] con il cuore cosciente

di chi soltanto nella storia ha vita,
potrò mai più con pura passione operare,
se so che la nostra storia è finita?
 

PIER PAOLO PASOLINI 1. Il tempo dell’innocenza. Il Friuli e Roma

PIER PAOLO PASOLINI 2. Il tempo del disincanto. L’avvento della società dei consumi

PIER PAOLO PASOLINI 3. Il tempo della caduta. L’omologazione antropologica degli italiani

“La revoca dell’Editto di Nantes”: note a margine

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di Fabrizio Pasqualini

 

Quando si attraversi una galleria d’arte, capita di avvertire la fagocitante esigenza di soffermarsi con più meticolosa attenzione e più paziente slancio su una delle tante opere che animano le pareti. Si tratta dello scintillare inatteso di una segreta consonanza, che per un istante solo, pur gravido di genuina demenza, armonizza quella melodia che ogni opera ha il potere di intonare in chi l’osserva – e poco importa se vi è chi non le accorda sufficiente orecchio – ed il sacro sussurro di un’intima fonte. Parimenti, quell’opera così arrogante, psicagoga inconsapevole, è per gli occhi del suo monade pubblico come lo sfumare della luce del Mezzogiorno, che trascolora con il declinare dell’astro e ora permette all’iride di guardare la faccia del sole; le figure appiattite dalla luce abbacinante restituiscono se stesse alle proprie volute, sinuose e piene, che ammoniscono la coscienza, troppo facilmente dimentica, di chiudere talvolta gli occhi, se non vuole rischiare di non veder ciò che merita d’essere visto.

L’avvolgente intrecciarsi dei sensi, il sinestetico irradiarsi di un’emozione così sovrana, l’affioramento di una simile aberrazione: nessuna di queste cose è disposta a soggiogarsi a un padrone solo. Al contrario, tutte fremono, si dimenano e scalpitano nella speranza che uno spirito ruggente e una mente composta diano loro sostanza, le traducano in una forma, almeno parzialmente, intellegibile. Si è detto parzialmente, e lo si ripete, perché fin dapprincipio deve essere ben chiaro che ciascuna di queste cose, pur accettando di buon grado una soluzione di compromesso, esige una sua personalissima inscambiabilità. E allora ecco che la loro aggraziata malinconia si scompone in un ridere frenetico ed eccessivo, privo di malizia e fecondo di una semplicità greve, incapace di giustificare a se stessa per quale numinoso portento – o umano rattenimento – non riuscisse prima a esprimersi. Per questo impalpabile flusso emozionale, il passaggio da una nevrosi all’altra – è stato già osservato – si produce solo alla condizione che qualcuno si scopra capace di dargli una forma o un accento, o entrambe. Osservatore acuto e raffinato esegeta di recessi dell’anima altrimenti impenetrabili, Klossowski non si attarda a prendersi carico di un onere così gravoso: sottrarre alla falsificazione dei segni la verità incontestabile dell’uomo; recidere il nesso esiziale, da troppo tempo esistente, che crea la giunzione artificiosa fra linguaggio, nel quale l’uomo si ostina a riflettere e ricercare la propria interiorità, e speculazione sul proprio sé; e ancora e di più: col solo ausilio di una penna discreta, ridurre a una costellazione di frammenti insensati il tempio che l’uomo ha eretto a celebrazione della propria Coscienza, il tempio che l’uomo moderno ha abbellito con simulacri e falsi idoli, in cui non accetta di tacere il brulichio di un pensiero che pretende, borioso, di farsi Discorso.

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Già parole ingegnose sono state pronunciate, già sottili ragionamenti sono stati suggeriti in merito alle accecanti intuizioni di cui Klossowski fu vessillifero. Alla luce di tanta teoria, non rimane che darsi alla contemplazione della lettera del testo, nella consapevolezza che subito al di là della vertigine che essa provoca, si apre una regione di vastità strabiliante: in cui il pensiero rincorre se stesso in una spirale vortiginosa, per rifuggire presto verso lidi più esotici, lambito da acque cristalline nelle quali egli si scopre, di nuovo e sempre, il Medesimo di se stesso, ma non l’identico a sé. È, questo, lo spazio che solo il testo letterario ci ha fatto la grazia di istituire, consentendo a chi vi si inoltra di fare esperienza della malia seducente di questa Letteratura.

Ne La Revoca nessun dettaglio merita di essere trascurato. Klossowski ha partorito un’opera che equivale, per complessità ed articolazione, a un ecosistema autosufficiente, nel quale ciascuna delle componenti, evidentemente, intrattiene con le altre un rapporto di solida reciprocità, senza però doversi esimere dal dichiarare a viva voce la propria autonomia. D’altra parte, a fatica non potrebbe essere così. Questa perla di prosa si esprime nella forma di un diario, con una fondamentale caratteristica che le conferisce quella sua peculiare duttilità anfibia: le pagine di diario che si susseguono, e il cui susseguirsi non è determinato da linearità e coerenza cronologica ma allo stesso tempo ed in parte sì, le pagine che si susseguono sono singole confessioni diaristiche che due individui diversi rivolgono a se stessi, racconti di eventi nei quali si fa sostanza, impalpabile ma cogente, presente nell’assenza, lo spettro di colui al quale ciascuno dei due, moglie e marito, si sottrae – o vorrebbe sottrarsi –  ritirandosi nel proprio diario. Roberta e Ottavio i nomi degli attori della messa in scena cui stiamo guardando, Roberta e Ottavio, di cui non si ha intenzione, per tema di annoiare, di raccontare le vite. Rimane che sono due sposi coloro i quali, ritratti dall’autore, ritraggono se stessi in opere compiute, che si compiono, per meglio dire, alla conclusione della pagina di diario. Perché se l’opera di Klossowski è da intendersi alla stregua di un sistema che dipende, nel dipendere dalle sue componenti, da sé solo, essa non è che una galleria d’arte, in cui ciascuna delle pagine del diario, che è, in realtà, una coppia di diari, assurge al ruolo di essere anche opera d’arte. Tutt’altro che meramente esornativa, ciascuna delle pagine-opere ha ricevuto la grazia di potersi mantenere saldamente in equilibrio sull’orlo del precipizio nel quale, invece, le spire tentacolari di un linguaggio non calibrato avviluppano e costringono alla mercificazione verbale le esperienze irripetibili, inscambiabili di chi non può vantare di essere stato ritratto, come invece i due perversi amanti, da un discorso sapiente che s’inscrive nell’eternità ciclica del pensiero.

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Un preambolo di questo genere era d’obbligo: cercare di comunicare lo spessore emozionale che si leva dalla pagina di Klossowski, data la sua stessa natura, vuole essere l’espressione incipitaria di un’esperienza che non si sottrarrà alla stravaganza di un pensiero e di immagini solo apparentemente risibili.

Il tableaux narrativo, per così dire, che ci invita a insistere su di sé corrisponde alla XIVesima pagina del diario, intenso nel suo complesso – non trascurando che tale numerazione, del tutto assente nell’edizione dell’opera, è di comodo. Rispetto a una così anomala narrazione, che prende forma dal confliggere reiterato ed insistito delle istanze impulsionali dei due sposi, la pagina in questione rientra fra quelle che il lettore sa che dovrebbero appartenere al confessionale di Ottavio, ma che vivono in comunione con quelle della moglie. In essa il nostro teologo fallito, amante degli ospiti al punto da concedere loro la moglie, nello slancio di una più che mai sincera gratitudine, che, nello stesso istante in cui dona, sottrae per sé sola la parte di prelibatezze che non sono d’altri che sue, senza mancare dell’accortezza di sottrarsi, ma solo per lasciare che la sua avidità famelica sia appagata, il nostro teologo fallito, insomma, racconta un episodio accaduto, e tutt’altro che agito, alla moglie. Ella, come per caso, aveva preso l’abitudine di dedicarsi alla propria toeletta in un salone per signore non lontano da uno dei Licei della capitale francese. Non si riduce, questo, a essere un dettaglio di contorno; al contrario, nell’economia della vicenda, godrà di indubbia centralità. Giacché anche il Liceo Condorcet, alla pari di tutti i luoghi percorsi dalla vitalità organica e pulsionale di una comunità vivente, può vantare la presenza di un suo personalissimo genio. Questo in particolare, come per schernire chi si attarda presso i corridoi, le scale e le strade di sua pertinenza, diffonde nell’aria che si respira il sapore pungente di una gioventù sovraeccitata. Il che si propone come una curiosa interferenza, un cortocircuito singolare nella misura in cui esso ha l’abitudine di ricevere l’interdetto della morale vigente, cui sono connaturate un’apparente indicibilità formale e, nell’ordine del pensiero pensante, una sua presunta impossibilità di formulazione. Il nesso, sessualmente connotato, tra efebia ed adultità non troverebbe margine di espressione – e ciò riceve solida conferma dal rigore austero, pubblicamente affettato, da Roberta stessa, da un lato chiamata, in virtù del suo ruolo parlamentare, alla elegante fermezza di Stato, dall’altro convintamente animata – o almeno così come dovrebbe essere – dall’indefettibile principio di opposizione alla corruzione e all’inquinamento dei giovani.

Le giunture di tale impalcatura spirituale sono, nondimeno, manomesse da una più che mai funzionante varietà di note avversative, che riflettono e si riverberano sul tessuto psichico del soggetto in modo compromettente. E allora ecco che la scelta casuale di Roberta di frequentare, fra i tanti, proprio il salone che si situa nelle prossimità del Condorcet non può che colorarsi di una sfumatura di caustica ironia. Dopotutto è lo stesso Ottavio, mentre che si appresta a raccontare i dettagli della vicenda, a renderne partecipe il lettore, senza dimenticarsi, come è bene che sia, di offrire un quadro delle cause, tutt’altro che incerte, che motivino un comportamento così improbabile. Si tratta, sans doute, di un sommovimento viscerale, di un’eccitazione dei lombi che, tuttavia, non trova riscontro nella gente cui non sarebbe, per Roberta, troppo scandaloso rivolgersi; riscontro che non si dà per un fatto preciso: l’eccesso delle occupazioni, una quotidianità affaccendata sino alla saturazione, che involgarisce l’altrimenti spiccata sensibilità di fronte all’informarsi di un sogno, quale è Roberta, così prepotente da scavalcare la dimensione onirica, per immergersi, aleggiando, nei viali della città: ma un sogno è figlio di una mente vagabonda, più incostante del vento e piena di vana fantasia. Inopportuno per chi contribuisce alla crescita indefessamente progressiva di una contemporaneità figlia della fabbricazione ipertrofica. Ne segue che sulla gioventù, per effetto di un’impudica spontaneità della mente, venga a proiettarsi una funzione pregna di volgarità estenuante, e nondimeno richiesta; richiesta, peraltro, dall’imponderabile risultante di pressioni ed insistenze abissali, cui non resta che cedere in uno slancio di alogica volontà.

Ciò di cui sto andando scrivendo – non serve più descriverlo senza nominarlo – è la storia di un’aggressione, perpetrata da una coppia di ginnasiali a danno di Roberta-deputatessa; a favore, per contro, di Roberta-Roberta. Nel farsi dello scritto, si cercherà di rendere conto della dissociazione fra la duplice tipologia di Roberta sopra evocata, giacché essa non si riduce a designare semplicemente una cesura fra la donna nelle sue vesti istituzionali e la donna attraversata da energie ataviche: la precedente dissociazione, piuttosto, è l’esito concettuale dell’ontologia del doppio, da cui la tematica del simulacro, tanto cara a Klossowski, trae la propria natura. Sarà proprio alla luce di tale dispositivo interpretativo che si avrà modo di apprezzare lo spessore tematico della pagina di diario che si invita a osservare. Qualora venga meno l’attenta osservazione di certuni elementi – se non, più radicalmente, qualora non venga attribuito loro l’effettivo potenziale di disvelamento psichico rispetto a una serie di piccoli comportamenti di natura solo apparentemente evenemenziale –, la nostra paginetta non potrebbe che fregiarsi dell’ordinario statuto di spicciola narrativa.

Ebbene: ciò che sbalordisce in questa rievocazione memoriale dell’ordinaria quotidianità di Roberta – che, vedremo, si delinea presto come l’occasione straordinaria di un sorprendente deliquio di sé – è il sottile e prepotente intrecciarsi di una pluralità di topiche del variegato arcipelago intellettuale dell’autore. In prima istanza, non serve ricordare la centralità di cui gode, nelle pagine di Klossowski, la riflessione, ora letteraria, ora spiccatamente filosofica, sul motivo erotico e, in pari misura, su ciò che può inscriversi entro il dominio dell’erotismo. Varrà dunque la pena soffermarsi sulle diverse inclinazioni con le quali s’irradia la voluttà della protagonista e di cui chi scrive non ha remore a fissare la fenomenologia nell’inchiostro con lo stesso grado di accuratezza con cui lo scalpello dell’artigiano sottrae il marmo in eccesso per far emergere l’immobile dinamismo di un’opera scultorea.

Rispetto all’estensione del racconto, la rappresentazione di scene eroticamente connotate occupa una porzione testuale considerevole: terminata l’inquadratura contestuale che colloca l’evento nei luoghi già menzionati, specificata la contingenza che permette ai liceali di tradurre in prassi il coupe de theatre della sostituzione – vale a dire la presenza costante, nei corridoi dei piani del palazzo in cui si trova il salone, di giovani lustrascarpe algerini –, Ottavio dipinge con vivo naturalismo l’evolversi della scena, dall’irrompere dei giovani che si sostituiscono ai garzoni, sino al compimento dell’impresa. Si perdonerà ora l’insistenza sulla coerenza organica dei racconti contenuti nelle singole pagine di diario, sulla già menzionata unitarietà dell’insieme-opera ma sulla sostanziale compiutezza dei singoli racconti se guardati uno a uno. Il ritornare su tale elemento strutturale ha una sua utilità nella misura in cui permette di osservare che la costruzione, e la sua descrizione, della scena si fonda interamente a partire dalla – povera – scenografia offertaci, e offerta agli attori della messinscena. Giacché è a partire da un nudo sgabello, quello sul quale Roberta pone distrattamente la pianta del piede, impegnata più che altro a ritoccare con rossetto la rotondità delle proprie labbra riflesse in uno dei tanti specchi che illuminano il corridoio, è a partire da uno sgabello, si diceva, che Klossowski incomincia a tessere la rappresentazione dell’aggressione. X. ed F. – a queste vuote lettere è ridotta l’identità nominale degli aggressori – afferrano, l’uno, il polpaccio di Roberta, l’altro, la pelliccia che la veste e, in un movimento univoco, l’orlo della gonna. La narrazione prosegue per gradi, benché si debba immaginare che la successione dei gesti proceda a ritmo incalzante, così come, del resto, il progredire dello stato di eccitazione degli agenti e della paziente. Senza che ci si trattenga a ripercorrere la rappresentazione, così magistralmente tratteggiata dalla penna dell’autore, vi si preferisce osservare quanto di più notevole giaccia in questa porzione di racconto. Non sfugge all’occhio del lettore la sapiente disposizione organizzativa dei movimenti minimi che in tale dinamica – è intuitivo – si producono; non sfugge il frapporre qua e là nel testo, in mezzo alle scortesie degli aggressori, la sovranità astuta di una reazione irruenta, ma sorprendentemente contenuta, di Roberta, che affetta di sgravarsi dalle insidie dei due. E non sfugge nemmeno che tale successione di gesti, che questo proliferare di atti, i quali complessificano l’articolazione fisica della scena, si esprimono in una combinatoria continuamente rinnovantesi e che simula, di per se stessa, un più completo – e qui assente – incontro intimo. E allora si osservi cha la simulazione è così ben riuscita da permettere la sovrapposizione – o da permettersi di confonderle – delle due situazioni, quella dell’aggressione e quella dell’unione carnale. Una sostanziale differenza, tuttavia, permane: l’assenza, nella dinamica oggetto di narrazione, dell’espressione di un’erotica genitale, ciò che è, per l’appunto, quanto basta per definire, in linea con la temperatura dell’opera di Klossowski, l’aspetto squisitamente perverso del nostro racconto. Una perversione che di certo s’inscrive entro il dettato psichico dell’individuo, ma che si produce, ancor prima, nel tracciato del testo e che, di qui, si insinua nella forma delle immagini che, su un piano sovratestuale, scaturiscono nella mente del lettore. Giacché la combinatoria che viene a sussistere a partire dalla descrizione della scena non si esime dal poter essere osservata, da chi legge, anche dalla prospettiva immaginale di uno dei vetri riflettenti affissi alle pareti di questa “galleria ornata di specchi”. Ne segue l’inevitabile distorsione della combinatoria stessa, con un proliferare potenzialmente infinito delle congiunzioni dei personaggi. Che rimangono i medesimi ma, nella moltiplicazione delle pose determinata dall’involontario, ma inevitabile, gioco a cui invitano gli specchi, non gli identici. In questo dettaglio sotteso, da desumere solo in seguito alla puntuale lettura del testo, si ha modo di apprezzare un considerevole debito che Klossowski contrae con Sade, di cui è noto l’interesse per l’esplorazione, quasi speleologica, dell’innumerevole possibilità di combinazioni umane, del tutto private del giogo di un qualsivoglia vincolo strutturale.

Combinatoria, simulazione ed epigonismo: questi gli elementi urgenti della prima fase dell’avventura. Sarebbe tuttavia un azzardo credere di potersi limitare a questa fugace notazione. Piuttosto, si deve ammettere che nelle pagine incriminate si nasconde un quid di ulteriore, che arricchisce la già improbabile fenomenologia che si va osservando. Per proseguirne lo sviluppo, è d’obbligo una precisazione. In questa fase dell’azione, Klossowski non rinuncia a menzionare, mediante l’esplicita impudenza della nominazione, le grazie di Roberta, che stanno via via scoprendosi, coinvolte esse stesse nella climax viscerale dei liceali: prima, alla carne nuda dei glutei sporgenti essi ottengono accesso visivo (solo in virtù di una complessa articolazione di movimenti, di uno studiato intreccio dei corpi); a seguire, le fragole – per dirla con Sade – dei seni della donna, emersi imbarazzati dalla blusa recisa, sono presto ghermiti dai palmi vergini di uno degli studenti. Eppure, l’incedere vivace di questa porzione di discorso, lungi dall’essere il cuore pulsante della vis erotica che anima le pagine prese in esame, ne costituisce tutt’al più il contorno esterno, situandosi non altrove che nelle zone d’ombra o, per essere più precisi, presso i margini liminali di quello spazio mentale e, conseguentemente, fisico che si è schiuso solo in seguito all’incursione subitanea dell’emozione voluttuosa. Con ciò s’intende dire che il ritmo ascendente dell’azione, al quale corrisponde l’accentuarsi della verità interiore dei personaggi, si costituisce non tanto – o per lo meno non solo – in virtù del via via maggiore grado di abuso con cui i due giovani riescono a profittare della carne femminile, quanto piuttosto in linea con il progredire della partecipazione alla scena da parte di Roberta.

E difatti, a ben guardare, tutta la prima parte dell’aggressione non ha che una funzione preparatoria. Tutt’altro che degna di sottovalutazione, giacché è solo passando attraverso di essa che il pensiero di Roberta può dare sostanza fantasmatica a ciò che seguirà, essa tuttavia si configura come dato strumentale, come viatico di trapasso a una diversa prospettiva emozionale a partire dalla quale la medesima dinamica viene fatta oggetto di esperienza. La lettera del testo segnala il momento dello scarto in modo piuttosto lampante. Esso si esprime, più o meno, alla stessa altezza o poco dopo il coinvolgimento coatto dei seni di Roberta entro le angherie degli studenti – nel dettaglio, in quelle di uno di loro, F.  Ma ciò che più conta: l’adozione, da parte della protagonista, di un nuovo codice – senza dubbio un codice privo di sostanza segnica –  attraverso il quale poter interpretare quanto accade in modo che ad accogliere l’evento contingente sia un’inclinazione dell’animo ben disposta verso di esso, viene precisamente segnalata; e la marca di tale segnalazione si compie sostanzialmente in un breve giro di righe: non tanto nella descrizione di una scena, quanto mediante la fissazione letteraria dello scintillare di un momento sovrano, il cui reticolo di conseguenze e ripercussioni è di carattere tutt’altro che trascurabile. Nell’evocazione memoriale dell’episodio, entro la minuta ed impeccabile narrazione dei movimenti e delle pose che si intrecciano, si leva imperiosa una domanda, un interrogativo che chiede che ora sia quando Roberta – da adesso in avanti corpo senza organi, macchinalmente animato dal flusso estensivo del desiderio – che ora sia quando Roberta cala la propria mano guantata nelle profondità più intime della propria anatomia. La risposta non può che essere una: è precisamente l’ora in cui ella è attesa alla Camera per decidere una questione relativa al perfezionamento della scuola laica francese. “Ma aveva del tutto smarrito la nozione di tempo e di luogo”. Ebbene, come interpretare questa primo passaggio testuale, questo primo atto di sacrificio, celebrato sugli altari incensati del piacere, dei nobilissimi publica officia? Oltre che mera constatazione dell’irriducibilità delle risorse impulsionali latenti proprie dell’uomo, non si esclude che si possa trattare altresì, e forse in misura maggiore, della manifestazione incipitaria di una sorta di pensiero emozionale, il cui movimento si costituirà, a partire da ora, alla stregua di una bruciante lacerazione. Ne seguirebbe un capovolgimento rocambolesco e vertiginoso delle modalità attraverso le quali si esprime la nostra sommaria adesione agli oggetti del mondo, oggetti che – Roberta ne è la dimostrazione – esercitano su di noi un diritto estremamente discutibile. Ebbene: si rischia di agonizzare nella palude dell’aporia se si pensa allo scarto sopraddetto – scarto nel cui solco s’inscrive una percezione anomala della propria esistenza – secondo i facili termini dell’esito di un’azione espressamente dettata da un fine dato.  Un’alternativa per una più compita interpretazione dell’evento viene a offrirsi allorché ci si sforzi di pensare Roberta non in qualità di agente dell’azione di passaggio, quanto nelle vesti di oggetto, di oggetto colto nelle spire della Negazione: in qualità di oggetto sviato. Ma l’imporsi imperioso della nozione di oggetto amichevolmente conduce alla polverizzazione di quella di soggetto, e lo sgretolarsi di tale nozione-funzione trae con sé, crucialmente, il decomporsi immediato dell’istanza imperativale, cui si rimette e accondiscende, in quanto tale, il soggetto etico – e vedremo come, a partire dal ritrarsi di tale configurazione individuale, Roberta accolga una modalità di esperienza di sé del tutto nuova e diversa.

Ebbene: l’istante che inaugura il tradimento del ruolo di deputatessa è suggellato da un movimento della mano femminile esuberante di spontaneità: quasi uno spasmo muscolare, una contrazione dinanzi a cui non si vede motivazione alcuna che, dall’esterno, possa darne conto del senso e misura dell’efficacia. Giunto a questo punto dell’episodio, il lettore non può non indugiare sulla scena. Ma più sottilmente dell’elettricità pornografica che l’autore, comunque, presta alla scena, a destare la curiosità tesa di chi legge è la caratterizzazione che la mano di Roberta riceve. Essa non è una mano, né è una mano nuda; non è nemmeno una mano esile, e neanche una mano grande di dea. È, piuttosto, una mano guantata. Il suo essere offerta agli occhi del lettore-voyeur come morbidamente accolta nel riparo elastico del cuoio non dovrebbe levare alcun sospetto, né spaventare circa il prodursi di alcuna interferenza. Questo varrebbe se solo non fosse che, al momento presente nella narrazione, mano e dita guantate di Roberta ci danno prova di come, su di esse, l’autore abbia insistito con premura quasi maniacale, e come ad esse chi scrive abbia rivolto molto più che un proposito di fugace designazione. Giacché, alla volta della maldestra dimenticanza dell’appuntamento istituzionale, la mano guantata di Roberta ha già ricevuto non meno di cinque occorrenze e ad essa è dedicata la speciale cauzione che Klossowski, nella forma di nota a piè di pagina, appone nell’esatto istante in cui i ginnasiali assistono all’incedere di Roberta verso le profondità del corridoio, teatro della vicenda: viene freddamente riportato l’entusiasmo dei fanciulli alla vista, che ne accerta la presenza, dei guanti indossati dalla donna, appropriarsi dei quali equivale ad attestato di felice esito dell’impresa.

