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Per Sergio Nelli

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di Giacomo Sartori

(Unendomi alle tante voci che esortano a leggere o rileggere gli scritti di Sergio Nelli, appena scomparso, riporto questo pezzo uscito nel numero di Nuova Prosa “La letteratura italiana con gli occhi di fuori”, nel 2018)

Sergio Nelli mi sembra essere uno dei migliori cantori del male di vivere del presente italiano. E questo in particolare nei suoi racconti, popolati da una grande varietà di uomini e donne imbrigliati nelle loro miserie e incagli affettivi, famigliari, lavorativi. Questi suoi personaggi comuni, ma strutturalmente diversi uno dall’altro, come lo siamo noi, non sono mai felici, sono anzi surrettiziamente sofferenti, e quasi un po’ depressi (spesso lo sono stati nel vero senso della parola), o comunque come ottenebrati da quello che la vita ha riservato loro, invischiati in una cupezza nevrotica. Le loro abitudini, e la quotidianità nei quali ci appaiono, sono la gabbia angusta nella quale si muovono.
Non soffrono tuttavia di claustrofobia, approfittano del loro piccolo margine di manovra. Non si disperano, vanno anzi avanti navigando a vista, cercando degli appagamenti, o almeno un po’ di pace. Le occasioni di sentirsi davvero bene, o anche solo di ridere, fanno però difetto, le gioie a cui aspirano il più delle volte si rivelano illusorie (e i disastri, quelli veri, incombono). Anelano e desiderano invano, e qualche volta sembra che potrebbe succedere qualcosa di buono, o comunque differente, ma non accade, e quindi restano impelagati nella pedissequità e nel loro non espresso malessere, in una rassegnazione di lutto, una minaccia di disgrazie ben maggiori. Solo nell’infanzia hanno vissuto qualcosa di davvero buono, solo nei ricordi di quella preistoria possono imbattersi in soddisfazioni e piacere.
La grande abilità di Nelli è di riuscire a evitare tutti i cliché con i quali osserviamo e leggiamo la nostra realtà, le nostre vite e quello che ci sta intorno, schermo che ci impedisce di vedere l’essenza delle cose. Lui non cita marche o luoghi, non rappresenta situazioni ritenute paradigmatiche, o anche solo che ci sembrano più frequenti e normali, non descrive nei dettagli. Coglie anzi i personaggi in frammenti minimi della loro intima differenza, nei gesti e ragionamenti che tradiscono la loro singolarità. Il corpo e il sesso sono molto presenti, perché è lì che può esserci qualche raro riscatto, ma non hanno uno statuto privilegiato, sono anch’essi elementi del quotidiano, della fatica di vivere le giornate. Nella presa d’atto dello stato delle cose non c’è empatia, si intuisce piuttosto uno sguardo quasi divertito.
Gran parte dei personaggi della narrativa italiana sono insopportabili, e falsi, proprio nella loro supponenza, diciamolo così, di essere paradigmatici di qualcosa, un qualcosa che non esiste. Vengono più spesso dalle classi agiate, o insomma da come ce se le rappresenta, o peggio ancora sono come le stesse si rappresentano quelle meno fortunate. Sono in realtà il prodotto di visioni stereotipate o anche semplicemente giornalistiche e televisive, a ben vedere consolatorie. Nelli riesce a riprodurre la pedissequità grigia, la totale assenza di prospettive e speranze, con minuti scarti però di individualismo e di follia, che è la cifra di fondo del nostro Paese, e che tutti conosciamo. I suoi personaggi e le sue atmosfere, hanno il gusto inconfondibile dell’Italia attuale, dei palazzoni senza attrattive che dominano i suoi paesaggi, diventano anzi esemplificazioni della quintessenza della nostra società. Sono istantanee di un paese che ha perso ogni illusione, che continua però a raziocinare e a cercare scappatoie personali, si ostina a sopravvivere. E nello stesso tempo, e qui sta la grandezza, i suoi sono esseri umani che si dibattono nel mondo, alle prese con le briglie della vita.

Limina moralia: Anna Maria Ortese

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di

Francesco Forlani

Da qualche mese sto collaborando con Limina Rivista, un drappello di giovani intellettuali, tra l’altro presenti in una recente e felice incursione indiana alla Libreria Popolare di via Tadino, a Milano. All’invito di partecipare al loro progetto ho risposto con delle autotraduzioni dal francese di piccoli assaggi ( essais) letterari pubblicati in oltre vent’anni sulla rivista parigina l’Atelier du Roman diretta da Lakis Proguidis. Dopo Philip K Dick e Franz Kafka   è stata la volta di Anna Maria Ortese .

Lo ripropongo qui, alla casa madre, perché la storia di questo articolo è nata negli anni  proprio su Nazione Indiana. Buona lettura. effeffe

Prologo

Torino è una città misteriosa; misteriosa e indolente. Tale indolenza la si può avvertire dappertutto; nei caffè storici del centro, nelle piazze spesso deserte; deserti circondati da portici, lunghissimi portici con centinaia, migliaia di persone che vi si incamminano in silenzio come a una processione; tuttavia è sui mezzi pubblici che la tocchi con mano, quell’indolenza allo stesso tempo metropolitana e metafisica. Un autobus a Torino non è un modo per spostarsi da un punto all’altro del mondo, no, è un mondo che racchiude tutti gli interrogativi fondamentali dell’esistenza e che spesso, non sempre, ritrovi nei libri: vivere, amare, soffrire.

Seduto in un 68 assai affollato, concentrato nella lettura del Corso di filosofia in sei ore e un quarto di Witold Gombrowicz (Bompiani), preparavo le ultime battute del mio corso al Liceo francese quando è avvenuto il fatto seguente.
A bordo due passeggeri di una cinquantina d’anni, una signora e un signore, in piedi una di fronte all’altro; alla fermata con conseguente liberazione di un posto a sedere, alla portata di entrambi, dopo averne costatato la cosa, si sono guardati dritti negli occhi per pochi istanti, prima che l’un# dei due passeggeri rivolgesse un cenno all’altr# per cedere l’ambita seduta. Fin qui nulla di particolarmente significativo: un segno forse di cavalleria d’altri tempi che nulla toglierebbe alla mala educación seppur aggiungendovi un seme di speranza quanto ai tempi che corrono; di questo certo si sarebbe trattato se a cedere il posto fosse stato l’uomo e non la donna come invece era stato il caso. La questione, in realtà, non era affatto di genere ma di numero, degli anni, una questione d’anagrafe, risolta dalla risolutezza e prontezza della donna che pur appartenendo alla stessa classe, dichiarava il suo interlocutore più anziano di lei, attestazione che sarebbe stata confermata da lui se avesse accettato l’invito; le cose però non sarebbero affatto andate in quel modo, dal momento che l’uomo aveva declinato con aria stizzita l’invito, con un’espressione del volto che avremmo potuto tradurre con la frase: ma ti sei vista allo specchio, vecchia stronza!

Ho allora distolto lo sguardo che, prima di immergersi nella lettura del Gombro, ha potuto per qualche istante, grazie alle potenti lenti da lettura che inforcavo, scorgere sul finestrino l’immagine riflessa della mia faccia che portava evidenti segni di appartenenza alla leva calcistica dei due passeggeri. In altre parole, vi avevo scorto chiara e distinta la mia età. Il primo riflesso era stato quello di togliere gli occhiali come la cosa bastasse a fare sparire il dolore; quel dolore che accompagna il guado da una riva abitata da chi deve cedere il posto all’altra in cui dimorano quanti a quel posto hanno diritto.
La seconda cosa che ho fatto è stata di rimetterli per riaprire il libro. Ed è così che mi sono imbattuto nella frase d’ouverture:

«Il vero realismo di fronte alla vita è sapere che la cosa concreta, la vera realtà, è il dolore.»

Le trompe-l’œil: un paio di occhiali

Si parla sempre di Anna Maria Ortese come di un autore realista; dal suo esordio, ufficialmente nel ’37, con Angelici dolori pubblicato dall’editore Bompiani. Dolore, una parola che non solo nei titoli adottati come nel caso del Cardillo addolorato, permea l’intera sua opera, da Il mare non bagna Napoli, fino a L’iguana, ma ne orienta le storie al punto di costituirne il tema maggiore, la cosa concreta.
Il realismo di Anna Maria Ortese,eppure, lo si potrà cogliere solo a condizione di esplorarne il pensiero che è alla base della narrazione, la portata filosofica delle storie.
È solo allora che la realtà, la dolente realtà diventa concepibile razionalmente, ovvero trasmutata nelle sue variazioni fantastiche; il realismo romanesque come trasfigurato dal dolore assume i tratti del racconto filosofico. Se nel caso di Gombrowicz si tratta di una scelta stilistica annunciata, come quando scrive che «Ferdydurke è una parodia del racconto filosofico alla Voltaire», in Anna Maria Ortese questo accade in modo naturale, attraverso le forme del racconto breve, gli apologhi, le riflessioni filosofiche poste a corollario delle vicende vissute dai suoi personaggi e condivise dall’io narrante con i lettori. È attraverso la cognizione del dolore che l’opera accede ai sensi più reconditi dell’esistenza, della vita pura e nuda, concreta, e se per Gombrowicz sarà possibile grazie a una vera e propria fede filosofica, in Anna Maria Ortese, autodidatta, tale traduzione è guidata da un naturalismo di tipo panico.
Di sé scrive nel magnifico Autodizionario degli scrittori italiani, a cura di Felice Piemontese e pubblicato da Leonardo nel 1990:

«Motivazioni profonde non ne trova: se non lo scontento, del resto comune, e spesso l’indignazione, davanti a ciò che si chiama “reale”. E questo sentimento – che resta – le impedisce adesso di preoccuparsi se qualche futuro lettore potrà farsi di lei un’immagine più o meno vicino alla “realtà”. Di “realtà” – uno che sia in polemica eterna col reale – non può averne. Difficile soprattutto dal di dentro, capire chi sia veramente, o che voglia, uno che non accetta – non ama – quanto è “reale”. Anna Maria Ortese non sa cosa ha voluto, né chi è.»

Tale rivolta al reale trova il manifesto in uno dei suoi racconti più belli, Un paio d’occhiali, che apre Il mare non bagna Napoli. Eugenia è una ragazzina ipovedente, quasi cecata, che rischia di perdere la vista per sempre se non ottiene quei due pezzi di vetro che sua zia Nunzia ha deciso di regalarle. Eppure, prima che ciò avvenga la vediamo spensierata percorrere timidamente ogni gesto di un’infanzia che sembrerebbe felice, non pervasa dal male, dalle passioni tristi che ne determinano tutt’intorno il paesaggio: i soldi, i tradimenti, le prese in giro. Queste cose Eugenia non le sente perché non le vede ed esprime in una lingua imperfetta e vitale tutta l’energia della propria innocenza, l’adesione a una realtà ben distante dalla verità. È solo verso la fine, nel gran giorno, quando sua madre rincasa con un paio d’occhiali, che la metamorfosi avrà luogo; il volto della piccola si trasforma in una «una specie d’insetto lucentissimo, con due occhi grandi grandi e due antenne ricurve». La realtà è un pugno in faccia, uno schiaffo di rara violenza, e il dolore un non so che di nitido e cristallino che sgorga dalla visione dell’inferno.

«Come un imbuto viscido il cortile, con la punta verso il cielo e i muri lebbrosi fitti di miserabili balconi; …le foglie di cavolo, i pezzi di carta, i rifiuti, e, in mezzo al cortile, quel gruppo di cristiani cenciosi e deformi, coi visi butterati dalla miseria e dalla rassegnazione, che la guardavano amorosamente. Cominciarono a torcersi, a confondersi, a ingigantire. Le venivano tutti addosso, gridando, nei due cerchietti stregati degli occhiali.»Ortese

Twitter (cinguettìo)

I due passeggeri sono scesi da un pezzo. Il posto è rimasto vuoto. In questo lungo viale defilato dal centro si sente nitido e chiaro il canto degli uccelli. Richiudo il libro di Gombro e in maniera inaspettata ho come una rivelazione. C’è un legame strettissimo che non avevo mai colto fino ad allora tra il racconto appena evocato e il romanzo Il cardillo addolorato, sempre di Anna Maria Ortese. Il piccolo volatile, da vivo e da morto, tormenta il destino della protagonista, Elmina. Ora si sa che il cardillo canta meglio se accecato; per poterlo vendere al miglior prezzo taluni commercianti li fanno crescere al buio dopo averne bruciato le pupille con aghi roventi. Ecco che solo dopo aver dato alla vita un’altra forma, la si potrà cantare; solo una visione obnubilata o distorta potrà far cedere al falso che è misura e supporto della verità. Proprio quello che succede in una delle scene del romanzo, quando, riuniti alla Reggia di Caserta grazie a un potente cannocchiale, si riuscirà a scorgere l’interno misero di una casa del Pallonetto e scrutare l’inconfessabile segreto di Elmina. Quale sarà allora la relazione tra bellezza e cecità, tra il male che si subisce e quello che si compie, ma soprattutto il posto che il dolore occupa in tutto questo. Un canto d’uccelli è quel che rimane dopo il diluvio. Non si tratta di un’ennesima prova di rinascita ma di sopravvivenza pura e dura. C’è una necessità dolente nel canto degli uccelli che devono costruirsi un nido lontano da terra.

Cahiers des doléances

C’è un racconto poco noto di Anna Maria Ortese che amo particolarmente. S’intitola Dolente splendore del vicolo, pubblicato in due parti da Pasquale Prunas sulla rivista Sud nel giugno del ‘46 e nel gennaio dell’anno seguente. Sud è la rivista che ho la fortuna di dirigere, in una nuova versione, dal 2003, grazie alla presenza di antichi collaboratori della stessa come Antonio Ghirelli, Carla De Riso, Francesco Rosi, alla partecipazione come partner europeo della rivista francese l’Atelier d Roman, guidata da Lakis Proguidis, e la fondamentale adesione di Renata Prunas, sorella di Pasquale e memoria storica di quella straordinaria stagione del dopoguerra, la giornalista Nora Puntillo e Giuseppe Catenacci, presidente dell’Associazione ex allievi della Nunziatella, la scuola militare di Montedidio tra le cui rosse mura la rivista era nata nel ‘45.
Il racconto dal titolo che racchiude l’ossimoro, di fatto, del dolente splendore, ci fornisce una chiave di quella stretta relazione tra opera e dolore da cui siamo partiti. Un tema che unito alla riflessione sul bene e sul male di Anna Maria Ortese ne costituisce il suo canto più autentico e disperato.
Dolente splendore del vicolo presenta una messa a nudo della mutazione antropologica del vico; la guerra ha strappato gli abitanti dalla loro infantile innocenza, sia nel linguaggio ormai contaminato dall’inglese di liberatori e occupanti, sia nell’universo delle relazioni condannato dalla spietata ricerca di soldi, tanto per i poveri che per i più ricchi.
Questa mutazione è percepita dalla narrante attraverso l’assenza del canto: certo le persone non si parlano più ma, cosa ben peggiore, nessuno canta più. Eugenio Santillo, un piccolo delinquente e sua sorella sono i soli a resistere al frastuono del vicolo, alla mostruosità delle voci di quei miserabili. È il racconto di un dolore, di una giovane madre per la perdita del figlio, una processione infinita di Madonne toccate e accarezzate dalle puttane del quartiere, pronte a coprire di soldi la statua in cambio di un perdono. Nel finale, Anna Maria Ortese descrive l’irruzione, nel silenzio affamato del vicolo, di un’allegra brigata di giovani ubriachi e fintamente felici:

«a notte, quando già molte finestre si erano spente sulla vergogna o la solitudine delle anime, gruppi di giovani tra la vecchia e la nuova generazione, sazi e tuttavia inquieti, svegliavano il quartiere con una serie di canti che dovevano evocare la città di un tempo e dire la bellezza dell’amore puro. […] loro gridi scivolavano su muraglie cieche d’apatia, cadevano in pozzi di desolazione».

È quella felicità il male; l’inferno è l’indolenza, l’apatia, l’indifferenza. La vita senza aggettivi.

Le trompe-l’œil:un paio di calzini

In francese esiste un verbo antico per dire dolere, doloir. Il verbo latino dolere si declina nelle due forme del soffrire e far soffrire, ma anche deplorare, lamentarsi. Uno dei protagonisti del Cardillo, il padre di Elmina e sua sorella, ugualmente alte, impettite, belle e insopportabilmente mute, è guantaio. Doler les peaux, dicono i francesi per acconciare le pelli; c’è una ferita che brucia nella storia di Almina, una ferita che potrà salvarla. Una colpa originaria. Quel dolore è insopportabile ma con Anna Maria Ortese e le sue creature ne esploriamo l’insondabile mistero:

«“Credete, dunque, che il Cardillo nuoccia a chi lo ama?” con una cupa ansia che gli era nuova, il principe aveva chiesto ed è Ferrantina a rispondergli: “È così…Distrugge chi lo ama… Perché è la nostra memoria, signore…il desiderio dei giorni belli…i giorni impossibili, che tutti abbiamo incontrato…almeno una volta nella vita.” »

Ortese

Un interrogativo mi trascino dalla prima lettura di Il mare non bagna Napoli: perché Anna Maria Ortese decide di assassinare i suoi amici di un tempo in uno dei racconti che compongono questo capolavoro del Novecento, intitolato Il silenzio della ragione? Chiunque abbia dedicato una parte della propria vita alla creazione di una rivista letteraria sa bene quanto conti l’amicizia votata a una causa comune, la fedeltà all’idea. Del resto, le riviste chiudono non quando a mancare sono i soldi, ma quando viene a mancare quell’amicizia, insieme al sentimento condiviso di farcela anche senza il becco d’un quattrino. Le ragioni economiche vengono sempre evocate come causa maggiore ma è un’invenzione, una menzogna per quanto nobile.
Il racconto descrive la vita intellettuale, ma in realtà soprattutto la fine del sodalizio all’origine della rivista Sud, attraverso una sequenza di ritratti degli scrittori che avevano partecipato al miracolo su carta, quando carta in quel misero dopoguerra non ce n’era, una ricostruzione dell’idea di civiltà in mezzo alle macerie. Come viene suggerito dal titolo, Anna Maria Ortese traduce in letteratura la visione sconcertata di Goya. La galleria del reportage ha lo stesso tono grottesco e la contraddizione fondamento definita dalla doppia forza di creazione e distruzione si rivela particolarmente in due immagini.
Quando arriva nella casa di Domenico Rea la cronista nota i panni stesi sul balcone di fronte.

«Guardando in alto, vidi una fila di terrazzini bianchi, con delle cordelle tese da un muro all’altro, come già nella casa di Luigi, e da quelle pendevano un po’ di biancheria, dei calzini. Una goccia, che non era di pioggia, mi cadde su una mano. Era mezzogiorno, e non si sentiva un grido, una voce. Caddero altre gocce: era la biancheria.»

L’immagine del bucato steso al sole ritorna spesso nel racconto, per lo più associato alle idee di sole e colore. Eppure Napoleone l’aveva ben detto che il y a des histoires qui font que le linge sale ne doit se laver qu’en famille, anche se è a Napoli che la senti da piccolo la magica formula della felicità familiare: E panne spuorchee lavammo in famiglia.
Questa immagine gioca un ruolo importante nella scena che seguirà poco dopo e che dal punto di vista letterario è tra le più riuscite del racconto. Anna Maria Ortese entra nel palazzo dopo aver lanciato un ultimo sguardo alla balconata. Ha un momento di esitazione prima di suonare; sta per tornarsene indietro sui propri passi ma ci ripensa, decisa di proseguire questo suo viaggio nel passato. La sposa dello scrittore gli apre la porta e sullo sfondo scorge Domenico Rea “freddo e immobile” come un chiodo. Viene fatta accomodare in cucina dove stavano pranzando. C’è anche Vasco Pratolini e dopo un breve e distaccato scambio di battute sulla letteratura e sugli amici, si spostano nello studio per cominciare l’intervista. Tutto sembra svolgersi come da copione quando a un tratto il suo sguardo viene catturato da un dettaglio, del tutto insignificante. Rea non ha smesso di provocarla, di rimproverarla di non “amare il popolo”, come adesso che le si è seduta accanto:

«Sorrise. Un pensiero straordinario gli era passato per la mente e, senza più curarsi di Vasco, guardandomi sottecchi, cominciò a sfilarsi le scarpe, e mi spiava per vedere se questo fatto riusciva a turbarmi. Aveva certe calze di filo, azzurrine come i calzoni, macchiate di giallo in punta.
“Ti piacciono queste calze?”»

Anna Maria Ortese si limita a chiedergli quanto gli erano costate perché sa già che quanto è successo è impagabile, mettere nero su bianco quanto ha appena visto può più che bastare per consegnare la pagina ai posteri. Come giustamente ha scritto Raffaele La Capria in un articolo uscito nel 2008 in occasione della riedizione del Mare. (Il Corriere della Sera, 30 maggio 2008, Napoli alza la voce, ma l’Italia è sorda):

«Con lo stesso sguardo nel capitolo «Il silenzio della ragione» ella rivide i suoi amici d’una volta e li descrisse con sottile ma penetrante crudeltà, notando ogni loro difetto fisico e morale. Oggi si può dire che quello di Compagnone e quello di Rea sono i più bei ritratti della letteratura italiana contemporanea?»

Luigi Compagnone, Raffaele La Capria, Pasquale Prunas, Gianni Scognamiglio, (l’unico ad essere citato con il cognome della madre, Gaedkens) cadono sotto la penna dell’antica amica e gli antichi amici non glielo perdoneranno, non subito, non tutti.  Anche lei redattrice di Sud, che come spesso accade per le esperienze più avanguardistiche, i progetti visionari, rimarrà meno nota ai più del Politecnico, fabbricato a Milano e diretto da Elio Vittorini. Imperdonabile la sua violazione di domicilio e non solo dei corpi ma delle anime di tutta la città. Come ricordato dalla mia amica Renata Prunas, Anna Maria Ortese non tornerà a Napoli che molto tempo dopo e senza scalfire il muro che era stato eretto tra lei e Napoli.

Ma perché? La ragione forse è proprio in quel passaggio del Cardillo addolorato che abbiamo citato: distruggere chi si ama perché è la memoria dei “giorni felici”, di un’epoca che non esiste più.
Dovendo scegliere tra la narrazione indolente della spasa di panni lindi, bianchi, ai balconi e la calza ingiallita in punta dello scrittore, Anna Maria Ortese non ha avuto dubbi, su quale cosa concentrarsi, per fortuna, aggiungiamo noi.

Epilogo

Il vero nemico del dolore è il male; il male è la felicità che l’indolenza, come cultura o anche solo come carattere, assicura grazie a questo “non sentire” al dolore; sintomo di una malattia molto più grave della sofferenza perché è preludio della morte dell’anima. Bisogna credere alla letteratura quando al contrario si fa dolente, criminale, violenta, in tutto e per tutto colpevole. Scrittori come Anna Maria Ortese, Witold Gombrowicz sapevano fin troppo bene che soltanto la coscienza di essere allo stesso tempo vittime e persecutori poteva affrancarli da quella terribile condizione.

Soltanto il Dolore, l’unico, è in grado di unire attraverso il tempo e lo spazio, solo il Dolore riduce le generazioni ad un comune denominatore, ha scritto Witold Gombrowicz.

Ora guardo il posto lasciato vuoto sul mio autobus. E non posso fare a meno di pensare che i migliori libri sono quelli che appartengono a una letteratura da stato d’assedio. Una sedia passeggera.

Critical Màs : Gabriele Romeo

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LO STATO DELL’ARTE in conversazione con Gabriele Romeo

di Mirco Salvadori

 

Guardo il mio interlocutore mentre si appresta a raccontare il suo complicato ma gratificante percorso professionale nel mondo dell’arte e stranamente mi tornano alla mente le parole di una vecchia canzone dei Joy Division: Here, Everything is by design. Here, Everything is kept inside. So take a chance and step outside, Your hopes, your dreams, your paradise. Siamo fondalmente diversi, potremmo sembrare come i punk un tempo seduti sugli scalini della Fenice che scambiavano le proprie sigarette con i new romantic. Due figure apparentemente contrapposte, culturalmente e musicalmente diverse che in comune possedevano la volontà nel riuscire a cambiare quanto era prestabilito, osando quel salto che li avrebbe forse condotti a realizzare le loro speranze e i loro sogni.

