Home Blog Pagina 71

Aria e tradizione: l’ultimo libro di poesia di Gabriella Sica

0
ph. Mimmo Jodice, "Amazzone ferita" (particolare)
ph. Mimmo Jodice, “Amazzone ferita” (particolare)

 

di Paolo Rigo

Se – perseguendo un gioco paradossale – si chiedesse a un poeta qual è l’argomento a cui è deputato il suo canto, la risposta manifesterebbe con molta probabilità un non-so-che di incertezza: l’amore, la morte, la consolazione, il ritorno ai luoghi cari, tante e diverse potrebbero essere le risposte e tutte sarebbero giuste. Però, nessuna si potrà mai considerare come quella archetipica. Nessuna, meno una: il tempo. A partire da Ovidio il genere poetico della lirica è, infatti, consacrato alla celebrazione della fuga del tempo (hora fugit scriveva negli Amores). Il tempo, la dimensione immateriale che lascia traccia sulla pelle dell’uomo con rughe e canizie comprende la totalità dei temi menzionati. Nel tempo e attraverso il tempo nasce e cresce il Canzoniere di Petrarca: lì dove le occasioni – parola novecentesca dalle antichissime vestigia – ripetute in un infinito caratteristico, unico, chiuso e completo (poiché delimitato da una divisione calendariale), tornano sempre sullo stesso evento, il momento focale della prima passione.

Al tempo – con i suoi ricordi, con i suoi anniversari, con i giorni che passano – è dedicato l’ultimo libro di Gabriella Sica, dal titolo Poesie d’aria. Disturbare Petrarca non è una scelta peregrina, un vezzo del recensore: la poesia di Sica, infatti, fin dai tempi di Prato pagano è consacrata al dialogo con gli antichi, e anche questo confronto, attraverso la sua più tenera illusione di gettare un ponte tra le ere, è legato al tema del tempo. Tra i tanti elementi che si potrebbero offrire quali analisi in questa brevissima presentazione del lungo volume di poesie (quasi duecento pagine) edito da Interno Poesia, si è scelto di provare a valorizzare non solo la struttura stessa dell’opera ma anche l’interesse speso da Sica verso la tradizione. Tale aspetto è dirompente ed esposto, ma nasce sempre da un’operazione voyeuristica, dalla brama di raccontare il proprio sguardo sul mondo, su un dettaglio. Così, per esempio, una Coltelleria a Brera diviene il luogo fisico e simbolico di una parte del libro: lì, si consumano «i dolenti coltellini del mestiere»; lì si sarà fermato Montale «talvolta a pensare / a quel groviglio-nodo che scava»; sempre a Milano, Montale avrebbe «trovato / la cesoietta giusta che recide / il passato che non passa». Questi versi tratti da Si sarà a questa vetrina Montale sembrano essere un omaggio al poeta che più di tutti nel Novecento ha cantato il mondo quotidiano con il suo scorrere inesausto e incontrollabile, eppure, a ben guardare, la sentita prosopopea, gli strumenti della poesia che agiscono sulla materialità, non sono quelli del poeta moderno ma di un altro lontano secoli: è Guido Cavalcanti, infatti, ad aver dato letteralmente voce alle cesoiuzze, al coltellin dolente, alle penne isbigottite; i tragici collaboratori che assumevano così i tristi attributi dell’io, prendendo su di loro il sentimento di desolazione derivato dall’amore tragico e passionale immaginato dal primo amico di Dante.

Il mascheramento operato da Sica, la quale si pone sulla scia di un gioco perpetrato recentemente da altri come, per esempio, Fernando Bandini o Giulia Martini (si vedano: del primo l’ultima quartina di Sera a Vicenza; e della seconda il sonetto Guido, io vorrei che tu e Lapo e io), è talvolta più difficile da cogliere, condotto com’è con uno spirito molto sottile. Varranno un paio di esempi: parto dalla canzone di quartine intitolata Nella foresta-città, dove l’io poetante di Sica si riconosce in un’immaginaria corsa cittadina affianco a un cervo dotato di «corna dorate nel cielo». Si tratta di un incontro che irrompe sulla dimensione martellante del tempo quotidiano frantumando la convenzione fissata a partire dal suo tratto più comune nella società, quello della misura:

o un secondo, non ho orologio, che ore sono?
Quando siedo a tavola o dormo m’è accanto
il cervo dalle ramificate corna che nessuno vede,
ansimante mi rialzo e corro corro sempre.

Sulle alte creste dei monti a piedi o in auto
fuggo e ancora fuggo con il cervo nudo,
intanto stringo la cintura e scatto in avanti
rapida ma non posso non calcolare il tempo.

La confusione generata dalla figura apparsa si rafforza grazie alla quasi totale assenza di punteggiatura. Tale assenza potrebbe essere percepita come un vezzo stilistico dal lettore, ma si dovrà ricordare che per molti secoli e ancora fino a tempi relativamente moderni, la punteggiatura – a parte il punto – non esisteva. Certo, non si vuole suggerire che Sica mimi la scrittura del passato, ma evidenziare come l’ambiguità raggiunta risponda alla necessità di rendere il componimento stesso uno spirito automa, una macchina in grado di essere sufficiente senza l’interpunzione, se non quella basilare. Questa lingua primitiva conferma implicitamente che quanto appare all’io è ascrivibile al genere della visione, notturna o a occhi aperti poco importa. Si tratta dell’unico momento, come ci ha insegnato Agostino nelle Confessioni con l’estasi di Ostia, in cui il tempo, la più grande illusione umana, si annulla. Ma se si volesse riprendere il discorso sulle autorità antiche, sui padri o numi tutelari a cui Sica guarda, si dovrà constatare che l’apparizione del «candido cervo» è costruita guardando al sonetto Una candida cerva sopra l’erba di Francesco Petrarca (è il Fragmentum 190). Riconosciuto il palinsesto più probabile anche grazie alla compresenza del medesimo qualificante (candido-candida), ora della fierissima creatura descritta da Sica può essere sciolta la veste allegorica: l’animale andrà riconosciuto non tanto come uno spirito guida (questa funzione è apertamente negata nella poesia: «Non è un uomo e neppure è il mio animale»), quanto piuttosto quale manifestazione operante dell’anima dell’io. Esso è la forma viva di un contatto mistico che risponde a leggi simili a quelle proprie della trinità cristiana («io e lui siamo una cosa unica non separata»). Guardando alla cerva di Petrarca (e si noti il rovesciamento io maschile-cerva, io femminile-cervo), Sica offre così una nuova versione del testo d’origine e anche una sua personale interpretazione del sonetto di Petrarca che, tra l’altro, non si discosta molto da quella attualmente accettata dalla critica specialistica (secondo cui la cerva dell’autore trecentesco è immagine del pellegrino cristiano, di Sant’Eustachio, che diviene a sua volta simbolo di una nuova e prossima conversione di chi guarda). Certo, non ci sono soltanto Cavalcanti e Petrarca tra le rime di Sica: si potrebbe disturbare Pasolini, acceso faro della poesia-prosastica italiana, che, evidentemente, illumina anche la vena più didascalica della produzione dell’autrice romana, ma per restare su di un tempo più antico e più lontano, si noterà con piacere che oltre Petrarca, pure Dante viene seguito da Sica da molto vicino.

Stavolta il mascheramento è condotto attraverso un filtro altamente ironico. Il primo verso di Avvistata una pantera, altro esempio importante di questo dialogo con il passato, è una sorta di dichiarazione di luogo e di tempo: «“Tusciaweb”, 15 gennaio 2007, ore 18,30» (corsivo nel testo). L’epigrafe, che potrà anche corrispondere al vero (poco importa), proietta il lettore nell’apparente officina dell’autrice: apparente perché prova che tale articolo sia mai stato pubblicato non può e non deve esserci. L’officina, però, non corrisponde mai al grado zero della lingua e così la comparsa dell’animale, «un grande felino simile a una pantera» che «si aggirerebbe / per le campagne tra Cellere e Montalto di Castro», deve molto a Dante, alla sua Commedia e al De vulgari eloquentia. Nel trattato in latino, l’auctor definisce la sua ricerca del volgare perfetto, eccelso, curiale come una caccia all’odorosa pantera: il caratteristico profumo del felino, derivato dai bestiari dove l’animale è riconosciuto quale simbolo di Cristo, è un tratto ripreso pure da Sica. Nel testo di quest’ultima, infatti, non solo «si sa dell’attrazione che esercita sugli animali» quel profumo con la sola eccezione del diabolico «serpente» che «striscia» e «non cede al suo alito odoroso»; ma la pantera è una «creatura braccata» che fa sentire «il suo profumo / nei dintorni ma non si manifesta in nessun luogo»; ella sempre «esala il suo profumo». Come la cerva pure la pantera è dotata di caratteristiche soprannaturali («Sparisce per secoli e riappare come rosa tra i boschi / con la sua elegante potestà e l’altera forza elusiva») e paradossali («Pare si sia sdraiata di notte accanto a un agnello, / eppure ha ferito al Parco di Vulci un intero gregge»; «La bestia» è «vorace o gentile?»), ma mi preme sottolineare come il paesaggio descritto dalla poetessa, che è tra l’altro originaria del viterbese, assume una coloritura fortemente dantesca.