La curiosa frequenza dell’elemento “mano guantata”, il suo essere marcatamente ricorrente insistono nel presentarsi agli occhi del lettore. Questi scopre, in fine, che la mano della donna viene citata quattordici volte in uno spazio testuale di poche pagine, accorgimento che procede parallelamente alla rilevazione che attesta tale occorrenza lessicale in concomitanza con un istante di esuberante foia femminile: quando ad esempio la mano guantata ricorre per l’ottava volta, le viene recriminato da Roberta, sua padrona, di star impudentemente proteggendo quanto dovrebbe, invece, essere espugnato dagli assalti virili; quando ricorre per la nona volta, quella successiva, della mano guantata si descrive minuziosamente il divaricarsi, l’inarcarsi e il rizzarsi delle singole dita, a seconda di quale lembo della carne paludosa di Roberta esse debbano andare a titillare. Poco oltre, si dice che le dita guantate corrono e scivolano su quelle esili dell’inesperto borghesino, che, per parte loro, si intrattengono a molestare il petto femminile. E più oltre, mentre una delle mani guantate si trova ancora presso la villosa penombra della donna, l’altra vede sottarsi il suo adorato guanto da uno degli assalitori, che ne stravolge la funzione originaria imprimendogli l’utilizzabilità ulteriore di frusticella atta alla vessazione gradita del petto statuario di Roberta. Costei, raccontataci da chi scrive come colta in uno spasmo prolungato che fallisce nel dissimulare la reale gratitudine ch’ella prova verso i due giovani, riceve ora una soluzione aggettivale eloquente: ella ne diventa “Roberta dalla mano denudata”. Una perifrasi di questo genere, impiegata rispettando la coerenza della porzione di scena agita, si fa garante, al cospetto del lettore, della rilevanza di cui gode il guanto che riveste la mano della donna: la sua sottrazione produce un’elaborazione aggettivale nuova e volutamente oppositiva rispetto alle precedenti.

E allora ci si accorge che è precisamente dal momento che inaugura la proliferazione della mano guantata all’interno delle pagine che si apprezza la densità viscosa del reale spessore erotico del racconto. La vera anima delle pagine esaminate si informa tutta nella sostanza di una guanto che attende ai suoi doveri di capo d’abbigliamento: la mano guantata è ciò che scandisce il succedersi dei momenti più nevralgici del racconto, che si fissano nell’inchiostro e assurgono alla funzione contestuale di divenire i punti strategici della drammaturgia in atto; ma la mano guantata è anche ciò attorno a cui si annodano le istanze recondite di vittima e carnefici, tensioni volitive che implodono in un tripudio di acri fragranze e di vagiti sibilanti da cui si fa palpabile il fondo spirituale degli attanti. Che pare sublimarsi nel gioco cromatico dei riflessi madreperlacei delle unghie belle della mano ora denudata. E così, percorrendo la via prensile che ci offrono queste pagine, si arriva a saggiare lo stordimento che si produce in seguito all’inevitabile assunzione di una mano rivestita come funzione creatrice di una così sinestetica gamma di allusioni e suggestioni. E, senza esitazioni, si è condotti al brivido vertiginoso di un cortocircuito psico-somatico, analogo a quello in cui Roberta deve essere incappata, quando si attesta che tale dispositivo retorico non ha che un sapore squisitamente metonimico. E dunque ed in definitiva: l’erotismo di Klossowski è uno stile.

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Ma è doveroso volgersi all’indietro: le vette inarrivabili delle soluzioni stilistiche dell’autore, la vivacità allusiva che vi è implicata, in una con l’impeccabile restituzione del rincorrersi concitato di scene esteticamente elevatissime, tutto ciò ha una propria scaturigine iniziale. L’estensione sistemica e sistematica che è accordata alla topica della mano guantata, con tutto quel che le è correlato, si esprime nella fraseologia più potente solo in seguito alla constatazione di un’esperienza. Essa non potrebbe riguardare altri che Roberta. Poco dopo l’accettazione del proprio fallimento parlamentare, al lettore viene riferito che la donna, già partecipe della palpitazione trepidante dei liceali, avverte la sensazione “di perdere terreno, di svanire, come se l’inesperienza di X., la sua golosità, le avessero suggerito l’idea ch’egli stava facendosi di lei in quel momento e quest’idea le desse il capogiro”. Si intuisce che non si dà alcuna legittimazione che possa giustificare una trascuratezza negligente ai danni di questo passaggio. Esso è piuttosto una scheggia di narrazione che consente di permeare la fenomenologia di cui disponiamo in modo più penetrante. Ma stando così le cose, come interpretare quanto accaduto? Quale collocazione riservargli rispetto all’intima economia degli eventi? Ebbene, nel profilarsi di questa dinamica mentale, Roberta non fa altro che trovare uno spazio di sé, disabitato così come privo della propria frequentazione, in cui le articolazioni unificanti della propria integrità individuale si sciolgono in una poltiglia indistinta, e a partire dal quale ella entra in contatto con una sé che si trova al di là dei confini integrati del proprio essere immanente. Si tratta di uno spazio virtuale che conduce al collimare del pensiero di Roberta con il pensiero altrui, nel quale Roberta si riflette per poi specchiarsi, di nuovo, in Roberta. Ma giungendo a capo di questa reciproca riflessione – Roberta riflessa e Roberta che, dall’altro capo dello specchio, si riflette in sé stessa – si capisce bene quale sia la natura del presente incontro attimale: la donna cessa – sia pure se per un solo istante, visto che da esso tutto ciò che segue dipende – di avvertirsi nella sua omogeneità individuale, per approdare, in fine, alla contemplazione di se medesima, sdoppiata e riprodotta. Rinnovata in icona fugace entro la geografia psichica altrui, Roberta avverte se stessa nei termini di oggetto voluttuoso; un movimento, questo, di emozione e pensiero che, nella normalità cui la donna si è sottratta, un individuo proietta su un altro. Ma qui i due termini dell’operazione perdono la propria distinzione di soggetto agente di contro a un oggetto paziente in favore di una loro perfetta equivalenza: la donna si scolpisce in se stessa nelle forme e nelle funzioni di oggetto estetico. E ricongiungendosi a quella sé che non è che il fantasma che suscita nella mente altrui l’emozione voluttuosa, ella si inebria di sé: percependosi nella dimensione virtuale e fantasmatica del fuori da sé, Roberta diventa simulacro di se stessa, spettro di sessualità di fronte ai suoi stessi occhi.

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Giunti a questo punto, le pagine di commento che si sono ad ora susseguite potrebbero ritenersi concluse. In effetti, lo spettro delle potenzialità allusive disperse nel testo e colte dal nostro occhio si potrebbe ritenere saturato. Nondimeno, proprio in questo frangente si assiste al tradimento delle proprie attese, alla confutazione di quanto elevato al nobile grado di convinzione e al doveroso riconoscimento di un’inquietante presenza ulteriore. Ma la sorprendente malleabilità dell’opera presa in esame, al tatto di chi è affaccendato nella sua opera di abnegazione interpretativa, pare subito suggerire la sensazione che la sorpresa nascosta nelle pagine cui si guarda possa tradursi in strumento di implementazione del significato, letterale e contestuale, dell’avventura di Roberta presso il salone di bellezza. Ma prima una premesse breve: non si è mancato di insistere sulla dialettica di autonomia e interdipendenza che giunge a costituire la cornice dell’opera nella sua interezza. Sarà bene allora che, forti della consapevolezza di un dato di contorno che si manifesta con una simile insistenza ossessionata, si torni a guardare a ciò che vi rientra.

Conclusasi la pagina di diario che Ottavio impiega per ricapitolare quanto ha coinvolto la moglie, prende corpo narrativo una successione di altri piccoli racconti, alternati a considerazioni di sapore esistenziale, che i due non tacciono alla sacralità intima delle proprie confessioni. Ciascuno di essi parrebbe del tutto irrelato rispetto a quanto si profila nelle pagine dedicate allo svezzamento dei ginnasiali e alla conseguente vertigine, con annessa caduta morale, di Roberta. E senza alcun dubbio, è proprio in virtù di questa assenza di compatibilità fra la nostra pagina e quelle che la seguono nell’immediato che impatta come trauma l’attraversare la XXesima pagina di quel diario che è La Revoca. Anch’essa appartiene alle dichiarazioni di Ottavio e, in confronto a tutte le altre pagine-opere che garantiscono a La Revoca la sua linfa, essa è del tutto diversa. Presenta una specificità non casuale e nemmeno anodina di fronte a quello cui ci si è dedicati. La pagina che si va osservando altro non è che la descrizione di un quadro: la paginetta è essa stessa un quadro. Ottavio, uomo di raffinata cultura, procede a raccontarlo senza preavviso, ex abrupto si direbbe, affidando alla parte conclusiva del piccolo racconto le informazioni che pertengono alla genesi dell’opera in sé. Pare più perspicuo, tuttavia, che ad esse si garantisca una veloce notazione. Il quadro descritto porta come titolo La Belle Versaillaise, suo autore è un certo Tonnere. Questi non ha consistenza storica, è un nome che si allinea alla finzionalità dell’opera che Klossowski scrive. Morto semi-sconosciuto, il suo quadro ossessiona la psiche del teologo, ne ottenebra la lucidità e contribuisce a cristallizzarne, nella poikilìa dei colori e delle sfumature, l’esperienza interiore. Che cosa esercita su Ottavio un simile mordente, cosa può dare conto dello stordimento che gli provoca un’analoga oscillazione del cuore? La risposta è presto detta, solo richiede che si guardi a quel che, in ultima istanza, si direbbe un quadro letterario. La Belle Versaillaise pone uno sfondo di lugubre sconcerto: i portici di Rue de Rivoli, ritratti in fedele andamento prospettico, conducono lo sguardo al palazzo delle Tuileries, in fiamme. La funerea vivacità pirotecnica delle fiamme, che ora lambiscono ora stritolano le ampie volte del palazzo, non traccia altro che una continuità con un ben diverso incendio, eppure speculare al primo: nel quadro “tutto tradisce l’ardore di un fuoco più sottile”. Non a caso, l’opera di Tonnere colloca in primo piano tre individui: una dama tra due uomini. Ella ne sta venendo aggredita ed il suo seno, che emerge dal corsetto strappato, riempie l’avida coppa della mano di uno dei Comunardi aggressori. La bella accenna una fuga, la gamba sinistra leggermente flessa, la destra alta, a formare con il ginocchio un angolo retto. Una mano guantata lascia intravvedere una minima porzione di carne, l’altra si articola in una tensione e in un irrigidimento delle dita che lascia trasparire tutto lo spavento dell’istante. Ma il gesto non ha nulla di ridicolo, bensì conferisce alla preda un’aura di provocante seduzione, del tutto affine allo sconvolgimento stupendo dei ratti divini. E sono proprio queste mani, queste dita a vedersi proiettate su di sé un’attenzione insistente da parte di Ottavio che osserva il quadro. In un primo momento, esse denotano, mediante scarto cromatico, la disparità fra le funzioni dei personaggi: il rossore incendiario delle mani di macellaio dell’aggressore fa spiccare il tenue grigio dei guanti di lei. Ma presto esse diventano, come nelle pagine che si situano nel salone di bellezza, quanto di più eloquente sia offerto dalla pittura di Tonnere: le dite piegate contro il palmo, appena visibile da sotto il guanto, non mancano di comunicare “sensazioni vergognose”.

È già chiaro quel che si intende disvelare: il quadro letterario di Tonnere altro non è che una restituzione grafica – ovviamente lo si può intendere nei termini di restituzione grafica solo a patto che si accetti di essere complici di Klossowski e del suo gioco virtuale – di quanto Ottavio raccontava in merito alla moglie. Se a convincersi di tale continuità non bastasse quanto riferito sopra, sarebbe sufficiente considerare le ulteriori tracce che in merito Ottavio distribuisce nel suo soliloquio, quando, dalla descrizione del quadro, egli procede a tracciare lo stato in cui versa in seguito alla sua contemplazione. Ottavio si pronuncia come segue: “Forse Tonnere faceva il mio stesso sogno, ma sottomise i suoi fantasmi al rigore del mestiere. Eccolo allora giustificato, purificato”; e poco oltre: “Ma esito, ipnotizzato da queste tre parole: La Belle Versaillaise… […] da queste tre parole che in me hanno creato più che inciso il loro impalpabile universo”. Senza trascurare poi perentori cenni di commento stilistico dell’opera (“queste mani guantate hanno molta importanza nell’insieme dell’opera”) e speranzose reticenze che suggeriscono l’ambizione di essere stato compreso: “ma comunque avrò attirato l’attenzione dell’intenditore distaccato sul rapporto, qui espresso con maestria, tra le mani e la fattura del volto della donna”.

Se si accetta l’idea di una sussistenza della linearità quasi genetica fra i due racconti, allora si ammetterà che genera confusione l’affermazione che attesta la creazione di un universo interiore a partire da quello che si costituisce nel quadro. Questo precisamente per il fatto che la rassomiglianza fra la dinamica delle Tuileries e quella del salone è così urgente da destare non poco sospetto. E a ben guardare, ciò a cui fa pervenire il ragionamento è un concreto margine di opinabilità rispetto al grado di esistenza degli eventi narrati. Per essere più chiari: ciò che nella narrazione esiste è senza dubbio il quadro di Tonnere, insieme con la fotografia nitida del vacillare, di fronte ad esso, di Ottavio. Ma non si può dire lo stesso dell’episodio di Roberta. Ciò che rispetto ad esso si ha certezza che esista è, piuttosto, la rievocazione memoriale che ne propone Ottavio. Scriveva Foucault: “Ottavio moltiplica per Roberta le occasioni di peccato per farle provare rimorso e costringerla così a riconoscere la legge divina”. Quel che invece pare che qui sia accaduto, più radicalmente, è che Ottavio abbia creato una Roberta peccatrice. Di una Roberta che pecca non c’è traccia alcuna; di una Roberta che è raccontata peccare, al contrario, rimane, senza possibilità che venga meno, un intero racconto. La linea di confine che distingue le due situazioni è sottile ma non invisibile. Invece, la si vede rifulgere quando ci si accorge che l’episodio che si dice accaduto a Roberta assume, grazie all’influenza psicagogica del quadro, statuto di proiezione mentale di Ottavio, che estenua la personale ricerca di occasioni di peccato per Roberta fino al punto di crearne lui stesso.

Sospendere il giudizio sulla reale fattualità dell’episodio del salone, riconoscerlo per ciò che è effettivamente non si riducono ad essere operazioni futili e farneticanti. Questo perché permettono di constatare come l’affaire del salone, lo sdoppiamento di Roberta, la percezione estranea ma inevitabilmente familiare che ella giunge ad avere di se stessa nascano tutte dalla perversione di Ottavio, una perversione che si scopre essere forse consonante a quella di Tonnere, ma senz’altro accentuata da essa. Il racconto del salone trova nel dipinto immaginario di Tonnere la propria matrice, nonché la propria ragion d’essere. Ecco dunque giungere – ed assistere – alla chiusura del cerchio ed alla sua quadratura: Ottavio, fra le tante, contempla, insistendovi senza volontarietà ma come catturatone, l’opera del suo Tonnere. Parimenti, il lettore di Klossowski non si lascia ghermire dall’incedere frettoloso presso la galleria delle sue pagine. Ed Ottavio, con la ricostruzione tendenziosa dell’affaire del salone culminante nell’irrorazione delle posterga della donna da parte della criminosa gioventù, ci offre solida dimostrazione che quella consonanza di cui si parlava all’inizio, quella fra le melodie di cui un’opera è intessuta e il sussurro della propria sorgente interiore, non si risolve che nella contrazione muscolare, in una con l’ebetudine susseguente, di una jouissance spermatica.

Lettera al nobel Giorgio Parisi sull’agricoltura

1

di Giacomo Sartori

Gentile professore, sono un agronomo che si è occupato per qualche decina di anni di suoli, a mezzo tra ricerca e cartografia, e alla luce della mia esperienza vorrei farle presente alcune considerazioni, che spero potranno aiutarla a riflettere sulle specificità dell’agricoltura. E forse a farle nascere la curiosità di documentarsi meglio su questa attività che è intrinsecamente legata alla natura. E magari perfino a ripensare almeno in parte le sue affermazioni e prese di posizione a proposito dell’agricoltura biodinamica.
Un qualsiasi campo coltivato, con qualsiasi tecnica, è un sistema che pur essendo molto più semplice di un ambiente naturale (gli attori sono meno numerosi), è estremamente complesso, ed estremamente variabile nel tempo e nello spazio (anche a distanze molto ravvicinate). Un sistema del quale allo stato attuale sappiamo molto poco. Sappiamo pochissimo in particolare della sostanza organica presente nel terreno, delle sue forme, dei suoi legami con la frazione minerale, del suo modo di degradarsi. Alcune ricerche dell’ultimo decennio mettono in discussione radicalmente i fondamenti che sono stati ritenuti validi per due secoli, senza però dare ancora un convincente quadro complessivo. Quando questo comparto è la chiave della fertilità chimica (perché cede elementi alle piante) e fisica (è fondamentale per mantenere una buona organizzazione spaziale e per trattenere l’acqua). Ed è fondamentale per lo stoccaggio del carbonio (la quantità presente nei suoli a livello planetario è tre volte quella contenuta nella vegetazione), che come sa meglio di me ha un ruolo essenziale negli equilibri che regolano l’effetto serra.

La vita segreta del suolo

In pochi grammi di suolo, lo si dice sempre, ci sono miliardi di microrganismi, di migliaia di specie differenti. Che sono essenziali per il suo funzionamento, a cominciare dal ciclo degli elementi. Certo le tecniche molecolari disponibili da qualche decennio permettono finalmente di mettere in naso in questo ginepraio, ottenendo buone informazioni su alcune funzionalità d’insieme, ma quando mai avremo dei dati dettagliati, che ci permetterebbero di capire perché in un dato sito si ritrova un determinato pool, che lavora in un modo, e qualche metro più in là le cose sono completamente differenti? E che dire dei virus, che sembrano essere fondamentali per la mortalità dei batteri, dei quali conosciamo poco o niente?
E che dire della fauna del suolo? A cominciare dai lombrichi, dei quali il geniale Darwin ha riconosciuto molto presto il ruolo fondamentale (erano considerati nocivi). Sappiamo qualcosina di qualche specie (sono centinaia, ciascuna con la sua ecologia), ma il più delle volte sono informazioni molto parziali ottenute in laboratorio, lontane dalla complessità della realtà, dalla sua estrema variabilità spaziale. Che lombrichi ci sono nei campi italiani, quali rapporti hanno con i vari ambienti, con i vari microambienti e microclimi, con gli interventi dell’uomo? Che impatto hanno le varie tecniche agronomiche sulle varie specie? Nessuno può rispondere.
Mi sono limitato a qualche esempio riguardante il suolo, che conosco meglio. Colleghi che si occupano delle piante, nel complesso molto più studiate, ci direbbero che per esempio degli apparati radicali – che intrattengono fondamentali rapporti simbiotici con i funghi (fino a pochi decenni ignorati, parlando di piante coltivate), i quali a loro volta interagiscono con microrganismi, che a loro volta interagiscono con le frazioni organiche e minerali, e le soluzioni presenti nei pori – si sa poco.

L’agricoltura prima e dopo la nascita della scienza

Resta un problema ancora più grande. Le varie discipline sono dei compartimenti stagni, con scale di osservazione e tecniche diversissime. Diventa maledettamente complicato, lo si fa molto di rado, provare mettere assieme i vari linguaggi e le varie informazioni specialistiche. Un bravo ricercatore che si è occupato per tutta la vita di carabidi, e quindi ha ottenuto un discreto dominio delle specie presenti nel territorio geografico di sua competenza (il che non vuol dire conoscere il comportamento di ognuna), poco sa degli altri coleotteri, e ancora meno degli altri animali. E la maggior parte dei microbiologi non sanno in genere nulla degli organismi superiori, ai quali la microflora è legata, e spesso nemmeno degli ecosistemi che studia. E nulla della frazione minerale.
Certo questo stato delle conoscenze così lacunoso e frammentato rispecchia la scarsità di investimento in campi del sapere non legati a immediate possibilità di guadagno, e senza possibilità di applicazioni tecnologiche. Ma riflette anche la micidiale complessità di qualsiasi ambiente naturale, seppur coltivato (un agrosistema è appunto più semplice di un ecosistema). Qualsiasi modello di coltivazione noi adottiamo, che sia industriale o contadino (la grande maggioranza dell’agricoltura mondiale è contadina), convenzionale, biologico o biodinamico, sottintende questa enorme lacuna di conoscenze riguardo a dove siamo (in termini ecologici) e a quello che provochiamo con le nostre pratiche. In altre parole è un’attività per molti versi empirica. In Italia, restiamo con i piedi per terra, pochissime aziende tengono conto della specificità dei tipi di terreno che coltivano, e sanno tarare i loro interventi alla luce di questi. Sprecando acqua e risorse, contaminando, peggiorando le cose. Anche laddove ci sono buone carte dei suoli. Sembra incredibile, ma è così.
Come lei sa bene, prima dell’apparizione della scienza, e in mancanza di un approccio scientifico, i progressi dell’agricoltura si sono basati, e questo fin dall’inizio, sull’osservazione e sulle evidenze empiriche. Senza conoscere i processi, o vedendone qualche effetto (es. la stanchezza del terreno dei Romani), si adottavano le tecniche che permettevano dei raccolti più abbondanti e di migliore qualità, badando che fossero riproducibili nel tempo. Il buon senso faceva sì che ci sforzasse in genere di evitare, anche proprio grazie a una differente visione della posizione dell’uomo in quella che adesso chiamiamo natura, di innescare forme di degradazione, o di provocare dei danni.

La cosiddetta rivoluzione verde

Dopo la prima guerra mondiale, la disponibilità e l’impiego (su pressioni molto forti dell’industria chimica) di fertilizzanti chimici di sintesi (in particolare azotati), o comunque derivanti dall’industria, e di prodotti fitosanitari, ha focalizzato gradualmente l’attenzione nei paesi avanzati su queste poche sostanze, i cui effetti erano ben visibili e indubitabili. Ignorandone gli effetti negativi, portando via via a dimenticare la complessità dei fattori in gioco, e vedendo il suolo come un substrato inerte e privo di vita.
Fino a tempi recentissimi i campi coltivati sono stati quindi considerati dei sistemi nei quali andavano apportati i tre macroelementi più utilizzati dalle piante (azoto, fosforo e potassio), e le sostanze chimiche che potessero tenere a bada i patogeni e i parassiti delle colture. Facendo completamente astrazione dal funzionamento del suolo, che veniva pesantemente impattato da una concimazione solo chimica e dai pesticidi. Con quella che viene chiamata “rivoluzione verde” questo modello semplificato è stato esportato anche in altre grandi zone del mondo (in particolare dell’Asia e del Sudamerica), mentre in altre non ha attecchito (Africa). Esso ha consentito di incrementare in modo netto le rese a ettaro.
Il risultato di questa impostazione “riduttivista” è un impatto insostenibile sui terreni e sull’ambiente, e una drammatica diminuzione della biodiversità. Non cito alcuna bibliografia, è sufficiente riferirsi ai numerosissimi documenti della FAO, degli organismi di ricerca internazionali e nazionali, dell’Unione Europea. Non è più possibile continuare così, perché le rese attuali non possono essere mantenute nel tempo (in particolare per il tracollo del contenuto di sostanza organica nei terreni, e per l’erosione di questi), e perché i guasti ambientali sono insostenibili. Qualsiasi esperto con una visione ampia, e la maggior parte degli addetti al mestiere, sono d’accordo. Dove le opinioni divergono, anche radicalmente, è sui possibili rimedi, sulle strade da prendere per uscire dalla profondissima crisi che è sotto gli occhi di tutti, e che proprio la scienza analizza in modo sempre più approfondito.
C’è un altro aspetto altrettanto preoccupante. Le rese energetiche di questa agricoltura “tutta chimica”, sono relativamente basse, tenendo in conto tutti i fattori diretti e indiretti (non solo i concimi e i pesticidi, ma anche i macchinari, l’irrigazione, le infrastrutture aziendali). Anche senza considerare la distribuzione e le trasformazioni industriali, energeticamente molto onerose. Il bilancio della frutticoltura e degli allevamenti animali, in particolare, è in genere negativo, o molto negativo: per produrre l’energia contenuta in una data quantità di frutta o di carne, spendiamo una quantità di energia maggiore. Energia che viene dai combustibili fossili, che per un secolo hanno avuto costi bassi. Quindi anche l’agricoltura, che è il comparto che può produrre più energia di quanta ne consumi (le piante utilizzano l’energia solare per sintetizzare, mediante la fotosintesi, sostanza organica), dipende allo stato attuale dai combustibili fossili. Da anni si fanno degli sforzi, ma spesso le tecnologie palliative hanno alti costi energetici nascosti.