La prima domanda che verrebbe spontanea a chi si trovasse seduto al tavolino di un bar con Gabriele Romeo, curatore, critico e storico dell’arte, sarebbe la classica: a che punto siamo, qual è lo stato dell’arte? Ma attendiamo alcuni passaggi, conosciamoci meglio. Usiamo questo intervallo sospeso per approfondire la nostra conoscenza e quella delle bollicine che giungono dalla Franciacorta. Partiamo da te e dal tuo importante e impegnativo ruolo come Presidente della sezione italiana dell’AICA (Associazione Internazionale dei Critici d’Arte).

Finalmente la sezione italiana di AICA è rinata! Adesso possiamo essere un coro di voci. È stato, e lo è tutt’ora un lungo processo. Nell’aprile dello scorso anno fui eletto a Parigi dai membri storici della sezione italiana alla guida e alla ricostruzione delle attività critiche e intellettuali della nostra categoria. Recentemente, abbiamo ritenuto opportuno, riscrivendone lo statuto, ricostituire l’associazione ufficiale, l’unica riconosciuta in Italia dalla casa madre parigina e abbiamo optato di denominarla “Nuova AICA Italia” per voltare pagina e adeguarci ai tempi.

Ho avuto il piacere di fare la tua conoscenza al Padiglione Italia, nel corso dell’ultima Biennale di Architettura, qui a Venezia. Sono sincero: ero pronto ad assistere alla classica performance del critico che espone il suo pensiero dispensandolo come altera verità, una certezza tra l’altro diffusa in un mondo che si professa intrusivo ma in realtà è assai chiuso e criptico, nei confronti del normale fruitore. Più si procedeva nel dialogo, più mi rendevo però conto che esisteva una sorta di legame che univa i nostri apparentemente lontani mondi, quello dell’arte e quello musicale. Era il bisogno di indipendenza. Torno quindi alla domanda iniziale riformulandola senza giri di parole e veli che la rendano più piacevole: come e cosa è il mondo italiano dell’arte visto da un addetto ai lavori? Esistono più realtà che operano nello stesso settore ma in contrapposizione? Come nel mondo musicale italiano (anche quello in teoria “indie”), ci si scontra con l’immobilità e l’arretratezza ideologica di una realtà saldamente ancorata all’esile pensiero mainstream?

E sì! È stato un incontro davvero formidabile, soprattutto per la grande attenzione sul concetto della Resilienza intercalato su diverse aree tematiche dell’architettura dal curatore del Padiglione Italia, Alessandro Melis. Tornando alle tue domande che si prefissano di avere una delimitazione – credo anche per una questione di spazio e per non annoiare il lettore – ti risponderò come segue:

L’arte è un campo vastissimo prodotto dallo scibile umano come eredità inalienabile. E non bastano per un critico scrupoloso una, due, tre, ed una infinità di vite, per cercare realmente di scoprire ed esplorare tutte le possibili interconnessioni fenomenologiche che legano l’artista al suo tempo.  Infatti, è proprio il tempo subordinato al suo contesto, cioè quello nel quale un determinato artista genera un’opera, che si apre e si rivela al fruitore il “prodotto artistico” assumendo, quest’ultimo, l’aspetto di forme mediali multisfaccettate. Per essere più chiaro, mettendo a confronto le Arti visive di due periodi storici differenti e contrapposti, da un lato l’arte fiamminga e dall’altra il Fluxus, noteremo come la prima sorregga la sonorità musicale enunciata indirettamente dentro la pittura di Hieronymus Bosch, ma non è udibile, semmai essa può essere deducibile; mentre la seconda – a noi più vicina come arco generazionale – con artisti quali Dick Higgins, George Maciunas, George Brecht, sia pervasa invece a tutto campo da relazioni sinestetiche, che attraversano l’esplorazione degli organi sensoriali, per dar sfogo alla concertazione tra la scrittura, la musica, la poesia visiva, il teatro e la performance.

Alziamo i calici in questa assolata fondamenta e brindiamo a chi molto ha significato per te: Gillo Dorfles. Amerei moltissimo entrare nel tuo ricordo legato a questa possente figura del pensiero filosofico e artistico, un Virgilio che ti ha accompagnato anche lungo le pagine del tuo ultimo libro di cui andremo a parlare in seguito.

Il mio primissimo ricordo legato a questa importantissima figura e testimonial indiscusso della nostra categoria, risale al 2003. Allora ero un giovane studente universitario, curioso e affamato – cicchetti a parte – di scoprire più cose possibili sugli aspetti semantici dell’arte. All’epoca ci fu un importante seminario per presentare, a Palermo, presso il dipartimento di Estetica, della Facoltà di Lettere e Filosofia, la riedizione del testo di Rudolf Arnheim intitolato “Arte e percezione visiva”. Dorfles, che ne aveva scritto la prefazione, celebrava lo  psicologo tedesco con un dibattito insieme agli studenti. Lo rividi molti anni più tardi, nel 2013, presso la sua abitazione a Milano. Conversare con lui, seduti sul suo divanetto rosso e circondato da opere di Carla Accardi con tutti quei manoscritti, mi diede molti stimoli.

L’Intervallo Sospeso – Connettoma Cronico Dell’Arte è il titolo del tuo volume uscito lo scorso anno per Mimesis. Un titolo che cita l’intervallo perduto di Dorfles aggiungendo però un riferimento alle connessioni del cervello umano e alla sua capacità di processarle. Un titolo complesso per un saggio scritto e pubblicato in un periodo altrettanto difficoltoso, lo stesso che sembra ispirare il tuo scritto: il tempo della pandemia.

Sì, è proprio vero! È stato un anno molto difficoltoso per tutti. Anche per il miei studenti. In quel periodo ho pensato cosa potessi fare, nel mio piccolo,  per dare un mio contributo alla società. Dalla mia ricerca personale è nato questo saggio forse per prendere io stesso consapevolezza di questa irruente trasformazione in diretta della cultura e delle espressioni artistiche che inarrestabilmente stavano mutando. Credendo, però, alla condivisione e ho ritenuto opportuno mettere insieme le mie impressioni su quanto avevo analizzato per seminarle “a parole mie” tra la gente.

Gli spunti che riesci a cogliere e che vanno a irradiare di dati le nostre connessioni di pensiero sono molti e in gran parte legati alla fruizione dell’arte da parte del semplice visitatore di museo, ora strana creatura virtuale capace di scivolare lungo gli schermi del proprio smartphone entrando nel digitale e superando la cornice che un tempo delimitava e definiva il confronto con l’opera d’arte.

Quando scrivo provo a mettermi sempre dalla parte del fruitore. Cerco di rispondere a delle probabili domande orientandole al futuro. Quest’occhio di discrezionalità e di neutralità credo debba essere fondamentale per chi intende esercitare la professione del critico.  C’è anche da dire che il campo visivo digitale, la finestra della pagina bianca dell’editor può essere, a volte, un’arma a doppio taglio per quanti devono comunicare con le parole per raccontare o semplicemente recensire una mostra piuttosto che un artista. Navigando e leggendo molti articoli scritti da critici freelance, da un lato infatti, si omettono molti particolari, ci si dimentica  spesso di includere le bibliografie e frequentemente, sembra andar di moda in maniera del tutto scorretta, eludere i riscontri scientifici delle fonti comparative che si analizzano sul campo.

A proposito di digitalizzazione museale, permettimi questa semplicistica definizione. So che si sta sviluppando sempre più, anche grazie o a causa della pandemia, questa modalità fino a poco tempo fa impensabile. I musei si visitano sempre di più attraverso un interfaccia digitale, lo schermo di un pc o di uno smartphone.

Questo comportamento esplorativo di cui parli “cioè dell’interfaccia digitale per far visita ai musei” già da tempo all’Estero è esplorato dagli internauti di ogni fascia d’età. L’Italia, così come tutto quello che riguarda i processi di digitalizzazione, è rimasta indietro per anni, le strutture museali – in particolare quelle amministrate da organi locali e periferici – fanno fatica a digitalizzare, inventariare il nostro immenso patrimonio culturale e in particolar modo quello custodito nell’interesse del pubblico. È come dire guardiamo i dati, Brexit a parte, sul sito web del V & A (Victoria and Albert Museum), all’interno sono reperibili e consultabili all’istante 1.2 milioni di oggetti della collezione qui.Un esempio totalmente opposto e del tutto italiano, tanto per giocare in casa a Venezia, lo troviamo invece sul sito web della Fondazione Musei Civici di Venezia. Nel quale un turista, o o un semplice studioso, non riesce ad avere la possibilità di reperire online informazioni sulle collezioni complete di Brustolon a Cà Rezzonico (Museo del Settecento Veneziano), piuttosto dell’entità specifica delle opere scultoree di Merardo Rosso conservate a Cà Pesaro (Galleria Internazionale d’Arte Moderna).

Controtendenza, assistiamo miracolosamente ad esempi d’eccellenza per la diffusione dei contenuti delle mostre canalizzate sul web. Ne sono modelli positivi le attività interattive e digitali portate in rassegna, grazie all’impegno della sua Direttrice,  Carolyn Christov-Bakargiev al Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, e certamente il funzionamento dell’efficentissimo Dipartimento Educativo – con interessantissimi approfondimenti scientifici e didattici – presso la Fondazione di Palazzo Strozzi a Firenze, struttura curata dalle competenze scientifiche di Arturo Galansino. In Italia la strada da percorrere in tale direzione è davvero molto lunga, e non credo che alla meta si possa arrivare in tempi brevi. Occorre molta più sensibilità e predisposizione ad ascoltare il rinnovamento della comunicazione.

Mi hai molto colpito quando dici: “In questo momento storico, l’arte ha bisogno di chi sa e di chi non ha paura di interfacciarsi con la tecnologia, con la posa di esposizione”.

Intendiamoci! Quando uso la seguente espressione “di chi sa” faccio riferimento al sapere universale e alla predisposizione che ha l’individuo (un artista visivo, un musicista , un critico, un curatore) di metterlo in campo, in azione, rendendolo in questo modo relativo – sapere pensante e dialettico – e non marcandolo con un valore assoluto. La tecnologia, ai nostri giorni, supporta le nuove modalità divulgative rivolte alla comunicazione e alla diffusione dei messaggi da storicizzare, rimpiazzando, ad esempio, quei supporti che furono impiegati tanti secoli fa dai nostri avi per tramandare la cronaca attraverso quelle splendide scritture apposte sugli antichi codici miniati, sulle Cinquecentine. Quando parlo di esposizione, non mi riferisco all’esibizione, bensì al coraggio che detiene “l’individuo autocritico” di argomentare varie tematiche tessendole come una ragnatela di connessione.

Portando un esempio indiretto, ma a mio avviso molto esplicativo, il grande Dubuffet afferma in una parte del suo testo “Asphyxiante culture” (1968):

“Niente svia più profondamente il pensiero del fatto di considerare le nozioni come forme fisse che si prestano a una definizione permanente, mentre non sono forme ma tendenze, orientamenti, la cui forma iniziale si modificherà incessantemente a mano a mano che muterà quella delle nozioni a cui si oppongono”.

Ho trovato estremamente interessante il capitolo dedicato alla Geek Colture, dove si cita una frase dell’ex amministratore delegato di Google, Eric Schmidt che dice: “Sappiamo dove siete. Sappiamo dove siete stati, Sappiamo più o meno a cosa state pensando“, parole queste che introducono il concetto di capitalismo di sorveglianza che tu sviluppi in modo esaustivo. Parlacene.

Mi è piaciuta molto l’analisi condotta dallo storico dell’arte Tony Godfrey, all’interno della pubblicazione edita nel 2020 da Einaudi, ed intitolata per la stampa italiana, L’arte contemporanea, Un panorama globale. Credo si tratti di uno dei più importanti manuali aggiornati su questa visione di trasformazione dell’arte ai tempi della sorveglianza controllata dai social media. Ne ho tratto sicuramente spunto per le mie indagini contenute nel mio saggio.

Il tempo dell’isolamento non è ancora terminato, si fatica anche solo pensare di poter visitare una mostra, un museo. La pandemia sembra aver azzerato le nostre capacità di movimento, di relazione interpersonale. Come accennavo prima, gli schermi dei nostri dispositivi si sono trasformati nei luoghi pubblici di incontro e visione. Cambia la modalità di fruizione e cambia anche la dimensione nella quale ci muoviamo. Due esempi hanno attratto la mia curiosità di semplice visitatore e fruitore di questi luoghi: la dimensione spaziale, come tu la chiami, rappresentata dall’opera presentata al Padiglione della Lituania e il Museo Aero Solar. Altre definizioni, forse innovative del vivere e cercare di comprendere il messaggio artistico. Uso impunemente il link del Museo Aero Solar, presentato alla 17a edizione della Mostra Internazionale di Architettura. Un link che mi invita ad affrontare il tema Biennale Arte di Venezia. Sono seduto in compagnia con un ottimo storico, critico, curatore d’arte e trovo quantomeno naturale ascoltare una sua valutazione sulla prossima 59a Esposizione Internazionale d’Arte, curata da Cecilia Alemani. Che gusto avrà il Latte dei Sogni e quale sarà l’unica Storia della Notte con il Destino delle Comete secondo Gabriele Romeo? Serviranno a creare, parafrasando il titolo di un capitolo del tuo ultimo libro, delle riflessioni sul nostro mondo in tumulto?

Innanzitutto, estendo il mio augurio ai curatori: Cecilia Alemani per la sezione generale della Biennale e a Eugenio Viola per l’Italia. Conoscendo molto bene la realtà è il patrimonio artistico della Biennale, penso sia opportuno ripensare a rimodulare con architetti creativi gli allestimenti dei singoli Padiglioni, cercando una connessione “centrale” per il coordinamento curatoriale tra le le partecipazioni internazionali dei rispettivi Stati. Credo, inoltre, che il Padiglione Venezia, ai Giardini, potrebbe divenire un luogo sperimentale per le arti applicate, mantenendo così fede alla mission della sua storica fondazione, nel 1932. Se un tempo, infatti, l’economia della città di Venezia risiedeva nel vetro di Murano, nei merletti di Burano, nei mosaici, oggi questi aspetti artistici vengono disattesi. Si potrebbe comunque pensare di creare al suo interno una sezione permanente con tipologie di prototipi ad hoc su categorie precedentemente enunciate con la consapevolezza di legare – in una revisione contemporanea da parte degli artisti ospitati –  le arti tradizionali a quelle innovative e tecnologiche. Ricordo ancora la Biennale Arte curata da Massimiliano Gioni. Quell’edizione con il “Palazzo Enciclopedico” fu fenomenale e ricca di contenuti. Per quanto concerne il concept o il tema che si intenderà affrontare con questa edizione potrebbe esserci il rischio, ma ancora non lo sappiamo concretamente, di avere troppi artisti rappresentati dalle Gallerie, con pochi critici militanti aperti alla critica fuori dai giochi, e in questo modo si adeguerebbero temi di facili portata alla vestizione dell’intera esposizione. E’ normale che io mi ponga questi ragionamenti pensando al grande ruolo sociale e politico svolto tra il 1974 e il 1978 dall’allora Presidente Carlo Ripa di Meana. Siamo passati, infatti dalle Biennali della Contestazione alle Biennali del qualunquismo. Ma questo non è colpa certo dell’Istituzione. Riallacciandomi alla conversazione iniziale, ci vuole davvero tanto coraggio, così come lo ebbe anche un’altro socio storico, nonché Segretario Generale di AICA Italia della prima stagione: Giovanni Carandente. A lui si deve presso la Biennale la costituzione dell’ASAC (Archivio storico per le arti contemporanee), e grazie alla sua formazione di storico dell’arte  e di conservatore, – svolgendo prima il ruolo di Soprintendente Venezia, e di Direttore della Sezione Arti Visive alla Biennale tra il 1988 e il 1990 – ha lasciato un segno indelebile alla memoria dell’arte, pensando lui stesso grazie al suo nobile gesto preventivamente al futuro dei giovani studenti e ricercatori.

Due domande secche, giusto per finire questo DOCG che molto ci ha tenuto compagnia nel corso della bella conversazione. Alla luce di quanto successo dal post lockdown fino ad ora, ha ancora senso il famoso invito della Abramovich al popolo italiano duramente colpito dal COVID. Un invito alla cooperazione tra simili, alla fratellanza nella speranza per un cambiamento della coscienza umana? E per ultimo: l’arte è un salvavita?

Accendo la risposta! E’ affermativa! Abbiamo la necessità di cooperare in sinergia, anche negli scontri vernacolari e dialettici che apparentemente separano, il lavoro del critico da quello del curatore, il pensiero dell’artista, dall’intercettazione del fruitore. In questi casi basta pensare a quattro fratelli che litigano, si prendono a parole per futili incomprensioni e poi si riappacificano, perché si vogliono bene.

Credo che in questo campo, e non soltanto in questo,  urge la necessità di condividere momenti, dialogare, parlare, pensare con la propria testa. In un mondo perfetto bisognerebbe ripudiare le invide le gelosie, i pressappochismi,  ma aprendo gli occhi ci accorgiamo che viviamo una realtà imperfetta, perché l’essere umano è imperfetto. L’Arte è uno strumento che può in questi casi dare sollievo alle nostre imperfezioni di insicurezza, vivendo e manifestandosi in contatto tra la gente per tentare – anche un pochino – di edificare una integrazione migliore tra la società e l’estetica contemporanea a “misura dei generi”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Giorgio Ghiotti, “Biglietti prima di andare”

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E’ uscita presso l’editore  Ensemble una raccolta di poesie di Giorgio Ghiotti, ne pubblichiamo una piccola scelta:

Gli anni

Vorrei dire della pura gioia che mi prende nel sapere una luce abitata, lucernario
o abbaino, sottotetto che indovino
e quantifico in immagini un tempo amate –

il taglio della mimosa dentro un cartoccio dipinto, il passaggio della stella incendiaria
sopra il nero estivo del mare, persiane spalancate – ma chi le chiama più persiane oggi
col nome ventoso di quel vago oriente –
i benzinai mangiati dalle erbacce come certi
corpi dalla vita – fosse semplice dire vita,
corpi, e avere intera l’esistenza sulle labbra resistendo agli anni nostri, prossimi, lontani.

Anni! li chiamo da una sera acquitrinosa, Io vi dispongo nudi immemori stanziali a concimare di favole il mio tramonto.

Mia realtà scomparsa, io nuoto in te come una pianta antica col mio corpo ingannato d’anni ti risalgo
spinto da un bisogno che mi ingigantisce.

 

 

 

Cartolina

È un vasto rimpianto
a spingere il viaggio più in là:
da un lato Parigi, di qua
s’inazzurra d’accanto la costa
in una colata di rocce e spiagge ventose. Cucinerò qualcosa per pranzo
mentre guardo l’oceano e ti penso.
È il primo cielo d’aprile,
incerto come una sposa.
L’Atlantico cela specchiante i tuoi occhi (ed è mareggiata, come quando sorprendendoti irosa
intendevo guai in vista
in un sottofondo di quiete),
quel largo respiro che
mi spaventa
e mi mette una sete del mondo.

 

 

 

 

 

Proposito

E sia stavolta con forza di preghiera:
mai più aspettare che tornino le notti
a bordo fiume, sbronzi pronti a credere qualunque sua parola, la rabbia vera
che riaccendeva il sangue, che scendeva
da nome a nome e tutti i nomi in uno.
Tutti li ho amati, e non ne ho amato alcuno.

 

Indizi terrestri

È la scuola della gioia, la scuola del pianto.
Non lo sapevo io – non ero pronto – eppure
a camminare si cammina, perdendosi per casa, lasciando in giro tracce – un posacenere,
un libro aperto a pagina * – indizi terrestri.
La panca la ricordo al centro del giardino
ma la città qual era? E avevo voglia di piangere leggendo il giornale, innocuo passatempo
al piombo. La storia mi ha raggiunto anche là,
tra la cronaca, l’economia, lo sport…
C’era una commozione nell’aria, dentro la stagione, la foto in bianco e nero a bordo pagina,
la gente così bella nei suoi affari, così bella vi dico quasi trasparente. Vi amo tutti, indistintamente,
e grazie per il sogno che è stato vivere. Contrattempi, afasie comprese.

 

Arriva un carico di maiali

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di Filippo Polenchi

Arriva un carico di maiali. Chi sono gli occhi che guardano? Occhi della non-appartenenza, occhi senza volto, buttati nel letame, reclamati dagli scarti, per farne biglie e bigiotteria. Le carovane della nutrizione, a 2 euro di cauzione per carrello, attraversano le esposizioni di nature morte; composizioni spettacolari di cibo che non esiste. Quello che facciamo sono descrizioni di descrizioni, sguardi su oggetti creati per l’occhio più che per il cibo. Il banco frigo che attende il carico è una composizione floreale; è lo show della longevità.

Arriva un carico di pollame nella giornata di mercurio bituminoso, dove ogni morte tace per non aggravarsi in disperazione. Sono nuvole di piume, aguzzi bargigli abbandonati nel regno degli scarti, nelle feritoie degli scarichi, di nuovo nella merda. Aspettano il carico di polli le strutture lucide e verticali della grande distribuzione organizzata. Nei capannoni freddi, scuoiati dalla disposizione delle persone all’amore – spellate lì, quelle persone, dal bisogno, dalla garrota dei debiti, dopo il viaggio oscuro dentro i confini dei confini, nell’indistinta nebbia delle tracce perdute, le proprie e quelle della propria gente – dove la musica è però la stessa che i clienti ascolteranno nel loro trip al supermercato. Il prefisso «iper». La sovrumana versificazione orfica dei padiglioni del post-macello. Anche qui sono occhi senza cranio, enucleati. Gli operai attendono con giubbotti termici, nella fredda oscurità dei padiglioni ambrati di neon. Fuori il giorno è inaccessibile: ogni scrutinio climaterico è bandito, porta germi, sensazioni organiche. Degli uomini che lavorano in quelle cupole non sappiamo niente, non riusciamo a vedere.

Arriva un carico di manzo. Porta con sé il dolore mammario, l’estirpazione filiale. La cosa più vicina allo squartamento d’una croce: nei segni levigati delle lame, delle catene, dei nastri trasportatori si annidano, incapsulate in sacche virulente, le storie di bestie scelte per la macellazione. Ma sono storie lontane: ora che l’interezza del corpo non c’è più è possibile perdersi in frantumi. È possibile, ora, darsi all’ozio della non-interezza. Chi guarda questo carico che arriva, oltre alle solite telecamere di sorveglianza? Chi assiste, in persona, all’evento? A chi possiamo chiedere cosa sta accadendo, dove sono condotti i pezzi di carne per farne macinato, fette scelte, per allungare la pappa cronologica della separazione dalla madre. Il seno della madre. Le bocce infanti dei vitelli uccisi. Il loro essere lì, per noi. Gli occhi che guarderanno, chi mai saranno, dovranno dire di essere i destinatari divini dell’ecatombe. La salvazione divinata in un codice a barre, estrapolata dalla lunga e fumante linea conservativa di bestie covate nel culto della morte. Nutrite per la morte, per la vita. S’incendiano le vie del pensiero che portano agli esemplari d’infante, che si fronteggiano: si guardano nella reciproca inconsapevolezza. Sono due bambini, d’altre specie. Sono l’umano e il non-umano, la mutazione dell’uno nella covata dell’altro. Si sorvegliano dalle placente invisibili della Terra, nella crosta morbida che li contiene e li separa, che li pone a distanze d’anni luce, che pure buca l’humus cosmico per lasciare che quegli sguardi, che le tracce disposte e separate di fotoni giungano da un occhio all’altro. Cosa hanno da dirsi? La reciproca vicinanza? La distanza indifferente della mitosi biografica, che ha costretto l’uno in una privazione estrema di cura, d’amore, di biologico accesso di nutrizione e l’altro l’ha proiettato in una culla soffice di bambagia e sguardi, attenzioni. Scatta il relè del nervo ottico per impedire l’intrusione nelle camere di morte, nei mucchi di carne macellata esposta alla paura dei morituri, nella mescolanza di acciaio, grasso per motori, olio, lame rotanti impiastricciate di sangue rappreso, bolliture, scuoiature, seghe.