La storia di questa pantera degli anni Duemila è, infatti, ambientata in una «selva italica» e poi ancora presso il «ruscello del Bulicame»: si tratta di luoghi, di due termini inequivocabili che appartengono all’Inferno di Dante. Affianco a Dante, però, bisognerà affiancare almeno un’altra voce, quella di Giorgio Caproni che a una bestia non identificabile, rivelata da un manifesto esemplato su quelli settecenteschi (anche a Caproni è diretta l’ironica menzione del sito web di Sica?), aveva dedicato un intero libro (cfr. Il conte di Kevenhüller). Ecco, dunque, che nel tempo della scrittura e della lettura delle poesie di Sica si realizza la grande illusione a cui si era accennato: in quel luogo fisico e immateriale che sono le pagine di carta non si può interrompere il dialogo con quello che è e con quello che è stato.

La filosofia africana e il mondo che verrà

1

di Jamila Mascat

 

La filosofia africana e il mondo che verrà*

Filosofo senegalese, direttore dell’Institute for African Studies alla Columbia University di New York, Souleymane Bachir Diagne riflette sul ruolo della filosofia africana nel villaggio globale dei saperi e spiega come sia possibile decolonizzare l’universalismo risignificandolo a partire dall’esperienza della traduzione.

Da alcuni anni l’Africana Philosophy ha acquisito una certa visibilità nel panorama filosofico angloamericano. Cosa designa questa etichetta e in che misura la si può considerare come l’espressione di una rinnovata etnofilosofia, ovvero, secondo la definizione del filosofo beninese Paulin Hountondji, un mito filosofico fondato sull’idea di una presunta visione del mondo comune a tutti i popoli africani, di cui, secondo Hountondji, ci si dovrebbe piuttosto sbarazzare?

Africana Philosophy è prima di tutto il nome di un progetto che ambisce a pensare insieme la filosofia africana e la filosofia afro-americana, includendo un cospicuo numero di autori di provenienza diversa. Per farsene un’idea, basta dare un’occhiata al programma della grande conferenza di Africana Philosophy che si è tenuta alla City University of New York lo scorso anno, organizzata dal filosofo afro-americano Charles Mills, l’autore de Il contratto razziale (1997) e dalla filosofa latino-americana Linda Martín Alcoff.  Negli Stati Uniti, l’etichetta di Africana Philosophy è servita ritagliare uno spazio visibile in ambito accademico per le filosofie africane e della diaspora che così sono state ufficialmente ammesse nel novero delle discipline filosofiche.

L’Africana Philosophy però ha una vocazione molto più ambiziosa, che condivide con altre scuole di pensiero, quale la teoria postcoloniale e decoloniale: si tratta di contribuire alla decostruzione del canone filosofico egemone. Nella maggior parte delle università abbiamo dipartimenti e insegnamenti di filosofia, in cui di fatto vengono insegnate soltanto la filosofia europea e nordamericana: non sarebbe più corretto parlare di filosofia occidentale?  L’esistenza della filosofia africana ci obbliga allora a ripensare la storia e la geografia della filosofia alla luce del suo incontrovertibile pluralismo di lingue, culture e civiltà.

Ora proprio a proposito di pluralismo, ci si potrebbe chiedere che senso ha parlare di filosofia africana, se non c’è un contenuto specifico che la contraddistingue. Su questo ci sono opinioni divergenti. Quando il padre francescano belga Placide Tempels nel 1945 scriveva la Filosofia bantù alludeva all’idea presunta di una filosofia comune a tutti i popoli subsahariani, accomunati, secondo Tempels, da un’identica maniera di pensare. La filosofia africana non vuole essere una nuova etnofilosofia in questo senso, ma un tentativo di contribuire alla pluralizzazione della filosofia a partire da un posizionamento concreto e situato che però non presuppone l’esistenza di un pensiero collettivo africano condiviso, piuttosto una costellazione di problemi specifici che fanno appello a risorse epistemiche diverse da quelle mobilitate nella tradizione del pensiero europeo.

A questo proposito, in che cosa la filosofia africana si distanzia e si distingue dalla tradizione epistemica occidentale?

La filosofia africana non è un ghetto. Anche quando mobilita epistemologie e cosmologie non occidentali e si avvale di risorse concettuali diverse da quelle europee canoniche, non concepisce le proprie fonti come incommensurabili rispetto al pensiero occidentale.  Ci sono temi e problemi assolutamente universali, come la domanda sull’essere o sull’essere umano, che però possono essere affrontati in modi distinti. Alcune cosmologie dell’Africa occidentale, come la cosmologia Dogon o la cosmologia Serer che ha tanto ispirato il pensiero di Léopold Sédar Senghor, poeta e primo presidente del Senegal indipendente, propendono per situare l’umano in seno al vivente. Perciò possiamo dire che questi saperi africani si collocano agli antipodi della metafisica dualistica di stampo cartesiano, che distingue l’uomo dalla natura e conferisce all’uno il dominio sull’altra. Possiamo dire perfino che Cartesio è un’eresia dal punto di vista della cosmologia Serer.

Ed è importante cogliere queste differenze non per polarizzare artificiosamente gli orientamenti filosofici, ma per sottolinearne le implicazioni. Le epistemologie della tecnica ci stanno portando a schiantarci contro un muro. Di qui l’urgenza di una nuova coscienza ecologica, l’idea di un “contratto ecologico”, per dirla con il filosofo francese Michel Serres, o l’idea di un patto mondiale con la natura che stabilisca che i fiumi hanno il diritto di non essere inquinati, le montagne di non essere distrutte e le foreste di non essere saccheggiate. Le filosofie africane sono portatrici di visioni del mondo che permetterebbero di edificare una nuova ecologia capace di rincantare la natura e contrastare lo sfruttamento capitalista selvaggio.

Ne L’invenzione dell’Africa (1988), il filosofo congolese Valentin Mudimbe sottolineava l’influenza del canone europeo sulla filosofia africana, e il rischio paradossale per quest’ultima di ridursi a mera istanza di negazione del sapere occidentale nello sforzo vano di contrapporvisi. Esiste una via di scampo per il pensiero africano?

Nel richiamare il peso schiacciante della “biblioteca coloniale” sui saperi africani, Mudimbe solleva un problema fondamentale.  Come evitare allora quella che sembra essere l’unica alternativa possibile tra imitazione e opposizione, entrambe le quali poi finiscono per produrre una ventriloquizzazione delle filosofie africane?

Una risorsa e forse una via di scampo può essere reperita nelle lingue africane, in cui hanno investito Paulin Hountondji e il filosofo ghanese recentemente scomparso Kwesi Wiredu. Filosofare nelle lingue africane, ovvero mobilitare queste lingue in quanto strumenti della creazione e della concettualizzazione filosofica è un compito cruciale.

È per questa via che la parola ubuntu, di lingua bantu, grazie all’opera di Nelson Mandela e Desmond Tutu, è diventata un concetto filosofico importante ben oltre i confini del Sudafrica. Ubuntu indica un legame di reciprocità e, in senso più propriamente filosofico, designa quel legame di reciprocità a partire dal quale si costituisce l’umanità. Ubuntu però non nasce come termine filosofico, è piuttosto un costrutto teorico-politico che ha esercitato un ruolo importante nella transizione sudafricana verso il post-apartheid. Da quel contesto specifico è emerso un concetto prezioso per ripensare l’umanesimo contemporaneo nel segno di un’umanità concepita non come dato di partenza empirico, ma come progetto da realizzare.

Adottando una prospettiva comparativa ho riflettuto a lungo su un concetto di lingua wolof che ha molte risonanze con il concetto di ubuntu. Mi riferisco al concetto di nité che allude al divenire umano nella relazione e nella reciprocità.