Approccio riduttivista e approccio olistico

Nonostante le sue conoscenze a dir poco parziali, l’agricoltura convenzionale o industriale o “produttivista” (non fermiamoci ai nomi, qui il nodo è la scarsa o inesistente attenzione ai danni e all’ambiente) ha saputo ammantarsi della autorevolezza e della nobiltà della scienza, relegando i saperi tradizionali, che stanno tuttora alla base della maggior parte delle agricolture planetarie, nel rango delle conoscenze sorpassate. Perché effettivamente i prodotti chimici impiegati erano il frutto di una intensa ricerca (in origine militare, in molti casi), seppure interessata e avulsa da una prospettiva ambientale, e perché i risultati in termini di rese a ettaro sono stati per un certo periodo spettacolari. E perché le industrie chimiche del settore (sempre più concentrate, sempre più potenti, più determinate e più spregiudicate) avevano tutto l’interesse a promuovere questa immagine di modernità e di progresso.
L’impiego dei sistemi più recenti di geolocalizzazione, di sensori remoti, e dell’ingegneria genetica, per venire al presente, può dare l’idea di un completo e millimetrico controllo di tutti i fattori in gioco, ma nei fatti nasconde in genere una completa ignoranza. Nessuna tecnologia, per perfezionata che sia, può palliare la mancanza di conoscenze di base sul paesaggio, sui suoli e sul loro comparto vivente. E anche i modelli matematici mostrano i loro limiti predittivi, essendo basati su conoscenze molto parziali.
Fin dall’inizio della svolta “chimico-riduttivista” dell’agricoltura, diversi agronomi e diverse correnti di pensiero hanno evidenziato i limiti di un approccio così miope, e hanno sottolineato la necessità di una visione ecologica. Ma in realtà già alla fine dell’Ottocento avevano avuto un discreto impulso negli Stati Uniti approcci olistici che cercavano di combinare scienze naturali e economia, in particolare per lo studio degli uccelli (“economic ornithology”), con il fine di valutarne gli aspetti benefici in agricoltura. L’agricoltura biologica e quella biodinamica, ma anche la permacultura, che sono andate crescendo nell’ultimo cinquantennio, hanno radici in questa ben più antica corrente di riflessione e di sperimentazione agronomica, e si sono diffuse mano a mano che le prove dei danni dell’agricoltura convenzionale erano più gravi e più evidenti.
Molto osteggiate per lungo tempo, e con peripezie diverse nei vari Paesi, sono in realtà un innegabile successo: dimostrano nei fatti che si può coltivare a larga scala con degli impatti più bassi sull’ambiente, senza fare ricorso a sostanze molto tossiche, consumando meno energia, producendo cibi sani, rispettando gli animali. Intendiamoci, per ognuno di questi fattori si possono trovare singoli casi e studi e aspetti che smentiscono la dinamica positiva, la quale resta pur sempre, alla luce dell’insieme delle conoscenze, innegabile. Non lo dice un manipolo di ecologisti, lo dicono i documenti e le strategie dell’Unione Europea, elaborate dagli esperti più titolati delle varie discipline agronomiche e naturalistiche. Non a caso esse costituiscono sempre di più un esempio anche per l’agricoltura tradizionale: sta succedendo proprio in questi mesi per la barbabietola da zucchero, per la quale si cercano delle tecniche per palliare la prossima messa al bando degli insetticidi neonicotinoidi (letali per i pronubi).

I limiti e le prospettive del biologico

Ma certo nessuno ha la soluzione per tutti i problemi, certo l’agricoltura biologica, soprattutto se si intende il marchio commerciale (la stessa dizione indica anche la corrente di pensiero, e le due cose non coincidono), non è esente da limiti e pecche. E certo le sfide future sono enormi, per questo approccio come per qualsiasi altro. I primi a esserne coscienti sono gli stessi protagonisti, come dimostrano i documenti della loro federazione internazionale (IFOAM) e della loro associazione nazionale (IFAB). Diventa però pretestuoso mettere l’accento solo sulle debolezze, sulle problematicità (es. l’utilizzo del rame, sempre citato), e sugli aspetti dove i miglioramenti sono più dubbi, ignorando dei risultati che qualche decennio fa nessuno si sarebbe aspettato. Non per niente un sesto della nostra agricoltura, con un fatturato notevole, e prodotti di pregio, è ora biologica.
Per continuare per questa strada, che per la maggioranza degli esperti è l’unica possibile, è necessario sperimentare e fare ricerca. L’agroecologia è l’approccio scientifico che corrisponde a una visione ecologica, o sistemica. Un nome che ora molti impiegano, quando praticarla richiede, proprio per le difficoltà sopra accennate di mettere assieme discipline molto distanti le une dalle altre, e studi di lunga durata, tempo e mezzi. Una sfida molto impegnativa per la stessa ecologia, con la sua tendenza attuale a allontanarsi dai dati e dalle conoscenze di terreno (su questi aspetti trovo utile Christian Lévêque, L’écologie est-elle encore scientifique?, Editions Quae). Con partecipazione attiva degli addetti ai lavori, perché appunto non ci sono ricette universali, ogni zona, o anche ogni microzona, visto che l’Italia è un Paese di microzone, con le sue peculiarità e consuetudini (si veda per il compendio cartografico tascabile Un’altra Italia, di Massimo Angelini, delle Edizioni Pentagora), ha bisogno di soluzioni mirate.

L’agricoltura biodinamica è davvero agli antipodi della scienza?

Anche l’agricoltura biodinamica, che è una realtà più ridotta, si è dimostrata molto valida. L’agricoltura non si giudica dalla correttezza dell’impianto teorico e ideologico, ma dalle riuscite produttive, qualitative, economiche, ambientali. In mancanza di conoscenze adeguate, resta appunto un’attività per molti versi pragmatica. I riferimenti alla spiritualità, così come i tanto discussi preparati e le influenze lunari, possono inorridire gli spiriti più cartesiani, ma l’insieme delle pratiche colturali “olistiche” adottate (la visione complessiva) funzionano molto bene, e i risultati ci sono, tutti gli addetti del settore lo sanno. Personalmente sono stato molto colpito, in particolare, dagli esiti in vigneti di altissimo pregio su terreni molto poveri di acqua. Non per niente una cinquantina di cattedratici e di ricercatori, che nulla vogliono avere a che fare con i riferimenti ideali, e lo sottolineano, hanno scritto nell’autunno del 2018 una lettera aperta per ribadire l’importanza di analizzare con metodo scientifico le pratiche colturali adottate.Sia in altri paesi europei che in Italia sono in effetti numerose le equipe e i progetti che studiano con rigore tale approccio (veda questo articolo divulgativo:). E chi pratica l’agricoltura biodinamica non si oppone certo alla ricerca scientifica, sarebbe anzi ben contento, nella maggior parte dei casi, di poterne ricevere il contributo (veda questo reportage). Risulta quindi fuori luogo, e crea sconcerto nell’intero settore agricolo, riprendere vecchi stereotipi e preconcetti che non corrispondono allo stato delle cose.
Credo che lei quando accusa di oscurantismo l’agricoltura biodinamica, difenda strenuamente l’attaccamento che ha lei per la scienza, nei rami che lei conosce, e ai quali ha dato importanti contributi. Lei immagina che in agricoltura da un lato ci sia chi si rifà alla scienza, con l’agricoltura convenzionale, e dall’altro chi la rifiuta. In realtà i primi ignorano quasi tutto di quello che la scienza dice (mi lascia chiamarla “stregoneria scientista”?), applicano grossolane ricette con micidiali effetti secondari e che non tengono conto della maggior parte dei fattori e delle specificità locali. E i secondi si arrabattano con soluzioni e tentativi empirici, senza in genere alcuna preclusione per la scienza. In ogni caso non è in gioco l’approccio scientifico che lei conosce e ama, che mira a trovare rigorose spiegazioni, capire i processi, e approntare strumenti di predizione.
Faccia per piacere una cosa, professore, si conceda un’esperienza diretta, vada a visitare un’azienda biodinamica. Si faccia accompagnare da qualcuno della loro associazione, parli con lui, parli soprattutto con i coltivatori. Nel novanta per cento delle probabilità si troverà di fronte delle persone attente e preparate, interessate ai risultati della scienza, desiderose anzi che le pratiche che mettono in atto, e delle quali studiano attentamente i risultati (seppure empiricamente) siano valutate anche dalla scienza. Ci ragioni sopra, si documenti, non ascolti solo una campana, rappresentata in genere da esperti di altri settori (o di discipline più restie a un approccio ecologico). Ne risulterà forse molto sorpreso.

NdA questo testo è stato pubblicato, ringrazio Dario De Marco e il sito, su Dissapore

Le storie, la storia. “Le rovinose” di Concetta D’Angeli

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di Raffaele Donnarumma

Le rovinose (Il ramo e la foglia 2021) inizia con un’ingiunzione alla memoria e procede nella difficoltà di ricostruire il passato, la vita degli altri, la propria. Dopo molti anni, Silvana riceve un messaggio di Clara, di cui era stata amica ai tempi dell’università: «Non mi dimenticare». Lontana da tutti, preda dei propri desideri di autoannullamento, Clara si è consegnata al marito Lorenzo, che proprio Silvana le ha presentato e che ha costeggiato il terrorismo rosso. Silvana, intanto, ha cercato l’affermazione di sé nel lavoro e nella scoperta del proprio lesbismo. Ma le vicende delle due donne, per lungo tempo separate e opposte, torneranno a incontrarsi in una necessità postuma di comprensione e di riconciliazione, quando Silvana sarà ferita dalla scomparsa di Lea, che ha amato, e dai sensi di colpa.

Questo terzo romanzo di Concetta D’Angeli è un libro più insolito di quanto possa sembrare a prima vista. Per struttura, anzitutto. La storia è costruita su una doppia fiducia: quella nel personaggio, visto che tutte le figure, dalle due protagoniste, ai comprimari, alle comparse, sono tridimensionali e plastiche, riescono perfettamente riconoscibili per psicologia, attitudini, traiettoria sociale; e quella nella trama, visto che da un lato D’Angeli cerca una relazione fra le vicende singole e la storia pubblica, dall’altro costruisce la narrazione su eventi forti, senza timore di ricorrere al romanzesco degli eventi inattesi e delle rivelazioni ritardate o all’immaginario melodrammatico, cioè all’estroflessione dei caratteri nelle azioni compiute e nei fatti capitati. Questa solidità da romanzo classico (che forse solo in un certo gusto per il colpo di scena e la precipitazione narrativa può avere un retrogusto di manierismo, ma senza intenzioni citazionistiche o ironiche) ha però il controcanto in una specie di scomposizione della trama operata dalla scrittura: così, la narratrice può cedere la parola a Silvana, drammatizzare il racconto prestandogli la forma del dialogo, inserire pagine di diario e lettere, concedersi il lusso di una «parentesi metanarrativa», concludere con una scrupolosissima Cronologia sui «crimini politici e mafiosi» che si sono consumati nel nostro paese tra il 1976 e il 1988. Il racconto come atto naturale o macchina che va avanti da sola, per il proprio piacere, e insieme la consapevolezza della costruzione e degli artifici del romanzo: in questa doppia articolazione, come in altre cose, D’Angeli ripensa a modo suo Elsa Morante, ed è così ovvio che se ne faccia erede, avendo scritto su di lei bellissimi saggi, che proprio per questo bisognerebbe chiedersi meglio cosa torni e cosa no da Menzogna e sortilegio, dalla Storia o da Aracoeli. Anche nello stile si può registrare una duplicità simile: perché da un lato la scrittura di D’Angeli procede come vorremmo sempre procedesse una scrittura narrativa, senza intralci e con la sua dose giusta di mimetismo, ma dall’altro è – a differenza di troppa romanzerìa di oggi, che per darsi l’aria dell’attualità oscilla tra lo sciatto e lo strambo estemporaneo – calcolata e pesata (un esempio minino: «Era irrequieta, incostante, scontenta», a p. 10: per precisione, asciuttezza e sonorità una frase del genere viene da qualcuno che sa scrivere, perché ha saputo leggere).

Ma Le rovinose è un libro insolito anche per le sue scelte di tema, o meglio per il modo in cui articola i suoi temi. La narrativa italiana (e forse, non solo) non sovrabbonda di storie di amicizia tra donne: può sembrare strano, se si pensa alla quadrilogia di Elena Ferrante; eppure, anche quel successo può dimostrarlo, se almeno in parte si fonda su un’eccezionalità. Men che meno è comune incontrare storie che ospitino vicende lesbiche (non è certo a torto che si parla di lesbian ghosting: tanto rappresentata è l’omosessualità maschile quanto, ancora oggi, quella femminile resta seminascosta). D’Angeli sceglie di dislocare il tema: non è infatti con la deuteragonista Clara che Silvana vive il proprio lesbismo, ma con Lea, che se non è proprio un ‘personaggio positivo’ (quanto è difficile costruirne uno?), poco ci manca; ed è una scelta felice, perché come conserva al tema dell’amicizia una sua autonomia, senza negare l’erotismo o la sublimazione di erotismo che l’amicizia implica, così permette la costruzione di un Bildungsroman pienamente credibile anche per le incertezze identitarie della protagonista. Un problema opposto pone la relazione fra vicende individuali e storia, o se si vuole fra invenzione narrativa e cronaca. Qui, infatti, D’Angeli si è trovata di fronte non a un tema poco frequentato, ma a una moda persino un po’ logora. Soprattutto dagli anni Novanta, il romanzo italiano è stato invaso da un dilagare di trame ispirate al terrorismo rosso e nero – con risultati, a essere sinceri, poco esaltanti. Si sono battute diverse strade. Le rovinose scarta da subito quella di maggior appeal commerciale e, alla fine, più prevedibile: quella cioè del complotto giallo o nero, in cui il narratore ci rivela chi davvero abbia messo la bomba di piazza Fontana o come veramente sia andato il caso Moro. Ma Le rovinose lascia da parte anche lo schema del terrorismo come conflitto generazionale (sebbene Lorenzo abbracci il sogno sanguinario della rivoluzione comunista anche per rivolta contro la famiglia aristocratica, ricca e losca); semmai, si avvicina a un modo che definirei metaforico o sineddochico, che ha avuto una delle realizzazioni più riuscite nell’Odore del sangue di Parise. Tra la violenza politica e una violenza vissuta nella vita privata, e più precisamente nella sessualità, viene istituita un’omologia che non pretende di spiegare davvero nulla (sarebbe, siamo onesti, ridicolo), ma che accosta le due serie mostrando le loro relazioni («Sono lettere degli anni Ottanta, con la violenza allora ci si aveva a che fare tutti, ogni giorno; si respirava nell’aria, ti sfiorava di continuo, se ne parlava come del tempo che fa»; p. 183) e insieme lasciando una zona di incomprensibilità e di stupore. Se infatti il sadismo e la volontà di dominio di Lorenzo hanno un corrispettivo nel suo passato pseudorivoluzionario, il masochismo e il desiderio di annullamento di Clara stanno nella natura del personaggio, non possono essere interpretate con uno storicismo alla buona e per questo riescono narrativamente più efficaci – posto che in tutto il migliore romanzo contemporaneo, dagli inizi del Novecento a oggi, il sesso sta sempre per sé e per altro, è parte per il tutto di una condizione antropologica. La cronaca, la storia e la politica restano così, in senso proprio, lo sfondo delle Rovinose, emergono nelle conversazioni e nelle vicende per frammenti, come un paesaggio intravisto oltre muri e finestre senza aprirsi alla vista tutto intero (la stessa esperienza terroristica di Lorenzo è allusa, senza essere raccontata per esteso): non un romanzo storico, dunque, ma un romanzo che rende ragione del nostro modo prevalente di vivere la storia – da lontano, dai margini, come soggetti trascinati via o che a fatica oppongono resistenza, anziché come attori padroni della scena. Ma proprio con questa scelta di lateralità Concetta D’Angeli individua lo spazio che il romanzo può legittimamente occupare oggi, ciò il suo senso e la sua necessità. Il vero luogo del romanzo è, credo, la vita psichica: non solo la vita individuale, contro l’allucinazione del protagonismo o persino del vittimismo solenne nella grande storia (e anche qui, il rapporto di D’Angeli con Morante è meno lineare del prevedibile), ma il modo idiosincratico, irripetibile anche se tipico in cui dentro ciascuno di noi gli eventi collettivi si rifrangono. E credo pure che in questo punto di vista ci sia un elemento specifico della cultura delle donne (dell’autrice, voglio dire, come dei suoi personaggi femminili): c’è qui la capacità di raccontare la vita di tutti senza l’arroganza predicatoria (e ammettiamolo, tipica di un certo immaginario maschile) di chi deve farci una lezione sulle cose serie, ma con in più la percezione più esatta dello sfalsamento che esiste fra destini singoli e destini generali. La storia non è insomma la risposta alla domanda sul senso delle esistenze, ma quello che pone il problema del loro senso. Se a interessarci non fossero proprio le vicende di Silvana e di Clara, se a scuoterci non fossero le morti accidentali e spaventose di Lea e di Lorenzo, se tutto si risolvesse nella vicenda di “un decennio che ha segnato la storia della repubblica”, come direbbe la retorica giornalistica, il romanzo non avrebbe fatto il suo lavoro e non servirebbe; e invece, Le rovinose, per i destini che racconta e per quello che non può chiudere in una spiegazione, serve.

Comme une étoile tombe dans la nuit. La poesia di Mathilde Vischer in italiano

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A cura di Luciana Cisbani e Natalia Proserpi

Geneviève Asse, “Trace stellaire”, 2001, Huile sur toile

 

Composta da brevi prose poetiche, Comme une étoile tombe dans la nuit di Mathilde Vischer (Samizdat, 2019) tratteggia due storie: quella di una donna che si rivolge al figlio che sta crescendo nel suo grembo e quella di un bambino che in un paese in guerra perde la madre proprio nel momento in cui questa dà alla luce un secondo figlio. Costruendosi attraverso frammenti poetici, le due storie si intersecano in una struttura originale che costituisce uno dei tratti salienti del libro.

Nel primo racconto, la voce di Myriam esprime la paura e le preoccupazioni provate di fronte all’arrivo di un figlio. Attraverso testi meditativi di un marcato lirismo, questa donna forte e decisa, astronoma di professione, dichiara con grande sincerità le angosce e le preoccupazioni di una madre che si scopre inerme di fronte all’evento della vita, dando voce al tempo stesso ai sentimenti che accompagnano la paura: la curiosità, il desiderio della scoperta, lo sconcerto, l’amore. Evolvendo nel corso del libro, questi sentimenti raccontano il momento della gravidanza, trasformando i pensieri intimi e personalissimi dell’io in una riflessione dal valore universale.

A questa parte più meditativa si alterna il racconto – riportato in terza persona – della tragedia vissuta da Jeiran, un bambino che in un paese devastato dai conflitti segue e aiuta la madre nel suo lavoro di ostetrica. Quando, divenuto grande, decide di andare a studiare in Europa per seguire le sue orme e diventare ostetrico, i percorsi dei due personaggi si incrociano e la parte lirica-riflessiva si fonde con quella narrativa.

Alternandosi per tutta la durata del libro, le due vicende dialogano tra loro ponendo al centro della raccolta il contrasto tra vita e morte, forza e fragilità, resistenza e abbandono, felicità e sofferenza. Se attraverso il tema della maternità e della nascita la vita è al centro dei racconti, la morte e il dolore sono a loro volta presenti in entrambe le vicende. Accomunate dalla ricorrenza di medesimi motivi e nuclei tematici, le due sezioni vanno pertanto lette come parti di un’unica riflessione, la quale, se si concentra su questioni ampie e complesse, mira al contempo a problematizzare il nostro presente. Tra un Occidente privo di valori che si costruisce sulle “macerie del senso” e un paese distrutto da una guerra insensata e violenta che lascia dietro di sé macerie concrete, il mondo dipinto dall’autrice si presenta infatti come un mondo vuoto e impoverito.

[Seguono alcuni frammenti della raccolta tradotti da Cisbani e Proserpi; per il testo francese si ringrazia la disponibilità dell’editore. ot]

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Mi rivolgo a te, della cui esistenza ignoro tutto, a te che ignori tutto di qui, persino l’aria che respiriamo (o forse meglio di me sai misurare la pulsazione delle cefeidi?), a te che dei gesti decisi dovranno coprire, custodire. Sussurro, cerco parole che potresti comprendere, un linguaggio che ti dia una chiave per un mondo ferito, in sorda rivolta.

 

Come dirti che ho bisogno di tempo, che qualcosa in me si aggrappa a queste stelle che credo di conoscere, a questi oggetti e parole circoscritti che rivedo ogni mattino. Come dirti che tutto il mio corpo si adopera per accettare quel che è, nel flusso dell’inatteso, dell’insperato, che tutta la mia mente cerca di agire là dove può e non dove vorrebbe. Come dirti che ho paura di tutto quel che non sei, di tutto quel che non so di te, della mia inadeguatezza a riconoscerti. Come dirti che per la prima volta intravedo i contorni della mia stessa morte.

 

Come dirti che nel movimento della vita ti potrai appoggiare anche alla luce tra le foglie del salice, alla sensazione dell’acqua sulla nuca, al canto del merlo, dei libri, dei violoncelli, e a quel che troverai essere tuo, i gesti del lavoro che sosterranno i tuoi mattini, chissà, la vita dello spirito. Come dirti che dovrai diffidare delle paure, senza averne paura. Accettarle. Lavorarle. Come dirti che un solo amore non conosce possesso, intenzioni proiettate, ed è il più difficile. Come dirti di non cercare di stringere l’altro nel tuo sogno, di lasciarlo libero, nell’enigma della sua forza e della sua miseria.

 

Come dirti che la tristezza, quando si effonde nelle note dell’oud e della fisarmonica, diventa profondità dolce che si insinua in una solitudine viva, si apre, si espande, diventa le lacrime di tutta la terra, ricerca la pena di coloro che non possono piangere, che trattengono il fiume del dolore nella sopravvivenza, sospesi dietro la corteccia nera di un tronco che li trattiene. La tristezza, quando si effonde nelle lacrime d’altri, è una profondità dolce che si insinua nella quiete del silenzio divenuta luogo di un segreto.

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Je m’adresse à toi dont j’ignore tout de l’existence, à toi qui ignores tout d’ici jusqu’à l’air que nous respirons (mais peut-être sais-tu mieux que moi mesurer la pulsation des céphéides ?), à toi que des gestes nets devront couvrir, garder. Je marmonne, je cherche des mots que tu pourrais comprendre, un langage qui te donne une clé pour un monde heurté, à la révolte sourde.

 

Comment te dire que j’ai besoin de temps, que quelque chose en moi s’accroche à ces étoiles que je crois connaître, à ces objets et mots circonscrits que je revois chaque matin. Comment te dire que tout mon corps travaille à accepter ce qui est, dans le mouvement de l’inattendu, de l’inespéré, que tout mon esprit cherche à agir là où il peut et non là où il voudrait. Comment te dire que j’ai peur de tout ce que tu n’es pas, de tout ce que j’ignore de toi, de mon insuffisance à te reconnaître. Comment te dire que pour la première fois, je distingue les contours de ma propre mort.