E questa mattina, nell’esposizione totale di cibo che sembra imbalsamato, come quei papi che vengono esposti ai baci dei pellegrini, di gente che viene dai deserti del mondo solo per un bacio, emerge un uomo. È il sacro del cibo, la nutrizione elevata a monumento, il nostro pane quotidiano ritornato carne e fattosi pesce. È tutto quello che rivive a 4 gradi Celsius, un esperimento d’alchimia che si ripete giorno dopo giorno. Come il corpo ibernato di Walt Disney. Nei sarcofagi della grande distribuzione, tra neon rosa-azzurrini, dove vanno alla deriva pezzi d’animali e verdure, tra horror estremo e oggetti coreografici, guarnizioni da tavola e da musical, balletti colorati di pomodori e verdure, ecatombi bestiali risorge un uomo. È stato carne incidentata, guasta, triturata e danneggiata: è stata la «tragica fatalità» di qualche mese prima, di qualche anno prima, dimenticato: proviene dalla filiera corta dei passi lungo il limes della libertà. Ha solcato le strade bianche e boscose, ha traversato i segni intangibili della sorveglianza nel gelo e nei container. Ha lavorato con i guanti, gli stivali, le tute e le cannule per irrigare i fiumi di sangue animale e poi è caduto, insieme alla carne da macello, nel macello, nel mattatoio, nella triturazione h24 ed è stato fatto hamburger alle erbette, wurstel di puro suino, animelle e frattaglie.

Ma ora il corpo soggiace alla forza gravitazionale del proprio ri-aggregarsi. Le membra ricompaiono linde, mondate dal cellophane e dalla condensa del freon. Risale dalla cripta trasparente al centro della sala piastrellata, in mezzo alla spesa del sabato mattina, riflesso negli occhi dei padri con i bimbi nei carrelli. Ha il corpo brunito e nudo, quasi glabro eccetto una piccola macchia di peluria, come pigmento, sul torace. Ha una rada barba sulle gote e sotto il naso, i capelli neri, le sopracciglia sottili. È completamente nudo, viene a portare in tournée il miracolo portatile della propria risurrezione, nell’invisibile teatro che ricompone l’infranto.

Ida Travi: Muscèt parla col cane

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«Se lavorate per il presente il vostro lavoro resterà insignificante.»

Muscèt parla col cane, il “libro che s’era perduto” di Ida Travi è nuovo titolo dei Cervi Volanti, la collana di scritture poetiche che curo insieme a Giuditta Chiaraluce all’interno del progetto Edizioni Volatili.

«Libri come laboratori, primi confronti, materie pensanti, montaggi e scavi attraverso la carta; libri senza profitto, in tiratura limitata, consegnati interamente agli autori e alle autrici, che ne gestiscono liberamente il transito (esoeditoria); libri evidenti nella loro invisibilità, indirizzati a chi saprà ospitarne l’implicita consegna; libri col solo intento di essere vigilie per una geografia del dopo-diluvio.»

Pubblico qui alcune pagine in anteprima. Le partiture visive e i segnalibri sono di Giuditta Chiaraluce.

( i cugini del secolo scorso )

I cugini del secolo scorso, i tuoi, i miei cugini

e noi stessi dormiamo ancora all’ombra della pietra

come se fosse questo il sogno, come se fosse

ancora saldo il tetto della casa

 

– va’, dillo al bambino –

 

La grata si alzerà come una fiamma

per Zet, per Ur, per Van e anche Katarina

per tutti gli avi, per i discendenti

 

Un giorno il bambino si alzerà da terra

e nel buio parlerà: voi avi, voi discendenti

su per la scala, su.

 

***

 

(  la vecchia è entrata )

 

 La vecchia è entrata

mi ha fatto la lezione:

 

sette giri fa il tempo quando torna a casa

sette le mani che aprono la porta

 

sette sono i secoli, sette i millenni

sette sono i giorni, qui nell’acqua, qui nel fuoco

 

noi dormiamo sulla branda

– contro il muro – siamo in tre

 

io sono Muscèt, e tu sei il cane

e lui è il bambino, poveretto, poveretto…

 

 

( io rifiutavo )

 

Io rifiutavo l’insegnamento, Rot

perché volevo parlare con i morti

volevo solo parlare con la ruggine

 

Questa è la casa del morto

  • diceva la ruggine –

questa è la casa del tempestato

 

Avevo la chiave in tasca, è vero

tenevo allacciato il grembiule, è vero

tenevo le mani sopra la testa

così si vedeva la penitenza

 

Sono Muscèt, – dicevo – sarò Muscèt

fino alla prossima era

fino a quando scenderanno le valanghe

e i morti finalmente torneranno qui

a riprendersi la pala, che nera, Rot

la pala, com’è nera…

 

 

 

La salvezza non viene dalla Storia

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di Davide Orecchio

ACHILLE
Meglio quel tempo che non c’era l’Ade. Allora andavamo tra boschi e torrenti e, lavato il sudore, eravamo ragazzi. Allora ogni gesto, ogni cenno era un gioco. Eravamo ricordo e nessuno sapeva. Avevamo del coraggio? Non so. Non importa. So che sul monte del centauro era l’estate, era l’inverno, era tutta la vita. Eravamo immortali.

PATROCLO
Ma poi venne il peggio. Venne il rischio e la morte. E allora noi fummo guerrieri.

[…]

EDIPO
E la mia febbre è il mio destino – il timore, l’orrore perenne di compiere proprio la cosa saputa.

Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò

Io, figuriamoci, io, non so come né quando finirà questa terribile guerra, non ho idea di come alleviare le sofferenze che gli ucraini, invasi dai russi, patiscono, sono del tutto impotente, sono impotente persino di fronte alla fragilità di una signora ucraina che, al mio fianco, alla manifestazione per la pace di Roma, non smette di piangere, piange più forte delle parole pronunciate dal palco, più forte degli appelli al diritto e alla pace, più forte degli slogan contro Putin o contro la Nato, piange con tutta la forza che le offre il corpo, piange contro la guerra e contro la storia, eppure è inerme mentre un imbecille, col proprio smartphone, la fotografa.

Ma un’idea, ed entriamo nella seconda settimana dall’aggressione di Putin, me la sto facendo, e voi penserete che è un’idea sbagliata ma io, anche se è un’idea sbagliata, preferisco non tenerla per me, perché riguarda le parole che usiamo, i concetti che adoperiamo, la Storia che invochiamo di continuo per illustrare moventi, modelli, comportamenti, la storia peggiore, quella barbarica del secolo che abbiamo alle spalle, la storia delle guerre totali che adesso interroghiamo per trovare risposte, o che evochiamo con la leggerezza di apprendisti stregoni. 

Putin, calpestando ogni principio di civiltà, diritto e buon senso, ha aggredito l’Ucraina. I soldati muoiono, i civili muoiono, muoiono i bambini sotto i mortai. E intanto, le parole che scandiscono azioni e interpretazioni emergono da un lessico troppo inquietante. Pare che molti vogliano rivivere il peggiore dei mondi di ieri, o che siano talmente spaventati dal suo ritorno da, senza accorgersi, già aprirgli le porte: con le parole.

Putin ha detto di voler “denazificare” l’Ucraina, ha dichiarato guerra con questo slogan, precipitandoci nel 1945. Poi il “discorso” è proseguito. Titoli di giornali hanno evocato lo spettro di “un’altra Stalingrado” per l’assedio di Kiev, o il fallimento del “Blitzkrieg dei russi”. Analisti e storici hanno messo in guardia dal sottovalutare Putin, agitando analogie con l’Hitler degli anni Trenta, prima dell’epifania sterminatrice del Führer. Ma chi mai lo sottovaluta, Putin?, vorrei sapere, chi mai lo sottovaluta?

Politici e persone comuni hanno motivato l’armamento dell’Ucraina, approvato dai principali Parlamenti europei, evocando la Resistenza e i partigiani della Seconda guerra mondiale. 

E poi, un po’ di Churchill qui, un po’ di Chamberlain lì… 

È una guerra che si muove, e viene raccontata, come sotto dettato della storia. La storia detta le analisi, le virtù alle quali ispirarsi, le accuse reciproche. “Sei tu il nazista”. “No, il nazista sei tu”. Nessun villain sembra credibile, se non indossa una casacca del secolo scorso. È inevitabile? Mi risponderete che sì, è inevitabile, perché c’è l’Europa di mezzo, continente conformato sul sedimento di guerre e di morte.

Mi risponderete (e vi darò ragione) che, per capire il conflitto tra Russia e Ucraina, devi interrogare la storia che le accomuna e divide, dalla Rus’ di Kiev all’impero degli zar, dalle carestie ucraine degli anni Venti alla collettivizzazione forzata di Stalin, dal crollo dell’impero sovietico a oggi.

Mi risponderete che è una guerra tra eredi, una maledizione e non esistono altre parole per dirla. Ma, se queste parole sono inevitabili, vi rispondo io, allora siamo fregati, perché la fine è nota. 

Ecco, la mia idea è che, se continuiamo così, finirà molto male. Perché opereremo resurrezioni che solo i pazzi e i violenti desiderano. Riporteremo in vita il peggiore Frankenstein novecentesco. Accetteremo, agiremo e poi subiremo una storia di guerre che si vogliono ripetere. Allora si avvererà quanto scritto in quel libro bello e profetico, Cronorifugio di Georgi Gospodinov, e – mi ripeto – saremo tutti fregati. È esattamente il programma di Putin. Ma può essere il nostro?

L’uso delle parole, l’uso della storia… Lo so che può apparire un tema irrilevante dinanzi ai massacri quotidiani, alla carneficina da Mariupol a Kiev, e se così vi sembra vi chiedo scusa, e chiedo perdono a chi sta soffrendo. Eppure non riesco a togliermi dalla testa che, se dici “Hitler”, un giorno avrai Hitler, e se dici “guerra mondiale”, un giorno l’avrai. 

Non è che dobbiamo dimenticare la storia, fare finta che non ci sia stata, ignorarla o lenirne il ricordo come un brutto incubo. Sarebbe un errore anche più grave, per carità. Ma non possiamo nemmeno riesumarla, individuandone presunti pattern che assomigliano a destini ineluttabili. Non possiamo parlare solo con le parole di ieri. Quelle sono parole di tenebra e di morte. Dobbiamo ostinatamente cercare qualcosa di nuovo, per la salvezza dell’Ucraina, per la pace in Ucraina e per tutti noi. La soluzione appunto, la pace, la difesa di nuovi princìpi, il diritto alla vita, il diritto a non essere aggrediti, l’abrogazione della guerra, la diplomazia dei negoziati, qualcosa che si incarni in nuove parole, perché forse può ancora nascere un mondo nuovo, forse possono finire le repliche in tragedia, non in farsa, del vecchio mondo.

Guardate: la storia non insegna nulla a nessuno. Ma certo, se orienti le tue azioni nel presente, e le tue interpretazioni del presente, cercando ossessivamente modelli di comportamento nel passato, non sei tanto condannato per destino a ripetere la storia, quanto è tua intenzione precisa riviverla. È questo è troppo. Questo è il fallimento di un’umanità. Questo è colpevole.

In tempi di guerra la storia può essere cattiva maestra. Può essere deposito radioattivo di crimini e di paura, zona oscura, sentimento del passato che induce a scelte sbagliate. È avvenuto spesso, nel corso di grandi crisi e fratture storiche, che i protagonisti guardassero indietro a eventi simili, angosciati dal timore di ripetere errori di altri, e, quasi senza accorgersene, proprio in ragione di questa angoscia e di questa ossessione, che cedessero a una pulsione di replica, e che quegli errori li ripetessero. 

La storia è piena di linee Maginot e di accuse di bonapartismo.

Ma io non voglio che rinasca il mondo di ieri. Voglio un mondo nuovo che conosca la storia e, proprio per questo, se ne liberi.

Ammette la grande scrittrice Svetlana Aleksievič in una bella intervista al Corriere: “I miei libri si ostinano a non voler diventare storia. (…) La Russia torna sui suoi passi, cammina facendo dei giri”. 

Come fai ad aggiustare un mondo in guerra che “cammina facendo dei giri”? Se potessi saperlo, se solo potessi, ma non lo so, non lo so. Ma comincerò per quanto posso dalle parole; forse sono armi meno spuntate di quanto si creda.

Non riduciamoci di nuovo a schiavi del passato, una volta di troppo. Non pronunciamone le parole malate. Pretendiamo una storia nuova e diversa. La pace. La vita. E parole nuove per dirle.

Leòn – Anna Voltaggio

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Leòn

racconto inedito di Anna Voltaggio

Leòn si era svegliato con un terribile mal di denti e con la testa umida per il freddo. Era da circa un anno che prima uno, poi un altro, i denti avevano iniziato a guastarsi.

Non avendo medici di riferimento, un giorno aveva cercato su google “dentisti economici Milano” e trovato il numero del dott. Cognetti che alla prima visita gli era sembrato affidabile, così aveva iniziato con lui la cura.

Il termostato di casa segnava 13 gradi, e mentre tirava il piumone fino al mento e si alitava addosso, pensò che il mal di denti doveva essere iniziato durante la notte perché sentiva tutto un malessere depositato e ricordava un sogno veramente inquietante.

Nel sogno, una donna molto bella, con i capelli raccolti e un seno grande lo accarezzava con la dolcezza di una madre e gli parlava in un orecchio con una lingua sconosciuta e indecifrabile. Quelle carezze che in un primo momento lo avevano intorpidito diventavano poi più misteriose e intime, tanto da eccitarlo e accorciargli il respiro. A un certo punto la donna scioglieva i suoi capelli rossi, capelli folti e morbidi che gli erano sembrati una cascata di miele, tanto lunghi che finivano a toccare il pavimento, così che lui, sdraiato sulla chaise longue, cercava di non rimanerci impigliato mentre tentava di trovare la cerniera del vestito. Poi le braccia e anche le gambe di quella donna fatata diventavano sempre più lunghe, lunghe come i capelli, e l’abbraccio che lo eccitava si trasformava in una morsa dolorosa e insopportabile, lo avvinghiava fino a immobilizzarlo stringendo così violentemente che Leòn sentiva i suoi organi comprimersi e infine, il respiro fermarsi.

Si mise a cercare una bustina di oki nel fondo della borsa, sciolse il medicinale sotto la lingua e ripiombò sul letto pensando che avrebbe voluto chiamare Rachele e pregarla di tornare. Subito dopo avvertì in quell’idea un senso di catastrofe definitiva, e lasciò stare.

Alle 10 del mattino, a pancia sotto e con la guancia schiacciata sul cuscino per alleviare il dolore, Leòn non aveva ancora aperto le persiane e il freddo trattenuto dai muri della sua casa a piano terra e senza riscaldamento lo faceva sentire terribilmente solo.

Quella tana in cui viveva era il meglio che poteva permettersi. A Leòn, che si adattava bene, non dispiaceva neanche troppo, se non fosse stato per il freddo aguzzo.

Nei giorni in cui si metteva a fare bilanci si sentiva più vittima che colpevole. Si era occupato della sua vita semplicemente vivendola, senza essere rapace ma anche senza essere, in fin dei conti, uno sprovveduto.

Non era nato nella povertà e non era stato neanche particolarmente maldestro nella gestione economica,

Aveva studiato per un po’, frequentato i centri sociali e poi gli ambienti stimolanti della media borghesia colta. Non aveva preso la laurea ma aveva seguito i corsi di una scuola di scrittura con la vaga idea di voler diventare scrittore.

Alla fine aveva trovato uno spazio onorevole come collaboratore di diverse testate giornalistiche. I suoi pezzi venivano pagati puntualmente e apprezzati dai direttori. Da un certo momento qualcosa era cambiato senza che si potesse fare niente; gli articoli che proponeva rimanevano senza risposta, le riviste con cui era più assiduo rimandavano alla prossima volta, le testate più piccole fallivano e si portavano nel fallimento pure i soldi di Leòn.

Dopo qualche mese che le risorse erano esaurite aveva smesso di pagare l’affitto del suo appartamento al terzo piano in via dei Transiti, accampando una scusa dopo l’altra e chiedendo prestiti alle agenzie di credito, finché un giorno era arrivato esecutivo l’ordine di sfratto.

Per attutire il colpo sua madre pagò gli arretrati ma gli aveva sottolineato, educatamente, che la pensione non avrebbe sostentato entrambi.

Leòn cominciò a vivere di lavoretti saltuari che spaziavano dalla correzione di bozze al montaggio dei palchi per i concerti, quando lo chiamava qualche amico che bazzicava l’ambiente.

Il fatto più penoso era stato vedere i suoi colleghi rimanere a galla, tanto da non capire se il problema fosse la crisi economica, i tempi nuovi, oppure se, semplicemente, non scriveva più niente di interessante.

Per qualche ragione Leòn faceva coincidere il momento in cui aveva iniziato a precipitare all’arrivo di Rachele nella sua vita. Per lui Rachele rappresentava la linea tra un prima e un dopo.

– Buongiorno, scusi l’urgenza. Ho un dolore fortissimo, credo a un molare. Ha modo di inserirmi in giornata?

– Buongiorno Leòn, venga a mezzogiorno.

Fece un respiro profondo per trovare la forza di tirarsi su.

Usò il solito trucco e si fece venire in mente Henry Miller che per metà della sua vita aveva arrancato senza un soldo, Edgar Allan Poe morto di stenti nella solitudine più cupa. Così in compagnia si sollevava l’umore.

Come chiunque scrive Leòn aveva il vizio dello sguardo e sul tram numero 3 che lo portava verso lo studio del dentista osservava due ragazze che avevano marinato la scuola e consultavano il cellulare. Non c’era neanche una traccia di sofferenza nei loro occhi, avevano le unghie colorate e appuntite per gioco.

Avrebbe voluto dire loro di stare attente, di non perdersi di vista, che basta un attimo e tutto evapora.

Dopo questo pensiero si era sentito davvero patetico, così aveva spostato lo sguardo e trovato un vecchio signore dall’aspetto stravagante seduto da solo in fondo al tram. Indossava un completo bianco con il fazzoletto damascato che sporgeva dal taschino, una mano reggeva il bastone di legno col pomello in argento. Pensò che fosse talmente fuori contesto che gli venne il dubbio di vederlo solo lui.

Arrivò in via dei Caroncelli 66.

Davanti al portone accese una sigaretta e seguì la spirale di fumo nell’aria, fin dove si vedeva. Lo sguardo rivolto verso l’alto si accorse di un gatto nero appollaiato sul davanzale della finestra con la coda che dondolava lenta nel vuoto, il gatto schiuse per un attimo gli occhi e fissò Leòn.

Il dentista, Miro Cognetti, lavorava ai piani bassi di un palazzo signorile. Una volta entrati dal portone, anziché prendere l’ascensore, si dovevano scendere due rampe delle scale collocate dietro il gabbiotto della portiera. La portiera era la signora Corvino e in effetti ricordava un corvo, con i capelli lisci e molto unti, tinti di un nero innaturale, il naso aquilino e lo sguardo sempre sospettoso, come se chiunque varcasse la soglia potesse essere un potenziale pericolo.

Leòn sperava sempre di non incontrarla, ma la signora Corvino se anche non era seduta oltre il vetro del gabbiotto, spuntava da dietro una colonna o se ne stava in cima alle scale come di vedetta.

– Buongiorno

– Dove deve andare?

– Dal dottor Cognetti, ci vediamo ogni mese – disse Leòn sorridendo nel tentativo di instaurare un rapporto più rassicurante

– Deve scendere di sotto, per due rampe, poi in fondo al corridoio

– A destra? – chiese con stizza

– A sinistra.

Mentre scendeva le scale si liberò della giacca perché lo sbalzo di temperatura tra l’esterno e l’interno era quasi insopportabile. La targhetta sulla porta riportava la scritta secca dott. Miro Cognetti

Leòn suonò il campanello.

Si era fatto l’idea che Cognetti avesse pressappoco la sua stessa età o comunque non sopra i cinquanta. Lo aveva sempre visto in camice e con la mascherina chirurgica tanto che per strada non lo avrebbe riconosciuto, ma la sua voce nitida, quasi vellutata, a Leòn suonava sempre confortante e familiare.

L’odore di disinfettante prendeva tutto il corridoio.

Nonostante non provasse un piacere particolare nell’andare dal dentista doveva ammettere che lì si sentiva al riparo dal resto della sua vita. Una specie di sottomondo in cui il tempo era sospeso per un’ora o due, che in certi casi secondo Leòn, era sufficiente.

Ancora sul pianerottolo gli venne in mente un ricordo sollecitato da quell’esalazione di medicinale intensa e probabilmente a base di chiodi di garofano. Nel suo ricordo, Rachele sta preparando una zuppa. Lui è in piedi nel salotto e cerca un cd dei velvet underground perché gli piace sentirla cantare con la voce di Nico. A un certo punto Rachele gli fa una domanda strana:

– Se ti chiedessero di vendere l’anima per ottenere quello che vuoi nella vita, lo faresti?

– Vendere l’anima a chi? Al diavolo?

– Eh, al diavolo.

– Non sono sicuro che la mia anima varrebbe tanto

– Dico davvero. Lo faresti?

– Direi di no.

– Se ti chiedessi di venire in un posto con me, un posto dove c’è gente che venderebbe l’anima al diavolo, ci verresti?

– Che posto?

– Un posto di perdizione.

– Perché vorresti andare in un posto del genere?

– Ho paura che altrimenti non riusciremo ad essere felici – dice. E poi si avvicina finché i loro corpi non combaciano.

Leòn fa una risatina nervosa.

– Ma poi ne usciremmo vivi e con l’anima?

– Dipende da noi.

Leòn capisce con chiarezza quello che Rachele sta dicendo. Le prende una mano e intreccia le dita alle sue.

– Con te potrei fare qualsiasi cosa – dice.

Il dottor Cognetti aprì la porta.

Era nella sua solita divisa bianca, i guanti in lattice e la mascherina che gli copriva metà del viso, i suoi occhi piccoli e allungati di un colore indefinito tra il marrone e il grigio, le sopracciglia che sembravano disegnate da un pittore fiammingo.

– Mi dia dieci minuti Leòn e la faccio entrare.

Leòn lo guardò percorrere il corridoio e sparire nella stanza in fondo.

La sala d’attesa era piccola e i termosifoni sovradimensionati, il caldo gli sembrò malsano e gli fece sentire il bisogno di acqua fresca. Aveva sempre trovato bizzarro che al posto delle pubblicità sui denti sani o i dentifrici, nello studio di Miro Cognetti erano appese stampe di fumetti storici degli anni ’70 e ’80.

Valentina di Guido Crepax occupava lo spazio maggiore, in primo piano nei riquadri, dettagli di lei, le labbra, i capelli, un ginocchio. Di fronte, un manifesto di Ranxerox che tiene stretta al fianco la sua piccola e tossica, Lubna. Da quella posizione non si vedeva ma verso la fine del corridoio c’era anche una tavola di Moebius.

Il cellulare, due piani sottoterra, non prendeva e non c’era nessuna rivista da sfogliare.

Leòn si alzò dalla poltroncina e cominciò a passeggiare nei pochi metri quadri a disposizione. Nessun altro paziente in attesa, nessuna segretaria al telefono. Leòn fece caso, per la prima volta, che nello studio dentistico di Cognetti non aveva mai incrociato anima viva a parte Cognetti stesso.

Pensò che probabilmente era per questo che le sue tariffe restavano tanto economiche.

Continuò a camminare avanti e indietro fino a spingersi, dopo un po’, all’inizio del corridoio dove a destra era piazzata una libreria semivuota, con qualche bigliettino da visita su uno scaffale e alcuni raccoglitori che riportavano l’etichetta con l’anno in corso.

Leòn fissò l’attenzione su un particolare che non aveva mai notato prima, una piccola teca incastonata in fondo a uno dei ripiani che incorniciava il primo numero di un vecchio fumetto di Milo Manara, Il gioco, che lui comprava quando era un ragazzo.