Mi sembra che la strada da percorrere sia proprio quella di ripartire dalle lingue africane per sviluppare un discorso filosofico situato e locale. E il comparativismo in questo senso acquista un significato importante anche tra le lingue e le filosofie africane, senza bisogno di misurarsi sempre e solo con il canone occidentale. Certo ci sono dei rischi, e il rischio è sempre quello di inventare nuove essenze concettuali pur di distinguersi a tutti i costi. Penso alla riflessione del filosofo kenyano John Mbiti sul concetto africano di tempo (“The Concept of Time”, 1996) che identifica e rivendica un tempo africano concreto e imperniato sul presente, diverso dal tempo occidentale, astratto, lineare, matematico e tutto proiettato sul futuro. Mi sembra che la dicotomia sia tracciata un po’ semplicisticamente a partire da una caratteristica della lingua bantu, in cui la coniugazione verbale del futuro è pressoché irrilevante.

L’idea che le lingue esprimano un’essenza specifica non mi convince, anzi è un problema. Come direbbe Leibniz, credo che le lingue “inclinino senza necessitare”, cioè consentono solo in parte di spiegare causalmente un dato elemento culturale o concettuale, ma non sono determinanti in modo assoluto. Émile Benveniste ha dimostrato che le categorie aristoteliche devono molto ai molteplici usi del verbo essere in lingua greca. Ma le lingue non sono barriere del pensiero di per sé, perché esiste la traduzione. E se la traduttibilità è infinita, ciò significa che le lingue non predeterminano alcuna chiusura, e per questo non vanno essenzializzate. La traduzione al contrario ci permette di muoverci tra universi linguistici distanti, scoprendo come le parole viaggiano da una lingua all’altra, e così i concetti.

Un luogo comune ben radicato a proposito della cultura africana in generale enfatizza il cosiddetto primato dell’oralità che distinguerebbe radicalmente la filosofia africana dalla filosofia europea. Quanto c’è di vero in questo luogo comune?

Di oralità e scrittura nella cultura africana ho scritto ne L’encre des savants (2013). Quello del primato dell’oralità in effetti è un topos di lunga data. Si cita spesso lo scrittore maliano Amadou Hampâté Bâ, strenuo difensore dell’oralità, e il detto africano che recita “un vecchio che muore è una biblioteca che brucia”. Io penso che il ruolo della oralità nel patrimonio intellettuale africano vada ridimensionato sia per le premesse che implica – per esempio l’idea che l’oralità sia immune al cambiamento, immutabile, e quindi destinata unicamente a perire – sia per le conseguenze che comporta – in primo luogo la drammatizzazione della perdita irrimediabile della tradizione orale. Molti elementi storici ci aiutano a riconsiderare il presunto primato dell’oralità, a cominciare dai manoscritti delle biblioteche di Timbuctu che testimoniano del fatto che l’Africa vanta una lunga tradizione di erudizione scritta fin da tempi remoti. Le due estremità, l’Africa occidentale – la regione del Sahel – e l’Africa Orientale – la regione dello Swahili – due universi speculari accomunati dall’islam, sono mondi della scrittura che meritano di essere integrati nella storia intellettuale del continente africano.

Da un lato è importante ricordare che la scrittura appartiene storicamente all’Africa; dall’altro si tratta di sottolineare che l’oralità non è irreversibilmente condannata a morte e ad essere fagocitata dalla scrittura: l’oralità semplicemente muta e si tramuta. Penso a L’os de Mor Lam, una parabola tragicomica sull’avarizia trascritta dallo scrittore e poeta senegalese Birago Diop negli anni Settanta. Questo racconto tradizionale ha avuto dapprima una circolazione orale, poi una nuova vita dopo la sua trascrizione, e ancora una nuova vita orale quando il testo si è trasformato in una pièce teatrale messa in scena da Peter Brook al Théatre des Bouffes du Nord a Parigi nel 1979. Insomma, non bisogna feticizzare l’essere, ma interessarsi al divenire di ogni cosa. E questo vale anche per la tradizione orale.

La filosofia europea è tornata a interessarsi alla querelle degli universali. Penso ad esempio alle riflessioni di Etienne Balibar e di Alain Badiou sul tema dell’universalismo. Come è possibile fare appello all’universalismo da una prospettiva decoloniale africana?

È vero, c’è un ritorno dell’universalismo, che nella filosofia francese in particolare assume forme molto diverse. Penso a Balibar e a Badiou, ma anche al Pledoyer pour l’universel (2019) di Francis Wolff. In Francia, peraltro, l’universalismo viene spesso sbandierato contro alla teoria postcoloniale, tacciata di essere un prodotto d’importazione made in USA e incompatibile con la cultura politica francese. In realtà la teoria postcoloniale ci costringe a pensare il mondo attraverso il prisma della pluralità, come un tessuto di lingue e culture diverse per nulla omogeneo. Alla luce della condizione postcoloniale viene spontaneo chiedersi se sia possibile parlare ancora di universalismo. Io credo sia possibile concepire un’universalità autenticamente plurale e decoloniale. Dal mio punto di vista si tratta di risignificare l’universale a partire dal paradigma della traduzione. Alla maledizione di Babele, alla proliferazione di tante lingue diverse, l’umanità ha reagito con la traduzione. Possiamo sempre tradurre e tradurci. Ci saranno comunque incomprensioni e forse anche ostacoli intraducibili, ma la traduzione istituisce una relazione orizzontale e plurale in cui non c’è più un unico logos, un’unica lingua della ragione universale, bensì tante lingue in cui tutti possiamo parlare, filosofare e tradurci. Lo scrittore kenyano Ngūgī Wa Thiong’o diceva che la traduzione è la lingua comune di tutte le lingue. Ecco la traduzione ci serve per pensare un universale orizzontale e comune. Questo non significa che vada tutto liscio: la traduzione è negoziazione, mediazione ma anche divergenza, conflitto e rapporti di forza tra lingue e culture che non hanno tutte lo stesso peso. Mi è stato rimproverato spesso questo mio attaccamento all’universale. Edouard Glissant, per esempio, mi suggeriva di abbandonare l’universale per pensare il pluralismo a partire dalla relazione, un concetto a lui caro. Io invece penso che l’universale ci serva per segnalare l’orizzonte comune del nostro vivere insieme, per non arrenderci al relativismo dei tanti punti di vista indifferenti, all’individualismo dei tanti interessi giustapposti. L’universale ci riporta, senza alcun essenzialismo, al nostro essere umani, ad una condizione condivisa. E pluribus unum: questa è la strategia che difendo senza mai sacrificare il pluralismo né le differenze.

 Il marxismo suscita interesse nella filosofia africana contemporanea?

Il pensiero socialista rappresenta a mio avviso una componente importante della filosofia africana del Novecento e credo si possa propriamente parlare di una “via africana al socialismo” dotata di spessore filosofico oltre che politico. Diversi pensatori africani si sono profusi nell’impresa di pensare il socialismo da una prospettiva continentale africana. Contrariamente a ciò che auspicava il mio maestro, Louis Althusser, i filosofi africani hanno sempre avuto un debole per il giovane Marx, quel Marx il cui pensiero è fortemente condizionato da preoccupazioni etiche, insomma quel Marx per cui la critica del capitale e la lotta contro il capitalismo sono innanzitutto un gesto di rivolta etica.

Senghor è stato tra quelli che hanno studiato l’alienazione nel Marx dei Manoscritti economico-filosofici del 1844 per descrivere la reificazione dello spirito dei popoli colonizzati. Come lui, altri filosofi africani si sono spesso appassionati a questo giovane Marx spirituale con cui era possibile immaginare l’insorgenza del socialismo contro la gabbia del capitalismo coloniale. In un’epoca in cui si tratta di ripensare lo spirito del socialismo facendo leva sulla sua valenza etica e utopica, la tradizione del socialismo africano mi sembra poter offrire un contributo significativo per reinventare il mondo che verrà.

 

*Questa intervista è stata pubblicata su il manifesto del 18 marzo.