 

Comment te dire que dans la vie qui se meut, tu pourras t’appuyer aussi sur la lumière dans les feuilles du saule, la sensation de l’eau sur ta nuque, le chant du merle, des livres, des violoncelles, et ce que tu trouveras qui t’est propre, les gestes du travail qui soutiendront tes matins peut-être, la vie de ton esprit. Comment te dire qu’il faut se méfier des peurs, sans en avoir peur. Les accepter. Les travailler. Comment te dire qu’un seul amour est sans possession, sans intentions projetées, qui est le plus difficile. Comment te dire de ne pas chercher à prendre l’autre dans ton propre rêve, de le laisser libre, dans l’énigme de sa force et de sa misère.

 

Comment te dire que la tristesse, quand elle s’ouvre dans les notes de l’oud et de l’accordéon, devient une profondeur douce, qu’elle se creuse dans l’intériorité d’une solitude vive, s’ouvre, se répand, devient les larmes de toute la terre, cherche le chagrin de ceux qui ne peuvent pas pleurer, qui retiennent le flot de la douleur dans leur survie, maintenus derrière l’écorce noire d’un tronc qui les garde. La tristesse, quand elle s’ouvre dans les larmes de l’autre, est une profondeur douce, elle se creuse dans la quiétude du silence devenue le lieu d’un secret.

 

PIER PAOLO PASOLINI 1. Il tempo dell’innocenza. Il Friuli e Roma

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Pier Paolo Pasolini con la madre Susanna

di Luca Vidotto

0. Introduzione

Da un amore incondizionato per il mondo contadino friulano a una disperata vitalità nelle borgate romane. Dal riconoscimento di una perdita culturale e fisica di quel mondo, all’imporsi di un abbrutimento psichico e morale, conformista e piccolo-borghese. Da una realtà differenziata e multiforme a un’irrealtà omologata.
Ecco la parabola che vive Pasolini tra le strade italiane, e che lo porterà all’abiura radicale di tutto ciò che ha dato forma a un’intera stagione della propria vita – la più felice. Perché sapeva fin troppo bene che “solo l’amare, solo il conoscere | conta, non l’aver amato, | non l’aver conosciuto”.

Pier Paolo Pasolini a Casarsa

1. Il tempo dell’innocenza. Il Friuli e Roma

Pasolini ebbe una doppia appartenenza: una legata agli ambienti cittadini bolognesi e di altri centri urbani, soprattutto veneti, in cui visse da ragazzo con la famiglia seguendo gli spostamenti del padre, e una totalmente differente nelle campagne casarsesi, a stretto contatto con il mondo contadino. Fu proprio quest’universo povero, molto devoto alla Chiesa cattolica – pur con delle varianti legate alla cultura millenaria fondata sul lavoro della terra, sui campi, che introiettava nelle persone una visione del mondo imbevuta di una sorta di paganesimo, come ad esempio la concezione della vita in base alla ciclicità del tempo, e di un “certo luteranesimo per cui c’era sempre un dio disposto a premiare o a castigare con l’abbondanza o la penuria dei raccolti” – a colpire in profondità il giovane Pasolini, che fin dall’adolescenza sembrava votato a una brillante carriera nel campo della pittura e della letteratura.

Manoscritto di “Poesie a Casarsa”


È questo mondo a ispirare molte delle sue poesie giovanili in dialetto friulano e la maggior parte delle tematiche raffigurate nei suoi dipinti: i paesaggi erano sempre gli stessi, così umili e così espressivi, legati alla quotidianità spesa nei campi, coi suoi rituali e i suoi gesti sempre uguali, nei quali erano incisi i caratteri dell’eternità, dove gli stessi figli erano destinati a reincarnare in tutto e per tutto la vita dei padri e dove certi profumi e certi colori sembravano durare dalla notte dei tempi sempre uguali a se stessi – aspetti della vita che facevano tutt’uno con la coscienza della morte, di cui era intrisa una vita misera e antica, fragile nella sua povertà. L’arcaica bellezza che si rifletteva negli occhi di Pasolini costituisce il corpo delle Poesie a Casarsa, che concentrano il suo amore per una lingua vitale, come vitale è ogni dialetto: il furlano. Erano parole e modi di dire vivaci, non meramente comunicativi, appartenenti a una lingua libera, reinventata di giorno in giorno, perché in fondo vitali erano le persone che la parlavano, soprattutto i ragazzi, la cui espressività si imprimeva nel loro parlare e nel loro agire. E sarà proprio tra questi giovani che prenderà forma la coscienza della propria omosessualità, tenuta sempre viva da una carica erotica e passionale che lo getta nel mondo contadino da diverso. Diverso nel diverso.
Immersi nella lettura di queste poesie, riusciamo anche noi a incontrare David, che si gira e c’intravede.

 
Pognèt tal pos, puòr zòvin,
ti voltis viers di me il to ciaf zintíl
cu’ un ridi pens tai vuj
 
 

E possiamo anche sentire le parole di una giovinetta che vedendoci tornare, stranieri ma fratelli, ogni estate in questo mondo in cui il vivere è sicuro, perché il suo è il luogo della certezza, ci rivolge queste parole:

 
Ti vens cà di nualtris,
ma nualtris si vif,
a si vif quiès e muàrs
coma n’aga ch’a passa
scunussuda enfra i bars
 
 

E ci ricorda che tra questi campi:

 
Il timp a no’l si mòuf:
jot il ridi dai paris,
coma tai rams la ploja,
tai vuj dai so frutíns
 
 

Le poesie sono tutte molto intime, ma di un’intimità che non esclude il lettore. Chiunque abbia avuto la fortuna di aver prestato il proprio sguardo e il proprio corpo alla fatica e alla lentezza della campagna le può rivivere, ne può sentire le vibrazioni, gli odori, i colori.

Le poesie giovanili di Pasolini non vogliono aumentare il bagaglio di conoscenze di chi le legge, ma piuttosto riportarlo nella vita e nelle sue sfumature, rievocandola.

 
Alle volte è dentro di noi qualcosa
(che tu sai bene, perché è la poesia)
qualcosa di buio in cui si fa luminosa

la vita: un pianto interno, una nostalgia
gonfia di asciutte, pure lacrime.
 
 

Questa raccolta di poesie dialettali fu scritta durante il ventennio fascista, quando ogni particolarismo linguistico era scaduto ed evitato, in nome del mito dell’italianità, e con la loro stessa esistenza, che scorre attraverso la memoria delle estati passate in Friuli, fanno emergere lo iato tra la realtà dei vari particolarismi dialettali e la mera formalità di un potere che non è riuscito a imporre la propria volontà omologante. La ritualità di regime imposta agli italiani e costruita su di un modello rigido, nato morto, in quanto monotono e non vitale poiché imposto e non vissuto, si infrange infatti di fronte la pur povera quotidianità delle campagne, capace di emanare, nei suoi gesti, la luce dell’eternità.

Autoritratto 1946
La leggerezza e la musicalità, mai scevre da tinte cupe e funerarie, che si sentono durante la lettura delle Poesie a Casarsa, se per un verso ci costringono a scoprire quei luoghi impregnati di povertà e miseria, dall’altro ci fa comprendere l’atteggiamento che Pasolini aveva nei loro confronti. Gianfranco Contini ha sottolineato che “la qualità che Pasolini possedeva in rara misura era […] non l’umiltà, ma qualcosa di molto più difficile da ritrovarsi: l’amore dell’umile e vorrei dire la competenza in umiltà”. Pasolini, infatti, nonostante la sua primissima infanzia passata in ambienti piccolo-borghesi e il futuro successo, anche economico, che è arrivato in seguito ai romanzi romani e soprattutto al suo lavoro nel cinema, ha conosciuto da molto vicino la povertà, in quanto ha vissuto in prima persona l’indigenza economica.
Casa Colussi bombardata
Nell’autunno del 1944, infatti, si dovette trasferire, a causa degli attacchi e dei rastrellamenti nazisti che distrussero Casarsa, in un piccolo paese vicino, Versuta, dove abitò con la madre in affitto, in un’unica stanza di un vecchio casolare contadino, vivendo ai limiti della sopravvivenza. Prima del trasferimento insegnava ai ragazzi che a causa della guerra non riuscivano a raggiungere le scuole di Udine e, successivamente, con la madre, che di professione faceva l’insegnante, diede vita ad un piccolo istituto nell’unica stanza che avevano a disposizione, cioè quella in cui mangiavano e dormivano quotidianamente, dividendo i ragazzi in base all’età con Susanna: con lei stavano i bambini che avrebbero dovuto frequentare le elementari, con Pier Paolo i ragazzi più grandi. Tutt’altro dall’essere un insegnante la cui voce cadeva autoritaria ex cathedra, applicava metodi di insegnamento attivi, facendo partecipare i suoi alunni e favorendo la rielaborazione personale delle cose studiate, tenendo, per quanto possibile, un rapporto paritario, e introducendo tutti i suoi ragazzi nel mondo della poesia, che in fin dei conti è quello della vita. Ma questa sorta di idillio deformato si frantumerà velocemente. Nel 1949 Pasolini viene denunciato per atti osceni e corruzione di minori e, nel momento stesso della formulazione di tale accusa, la notizia rimbalzò su tutti i giornali locali, decretando lo scandalo: il maestro Pasolini, che passava ore e giornate intere con i ragazzini, militante di spicco della sua sezione del PCI, era ora etichettato come pedofilo e omosessuale. La sezione del PCI di Udine, non considerando l’antagonismo che probabilmente aveva mosso cattolici e fascisti a gridare allo scandalo e a gonfiare la notizia, senza approfondire la questione, quindi limitandosi a un aprioristico perbenismo, decretò la sua espulsione. A ciò si deve aggiungere la drammatica situazione che Pasolini visse tra le mura di casa: il padre, tornato dalla prigionia che aveva dovuto subire in Kenya, malato nella carne, a causa del cattivo vino che aveva iniziato a bere in gran quantità, e nello spirito, a causa del rapporto tra sua moglie e il suo figlio maggiore, così intenso da tagliarlo fuori dall’intimità familiare, si abbandonò, come racconta nella sua biografia Nico Naldini, “a terribili sfuriate senza causa apparente, ossessive, interminabili, anche nel fondo della notte”. Lo scandalo di Pier Paolo fu l’evento che segnò definitivamente l’invivibilità all’interno della casa di Casarsa, in cui la famiglia era tornata a vivere nel 1947, dopo la fine della guerra, e tra la notte e l’alba del 28 gennaio 1950, madre e figlio partirono segretamente per Roma, senza un soldo, a causa dell’amara scoperta che fece Susanna quando, al momento di cambiare in denaro tutti i gioielli che Carlo Alberto le aveva regalato durante il corteggiamento, scoprì che non erano altro che bigiotteria, quanto di più lontano dall’oro e dalle pietre preziose che credeva di possedere.
Roma anni ’50, con un bambino in una borgata

A Roma, la povertà costringe Pasolini e sua madre a vivere, inizialmente, “in una stanza d’affitto in piazza Costaguti, nel cuore del ghetto ebraico. Vicino scorre il Tevere, e lungo i viali alberati che lo fiancheggiano si svolge una vita giovanile allegra e spregiudicata che promette facili conquiste”. Qui stringe un rapporto col poeta Sandro Penna che con “lietezza e armonia” gli offre la “complicità dei reietti”, di coloro i quali vivevano distanti dal centro della città in un ambiente abitato soltanto dai disadattati e dagli esclusi, in cui la vitalità era il risultato di una composizione di sottoproletari romani che convivevano con molti emarginati che arrivavano a Roma in seguito all’emigrazione dai luoghi del Sud più profondo. Emarginazione che Pasolini vedrà, nella sua luce più autentica, spostandosi a vivere in un’abitazione a ponte Mammolo, vicino al carcere di Rebibbia. Ancora una volta, ha un approccio che si pone al di là di ogni apriorismo morale e, con questo presupposto, guarderà alle borgate e alla loro realtà, in cui la vita è totalmente altra rispetto a quella del centro urbano. Qui vi sono agglomerati di casupole, spesso baracche, misere e miserabili, tutte uguali, invischiate nel fango e nella terra polverosa, che sostituisce l’asfalto che si può incontrare percorrendo le vie principali delle città. Paradossalmente, fu grazie alla ristrettezza economica e a questa stupenda e misera città che poté fare esperienza di quella vita ignota in cui era inserito.

 
Povero come un gatto del Colosseo,
vivevo in una borgata tutta calce
e polverone, lontano dalla città

e dalla campagna, stretto ogni giorno
in un autobus rantolante:
e ogni andata, ogni ritorno

era un calvario di sudore e ansie.
[…]

Un’anima in me, che non era solo mia,
una piccola anima in quel mondo sconfinato,
cresceva, nutrita dall’allegria

di chi amava, anche se non riamato.
E tutto si illuminava, a questo amore
Forse ancora di ragazzo, eroicamente,

e però maturato dell’esperienza
che nasceva ai piedi della storia.
Ero al centro del mondo, in quel mondo

[…] Quel borgo nudo al vento,
non romano, non meridionale,
non operaio, era la vita

nella sua luce più attuale:

[…]

Un uomo fioriva.
 
 

Come nelle sue esperienze in Friuli, anche a Roma il perno attorno a cui prende forma la sua opera sono i luoghi abitati dagli ultimi e dai disadattati. Nella borgata vicino a ponte Mammolo “c’è un fiume, l’Aniene, e i ragazzi vi fanno il bagno nudi, violenti e ironici, estroversi ed esibizionistici. Una sorta di rovesciamento del carattere dei ragazzi friulani, timidi e intensi nei loro rapporti d’amicizia; ma Pasolini ha già sostituito questi ultimi, allontanandoli in un alone mitico e nostalgico”.
Ancora una volta è la sua passione che da vita alla tensione conoscitiva.

 
Se mi accade
di amare il mondo non è che per il violento
e ingenuo amore sensuale
[…] Vivo nel non volere
del tramontato dopoguerra: amando
il mondo che odio – nella sua miseria
sprezzante e perso – per un oscuro scandalo
della conoscenza…
[…] è per me religione
la sua allegria, non la millenaria
sua lotta: la sua natura, non la sua
coscienza; è la forza originaria
dell’uomo, che nell’atto s’è perduta,
a darle l’ebbrezza della nostalgia,
una luce poetica.
 
 

È questo il mondo che si trova davanti agli occhi Pasolini ed è qui che vivono i personaggi dei suoi due primi romanzi, Ragazzi di vita e Una vita violenta, e dei primi film che girerà a partire dagli anni Sessanta, Accattone e Mamma Roma, i quali sono tutti un’imperterrita dichiarazione d’amore.
Ma questo, tutt’altro che un periodo di vita idilliaco, si macchierà ben presto di accuse rivolte al poeta soprattutto a causa del marchio infamante della sua omosessualità, accuse che segnarono l’inizio di una serie di processi che darà vita a un unico, lungo processo, durato una vita intera: d’ora in avanti accuseranno ogni sua opera di pornografia o di oscenità o di vilipendio alla religione. Ma scoprirà presto che l’angoscia più struggente sarà quella causata dall’imminente avvento della società del benessere, tutta incentrata sul feroce edonismo dei consumi.

Autoritratto 1947

PIER PAOLO PASOLINI 1. Il tempo dell’innocenza. Il Friuli e Roma

PIER PAOLO PASOLINI 2. Il tempo del disincanto. L’avvento della società dei consumi

PIER PAOLO PASOLINI 3. Il tempo della caduta. L’omologazione antropologica degli italiani

Diamanti nel cielo del denaro

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di Giorgio Mascitelli

La notizia che la vendita di For the Love of God, il teschio tempestato di diamanti opera di Damien Hirst, per 100 milioni di dollari nel 2007, ossia il più costoso affare nella storia del mercato dell’arte, non sia mai avvenuta e sia uno scherzo architettato dallo stesso artista pare non abbia colto di sorpresa alcuni critici ed esperti di quel mercato. I conoscitori infatti sapevano che nel cursus honorum artistico e commerciale di Hirst beffe e raffinati giochi concettuali non sono mai mancati. Io confesso invece di esserci restato di stucco probabilmente perché non conosco i prezzi del mercato e 100 milioni mi suonava più che altro come una cifra tonda e dunque simbolica per indicare un valore altissimo, un po’ come quando la mamma sgrida il bimbo disobbediente con un ‘te l’ho detto un milione di volte’, che non significa che ha contato esattamente le volte in cui ha rivolto la raccomandazione al figlio, ma vuol dire soltanto che lo ha fatto spessissimo. Comunque c’è da dire che se qualcuno mi avesse chiesto chi era il più famoso o il più importante artista contemporaneo avrei indicato senz’altro Hirst per via di questa storia dei 100 milioni ( colpa mia del resto che scambio il valore venale dell’opera con la sua rilevanza artistica e culturale come se non fosse arcinoto che le due cose non coincidono) e immagino che tante altri appartenenti al pubblico medio non scaltrito dell’arte contemporanea avrebbero detto lo stesso.
Certo è che uno a cercare di capire i sottili movimenti dell’arte contemporanea si sente un po’ tonto,  però nella mia tonteria mi sembra di aver capito che, ammettendo questo fatto della mai avvenuta vendita, Hirst abbia tolto alla sua opera l’aura di unicità che la contraddistingueva. Che il denaro abbia reintrodotto un’aura, magari non più sacrale ma feticistica, è sotto gli occhi di tutti: tu puoi riprodurre quante volte vuoi l’immagine del teschio, ma ce n’è uno solo sul quale si era spesa la somma favolosa di 100 milioni. E’ anche un’aura più concettuale, che non abbisogna dell’hic et nunc per essere colta, per esempio io il teschio non l’ho mai visto né dal vivo né riprodotto, eppure era salda nella mia testa l’idea che quest’opera fosse la pietra angolare dell’arte contemporanea. Non c’è dubbio che con le sue dichiarazioni Hirst abbia tolto alla sua opera quest’aura e probabilmente adesso varrà quanto valgono i diamanti che la compongono. Egli, tuttavia, cancellando l’aura della sua opera ha creato una seconda opera, una potente performance che mette in scena, forse un po’ tautologicamente, la perdita di questa seconda aura tramite una semplice parola.
A noi del pubblico medio non scaltrito non resta a questo punto che chiederci qual è il messaggio di questa nuova opera, sì insomma che interpretazione dare e qui il discorso si fa complesso perché non tutte le interpretazioni sono alla nostra portata. Una prima interpretazione è quella che si potrebbe definire neoneodadaista  ossia non una semplice provocazione nei confronti delle ritualità dell’arte, che sono  convenzioni vuote, significanti senza significato, ma una provocazione contro la provocazione: se una merda d’artista ha un certo valore di mercato e ciò è ironico, a maggior ragione dovrà avere un valore incalcolabile il gesto che cancella il valore più alto mai espresso nell’opera d’arte, ma questo valore è inesigibile, il che è molto più ironico. Il neodadaista non crede a nulla salvo che al mercato, magari senza saperlo, ma qui l’opera in questione è la scomparsa stessa dello sterco del demonio d’artista, che non è valutabile né commerciabile, questo vuol dire che il neoneodadaista crede coscientemente nel mercato ma deve rinunciare al suo credo, deve diventare un apostata per potere adempiere all’ultima possibile provocazione.
Un’altra possibilità è l’interpretazione postconcettuale: con questa performance non c’è nemmeno bisogno del manufatto nel quale si deve scorgere il lavoro mentale dell’artista, appunto il gioco ideologico o filosofico che si appoggia sull’oggetto opera. In questa performance l’aspetto mentale è l’unico che esiste e così si realizza l’opera perfetta, l’opera senza supporto materiale, di puro significato, grazie alla quale l’artista postconcettuale va oltre l’ardimento del concettuale che prende o fotografa l’oggetto fatto da altri attribuendogli il significato che ci vede. Questo significato senza significante porta al culmine l’arte, perlomeno per chi crede in un’arte puramente ideale e non sensuale, ma allo stesso tempo l’arte si esaurisce perché non è commerciabile esattamente come non lo è una preghiera pronunciata con fervore a bassa voce in un momento oscuro di una vita.
Un’ulteriore interpretazione possibile è quella che definirò pseudosituazionista: qui la performance produce effetti di miracolo e di spaesamento, giacché questi effetti non nascono direttamente dalla sua osservazione sur place o in qualche riproduzione, ma altrove, alla semplice notizia che essa è avvenuta. Gli effetti infatti li troviamo nel mercato dell’arte dove le altre opere firmate dall’autore dell’opera più costosa del mondo, che poi si è rivelata non esserlo, seguiranno le dinamiche di prezzo prima miracolose e poi spaesanti della performance stessa. Questo però significa che il vero autore dell’opera non è l’autore delle dichiarazioni che costituiscono la performance, l’autore autentico andrà cercato negli effetti strutturali del mercato o, se si preferisce, nella situazione. In questo modo vengono superate le due istituzioni, ossia l’autore e l’oggettualità, che ancorano l’opera alla sua commerciabilità. L’opera allora non vale niente come merce.
Sicuramente è possibile proporre interpretazioni ancora più sottili, non alla portata di chi come appartiene al pubblico medio non scaltrito. Eppure mi sembra che anche le interpretazioni più sofisticate , al pari di quelle grossolane, finirebbero tutte per indicare la stessa verticalizzazione: l’arte deve andare sempre più in alto, portando il suo livello di gioco provocatorio a livelli stratosferici. Ma se l’arte vuole salire sempre di più, se vuole continuare il novecentesco assalto al cielo, deve sapere che oggi il cielo è fatto di denaro e per toccarne il culmine eccelso non bastano i diamanti, deve bucare la soglia del denaro, giungere alla sfera dell’incalcolabile e quindi del gratuito, che poi è come dire la sfera del silenzio nella nostra società, in cui non si parla delle cose che non hanno prezzo. Per realizzare un programma del genere però ci vorrebbe quello che Kafka ha chiamato un artista della fame e probabilmente da solo non basterebbe perché ci vorrebbero anche dei controllori che osservino che non imbrogli. E questi ultimi nel nostro mondo così materiale e sensuale, non si troveranno mai, perlomeno non in misura sufficiente a organizzare un sistema di controlli socialmente accettato, ma perché disperarsene? Senza bisogno di salire al cielo del denaro, all’artista che resta a terra è possibile fare tante mosse, un passo a lato, girare di sbieco o addirittura la mossa del cavallo. Certo per restare a terra occorre l’umiltà di non stare sul promontorio estremo dei secoli, di sentirsi modesta creatura della storia, consapevole di non essere né il primo né l’ultimo.

Opera animale. Appunti sul Teriantropismo e sulla metamorfosi

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di Andrea Cafarella

[Opera animale è un’Isola delle Edizioni Volatili]

L’Età della Asimmetria ricorda l’epoca dell’arte simbolica, perché i materiali hanno guadagnato una nuova «vita». Ma gli esseri umani non possono ignorare ciò che già sanno.
Timothy Morton

Aprendo e chiudendo le porte naturali, puoi essere una gallina?

Comprendendo tutto ciò che ti circonda, puoi fare a meno delle conoscenze?
Lao-tzu

Basta guardare. Guarda l’animale e vedrai il divino automanifestarsi.
James Hillman

Il Teriantropo

Che cos’è il Teriantropismo e chi è il Teriantropo?
Nel tentativo di rispondere a queste domande, bisognerà tornare indietro nel tempo, fino al principio, lì dove i nostri antenati hanno lasciato una traccia del loro pensiero.
Entrare nelle rinomate grotte di Lascaux o di Chauvet significa porsi di fronte a ciò che Georges Bataille ha indicato come «la nascita dell’arte». Il momento in cui Homo ha iniziato a concepire la forma, il simbolo, il mito, l’immagine.

Parlando di arte figurativa in generale, vi sono dei contesti culturali, situati storicamente e geograficamente, analizzando i quali è particolarmente adeguato l’uso del termine «teriomorfismo» (più comune nella lingua italiana), ovvero la rappresentazione di una o più divinità in forma animale.
Basti pensare alla cosmologia egizia, per fare un esempio celebre.

Quando però torniamo all’arte preistorica, tutto cambia.
Guardando i dipinti rupestri più antichi, pur non avendo ancora gli strumenti per comprenderne esattamente il significato, possiamo sicuramente intuire qualcosa. Sentire qualcosa.
Non sappiamo, e forse non sapremo mai se effettivamente sia stato proprio questo il primo atto creativo e artistico di un essere umano – o di un essere in assoluto. Io non credo, onestamente. Tuttavia, non è importante sapere se possiamo parlare della primissima traccia di questo cambiamento. Sappiamo che è una traccia.