Il dente stava ricominciando a pulsare e Leòn sentiva il dolore arrivare fino all’orecchio e all’occhio sinistro. Pensò alla notte in cui andarono alla festa. Aveva lo stesso identico dolore ai denti e per smorzarlo, prima di uscire, aveva bevuto troppa vodka.

La guardò salire in macchina, il vestito era elegante e così corto che si vedeva il pizzo delle autoreggenti quando era seduta, lo eccitava vederla accanto a sé, preparata per un’iniziazione.

In macchina si erano baciati a lungo, carichi di un’euforia luminosa e ferina, lei disse che quell’esperienza li avrebbe uniti definitivamente, e poi aggiunse:

– È un gioco molto serio.

– Sei la donna che aspettavo da sempre – aveva detto lui.

Aprì la porta un uomo alto, che doveva essere il padrone di casa perché disse che era felice che avessero accettato l’invito. Indossava un completo bianco e una maschera nera che copriva metà del viso. Leòn lo trovò eccessivo ma non ebbe il tempo di pensarci troppo.

Rachele era entrata come se non fosse particolarmente intimidita e sulla porta si erano guardati con un sorriso pieno d’amore e d’intesa.

L’aveva seguita senza capire esattamente dentro quali incognite si stava muovendo e il dolore al dente combinato alla vodka gli faceva vedere leggermente sfocato.

Guidato da un’esaltazione nuova, che controllava a fatica, prese una delle maschere nere a disposizione degli ospiti incolonnate su un mobiletto déco.

Non c’era molta gente, almeno gli sembrava. Le tre donne nella stanza erano eccentriche e quasi nude se non per qualche accessorio. Una di loro indossava un collare di velluto e sandali dai tacchi così alti da superare l’altezza di Leòn. Si avvicinò a lui con confidenza, sistemandogli la maschera che aveva messo storta e non gli lasciava vedere bene da un occhio. Rise con una certa tenerezza a un centimetro dalla sua bocca e poi lo baciò.

Avvertì un senso di vertigine e la stanza gli sembrò grande in modo smisurato, il profumo zuccherato di lei lo portò d’istinto a trattenerla quando quel bacio si era interrotto. Sentì il suo seno nudo schiacciarsi sul petto.

Si lasciò condurre per mano in una stanza piccola e laterale. Solo dopo diversi minuti, non avrebbe saputo dire quanti tanto era sopraffatto dall’alcol, Leòn si fermò di colpo chiedendosi dove poteva essere Rachele, e con chi.

Sentì un vuoto comprimere lo stomaco immaginando il suo vestito sollevato. Tornò nella stanza principale lasciando la donna sul divano senza dire una parola.

Nella stanza fissò la coppia distesa sulla chaise longue e poi girò lo sguardo più volte. Non la trovava.

S’addentrò nella casa che adesso gli sembrava piena di insidie.

Guardò dentro una camera da letto e aspettò fuori dal bagno chiuso a chiave ma pochi istanti dopo uscì un uomo scusandosi per l’attesa. Non era da nessuna parte.

Tornò ancora nella prima stanza con l’aria persa e affannata, si tolse la mascherina e la lasciò cadere per terra. Rimase sospeso in un punto qualsiasi e ripercorse con lo sguardo ogni angolo, finché l’uomo con il completo bianco seduto su una poltrona, con le gambe accavallate e una sigaretta accesa, gli afferrò il polso.

– È andata via – disse.

– Chi?

– La donna che sta cercando.

Intanto era passato un quarto d’ora e Leòn, stanco di aspettare Cognetti, cercava di carpire qualche rumore ma non sentiva nulla.

Le tre porte che davano sul corridoio, due a destra e una a sinistra erano come sempre chiuse. Non sapendo più cosa fare si avvicinò alla prima e accostò l’orecchio per sentire se c’era qualcuno. Poi lentamente abbassò la maniglia e mise il viso nello spiraglio aperto. Rimase sconcertato nel vedere un ambiente che non aveva niente a che fare con lo studio medico di un dentista.

Aprì completamente la porta e mosse alcuni passi dentro la stanza.

L’unica spiegazione plausibile di ritrovarsi in un comune appartamento era pensare che Cognetti, come usano fare gli psicologi, aveva deciso di allestire lo studio medico in una parte della casa in cui abitava. Ci volle qualche momento prima che cominciasse a riconoscere alcuni elementi e dettagli dell’arredo.

Non appena mise a fuoco, il suo sconcerto aumentò fino a farlo agitare e il cuore prese a battere così violentemente da farlo indietreggiare come davanti a un fantasma.

Quando fu seduto sulla poltrona, mentre Miro Cognetti era di spalle impegnato a spacchettare gli strumenti sterilizzati, Leòn si sentiva molto debole e con un filo di voce chiese:

– Ha sempre saputo chi ero?

– Sì – disse lui.

Poi Leòn aprì la bocca e si lasciò curare.


Anna Voltaggio è nata a Palermo nel 1980. Si occupa di promozione e formazione per l’editoria. È co-fondatrice del collettivo editoriale Clementine. Vive a Roma.

Dal “Diario da Kiev” di Ol’ga Bagrina

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Gli estratti che seguono sono stati scritti da Ol’ga Bagrina (1982), poeta, narratrice e traduttrice che è nata e vive a Kiev. Si tratta delle primissime impressioni della guerra pubblicate da Bagrina in russo sulla propria pagina Facebook. Nel frattempo il “Diario da Kiev”, montaggio dei post scritti in questi dieci giorni, è stato tradotto in inglese e in svedese.
La traduzione è a cura di Giulia Marcucci ed è stata pubblicata nella sezione “Voci contro la guerra” del sito dell’Università per Stranieri di Siena; qui si possono leggere altri scritti e testimonianze su quanto sta accadendo in questi giorni [o.t.]

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di Ol’ga Bagrina
traduzione di Giulia Marcucci

A scuola abbiamo tutti letto Tjutčev,
“beato chi ha visitato questo mondo nei suoi minuti fatali”,
ma per noi erano solo parole, non mi sarei mai immaginata
che nel nostro quartiere ci sarebbero stati spari e truppe di soldati.

 

25.02.2022, ore 02:08

Abbiamo spento la luce, non riusciamo a dormire. Non sapremmo dove scappare e nemmeno ne abbiamo i mezzi. So che durante un bombardamento il luogo più sicuro è il corridoio, ma serve solo a proteggersi dalle schegge. Non vorrei scendere nel rifugio antiaereo, soffro di claustrofobia. In questo istante ho abbracciato la mamma e le ho detto che le voglio tantissimo bene. E dico la stessa cosa anche a tutti voi.

25.02.2022, ore 8:43

Di notte è stato terribile. Le esplosioni. Ora sono riuscita a dormire un po’; abbiamo preso le nostre cose, nel caso suonasse l’allarme. È la materializzazione di un incubo, per cui razionalmente sai come devi fare e dove scappare, ma si alternano solo due stati d’animo: il panico e lo stupore. E non puoi farci niente. È terribile non sapere che cosa succederà. Fino all’ultimo non credevo che sarebbe accaduto tutto questo. La mamma sarebbe andata in ferie e avevamo in programma di mangiare il sushi e di guardarci insieme una serie. Ho due libri da tradurre, e ora invece il mondo sta andando in frantumi. Ieri sera ho abbracciato la mamma e le ho detto che le voglio tantissimo bene e che non sappiamo perché siamo qui e perché il mondo è così, e perché ci siamo capitati proprio ora (siamo gente normale, completamente impreparata alla guerra). Di nuovo le esplosioni.

25.02.2022, ore 10:57

Tra le notizie ieri ho letto un confronto con il ’68 in Cecoslovacchia. La situazione, nel suo insieme, non è di certo paragonabile; mia mamma aveva cinque anni, mentre suo fratello maggiore stava facendo il servizio militare e lo avevano mandato in Cecoslovacchia sui carri armati. Raccontava che faceva finta di sparare ma non sparava, poi proprio davanti ai suoi occhi hanno ucciso un suo compagno e allora il fratello della mamma è andato su tutte le furie e anche lui ha cominciato a sparare. I cechi stavano lungo la strada quando passavano i carri armati e dicevano: «Andate via, che cosa siete venuti a fare qui?»; nonna Katja, a sentire questo racconto, si è indignata: perché poi non sarebbero dovuti essere contenti dell’arrivo delle truppe sovietiche, lei proprio non lo capiva. Il fratello della mamma vive a Volodarka, ci ha chiesto di andare da lui, ma noi non ci siamo andati e siamo restati a Kiev. Stiamo pensando al rifugio antiaereo e alla valeriana, chissà se farà effetto dopo la crisi di panico che mi ha colpita oggi alle 6 del mattino.

Incursione nella Romagna hippy (1969)

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di Mauro Baldrati

Il festino era partito bene. C’erano alcuni ragazzi delle panchine, Dennis, due ragazze hippy di Faenza capitate per caso a Mezzaluna, e la Cammellona, con la minigonna e gli stivali, i lunghi capelli castani che incorniciano il bel viso ovale. La chiamano in quel modo perché cammina dinoccolata e ha un paio di gambe lunghissime. Ogni volta che sfila nella piazza del paese c’è sempre qualcuno che la indica: “Ohéi, guardate che c’è la Cammellona, la Cammellona!” e tutti la guardano con gli occhi sgranati, questa gigantessa magra e flessibile come lo stelo di un fiore. I ragazzi le riempivano di attenzioni, mentre io mi davo da fare coi dischi e preparavo le bevande.
A un certo punto mi siedo sul pavimento e  sento Dennis che dice, rivolto alla Cammellona: “Bah, Jack Kerouac non è poi questo gran scrittore che dicono.”
L’ho guardato con gli occhi sgranati per la sorpresa. Ma che diavolo stava dicendo? Abbiamo parlato per ore, per giorni della grandezza di Kerouac, delle emozioni che esprime che si identificano con le nostre. Mi sono avvicinato, sicuro di avere frainteso il senso delle sue parole. Macché, senza degnarmi di uno sguardo ha continuato: “Molte sue pagine sono pura confusione di ubriaco, e lo stile non è certo la cornucopia dell’innovazione.” Ha detto proprio così, la cornucopia. A questo punto non ho avuto dubbi: quel traditore opportunista diceva quelle sciocchezze per farsi bello agli occhi della Cammellona. Dennis è molto bravo a parlare, assume dei toni dottorali che incantano l’interlocutore. E poi è furbo, preparato, sarcastico. Nessuno riesce a tenergli testa. Ma abiurare in quel modo Jack! E a casa mia poi! Non potevo tollerarlo. Tutti sanno che Jack è il mio scrittore preferito, è mio fratello, il mio protettore. Come si permetteva Dennis di parlare in quel modo in mia presenza? Sono intervenuto, cercando di mantenere un tono calmo, distaccato: ho detto che Kerouac è un maestro, che la sua tristezza è la nostra tristezza; come nessun altro ha espresso il senso di vuoto che ci circonda.
Dennis mi ha guardato con due odiosi occhi sornioni e ha detto: “Uhm, non è altro che la visione tragica dell’alcolista, che quando si alza al mattino dopo la sbronza vede il mondo come un enorme teatro del disastro.”
Quel furbastro! La frase enorme teatro del disastro l’ha letta in un articolo riferita a Céline, e la utilizzava per Kerouac! Mi sono innervosito, l’ho aggredito con una voce che ho sentito stridula, insicura. “Ma cosa dici!” ho esclamato. La Cammellona mi ha guardato, intuivo le palpebre che sbattevano dietro le lenti viola. Dennis se ne stava seduto come un guru che ascolta le domande sciocche dell’allievo, lisciandosi con un a mano la barbetta bionda da capra.
“Ma quale alcolista! Kerouac… insomma!”
Mi è salita una rabbia che mi ha accecato. Ho gridato, sono balzato in piedi.
“Kerouac è grandissimo! Lui… la sua scrittura è un flusso continuo di rabbia, sofferenza, gioia, e…”
“Bah” mi ha interrotto Dennis, calmissimo. “I cosiddetti flussi kerouachiani sono nulla in confronto a Joyce. Dico, l’hai letto il monologo finale dell’Ulisse?”
Mi sono irrigidito, colto alla sorpresa da quella domanda a bruciapelo. Cosa c’entrava Joyce? Non contento di quel colpo basso Dennis ha detto: “Per quanto la rabbia il dolore eccetera Kerouac è acqua fresca di fronte a quella teppa di Céline.”
Una pugnalata alle spalle. Potevo forse sminuire il sommo Céline? E poi, che senso hanno questi confronti? Ogni scrittore è unico, esprime il suo mondo interiore in cui noi troviamo riflesse parti del nostro mondo interiore. Ero schiumante di rabbia, ho gridato un “vaffà” e sono andato a trafficare col giradischi. Ma ho fatto saltare la puntina, così sono uscito e sono andato in bagno.
Quel vigliacco traditore. Venire a dire quelle stupidaggini qui, a casa mia! Come poteva mancarmi di rispetto in quel modo?
Mi sono lavato la faccia con acqua fredda e sono rientrato in camera. Avevano abbassato le luci, e sul piatto Jim Morrison gridava: “Padre? Sì, figlio? Voglio ucciderti!”
Le ragazze erano sedute sul pavimento, rivolte verso Dennis, che aveva incrociato le gambe nella posizione del semi loto. La Cammellona gli era di fronte. L’ho sentito che diceva: “Per quanto riguarda la prosodia devo dire che Pound…” Quando pronunciava il nome del poeta pazzo assumeva un tono solenne, Paaund, Paaund… e si lisciava la barba.
Situazione assolutamente insopportabile!
Che andasse a infangare Kerouac fuori da casa mia!
Ho acceso la luce, ho aperto la porta e ho detto: “Adesso basta, fuori!”
Tutti mi hanno guardato stupiti, le ragazze hanno ruotato le teste e hanno puntato su di me le lenti viola, azzurre, verdi. Dennis invece è rimasto impassibile, come se avesse previsto la mia reazione. Ho sentito in me qualcosa che schioccava come un colpo di frusta.
“Fuori, avete capito o no?”
Le ragazze sono state le prima ad alzarsi, mentre i ragazzi dicevano: “Insomma Jimi, maccheccacchio…”
Sono usciti tutti, ho sbattuto la porta alle loro spalle.
Ho messo il disco di Jimi e ho preso il basso. Ho di nuovo spento le luci, acceso il faretto e aperto lo sportello dell’armadio con lo specchio.
Ecco, stiamo partendo. C’è questo inizio in sordina, quasi incerto, qualche fraseggio con la chitarra e la voce e poi l’attacco dell’organo. Chi suona l’organo? Nel disco non c’è scritto, però abbiamo letto su Freak che è Steve Winwood, quel ragazzino prodigio. E al basso c’è addirittura il grande Jack Casady, il bassista dei Jefferson Airplane, che si alterna con Noel Redding. Sì, sono tutti con me, sono miei ospiti, miei amici, fanno la loro parte in questo straordinario concerto che sconvolgerà la storia della musica rock. Faccio partire la voce, canto con gli occhi chiusi, ci metto tutta la grinta che fa di me un cantante originalissimo, oltre che il chitarrista più poderoso e creativo che sia mai esistito. Ci metto la mia rabbia, che è la rabbia di tutti i giovani del mondo che rifiutano il dio denaro, la guerra, il razzismo. In platea ci sono molti giornalisti, le televisioni, c’è addirittura un inviato del Quotidiano del popolo di Pechino perché la mia musica non conosce frontiere, parla alle persone di ogni razza e lingua. Ci sono anche dei musicisti, Eric Clapton, i Rolling Stones al completo, B. B. King, Miles Davis, che di recente ha detto che io sono l’unico vero artista che proviene dal rock. E poi c’è lei, il mio amore: Julie Driscoll, la cantante più fantastica della galassia, la mia ragazza. E’ seduta in platea con le amiche, ma ogni tanto si alza per venire dietro al palco. Intuisco i suoi riccioli, la sua giacca coi disegni psichedelici, i pantaloni gialli a campana. E’ fiera di essere la mia ragazza,  ed io l’amo come non ho mai amato nessun’altra.
Quando sto per lanciarmi nell’assolo principale, col ritmo devastante dell’Experience che mi segue e l’organo che si insinua come un urlo tra le note della chitarra, succede qualcosa.
Tump tump tump!
Qualcuno bussa alla porta. Ho un attimo di sbandamento, l’assolo parte ma io sono fermo, sto uscendo di scena. Tump tump! Vedo davanti a me, riflessa nello specchio, l’immagine di un ragazzo con un vecchio basso a tracolla mentre la musica scivola via come acqua da una bottiglia mezza vuota.

 

NdR Questo testo è il secondo capitolo del romanzo “Un amore di Jimi”, appena pubblicato da Clown Bianco Edizioni

Mots-clés__Casa nera

1

Casa nera
di sparajurij

Olivier Messiaen, Quatuor pour la fin du Temps  -> play

__

[Forough Farrokhzad, La casa è nera, VO con sottotitoli in inglese]

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Da: Nadia Agustoni, [la casa è nera], Vydia Edizioni, 2021 (pp. 36, 68)

nella terra non arata
l’asse di legno a chiudere la casa
ricorda il mancare dei vivi
i lavandini bianchi —

la luce di questi giorni
per conoscere le ossa
scava dove la talpa
è il suo ricordo

e un tempo di polvere
va nel cielo, perché parli
qualunque voce
qualunque io.

[…]

a volte il pane è un altro silenzio diventa mangiare tenersi in piedi. uno sbaglio finire col vento. taglia via la radice spacca il ramo. i tronchi da soli non fanno niente. i fiori non verranno. sono parole col cielo.

il futuro dove il tempo è la foglia i nomi sentiti nel ricordo di chi va via. cartoncini al collo dei morti per la notte che non parli, per la terra sopra il dolore. questa domanda e questo silenzio sono soli. qui non pregano Iddio o un uomo, solo la parola rimasta indietro. così vivono quelli che vivono.

in un filo spinato si è liberi dal cuore e canta la bambina senza nome un fiocco rosso nei capelli e in mano le parole imparate a metà per dire il colore, l’albero, la finestra e come l’oro è meno dei fiori e i fiori sono la nostra casa.

ma nel magro dei cani torna la guerra. grandina sulla terra sconosciuta, sulla casa senza chiavi, sulla mano difesa. tutto il sangue è guardarsi.

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[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. Ogni prima domenica del mese, Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]

Biancamaria Frabotta: “Velocità di fuga”

2

 

 

Fve ha recentemente ripubblicato Velocità di fuga,  romanzo di Biancamaria Frabotta uscito per la prima volta nel 1989. Alberto Moravia lo definì “autobiografia critica di un’intera generazione”.  Ospito qui un estratto dal libro, e un frammento della postfazione di Manuela Fraire. Ringrazio la casa editrice per la disponibilità.

 

***

 

Il mattino ha l’oro in bocca, si sa, ma non a Roma, né per gli aspiranti Inseparabili che non scendono al Gamelino se non a giorno fatto. Anche oggi sono arrivata troppo presto; il cancelletto della nostra cantina è ancora chiuso e al di là delle grate di ferro non mi pare di vedere nessuno.

Elvira continua a ripetermi che dovrei imparare a farmi aspettare, ma io non sono abituata a esercitare il meschino potere del ritardo; anche perché il potere, quello vero, non si patteggia. Lo si può soltanto sognare fortuito e divino come il capriccio di un fanciullo.

Dalla scuola che sovrasta il Gamelino con la sua scura mole annerita dallo smog e dal tempo i ragazzi escono urlando e spintonandosi come possono, con i gomiti, le cartelle, le righe inastate sopra le teste in un beffardo alzabandiera. Sono talmente eccitati dalla piena di libertà che li attende sulla strada che divorerebbero a spicchi l’erta collina dell’Esquilino.

A stento trascino sotto il braccio un gran fascio di giornali; dovrei vergognarmene alla mia età, ma questa esuberanza cartacea ha uno scopo puramente seduttivo. Infatti non ho ancora abbandonato la speranza di convincere Eugenio che nessuno come me potrebbe mettere ordine in quei caotici album nei quali, con la pazienza di un antico amanuense lui raccoglie ritagli, recensioni, spigolature, insomma tutti quegli affascinanti scampoletti del sapere che, altrimenti, sarebbero destinati all’effimera vita di una giornata, di una settimana. Ma anche questo trucco non so quanto resisterà alla prova del tempo. Non ho affatto l’anima del collezionista e nemmeno da bambina, se la memoria non mi inganna, sono mai riuscita a completare un album di figurine. Bastava un vuoto, una perdita, una qualsiasi distrazione e andava sprecata la fatica di mesi; la Serie si esauriva e io, già da allora incapace di fare scambio di un bene di consumo, rimanevo smarrita a contemplare le lacune della mia volontà.

Una ragazzina che mastica un bastoncino di liquirizia si volta a guardarmi, incuriosita. Che penserà di questa corrucciata passante aggrappata con tutta la forza dei suoi polsi alle grate di un cancello chiuso? Penserà che voglio infilarmi di soppiatto dove non avrei diritto di entrare. Che abbia ragione? Un’improvvisa irritazione mi fa scattare verso di lei nel caso mi stia ancora spiando, ma la ragazza ora è ferma al semaforo completamente dimentica di me. Non mi resta che aspettare, le spalle appoggiate al muro, il corpo che oscilla su una gamba sola. Con l’altra gamba puntello il muro. O forse no: è il muro che sostiene me. Con la mano libera dai giornali giocherello con il grosso lucchetto del cancello. Chi ha la chiave di quell’ingresso ne potrebbe spalancare di doppi fondi dentro di me!

Prima ancora di vederli riconosco Eugenio dalla voce; quando discute di qualcosa che l’appassiona arrotonda la erre come se sotto la lingua gli rotolasse una pallina di piombo. Beniamino gli cammina accanto senza forzarne l’andatura. In mezzo agli studenti che ora si sono sparpagliati sul marciapiede come piccioni in cerca di becchime appaiono insieme, il capo un po’ chino sul petto, le braccia dietro la schiena, scostati ma vicini. Sono così magri e spediti che invece che i corpi in carne e ossa mi pare di veder avanzare le loro anime nascoste in panni leggeri. Anche Beniamino si mantiene snello nonostante i quarant’anni incipienti. Solo sul petto scoperto ogni tanto luccica al sole qualche pelo bianco.

Con meticolosa calma Eugenio sfila il lucchetto dal grosso anello.

“Perché non vuoi una copia della chiave?”

“Preferisco di no. Ho già avuto troppi fastidi in passato per il Gamelino”.

“In questo caso però vorrei conservarla solo io. Sai che su Fausto non ci si può fare affidamento”.

“Lo so, è sempre così fuori di testa. Tutto il giorno stravaccato su quei maledetti gradini di San Pietro in Vincoli”.

“In altri tempi uno come Fausto non si sarebbe ridotto così”.

“Altri tempi? Ma quali altri tempi?”

“Migliori di questi, senz’altro”.

“I tempi sono tutti uguali”, ribatte il giovane. “Tempi morti”.

Litigano così basso e fitto che ancora non si accorgono di me. Quando finalmente mi vedono Eugenio mi porge la sua mano esangue e sfuggente; non so mai se stringergliela o sfiorarla appena con le dita come fa lui con la mia. Prima o poi finirò per sollevarla verso la bocca quella pallida mano e baciargliela in punta di labbra. Beniamino invece mi dà una tale strizzata che l’anellino che porto all’anulare destro e che io stessa mi sono infilata fingendolo un dono di Eugenio mi si conficca nella carne.

“Io, la chiave del Gamelino, se ce l’avessi, saprei come usarla. Almeno vi aiuterei a fare un po’ di pulizia”, intervengo prima che cambino discorso. È una mia vana speranza quella di far entrare un po’ d’aria fresca, laggiù. Eugenio annuisce soprappensiero.

“Guarda che disastro qua dentro!”