 

 

 

Il ring del poeteur, il poeta boxeur (primo round)

8
Federica Guglielmini a sx foto di Francesca Serughetti; Dome Bufaro a dx foto di Dino Ignani
Federica Guglielmini a sx foto di Francesca Serughetti; Dome Bufaro a dx foto di Dino Ignani

Catarsi, sublimazione, redenzione e rinascita dell’essere umano attraverso poesia e boxe

 

di Dome Bulfaro 

Tre incontri con la boxe per Nazione lndiana. Il poeta e performer Dome Bulfaro e la scrittrice Federica Guglielmini affrontano l’arte del pugilato, i suoi paradigmi culturali, la sua natura di sport spettacolare e poetico, invitando i lettori a riscoprire l’origine della sua forza e offrendo un’occasione di lettura, rinnovata, dell’essere umano in quanto essere sociale. Bulfaro affronterà il suo match per primo, riflettendo per appunti diaristici su boxe e poesia performativa, sul concetto di ring e sul suo ruolo simbolico e metaforico. La Guglielmini scriverà per seconda nel mese di aprile affrontando in un corpo a corpo il concetto di violenza, la figura del pugile di ieri e di oggi, specchio di un’Italia che cambia. Si ritroveranno insieme nel mese di maggio per lincontro finale…

Il mondo è un ring

Ci sono quattro azioni individuali, inevitabili, che segnano i confini del mondo di un essere vivente: nascere, morire, combattere e non combattere. La terza di queste quattro azioni di confine, combattere, ha dato vita allo sport più antico del mondo: la boxe. I primi uomini che hanno circoscritto nella terra un cerchio e si sono battuti a mani nude dentro i confini di quel cerchio, hanno disegnato una metafora perfetta di cosa sia il mondo. Il mondo è un ring. La vita tutta è un ring.
La storia millenaria della boxe è stata scritta a suon di pugni da boxeur maschi che spesso provenivano dai margini della loro società e che sognavano di salire fino al centro del suo olimpo. Il pugilato –anche ora che sta diventando uno sport capace di attrarre anche uomini e donne della classe media che hanno studiato, che non vivono ai margini della società ma in un certo agio– preserverà sempre la sua anima di sport di frontiera, perché il suo habitat naturale è di stare nei territori più estremi della vita e della morte. Vale a dire che qualora la boxe un giorno non dovesse esser più considerata uno sport “estremo”, qualora la migliore boxe, come oggi sempre più spesso accade, non dovesse più nascere dai pugni di chi non ha nulla da perdere, certamente nascerà sempre da chi ha fame di esplorare le frontiere di se stesso: perché la boxe è per sua natura uno sport di confine, è uno sport che per esistere ha bisogno solo di tracciare un ring e due pugili che si fronteggiano.

La pugnità

Nonostante al di fuori del loro rettangolo e del loro quadrato di sfida siano tante le ombre, calcio e boxe sono i due sport che più amo. Il calcio l’ho giocato e amato fin da piccolo, il pugilato lo ammiro. Il primo lo amo perché sublima in un’arte sportiva, attraverso una palla di cuoio, il gesto del prendere a calci. Il secondo perché sublima in un’arte sportiva il prendersi a pugni.
L’aspetto che più mi affascina e conquista di questi due sport è il fatto che il gesto del picchiare, giustamente considerato nella vita ordinaria come brutale, volgare, grossolano, sia sublimato in arte; nel caso del calcio il picchiare è sublimato utilizzando principalmente i piedi, relegati solitamente nella vita ordinaria a svolgere solo funzioni come camminare o correre; e nel caso del pugilato il picchiare sia sublimato impiegando delle mani solo la postura del pugno, ovvero quella postura che limitando al massimo la manualità, ti costringe a esplorare e scoprire della mano tutta la sua straordinaria pugnità. La boxe è l’arte della pugnità, arte che per essere esercitata dal boxeur nella sua massima efficacia e bellezza, deve però coinvolgere tutto il corpo.
La mano a martello del boxeur e il gesto del picchiare che coinvolge tutto il corpo, mi ricordano il mestiere del fabbro e mi evocano la dedica che il poeta T.S. Eliot fece in The Waste Land per rendere onore a un altro autore eccelso, la quale racconta chiaramente l’essenza del mestiere del poeta: “A Ezra Pound, il miglior fabbro”. I poeti e i pugili sono fabbri.

Il poeta non è un attore ma un dicitore 

Quando finisco un reading capita spesso che qualche sconosciuto mi si avvicini e dica “ma lei è un attore”, oppure “ma lei ha fatto teatro?!”. Sì ho fatto teatro, ma chi fa poesia performativa non è un attore, è un poeta.
Quando un musicista o un cantante/cantautore eseguono su un palco uno spartito o una canzone pensiamo che sia un attore?
Quando un boxeur sale sul ring o un equilibrista cammina su una corda tesa, pensiamo che sia un attore?
Perché il poeta che dice un testo ad alta voce dovrebbe essere considerato un attore?
L’arte propria del poeta è quello del fare. Quando impiega solo il linguaggio verbale del dire, che gli è proprio a differenza di quello del recitare, opera al pari di un interprete musicista, non di un attore. Quando il poeta adotta anche il linguaggio non verbale, e quindi fa poesia con tutto il corpo, agisce più come un fighter o un sordomuto che parla il LIS, piuttosto che come un attore. Con ragione, infatti, Eugenia Giancaspro adotta il linguaggio LIS nella sua ricerca poetica performativa.
Quello che sto cercando di chiarire è che il poeta anche quando dice con arte un testo poetico, in prima istanza, lo fa da poeta e non da attore.
I poeti futuristi nell’esecuzione delle loro “tavole parolibere” hanno chiarito molto bene quanto un testo scritto, in quanto testo anche visivo, debba essere visto e letto, e quindi eseguito, al pari di uno spartito. Delio Tessa, nelle sue interpretazioni, considerava i suoi testi in dialetto milanese veri e propri brani musicali in forma di parola: “come un fascio di musiche si affida allesecuzione canora, così i miei saggi lirici attendono la voce del dicitore”. Il poeta performer non è un attore ma un dicitore.
Così come dicitore è un pugile. Dice Norman Kingsley Mailer, scrittore, giornalista, saggista e commediografo statunitense: “il pugilato è un dialogo tra due uomini che anziché parlare con la voce parlano con le mani”. Un dialogo dialettico, conflittuale, certo, ma in cui tutto ciò che i due pugili si dicono in faccia, resta chiuso e si esprime nel perimetro delle regole e dei confini del ring.

Regalare emozioni esemplari

Il pugilato ti insegna ad assorbire e incanalare colpi, emozioni, pensieri offensivi.
Quando entri nell’indifferenza o tra i fischi del pubblico ed esci tra gli applausi, evidentemente sei stato capace di regalare agli altri qualcosa di impagabile, qualcosa che gli altri nella vita ordinaria non sono quasi mai disposti a riconoscerti. Hai regalato loro speranza, coraggio, generosità, classe, sacrificio, spettacolo, arte: hai regalato emozioni esemplari. La boxe per i più non è molto remunerativa sul piano economico ma lo è moltissimo, che piaccia o meno, quasi per tutti sul piano emotivo. La poesia performativa, nelle sue due principali declinazioni dal vivo, Spoken word e Spoken music, in quanto arte del dire poesia ad alta voce, va nella stessa identica direzione: l’emozione costituisce come per la musica il primo canale di comunicazione e il suo ingresso principale. In poesia tutto, dall’accesso emotivo alle stanze della ragione e dello spirito, si fa dono esemplare.