Il Teriantropo è un ibrido: uomo e bestia.
Il termine proviene dal greco θηριον (da thēr/thērós) che significa «bestia», «belva», «bestia selvaggia» o «feroce»; e ανθρωπος (ánthrōpos) ovvero «uomo».
Questa parola indicherebbe una compresenza, nella stessa figura, nella stessa immagine, nello stesso corpo, di un essere umano e un altro animale di una specie differente.
Nei dipinti parietali che gli uomini preistorici disegnarono decine di migliaia di anni fa, nelle grotte di mezza Europa – le più studiate al momento – la figura dell’essere umano è praticamente assente, o quasi. Il centro di queste opere d’arte è la bestia: l’altro animale.
In questo senso gli animali raffigurati possono anche essere definiti «teriomorfi», poiché le immagini – la loro forma e la loro posizione – suggeriscono una venerazione di qualche tipo per le figure rappresentate, da parte degli artisti e delle loro comunità. I soggetti centrali, di queste mastodontiche opere tracciate a più mani, non sono certo ibridi uomo|bestia; i protagonisti dei dipinti non hanno quasi mai sembianze umane, e dove queste emergono, i disegni diventano spesso malfatti, appena abbozzati, oppure marginali, o “nascosti” in profondità, come la «scena del pozzo» nella grotta di Lascaux, o «Lo stregone» di Trois-Frères.

Sempre Bataille, uno dei primi ad aver speculato generosamente sui dipinti preistorici di Lascaux, ha suggerito un’interpretazione che trovo molto interessante e sensata, benché priva di scientificità. Questi enormi disegni, lasciati nella profondità delle grotte, rappresenterebbero «il gioco complesso di sentimenti in cui l’umanità andava formandosi». Come se Homo, arrivato a quel punto, stesse esperendo la divisione interna di un rapporto che finisce o che sta per finire; una relazione che si basava sulle somiglianze, col tempo, porterà Homo e il resto dei viventi a una separazione, a causa delle differenze.
Se questo fosse davvero il modo corretto di interpretare i segni e i simboli dell’arte parietale preistorica – le cosmogonie che rappresenta – a distanza di migliaia di anni, apparirebbe evidente che gli uomini preistorici avessero davvero ragione.

Tanti altri hanno azzardato ipotesi alquanto diverse sul significato dell’arte preistorica. Alcune davvero interessanti e “credibili”, scientificamente parlando, più accreditate. Altre molto meno.
André Leroi-Gourhan e Annette Laming-Emperaire, nella seconda metà del Novecento, rivoluzionarono il modo di studiare e interpretare i dipinti rupestri del paleolitico, formulando l’ipotesi – basata sull’analisi di decine di grotte – che gli esseri umani stessero sviluppando, in quelle immagini, un sistema simbolico duale: maschile e femminile che entrano in relazione.

Non è forse questo un atto di separazione?
L’animale – compreso l’umano – non sa di essere diverso dalla pianta o dal fungo, o da un altro animale. (E in effetti: è esattamente così. Siamo un tutt’uno. O meglio: tutto è uno. E non voglio dirlo in termini mistici o sapienziali: gli esseri viventi fanno parte di un complesso ecosistema, formato da tanti più piccoli ecosistemi che s’influenzano vicendevolmente. Se la foresta amazzonica venisse bruciata tutta in un giorno solo, moriremmo tutti. Pochissime specie si potrebbero salvare da un tale disastro. In questo senso, anche molto prosaico, e in ogni altro senso possibile: tutto è uno).

Ecco che nel momento in cui l’animale si rende conto di essere “diverso”, allora succede qualcosa di inaudito: diviene “umano”. Si separa dagli altri animali, la relazione finisce, ci si allontana.
Dal nostro modo di vedere, questa frase andrebbe corretta: l’animale crede di essere diverso, quindi crede di divenire umano e di potersi separare dalla Natura. Per poi sentirsi solo, lontano da tutto.
E invece: l’uomo è sempre e solo un animale.

Da un’altra prospettiva si potrebbe anche dire che il concetto di «animale» non esiste, poiché pensarla così significherebbe ammettere una separazione tra l’animale e il vegetale, per esempio, o tra gli animali, gli oggetti e l’ambiente.
Il senso però è che l’animale non sa di essere animale. O meglio: non concepisce la differenza, la separazione tra sé e tutti gli altri sé, siano essi viventi, animati o inanimati.
Troviamo in natura animali che imitano piante o pietre. E l’animale diviene sé stesso per imitazione. Lo dimostrano, in qualche modo, paradossalmente, anche gli esseri umani. Siamo divenuti umani guardando gli altri animali, somigliando a loro.

L’arte preistorica è forse l’ultimo omaggio alle bestie, dell’essere umano che comincia un percorso di separazione e rimozione?
Si tratta del canto del cigno prima della rottura definitiva, durata migliaia di anni e ancora in corso? Una storia d’amore che termina, che viene spezzata.

Proviamo,  allora, a ipotizzare nel significato dell’arte rupestre la presenza di un messaggio (che evidentemente ha il sapore del rimorso) per i posteri: «guardate agli animali, guardate con le bestie, insieme ai vostri simili. Venerate l’animale che è in voi. Aspirate a divenire animali».

Metamorfosi come prospettiva

Sono diversi gli studiosi che, forse erroneamente, hanno provato ad afferrare il significato delle pitture rupestri del paleolitico attraverso l’analisi delle culture delle popolazioni “primitive”.
Il concetto di ciò che è “primitivo” dovrebbe essere stato del tutto superato, grazie all’essenziale lezione del multiculturalismo e alla rivalutazione totale dell’idea di “progresso” intesa in senso novecentesco. Non ci sarebbe quindi alcun motivo per paragonare le espressioni culturali e artistiche di quei popoli che venivano considerati primitivi a quelle dell’uomo preistorico, non avrebbe senso, da un punto di vista scientifico. Sorprende tuttavia notare le somiglianze tra gli usi e i costumi delle popolazioni che sono rimaste isolate dal contesto delle società occidentali industrializzate e le ipotesi, le intuizioni degli archeologi rispetto al significato dei ritrovamenti preistorici.

Richiamo a questo punto un termine senza tempo che ha attraversato l’intera storia del pensiero: la metamorfosi.

Anche metamorfosi è una parola greca, μεταμόρϕωσις, che significa: mutazione di forma.
Etimologicamente parlando, quindi, il termine in sé non sta a indicare esclusivamente una trasformazione fisica, biologica, estetica o semplicemente razionale. La forma, muta.
Questa definizione apre a una serie di interpretazioni piene di senso. Cosa significa, allora, metamorfosi?

Voglio intendere qui la metamorfosi nel senso che è stato sviluppato, a partire dallo studio delle cosmologie amerindie, da alcuni degli antropologi e delle antropologhe che consideriamo parte del «prospettivismo cosmologico», ovvero: la metamorfosi come cambio di prospettiva o, più precisamente, come una condizione di costante intercambiabilità di tutte le prospettive.
Il punto di vista, in questo ragionamento, non è però un luogo astratto, è situato esattamente nel corpo. La metamorfosi non è quindi un atto rappresentativo, e basta; ma diviene anche fisico, coinvolge ogni aspetto dell’essere. Poiché sono un tutt’uno, la prospettiva e|è il mondo. Soggetto e mondo coincidono nell’istante in cui l’essere è compreso nel mondo, e lo comprende a sua volta, in esso s’immerge e si discioglie.

Non solo questo slittamento di prospettiva ci consente di osservare gli altri animali per ciò che sono davvero: esseri animati, tutt’uno con l’ambiente; non solo ci permette di vedere anche la compresenza degli altri enti del cosmo: vegetali e inanimati; infine, e soprattutto, ci dà l’opportunità di compiere praticamente questa trasformazione, di guardare con gli occhi dell’animale, della bestia selvaggia.

Come è possibile che avvenga questa magia?
Proviamo a esprimere il concetto in termini più semplici, tramite un esempio di Eduardo Viveiros de Castro che credo funzioni molto bene: compiere la metamorfosi sarebbe – in termini esemplificativi – come indossare una muta da sub, che non serve a travestirsi da pesce ma “semplicemente” a nuotare come un pesce. Questo non significa che basta indossare muta, maschera e pinne per divenire pesce, il cambiamento di cui stiamo parlando coinvolge la prospettiva ontologica dell’individuo.
Ancora (bisogna essere precisi): non voglio nemmeno suggerire che l’individuo debba pensare di essere un pesce. Sono sicuro, però, che la maggior parte delle persone che usano fare immersioni o, più comunemente, andare nei boschi o in montagna, capiranno quando dico che compiere la metamorfosi significa sentire il mondo come dalla prospettiva di un animale.

Non basta e non è essenziale il travestimento.
Eppure, una maschera non serve solo a nascondere.
La maschera è la rappresentazione esteriore di una trasformazione che avviene all’interno; o che può avvenire, quantomeno.
La maschera è uno stato dell’anima.

Questo testo non vuole dare una risposta alle molte domande che pone e che il lettore attento, spero, potrà far proliferare dentro e fuori di sé. Piuttosto vuole rimanere nel dubbio. Nella prospettiva del non sapere: come può avvenire questa metamorfosi? Non lo so. Possiamo però raccontare come già avviene ed è avvenuta.
Bisogna fare a questo punto un atto di fede: comprendere le istanze dello sciamano che si trasforma in albero o che si perde nel vento; oppure quella del cacciatore che vede con gli occhi della preda; e ancora del meditante che lascia il corpo per muoversi nello spazio circostante. Può succedere a tutti, nel mondo onirico, di divenire l’Altro. E se provassimo a considerare i sogni come vissuto reale? Non influiscono, gli eventi del sogno, nelle nostre vite e nel nostro modo di attraversare e vedere il mondo?

Sciamanismo trasversale

«Ogni punto di vista è “totale”, e nessun punto di vista ne conosce di equivalente o di simile: lo sciamanesimo orizzontale non è dunque orizzontale, ma trasversale».

(Eduardo Viveiros de Castro)

Compiere lo sforzo di comprendere profondamente la prospettiva dell’Altro significa divenire l’Altro. Lo si può osservare nelle sue più semplici conferme: quando ci «mettiamo nei panni» di chi abbiamo di fronte, del nostro interlocutore, oltre a capire la sua situazione, potrebbe accadere di comprendere delle cose di noi stessi, di cambiare quindi il nostro modo di vederci e di vedere il mondo. Per fare questo c’è bisogno di considerare la prospettiva dell’Altro nella sua perfetta completezza e totalità. Di crederci.

Vediamo quindi come questo meccanismo possa applicarsi anche a dinamiche più complesse. Osservando il comportamento degli elefanti è stato possibile comprenderne i bisogni, e capire, per esempio, il valore sociale complesso che l’elefante dà alla morte dei suoi simili, l’effetto che ha sulla comunità e sulle famiglie; come la morte di un elefante può – attraverso un complicato e invisibile sistema di relazioni e di rapporti di causa ed effetto – generare decine di altre morti. Questo ci ha permesso – eccetto dove la cecità umana non ha consentito comunque di intervenire – di istituire aree protette, di vietare il commercio di avorio e così via.

È senz’altro vero che la metamorfosi coinvolge l’intimità del singolo individuo, ma può avere effetti politici e sociali di enorme portata. Basti pensare all’impatto che stanno avendo certi movimenti basati sull’ascoltare finalmente le voci delle minoranze indigene. Ovvero sul prendere seriamente in considerazione l’opinione e le idee dell’Altro, la diversità come una somiglianza.

In questo senso potremmo intendere lo sciamanesimo trasversale. Lo sciamano è chiunque ma non chiunque è uno sciamano. Per diventarlo, il primo passo potrebbe essere esercitare la propria propensione all’ascolto, in ogni senso possibile: dal meditare nel silenzio qualche minuto al giorno, al prendersi carico della lotta yanomami, come scelta di vita. Oppure vivere nella foresta per anni, o in una piccola casetta, davanti a un lago, alla ricerca dell’essenziale. È un percorso, e come tale va rispettato in ogni sua parte, poiché è sacro, è la vita stessa, la ricerca di Sé, e il sé è nel mondo, è in ogni cosa esistente e inesistente. In ogni momento del percorso è racchiuso l’intero cammino.

Compartecipazione mistica

Guardare gli animali, quegli esseri che restituiscono il nostro sguardo, che guardano con noi e che in sostanza sono anche parte di noi, può dirci qualcosa. Può raccontarci come ciò che giace “oltre” l’umano ci sostenga e ci renda gli esseri che siamo e quelli che potremmo diventare. (Eduardo Kohn)

 

«Ogni animale è uno psicopompo», questa frase di James Hillman è perfetta per il discorso che stiamo portando avanti.
Abbiamo ampliato l’idea di animale, o quantomeno l’idea di cosa sia un animale dal punto di vista dell’animale stesso.
Non c’è separazione tra l’animale – noi – e il resto del mondo.
E allora, per logica: il mondo è uno psicopompo.

Coltivando una propensione alla compartecipazione nell’essere del mondo, è possibile accedere alla propria presenza animale. Perdersi nella compartecipazione ci permette di attuare la metamorfosi. Il cacciatore deve divenire preda per osservare con gli occhi della bestia e così seguirne le tracce. Per farlo deve perdere un po’ di sé, dimenticare di essere il cacciatore.
Così come nel mondo dei sogni, il sognatore che crede, il sognatore consapevole della verità delle sue visioni, può trovare delle suggestioni, nuove prospettive, scoprire qualcosa che prima non sapeva, crescere, divenire animale, scoprire il suo autentico Sé.

Compiere l’opera animale coincide allora, forse, con la costruzione del proprio sé, che avviene per imitazione dell’Altro. La metamorfosi non è niente di più che l’ascolto, il movimento che chiunque potrebbe compiere: nasce da fuori di noi ma agisce all’interno. È una perdizione che porta al cuore delle cose. L’animale non è ‘privo di mondo’ ma ‘perso nel mondo’.
E allora compiere l’opera animale significa perdersi.
Perdere la propria umanità e|è divenire animali.

Immagini di Giuditta Chiaraluce.

Fuori dal respiro del racconto: su Narrazioni, di Sergio Rotino

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di Daniele Barbieri

 

Possiamo pensare al verso come a una versione formalizzata del respiro (quale davvero presumibilmente è stato sin quando la poesia è rimasta una forma musicale, cantata o cantillata): in questa prospettiva i versi brevi hanno un movimento complessivo differente dai versi lunghi. Possono apparire più allegri, ma anche più ansiogeni, e in ogni caso portatori di una dinamica emotiva maggiormente energetica – e magari proprio per questo le forme epiche, di dimensione maggiore, preferiscono mediamente i versi lunghi, per non bruciarsi troppo in fretta.

Ma un verso breve troppo breve arriva a uccidere il respiro, perché il fiato si rompe troppo spesso; e un verso lungo troppo lungo ottiene lo stesso risultato con procedimento opposto, perché il fiato non basta mai, non regge la portata del verso. In ambedue i casi la versificazione stessa produce ansia, e qualunque cosa venga detta dalle parole che la costruiscono sarà pervasa da questa ansia. Così sembra funzionare la poesia di Sergio Rotino, che dopo i versi extralunghi di Loro (Dot.Com Press, 2011) e quelli brevissimi di Cantu maru (Kurumuny, 2017), ritorna ora al verso extralungo con Narrazioni (Seri Editore, 2021).

Loro era in qualche modo ancora un racconto, ispirato ai fatti bolognesi della Uno Bianca, mentre Cantu maru è una dolorosa litania, in un petroso dialetto pugliese, così duro e frammentato da non presentare nessuna somiglianza con quella che normalmente si intende come poesia dialettale. Narrazioni riprende apparentemente l’idea del racconto, ma quasi solo per devastarla, per scioglierla nell’acido.

Le narrazioni a cui fa riferimento il titolo e che emergono dalle parole dell’opera sono narrazioni mediatiche, o mediatizzate, luoghi comuni del senso. Prendi una favola come Hänsel e Gretel, ne stravolgi l’andamento della fabula (perché comunque è così nota che non c’è nessun bisogno di raccontarla in ordine), le accosti richiami esterni, per quanto pertinenti, ne distorci il ritmo sintattico e prosodico, anche attraverso la pratica del verso extralungo: il risultato è qualcosa che certo richiama ancora la narrazione di partenza, ma caricandola di un’angoscia che apparentemente non le apparteneva, un’angoscia che sostituisce quella del testo originario, più che aggiungersi a quella.

È chiaro che in questo procedimento possono anche emergere sentimenti, ma essi sono due volte mediati: in primo luogo attraverso la narrazione di origine, in secondo attraverso lo straniamento che se ne sta adesso producendo. Tutti i sentimenti, e persino l’ironia, sono dunque avvolti da uno strato di angoscia, che è il sentimento dominante, da cui non si esce mai.

Il verso extralungo ne è il motore principale: nella sua dinamica ossessiva, ogni verso conduce la lettura a una sorta di picco di tensione accentuale, intorno alla metà, per poi progressivamente esaurirsi andando verso la fine – mentre un’altra tensione prosegue sino in fondo, con il classico effetto di saturazione che è sempre l’effetto di una dilazione troppo prolungata, qui come alla ricerca dell’aria che non arriva mai, perché manca il tempo per inspirare, quasi in apnea. Il verso extralungo diventa in questo modo una sorta di brodo che amalgama qualsiasi cosa, dove tutti i sapori si mescolano, ma nessuno scompare davvero del tutto, e ciascun sapore sembra continuare a richiedere la propria autonomia, il proprio legittimo sviluppo narrativo, ma senza averne il modo, senza averne il tempo, senza avere aria a sufficienza per farlo.

Così, in questo procedimento possono prendere posto anche frasi fatte e luoghi comuni, perché tutto finisce nel frullatore dell’andamento ansiogeno, che li rende luoghi inessenziali di passaggio. E tutto è qui un luogo inessenziale di passaggio, come se la cultura di massa, moltiplicando gli stimoli, rendesse tutto luogo inessenziale di passaggio, e il verso extralungo dovesse apparire come metafora della extrastimolazione sensoriale cui i media ci sottopongono, rendendo tutto inessenzialmente uguale – ma almeno qui restituito all’angoscia rivelatoria del non poter giudicare, del non potersi permettere gerarchie cognitive affidabili, quali quelle che comunque rimarrebbero attive e rassicuranti nelle narrazioni più tradizionali, Superman e Biancaneve compresi.

Le ripetizioni ossessive, che qua e là appaiono, sono altrettanto inessenziali narrativamente; ma sono al tempo stesso ritmicamente importanti, come se alla fin fine l’effetto musicale straniante fosse davvero l’unica cosa che conta, al di là delle parole specifiche stesse, al di là delle storie cui esse accennano. È insomma questa tensione melodica a caratterizzare il tutto, attraverso la sua sistematica negazione delle forme sia sintattiche che metriche, un po’ come a dire: i contenuti narrativi (le narrazioni) alla fin fine contano ben poco, rispetto all’onda anomala che li stritola e conduce avanti e avanti, senza permettere il respiro sufficientemente regolare che permetterebbe loro di avere un senso. Mentre qui l’unico senso davvero presente è quello dell’onda che non si ferma, che determina i suoi andamenti e strania tutto, e stende ansia e angoscia su tutto.

Non c’è dunque un tema complessivo e i temi locali sono a loro volta occasioni sostituibili: qualunque cosa sottoposta a questo trattamento sortirebbe (quasi) il medesimo effetto. Per questo Superman, Biancaneve, Fahrenheit 451, Hänsel e Gretel, madame Bovary e Lolita sono praticamente intercambiabili, tutti meravigliosi e trapassati, o passati nel trituratore (extra)versale.

Ne resta l’evocazione stupita, insieme con il rimpianto, come nella disperazione di non poterli mai più possedere. Un libro vero e feroce, insomma, profondo e cattivissimo; fatto di passioni narrative che tutti conosciamo, e insieme della coscienza della loro artificiosità mediatica, la quale magari non ne uccide davvero le emozioni, ma – pericolosamente – le utilizza per qualcosa di assai meno vero. Lo straniamento che costruisce Rotino ci mette di fronte a tutta questa ambivalenza, rivelandoci – poiché siamo fatti della stessa materia di cui sono fatti i sogni – ancora qualcosa di noi.

 

La legge sul biologico di nuovo bloccata

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di Cristina Micheloni
Non voglio entrare nella diatriba su scienza e biodinamico e soprattutto non intendo farlo con il metodo delle tifoserie sulla curva sud attualmente in auge, però quanto accaduto questa settimana al Senato merita 2 minuti di ragionamento su quelli che sono gli effetti pratici della decisione presa a larga maggioranza dai nostri senatori.
Avendo votato per la modifica del testo della proposta di legge, ora il testo medesimo deve ritornare alla Camera. Rammento che questa legge è in itinere da 13 anni (si, non dico un numero a caso, sono proprio 13 anni!) e nel frattempo sono successe davvero tante cose:
• il biologico europeo ed italiano è cresciuto nei numeri, nella qualità delle tecniche e nel valore di mercato. Oggi il bio occupa in Italia quasi il 17% della SAU, ovvero più di 2 milioni di ettari, compare nel piatto del 64% degli Italiani ed ha un valore economico di circa 7,5 miliardi;
• è stato varato un nuovo regolamento europeo sull’agricoltura biologico, in realtà in 13 anni ben più d’uno;
• è uscita la strategia europea Farm to Fork, che riconosce al biologico, dati scientifici alla mano, un ruolo fondamentale verso il clima, la protezione della biodiversità, la tutela di suolo, acqua e aria. E’ stato pubblicato pure un piano d’azione per il biologico, che ogni stato membro è chiamato ad applicare;
• il mondo intero, anche quello agricolo più recalcitrante ai cambiamenti, sta riconoscendo l’importanza del suolo, che non è più solo un sostegno fisico alle radici delle piante e il posto dove circolano azoto, fosforo e potassio;
• il valore del suolo e della biodiversità ed il rischio che grava su di loro, così come la necessità ed urgenza di agire a loro tutela sono trasversalmente riconosciuti e spesso mediaticamente abusati.
Ma in Italia ancora non c’è una legge quadro sull’agricoltura biologica, prerequisito necessario per qualunque attività di programmazione, di tutela, di informazione e di sviluppo.
La presenza o meno dell’aggettivo “biodinamico” nel testo della legge è del tutto “ornamentale” perchè l’agricoltura biodinamica è già, per regolamento europeo, inclusa nelle norme del biologico e deve essere certificata sugli stessi parametri.
Quindi, l’ideologia della scienza (non la scienza vera) ha per puntiglio fatto togliere dal testo di legge l’aggettivo “biodinamico” che era del tutto innocuo e nulla cambiava nella concretezza dei fatti, ma gli effetti collaterali sono che la legge intera ora ricomincia il suo iter e da 13 anni vedremo quanto riusciremo ad attendere ancora.
Volendo prenderla con ironia, nel frattempo Rudolph Steiner credo stia ridendo sotto i baffi che non aveva, visto che i prezzi attuali dell’urea tempi gli stanno dando ragione nei fatti. Se invece che fermarci alle coreografiche descrizioni del medoto guardiamo anche qui ai fatti:
• Steiner richiamava il concetto di fertilità del suolo in senso biologico e fisico prima che chimico… e così si pronuncia ora la FAO e l’unione europea nell’iniziativa “missione suolo”;
• i prezzi dei concimi di sintesi sono alle stelle… e Steiner raccomandava di chiudere il ciclo dei nutrienti a livello aziendale o comprensoriale
• sentiva l’esigenza di rivedere il rapporto tra animali allevati, produzioni vegetali, fertilità del suolo e abitudini alimentari…
Insomma molto di più contano i contenuti e quel che si fa davvero rispetto ad un aggettivo, però se ci piace “cavillare” sulle parole e usarle come bandiera… aspettiamo altri 13 anni (a proposito il 13 non portava bene?).
NdR Questo intervento di Cristina Micheloni, agronoma e grande esperta di agricoltura biologica, è apparso sulla pagina fb di “Vita nei Campi” (rubrica di Agricoltura a cura della redazione di Udine della tgr in onda su radio Uno la Domenica alle ore 08.50: https://www.facebook.com/vitaneicampi/?hc_ref=ARQvQM8SwNqvln2HmPn_7LiWS5__KjPPvcuE3jzxp9Ty3w7amcpFnQAcAo6Sa0erLYE&fref=nf&__xts__)

Da “Ghost track”

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[Presentiamo alcuni testi da Ghost Track, il decimo libro della collana “Manufatti poetici” diretta da Paolo Giovanetti, Michele Zaffarano e Antonio Syxty (Biblion-Zacinto 2022).]