Il primo raggio che filtra nella cantina dalla porta dischiusa infatti rivela uno sconfortante scenario: sotto l’ampia calotta del soffitto a volte, il nostro rifugio è veramente poco accogliente con la sua unica poltrona sfondata, le ragnatele che fluttuano a mezz’aria, la brandina disfatta e ricoperta alla meglio da un plaid a scacchi gialli e viola che non mi pare di aver mai notato prima. Oggi poi sembra peggio del solito: cicche dappertutto e sui libri, sui dischi, sulla macchina da scrivere di Eugenio un dito di calce grigiastra che smuove perfino il mio stomaco, figuriamoci il suo, così delicato e schifiltoso. Si vede che questo posto ce l’ha procurato Beniamino; veramente roba d’altri tempi.

“Usa il portacenere almeno”, grido nella direzione di Beniamino che ha appena gettato a terra una Nazionale ancora accesa e si accoccola sul bracciolo della poltrona come un naufrago aggrappato al suo relitto ancora vivo, mi sussurra Eugenio all’orecchio quando lui non ci sente, in virtù di sommesse risse inesplose.

“Per una volta ha ragione anche lei”, infatti aggiunge.

“E no! Ora non te la puoi mica prendere con me. Ormai questo è il tuo regno, d’accordo, ma io sono sempre tuo ospite, ricorda. E poi se non ti va, tuo padre è ricco. Fatti pagare l’affitto di una mansarda di lusso se vuoi vivere fra il lindo e il lustro”.

E subito si mette a ridere sotto i baffi che non ha più, dopo che gli abbiamo fatto notare che troppo pelo alla sua età invecchia. Del resto è appunto a quest’ora che comincia a assillarlo l’influsso del malefico Saturno sotto la cui costellazione dice di aver avuto la disgrazia di nascere, quindi non insiste. E poi lo sa che Eugenio, sotto sotto, gli riconosce il merito che fra tutti i nostri professori, per quanto scombuiato e un po’ stordito lui è il solo che ci permette di poter utilizzare un luogo come il Gamelino per una educazione sentimentale guadagnata a prezzi così stracciati.

 

Dalla Postfazione di Manuela Fraire

 

Un romanzo è un po’ come una persona che non si può smembrare prendendone solo le parti che ci piacciono e lasciando fuori quelle che ci dispiacciono.

Il romanzo è un modo, quello dell’autore, di guardare alla realtà e per quanto bizzarra la storia da esso narrata possa essere, esso ci dice della posizione che egli occupa rispetto a sé stesso e al suo intorno in quella fase della sua vita.

Per questo motivo il rischio di far dire all’autore ciò che non ha inteso dire rende il compito di chi interviene assai arduo. Il lettore è al riparo da questi rischi poiché abita il romanzo clandestinamente e così facendo fa la propria parte. Colui invece che scriverà a proposito del romanzo compirà sempre, anche se involontariamente, una violazione. La sua parola e non la sua fantasia entrerà in relazione con la parola dell’altro. E non si può dimenticare che tra parola e fantasia vi è uno scarto. Mentre l’una può cambiare forma con la stessa velocità con cui muta il soggetto, l’altra oppone al soggetto la propria resistenza al cambiamento e la propria perentoria consistenza.

Una storia di donna acre e commovente come lo può essere solo la vita di certi tipi di donne, quelle che cercano di camminare in bilico tra la femminilità melmosa delle madri e il desiderio di scoprirne una diversa, forse più attraente. Questa è la vicenda della quale si parla. La scommessa è quella di trovare la giusta distanza tra le fantasie attivate dall’intreccio e dai protagonisti e la curiosità che serve per interloquire con loro. Lo scarto è, in questo contesto, la distanza che permette di non confondersi con l’oggetto osservato e anche però di non perderlo di vista.

La protagonista del romanzo cerca sé stessa attraverso il tentativo di sfuggire alla presa allettante dell’amore di Elvira, la madre, e all’incertezza del rapporto con Eugenio. La scrittura notturna, dialogo appassionato con le scrittrici famose, è il luogo in cui l’inquietudine del corpo e il peso della mente raziocinante si combinano in un significato ammissibile. È il modo come la vita diurna scolpita crudamente dai fatti e quella notturna, dominio delle fantasie, approdano al tempo storico senza rimanere prigioniere del tempo cronologico e senza perdersi nell’atemporalità dell’inconscio.

Il passaggio da quel dialogo alla narrazione è talvolta brusco come certi risvegli e come quelli genera un momento di confusione tra ciò che esiste e ciò che abbiamo sognato con lo sconcerto che genera l’essere stranieri tra le cose che sappiamo razionalmente esserci familiari.

“Ebbene sì; sono stanca di ingurgitare mangime come un’oca all’ingrasso, forse è venuto il momento di restituire tutto quello che ho ingoiato, se non io un’altra, un’altra me stessa, magari, più generosa e più spericolata”; a queste parole, tratte dal dialogo con Djuna, fa seguito l’incontro con Olga, donna che ha vinto il bisogno dell’amore di un uomo. Durante questo incontro alle domande provocatorie di Olga la protagonista risponde: “Laggiù sono l’unica donna. E mi considerano quasi come uno di loro”. Il risveglio è qui segnato da una presenza femminile potente quanto lo è quella notturna di Djuna; solo gli esiti sono opposti. C’è altro becchime da ingurgitare.

Lo stesso può dirsi delle parole rivolte a Simone: “Per fortuna io non sono destinata a una vita da massaia”, in sequenza con l’incontro con Eugenio che dispone di lei secondo modalità squisitamente narcisistiche.

Risvegli bruschi, passaggi dalla fantasia alla realtà come vi fosse una cesura netta tra la notte il giorno, senza albe né tramonti. Luci crude, accecanti illuminano la scena diurna. Uomini che difendono una complicità omosessuale restituita al mondo come un’impresa in cui la storia se non del genere umano almeno della letteratura sembra essere in gioco.

Donne che oppongono all’impaccio della protagonista una disinvoltura e sicurezza che non ha nulla da invidiare alla arroganza carica di paura degli uomini.

[Continua in libreria…]

 

Ridicolizzare Putin

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di Edoardo Pisani

Ma che fare dunque con i nemici che ci attaccano?
Lev Tolstoj, da Ricredetevi!

Nel compendio a Storia della Russia di Nicholas V. Riasanovsky, Sergio Romano scrive che nei primi anni Novanta ci si domandava quali conseguenze avrebbe avuto la morte dell’Urss sulla situazione politica mondiale, mentre oggi – continua Romano – ci si chiede quali conseguenze potrebbe avere una sua rinascita. D’altra parte Vladimir Putin dice, in epigrafe a Limonov, il libro di Emmanuel Carrère: “Chi vuole restaurare il comunismo è senza cervello. Chi non lo rimpiange è senza cuore.” Intanto, mentre scrivo queste righe, le bombe russe devastano l’Ucraina e Kiev tenta di resistere agli attacchi; la Russia di Putin è in guerra. Volodymyr Zelensky, il presidente dell’Ucraina, chiede al mondo intero (e in special modo agli Stati Uniti e all’Unione Europea) di non lasciare solo il suo paese. I governi delle grandi potenze mondiali sanno che saranno giudicati dalla Storia per ciò che faranno o non faranno in questi giorni.

Quale demone conduce Vladimir Putin? In un libro che è al tempo stesso una biografia impossibile di Hitler e un’istantanea della sciagura storica e umana dell’Olocausto, Hitler, di Giuseppe Genna, si sostiene che Adolf Hitler non sia un uomo bensì un demone posseduto dal mostruoso lupo Fenrir, una non-persona che prescinde dal tempo e che è destinata a devastare l’umanità e a sovvertire la Storia. Si può essere in disaccordo con questa opinione (o visione) del Male, giacché Hitler è stato un uomo, appartenente alla nostra stessa specie, figlio della cultura europea e della prima guerra mondiale e del trattato di Versailles, e tuttavia anche Guido Ceronetti, a cui forse non sarebbe dispiaciuta la parte più “celaniana” di Hitler (Apocalisse con figure), ha insistito più volte sulla disumanità del Male, ad esempio scrivendo che Lenin era “l’inviato della Tenebra” (in Ti saluto mio secolo crudele) o che la “tristezza canina di Hitler nascondeva bene la sua dedizione completa al padrone infernale” (ne La vita apparente). Come Genna, Ceronetti credeva nei demoni; come Genna, Ceronetti raffrontava la poesia umana al male disumano.

Da quale demone è quindi guidato Vladimir Putin? Di sicuro l’invasione dell’Ucraina risponde a una situazione politica particolare: il ritiro delle truppe USA dall’Afghanistan, la debolezza internazionale del presidente americano Joe Biden, il mondo in stallo per il Covid, la fine del mandato di Angela Merkel, l’ascesa economica e politica della Cina e dell’India, le prossime elezioni in Francia. Eppure all’improvviso appare chiaro che Putin preparava da anni questa guerra, sia politicamente che militarmente; i suoi toni di sfida sono rivolti non soltanto all’Occidente ma al mondo intero. Non bisogna intralciare i piani della Russia. Putin è pronto a tutto, anche a una guerra nucleare. L’Ucraina è una minaccia per la Russia e va “denazificata”.

Se non ci fosse stato Volodymyr Zelensky, il presidente ucraino, la guerra putiniana sarebbe stata più semplice. Invece Kiev ha resistito eroicamente per giorni, e resiste ancora. Le forze in campo sono impari; prima o poi – si teme – l’Ucraina cadrà. Nel frattempo però Zelensky ha insegnato al proprio popolo (e al popolo russo) il significato della parola speranza. Si spera infatti che un giorno la Russia sia libera dalla morsa di Putin. In un passo del Diario russo di Anna Politkovskaja c’è scritto: “È passato un anno dall’arresto di Chodorkovskij. Il potere non fa una piega. Nell’aorta potere-società c’è un embolo. Come ai tempi dell’Unione Sovietica. All’epoca l’anello di congiunzione tra potere e società era il KGB, che forniva al potere informazioni falsate sullo stato della società e che così facendo ha contribuito al declino dell’URSS. Anche oggi l’FSB falsifica le informazioni che propina alle alte sfere, e Putin giudica ostile ogni altra fonte. Speriamo che questa volta l’embolo ci metta meno di settant’anni.” Politkovskaja è stata assassinata il 7 ottobre del 2006, giorno del compleanno di Putin; da allora Chodorkovskij è in esilio, come Garri Kasparov, e molti oppositori di Putin sono stati o incarcerati o uccisi.

La parola, la letteratura, è forse vana contro l’orrido potere dei tiranni, perlomeno a breve termine: ora Kiev abbisogna di armi e uomini e non di parole e libri. Nondimeno cosa possiamo fare noi che non sappiamo né vogliamo imbracciare un mitra e che viviamo di libri e dunque di parole lette e amate e mai dimenticate? Nel finale di Sabato, un romanzo di Ian McEwan scritto quasi vent’anni fa, il protagonista guarda l’alba fuori dalla finestra e all’improvviso si figura un uomo simile a lui, un medico, cento anni prima, nel febbraio del 1903. “A questo gentiluomo edoardiano ci sarebbe da invidiare tutto quello che ancora non sapeva” scrive McEwan. “Se aveva figli giovani, poteva perderli nel giro di una dozzina d’anni, alla Somme. E a quanto ammontava il conteggio dei corpi, Hitler, Stalin, Mao? Cinquanta, cento milioni? A chi gli avesse descritto l’inferno a venire, o lo avesse messo in guardia, il buon dottore – gioviale figlio della prosperità e di decenni di pace – non avrebbe creduto. Dio ci scampi dagli utopisti, uomini pieni di zelo e sicuri verso l’ordine sociale perfetto. Eccoli di nuovo, totalitaristi sotto altre spoglie, innocui e isolati adesso, ma in costante crescita e pieni di rabbia e smaniosi di un ennesimo bagno di sangue.”

Il bagno di sangue è arrivato; ne seguiranno altri. Putin non è un lupo, benché sembri mosso da demoni oscuri, come Hitler o Stalin, e ha anzi un cuore umano, come scrive Emmanuel Carrère nella sezione finale di Limonov (e pure Hitler aveva un cuore); Putin però è soprattutto un bullo, un prepotente, come ha detto in questi giorni Fernando Aramburu. E i bulli – questo ce lo insegna Charlie Chaplin – vanno ridicolizzati. In Russia bisogna dimostrare che anche il re può essere nudo; spogliare Vladimir Putin delle sue vesti di gelido e invincibile uomo di stato (o dittatore) è l’unica maniera di affrontare e vincere il suo strapotere politico e bellico. La guerra continuerà. Il potere è disumano e la letteratura può fare poco per combatterlo, forse niente. Ma talvolta anche scrivere, come pensare, come dubitare, come raffrontarci al male nella vana speranza di estinguerlo, può essere utile.

 

L’educazione democratica e il falso progressismo pedagogico

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di Giovanni Carosotti

É molto probabile che l’ultimo libro di Christian Laval e Francis Vergne sulla scuola (Éducation démocratique, La Découverte, Paris 2021)  non venga tradotto in italiano, come già accaduto ad altri lavori dei due studiosi dedicati allo stesso tema. Se in effetti alcuni riferimenti richiamano lo specifico contesto francese, pure il quadro complessivo che ne emerge, storico-politico-culturale, è decisamente più comprensivo, e costituirebbe un punto di riferimento decisivo anche in Italia, per fare chiarezza non solo sul progetto reazionario e neoliberale che guida la politica di riforma della scuola da ormai troppo tempo, senza trovare alcuna reale opposizione neppure tra le forze progressiste,  ma soprattutto per individuare i giusti presupposti di una politica scolastica che il mondo della sinistra dovrebbe fare propria senza divisioni interne.

La scuola, oggi più che mai, è –secondo i due studiosi-  istituzione ormai devastata dai poteri economici, che intendono appropriarsi in toto del processo di trasmissione del sapere tra le generazioni, con l’intento di rendere senso comune quei principi del capitalismo neo liberale, destinati a perpetuare la diseguaglianza e a impedire che negli allievi si sviluppi la capacità di immaginare qualsiasi azione trasformativa.  Per contrapporsi a tale disegno risulta necessario proporre un paradigma radicalmente alternativo, quello dell’«educazione democratica».

Un paradigma il cui progetto è «superare il sistema capitalistico», per fondare una «democrazia sociale ed ecologica inedita». Il sistema capitalistico, nella sua radicale versione neo liberista, che ne rappresenta la forma concettualmente più pura, ha avuto esiti devastanti non solo per il destino del pianeta, ma per aver nel contempo provocato anche una regressione antropologica: «uno degli effetti tra i più tremendi della società dominata dal neocapitalismo, che si avrebbe torto a considerare secondario rispetto alla distruzione dell’ecosistema, è quello della deresponsabilizzazione dell’individuo nei riguardi della vita collettiva e dei doveri che essa comporta», poiché il capitalismo  è responsabile della «negazione assoluta dell’autolimitazione responsabile».  La lotta contro il capitalismo è parallela a quella per la scuola democratica, in quanto non ci può essere «eguaglianza a scuola se non c’è eguaglianza nel lavoro», ed è impossibile «realizzare l’eguaglianza scolastica indipendentemente dalla trasformazione sociale».

I progetti riformatori della scuola in atto da più di due decenni, invece, pretenderebbero di ridurre «il problema della diseguaglianza a scuola a questione metodologica», ricercando semmai facili soluzioni nella «psicologizzazione e medicalizzazione delle difficoltà scolastiche». L’autentico obiettivo di questo pensiero riformatore è quello di offrire «eguale opportunità di accedere ai processi di valorizzazione», formando però nient’altro che una «mano d’opera subordinata».

 

«Opporsi al dominio delle tecnoscienze»

La riduzione a questione metodologica dell’insuccesso scolastico, svincolato dalle cause sociali, conduce alla strumentale messa sotto accusa dei docenti, i quali non applicherebbero modalità didattiche innovative, che assicurerebbero i risultati attesi.  Da qui la presunzione della nuova scienza pedagogica di costituire una sfera imprescindibile per la pratica d’insegnamento, ma allo stesso tempo da essa separata; alla quale i docenti dovrebbero essere obbligatoriamente formati. Un grande progetto corporativo da parte dei professionisti della pedagogia, non supportato da alcuna certezza epistemologica né evidenza scientifica. Ma che imporrebbe una forte azione di soggettivazione dei docenti, e il loro asservimento a una sorta di pedagogia di stato.[1]

Per i due autori si tratta di un «nuovo maccartismo», che pone «la libertà pedagogica sotto tutela»; certo, nei paesi democratici tale tutela viene esercitata attraverso una «censura sottile», che agisce con «l’imposizione del programmi», con la «prescrizione dei metodi», ma anche con la «richiesta di adattamento alla realtà», ovvero di adeguamento ideologico ai principi (competitività, mercato, imprenditorialità) che dominano la società neoliberale. La scuola, invece, deve rifiutarsi di «seguire l’opinione corrente»; infatti «non è mai l’adattamento all’evidenza che deve dirigere l’educazione, ma la distanza e la contraddizione».

Basterebbero queste analisi per sgombrare il campo dalla risibile affermazione per cui gli insegnanti non solo sarebbero impreparati dal punto di vista pedagogico, ma addirittura rifiuterebbero la disciplina pedagogica in sé, in quanto strumentale e deviante rispetto alla purezza teoretica dei contenuti disciplinari da loro trasmessi. La diffidenza degli insegnanti si spiega invece proprio da un consapevole atteggiamento intellettuale di resistenza verso una caricatura della scienza pedagogica, che Laval e Vegne indicano giustamente con l’espressione «tecnopedagogia», il cui  vero obiettivo è quello di ridurre l’istruzione a merce, per sviluppare nell’alunno solo le capacità adeguate a renderlo un lavoratore subordinato, per umiliarne le doti di immaginazione teoretica, piegandole a un principio produttivistico di corto respiro. Lo «scientismo pedagogico» coincide con la «subordinazione della pedagogia alla psicologia», che «ha permesso “alla scienza della psiche” di proclamarsi autonomamente sovrana dell’educazione. Appoggiandosi sull’obiettivazione psicologica, una “doxa” depoliticizzante si è così imposta in pedagogia».  Come scrivevano in fondo già nel 1964 P.Bourdieu e J-C.Passeron in un testo fondamentale [I delfini. Gli studenti e la cultura]: «[…] i sistemi pedagogici attualmente conosciuti […] non avendo alcun altro fondamento che quello psicologico, servono di fatto a un sistema che ignora e vuol ignorare le differenze sociali. Non c’è niente dunque di più lontano dal nostro pensiero che il richiamarci alla pedagogia cosiddetta scientifica che, aumentando in apparenza la razionalità (formale) dell’insegnamento, permette alle diseguaglianze reali di pesare più di prima, ma con maggiori giustificazioni di prima».

 

Quale didattica per la scuola democratica?

Ma come immaginare –e, soprattutto, come costruire- una scuola che sappia opporsi alla deriva apocalittica prodotta dal neocapitalismo? Laval e Vergne affrontano la questione a partire da diversi ambiti, tutti fra loro però strettamente connessi. L’organizzazione interna delle scuole, gli obiettivi educativi, la condizione del docente e i contenuti dell’insegnamento.

Per prima cosa, una scuola democratica non può che concepirsi come un «Commune», un luogo cioè dove, pur nel rispetto delle funzioni, tutti coloro che ne fanno parte devono confrontarsi alla pari, in vista della formulazione di un progetto didattico condiviso. A partire dal 1968, si è assistito alla trasformazione «dalla scuola caserma alla scuola impresa». Il nuovo modello di scuola deve invece prevedere «un’assenza di gerarchia», con il Dirigente Scolastico eletto dagli insegnanti suoi colleghi, e non esonerato dall’insegnamento. Anche gli organi collegiali devono prevedere una loro ricomposizione, con la partecipazione di tutti i soggetti interessati (una partecipazione addirittura obbligatoria per i genitori), sempre però nel riconoscimento delle funzioni, in modo da evitare «l’appropriazione familiare della scuola», intesa come «luogo di beneficio privato».

Decisivo, per la realizzazione di una scuola realmente democratica, è il mantenimento del gruppo classe, da svilupparsi proprio in senso comunitario; e da opporsi alla falsa socializzazione che introdurrebbe una frantumazione della classe stessa («residuo del Novecento», l’ha definita con dubbi riferimenti culturali il ministro Bianchi nel suo libro sulla scuola), e che si configurerebbe in realtà come un’atomizzazione delle figure discenti, che lascerebbe indifeso -ovvero privo di strumenti sia culturali sia di solidarietà- il singolo alunno nei confronti dei processi di soggettivazione, di disciplinamento e di condizionamento, messi in atto nei suoi confronti. La classe deve essere eterogenea e in essa devono dispiegarsi confronti socio-culturali attraverso i quali sviluppare una reale dimensione dell’incontro e della solidarietà.  Un modello comunitario che esclude, per forza di cosa, la degradante «concorrenza fra scuole».

Per quanto riguarda gli obiettivi che l’educazione democratica deve prefiggersi, in contrasto con l’«utilitarismo educativo», lo «psicologismo individualizzante» e il «patrimonialismo conservatore», bisogna valorizzare negli allievi quella facoltà che gli autori chiamano «immaginazione pedagogica», ovvero «sviluppare una soggettività capace e desiderosa di pensare altrimenti», in modo da «liberare dalla routine dell’alienazione»; l’allievo non dovrà solo socializzare, ma essere capace di «partecipare e determinare collettivamente le regole comuni». L’educazione, «bene comune e non merce», deve rifiutare la concezione proprietaria insita nell’espressione «capitale umano» ed essere «a profitto della conoscenza, dell’arte e della cultura». La falsa idea di “individualizzare il processo di apprendimento”, e la volontà conseguente di «differenziazione dell’offerta pedagogica» non fanno in realtà altro che «rafforzare la segregazione sociale». L’insegnamento, in altre parole –e qui il richiamo dei due autori è alla lezione di Jaurés e Freire-  deve produrre senso, e lo può fare attraverso impostazioni che intenzionalmente prendono le distanze dall’utilitarismo pedagogico incentrato sul concetto di “capitale umano”.

Frequente è il riferimento dei due autori alla lezione di Dewey. Non direi però che si possa parlare, come si legge su qualche sito francese, di adesione incondizionata alla teoria dell’educazione del grande filosofo americano. Da una parte i due autori ci tengono a distinguere la lezione originaria di Dewey da tanto «pragmatismo deteriore» che «tende a contrapporre l’universo autonomo del giovane al mondo adulto, a privilegiare il metodo pedagogico a detrimento dei contenuti del sapere, a sviluppare il “fare” indipendentemente dall’ “apprendere”»; ma, soprattutto, non condividono l’idea di Dewey di «non separare la didattica dalle esperienze sociali allievi». Per Laval e Vergne, invece, per  «preparare l’allievo all’azione critica», come lo stesso Dewey auspica, e «suscitare il suo interesse», non bisogna «partire dall’esperienza concreta», bensì essere consapevoli del «valore del sapere apparentemente sganciato dalla realtà», con il proposito di «far uscire gli allievi dall’esperienza immediata» e farli «riflettere razionalmente sulla situazione reale del mondo». E proprio in questo risiede la «vera difficoltà dell’educatore». È sbagliato, da questo punto di vista, sottovalutare il «valore della teoria» e del «concettualismo astratto», inteso come «capacità dello spirito di costruire problemi propriamente teorici, stabilire fatti distanti dalla realtà che si percepisce». Solo in questo modo è possibile «dotare i cittadini di strumenti di comprensione del mondo e fornire loro strumenti di resistenza».

La comunicazione didattica deve, invece, donare al vissuto quotidiano una significazione storica e sociale, accompagnando gli alunni verso un processo di liberazione (dalla dimensione alienata dell’esistenza) individuale e collettivo. Laval e Vergne contestano la tendenza attuale a promuovere un abbassamento del livello dei contenuti didattici, e insistono gramscianamente sul dovere di rendere accessibile la cultura “alta” a tutti. Pur in un quadro  in cui viene abolita la selezione e la bocciatura. Un principio tutt’altro che impossibile, ma obiettivamente ancora distante dalla mentalità tradizionale con cui alcuni colleghi interpretano la loro professionalità in riferimento alla valutazione. Un atteggiamento che impedisce l’individuazione di nuove strategie per produrre motivazione e coinvolgimento, senza ricorrere allo squallido “saper fare” sostenuto dalla «tecnopedagogia» neoliberista.