Ring, grembo, battesimo

Il ring è un quadrato sacrificale, che le 16 corde rendono non solo un recinto, come ha ben sottolineato la scrittrice Joyce Carol Oates, ma anche una vasca battesimale, dal quale ogni volta il boxeur ne uscirà rinato. In un modo o nell’altro egli non sarà più lo stesso essere umano salito sul ring prima dell’incontro.
Perché il ring è un grembo in cui il boxer sale per ricreare se stesso, sale per capire veramente di che pasta è fatto, sale per auto modellarsi con le proprie mani. Il pugilato è uno sport molto duro, fatto per duri pronti ad ogni sacrificio. È uno sport per combattenti, che rifiutano la condanna di essere dei “nessuno” e raccolgono la sfida di diventare dei “qualcuno”. Per diventare un “qualcuno” devi però essere disposto a rinunciare a tante libertà. La boxe ti insegna che per diventare libero, come accade nella vita –gli occidentali lo hanno capito bene dopo l’attacco alle torri gemelle– devi saper rinunciare a delle libertà.
La Main de Dieu, tra le sculture più note di Rodin, rappresenta la mano destra di Dio che fuoriesce da un blocco di marmo, simbolo dell’eternità, per plasmare i corpi di Adamo ed Eva che lottano titanicamente, sull’onda della lezione michelangiolesca, per liberarsi dalla materia grezza e venire al mondo.
Il boxeur è un uomo che si fa con le proprie mani, al contrario di quanto rappresenta questa scultura. Il pugile non è tanto il Dio di se stesso quanto piuttosto il proprio demiurgo, un uomo che da “prigione michelangiolesco” della propria condizione sociale, diventa libero artefice di se stesso, colui che non è più un “nessuno”, un “inesistente”, ma uno che vale, uno che conta, uno da ricordare.
La palestra di boxe, per chi poi intraprende la via degli incontri, è come un battistero. E il ring in quanto metaforica vasca battesimale è il luogo in cui il pugile, immergendosi totalmente nel pugilato e nei suoi valori, vive un nuovo battesimo. Questa rinascita a nuova vita spesso viene sancita attraverso l’acquisizione di un soprannome affibbiato al pugile dal coach, o da un giornalista, o dal pubblico, o da altri, ispirandosi a una caratteristica tipica di quel boxeur o del suo modo di boxare. Così nascono Irma “Butterfly” Testa, Valeria “Fox” Imbrogno, Giuseppe “Flash” Parisi… come accade per i grandi eroi epici e tragici: Madame “Butterfly”, Ulisse “l’astuto”, Achille “Piè veloce”. Perché la boxe è epica scritta e detta con i pugni.

Poeteur, poeta boxeur

Ogni essere umano è in potenza un poeta performer, è poesia. Il poeta performer è un poeteur, un poeta boxeur, che ad ogni performance traccia il suo ring e combatte, armato della sua voce e del suo corpo, per liberarsi da tutte le sue sovrastrutture che lo imprigionano e mostrarsi a tutti, tanto più a se stesso, per ciò che di più vero è: opera d’arte, poesia vivente.

Boxe, gravidanza, poesia performativa

L’immagine di un boxeur incinta sarà considerata una metafora troppo azzardata e difficile da digerire da parte del mondo più maschilista e virile del pugilato. Eppure nei giorni imminenti all’incontro di boxe, il pugile che lo deve disputare mostra, sempre sul piano metaforico, ancor di più il suo essere in stato di gravidanza del suo nuovo sé: gli allenamenti corrispondono alla sua gestazione; tutti i rituali del giorno prima dell’incontro a cui per legge dovrà sottoporsi equivalgono alla fase prodromica del suo parto; il suo travaglio si consuma la sera dell’incontro da quando ci si prepara nello spogliatoio fino a quando si arriva ai piedi del ring. Poi, quando infila la testa tra le corde e si entra nel ring si approda nel grembo; quando suona il primo gong inizia il parto; e quando alla conclusione dell’incontro infila la testa nella fenditura tra le corde, l’essere umano che ne esce, talvolta col volto gonfio, o, per via di qualche taglio, talvolta col volto insanguinato, è un uomo diverso da quello entrato all’inizio dell’incontro.
La poesia performativa in cui credo insegue lo stesso principio di rinascita. Se scendi dal palco e sei lo stesso essere umano di quando sei salito prima di incontrare la poesia che sei, significa che la poesia che sei, tu non l’hai veramente incontrata, non l’hai veramente incarnata fino in fondo.
Se l’hai incarnata e sei diventato un uomo migliore hai vinto la tua sfida e puoi dire di essere stato un poeta, almeno per il tempo dei round in cui avrai combattuto. Se invece questo incontro con il tuo nuovo e migliore sé non è accaduto, significa che hai perso l’occasione di essere un poeta e allora, senza mai farti abbattere, avrai una ragione di più per riprovarci. Perché fare poesia è donare la parte più bella e migliore di sé. Come fa un riccio di mare quando ti dona la sua parte più intima e vera, dolce e tenera: il suo cuore.

Corpo ring

Quando c’è un conflitto fra due Paesi, come accade oggi tra Ucraina e Russia, si circoscrive un terreno di battaglia e si combatte. Certi che quella zona circoscritta potrebbe cambiare, allargandosi, con l’incognita di non sapere fino a che punto si allargherà l’area del conflitto e quando si richiuderà, come (quasi) tutti vorremmo. Quando si compone poesie per iscritto, il tuo campo di battaglia si traslerà su un foglio e si limiterà a una o forse richiederà un tot imprecisato di pagine… Al contrario quando boxi sai che il combattimento non sconfinerà oltre il ring, né sconfinerà oltre la somma dei minuti dei round che dovrai disputare. Perché la boxe, come dice Joyce Carol Oates, “è simile alla vita in molti particolari inquietanti. Ma la boxe è soltanto come la boxe”. È uno sport semplicissimo che si pratica rispettando poche chiare regole, in cui per vincere devi colpire cercando di non essere colpito e cercando di mandare al tappeto il tuo avversario per più di 10 secondi (KO).
Nel poeta performer il ring è il proprio corpo, concepito sia come campo di ogni battaglia, sia come strumento principe per combattere le proprie battaglie, sia come materia grossolana da sublimare attraverso il dire ad alta voce con arte.
Scrive la poetessa Antonia Pozzi “La poesia ha questo compito sublime di prendere tutto il dolore che ci spumeggia e ci romba nellanima e di placarlo, di trasfigurarlo nella suprema calma dellarte, così come sfociano i fiumi nella vastità celeste del mare. La poesia è una catarsi del dolore. Quando tutto, ove siamo, è buio ed ogni cosa duole e lanima penosamente sfiorisce, allora veramente ci sembra che ci sia donato da Dio chi sa sciogliere in canto il nodo delle lacrime e sa dire quello che a noi grida, imprigionato nel cuore.”
Ma liberare ciò che è “imprigionato nel cuore” non basta né quando si fa poesia, né tantomeno quando si fa boxe. Nel film Million Dollar Baby (2004) il personaggio Eddie “Scrap-Iron” Dupris (Morgan Freeman), ex pugile nero, rimasto cieco ad un occhio per un pugno ricevuto sul ring, dice del suo fidato amico, socio ed ex allenatore Frankie Dunn (Clint Eastwood): “Alcuni direbbero che la qualità più importante per un pugile è avere cuore. Frankie invece direbbe: un pugile che è solo cuore stai tranquillo che le prende di sicuro e di brutto!” Il cuore è fondamentale sia nella boxe, sia nella poesia, ma senza la maestria del saper attaccare e difendere, può solo prendere un sacco di botte. Ogni poesia nasce da un incontro di pugilato tra il poeta e l’indifferenza; le parole e i silenzi del poeta sibilano come pugni, la sua versificazione architetta attacchi e difese, tutto il suo corpo combatte per essere e affermare nel mondo la bellezza. I poeti e gli atleti, in particolare i boxeur, sono portatori di bellezza.

Mohammed Ali vs Cassius Clay

Tutti sbagliamo e tutti cadiamo ma non tutti sanno trasformare i propri sbagli e le proprie cadute in punti di forza, trampolini di lancio, arte.
Il giovane Cassius Clay inizia a boxare, tra le tante ragioni, perché sul ring, bianchi e neri a differenza di quanto accade dov’è cresciuto, combattono di fronte l’uno all’altro alla pari.
Lì sul ring il razzismo che sconta ogni giorno nella sua Louisville in Kentucky non trova spazio.
Ali ostenta una fede in se stesso mai vista nella storia del pugilato, una fede che nel tempo scoverà la propria radice nella inossidabile fede in Dio, che in lui non vacillò mai soprattutto quando nella sua vita di pugile superstar subentrò il morbo di Parkinson.
Nessun pugile e nessun fatto, guardando alla sua fede, lo atterrarono mai, nemmeno il Parkinson, nemmeno la morte.
Questo intende Ali quando nella sua autobiografia afferma che un campione va costruito dall’interno e che conta più la volontà dell’attitudine.
Per la poesia vale la stessa legge, tanto più se performativa: va costruita dall’interno, perseguendo con una volontà ferrea lo scopo di diventare poesia vivente.