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di Marilina Ciaco

Da Timer (da attivare per lo svolgimento del test)

Alla fine del nastro c’è sempre un altro nastro. Il timer sarà attivato appena prima della fine del nastro. Qualche tempo dopo il timer segnerà che il suo tempo è scaduto, ma adesso sa che a ciascun intoppo corrisponde la stessa risposta. Forse. Se davvero così fosse (si ferma, cade, si riavvolge) allora nessuno potrebbe più stupirsi di tutto questo. Quando scrivo «tutto questo» mi riferisco a una stanza scontornata ma compatta, i pezzi di intonaco a vista, una stanza scrostata che nessuno abita e che vorrei tu credessi vera. Vorrei che tu ci credessi. Ricorda che il problema delle vocine è che sono tutte vere. Il dispositivo è stato attivato, avverte un forte senso di sollievo.

*

Quando a qualcuno si dà del neurotipico nessuno dovrebbe offendersi perché «neurotipico» è il presupposto di quasi tutti i complimenti. Sei stato bravo? Probabilmente sei neurotipico. Sei simpatico? È pressoché certo che tu lo sia. Nessuno dovrebbe lasciarsi ingannare dal fatto che il termine sia composto da due parole generalmente poco apprezzate, «neuro» e «tipico», in particolare la seconda, perché magari a qualcuno piace essere neuro-qualcosa (neurochirurgo ad esempio) ma a nessuno piace sentirsi tipico. A tutti piace sentirsi speciali. Se ad esempio mi dicessero «sei neurotipico» io lo prenderei come un complimento, anche se nel frattempo penserei: mi dispiace, ti stai sbagliando, le cose non sono andate proprio così.

*

Da Vite a lunga esposizione

*

è una giornata di sole insolita dato il periodo dell’anno

qualcuno al piano di sopra sta urlando

è possibile udire ai piani sottostanti una bestemmia

sta restituendo a qualcuno un torto antichissimo

una ragazza prenderà la linea rossa della metro

direzione sesto primo maggio

il corso sarà pieno di conversazioni e mosche

un’altra ragazza acquisterà un profumo

prima che le sia stato accreditato lo stipendio

c’è il rischio che tutti i pos possano incepparsi

c’è il rischio che un senzatetto all’angolo di via boscovich raccolga

un importo non prevedibile

che la fila alle casse si blocchi inspiegabilmente

mentre la riproduzione, come tutti gli istinti animali,

continuerà a esistere

*

prevedere un gran finale e neppure fossi

esplosa a Volgograd venticinque morti almeno

ci sono dei momenti nel corso dei protocolli

in cui la memoria si stacca dalla via indicata dal controllo

risponde a una serie di domande del controllo

dicendo che la risposta sarebbe stata «irrilevante»

la vita andrebbe vissuta così, senza cambiarne una lettera

da questa altezza vede solo quello che manca

come essere sfiorati, all’improvviso, dal sospetto

che «il quadro completo» non esista affatto

anche questa volta avrebbe selezionato i dettagli da inquadrare

evitato accuratamente il proprio ingresso all’interno della cornice

sostando oltre i margini del telo, in un altro fuori campo

*

quanto rumore, fuori non c’è nessuno

la leva giusta per disinnescarmi

vorrei cercarla adesso, lei sa dov’è?

io ho undici buchi

il buco giusto per disinnescarmi

è quello che non vedi, lo nasconde sotto il mento

si è rivoltato, adesso non si trova più

non trova più le pupille, la peluria, la saliva

non so cosa mi mancasse di quei tempi

il prato artificiale, no, è la chiave che va tolta

la ruota giusta per disinnescarmi

adesso prendi le tue cose e vai via è meglio che tu lo faccia adesso

vive in centro, colpita in centro, è andata al centro

non so se voglio saperlo forse no

noi abbiamo sprecato molte vite

le vite giuste per disinnescarmi

 

L’assurda evidenza. Un diario filosofico

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Si pubblica di seguito l’introduzione a: L’assurda evidenza. Un diario filosofico, in uscita il 16 febbraio per Tlon.

di Francesco D’Isa

Quando avevo diciassette anni, una grave malattia mi costrinse a una prolungata degenza e al prematuro confronto con la domanda: «Perché si soffre?». Da allora, nonostante la mia completa guarigione, quell’interrogativo ha avuto modo di ripresentarsi spesso. Durante il mio ricovero in ospedale, nella mia stessa stanza c’era una signora sulla settantina, che purtroppo morì in poco più di un mese. Era una donna intelligente, che non aveva potuto permettersi un percorso di studi, ma che per via della sua indole curiosa si perdeva di frequente in letture disordinate e in lunghe conversazioni con chi, a differenza sua, aveva avuto l’opportunità di formarsi sui libri. Quando scoprì che studiavo filosofia iniziò a tempestarmi di domande, a cui rispondevo per lo più con altri interrogativi. Nonostante la differenza d’età stringemmo subito amicizia e a distanza di anni mi rendo conto che fu proprio questo strano sodalizio a declinare la mia domanda al plurale: «Perché soffriamo?».

La donna mi propose una risposta brillante o, per meglio dire, avanzò una nuova e più profonda questione, che posso sintetizzare così: ogni credenza sottintende un giudizio sul mondo. «Non puoi separare una tua convinzione da quel che pensi del resto del mondo» disse, «se credi di avere delle zucchine nel frigo, ad esempio, pensi anche che la tua memoria dica il vero, che le zucchine non possano spostarsi, trasformarsi, scomparire e molto altro ancora» – la più semplice delle opinioni, insomma, porta con sé profonde convinzioni metafisiche. Questo non vale solo per le mie idee ma, in forma estesa, anche per ogni sensazione, percezione, piacere o dolore, perché anch’essi si danno nella forma di un giudizio sul mondo. È facile notare – soprattutto dal letto di un ospedale – come talvolta, per esempio nel caso del dolore, questo giudizio si imponga in automatico. In ogni istante preferisco la mia forma vivente e in salute rispetto a quella come cadavere in putrefazione – ma perché? Questo giudizio mi sembra così ovvio che non è stato facile capire che non era figlio di una mia decisione, ma di una qualche forza che trascende la mia volontà.

Se chiudo gli occhi e osservo i miei stati mentali con animo equanime, come insegnano alcune tecniche meditative che ho imparato anni dopo il ricovero, ogni sensazione allenta la presa, perde un po’ del suo significato e con esso la sua valenza, positiva o negativa che sia – poi mi distraggo e la mente torna ad annodare l’istante a una visione, plasmando un mondo dall’indifferenziato. Poco prima che prenda forma però si intravede un antico limite ereditario, quello di un mondo abitabile, in cui posso sopravvivere e riprodurmi. Non solo la mia forma, ma anche tutto ciò che penso si struttura all’interno di questo vincolo che, più che col “vero”, coincide col “vivo”. In un passo di un libro che trova una felice sintesi nel suo titolo, Al di là del bene e del male,[1] Nietzsche aveva anticipato questa riflessione quando scrisse che

la falsità di un giudizio non è ancora, per noi, un’obiezione contro di esso; è qui che il nostro linguaggio ha forse un suono quanto mai inusitato. La questione è fino a che punto questo giudizio promuova e conservi la vita, conservi la specie e forse addirittura concorra al suo sviluppo; e noi siamo fondamentalmente propensi ad affermare che i giudizi più falsi (ai quali appartengono i giudizi sintetici a priori) sono per noi i più indispensabili, e che senza mantenere in vigore le finzioni logiche, senza una misurazione della realtà alla stregua del mondo, puramente inventato, dell’assoluto, dell’eguale-a-se-stesso, senza una costante falsificazione del mondo mediante il numero, l’uomo non potrebbe vivere – che rinunciare ai giudizi falsi sarebbe un rinunciare alla vita, una negazione della vita.[2]

Immobile all’interno di confini cognitivi che mi definiscono, mi chiedo se posso fidarmi di quel che credo. In un articolo del 1952 Bertrand Russell usò una teiera per mettere in guardia dal pensiero teista. Il filosofo britannico affermava che è possibile immaginare l’esistenza di una teiera di porcellana in orbita tra Marte e la Terra che, proprio in questo momento, si trovi in moto di rivoluzione attorno al Sole. Se si postula che la teiera sia troppo piccola per essere osservata da un qualunque telescopio, l’affermazione di cui sopra risulta impossibile da contraddire. Per Russell il concetto di “Dio” funziona un po’ allo stesso modo. Sebbene però non possa essere certo che la teiera di Russell non gironzoli davvero nello spazio profondo, non ho neanche alcun motivo di ipotizzarne l’esistenza. La presenza di questo libro davanti a noi, in fondo, è altrettanto discutibile (e se in questo momento stessimo sognando?), ma alcuni indizi come il tatto e la vista ci portano a supporre che sia proprio qui. Alcune credenze sono delle necessità psicologiche ed è difficile metterle in dubbio, come ad esempio che tu stia leggendo queste parole o che una martellata su un piede faccia male.

Nel corso dei millenni l’umanità ha creduto a tante cose, alcune delle quali suonano ora poco plausibili (come la Terra piatta o il geocentrismo). Inoltre, per quanto ci siano cose estremamente convincenti, il loro livello di persuasività non mi dice nulla sulla loro effettiva realtà, soprattutto se riscontro in me la presenza di filtri cognitivi. Lo spettro della luce visibile all’essere umano, ad esempio, è un piccolo sottoinsieme delle radiazioni elettromagnetiche, ma ci sono animali e insetti che percepiscono colori che noi non possiamo vedere, come gli ultravioletti o gli infrarossi. Lo stesso vale per quasi tutti i sensi: ci sono colori che non vediamo, suoni che non udiamo, odori che non percepiamo. Grazie allo sviluppo tecnologico e culturale, nei secoli siamo riusciti a individuare l’esistenza di moltissime cose oltre la nostra portata sensoriale: con telescopi e microscopi abbiamo percepito lontane galassie e minuscoli microbi. La contemporaneità ci ha educato alla modestia per quel che riguarda la vastità del micro e macrocosmo, ma nel farlo ci ha portato a credere che quel che sfugge all’occhio non scappa al cervello. Così come l’ultravioletto risplende sui nostri volti inconsapevoli, è possibile che ci siano cose ben più inafferrabili e che la realtà trascenda di molto – anzi infinitamente – quel che la nostra mente reputa possibile. Il celebre rimbrotto shakespeariano di Amleto a Orazio si conferma alla lettera: «Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia». Sognare, non capire.

Sentivo le mie credenze sempre più come una forza imposta, ingiustificata, estranea. Ero pressato verso una meta non mia, come se a guidare ogni gesto fosse una forza che non ho scelto e su cui non ho potere. Dal bere un caffè al chiacchierare con amici, dallo spazzolare una giacca a uscire per una passeggiata, ho sempre avuto l’impressione di non avere un reale controllo su gesti e pensieri. Può sembrare folle, e per molto tempo ho pensato che lo fosse, finché non ho riconosciuto come, di fatto, ogni mia sensazione o pensiero sia qualcosa che accade, non che scelgo. Accade che io pensi a questo e quello, accade che io interpreti uno stimolo come doloroso o piacevole, accade che io voglia fare qualcosa, accade che fugga da altro… ma le leggi che generano questo susseguirsi di eventi mentali, la loro interpretazione e il conseguente giudizio di valore non sono una scelta. Perché una martellata sul piede è un dolore? Quale che sia il motivo non dipende da me, è così e basta. D’altra parte, anche se potessi controllare la mia volontà, secondo quali criteri potrei stabilire che cosa desiderare? Come decido cosa volere, se non ho desideri e avversioni? Ciò che è assolutamente privo di vincoli è libero, ma di conseguenza è anche privo di identità, dunque di volontà.

Eppure è proprio nell’abbandonare la direzione delle mie azioni che ho trovato le mie più strane e profonde gioie. Mi accadeva per caso, in concomitanza a eventi importanti o banali: un bacio alla persona amata come lo spazzar via delle briciole di pane dalla camicia. Lo ha descritto bene Pavese:

Non ti sei chiesto perché un attimo, simile a tanti del passato, debba farti d’un tratto felice, felice come un dio? Tu guardavi l’ulivo, l’ulivo sul viottolo che hai percorso ogni giorno per anni, e viene il giorno che il fastidio ti lascia, e tu carezzi il vecchio tronco con lo sguardo, quasi fosse un amico ritrovato e ti dicesse proprio la sola parola che il tuo cuore attendeva. Altre volte è l’occhiata di un passante qualunque. Altre volte la pioggia che insiste da giorni. O lo strido strepitoso di un uccello. O una nube che diresti di aver già veduto. Per un attimo il tempo si ferma, e la cosa banale te la senti nel cuore come se il prima e il dopo non esistessero piú.[3]

Quel che sento in comune tra questi atti è la consapevolezza che non abbiano scopo – una scoperta sorprendente, considerato che all’assurdità della vita viene spesso attribuita una valenza negativa. Soffrire perché la vita manca di senso, però, è ancora conferirgli un senso, mentre la felice assurdità che vivevo abita un mondo che va al di là delle regole che ci sono imposte, privo di desideri, ambizioni e paure. Com’è questo nulla che trapela dal vivere quotidiano, oltre ogni possibile punto di vista? Ovviamente in nessun modo, o non sarebbe un nulla. E che effetto fa? A tutta prima atterrisce, disgusta, adira o intristisce. Ma lo spettatore insoddisfatto è servo dei desideri, per i quali non c’è nulla di peggio che essere vanificati; se questa lente si frantuma, invece, il paesaggio cambia drasticamente.

Valuto un lutto un male, una malattia un danno, la povertà una disgrazia. È un giudizio quasi automatico, ma ciononostante è basato su determinati criteri – sui quali, in gran parte, non ho alcun potere decisionale. Ma è possibile riscrivere la nostra convinzione più profonda? Posso, come dire, cambiare idea sul dolore? Parlando di Nietzsche, Klossowski scrive che il giorno in cui l’essere umano sarebbe riuscito a comportarsi come i fenomeni privi di intenzione questa nuova creatura manifesterebbe l’integrità dell’esistenza.[4] In un certo senso questa nuova umanità è sempre stata qui, basta saperla cogliere. Tra i koan Zen raccolti da Mumon,[5] ce n’è uno di rara chiarezza (per ammissione dello stesso autore) che recita: «Quando non pensi il bene e quando non pensi il non-bene, che cos’è il tuo vero io?». La realtà al di là di ogni filtro è un’inafferrabile assurdità che terrorizza chiunque non voglia abbandonare il proprio sistema di valori, ma una volta riconosciuto in esso non una libera scelta, ma un’imposizione genealogica, la perdita dell’Io coincide con la liberazione da una schiavitù.

È alla ricerca di tale luminosa follia che ho incontrato gli enigmi e i paradossi di questo libro, che mi hanno portato lentamente verso un’inusuale via di uscita: l’accettazione dell’assurdo. A differenza di quanto suggeriva Camus, infatti, e in linea appunto coi maestri Zen, credo che vivere all’interno dell’assurdo non sia una condanna, ma una liberazione.

In estrema sintesi, quel che penso è questo: che qualcosa esiste è l’unica certezza. La natura di questo qualcosa potrebbe essere al di là di ogni conoscenza corretta – ma anche l’ipotesi precedente potrebbe esserlo, dunque non resta che accantonare il dubbio (§1). Qualunque cosa esista però, è tale solo in relazione a qualcos’altro, che ne stabilisce i limiti e le caratteristiche – in caso contrario sarebbe priva di identità e non sarebbe più “qualcosa” (§2). Ogni relazione implica necessariamente una differenza; quale che sia la relazione tra due elementi, infatti, tra loro vi dev’essere una divergenza, oppure coinciderebbero. La condizione necessaria e sufficiente per essere qualcosa è dunque non essere qualunque altra cosa: necessaria, perché altrimenti una cosa coinciderebbe con un’altra, sufficiente, perché esaurisce tutte le relazioni possibili; se una cosa non è tutte le altre, non può che essere se stessa. Se qualcosa non esiste, però, non può essere diversa da tutto il resto o esisterebbe per via di quanto detto sopra. Di conseguenza è uguale a qualcosa: dunque esiste. È quindi impossibile che qualcosa non esista (§3).

Ancor più in breve, essere esattamente qualcosa equivale a non essere tutte le altre cose, ma questa definizione rende impossibile non esistere, dunque se qualcosa esiste, esiste tutto. Questa idea, soprattutto in forma condensata, è poco più di un gioco di parole – ma quando viene vissuta assume un altro significato, che spero di trasmettere in queste pagine. La fine del mio ricovero fu l’inizio di un percorso che mi ha portato sempre più lontano, spinto dalla feroce gratuità del dolore, della gioia e dell’inesorabile bellezza che si cela al di là di essi. Simone Weil disse che «noi sappiamo per mezzo dell’intelligenza che ciò che l’intelligenza non afferra è più reale di ciò che essa afferra».[6] Raggiungere questo confine è spossante, ma solo da lì ho potuto contemplare il dolore come un paesaggio, per riconoscervi, finalmente, qualcosa di nuovo.

[1] F.W. Nietzsche, Al di là del bene e del male, tr. di F. Masini, Adelphi, Milano 1977.

[2] Ibidem.

[3] C. Pavese, Dialoghi con Leucò, Einaudi, Torino 2020.

[4] P. Klossowski, Nietzsche e il circolo vizioso, tr. di E. Turolla, Adelphi, Milano 1983.

[5] Mumon, La porta senza porta, tr. di A. Motti, Adelphi, Milano 1987.

[6] S. Weil, Quaderni, vol. 2, a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1985, p. 172.

Davide Cortese: rubando all’emporio del gobbo

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Piace la cioccolata

al piccolo demonio

non dividere in sillabe

la parola abominio.

Vuole il gesso nero

per scrivere alla lavagna.

Manda al cimitero

la maestra che si lagna.

Non vuole saperne d’ a, e, i, o, u.

Ama la ricreazione

il piccolo Zebù

 

 

A chi aspramente lo rimprovera

per qualche suo scherzo atroce

“L’ho imparato dagli uomini”

ogni santa volta dice.

 

Quando in petto lo strugge

un arcano bisogno d’amore

va a rubare all’emporio del gobbo

un lecca lecca a forma di cuore.

 

 

Factum loquendi

Strumentario «per vedere il buio pesto»

di Mattia Tarantino

 

A Nicea, nella chiesa dell’Assunzione, è conservato un antico mosaico. Erano gli anni di Procopio e di Agazia: ancora una generazione ed Eraclio sarebbe entrato nel cuore della Persia, tra le alture dell’Iran, preparando il terreno a nomadi e mercanti che da Sud, in poco tempo,  avrebbero pregato sulle rive del Bosforo. Il mosaico ci mostra due angeli. Vestiti da funzionari di corte, mantengono gli stessi stendardi dei soldati romani. Hanno uno sguardo obliquo, come sapessero che per reggere ciò che resta del mondo occorre scrutare le trame da sempre cadute fuori dalla figura. Fuori dalla figurabilità, il rovescio dell’icona – le cose  Là Fuori, quelle che si sottraggono alla dialettica, il neutro che scalcia nelle forze, quanto resta lontano dallo scheletro[1]. Quando facoltà della morte, Fähigkeit des Todes, e facoltà di linguaggio si incontrano, quando il linguaggio e la voce si arrestano perché una Voce ormai maiuscola sorga, essa sarà «anche il punto, in sé dileguante e inafferrabile, in cui si compie l’articolazione originaria delle due facoltà»[2]. Questo punto dileguante e inafferrabile sembra lo spirito, lo spirito come riposo, di Novalis: il punto neutro privo di contraddizione. Ma Novalis deve scontare Schleiermarcher, il punto nella soglia in cui – da cui, forse – siamo rivoltati, e l’aspirazione a dissolversi nella morte di Schlegel, quel poco che è semplicemente di troppo, «la soglia di pericolo in cui è in gioco il rivolgimento»[3]. Occorre qualcos’altro, qualcosa che ci dica del rischio e ci induca alla soglia, qualcosa che ci permetta, rischiando, di indicare la soglia. Per trovarlo, ci esporremo dall’estremo del linguaggio: tuttavia, «non c’è nulla di estremo se non nella dolcezza. […] Pensare, cancellarsi: il disastro della dolcezza»[4]. Parlando, e parlando dolcemente, svanendo, il poeta ci ricorda la nostra mortalità e, insieme, il nostro aver a che fare – fare un che – col linguaggio:

«L’aver-luogo del linguaggio fra il togliersi della voce e l’evento di significato è l’altra Voce, la cui dimensione onto-logica abbiamo visto emergere nel pensiero medievale e che, nella tradizione metafisica, costituisce l’articolazione originaria (l’ ἄρθρον) del linguaggio umano. Ma, in quanto questa Voce […]  ha lo statuto di un non-più (voce) e di un non-ancora (significato), essa costituisce necessariamente una dimensione negativa. Essa è fondamento, ma nel senso che essa è ciò che va a fondo e scompare, perché l’essere e il linguaggio abbiano luogo»[5].

Così, col compito di custodire e, al contempo, esporre das ursprüngliche Wort, di testimoniarla come sempre-già-dileguata, il poeta aprirà la Voce sull’altra voce, quella del padrone, e ci dirà che del suo godimento – del suo discorso – potremo liberarci – e potremo spostarci dall’ombra e dall’eco che produce – volgendo gli occhi da una sagesse ridicule, volontairement  comique, «ce qui fait coincider la sagesse et l’objet du rire» alla sovranità «du sage à la fin de l’histoire» in cui «l’identité de la satisfaction et de l’insatisfaction devient sensible», come Kojève scrive al giovane Bataille[6]. Al poeta – lo scomunicato, il balbuziente, l’insonne che veglia – non resterà che dire, allora: «Scoccano insieme/ la mezzanotte e il mezzogiorno». È la visione di Zebù, il bambino con le ali «da angelo randagio» che inganna il tempo a dadi, tempo di cui è ancora impossibile dire «How […] has ticked a heaven round the stars»[7]. Zebù, satira – satiro – della parodia, che dà fuoco agli angeli perché anneriscano, che «Tira le trecce a Maria, sua madre» giocando alla storia di Cristo tentando – attentando – la soglia, lo strano nesso, tra volontà e immaginario («Vuole un sole che non sia giallo./  Vuole andar piano ma arrivare presto/ accendere la luce per vedere il buio pesto»), è la figura di una ninna-nanna che buca il paradosso: che lo buca – e, per questo, vi si sottrae – proprio perché proviene da quel punto in cui il conflitto fugge dalla forma che gli abbiamo attribuito e fuggendo – slittando – indica un’altra via, qualcosa come un torrente appena sotto la struttura, annuncia una ricreazione, (Non vuole saperne d’a, e, i, o, u./ Ama la ricreazione/ il piccolo Zebù) l’inizio di un’altra Settimana e di un Giudizio ancora dove il linguaggio finisce di iniziare e non inizia – ristabilendo e dissimulando continuamente questa stessa simmetria – mai a finire. Come nella pseudocabala di Zanzotto («dài baranài tananài tatafài,/ sgorlemo i sissi missiemo i sonai»)[8] il linguaggio si fa factum loquendi, mero-fatto che si parli. Zebù, angelo del logos – e del logos stravolto, guarda l’Abgrund e ripete più volte e tentennando, come un rito che non riesce a ricordare, Nir-Garten: può parlare a ancora, e ancora può morire. Come coloro che «Dall’abisso tendono mani/ che già non si vedono più».

Aversa, luglio – agosto ‘21

 

[1] Per le categorie di «Fuori» e «neutro» cfr. Maurice Blanchot, La scrittura del disastro, Milano, Il Saggiatore 2021.