L’abbassamento del livello disciplinare, infatti,  equivale ad «adattare il sistema educativo alle norme del neocapitalismo e dell’individualismo liberale», poiché «l’adattamento verso il basso rafforza le disuguaglianze», destinando ciascuno a ciò che è più adatto alle sue condizioni di partenza. La democrazia scolastica prevede sì l’«autonomia pedagogica negli alunni», ma non la confonde con «l’anarchia dell’individuo»  (una condizione simmetrica all’«autoritarismo pedagogico»), in base alla quale si vorrebbe che «gli allievi siano più avanti e decidano autonomamente cosa apprendere»; una tesi tanto cara al nostro attuale ministro, in particolare quando si riferisce al digitale, peraltro considerato da Laval e Vergne, «uno dei nuovi nemici, che si reclamano portatori della modernità. […] non meno pericolosi per la libertà di pensiero e la capacità di agire, anche per il carattere seducente del loro linguaggio».

Altre sono le priorità: «La cultura comune democratica ed ecologica non si confonde neanche con “il principio comune delle competenze” come le definiscono l’OCSE e la Commissione Europea […] Ne consegue che la scuola egualitaria deve garantire a tutti gli alunni un apprendimento il più completo possibile della lettura, della scrittura e del calcolo e che sarebbe sbagliato prendersi gioco di questa esigenza fondamentale […]». Ci sembra che l’idea di un sapere unitario e universale, difeso da Laval e Vergne, corrisponda a quello che in tempi recentissimi ha espresso anche in Italia Giulio Ferroni: «l’attenzione all’ambiente chiama direttamente in causa le scienze, impone una stretta convergenza tra discipline umanistiche e discipline scientifiche.  […] la convergenza tra discipline diverse nel quadro di un umanesimo ambientale non può prescindere da un confronto con i corpi concreti delle stesse discipline, non può esaurirsi nel gioco indeterminato delle competenze, di una flessibilità indeterminata, orientata verso un problem solving che ignori le condizioni in cui il problema è scaturito» [Ferroni, La Scuola del Futuro]. Analogamente, Laval e Vegne: «la situazione attuale sollecita una nuova “antropologia”, che sia alla base di un articolazione ragionata della filosofia, della storia-geografia, delle scienze sociali e delle scienze della vita e della terra».  L’obiettivo è quello di far intendere come il sapere sia il «risultato di un’attività collettiva di portata universale», e di mostrare come «le scienze sociali non siano indipendenti dalla natura»; questo consente, nello stesso tempo, di «prendere coscienza del processo di costruzione del sapere che acquisiamo». Ovvero, lo stesso sviluppo di autocoscienza cognitiva, individuale e collettiva, non viene considerato patrimonio esoterico, ricetta segreta di iniziati pedagogisti che la offrono a ingenui insegnanti -che nient’altro saprebbero esercitare se non un’azione di comunicazione caratterizzata da puro spontaneismo-; ma i fondamenti di una pedagogia dell’emancipazione sono presenti potenzialmente nelle stesse discipline, ed è la professionalità del docente che fa emergere tale potenzialità.

 

Per una figura docente liberata

L’insegnante della scuola democratica non può che porre come prioritario obiettivo il condurre gli studenti a immaginare un percorso personale e collettivo di liberazione; egli deve contribuire a renderli sensibili alle condizioni necessarie perché il mondo del futuro   «sia ancora vivibile». Una possibile innovazione -insistono i due studiosi- non può avvenire dall’alto, come sostengono i riformatori, ovvero con l’applicazione di «buone pratiche concepite da una cerchia di esperti»; ma da autonomi, «collettivi critici di insegnanti e ricercatori», svincolati da ogni autorità esterna.

La scuola democratica non può infatti esistere senza riconoscere completa libertà pedagogica al docente, sottraendolo a qualsiasi pressione gerarchica, vuoi dei Dirigenti, vuoi dei pedagogisti o di qualsivoglia esperto; deve invece coltivare una continua relazione con tutte le altre componenti della comunità scolastica, per individuare insieme gli obiettivi critici ed emancipativi del processo educativo, senza confusione però di ruoli. Laval e Vergne sono consapevoli dello stato di demoralizzazione, sofferenza, addirittura di «violenza psichica» cui sono sottoposti gli insegnanti. Il loro essere costretti a esercitare la professione «in un terreno ostile».

Di fronte a questa situazione «dare senso politico alla propria azione è il miglior modo per reagire alla demoralizzazione»; l’ «erotizzazione del sapere», che essi sono in grado di praticare, è l’arma da contrapporre alle continue mansioni burocratiche e alle innovazioni neuro pedagogiche.

Nella Conclusione, segue una straordinaria descrizione dell’educatore democratico, che si interroga:

  • «sulla relazione tra la sua azione e il mercato»;
  • «di quale cittadino avrà bisogno il mondo perché sia ancora vivibile e abitabile»;
  • «quale sorta di educazione politica deve essere messa in atto oggi»;
  • come «operare per la transizione ecologica del mondo» nella convinzione che «un altro mondo è possibile»
  • come «proporre alle nuove generazioni un orizzonte politico, sociale ed ecologico desiderabile».

 

Sicuramente si tratta della forma di «insegnamento più invisa alle classi dominanti», che può sembrare per alcuni tratti utopica; ma che rappresenta invece l’unica possibilità per reagire all’orwelliano processo di soggettivazione in atto verso docenti e studenti. L’unico in grado di alimentare la resistenza nei confronti di  chi vuole far credere –facendo della scuola uno degli strumenti in questo senso più efficaci – che non sia possibile pensare un mondo diverso da quello dominato dall’economia di mercato.

 

[1] Pericolo non chiaro a tutti, neanche a sinistra, come dimostra lo strumentale intervento di Massimiliano Fiorucci su Il Manifesto del 22/01/22 (Caro canfora, la formazione non è un belletto), totalmente privo di argomentazioni, in risposta a una giusta valutazione di Luciano Canfora, che identificava questo nuova pretesa pedagogistica con una pratica di indottrinamento e, aggiungiamo noi, di definitivo annullamento della libertà d’’insegnamento.

 

40 anni dalla morte di Perec e 50 cose da fare prima di morire

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di Ornella Tajani

Esattamente 40 anni fa moriva Georges Perec.
Nel 1981, in un programma radio dal titolo «Mi fugue, mi raisin», l’autore si dedica alla compilazione di una delle sue amate liste, che, spiega in apertura, non sono affatto facili da stilare, al contrario di quanto si possa pensare: forte è ad esempio la tentazione di inserire un «eccetera» che venga a troncarla prematuramente, il che è invece assolutamente proibito; bisogna andare fin in fondo.
La lista in questione riguarda le sue cinquanta cose da fare prima di morire; ce ne sono di originali come di più banali; alcune sono raggruppate per categorie tematiche, come quelle legate allo spazio e al tempo, oppure al lavoro. La si può ascoltare in francese qui; altrimenti, più giù ho tradotto sinteticamente i vari punti.
Per ricordarlo oggi, nel giorno dell’anniversario, oltre – soprattutto – a leggerlo e rileggerlo, si può provare a stilare una propria lista. Io l’ho fatto: le mie cinquanta cose da fare non seguono alcun ordine, per cui le voglie più bizzarre o gratuite si mescolano a ipotetici obiettivi più o meno realistici. Come Perec, anch’io talvolta ho aggiunto un minuscolo commento; e ho un paio di voglie in comune con lui.
Non è stata un’impresa facile, dunque mi permetto di offrire tre consigli a chi vorrà cimentarsi: bisogna concentrarsi su ciò che davvero conta di più; evitare di menzionare dei desideri o delle generiche speranze sulle quali il nostro arbitrio non può nulla, e che dunque non costituiscono delle cose da poter fare; e, soprattutto, occorre resistere alla tentazione di compilare una pagina di voglie originali o accattivanti, scelte unicamente perché rimandano una determinata idea di noi e non perché siano davvero sentite.
Come si vedrà, Perec ha in effetti compilato una lista di trentasette punti, dopodiché si è fermato; morirà qualche mese dopo. Per omaggiarlo, anche le mie cinquanta cose da fare sono quindi state trentasette.
Qui di seguito la sua lista.

1) Fare un giro in bateau-mouche
2) Buttar via una serie di cose che ci si ostina a conservare senza motivo
3) Trovare un sistema definitivo per organizzare la propria biblioteca
4) Acquistare vari elettrodomestici: lavastoviglie, lavatrice
5) Smettere di fumare
6) Vestirsi in maniera totalmente diversa (indossare cravatte, farsi confezionare un abito completo con gilet, etc.)
7) Andare a vivere in albergo
8) Andare a vivere in campagna
9) Andar a vivere 1-2 anni in una città straniera (Londra, Zurigo o Roma)
10) Attraversare l’intersezione tra l’equatore e la linea internazionale del cambio di data
11) Superare il circolo polare
12) Vivere un’esperienza fuori dal tempo: in una grotta, senza orologi, ecc.
13) Fare un viaggio in sottomarino
14) Fare un viaggio lungo in nave
15) Fare un viaggio in mongolfiera
16) Andare sulle isole Kerguelen
17) Andare a Tristan da Cunha
18) Andare dal Marocco a Timbuctù in cammello in 52 giorni
19) Andare nelle Ardennes
20) Andare a Bayreuth per il festival, a Praga o a Vienna
21) Bere del rum trovato in fondo al mare, come il capitano Haddock in un fumetto di Tintin
22) Aver il tempo di leggere (per esempio Henry James)
23) Fare un viaggio in Francia attraversando i canali
24) Trovare la soluzione del cubo di Rubik
25) Imparare a suonare la batteria
26) Imparare una lingua straniera (l’italiano, per leggere Dante, magari)
27) Imparare il mestiere di tipografo
28) Dipingere
29) Scrivere storie per bambini dai 6 mesi ai 3-4 anni
30) Scrivere storie per bambini un po’ più grandi, che sanno già leggere
31) Scrivere un romanzo di fantascienza
32) Scrivere la sceneggiatura di un film d’avventura
33) Scrivere un romanzo-feuilleton
34) Mettersi a scrivere in pubblico, in vetrina, come ha fatto Simenon
35) Lavorare con un disegnatore di fumetti
36) Scrivere delle canzoni
37) Piantare un albero (per vederlo crescere)

Perec ha aggiunto, a mo’ di appendice, due cose impossibili:

– Ubriacarsi con Malcolm Lowry
– Conoscere Nabokov

I commenti sono aperti e possono serenamente ospitare liste di 37 elementi. Ma mi raccomando: se stilate, non barate.

Dichiarazione sulla guerra in Ucraina di studiosi di Genocidio, Nazismo e Seconda Guerra Mondiale

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[ ricevo dall’ ⇨ Archivio dell’Olocausto di Bad Arolesen e volentieri rilancio ]
 

DICHIARAZIONE

 
Dal 24 febbraio 2022, le forze armate della Federazione Russa sono impegnate in un’aggressione militare non provocata contro l’Ucraina. L’attacco è la continuazione dell’annessione della penisola di Crimea da parte della Russia nel 2014 e del suo forte coinvolgimento nel conflitto armato nella regione del Donbas.

L’attacco russo è arrivato sulla scia delle accuse del presidente russo Vladimir Putin di crimini contro l’umanità e genocidio, presumibilmente commessi dal governo ucraino nel Donbas. La propaganda russa presenta regolarmente i leader eletti dell’Ucraina come nazisti e fascisti che opprimono la popolazione locale di etnia russa, che sostiene debba essere liberata. Il presidente Putin ha affermato che uno degli obiettivi della sua “operazione militare speciale” contro l’Ucraina è la “denazificazione” del Paese.

Siamo studiosi del Genocidio, dell’Olocausto e della Seconda Guerra Mondiale. Trascorriamo le nostre carriere studiando fascismo e nazismo e commemorando le loro vittime. Molti di noi sono attivamente impegnati nella lotta contro gli eredi contemporanei di questi regimi malvagi e coloro che tentano di negare o gettare un velo sui loro crimini.

Respingiamo fermamente il cinico abuso del termine genocidio da parte del governo russo, della memoria della Seconda Guerra Mondiale e dell’Olocausto e l’equiparazione dello stato ucraino con il regime nazista per giustificare la sua aggressione non provocata. Questa retorica è di fatto sbagliata, moralmente ripugnante e profondamente offensiva per la memoria di milioni di vittime del nazismo e di coloro che hanno combattuto coraggiosamente contro di esso, compresi i soldati russi e ucraini dell’Armata Rossa.

Non idealizziamo lo stato e la società ucraini. Come ogni altro paese, ha estremisti di destra e gruppi xenofobi violenti. L’Ucraina dovrebbe anche affrontare meglio i capitoli più oscuri della sua storia dolorosa e complicata. Eppure niente di tutto ciò giustifica l’aggressione russa e la grossolana errata caratterizzazione dell’Ucraina. In questo fatidico momento siamo uniti all’Ucraina libera, indipendente e democratica e respingiamo fermamente l’uso improprio della storia della Seconda Guerra Mondiale da parte del governo russo per giustificare la propria violenza.

[Questa dichiarazione è stata originariamente pubblicata dal ⇨ Jewish Journal)]

Eugene Finkel, Johns Hopkins University

Izabella Tabarovsky, Washington D.C.

Aliza Luft, University of California-Los Angeles

Teresa Walch, University of North Carolina at Greensboro

Jared McBride, University of California-Los Angeles

Elissa Bemporad, Queens College and CUNY Graduate Center

Andrea Ruggeri, University of Oxford

Steven Seegel, University of Texas at Austin

Jeffrey Kopstein, University of California, Irvine

Francine Hirsch, University of Wisconsin-Madison

Anna Hájková, University of Warwick

Omer Bartov, Brown University

Barbara Kirshenblatt-Gimblett, New York University and POLIN Museum of the History of Polish Jews

Christoph Dieckmann, Frankfurt am Main

Cary Nelson, University of Illinois at Urbana-Champaign

Waitman Wade Beorn, Northumbria University

Jeffrey Herf, University of Maryland

Timothy Snyder, Yale University

Jeffrey Veidlinger, University of Michigan

Hana Kubátová, Charles University

Leslie Waters, University of Texas at El Paso

Norman J.W. Goda, University of Florida

Jazmine Conteras, Goucher College

Laura J. Hilton, Muskingum University

Katarzyna Person, Jewish Historical Institute, Warsaw

Tarik Cyril Amar, Koc University

Sarah Grandke, Neuengamme Concentration Camp Memorial/denk.mal Hannoverscher Bahnhof Hamburg

Jonathan Leader Maynard, King’s College London

Chad Gibbs, College of Charleston

Janine Holc, Loyola University Maryland

Erin Hochman, Southern Methodist University

Edin Hajdarpasic, Loyola University Chicago

David Hirsh, Goldsmiths, University of London

Richard Breitman, American University (Emeritus)

Astrid M. Eckert, Emory University

Anna Holian, Arizona State University

Uma Kumar, University of British Columbia

Frances Tanzer, Clark University

Victoria J. Barnett, US Holocaust Memorial Museum (retired)

David Seymour, City University of London

Jeff Jones, University of North Carolina at Greensboro

András Riedlmayer Harvard University (retired)

Polly Zavadivker, University of Delaware

Aviel Roshwald, Georgetown University

Anne E. Parsons, University of North Carolina at Greensboro

Carole Lemee, Bordeaux University

Scott Denham, Davidson College

Emanuela Grama, Carnegie Mellon University

Christopher R. Browning, University of North Carolina at Chapel Hill (emeritus)

Katrin Paehler, Illinois State University

Raphael Utz, Deutsches Historisches Museum Berlin

Emre Sencer, Knox College

Stefan Ihrig, University of Haifa

Jeff Rutherford, Xavier University

Jason Hall, The University of Haifa

Christian Ingrao, CNRS École des Hautes Études en Sciences Sociales, CESPRA Paris

Hannah Wilson, Nottingham Trent University

Jan Lanicek, University of New South Wales

Edward B. Westermann, Texas A&M University-San Antonio

Maris Rowe-McCulloch, University of Regina

Joanna B. Michlic, University College London

Raul Carstocea, Maynooth University

Dieter Steinert, University of Wolverhampton

Christina Morina, Universität Bielefeld

Abbey Steele, University of Amsterdam

Erika Hughes, University of Portsmouth

Lukasz Krzyzanowski, University of Warsaw

Agnieszka Wierzcholska, German Historical Institute, Paris

Martin Cüppers, University of Stuttgart

Matthew Kupfer, Organized Crime and Corruption Reporting Project

Martin Kragh, Uppsala University

Umit Kurt, Van Leer Institute, Jerusalem

Meron Mendel, Frankfurt University of Applied Science, Anne Frank Center Frankfurt

Nazan Maksudyan, FU Berlin / Centre Marc Bloch

Emanuel-Marius Grec, University of Heidelberg

Khatchig Mouradian, Columbia University

Jan Zbigniew Grabowski, University of Ottawa

Dirk Moses, University of North Carolina, Chapel Hill

Amos Goldberg, Hebrew University of Jerusalem

Amber N. Nickell, Fort Hays State University

Tatjana Tönsmeyer, Wuppertal University

Thomas Kühne, Clark University

Thomas Pegelow Kaplan, Appalachian State University

Amos Morris-Reich, Tel Aviv University

Volha Charnysh, Massachusetts Institute of Technology

Stefan Cristian Ionescu, Northwestern University

Donatello Aramini, Sapienza University, Rome

Ofer Ashkenazi, The Hebrew University of Jerusalem

Roland Clark, University of Liverpool

Mirjam Zadoff, University of Munich & Munich Documentation Centre for the History of National Socialism

John Barruzza, Syracuse University

Cristina A. Bejan, Metropolitan State University of Denver

Isabel Sawkins, University of Exeter

Benjamin Nathans, University of Pennsylvania

Norbert Frei, University of Jena

Stéfanie Prezioso, Université de Lausanne

Olindo De Napoli, Università degli Studi di Napoli Federico II

Eli Nathans, Western University

Eugenia Mihalcea, University of Haifa

Rebekah Klein-Pejšová, Purdue University

Sergei I. Zhuk, Ball State University

Paola S. Salvatori, Scuola Normale Superiore di Pisa – Università degli Studi Roma Tre

Antonio Ferrara, Independent Scholar

Verena Meier, Forschungsstelle Antiziganismus, Ruprecht-Karls-Universität Heidelberg

Frédéric Bonnesoeur, Zentrum für Antisemitismusforschung, TU Berlin

Sara Halpern, St. Olaf College

Irina Nastasa-Matei, University of Bucharest

Michal Aharony, University of Haifa

Michele Sarfatti, Fondazione CDEC Milano

Frank Schumacher, The University of Western Ontario

Thomas Weber, University of Aberdeen

Elizabeth Drummond, Loyola Marymount University

Jennifer Evans, Carleton University

​​Sayantani Jana, University of Southern California

Gavriel D. Rosenfeld, Fairfield University

Snježana Koren, University of Zagreb

Brunello Mantelli, University of Turin and University of Calabria

Carl Müller-Crepon, University of Oxford

Grzegorz Rossolinski-Liebe, Freie Universität Berlin

Amy Sjoquist, Northwest University

Sebastian Vîrtosu, Universitatea Națională de Arte “G. Enescu”

Stanislao G. Pugliese, Hofstra University

Ronald Grigor Suny, University of Michigan

Antoinette Saxer, University of York

Alon Confino, University of Massachusetts, Amherst

Corry Guttstadt, University of Hamburg

Vadim Altskan, US Holocaust Memorial Museum

Evan B. Bukey, University of Arkansas

Elliot Y Neaman, University of San Francisco

Rebecca Wittmann, University of Toronto Mississauga

Benjamin Rifkin, Hofstra University

Vladimir Tismaneanu, University of Maryland

Walter Reich, George Washington University

Jay Geller, Case Western Reserve University

Atina Grossmann, Cooper Union

Francesco Zavatti, Södertörn University

Eliyana R. Adler, The Pennsylvania State University

Laura María Niewöhner, Bielefeld University

Elena Amaya, University of California-Berkeley

Markus Roth, Fritz Bauer Institut, Frankfurt

Brandon Bloch, University of Wisconsin-Madison

Monica Osborne, The Jewish Journal

Benjamin Hett, Hunter College and the Graduate Center, CUNY

Volker Weiß, Independent Scholar

Manuela Consonni, The Hebrew University of Jerusalem

Svetlana Suveica, University of Regensburg

Todd Heidt, Knox College

Volha Bartash, University of Regensburg

Jakub Drábik, Slovak Academy of Sciences

David Hamann, Freie Universität Berlin

Matthew Kott, Uppsala University

Piotr H. Kosicki, University of Maryland, College Park

Ole Frahm, Independent Scholar

Carlo Gentile, University of Cologne

Mihaela Serban, Ramapo College of New Jersey

Tobias Ebbrecht-Hartmann, The Hebrew University of Jerusalem

Doina Anca Cretu, Masaryk Institute and Archives of the Czech Academy of Sciences

Peter Gross, The University of Tennessee

Anna Ullrich, Leibniz Institute for Contemporary History, Munich

Benjamin Grilj, Institut für Jüdische Geschichte Österreichs

Harry C. Merritt, Amherst College

Richard Steigmann-Gall, Kent State University

Mats Deland, Mid Sweden University, Sundsvall

Judith Vöcker, University of Leicester

Florian Kührer-Wielach, IKGS at LMU München

Hikmet Karcic, University of Sarajevo

Susan Rubin Suleiman, Harvard University

Mikko Ketola University of Helsinki

Gerald J. Steinacher, University of Nebraska-Lincoln

Charlotte Schallié, University of Victoria

Peter Davies, University of Edinburgh

Laurien Vastenhout, NIOD Institute for War, Holocaust and Genocide Studies, Amsterdam

Dave Rich, Birkbeck, University of London

Magdalena Marsovszky, Independent Scholar

Susanne Heim, Freie Universität Berlin

Sarah Rembiszewski, Tel Aviv University

Giovanna D’Amico, Università degli Studi di Messina

Susanne Urban, University of Marburg

Anika Walke, Washington University in St. Louis

Martin Clemens Winter, Leipzig University

Alexander Korb, University of Leicester

Tobias Freimüller, Fritz Bauer Institut, Frankfurt am Main

Polina Sparks, Manchester

Jonathan Skolnik, University of Massachusetts Amherst

Sascha Feuchert, Justus-Liebig-Universität Gießen

Henning Borggraefe, Arolsen Archives – International Center on Nazi Persecution

Sarah Jewett, London School of Economics and Political Science

Charlotte Kitzinger, Justus-Liebig-University, Gießen

Natalia Aleksiun, Touro College

Miriam F. Elman, Syracuse University

Bill Niven, Nottingham Trent University

Benny Morris, Ben-Gurion University (emeritus)

Raisa Ostapenko, Sorbonne University

Don H. Doyle, University of South Carolina

Donna Robinson Divine, Smith College and University of Haifa

Moritz Föllmer, University of Amsterdam

Lidia Zessin-Jurek, Czech Academy of Sciences

Jayne Persian, University of Southern Queensland

Susannah Heschel, Dartmouth College

Judith Wechsler, Tufts University

Gerald Steinberg, Political Science, Bar Ilan University

Yanina Di Croce, Universidad Nacional de La Plata

Jamie L. Wraight, The University of Michigan-Dearborn

Zigmas Vitkus, University of Klaipėda

Alana Holland, American University

Kobi Kabalek, Penn State University

Anika Binsch, Justus-Liebig-University, Gießen

Kurt Tweraser, University of Arkansas

Ilan Troen, Ben-Gurion University

Lawrence Baron, San Diego State University

Helen Epstein, Independent Scholar

Nicholas Terry, University of Exeter

Gayle Zachmann, University of Florida

Shelley Baranowski, University of Akron

Andrei S. Markovits, University of Michigan

Wolfgang Freund, Universite du Luxembourg

Jeffrey Blutinger, California State University, Long Beach

Joanna Sliwa, Independent Scholar

John-Paul Himka, University of Alberta

Philippe Blasen, Romanian Academy, Iasi

Alvin H. Rosenfeld, Indiana University

Samuel Miner, University of Dayton

Christopher Gilley, The Wiener Holocaust Library

Günther Jikeli, Indiana University

Rena Molho, Independent Scholar

Srdja Pavlovic, Wirth Institute. University of Alberta

Geraldien von Frijtag Drabbe Künzel, Utrecht University

Goldie Morgentaler, University of Lethbridge

Trevor Erlacher, University of Pittsburgh

Sol Neely, Heritage University

Hans-Rudolf Meier, Bauhaus-Universität Weimar

Theron Snell, Independent Scholar

Daniel Jonah Wolpert, University of Cambridge

LF Graf Chodkiewicz Chudzikiewicz, International Research Institute, Macon, Georgia

Olga Karasik-Updike, Kazan Federal University and Higher School of Economics, Moscow

Paul Garfinkel, Simon Fraser University

Lauren Faulkner Rossi, Simon Fraser University

Claire Aubin, University of Edinburgh

Federica Pannocchia, Un ponte per Anne Frank

Thomas Schad, Humboldt University Berlin

Björn Krondorfer, Northern Arizona University

Martin Jander, Berlin Campus of Stanford University

Mehnaz Afridi, Manhattan College

Jochen Hellbeck, Rutgers University

Moshe Zimmermann, Hebrew University Jerusalem

Anna Lipphardt, Universität Freiburg

Sybille Steinbacher, Fritz Bauer Institut

Christopher Smith, Coventry University

James Bjork, King’s College London

Michaela Pohl, Vassar College

David N. Myers, UCLA

Monique Rodrigues Balbuena, University of Oregon

Franziska Exeler, University of Cambridge and Free University Berlin

Mark Harrison, University of Warwick

Magda Teter, Fordham University

Hershy Orenstein, International School of Holocaust Studies, Jerusalem

Charlie Laderman, King’s College, London

Karin Kvist Geverts, The Institute for Holocaust Research in Sweden

Alvin Rosenfeld, Weill Cornell Medical College

Harold Marcuse, University of California, Santa Barbara

Sarah Cramsey, Leiden University

Michel Gherman Federal University of Rio de Janeiro

Bobbi Zahra, Independent Scholar

Rabbi Jeanette Friedman Sieradski

Paradise Valley, PA

Darcy Buerkle, Smith College

Melissa Kravetz, Longwood University

Gareth Pritchard, University of Adelaide

Gail Erlick Robinson, University of Toronto

Dominic Williams, Northumbria University

Ido de Haan, Utrecht University

Emanuel Plopeanu, Ovidius University, Constanța

Alti Rodal, Ukrainian Jewish Encounter

Vanni D’Alessio, University of Naples Federico II

Daniel Rickenbacher, University of Basel

Stéphane Bruchfeld, Uppsala University

Joanna Ostrowska, Independent Scholar

Irina Shikhova, Chisinau, Moldova.