Molta follia

Vitalij Klyčko nel film omonimo Klitschko, film documentario tedesco del 2011 diretto da Sebastian Dehnhardt e ispirato alla vita dei due fratelli pugili ucraini Vitalij Klyčko e Volodymyr Klyčko (entrambi ora al fronte per combattere l’invasione russa) paragonando il pugilato agli scacchi dice che “gli scacchi sono simili al pugilato. Hai bisogno di sviluppare una strategia, e hai bisogno di pensare due o tre passi avanti riguardo a ciò che il tuo avversario sta facendo. Devi essere astuto. Ma qual è la differenza tra gli scacchi e il pugilato? Negli scacchi, nessuno è un esperto, ma tutti giocano. Nel pugilato tutti sono esperti, ma nessuno combatte. Nessuno combatte perché molti pensano che salire su un ring per prendersi a pugni sia pura follia.
Sì, è vero, credo anch’io occorra molta follia. La poetessa Emily Dickinson ha scritto che: “molta follia è divina saggezza/ per un occhio capace / molta saggezza, pura follia”. Senza molta follia Alda Merini non avrebbe incontrato se stessa, non avrebbe esercitato il potere della poesia, sublimando in gioia pura le tragedie della propria vita, compreso l’internamento in un manicomio. Nella boxe la molta follia è divina saggezza.

Battere il tempo

Osservando due pugili sul ring ti accorgi che il pugilato si regge su quattro principi, annodati e inscindibili fra loro, come se formassero un serpente infinito, l’Ouroboros, che ancora una volta rimanda a un anello, un ring: 1- la boxe è la più antica arte dell’offesa; 2- per offendere bisogna sapersi difendere; 3- offendere è il primo principio di difesa; 4- la difesa è il primo passo per offendere.
La sua finalità è battere l’avversario e per batterlo bisogna “batterlo”, nel senso di picchiare. La boxe quindi è l’arte di “battere” l’avversario, intendendo il battere nel suo doppio significato. Ma se il pugilato è “l’arte del battere” allora la sua essenza è il ritmo. George Foreman, icona della boxe mondiale, dice che “la boxe è una specie di jazz”, Sugar Ray Robinson, altro mito del pugilato, afferma che “il ritmo, nella boxe, è tutto. Qualsiasi movimento tu faccia, nasce dal cuore: o questo ha il ritmo giusto, o sei nei guai”. Lo stesso concetto, riprendendo Ray Robinson, lo afferma Muhammad Ali. I pugni che più regalano emozioni esemplari al pubblico sono quelli che nascono dal battito del cuore. Il pugile più poetico è quello che si batte con un cuore da leone e con la massima arte pugilistica.
Il battere e il battersi mi ricordano la pratica del modellare l’argilla, specie quando si forma una scultura di grandi dimensioni, ad esempio, come lo è un essere umano a figura intera in scala reale. L’impostazione di una scultura del genere si crea mettendo argilla intorno alla struttura portante in ferro, ma la forma all’argilla la si conferisce alla materia battendola per compattarla e imprimere una precisa foggia, secondo la nostra volontà.
I pugili sono sculture viventi che si modellano a suon di pugni diretti, jab, ganci… il loro battersi ci consegnerà alla fine dell’incontro due uomini/scultura che si sono rimodellati il volto e lo spirito. Il terribile e la grazia, sono le due componenti opposte che convivono nell’arte del pugilato e che rendono questo sport profondamente poetico. E nessuno, più di Ali, ha incarnato al meglio nella figura del pugile questo ossimoro. Ali è stato per antonomasia il pugile in cui il battere era poesia.
Il pugile che sogna di diventare un Campione del Mondo di boxe, combatte e sogna di battere il tempo, sogna in cuor suo l’eternità. Lo stesso fa il poeta nel battere il tempo dei suoi versi: sogna di battere il tempo: sogna in cuor suo l’eternità.

Ring sportivo, ring sociale, ring estetico

Il pugilato è solo lo spogliatoio, i problemi del mondo sono il ring”. Muhammad Ali con queste parole non solo spiega bene cosa sia un ring, ma rendendolo un simbolo e una metafora, ne sublima il ruolo e il senso. I ring sono campi di battaglia politica, sociale, etica. Per lui ci sono ring secondari, preparatori, come quelli del pugilato, e ci sono ring fondamentali come la segregazione sociale, i diritti, la giustizia sociale, la libertà… Dice Ali quando con la conversione alla Nation of islam assume il nuovo nome di Muhammad – “Clay” – che in inglese significa argilla – “è un nome da schiavo e io non sono più uno schiavo”. Il poeta e traduttore Albang Lefranc, autore del libro Il ring invisibile (66thand2nd, 2013) lucidamente evidenzia come “la cultura orale, anche nella poesia, propria dell’islam, è il perfetto vestito dell’Ali comunicatore, la parola aggressiva e seducente di Ali”.
Una delle battaglie più combattute da Ali è stata di tipo estetico: ha aperto un ring sociale sull’ideale di bellezza dominante nella sua società.
“Nero=bello”, principio estetico da lui sostenuto e dato quasi da nessuno come modello vincente, vs “Bianco=bello”, principio di bellezza, campione in carica da secoli, sostenuto non solo dai bianchi ma anche da molti neri. Questa sfida condotta da Ali assume un valore politico e assurge a riscatto di tutti i neri, non solo d’America. Nascere neri, sostiene Ali, è motivo d’orgoglio per un essere umano perché si ha il valore aggiunto di essere belli, i più belli di tutti, soprattutto più belli dei bianchi. Ali sa che spodestando i bianchi dal trono della bellezza fisica, toglierà parzialmente al bianco potere e quindi fascinazione, liberando i neri dai loro stati di inferiorità e schiavitù inconsci, ancora molto tangibili negli USA degli anni Sessanta e Settanta. Quando Ali afferma non solo di essere bello ma di essere il più bello, lo fa sottintendendo di essere anche più bello dei bianchi più belli. Lo scrittore e docente Marco Mazzeo nel suo libro Il sofista nero. Muhammad Ali oratore e pugile, mette bene in luce questi concetti e il ruolo socio-politico giocato da Ali; quanto egli abbia boxato fuori e dentro il ring sportivo, anche con le parole, tanto da essere considerato da molti un precursore del rap e vero poeta (come egli stesso si definiva); quanto il suo volteggiare con le parole e il suo pungere con la lingua per provocare il suo prossimo avversario – non di rado con tanto di versi e rime – trovasse una perfetta corrispondenza col suo modo di boxare sul ring sportivo. Ali stesso condensa il suo stile in una frase rimasta indimenticabile anche per la sua potenza poetica: “Volteggia come una farfalla, pungi come un’ape. Le mani non possono colpire ciò che gli occhi non possono vedere.

Atlanta, nel 1996, Ali

Il pugile, per molti versi è un essere umano votato al sacrificio pasquale, che talvolta compie la sua trasfigurazione. E ancora una volta è Muhammad Ali, in veste questa volta di tedoforo del Giochi della XXVI Olimpiade, a donare a tutta l’umanità l’immagine più icastica quando ad Atlanta, nel 1996, nel bel mezzo del match tra lui e il Parkinson, stringendo la torcia nel pugno tremante, accende il sacro fuoco delle olimpiadi, dandole ritualmente inizio.
Il pugile sul ring innanzitutto è un essere umano che chiede di essere considerato da tutti con dignità. Sul ring di boxe prima e sul ring della vita poi, Ali ci mostra e dimostra che ogni persona, qualunque essa sia, nera o bianca, sana o malata,  merita di essere trattata e considerata con la massima dignità.
Il gesto di Atlanta e la sua poesia Me, we, creata con un tempo di reazione allo stimolo “dicci una poesia”, pari a un destro-sinistro da ko tecnico, hanno dimostrato la straordinaria capacità di Muhammad Ali nell’essere un uomo capace di rappresentare tutti.

I tasti della boxe

I quattro angoli che tracciano il quadrato in cui si muove la boxe in quanto arte nobile sono: agilità, tattica, ascesa e ritmo. Ma è la sfida la fascia di corde che unisce tutti e quattro gli angoli, come le bende fanno con le 4 dita sotto i guantoni. Così come è la sfida il tappeto vibrazionale che sostiene l’incontro.
Poi ci sono i 4 angoli che rendono la boxe un’arte micidiale: potenza, velocità, precisione, resistenza.
È su questo ring che la boxe si trasforma in un pianoforte in cui la tastiera da battere si sviluppa tra la lotta per la sopravvivenza e la grazia di una danza.