[2] Giorgio Agamben, Quinta giornata, in Il linguaggio e la morte. Un seminario sul luogo della negatività, Torino, Einaudi 1982, p. 62.

[3] Per l’interpretazione dei passi di Schlegel cfr. Maurice Blanchot, La scrittura del disastro, Milano, Il Saggiatore 2021, pp. 15 – 16.

[4] Ibidem, p. 14.

[5] Giorgio Agamben, Quarta giornata, in Il linguaggio e la morte. Un seminario sul luogo della negatività, Torino, Einaudi 1982, pp. 48 – 49.

[6] Ibidem, Excursus 4, pp. 65 – 66.

[7] Dylan Thomas, The force that through the green fuse, in The poems of Dylan Thomas, New York, New Directions 2003, pp. 43 – 44.

[8] Andrea Zanzotto, Recitativo veneziano, in Filò, in In nessuna lingua in nessun luogo. Le poesie in dialetto 1938 – 2009, Macerata, Quodlibet 2019, pp. 64 – 65.

L’oscenità dell’intimismo

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Cristina Vezzaro intervista Sophie Daull

CV Dopo trent’anni come attrice di teatro hai pubblicato tre romanzi nel giro di pochi anni e ce n’è un quarto in arrivo. Come nasce la Sophie Daull romanziera?

SD È vero, la Sophie romanziera è nata a 50 anni, ma ha avuto una gestazione molto lunga.
Se vogliamo filare la metafora della nascita: la mia matrice sono le parole; la placenta, la sintassi; il mio cordone ombelicale la mia lingua, il francese, che sin dai tempi della scuola è il posto al mondo in cui mi trovo meglio. E non è un’immagine, per me la lingua è proprio un luogo: asilo, rifugio, chiesa. Ed è in questo luogo che trovo consolazione, speranza, è qui che accadono le lotte, la conoscenza. Il testo letterario e la poesia sono sempre stati per me come due gambe in più per procedere nella vita.
Già a scuola era così. Poi c’è stato il teatro, il palcoscenico, capitolo essenziale nella costruzione del mio rapporto con il mondo. Shakespeare, Ibsen, Čechov, le tragedie greche, i classici francesi: i grandi autori sono una fonte infinita di sapere, di Storia, di poesia. È stata la mia università, dato che non ho fatto studi al di fuori della mia pratica teatrale.
La scrittura però mi accompagna da sempre, già a 9 anni tenevo un diario (un bell’esercizio); ci sono poi poesie da adolescente e c’è una prima opera di qualche anno fa rifiutata dalle case editrici.
Ma come sai, l’elemento scatenante per affrontare davvero la scrittura, superare lo scoglio, è stata la morte di mia figlia, a seguito della quale sono riuscita a produrre un testo che avesse la forza e la bellezza per accompagnare al di là quella giovane vita falciata in modo tanto ingiusto.
Scrivere è anche un’attività fisica, dietro ogni scrittore c’è una specie di atleta, per via del fiato, del respiro, dell’equilibrio. In questo senso la scrittura si avvicina al palcoscenico, è in qualche modo una performance. Il mio essere intero si potenzia e si consolida a contatto con le parole, con la poesia.

CV Nei tuoi libri tratti temi molto personali: la morte di tua figlia, lo stupro e l’assassinio di tua madre. Che cos’è, per te, quella che hai definito “l’oscenità dell’intimismo”?

SD Non ricordavo di aver dato questa definizione! Sì, l’oscenità dell’intimismo… È una nozione da superare. Morti precoci, stupro, assassinio. Tutti eventi che mi hanno toccata da vicino, in diversi momenti della mia vita. È forse per questo che mi risulta difficile comporre fiction pura. Gli abissi in cui sono piombata, le perdite che ho subìto, l’immensità del silenzio a cui mi hanno costretta queste scomparse: queste assenze offrono spazio e materiale più che sufficienti per ispirare una scrittrice! Ma la necessità assoluta, la scommessa più difficile era non cadere nel sensazionalismo, tenersi al riparo da ciò che di volgare, di ombelicale, di riduttivo può esserci nel dolore. Si trattava di ampliare, ingrandire, “universalizzare”, toccare nel profondo le invarianti della condizione umana: la Morte, l’Amore, la Guerra. Solo una forma in cui agisse la poesia, in cui la lingua elevasse l’intento, poteva intonarsi al resoconto delle mie piccole disgrazie. Altrimenti si scade in un giornalismo psicologico che non ha più niente a che vedere con la letteratura. È vero, i miei libri affrontano tematiche molto personali, ma spero di offrire al lettore una dimensione superiore, una distanza a un tempo benefica e greve. L’intimismo è osceno quando sprofonda nel pathos, nel voyeurismo. L’intimismo è invece una nozione importante, e troppo spesso equivocata, quando permette di raccogliere, di consolare, di avvicinare le sfere in cui possiamo liberarci dell’utilitarismo della vita, delle piccolezze del reale, quel reale che ci ingiunge ogni giorno di essere belli, puliti, efficaci, integri, in buona salute e irreversibilmente felici.
C’è il miraggio sociale; e c’è la quotidianità, spesso dolorosa e problematica per molti di noi. La letteratura permette di creare quel legame tra tutti i mondi che abitiamo nel tempo di una vita. Ci ricorda che siamo tutti un universo, e non solo un modulo di organizzazione sociale. Ci ricollega ai nostri altrove, ai nostri segreti, ai nostri dolori, alle nostre vergogne, che la pressione sociale spesso considera rifiuti, o scorie. Disinnesca la pressione politica, ridà vita a un senso di comunità, per mezzo delle ombre, dei desideri, delle mancanze, della creazione di un tempo diverso in cui i fantasmi, tutti i fantasmi, agiscono e cantano il cosmo, qualcosa di più grande di noi.

CV La tua scrittura scava senza insabbiarsi, accarezza senza essere mielosa, incide senza uccidere. Quali sono le tue influenze letterarie?

SD Mi piace molto come descrivi la mia scrittura (se capisco bene l’italiano!). Mi fa venire voglia di riprendere le tue parole punto per punto.
Mi piace l’idea che la scrittura sia un lavoro artigianale, e i verbi che usi sembrano suggerire il ricorso a utensili: una paletta per scavare, una piuma per accarezzare, un punteruolo per incidere.
La paletta è utile non solo per andare a fondo delle cose, per toccare il nervo della ferita, a costo di farla sanguinare di nuovo. Lo è anche per scavare la lingua, cercare la pepita, la parola perfetta, la sintassi ideale… esplorare come un cercatore d’oro, solitario e accanito. Ma senza impantanarsi, senza sparire, restando alla luce, alla luce della necessità.
La piuma serve a scrivere: penso alle piume d’oca che si intingevano un tempo nell’inchiostro. Ma serve anche ad accarezzare, a lenire, è un bendaggio su piaghe che urlano. Come ho già detto, la scrittura è consolazione, per chi scrive e per chi legge. Bisogna muoversi con delicatezza, occorrono immagini poetiche forti che convochino i mondi altri, i meta-mondi, là dove vibra la memoria, là dove chi vive si riunisce a ciò che non c’è più. Il tutto naturalmente, senza pathos sdolcinato, senza facili compiacimenti, senza far tirar fuori i fazzoletti.
Il punteruolo, con cui si incide, con cui si imprimono le emozioni, serve a tracciare il solco in cui scorrerà la lacrima, il crogiolo in cui fremerà l’indignazione. La scrittura dev’essere incisiva, deve decapitare, con i denti, la banalità dei giorni senz’anima. Ma lo scopo non è certo di sconvolgere. Scioccare per il gusto di scioccare, sviluppare il trash, l’orrore, soddisfare il cattivo gusto e gli istinti più facili è quasi una colpa professionale! Interrogarsi, invece, disturbare, dislocare, far vacillare le certezze, quello sì, mi interessa. Senza mai annientare (come direbbe il nostro amico Houellbecq!), a che pro?
Le mie influenze letterarie?
Sono numerose, mutevoli. Non ho un modello fisso. Ne scopro tutti i giorni, perché conservo la curiosità per ciò che si scrive oggigiorno, e poi certo rileggo anche molto: Virginia Woolf, Dostoevskij, Flaubert, Giono… Adoro tutti i libri della mia biblioteca! Tutti mi hanno regalato qualcosa, prima o poi, e non sempre in concomitanza con la lettura. Per questo mi è difficile dare una risposta. Potrei dire che non ne ho, di influenze, non ne subisco, e al tempo stesso potrei dire anche che il mio stile è in infusione in ogni pagina che leggo.
La questione dello stile mi sta molto a cuore. E tutti gli autori che mi piacciono sono riconoscibili sin dalla prima riga, per una singolarità tutta loro nell’esercizio della loro lingua. Scrivere significa ancorarsi alla propria lingua e alla propria epoca in un modo unico.

CV Philippe Rey, il tuo editore francese, è anche l’editore di Mohamed Mbougar Sarr, Prix Goncourt 2021; e Voland, la casa editrice italiana che ti ha fatto conoscere in Italia con Il lavatoio, pubblica anche Georgi Gospodinov, Premio Strega Europeo 2021 con Cronorifugio. Cosa significa per te lavorare con case editrici di media grandezza e ottima qualità?

SD I successi in quanto tali mi sono indifferenti, onestamente. Ciò di cui invece c’è da andare fieri, e riconoscenti, è il fatto che sia Philippe Rey sia Voland – entrambe case editrici indipendenti – siano dirette da persone (Philippe e Daniela) il cui unico obiettivo è di scoprire e contribuire a far conoscere autori di qualità, la cui forza risiede nella singolarità della loro scrittura. Scelgono gli autori per il loro temperamento letterario, non per il potenziale di vendita in libreria. Per questo, sì, c’è da andar fieri di essere nella loro scuderia. L’anno passato è stato effettivamente molto positivo e incoraggiante per queste case editrici, e ben venga. Ma ricordiamoci che sono realtà su scala umana, formate da team piccoli e compatti, e che necessariamente devono fare scelte esigenti e rigorose.  La conferma della validità delle loro scelte da parte delle giurie dei premi letterari denota un bisogno di tornare a titoli che diano un senso e che situino il romanzo tra i “beni essenziali” per lo sviluppo dell’intelligenza collettiva e il ripristino della bellezza tra i fondamenti dell’esistenza.
Lunga vita, quindi, alle edizioni Voland e Philippe Rey!

CV Cosa ci riserverà Sophie Daull in futuro?

SD Come sai, il 3 marzo esce in Francia il mio quarto romanzo: Ainsi parlait Jules. Si tratta di un testo un po’ scomodo che indaga le nostre menzogne, le piccole scorciatoie, le piccole vigliaccherie, gli accomodamenti a cui veniamo in un mondo in cui le posizioni molto impegnate, radicali, sono mal viste. È divertente, crudele, ma anche pieno di tenerezza per la condizione umana – almeno credo, spero! Niente fiction nemmeno questa volta, lo sfondo rimane autobiografico, ma mi sono divertita molto a far smarrire il lettore in una specie di realtà rivista.
Quest’anno uscirà in Italia anche la traduzione di La sutura, il mio secondo romanzo. L’accoglienza che mi è stata riservata per Il lavatoio mi fa ben sperare anche per questo secondo libro in italiano.
E poi mi piacerebbe tornare ad avere un bel ruolo a teatro. Sono tempi duri, un’attrice ultracinquantenne è spesso disoccupata, bisogna battersi, incontrare gente, essere attivi sui social network, e io sono incapace di fare tutto questo!
Detesto l’idea che ogni artista sia una specie di piccola impresa a sé… E senza passare per una has-been, trovo deplorevole che il talento di un artista, attore o scrittore, si misuri ormai non solo per la sua forza espressiva, ma anche per la sua capacità di vendersi, di rendersi leggibile sul mercato.
Così mi accontento di lavorare ostinatamente, leggere, essere curiosa e dar fiducia alla Vita, accettando tutte le sorprese che regala, siano esse belle o brutte.

CRISTINA ANNINO [1941-2022] “Magnificat. Poesie 1969-2009”

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dall’Archivio: 15 febbraio 2010

[ Cristina Annino Dopo c’è l’acqua acrilico su tela, cm 60×80, 2004 ]
www.anninocristina.it

di Nadia Agustoni

Un poeta è una voce. A volte, nella grande poesia, la voce è distanza e vicinanza insieme. Ci sono autori appartati che ci vengono incontro per un sorta di fortuna e aiutano chi non smette mai di cercare, interrogare le parole, perché proprio nella concretezza della parola un poeta dice qualcosa di sé e del mondo. Allora in tali autori più che in altri, noi stessi siamo messi nella condizione di comprendere ciò che realmente ci danno: la nostra libertà. Ed è moltissimo. In anni avari con i poeti Cristina Annino ha scritto versi che nella loro limpidezza hanno il segno faticoso dell’essere qui, in questa terra e in un tempo pervaso dall’insignificanza. In tale condanna all’insignificanza, per noi generazione di poeti giunta dopo gli anni ottanta, Annino ci arriva come un miracolo. Giacché il nostro è un pellegrinaggio interminabile alla ricerca di un significato che troppo spesso ci porta a parole che scavano il dolore senza salvare.

Mordi e fuggi

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Elisabetta Bucciarelli intervista Alessandro Bertante

 

EB. Partiamo dal titolo, “Mordi e fuggi”, con un sottotitolo: “Il romanzo delle BR”. Hai voluto evidenziare che fosse un romanzo o ci tenevi a specificare il tema delle Brigate Rosse?

AB. Entrambe le cose. “Mordi e fuggi” era la citazione del Presidente Mao scritta sul cartello appeso al collo dell’ingegnere Macchiarini durante il suo breve sequestro ed è una delle immagini più iconiche della lotta armata in Italia e forse ne rappresenta anche l’inizio. Ma oggi è uno slogan poco conosciuto, specie fra i giovani, e il sottotitolo serve a fare si che non sorgano equivoci sul contenuto. Mi piaceva però anche sottolineare la natura romanzesca del libro, per scartare ogni ipotesi saggistica o memorialistica.

Hai deciso di raccontare il mito fondativo delle BR, qual è il motivo? C’è forse qualcosa di eroico che nella ricostruzione di quegli anni si è perso?

Il romanzo nasce da una domanda: perché un ventenne all’inizio degli anni Settanta decide di aderire alla lotta armata? Quali sono le motivazioni politiche e sociali che lo spingono a una scelta così radicale e pericolosa. Una scelta che condizionerà la sua vita per sempre.

Furono in molti a farlo e – a parte la vastissima pubblicistica dedicata al Sessantotto – che tratta l’eversione armata in modo episodico, non esiste una vera narrazione italiana degli anni piombo. Come se ci fosse una sorta di censura preventiva, un pudore impronunciabile. Eppure, la storia delle BR è unica nel mondo occidentale, sia per quantità di militanti che per ambizioni e durata della lotta armata. E, certo, presenta degli evidenti aspetti mitopoietici. Le BR nascono in fabbrica e nei quartieri, dove si proclamano come rappresentanti e difensori della classe operaia, vittima della repressione padronale e poliziesca. Questa è la narrazione dominante delle Brigate Rosse nel 1970.

Dopo la Bomba di Piazza Fontana – che già allora dalla sinistra extraparlamentare veniva considerata una Strage di Stato – e l’assurdo omicidio di Pino Pinelli in questura, diventa chiaro che le forze responsabili della Strategia della tensione (neofascisti, servizi segreti, NATO, alcuni settori delle forze armate) non staranno a guardare e che ogni ipotesi repressiva sarà considerata percorribile, anche quella del colpo di stato militare, peraltro più volte tentato senza successo. La tragedia di Piazza Fontana radicalizza lo scontro e alla fine del 1969 va chiudere nel sangue il biennio di rivendicazioni operaie. I brigatisti, come tanti altri gruppi della sinistra extraparlamentare, si armano e si organizzano clandestinamente.

Nel mito fondativo era già presente la violenza?

Certo e sarebbe ipocrita negarlo. Del resto, le rivoluzioni e le rivolte comuniste della storia sono tutte violente. L’immaginario della guerra di guerriglia è l’immaginario dominante del secondo dopoguerra, basti pensare al mito di Che Guevara, dei Tupamaros o anche di Malcom x.

Curcio diceva che la via pacifica al comunismo era una strada lastricata da migliaia di compagni morti. Che poi le Brigate Rosse nei primi anni Settanta non abbiamo sparato un colpo di pistola è altrettanto vero ma l’azione violenta era rivendicata come componente principale della lotta politica in chiave rivoluzionaria.

Tutto sembra succedere a Milano, è così? È ancora così?

Milano è da sempre il laboratorio politico nazionale. Ma quella città adesso sarebbe irriconoscibile, basti pensare che nel quartiere di piazzale Lotto dove appunto avvengono le prime azione delle BR, c’erano tre grandi fabbriche: Sit-Siemens, Alemagna e Alfa Romeo, tutte dentro al perimetro della 90/91, il filobus che a Milano da sempre separa il centro dalla periferia. All’inizio degli anni Settanta la fabbrica in città era una presenza tangibile, gli operai una forza numericamente significativa. Adesso Milano racconta altre storie, molto rassicuranti e progressive. Ma temo che non durerà a lungo, il radicalizzarsi delle differenze sociali e lo sfruttamento di ampi strati della popolazione hanno raggiunto il livello di guardia e non credo che basti il rimbambimento collettivo dei socialnetwork – il vero e unico complotto globale riuscito dell’ultimo decennio – a tenerle a bada.

Persone reali mescolate a personaggi di finzione. Si tratta di un romanzo ma si sente una forte aderenza alle fonti. Come hai lavorato per documentarti?

La storia degli anni Settanta la conosco bene perché mi sono laureato con una tesi sulla stampa underground milanese che poi qualche anno dopo fu pubblicata come saggio, titolato Re Nudo. Correlatore della tesi (Rita Cambria era relatore) fu Giorgio Galli, uno dei massimi esperti di Brigate Rosse in Italia. Purtroppo, Galli è mancato l’anno scorso. Mi spiace molto, lo stimavo e il suo parere per me sarebbe stato importante. Per quanto riguarda invece il ruolo dei brigatisti storici mi sono attenuto ai loro testi autobiografici. Nel romanzo non c’è una parola che loro non abbiamo pronunciato e non sia attestata in altri ambiti verificabili. Mi sembrava corretto agire in questo modo.

Due libri scritti bene sull’argomento?

“Storia del partito armato” di Giorgio Galli e “L’orda d’oro” di Primo Moroni e Nanni Balestrini.

Chi è Alberto Boscolo il protagonista del romanzo?

Alberto Boscolo è un uomo in rivolta, come lo intendeva Albert Camus. Fa parte del Movimento Studentesco ma ne rimane deluso, individuando nei suoi leader dei nemici di classe. Non è nemmeno marxista-leninista, come le BR, ma un piuttosto un ribelle libertario. Dopo la Strage di Piazza Fontana vuole reagire. Alberto è un combattente, si esalta nell’azione armata. Ma questa sua volontà di potenza nasconde enormi fragilità umane che cresceranno nel corso del romanzo.

Nella nota per il lettore specifichi che nessun brigatista del nucleo storico rivelò mai la vera identità di Alberto Boscolo e che non lo farai nemmeno tu. Perché ci tieni a sottolinearlo?

Perché Alberto Boscolo potrebbe esistere. Potrebbe avere un altro nome. Potrebbe essere un professore in pensione, oppure un giornalista. Potrebbe essere chiunque.

Tra i protagonisti veri del tuo romanzo c’è Giangiacomo Feltrinelli. Come lo racconti?

Giangiacomo Feltrinelli, il Comandante Osvaldo, fu il principale sostenitore delle Brigate Rosse dei primi anni, collaborazione interrotta solo dalla sua morte. Una o due volte al mese s’incontrava con Curcio nelle panchine davanti al Castello Sforzesco. Fornì loro supporto logistico e d’intelligence, insegnò alle BR come fabbricare documenti falsi e come vivere in clandestinità.

Che adesso l‘omonima casa editrice e la bella fondazione a lui dedicata tendano a sottolineare più l’aspetto culturale della sua vita mi sembra anche comprensibile ma Giangiacomo Feltrinelli era soprattutto un combattente rivoluzionario. Ed è morto da tale.

Renato (Curcio) e Margherita/Mara (Cagol) com’è stato frequentarli nelle pagine del romanzo?

Con molto rispetto e cautela. Specie nei confronti di Mara, della quale non avevo nessuna notizia biografica proveniente dalla sua voce, in quanto morta poco tempo dopo gli anni nei quali è ambientato il romanzo, ovvero dall’inverno del 1969 alla primavera del 1972.

Franceschini recentemente racconta di quando furono ideati il nome e il simbolo delle BR, riesce a scherzarci sopra dicendo che forse avrebbero potuto chiedere i diritti d’autore. Quali riferimenti c’erano nel nome e nel disegno?

Non c’è dubbio che il nome e il simbolo delle Brigate Rosse ebbero un impatto decisivo nella loro affermazione come principale gruppo rivoluzionario clandestino. Brigate Rosse è un nome immediato e memorabile, nato dalla sintesi di Brigate Garibaldi (partigiani comunisti) e Volante Rossa. Infatti, come spiegato nel romanzo, nacquero inizialmente come Brigata Rossa, al singolare.

Il simbolo poi è molto simile a quello dei Tupamaros uruguaiani ma l’intuizione di rinchiudere la stella a cinque punte nel cerchio fu proprio di Franceschini, come del resto di usare una moneta da cento lire per disegnarla. Chiunque poteva avere in tasca una moneta da cento lire.

Anita e Bianca, due belle figure femminili e due donne importanti nella vita di Alberto Boscolo. Erano così le donne brigatiste?

Ma Anita e Bianca non fanno parte delle Brigate Rosse, anzi tentano in momenti diversi di convincere Alberto a non entrarci. Sono due giovani donne comuniste molto emancipate e consapevoli, nel romanzo rappresentano la coscienza del protagonista, fondamentali nel suo percorso politico.

 “(…) Giovanni Boscolo, il quadro dell’Alfa Romeo, un colletto bianco ma, a detta di tutti i suoi colleghi, uno di quelli che sapeva parlare con gli operai e che ne condivideva in parte le rivendicazioni. Di norma sono i nemici più pericolosi.” Chi è il padre di Alberto Boscolo e cosa rappresenta?

Il padre rappresenta la generazione che ha ricostruito l’Italia dopo la Seconda Guerra Mondiale. Ma è anche tutti i padri, da uccidere metaforicamente per poter costruire qualcosa di nuovo.

Recentemente in una quinta liceo classico ho avuto la netta sensazione che pochissimi fossero a conoscenza del periodo delle BR, soprattutto nessuno della differenza tra lotta armata e terrorismo. Puoi fare chiarezza pensando di rivolgerti a un pubblico giovane?

La lotta armata è l’azione combattente rivoluzionaria rivendicata consapevolmente da chi la compie. Il terrorismo è l’interpretazione negativa di questa azione armata da parte di chi la subisce, ovvero lo Stato o il capitalismo o chi vi pare a voi. Anche i gruppi jihadisti islamici non si definiscono terroristi ma combattenti.

 

Perché un lettore o una lettrice giovane dovrebbe appassionarsi alla storia che hai raccontato?

Perché non la conosce e racconta di un Italia molto diversa da quella di oggi, più conflittuale, violenta ma forse anche più romantica, nel senso letterario del termine. Un’Italia nella quale però già si potevano intuire i cambiamenti economici, sociali e culturali che, a cominciare dagli anni Ottanta, ci hanno portato all’attuale situazione.

Cosa hai capito tu di quegli anni e cosa pensi sia rimasto in eredità?

Difficile fare una valutazione storica definitiva, forse è necessario ancora un po’ di tempo. Ma credo che la grande volontà di cambiamento sociale e le istanze rivoluzionarie armate che a essa seguirono, si basassero su un presupposto di partenza sbagliato. In Italia non c’erano le condizioni economico sociali per una rivoluzione comunista. E poi c’è stata la Strategia della tensione.

Ma questa è una storia ancora più complessa.