Karel Berkhoff, NIOD Institute for War, Holocaust and Genocide Studies, Amsterdam

Georgiy Kasianov, Marie Curie-Sklodowska University, Lublin, Poland

Michael Becker, University of Jena, Germany

Ana Bărbulescu, Institutul Național pentru Studierea Holocaustului din România “Elie Wiesel”

Janine Fubel, Department of History, Humboldt University Berlin

Anton Weiss-Wendt, Norwegian Center for Holocaust and Minority Studies

Adina Babesh-Fruchter, KU Leuven

Andreas Körber, Universität Hamburg

Joshua Shanes, College of Charleston

Anne Lepper, Free University Berlin

Sebastian Weitkamp, Esterwegen Memorial

Martin Koers, Esterwegen Memorial

Andrej Umansky, Georgetown University

Silvia Goldbaum Tarabini Fracapane, Independent Scholar

Ray Brandon, Independent Scholar, Berlin

Carol A Bernstein, Albert Einstein College of Medicine

Silke von der Emde, Vassar College

Ranen Omer-Sherman, University of Louisville

Franziska Koch, University of Potsdam

Wendy Lower, Claremont McKenna College

Anette Homlong Storeide, Falstadsenteret/Memorial Falstad Centre

Benjamin Lapp, Montclair State University

Carlos Alberto Haas, Ludwig Maximilian University

Jeanette Friedman Sieradski, Independent Scholar

Antonella Tiburzi, University of Bolzano

Marco Carynnyk, Independent Scholar

Sandra Alfers, Western Washington University

Elena Makarova, Independent Scholar

Shulamit S. Magnus, Oberlin College

Mikhail Edelstein, Moscow State University

Laura Jockusch, Brandeis University

Se sei uno studioso e desideri aggiungere la tua firma all’elenco, invia un’email a
efinkel4@jhu.edu.

Alla lista dei firmatari

Orrore, vergogna, odio.

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Sergej Gandlevskij (traduzione di Elisa Baglioni)

 

Sulle prime non mi davo pace alla ricerca delle parole giuste per descrivere l’inizio della guerra, ma ho finito per scegliere le più comuni, quelle che riporto nel titolo, poiché sono quelle che la stragrande maggioranza degli amici e delle persone che conosco ha nel cuore e nella mente.

Orrore perché l’essere umano è destinato dalla nascita a un orrore — la propria morte, mentre il resto è determinato dalle circostanze. Più di una volta ho affermato che la nostra generazione era caduta in piedi, perché era riuscita a evitare una grande guerra e il terrore di stato. Invece ero nel torto, anche se avevo in mente la Grande guerra patriottica con il suo eroismo e la sua “nobile furia” e non questa sporca guerra scatenata dalla Russia all’alba del 24 febbraio!

Vergogna perché sento la responsabilità personale per quanto accaduto. Noi in massa siamo stati cattivi cittadini e per quattro soldi abbiamo consegnato il voucher della nostra libertà, che ci è caduta come una tegola in testa, nelle mani di furfanti e criminali. E poi, mi vergogno di fronte agli ucraini per bene con cui ho legami stretti o che conosco alla lontana, agli ucraini vivi e ai morti…

E, naturalmente, odio verso l’uomo che con modi da attendente ha combinato questo guaio sanguinario sfogando i propri difetti e rancori sul mondo intero.

Oltre mezzo secolo fa, alla fine del primo anno di scuola superiore ho trascorso due mesi di vacanze estive a Selišče, in Ucraina, sulle rive del Bug meridionale vicino Vinnica. Ogni giorno facevo il bagno nelle acque impetuose del fiume, mi ingozzavo di ciliegie nel giardino del Kolchoz e al tramonto me ne stavo seduto sulla panchina con le ragazze del luogo, mangiando semi di girasole e facendole ridere perché non capivo una parola delle loro chiacchiere. Mi era piaciuta in modo particolare Nina P., che con mio spavento e sorpresa si era presentata all’appuntamento. Era come in un libro: notte di luna, le rovine della cappella (che lì chiamavano con una parola polacca) e una ragazza di quindici anni che fino all’alba aveva evitato, ridacchiando, le avances di un molesto sbarbatello di Mosca.

La vita è quasi del tutto trascorsa. E ora Nina, se è ancora viva, ha forse paura che suo nipote morirà difendendo il proprio paese dalla Russia. Perché una tale disgrazia deve ricadere su una donna non più giovane? E perché un giovane che potrebbe essere mio nipote diventerà l’assassino di suo nipote o al contrario morirà per mano dell’altro?

Orrore, vergogna, odio.

(24 febbraio 2002)

 

*

 

Sergej Gandlevskij è poeta e prosatore. Esponente della dissidenza underground negli anni di Brežnev, sotto il regime sovietico ha diffuso i suoi versi attraverso il canale clandestino del samizdat. Ha vinto numerosi premi letterari in Russia e all’estero ed è stato ospite del Festival delle letterature di Mantova (2011) e  della Fondazione Brodskij (2013). Tradotto in numerose lingue, in italiano si possono leggere le raccolte poetiche La ruggine e il giallo (Gattomerlino, 2014), Festa e altre poesie (Passigli, 2017) e il romanzo NRZB (Elliot, 2020).

SPLENDE A CASCATA/ L’ORO DEI CEFALI

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Nota sull’ultima silloge di Giancarlo Consonni (Pinoli, Einaudi, 2021)

di Giuseppe Cinà

“Nel suo andare per il mondo, la poesia è autonoma da chi l’ha scritta… Ogni volta che trova ospitalità, risuonando nel corpo e nell’anima di un lettore … ha luogo una sorta di (ri)nascita … La poesia dei poeti non potrebbe vivere senza il convivio, ideale e concreto, di chi la sa riconoscere.” (Il Quotidiano del sud, 21 marzo 2021)
Per capire la poesia di Giancarlo Consonni suggerirei di partire dalle affermazioni sopra riportate. Esse ne definiscono quasi programmaticamente i principali caratteri distintivi: parola, brevità, convivio. Il recente volume Pinoli (Einaudi 2021) porta alle più chiare conseguenze queste assunzioni, in coerenza con le precedenti prove dell’autore, in dialetto e in lingua (in dialetto lombardo: Lumbardia (i Dispari 1983), Viridarium (Scheiwiller 1987), Vûs (Einaudi 1997); in lingua: In breve volo (Scheiwiller 1994), Luì (Einaudi 2003), Filovia (Einaudi 2016), Oblò (LietoColle 2009).
È proprio con la poesia Parola (“Porgere la parola/ al silenzio/ come all’amata/ un fiore”) che prende avvìo la silloge, articolata in cinque parti distinte da sottili marcature tematiche. La prima (Les petites heures) si svolge sul filo di una narrazione di eventi naturali colti nei loro aspetti aurorali e crepuscolari, una ouverture per frammenti di vita e paesaggi (di Laigueglia, terra amata dall’autore), ripresi nella seconda (Les grands heures) con più largo respiro, in un concerto di piante e animali in amore a far da primattori, dove il Gloria in excelsis di papaveri e fiordalisi “Di rosso, blu e giallo oro/ non è il paradiso/ è solo un campo di grano” (Frumento). Delle tre parti successive (Sonatina, Interludio e Oratorio) la prima introduce – in consonanza con gli amori della natura – “l’andirivieni di baci e libellule” (I primi baci) di giovani le cui parole resistono “come le erbe errabonde/ nelle insenature dei coppi” (Le parole); la seconda si apre alla memoria di affetti, amici e bellezze nascoste; e infine quella conclusiva mette in scena un Oratorio di vite ed eventi a tratti mistici, da cui trapela il contrappunto tra mondo antico e modernità, campagna e città.
Dunque una narrazione sinfonica in cinque movimenti, sorretta da uno sguardo sul mondo pieno di empatia, capace di portarne allo scoperto un doppio registro di sogno e realtà. Qui una scena di vita ripresa con dettaglio da incisore (“I fiori scalzati dai frutti” (Amarene)), là un’altra sospesa nel tempo, “nel silenzio della finestra” (L’ascolto), come in un film di Tarkovskij, dove accanto alla levità delle cose resta, appena nascosta da un velo, la gravità del vivere.
Nell’aderire a questo passo quella di Consonni è una poesia epigrammatica (“In salti ripetuti/ splende a cascata/ l’oro dei cefali” (Meriggio)), dove sono banditi l’invettiva e la denuncia, le note alte e la ridondanza. Per lui infatti la poesia è quella rappresentazione che fa sì che siano le cose a parlare (“Va sicura la mano/ il dono è nel levare” (Bosso)), lasciando posto al lettore affinché possa coglierne il messaggio e con proprie parole entrare nel rito del convivio cui il poeta officiante l’invita. Ne è un chiaro esempio il distico Uva (“Si fa ronzio/ il dolce dell’uva”). Qui al lettore non rimane da figurarsi solo l’innominata protagonista, ma anche il quadro di natura entro cui l’evento ha luogo e respira in uno con il ronzare dell’ape e il maturare del frutto. Per aiutarlo, ecco La piccola matita arenata sulla spiaggia, metafora della poesia come dono, pregna di “parole in potenza” che sta al lettore disvelare (Fa eccezione a questo meccanismo proprio la poesia Convivio, scritta per gli ottant’anni di Franco Loi, dove il rito non è rimandato al lettore ma si compie nell’incontro e nella festa augurale).
Questo carattere di asciuttezza non impedisce ai versi di Consonni di essere caratterizzati dalla diffusa presenza di figure retoriche. Esse però non sono l’esito di una ricercata tecnica compositiva ma piuttosto della volontà di sfruttare appieno il potenziale semantico delle parole, per meglio esplicitare assonanze e relazioni ricche di senso, che si traducono in sinestesie (“Penso alle ore/ tenere e senza guscio” (Pinoli)), metafore (“I primi fiori/ sono botti d’amore” (I primi fiori)) e altre figure. Va inoltre aggiunto che le composizioni non sono connotate da accenti sperimentali (sul piano sintattico, tematico o altro) ma piuttosto da un lavoro artigianale che tiene al centro la parola, l’ingrediente più capace di apparecchiare l’incontro con in lettore. Da tale scelta, e dalla ricerca dell’essenzialità, liberando il verso dalla misura e dal ritmo tonico, deriva l’adozione di una metrica libera, che si compone dietro al fluire delle parole ed è comunque caratterizzata dalla ricorrenza di componimenti brevi, quasi tutti con titoli di una sola parola, forse eco di una certa laconicità lombarda. Ne consegue, come già notato da Giuseppe Traina, quasi una liturgica esaltazione del frammento, con un lessico attento più alla funzione nominale dei sostantivi e meno alle aggettivazioni, dove è quasi assente la punteggiatura, che affiora nel marcare un accento narrativo invece che lirico.
Sottoposte al minimo della vestizione poetica (“Dolorano i rami/ gonfi di gemme” (Gemme)) – anche se così precise sculture verbali sono l’esito di un attento vaglio – queste poesie assomigliano ancora molto alle prime poesie dell’autore, quelle dialettali, o meglio alla loro traduzione in lingua, che proprio dalla necessità di sintonizzarsi con l’espressività del dialetto avranno maturato alcuni dei loro caratteri distintivi. In esse il paesaggio della narrazione è acceso di vita fin “nel cavo delle foglie” (Nebbia) e la natura si distende ai nostri occhi “nel lievitare del canto/ che sale dalla terra” (Albero), in uno spazio dove il tempo storico è sospeso come in un fermo-immagine tra una quasi Arcadia e un presente, come succede anche nella poesia di Tolmino Baldassari, Biagio Marin e in tanta poesia dialettale. L’io lirico scompare, sostituito dagli occhi e dalla mente del lettore che assiste al teatro inscenato dalla poesia. Un teatro con esiti che portano talora a una illuminazione, a una presa di coscienza, come nella terna di poesie sulla vita al tramonto che chiude la silloge: “L’ultima farfalla/ sull’ultimo fiore./ Così l’amore dei vecchi.” (L’ultima farfalla).
Ancora una volta Giancarlo Consonni, viaggiatore solitario che va per fasce, boschi e riviere, con voce pacata dà vita a un eden personale e ci mette a parte di una bellezza che fa pace con il mondo.

[Giuseppe Cinà, nato a Palermo, è architetto e urbanista. È stato professore associato di Urbanistica al Politecnico di Torino, occupandosi in particolare di progettazione urbana, conservazione dei centri storici e aree agricole periurbane. Ha lavorato come docente e ricercatore in numerosi paesi, soprattutto in quelli islamici (Algeria, Turchia, Iran, Iraq), in India e in Cina. Ha pubblicato molti testi specialistici sui temi della città e del territorio. Ha pubblicato due raccolte di poesie: A macchia e u jardinu (Manni, 2020) e L’àrbulu nostru/ Il nostro albero (La vita felice, 2022).]

Dialogo di marionette

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di Antonio Sparzani
Dialogo diretto e costruttivo tra BB (Beota Borioso – JB), PF (Pazzo Furibondo – VVP), PCD (pulce comico-destrorsa – VZ) e CONF (Confusionario – UE).

PF: dài, PCD, senza tanto rumore, come quando mi hai dato la Crizea 8 anni fa, dammi il Donkass, il Dontass e il Donvass che son già quasi miei, e poi non ti rompo più.

PCD: ma no, PF, adesso esageri, lì ci son tante cosettine cui tengo, non se ne parla, e poi adesso ho in mente di chiedere di entrare anch’io nella Bafo, così poi tu hai le mani legate.

PF: eh no, caro, questo non te lo permetterò mai, già mi sento un po’ circondato da quei profittatori della Bafo che quando abbiamo sciolto il Patto di Farzafia, invece di sciogliersi anche loro si sono allargati. Tu fai il piacere di stare lontano dalla Bafo, se no lo sai che mi arrabbio.

CONF: ehi, ehi, che succede lì tra voi? Venite qui che parliamo, noi che siamo la razionalità fatta persona dell’Occidente e dobbiamo controllare tutto il continente.

BB: noi noi siamo il giudice del mondo e quel che succede deve passare sotto il nostro controllo, voi del CONF non alzate troppo la cresta e tu PF stai attento a come parli.

PF: noi intanto, tanto per far vedere che non parliamo a vuoto ammassiamo un bel tot di truppe ai confini delle nostre nazioni amiche, che vedano quanto siamo loro amici e protettori.

CONF: eh no, eh! Mica vorrai giocare da solo, anche noi ammassiamo le nostre truppe ai confini di PCD, e abbiamo anche l’approvazione e la collaborazione del Grande Banchiere, quello che adesso fa il banchiere nello Stifale ma che l’altroieri ci ha dato i soldini ben distribuiti a tutti.

PF: noi per il momento facciamo le nostre manovre militari tanto per tenerci allenati, non si sa mai che un domani . . .

BB: fai fai, tanto si sa che sono operazioni di facciata, io mica ci credo, però forse è meglio che molti ci credano così poi noi saremmo liberi di, . . . tu mi capisci.

PF: tu BB come al solito non capisci una mazza, ti faccio vedere io la facciata che cos’è. Tanto la tua cosiddetta intelligence, che fa ridere i polli, mette in giro l’idea che ci stiamo parzialmente ritirando da quel confine che sai, mentre non ha capito che semplicemente abbiamo finito le manovre e adesso siamo pronti per qualcosa che forse è anch’essa una manovra, ma di tipo diverso.

PCD: ehi CONF, aiuto aiuto, noi che tra russi ci conosciamo bene abbiamo capito che il PF c’è rischio che faccia sul serio, non mi daresti una mano?

CONF: intanto tu mica sei nella Bafo e non puoi pretendere niente, però vedrai che un po’ di baccano lo facciamo, anche perché BB ha detto che se no non è contento, anche se a mio parere, lui che sta al di là dell’Atlantico, un pochino se ne strafotte delle nostre beghe.

PCD: guarda che io una volta facevo il comico e me ne intendo di sbruffoni, se PF fa sul serio e succede, metti, un qualche incidente, cosiddetto tale, poi perfino BB si sente costretto a intervenire, e allora addio pianeta. Intanto hai visto ieri sera: PF è già entrato (si fa per dire, lui sta lì sul suo bellissimo tavolo a mangiare caviale del Volga, mentre i suoi soldatini…) nel Dontass e nel Donkass e sta per arrivare nel Donvass, che sono tutti roba mia. E la prossima mossa?

CONF: tranquillo, camerata, noi intanto, che abbiamo giocato molto a Monopoli da piccoli e quindi abbiamo imparato molte cose, gli prepariamo delle cose brutte al PF, le Sanzioni: come se gli sequestrassimo via Roma e corso Impero, per largo Augusto poi vedremo.

BB: eh, eh? Cosa c’entra via Roma, che io quelle cose lì non le so. Ditele anche a me che poi faccio anch’io, se è divertente. Perché qui in questa casa tutta così bianca non ci si può mai divertire un po’, anche la Kavala, sempre così seria, uffa!

CONF: massì! Dài, rubiamogli un po’ delle sue proprietà all’estero che lui è stato così poco furbo da comprare qui e là; del resto, anche tu, BB, cosa ti è venuto in mente di affidare così tanti quattrini a quei comunisti del Sol Levante; lo sai che sono un po’ amici, soprattutto quando gli conviene, del PF? Una sua parola e quelli ti fanno restare in mutande, no?

BB: come come? Ma quella lì che sa sempre tutto e prende decisioni anche senza dirmi niente, la Kavala voglio dire, non mi ha detto niente del fondo del Sol Levante, cosa posso fare?

PCD: ehi ragazzi, il PF è scatenato, bando alle ciance, i suoi energumeni sono entrati e stanno arrivando qui vicino, comincio ad aver paura, CONF, fai qualcosa!

CONF: ma sì che faccio, faccio la seconda ondata di Sanzioni, sai, no, come la seconda ondata del Covid 19, poi gli facciamo la terza e vedrai che in mutande resterà lui. Intanto il Grande Banchiere ha deciso di mandare armi e uomini li vicino a PCD, sempre stando nella Bafo, per carità, così da fargli da scudo, nel caso.

PF: voi della Bafo che cianciate sempre tanto non azzardatevi a fare un passo in più, altrimenti vedrete cose che mai voi terrestri avete mai neppure immaginato.

BB: vedo che tra noi non terrestri ci intendiamo bene, caro PF, ti garantisco che la Bafo non muoverà un dito.

PF: sì, ma sai come sono gli amici del CONF, non sono mica sempre coerenti tra loro, che anche per questo si sono riuniti sotto quel nome, adesso che quella tipa così simpatica che trattava volentieri ha pensato bene di andarsene, il suo successore non mi dà alcun affidamento. Non potreste ripescare lei per una trattativa vera?

CONF: non se ne parla, PF, qui noi siamo compatti come non mai, piuttosto, perché non provate tu e quel povero PCD a trattare direttamente voi due, guarda che non dev’essere stordito come sembra.

PF: io quello lì in faccia non lo voglio neppur vedere, al massimo gli mando i miei scagnozzi, che però devono tornare a riferirmi molto spesso, perché mica mi fido completamente di quelle frasette che si dicono al telefono.

CONF: sì, capisco, ma pensi che sia giusto che si tratti mentre tu li bombardi? Non è così la prassi delle trattative, si fa prima un bell’armistizio e poi si parla.

PF: eh già, facile allora, intanto che parliamo quelli si organizzano e fanno entrare tutte le armi che voi gli mandate, e così mi si allungano i tempi, e anche le spese, che voi con le vostre stramaledette Sanzioni mi avete reso tutto più difficile. Comunque adesso facciamo così: voi CONF dite al BB di star fermo, e possibilmente anche zitto, per un attimo, che vediamo come possiamo combinare un’intesa PCD e io.

CONF: va bene, ma fa in fretta perché il Grande Banchiere è astuto più di una donnola e come nulla ti riduce il rublo carta straccia.

PF: non mi sottovalutare CONF, per quello ho già un piano, che il Grande Banchiere, come lo chiamate voi, non si aspetta proprio.

Ariaferma

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Elisabetta Bucciarelli intervista Leonardo Di Costanzo

Ariaferma è il nuovo lungometraggio di Leonardo Di Costanzo, uscito nelle sale alla fine del 2021 e ora visibile anche sulle piattaforme Sky e Prime. Parla di carcere, di rapporti umani, di cambiamento profondo, di empatia, punizione e controllo. Il film si svolge in un vecchio carcere in dismissione dove, per problemi burocratici, restano bloccati dodici detenuti e un manipolo di agenti di polizia penitenziaria. La direttrice, unica presenza femminile nel film, viene trasferita, le cucine chiuse, le attività sospese, compresi i colloqui con le famiglie, e i carcerati spostati tutti nella zona centrale del penitenziario, un panottico controllabile con maggiore facilità. La direzione del carcere passa, per anzianità, a Gaetano Gargiulo (Toni Servillo) che, fin dal principio, si troverà in una posizione scomoda, con nuove responsabilità e, soprattutto, con un punto di vista differente sulle faccende umane, sulla fallibilità, il riscatto, la colpa.

EB: Qual è la domanda da cui parte Ariaferma?