Ring, anello quadrato

Gli anelli che infiliamo al dito sono perlopiù circolari ma ne esistono anche di squadrati.
Quando due per strada si picchiano, le persone che accorrono si accrocchiano, in cerchio, facendo capannello. E infatti non a caso, guardando alla storia del pugilato, il primo ring è a forma di cerchio. La parola “ring”, infatti, in inglese significa “anello”, e deriva dalla pratica di disegnare un cerchio intorno ai duellanti. I ring da circolari sono diventati “anelli quadrati” nel momento in cui i match, da incontri di un solo round (cerchio), sono stati regolamentati in riprese e intervalli, anche perché un conto è tracciare con un bastone un cerchio sulla terra, altro è costruire palchi circolari. C’è stato un periodo, nel XIX secolo, in cui i ring sono stati costruiti ottagonali e definiti da corde e pali, ma la forma quadrata si è presto affermata come quella più funzionale, anche rispetto agli angoli necessari, durante gli intervalli, all’assistenza tecnica e medica del pugile.
Del cerchio del ring resta, come riverbero, il circo mediatico –circo significa cerchio e deriva dal greco kirkos o krikos – che si riaccende intorno alla boxe dei grandi eventi. E sotto al circo mediatico, c’è un altro cerchio, un ring sotterraneo e infernale. Il pugilato è uno sport pulito ma che rischia più di altri sport di precipitare nelle mani di una cerchia torbida. Duilio Loi, campione del Mondo dei pesi welter junior tra il 1960-63, ci ricorda che: “Sul ring è una battaglia a viso aperto, nell’ambiente pugilistico intorno al ring invece è una battaglia troppo nascosta, troppi intrallazzi” (in La storia siamo noi, programma Rai).
La pagina o il palco per il poeta, al di là della loro forma fisica quadrilatera, corrispondono al suo ring circolare. La poesia che nascerà da quel campo di battaglia quadrilatero sarà l’anello di congiunzione tra lui e la comunità, sarà l’anello tra la propria esperienza personale e l’universale.

Chi boxa non fa a pugni, boxa

Fa a pugni chi si prende a cazzotti per strada, chi non ha rispetto dell’avversario, di certo non il boxeur che fa del rispetto dell’avversario un perno etico: il boxeur non fa a pugni, il boxeur boxa. Recita infatti dal 1880 il motto della British Amateur Boxing Association: “Fai la boxe, non a pugni”. Un conto è essere violenti e altro è dirsele con i pugni di santa ragione, con arte, nel rispetto del proprio avversario e delle regole del conflitto sportivo. Picchiare è un atto brutale se dissociato dall’atto e dall’etica condivisa del combattere, il cui significato è battere insieme” (dal prefisso latino cum-). Ma anche il verbo combattere, resta in fondo difettoso se riferito al pugilato. Boxare, a differenza del verbo combattere, è l’unico capace di restituire pienamente alla boxe il suo ruolo agonistico e artistico.

La legge è uguale per tutti

La palestra di boxe è un luogo di integrazione, dove ognuno è accettato per quello che è, perché si parla una lingua comune che è quella del sacrificio e del pugilato, una lingua forgiata per imparare a superare le barriere. La palestra di boxe ti insegna il rispetto, sviluppa la socialità, il mutuo aiuto, perché è frequentata da una umanità che deve spesso fare i conti con delle difficoltà. Favorisce l’integrazione, soprattutto quando è frequentata da persone di tante differenti nazionalità.
La legge è uguale per tutti” è un principio base del nostro sistema giuridico, che dovrebbe essere la regola in un mondo che vuole essere giusto. Ma chi proviene dalla povertà impara presto che questo principio che si staglia a caratteri cubitali in molti tribunali, risulta spesso fasullo non appena viene calato nella realtà.
Questo innanzitutto differenzia la vita del ring dalla vita nella società: poche regole e chiare della boxe, a fronte di leggi ipertrofiche che generano solo confusione, insicurezza e iniquità, nella vita fuori dal ring. Il pugile trova nel ring quel rigore giusto e giustificato, che non ha trovato nella vita, dove ad ogni passo incappi in ingiustizie sociali.
Così come sul ring hai la sensazione che tutti siano uguali, lo stesso accade nei poetry slam, ovvero gare di poesia oramai diffuse in modo piuttosto capillare in tutto il mondo. Quando sali sul ring non conta il tuo curriculum vitae o il tuo conto in banca, conta solo quello che saprai dimostrare di essere. Lo stesso vale per i poeti slammer che gareggiano nei poetry slam. Il pubblico, applica poche e chiare regole, per giudicare i poeti in gara, solo ed esclusivamente rispetto a quello che dicono e come lo dicono nei tre minuti in cui calcano il palco, e non per quello che nella vita ordinaria sono o hanno.
Ed è un modo straordinario di rinegoziare la propria identità e avere la possibilità di rinascere, preservandosi l’opportunità di ripartire ogni volta da zero.

Boxe e redenzione

Il ring è il ritorno nella culla sicura, mentre il mondo fuori dal ring spesso rappresenta per il pugile la giungla in cui si sente perso: la selva selvaggia da cui Dante cerca di fuggire.
Il boxeur non fugge però dalla realtà, ma sul ring la affronta per la prima volta ad armi pari, uno contro uno, e non più uno contro tutti ad armi ìmpari, come invece accade nel mondo fuori dal ring.
Un uomo che resta intrappolato nella vita violenta della strada è un uomo incarcerato nelle leggi violente della strada e nei vicoli ciechi di qualunque altra sua interiore selva selvaggia.
Un detenuto che trova lavoro, dopo essere stato rinchiuso nel quadrato di una cella, può ambire al massimo alla “riabilitazione sociale”. Ma il più delle volte, almeno nel nostro sistema penitenziario – così ci racconta il rapper Kento nel suo libro Barre – la condizione di detenuto è l’anticamera del diventare carcerato. Null’altro. Molti ragazzi sarebbero diventati carcerati o avrebbero fatto una brutta fine se non ci fosse stata la boxe. La storia di questo sport è costellata da persone salite sul ring che nel nuovo ruolo di boxeur, si sono non solo riabilitate ai propri occhi e a quelli della società, ma si sono redente. La boxe per molti rappresenta, ancora oggi, l’anticamera della propria redenzione, specie nelle aree più disagiate e multietniche.
Non cera redenzione, bisognava rimanere, infornare, sfornare e vendere” scrive Manzoni nei Promessi Sposi a proposito dei fornai. Ma lo stesso vale per la vita di tutti gli esseri umani: a volte pare di camminare tutti in cerchio, come carcerati, come topini su una ruota, in un fazzoletto d’aria, in gabbia. Vale la pena vivere se vivere significa solo mangiare, defecare e produrre? La vita che ci è data, affinché non resti solo il prodotto di un atto riproduttivo, affinché acquisisca il suo senso più alto, non andrebbe riscattata, non andrebbe redenta, liberata da tutte le nostre schiavitù?
Nella mia personale esperienza, provenendo dalla povertà, e avendo avuto due genitori originari del sud Italia, con alle spalle storie molto difficili, a tratti tremende, fatte di povertà e tragedie, so bene cosa abbia significato per loro in termini di riscatto sociale, l’essere usciti dalla povertà dopo tanti sacrifici, l’essersi ritagliati un ruolo dignitoso e l’aver avuto una figlia e un figlio che hanno trovato un proprio ruolo sociale rispettato, considerato, riconosciuto. Il concetto è ben espresso dal nostro Carnera, primo (di nome e di fatto) campione del Mondo italiano dei pesi massimi “I pugni si danno, i pugni si prendono. Questa è la boxe. Questa è la vita. E io nella vita ne ho presi tanti di pugni, veramente tanti… Ma lo rifarei, perché tutti i pugni che ho preso sono serviti a far studiare i miei figli” (da Carnera – The Walking Mountain di Renzo Martinelli, 2008).
Laddove lotta un popolo oppresso, laddove lottano delle classi diseredate e sfruttate; uomini precipitati nelle spire della violenza, del vizio, del disonore… lì si disegni non una cella ma un ring, luogo di riscatto e redenzione.

Avversari del poeta performer

Il pugile è più facilmente messo spalle al muro, all’angolo, rispetto al poeta performer e ancor di più lo è rispetto all’attore.
I poeti in genere, e tanto più un poeta performer nel momento in cui sale sul palco, dovrebbero avere come primi avversari da sconfiggere l’esibizionismo, l’autocompiacimento e l’inseguimento del consenso. Il poeta che non si sente messo alle strette da questi tre avversari, difficilmente incontrerà se stesso. Più alte sono le difficoltà che affrontiamo in un incontro e più sarà facile sapere chi siamo veramente.