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Alessandro Bertante, Mordi e fuggi. il romanzo delle BR,
Baldini+Castoldi, 208 pagine, 2022

 

L’ideale e il tempo: “Pensa il risveglio” di Alessandro Cinquegrani

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di Simone Rizzi

Tête-à-tête sombre et limpide
Qu’un coeur devenu son miroir!
Puits de Vérité, clair et noir
Où tremble une étoile livide

 Charles Baudelaire, da L’Irrémédiable

A volte, nella fredda morsa dello sconforto, ci si aspetta, in buona o cattiva fede, un minimo miracolo che convinca a perseverare tra le intemperie. Non serve per forza credere in un dio (o nel diavolo, probabilmente): il medesimo meccanismo si verifica in molte occasioni della vita di chiunque, incluso il rapporto con quella che chiamiamo letteratura. Pensa il risveglio di Alessandro Cinquegrani, edito ad ottobre 2021 dagli alchimisti di TerraRossa Edizioni, è il prodigio di cui si sentiva il bisogno per proseguire il cammino, certi almeno per qualche tempo che qualcosa si possa ancora dire, lontano dalle estreme e bulimiche derive post-postmoderne di romanzi monstre o dai lidi iperrealistici e sempre più triti di saghe familiari diluite attraverso il Novecento. Già con Cacciatori di frodo (Miraggi, 2012), Cinquegrani aveva stupito per controllo della trama (sempre incentrata su una nevrosi) e duttilità di scrittura, ma questa seconda prova stacca anche la precedente e supera le aspettative già alte che l’ottimo esordio aveva ingenerato.

Pensa il risveglio è una fuga dalla e nella realtà costellata di rovine (quelle della Storia e del passato di ciascuno) ma è al contempo fuga dalla e nell’“irrealtà”, dove il sogno si mescola all’ossessione e l’ideale inteso come meta perfetta e durata eterna si realizza in forme meravigliose, aberranti o semplicemente ineffabili, prima di crollare sotto i colpi di un altro terremoto e frangersi di nuovo in rovine. Cosa salvare, come salvarsi, o non è vero forse che salvarsi non conta?

Non a torto si potrebbe descrivere la trama del romanzo come la sovrapposizione di più linee narrative (almeno tre), ma Cinquegrani riesce a riprodurre, pagina dopo pagina, l’assurda consequenzialità del sogno ad occhi aperti o di una sorta di fatalità preordinata che agisce nella mente del protagonista Alberto. Si avverte così la claustrofobica iterazione di una catena di eventi senza scampo, dove la banalità e il caos della quotidianità convivono con visioni angosciose o surreali senza soluzione di continuità, sebbene siano comunque disposte da Cinquegrani all’interno di un disegno narrativo preciso che soltanto negli ultimi capitoli si rivela pienamente.

La prima parte del romanzo è incentrata su uno scambio di persona: la voce narrante, l’attore e sceneggiatore Alberto, collabora alla stesura di un film distopico con l’amico di una vita, il regista Lorenzo (“… Lorenzo non è tollerante, non è comprensivo, non media, è tutto lì, in quelle sue decisioni improvvise e assolute, quelle decisioni assolutamente prive di contraddittorio.” p. 24). La pellicola descrive un futuro letteralmente disidratato (l’acqua è scomparsa dal pianeta Terra) e governato da un regime dispotico che più fili legano al Terzo Reich hitleriano. Tuttavia, Lorenzo scompare all’improvviso e Alberto, dopo una sommaria ricerca sulle Alpi svizzere, si trova a vivere in vece del suo amico più caro, a prendere possesso della sua casa, dei suoi vestiti, ad amare sua moglie Caterina che sembra da subito ricambiarlo. Si crea così la prima crepa nella tessitura logica in cui Alberto tenta di ricondurre quello che gli sta capitando. Da sempre, infatti, quello di scomparire è il suo desiderio più grande, la sua intima aspirazione. Alberto desidera scomparire perché non accetta lo squallore e la banalità di ciò che lo circonda e più in generale una vita dimidiata con cui ha sempre dovuto mediare, fare i conti, incassare i colpi. Lorenzo è riuscito dove lui ha fallito, e la posizione che Alberto ricopre in qualità di suo sostituto bene rappresenta un certo tipo di stanchezza paranoide mista a voyeurismo (tanto distaccato quanto compiaciuto, applicato alle abitudini della vicina di casa come alle tragedie orecchiate durante un telegiornale) e condita con una violenta ipertensione del pensiero: un ritratto umano in cui, a queste latitudini, ci si rispecchia sempre di più. Alberto inizia a sospettare di tutto, sottopone ogni istante della propria giornata ad un minuzioso quanto paranoico scandaglio alla ricerca di “crepe” in un supposto disegno preordinato che lo vede schiacciato sul polo della vittima. Cinquegrani tratteggia le figure di Alberto (e di Lorenzo, suo opposto e complementare) senza cedere al troppo facile lusso di rappresentare personaggi sì imbrigliati nell’assurdità del quieto vivere, ma pur sempre vincitori morali in nome dell’autoironia e dell’autocommiserazione.

Nella sua indagine privata, infatti, Alberto scopre che alla costruzione del film di Lorenzo soggiace un capillare studio del regime nazista, e in particolare delle due opposte figure di Joseph Mengele e di Albert Speer, architetto del regime, scampato per un soffio al processo di Norimberga in virtù di un doppiogiochismo viscido elevato ad arte. Alla voce di Alberto e agli stralci di sceneggiatura si mescolano così interi capitoli di un ibrido a metà strada tra saggio e racconto. Cinquegrani sfrutta le sue vaste conoscenze su nazismo e Shoah per sovrapporre il temperamento e le vicende dei due criminali di guerra a quelle dei suoi personaggi (e non solo):

“Non è vero che il male è banale (…). Il male ha mille facce (…). Quella di Mengele è la faccia del male assoluto, estremo, è vero. (…) Ogni gesto di Mengele è intriso di male. (…) Se esiste una perfezione crudele nel male, questa è incarnata da Mengele. Ma è Speer che non mi dà pace. Il male che Speer incarna è subdolo, schifoso. È come se il male che rappresenta fosse uno specchio nel quale ognuno di noi vede se stesso. (…) Speer è il vigliacco, l’approfittatore. (…). Mengele è l’uomo tenace che crede in ciò che crede e che resta semplicemente se stesso fino alla fine a costo di morire. (…) Speer è un calcolatore, un approfittatore, è il costante compromesso, stare un po’ nella luce e un po’ nell’ombra, dire molta verità e un po’ di menzogna: piacere, a tutti. (…) Lorenzo sta parlando di noi, di me e di lui, lo so. Con le sue parole mi tiene sotto scacco e ha la sfacciataggine, l’immoralità di firmarsi Joseph Mengele: vuole dirmelo (…), vuole farmi sentire una merda, farmi sentire, forse, quello che sono. (…) Perché parlare di queste persone, di questi mostri, anziché di persone normali, perché? (…) Perché (…) dallo scandalo dell’estremo emerge la verità.” (pp.79-81)

Il parallelo che Cinquegrani propone non ha nulla di astratto, moralistico o blandamente esemplare, ma al contrario è costruito sulla carne dei personaggi e quasi dei lettori. Impossibile, al netto delle molte differenze, non pensare ai grandi romanzi bolañiani che si occupano di nazismo storico e di “nazismo” come contenitore di ogni forma di scarto, dolore, frustrazione, vendetta, aberrazione (penso in particolare a La literatura nazi en Ámerica e a Estrella distante). Attraverso la lucida follia di Lorenzo, Alberto riformula il postulato harendtiano sulla banalità del male: il male è anche banale, ma ridurlo alla sola banalità significa ignorare le infinite, aberranti e persino seduttive forme in cui il male si manifesta. In una società che pare e per certi versi è costruita sul “modello Speer”, ovvero sul più bieco trasformismo ed opportunismo non solo nella vita pratica, ma anche a livello filosofico, epistemologico, di gestione delle informazioni (cos’è vero se tutto è ritrattabile?), l’ombra di Lorenzo/Joseph Mengele agisce su due fronti, distinti e complementari. Da un lato, infatti, “avere a che fare con i cattivi assoluti è consolante, poterli condannare senza riserve, poter dire che loro sono il male” (p.114). Tutti cerchiamo un nemico “puro”, disumano, senza redenzione per poter scagionare noi stessi, per evitare di assumerci almeno in parte le nostre responsabilità. Tuttavia, dall’altro lato, è proprio la consapevolezza con cui Alberto si identifica come “il trasformista, il camaleonte, l’omino sempre-in-piedi. Io sono la vita che si trasforma impunemente solo per conservare se stessa.” (p.115) ad illuminare per contrasto Mengele di una luce oscura ma affascinante. Mengele così, nonostante sia e rimanga il male assoluto, assume i connotati ideali dell’uomo saldo, ancorato ai propri principi che gli permettono di trovare sempre una via, lo orientano nel mondo e gli permettono di vivere, e non semplicemente di esistere. Soprattutto, come Lorenzo, Mengele è l’uomo del non-compromesso: se le cose non vanno come devono, Mengele non media, scompare senza macchiarsi di collaborazionismo con la realtà, fedele ad un ideale fino alla morte.

Mengele e soprattutto Speer diventano tasselli fondamentali del labirinto paranoico in cui Alberto si muove lungo tutto il corso della narrazione. Per di più, la sua nuova vita nei panni di Lorenzo viene periodicamente scossa da una serie di veri e propri terremoti che mettono in pericolo prima Caterina e poi lo stesso Alberto. È l’inizio di un febbrile alternarsi di sonno e risvegli in diverse realtà complementari: il “mondo di sopra” (la realtà a grado zero, ma non per questo più vera dell’altra) e “mondo di sotto”, allegorica rappresentazione in bilico tra stati della mente e deliri surreali. Se è vero che Speer è la massima rappresentazione della canaglia, è anche vero che ha salvato i ponti di Berlino, il Reich è crollato ma la città è stata ricostruita perché le connessioni hanno retto. E allora come districarsi tra le rovine che il tempo lascia? Si può vivere oltre Mengele, oltre Speer? Cinquegrani rappresenta una possibile via, non certo definitiva, ma non arretra difronte all’onere che ogni romanziere sente pesare sul capo: non dare risposte, ma inchiostrare possibilità e chiamare alla scelta, alla fine dell’immobilismo in ogni senso possibile; ciascuno poi si scelga il proprio.

Fin dal titolo (una citazione tratta da Neve di Umberto Saba), Pensa il risveglio è quello che Roland Barthes avrebbe chiamato un testo scrivibile, vale a dire massicciamente incentrato (anche) sullo stile, che poi è una marca di comodo per dire voce, scrittura, visione. La prosa di Pensa il risveglio, come il suo protagonista, cerca le crepe, la massima tensione del linguaggio e spesso riesce ad intercettare il punto esatto in cui la parola significa al di là di se stessa, prima cioè che si spezzi e non significhi più nulla, e tutti abbiamo spesso esperienza di questa insufficienza del linguaggio cui tentiamo di sopperire. E così basta sfogliare le pagine del romanzo per imbattersi, ad esempio, in questa descrizione di Rodi e della vacanza di Alberto e Caterina:

“Rodi se ne sta inopportuna e riarsa in mezzo al mare, quasi a negare o a contraddire se stessa. Un taglio, una cicatrice verticale tra le onde blu e bianche. Un bottone di terra riarsa. I gabbiani che garriscono la rendono una cartolina sonora, abitiamo uno stereotipo. Caterina indossa un costume azzurro, i capelli rossi riflettono la luce, la sabbia è morbida, il mare sterminato. (…) Mi sento così, in questa vacanza: immerso in quella perfezione irripetibile delle cose ultime.” (p.110)

“I giorni passano così, con questa specie di felicità inscalfibile, questo sorriso di plastica sui nostri volti, questo amore definitivo che leva il fiato. Solo di tanto in tanto, improvvisamente, senza preavviso, mi coglie una nausea violenta, un desiderio di vomitare tutta questa bellezza, renderla bolo e putredine. Dura un attimo, per lo più, ma in quell’attimo temo di perdere i sensi, di fare atti sconsiderati. Provo un fastidio fisico per questa vita.” (p.113)

La tensione linguistica tra l’andamento paratattico e le improvvise impennate metaforiche o gli scarti di registro immergono la scena in una calma solo apparente, già foriera di tempesta ma proprio per questo sublime e magnifica nonostante i paesaggi da cartolina, nonostante l’angoscia che riaffiora. Persino una scena come questa, non fondamentale ai fini stretti della vicenda, riesce a racchiudere i nuclei fondanti su cui si regge Pensa il risveglio e che deflagrano nelle scene maggiori, come il lettore sperimenterà da sé.

Pensa il risveglio è davvero un piccolo/grande miracolo della narrativa italiana contemporanea. Dal tema del doppio a quello del Male, dalla paternità al desiderio di non compromissione con il mondo passando per le ossessioni individuali e collettive, c’è tutto quello su cui si è sempre scritto e sempre si scriverà. Non aveva torto Baudelaire quando diceva che infondo, tutta l’arte si basa sull’invenzione di nuovi cliché, utilizzando il termine nel senso insieme più basso e più alto possibile: così abusato e così puro, così umano e inumano, contingente e universale, artificiale perché alchemico, sempre identico e sempre nuovo. Un coeur devenu son miroir.

La poesia di Oodgeroo Noonuccal in traduzione

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Oodgeroo Noonuccal, Sydney, 1970. Courtesy of Mitchell Library, State Library of New South Wales and Courtesy SEARCH Foundation

 

Oodgeroo Noonuccal, Sydney, 1970. Courtesy of Mitchell Library, State Library of New South Wales and Courtesy SEARCH Foundation

 

Nel 2021 è uscita My people. La mia gente, prima traduzione italiana, con testo a fronte, della poeta indigena australiana Oodgeroo Noonuccal, per le cure di Margherita Zanoletti (Mimesis). Il termine «cura» va qui oltre la classica accezione editoriale; il volume è infatti corredato da uno scritto di Alexis Wright e da una ricca e cristallina introduzione di Zanoletti, divisa in tre momenti: una parte iniziale dedicata alla figura dell’autrice, artista, educatrice ed attivista per i diritti dei popoli indigeni; una panoramica sulla sua opera; un saggio traduttologico. Si tratta di un paratesto fondamentale, che fornisce contesto, chiavi di lettura e spunti necessari all’immersione nell’universo costituito dall’opera di Oodgeroo.
La poesia è uno strumento scelto ad hoc dall’autrice; cito dall’introduzione di Zanoletti, che sull’opera di Oodgeroo ha pubblicato numerosi contributi:

[…] perché proprio la poesia? La scelta, spiegherà a più riprese la stessa scrittrice, è legata all’interesse e alla sensibilità da parte degli aborigeni per il canto. La cultura degli aborigeni australiani ha infatti le sue radici nel tjukurrpa, nella traduzione inglese “dreamtime” e “dreaming”, cioè risale al tempo in cui degli esseri ancestrali attraversarono la terra lasciando segni nella forma di colline, ruscelli, caverne e altre formazioni topografiche. Da sempre per gli aborigeni, la terra era segnata da un intrecciarsi di canti, un labirinto di percorsi visibili soltanto ai loro occhi che mappavano le impronte degli antenati, creatori del mondo e delle leggi che lo regolano.

Si tratta di una poesia che deve veicolare un messaggio, raccontare la storia di un popolo, e dunque essere accessibile. Scrive ancora la curatrice:

tutti i testi contenuti in My People sono in inglese. Oodgeroo si serve, simbolicamente e pragmaticamente, della lingua dei colonizzatori per trascrivere e tramandare storie, esperienze e immagini legate al mondo aborigeno, e in tal modo, dando voce alla sua gente, dichiara ed esprime la sua identità di “half-caste”, indigena ed europeizzata. Impiegando una strategia retorica solo apparentemente semplice, ma in realtà complessa ed enigmatica, sul filo dell’ambiguità, l’appropriazione dell’inglese consente all’autrice di “colonizzare” un pubblico ampio, internazionale e universale, traslando diamesicamente (dal formato orale alla lingua scritta) e interlinguisticamente (dalle lingue aborigene all’inglese) le coordinate di un mondo umiliato e distrutto, che sta cambiando o scomparendo. E per quanto parziale rispetto a una tradizione culturale millenaria, orale e per molti versi segreta, tale lavoro di traduzione e spostamento rende i segni in questione fruibili a tutti coloro che intendono impegnarsi a interpretare e comprendere. Entro questo orizzonte contaminato e stratificato, Oodgeroo evoca la trasformazione in atto scrivendo sì in inglese, ma seminando qua e là una serie di parole di origine indigena: si tratta, come vedremo più approfonditamente nella terza parte di questo contributo, di riferimenti lessicali e talvolta sintattici al logos aborigeno, alla mitologia e alla cosmogonia, onomastici e toponomastici che ribaltano il concetto stesso di alterità, tra-ducendo il lettore in un mondo altro, di difficile comprensione ma di sicuro impatto emotivo.

È a questo scopo che, al termine del volume, figura un glossario concepito per chiarire il significato di termini e riferimenti culturali presenti nei testi. Strumento importante dell’approccio traduttivo straniante, foreignizing, il glossario, come scrive Yasmina Melaouah in un interessante articolo dedicato alla traduzione che Sergio Atzeni ha fatto di Texaco di Chamoiseau, è anche

un bell’indizio in fondo a una traduzione: significa che il traduttore non ha imbrogliato il lettore, non gli ha spacciato per leggibile un testo difficile, non gli ha nascosto le perdite né ha reso invisibile la distanza dall’Altro.
Lo ha invece lasciato fare un viaggio difficile, gli ha regalato la fatica insieme con la meraviglia, ma per quel viaggio come viatico e bussola gli lascia un glossario, proprio come hanno i viaggiatori solitari nello zaino per cavarsela nei paesi lontani (Melaouah 2015).

L’ultima parte dell’introduzione di Zanoletti restituisce una testimonianza del proprio lavoro traduttivo:

L’analisi testuale proposta in questa sezione mostrerà, dietro le quinte, le principali problematicità affrontate dal traduttore italiano a fronte di questa commistione tra mondo anglosassone e mondo aborigeno, invitando a riflettere sulla pratica della traduzione come processo intersistemico che ricontestualizza, intermedia e trasmette il patrimonio culturale, l’intento politico e la dimensione emotiva inerenti all’originale, in modo creativo. Oodgeroo si rivolge infatti a un pubblico ampio e variegato; la sua è una poesia popolare, di protesta, che non si addice esclusivamente a intellettuali, accademici e specialisti, ma al contrario, dà voce a e comunica in primis con i ceti più bassi, con i segmenti emarginati e calpestati: con gli esclusi, i senza voce della società. Una traduzione italiana che voglia tenere conto di questo aspetto non potrà che tentare di rendere presente il contesto di fruizione del testo originale, preservandone le peculiarità e ricreando un approccio comunicativo il più vicino possibile a quello di partenza.

Pubblico sei poesie tratte dal volume, all’interno del quale sono incluse anche alcune traduzioni ad opera di Francesca Di Blasio (ornella tajani).

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di Oodgeroo Noonuccal
traduzione di Margherita Zanoletti

 

ASSALITA DAI RUMORI

Qualcosa di osceno nei rumori
Delle cose create dall’uomo offende la dolcezza e la limpidezza
Della Natura.
L’urlo duro dei venti,
Mai senza armonia, mai volgare, che squassa gli alberi,
Lo stridio dei gabbiani – questi
Hanno il loro posto nel mondo
Così come il canto arioso dello scricciolo.
Solo l’uomo, dicono i libri, conosce il bene e il male;
Come l’arte di oggi lo strillare e urlare
Di musica uscita dall’inferno,
Musica fatta malefica, con urli e strilli
Quando i dj si scatenano con scoppi e squilli.
Lasciatemi i suoni fatti da Dio —
Tutti bellissimi per me
Forti o delicati,
Dalla piccola, sottile
Nota di violino dell’ape
Al frastuono del mare turbolento,
Tumultuoso ruzzolando sulla riva.

 

NON È IL MIO STILE

Non è il mio stile?
Uomo! Il mondo finirà
E tu ti lamenti.
Io voglio fare
Le cose che non ho fatto.
Non solo assaggiare il nettare degli Dei
Ma affogarci dentro.
Perdere la mia pelle di protesta.
Emergere!
Come donna!
              poeta!
                 scrittrice!
                       musicista!
Assaggiare spezie;
Masticare erba;
Suicidarmi;
Vivere.
Ingozzarmi
Di amaro e di dolce,
Prima che
              arrivi
                 quella cosa,
                           quella cosa,
lì fuori.

 

IL BIANCO, IL NERO
(trad. F. Di Blasio)

Il bianco

Aborigeno, noi
Ti abbiamo portato
La nostra sociologia,
E ti abbiamo insegnato
La nostra bianca democrazia.

Il nero

Uomo bianco, che
Vuoi insegnarci e domarci,
Noi avevamo socialismo
Molto prima che tu arrivassi,
E anche democrazia.

Il bianco

Povero nero,
Tutto quel che tu abbia mai avuto
È lo spirito ancestrale Biami*,
Insieme al grande, temibile
Bunyip* col suo muggito!

Il nero

Compagno bianco, è vero
Tu avevi ben altro a nutrire il tuo orgoglio:
Avevi Gesù Cristo,
Ma lo hai messo in croce,
E continui a farlo.

 

EUCALIPTO MUNICIPALE

Eucalipto nella strada di città,
Duro bitume intorno ai tuoi piedi,
Staresti meglio
Nel mondo fresco di rigogliose sale di boscaglie
E richiami di uccelli.
Qui mi sembri
Come quel povero cavallo da tiro
Castrato, domato, una cosa violata,
Imbrigliato e sellato, il suo inferno prolungato,
Il capo chino e il passo spossato esprimono
La sua disperazione.
Eucalipto municipale, mi fa pena
Vederti così
Piantato nella tua erba nera di bitume –
O concittadino,
Cosa ci hanno fatto?

 

ALLORA E ORA

Nei miei sogni sento la mia tribù
Ridere mentre caccia e nuota,
Ma i sogni sono distrutti da auto in corsa,
Tram sferraglianti e treni fischianti,
E non vedo più la mia vecchia tribù
Mentre cammino sola nel tumulto della città.

Ho visto corroboree*
Dove quella fabbrica erutta fumo;
Dove hanno eretto un parco alla memoria
Un tempo lubra* scavavano in cerca di igname;
Un tempo i nostri bambini scuri giocavano
Là dove ora ci sono i binari,
E dove io ricordo il didgeridoo*
Ci chiamava a danzare e giocare,
Uffici ora, luci al neon ora,
Ora banche e negozi e pubblicità,
Traffici e commerci della frenetica città.

Non più woomera*, non più boomerang*,
Non più celebrazioni, non più la vita di un tempo,
Eravamo figli della natura allora,
Niente sveglie per gente che corre al lavoro.
Ora sono civilizzata e lavoro come i bianchi,
Ora ho il vestito, ora ho le scarpe:
“Com’è fortunata ad avere un buon posto!”
Meglio quando avevo solo una dillybag*.
Meglio quando non avevo altro che la felicità.

 

IL PASSATO

Nessuno dica che il passato è morto.
Il passato è tutto intorno e dentro di noi.
Ossessionata da memorie tribali, so che
Questo breve ora, questo presente incidentale
Non è tutto di me, che la mia lunga formazione
In gran parte appartiene al passato.

Stasera qui in Periferia mentre siedo
In poltrona davanti alla stufa elettrica,
Riscaldata dal suo rosso bagliore, precipito nel sogno:
Sono lontana
Accanto al fuoco nella boscaglia, tra
La mia gente, seduta per terra.
Niente muri intorno a me,
Le stelle sopra di me,
Intorno gli alberi alti si muovono
E suonano nel vento.
I tenui gridi della notte giungono a noi, là
Dove siamo una cosa sola con le creature della Natura
Conosciute e sconosciute,
In luoghi a cui apparteniamo ma che abbiamo abbandonato.
Poltrone e caloriferi elettrici
Esistono da ieri.
Ma mille migliaia di fuochi nella foresta
Sono nel mio sangue.
Nessuno venga a dirmi che il passato se n’è andato.
Questo adesso è solo un pezzetto di tempo, un pezzetto
Di tutti gli anni di lotta che mi hanno plasmata.