LDC: Da quando facevo documentari mi sono sempre interessato a personaggi che, per lavoro, scelta religiosa o ideologica, sono a contatto con le componenti più problematiche della società  e, di fatto, hanno compiti di mediazione sociale: gli insegnanti di una scuola dell’obbligo in una periferia ad alta percentuale di dispersione scolastica,  che decidono di non usare la sospensione come strumento disciplinare; la responsabile di un centro ricreativo per bambini a rischio in un quartiere dominato dalla camorra;  una  sindaca di una piccola città del sud, che cerca di imporre regole uguali per tutti in una comunità retta da corruzione e nepotismo.  Tutti personaggi che, nella loro azione, oscillano continuamente nel dubbio tra regole generali e legge morale.  E che, per far coesistere queste due cose, devono inventarsi nuove strade, creare nuove forme di convivenza. Quindi, era naturale che, prima o poi, sarei arrivato al mondo del carcere, un universo molto raccontato dal cinema, con veri e propri capolavori.  Mi sono domandato come fare. Ho pensato che il punto di vista avrebbe dovuto essere il più possibile nel mezzo, tra l’uno e l’altro dei gruppi che abitano il carcere, tra detenuti e agenti, perché volevo uscire dalla divisione manichea tra buoni e cattivi, soffermarmi sull’evoluzione dei personaggi, raccontare un luogo di violenza che è fatto anche di umanità.

Dodici detenuti, un panottico che sembra un chiostro, una specie di prima e ultima cena. È un sottotesto?

Nello scrivere ci siamo resi conto che, mettendo insieme fatti e comportamenti dei personaggi, piano piano emergevano elementi religiosi, riferimenti al cristianesimo primigenio; ma all’inizio non li avevamo cercati, ce ne siamo accorti in corso d’opera. Con questa consapevolezza poi li abbiamo usati e gestiti.

Set del film Ariaferma di Leonardo Di Costanzo. Nella foto Toni Servillo e Silvio Orlando.
Foto di Gianni Fiorito.

Che tipo di racconto è Ariaferma?

Se mi fossi attenuto a un tipo di racconto realistico non ce l’avrei fatta a restituire l’idea che mi ero fatto dell’universo carcerario.  Ho realizzato che avrei dovuto cercare di costruire un tipo di racconto che fosse “sollevato” dalla realtà. Rispetto ai film precedenti, con Ariaferma avevo bisogno di qualcosa di più romanzesco, in un certo modo favolistico, un racconto un po’ separato dalla realtà.

Falsità e finzione, come funziona da spettatore?

Io vengo dal documentario, quindi il problema del vero e del falso è una questione che mi si è posta sin dal primo momento in cui ho toccato una telecamera.  Ma presto ho maturato la convinzione che, trattandosi di costruire cinema, il problema sarebbe stato la credibilità e non che i fatti narrati fossero veri o falsi. Un documentario può sembrare molto più falso di un film di fantascienza. Dipende da come si usano gli elementi del racconto e, soprattutto, dal patto che si stabilisce tra il racconto e lo spettatore. Poi può capitare che lo spettatore, all’inizio del film, prenda una porta sbagliata (che inconsapevolmente il regista ha lasciato aperta) e che, quindi, tutto gli appaia falso e non credibile.  In definitiva, il regista deve stare attento a non lasciare porte aperte indesiderate che possono deviare lo sguardo dello spettatore, e lo spettatore deve porre attenzione nel cercare di capire qual è il percorso auspicato dal regista.

Dietro una storia, una narrazione c’è il regista la sua visione del mondo ed è questo che cerco quando guardo un film. Questo mi permette anche di apprezzare e di godere di film, accettare film che possono sembrare poco riusciti.

Cosa vuol dire per te cercare e trovare la forma giusta per raccontare?

Un film si costruisce in una dialettica continua tra forma e contenuto, ammesso che abbia ancora senso mantenere questa divisione. È la storia che detta la forma ed è quest’ultima che indica la storia.

Quando mi vengono poste domande su questioni di forma mi viene sempre in mente il lavoro di Rithy Panh, il regista cambogiano con cui, nel 1995   nell’ambito dei progetti degli Ateliers Varanho fondato una scuola di cinema per documentaristi a Phnom Pen. Rithy Panh ha avuto la sua famiglia distrutta durante il regime di Pol Pot e dei Khmer Rouges.  La quasi totalità dei suoi film raccontano del genocidio e sono film spesso molto diversi dal punto di vista formale. È come se Rithy continuasse ad interrogare le forme filmiche come tentativi di cogliere l’irriducibilità dell’orrore e del genocidio che ha colpito lui ed il suo paese.

Per quanto mi riguarda, ad un certo punto del mio percorso mi son reso conto che, con il documentario, non sarei riuscito a raccontare quelli che, piano piano, diventavano i miei desideri di storie. Quindi ho ritenuto necessario far ricorso alla finzione. E lì si sono aperte altre questioni, altre riflessioni, un altro modo di ragionare, anche se, facendo finzione, con me porto come bagaglio molti attrezzi del fare documentario.

Set del film Ariaferma di Leonardo Di Costanzo.
Foto di Gianni Fiorito.

Per questo hai deciso di usare la fiction per Ariaferma, mescolando attori non professionisti con attori di professione?

Sì, perché non ce l’avrei fatta a realizzare questo tipo di narrazione solo con attori non professionisti. Poi ho scelto due attori importanti e li ho messi fuori ruolo. Eduardo diceva: l’attore deve stare scomodo. Così ho assegnato a Toni Servillo la parte di guardia carceraria e a Silvio Orlando quella del boss carcerato, di fatto mettendoli entrambi “fuori ruolo”.

Nel film uno dei protagonisti, Gaetano Gargiulo, da agente di polizia penitenziaria che esegue gli ordini, diventa responsabile del carcere e a sua volta esercita il potere. Questo innesca un cambiamento in lui, che diventa anche un modo differente di vedere l’altro da sé.

Questi personaggi della periferia, nella geografia sociale sono messi a confronto con dilemmi morali che possono portare a questo tipo di cambiamenti o evoluzioni.  A Gaetano capita perché, da esecutore di ordini, diventa responsabile del carcere; questo spostamento di ruolo nella gerarchia gli dà la possibilità di guardare in modo diverso i detenuti.  In altri casi, il dilemma tra legge del gruppo e legge morale è costante: nel mio film precedente, L’intrusa, la protagonista Giovanna viene ingannata dalla moglie di un mafioso a cui ha dato ospitalità; avrebbe tutte le ragioni per reagire di conseguenza ed espellerla, come richiedono le altre mamme; invece, capendo la condizione di fragilità di quella donna, decide di non cacciarla mettendo così a rischio l’esistenza stessa della comunità.

Inizio o fine di un film, cosa ti viene più facile?

Di solito i miei finali sono delle sospensioni. Da spettatore, i film che si concludono con un finale preciso li dimentico subito.

E infatti, sia nel finale de L’intrusa (uscito nel 2017) sia in Ariaferma, non c’è un congedo definitivo, ma sempre un’apertura a qualcosa che potrà accadere oppure no. Non vendi facili soluzioni o happy end. Però è sempre molto chiaro il tuo modo di guardare il mondo.

Più che soluzioni o finali a me interessa restituire un sentimento o un pensiero su un tema su cui ho deciso di fare il film. Per esempio, ho deciso di girare Ariaferma dopo aver fatto un’esperienza al carcere di Lecco. Con gli sceneggiatori Bruno Oliviero e Valia Santella, sono andato a un incontro con i detenuti ed era anche presente una scolaresca. Abbiamo trascorso un’ora insieme, anche con momenti conviviali. Poi la comunità si è sciolta: l’umanità che si era costituita è stata sospesa e gli agenti di polizia penitenziaria hanno richiuso i detenuti nelle celle. Quest’atto l’ho sentito molto violento e mi ha così colpito che è diventato quello il sentimento che ha guidato la scrittura e la realizzazione del film.  Spero che il sentimento dello spettatore uscendo dalla proiezione sia in qualche modo simile al mio uscendo dal carcere di Lecco.

Set del film Ariaferma di Leonardo Di Costanzo. Nella foto Pietro Giuliano e Nicola Sechi.
Foto di Gianni Fiorito.

L’apertura di Ariaferma è una battuta di caccia, le guardie intorno a fuoco, fuori dal carcere, parlano, bevono. Poi rientrano nella struttura penitenziaria e per tutto il film non si esce più. Che strana idea.

L’inizio trae spunto dal racconto dell’ex direttrice del carcere di Bollate, Lucia Castellano. Al penitenziario Marassi di Genova era rimasta colpita dai giovani agenti di polizia penitenziaria che lei vedeva disperati. Nel tempo libero andavano a sparare alle lontre… e poi una parte di racconto riguarda me. Sono io che, adolescente, andai a caccia con mio fratello maggiore. Sparai ad una tortora e la ferii poi, invece di ucciderla, la tenni con me curandola, le mettevo la penicillina sull’ala e sopravvisse, almeno per un po’. Da allora non sono più andato a caccia.

I tuoi film sono girati sempre in spazi chiusi, si allude all’esterno, ma si resta sempre dentro. Così è per L’intrusa, dove la storia si svolge all’interno de La Masseria, un centro ricreativo per ragazzini e ragazzine e lo stesso vale per Ariaferma, girato interamente all’interno di un carcere in dismissione. Alludi all’esterno e vuoi restare dentro, dove accadono davvero le cose, addirittura nel carcere c’è un dentro più dentro, ovvero il panottico dove accade quasi tutto.

Si c’è sempre un luogo, che diventa il teatro dove i conflitti si manifestano e si sciolgono, conflitti che rimandano ad un esterno: il mondo è fuori, è evocato invece che mostrato. Addirittura, con L’intrusa, mostrando i palazzoni di Napoli, mi sembra di essere uscito troppo.

Nei tuoi documentari hai trattato più volte il tema dell’adolescenza, in particolare in Cadenza d’inganno segui le giornate di Antonio, un ragazzino adolescente “tutto in potenza e niente in atto”. Non è appassionato di niente, non sa fare niente, rappresenta la totale assenza di trama esistenziale, lo stato liquido dell’adolescenza. A un certo punto Antonio dice basta e non vuole più essere ripreso, un po’ di anni dopo ti richiama e ti chiede di continuare il documentario… che rapporto hai con le trame?

Il mio sogno è fare un film senza trama.

Set del film Ariaferma di Leonardo Di Costanzo. Nella foto Toni Servillo, Silvio Orlando, Fabrizio Ferracane e Salvatore Striano.
Foto di Gianni Fiorito.

Avresti voluto fare l’insegnante ma dici di non essere stato capace, usi spesso la parola incapace anche quando stabilisci di non essere in grado di portare avanti un progetto che vorresti con una certa forma. Poi trovi una soluzione. Per esempio la questione dell’anima, tu vuoi l’anima del personaggio e con un attore è più facile ottenerla…

I film si fanno con l’incontro tra il tuo desiderio, quello che puoi fare e quello che riesci a fare. I soldi che trovi, i personaggi, la tua capacità. È un incontro. A un attore posso dire mettici la tua anima, tanto non sei tu.

In cosa ti metti a rischio quando giri un film?

Penso che tutti che quelli che fanno cinema o opere di creazione mettano sé stessi in gioco e quindi rischino e la paura è sempre quella di dire cazzate. Io faccio fatica ad assistere alle prime proiezioni di un mio lavoro. Dopo averci lavorato così tanto perdo una visione d’insieme, non so più cosa io racconti: so il film che volevo fare, non quello che ho fatto. Dalle reazioni degli spettatori e dalle domande che mi vengono poste, da quello che leggo nelle critiche mi accorgo cosa è passato, nel film realizzato, del film che volevo fare. Spesso il senso va anche oltre le cose che avevo pensato. E questo è bello.  Mi fa piacere che lo spettatore si appropri del film e faccia sua la storia.

Sassari, 29/11/2020 – Il regista Leonardo Di Costanzo sul set del suo nuovo film Ariaferma.
Foto di Gianni Fiorito.

Libro di Manuel

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di Julio Cortazar
nella traduzione di Dario Valentini

Parte Prima

D’altronde, era come se “quello di cui ti ho parlato” avesse avuto intenzione di raccontare alcune cose, dato che aveva messo da parte una notevole quantità di note e foglietti, apparentemente sperando che finissero per ammassarsi senza troppe perdite. Aspettò più di quanto fosse prudente, a quanto pare, e adesso toccava ad Andrés scoprirlo e dispiacersene, ma a parte quell’errore, ciò che sembrava aver rallentato maggiormente “quello di cui ti ho parlato” era stata l’eterogeneità delle prospettive secondo cui quelle cose erano successe, per non parlare del desiderio – piuttosto assurdo e comunque per nulla funzionale – di non immischiarsi troppo. Questa neutralità lo aveva portato fin dall’inizio a mettersi come di profilo, operazione sempre azzardata in questioni narrative, figuriamoci storiche, che è la stessa cosa, specialmente dato che “quello di cui ti ho parlato” non era né stupido né modesto, eppure qualcosa di difficilmente spiegabile sembrava avergli richiesto di tenere una posizione sulla quale non fu mai disposto a fornire dettagli. D’altra parte, sebbene non fosse facile, aveva preferito fornire sin dal principio diverse informazioni che permettessero di entrare da multiple angolazioni nella breve ma tumultuosa storia della Joda[1] e di persone come Marcos, Patricio, Ludmilla o il sottoscritto (che “quello di cui ti ho parlato” chiamava Andrés senza discostarsi dalla verità), forse sperando che tali informazioni frammentarie illuminassero un giorno la fucina interna della Joda. Tutto questo, chiaramente, se tutte quelle note e pezzi di carta avessero finito per disporsi in maniera intelligibile, cosa che in realtà non avvenne mai del tutto per ragioni che in qualche misura si potevano dedurre dai documenti stessi. Una prova della sua intenzione di entrare subito nell’argomento (e forse mostrare la difficoltà di farlo) venne fornita inter alia dal fatto che “quello di cui ti ho parlato” stesse ascoltando quando Ludmilla, dopo aver giunto e disgiunto le mani come in un esercizio di ginnastica alquanto esoterico, mi guardò lentamente con l’aiuto di un dispositivo oculare profondamente verde e mi disse Andres, ho il presentimento a livello dello stomaco che tutto ciò che accade o che ci accade è molto confuso.

—Polacchina, confusione è un termine relativo —le feci notare—, capiremo o non capiremo, ma quella che tu chiami confusione non è responsabile di nessuna delle due cose. La comprensione, mi pare, dipende solo da noi e per questo non basta misurare la realtà in termini di ordine o confusione. Occorrono altri poteri, altre opzioni come si dice adesso, altre mediazioni come si arci-dice adesso. Quando si parla di confusione, quasi sempre si ottiene gente confusa; a volte basta un amore, una decisione, un’ora fuori dall’orologio perché di colpo il fato e la volontà immobilizzino i cristalli del caleidoscopio. Eccetera.
—Blup —disse Ludmilla, che usava quella sillaba per andare mentalmente dall’altro lato della strada, e adesso valle dietro.

Certo che, fa notare “quello di cui ti ho parlato”, nonostante tale ostruzionismo soggettivo, il filo conduttore è molto semplice: 1) La realtà esiste o non esiste, in ogni caso è incomprensibile nella sua essenza, così come sono incomprensibili le essenze in realtà, e la comprensione è un altro specchietto per le allodole, e l’allodola è un uccellino, e uccellino è il diminutivo di uccello, e la parola uccello ha tre sillabe, e ogni sillaba ha due lettere, e così si vede che la realtà esiste (da allodole e sillabe) ma è incomprensibile, perché poi cosa significa significare, cioè, tra le altre cose, dire che la realtà esiste; 2) La realtà sarà pure incomprensibile ma esiste, o almeno è qualcosa che ci accade o che ognuno di noi fa accadere, così che una gioia o un bisogno elementare ci porta a dimenticare tutto ciò che è stato detto (in 1) e ad andare al punto 3). Abbiamo appena accettato la realtà (in 2), qualunque essa sia o comunque sia, e quindi accettiamo di essere collocati in essa, ma proprio lì capiamo che, assurda o falsa o truccata, la realtà è un fallimento dell’uomo pur non essendolo dell’uccellino che vola senza fare domande e muore senza saperlo. Quindi, inesorabilmente, se abbiamo appena accettato quanto enunciato in 3), dobbiamo passare a 4) Questa realtà, a livello di 3), è una truffa e dobbiamo cambiarla. Qui abbiamo una biforcazione, 5 a) e 5 b):

—Wow—, dice Marcos.

5 a) Cambiare la realtà solo per me – prosegue “quello di cui ti ho parlato”- è cosa vecchia e fattibile: Meister Eckart, Meister Zen, Meister Vedanta. Scoprire che il sé è un’illusione, coltivare il proprio giardino, diventare un santo, trasformarsi da cacciatore a preda. No.

—Stai andando bene— dice Marcos.

5 b) Cambiare la realtà per tutti – continua “quello di cui ti ho parlato” – è accettare che tutti sono (o dovrebbero essere) quello che sono io, e in qualche modo fondare il reale sull’umanità. Ciò significa accettare la storia, cioè la razza umana su una strada sbagliata, una realtà accettata finora come reale e così via. Conseguenza: c’è un solo dovere ed è quello di trovare la strada giusta. Metodo, la rivoluzione. Sì.

—Beh—dice Marcos, —sei il migliore quando si parla di semplificazioni e tautologie.—
— È il mio libretto rosso di ogni mattina—, dice “quello di cui ti ho parlato”, —e devi ammettere che se tutti credessero nelle semplificazioni, non sarebbe così facile per la Shell Mex piazzarti una tigre nel motore.
—È la Esso—, dice Ludmilla, che ha una Citroen due cavalli apparentemente paralizzati dal terrore per la suddetta tigre dato che si fermano ad ogni angolo e “quello di cui ti ho parlato” o io o qualcun’altro deve mettersi a spingerla.

A “quello di cui ti ho parlato” Ludmilla piace per quel suo modo folle di guardare le cose, e forse è per questo che fin dall’inizio Ludmilla sembra avere come il diritto di violare ogni cronologia; è vero che ha potuto parlare con me (“Andrés, ho il presentimento a livello dello stomaco…”), eppure, “quello di cui ti ho parlato” mescola, forse intenzionalmente, i loro ruoli quando fa parlare Ludmilla in presenza di Marcos, dal momento che Marcos e Lonstein sono ancora sulla metropolitana che li conduce, poco ma sicuro, al mio appartamento, mentre Ludmilla sta recitando la sua parte nel terzo atto di una commedia drammatica al Teatro del Vieux Colombier. A “quello di cui ti ho parlato” ciò non importa assolutamente, poiché due ore dopo le persone sopra citate si riuniranno a casa mia; penso addirittura che lo faccia apposta affinché nessuno – compresi noi e soprattutto gli eventuali destinatari dei suoi lodevoli sforzi – si crei false speranze sul suo modo di trattare il tempo e lo spazio; a “quello di cui ti ho parlato” piacerebbe avere il dono dell’onnipresenza, mostrare Patricio e Susana che fanno il bagnetto a loro figlio nello stesso momento in cui Gómez il panamense completa con gran soddisfazione una collezione di francobolli Belgi, e un certo Oscar a Buenos Aires telefona alla sua amica Gladis per informarla di una cosa molto seria. Quanto a Marcos e Lonstein, sono appena tornati in superficie nel quindicesimo distretto di Parigi, e si accendono una sigaretta con lo stesso fiammifero, Susana ha avvolto il figlioletto in un asciugamano blu, Patricio prepara un mate[2], la gente legge il giornale della sera, e via così.

Ludmilla
Gómez
Monique
Lucien Verneuil
Heredia
Marcos
Andrés
Quello di cui ti ho parlato
[Francine]
Oscar
Manuel
Gladis
Lonstein
Roland
Fernando
Per abbreviare le presentazioni, “quello di cui ti ho parlato” immagina qualcosa del genere, tutti sono seduti più o meno nella stessa fila di sedili davanti a qualcosa che potrebbe essere, se si vuole, una specie di muro di mattoni; non è difficile dedurre che lo spettacolo è tutt’altro che maestoso. Chiunque paghi il suo ingresso ha diritto a un palcoscenico in cui accadono cose, e un muro di mattoni, salvo il passaggio più o meno casuale di uno scarafaggio o dell’ombra di chi scende dal corridoio centrale cercando il suo posto, non offre gran che. Ammettiamo dunque – questo a spese di “quello di cui ti ho parlato”, Patricio, Ludmilla o mie, per non parlare degli altri che a poco a poco siedono in fondo alla platea, come i personaggi di un romanzo che si dispongono uno dopo l’altro nelle pagine più avanti, anche se vai a sapere quali sono le pagine più avanti e quelle più indietro di un romanzo, dato che l’atto di leggere significa avanzare nel libro, ma quello di apparire significa tornare indietro rispetto a quelli che appariranno poi, dettagli formali di poco conto – ammettiamo dunque per assurdo che tuttavia queste persone sono lì, ognuna sul suo sedile davanti al muro di mattoni, per ragioni diverse poiché sono individui ma tutti in qualche modo affrontando l’assurdo, per quanto illogico possa sembrare ai vicini di quartiere che proprio in quel momento assistono affascinati nel cinema dell’isolato a fianco, alla clamorosa proiezione made in URSS di Guerra e Pace in technicolor e in due parti su schermo gigante, supponendo che quegli spettatori possano immaginare che “quello di cui ti ho parlato”, eccetera, siano seduti nei loro sedili davanti a un muro di mattoni, e affrontare l’assurdo consiste per Susana, Patricio, Ludmilla, eccetera, nell’essere esattamente dove sono, perché quella specie di metafora in cui tutti si sono infilati consapevolmente e ciascuno a suo modo, consiste, tra varie cose, nel non assistere a Guerra e Pace (sempre seguendo la metafora, perché almeno due di loro l‘hanno già visto), sapendo benissimo dove sono, sapendo ancora meglio che è assurdo, e soprattutto sapendo che non possono essere violentati dall’assurdo in quanto non si limitano ad affrontarlo (sedendosi davanti al muro di mattoni, metafora) ma è proprio l’assurdità di andare verso l’assurdo a far crollare i muri di Gerico, che vai a sapere se erano di mattoni o tungsteno pressato, se è per questo. In altre parole, affrontano l’assurdo perché sanno che lo si può sconfiggere, e che in fondo basta gridargli in faccia (di mattoni, per seguire la metafora) che non è altro che la preistoria dell’uomo, il suo progetto amorfo (qui, innumerevoli possibilità di descrizione teologica, fenomenologica, ontologica, sociologica, dialettico-materialista, pop, hippie) e che è finita, questa volta è finita, non è chiaro come ma a questo punto del secolo qualcosa è finito, fratello, e allora vediamo cosa succede, ed è proprio per questo che stasera, in quello che si fa o si dice, in quello che diranno o faranno i molti che continuano ad entrare e sedersi davanti al muro di mattoni, aspettando come se il muro di mattoni fosse un sipario dipinto che si alzi appena si spengono le luci, e le luci si spengono, certo, e il sipario non si alza, arci-chiaro, perché-i-muri-di-mattoni-non-si alzano. Assurdo, ma non per loro perché loro sanno che quella è la preistoria dell’uomo, guardano il muro perché immaginano cosa possa esserci dall’altra parte; poeti come Lonstein parleranno di regno millenario, Patrick gli riderà in faccia, Susana penserà debolmente a una felicità che non si debba pagare con l’ingiustizia e le lacrime, Ludmilla ricorderà chissà perché un cagnolino bianco che le sarebbe piaciuto avere a dieci anni e che non le regalarono mai. Quanto a Marcos, tirerà fuori una sigaretta (è vietato), la fumerà lentamente, e io mischierò tutto per escogitare una possibile via d’uscita dell’uomo attraverso i mattoni, e naturalmente non riuscirò ad immaginarla perché le estrapolazioni della fantascienza mi annoiano terribilmente. Alla fine ce ne andremo tutti a bere una birra o a prenderci un mate da Patricio e Susana, finalmente comincerà ad accadere davvero qualcosa, qualcosa di fresco giallo verde liquido caldo in mezzo litro, zucche disposte in cerchio, lampadine e come volando sopra l’imponente montagna di panini che avranno preparato Susana e Ludmilla e Monique, quelle menadi pazze, sempre morte di fame quando escono dal cinema.

[1] Joda: gruppo di intellettuali rivoluzionari di cui fanno parte i protagonisti [N.d.t]

[2] Mate: bevanda simile al te, ricavata dall’infusione di foglie di erba mate, pianta originaria del Sud America [N.d.t]