Varcare la soglia del ring

Il pugile che varca la soglia del ring è pronto a parlare un linguaggio virile, tragico, poetico che ha come fine l’autoaffermazione. Ogni suo gesto atletico si fa espressione non solo di un individuo ma di una società che con lui si identifica.
Una vita intera si condensa in 3 minuti di tempo e tutto ciò che accade, dal semplice inarcamento della schiena per superare le corde, al mettere il paradenti, dall’abbraccio in clinch, a un pugno incassato e sferrato: tutto, dai più piccoli dettagli a quelli più eclatanti, viene amplificato dal linguaggio della boxe all’ennesima potenza. L’ampificazione mediatica di un incontro di pugilato, da questo punto di vista, non è altro che la ulteriore gran cassa, di una amplificazione già propria del gesto sportivo e della boxe in particolare.
Il grado di spettacolarità di questo sport risiede nel linguaggio stesso della boxe, teso a non tirare semplicemente un pugno, ma a cercare con allenamenti estenuanti e nell’incontro la perfezione del colpo, il pugno che metta l’avversario KO.

Varcare la soglia del dolore

La volontà di superare la soglia del dolore è propria del boxeur ma anche del poeta. Le poesie svolgono anche questo ruolo. Tracciano con le loro parole una soglia del loro dolore.
La boxe ti insegna ad andare oltre il dolore, ti insegna a gettare il cuore oltre il recinto del dolore ma ti insegna anche che a volte, dopo che le hai provate tutte proprio tutte, bisogna saper dire basta e gettare la spugna.
Si può vincere anche quando accetti e comprendi che è tempo di gettare la spugna o che è tempo di appendere i guantoni al chiodo, si può vincere anche riconoscendo che l’avversario è stato migliore di te o che, l’avversario non lo è stato, ma accetti con sportività il verdetto degli arbitri.
Perché la boxe ti insegna a vincere ma soprattutto a bere il calice della sconfitta e della perdita.
Si è sconfitti non quando si perde ma quando ti nascondi dietro degli alibi, quando non riconosci che avresti potuto dare molto di più e non l’hai fatto, si è veramente sconfitti quando non si ha il coraggio di guardarsi dritti negli occhi, quando cedi il campo alla paura di perdere tutto. Dovesse capitare di perdere, se hai dato tutto, non sarai un perdente se sarai pronto ad accettare, accogliere, trasformare una sconfitta in una grande lezione di vita.


Valeria Imbrogno

Voglio chiudere lasciando il centro del ring a Valeria Imbrogno, psicologa ed ex Campionessa del Mondo di Boxe, categoria Minimosca, che avrò come ospite della finale del Ring Rap Poetry Slam (https://www.poesiapresente.it/news/ring-rap-poetry-slam/), il torneo di Mille Gru (https://millegru.org/) che si concluderà l’8 aprile 2022 (evento in cui ospiteremo anche Giuliano Logos, Campione del Mondo di poetry slam in carica): “Per diventare un vero atleta si deve praticare una forma di ascesi sportiva nello sforzo di perfezionarsi: verranno promossi unità e armonia personali, raffinando la mente e superando i limiti corporei. In presenza di un’autentica cultura sportiva, si rimane entro il confronto, senza cadere nello scontro. Il pugile ha lobbligo di essere metodico e sistematico anche davanti ad un momento cosidifficile come unaggressione e lo fa per la sua stessa sopravvivenza. Il suo gesto è razionale e non brutale, cerca di sottomettere l’avversario nel rispetto delle regole. La perdita di etica del gesto in sé è superata dalla valutazione complessiva del pugilato come arte che si pratica per ottenere traguardi individuali rendendo imprescindibili dei principi morali su cui si basa la pratica stessa perché questa sia un atto umano accettabile: il principio di responsabilità, di integrità della persona, del sano agonismo, del rispetto assoluto dell’altro e del superamento di sé. Questi principi valgono come guida per valutare positivamente un’attività sportiva qual è il pugilato, in modo che sia il degno e giusto coronamento della persona.

Bio 

Dome Bulfaro (1971), poeta e performer, tra i più attivi in Italia nello sviluppo della poesia performativa e della poetry therapy. Su invito degli Istituti Italiani di Cultura ha rappresentato la poesia italiana in Scozia (2009), Australia (2012), Brasile (2014), Argentina (2020/2021), Germania (2022). Ha ideato e cofondato la LIPS, Lega italiana poetry slam e ha raccontato il movimento slam, internazionale e italiano, nel libro Guida liquida al poetry slam (2016). Ha fondato e dirige dal 2020 con Simona Cesana PoesiaPresente LAB, prima scuola italiana di poesia performativa, poesiaterapia e scrittura poetica, e la rivista Poetry Therapy Italia. È incluso nella prestigiosa antologia Tempo: Excursions in 21st Century Italian Poetry (2022) a cura di Luca Paci, tradotto da Cristina Viti.

Federica Guglielmini è nata a Rimini nel 1986. Vive e lavora a Milano. Dopo il diploma in psicopedagogia e la laurea in Lettere moderne ha vissuto a Chicago, nella Windy City dell’Illinois. Tornata dagli Stati Uniti ha collaborato con la Casa della poesia di Milano al fianco di Tomaso Kemeny, organizzando eventi culturali. É scrittrice ed educatrice. Ha curato la rubrica “Vieni all’angolo con noi, la cultura del ring” per la Federazione pugilistica italiana Lombardia.

Loriana D’ari: il divenire umano

3

di Loriana D’ari

 

Primo atto (Kāngdé)

 

c’è voluta intera la vita a divenire un uomo

appreso il peso del corpo perdere i fili uno a

uno, del fantoccio ammucchiato all’angolo

rimane il sorriso sghembo, lo slargo dell’occhio

scucito dalla luce. quanto tutto è reale, adesso

che anche l’aria potresti toccarla, e nulla

più a lungo trattenere.

la frana dei sensi cede calore alla terra

ne drena la linfa, non rimargina

 

 

Secondo atto (Volodja, 1924)

 

fa musica la pioggia, di questo cristo ammaccato

un suono bianchissimo e cavo. la coperta appesa

di sbieco, la scapola esposta uno spigolo inerme

nel buio. ma può ancora apprezzare da solo

la dismisura della compromissione, così trascina

l’arto inerte, finché l’accoglie la pietà dell’erba.

domani lo porterà il vento

il sole asciugherà le ossa fradicie

il partito vedrà di accordare il permesso di morire

 

 

Terzo atto (Gyokuon-hōsō)

 

il passo è quello dell’ultimo miglio

un lento biascichio di sassi

l’uniforme allo schienale ha ceduto

tutto il rigore, orfana del dio uscito di scena

ma questo è l’uomo, e parlerà.

possa la voce resistere alla notte

calare sui feriti a morte come

un velo sulle stanze sventrate dalla luce

 

 

 

Non andare troppo lontano

0

di Mariasole Ariot

è vero che a qualcosa, sempre,
non ci approssimiamo

Giuliano Mesa

Approssimarsi per cammino cauto, lento come richiedono le cose minime, i frammenti di umanità, i resti di un presente immobile, in quasi movimento, in procinto di andarsene o arrestato (come un capriolo morto, investito dalle mosche, una donna in attesa dell’arrivo di un autobus, o forse solo seduta nel pensiero, un sacchetto abbandonato o appoggiato alla cancellata di un accesso vietato).

I passi dello sguardo del fotografo Federico Pacini in Non andare troppo lontano (Editrice Quinlan, 2022), si confondono con i nostri, si avvicinano lenti verso l’immaginario che non acceca e non grida ma resta silenzioso: l’immagine diventa parola, una parola in sordina, desaturata dal troppo dell’io che la pronuncia e la mostra. 

Ritorna così alla mente una poesia di Fabio Pusterla da Folla sommersa (2004), dove l’invito all’ascolto del diciassettesimo verso è un ascolto rivolto un silenzio segreto, pacato, disteso nella domanda, dubbio e non risposta.

Algometrie II

Pensa a un paesaggio, adesso: risalire
un argine, seguendo una pista sterrata, che a sinistra
costeggia piloni e tralicci, poi le gabbie
semivuote di un canile.
Solo una lingua stretta di rovi e robinie
separa invece a destra il sentiero dall’acqua

di un torrente o riale che scende all’opposto, lungo i sassi
nerastri finiti qui da colline giurassiche
ormai quasi azzerate. Direzioni
antitetiche, e tu in mezzo,
tra flussi d’energia e vene frenetiche
che pulsano. Più avanti
l’accenno di una gola, e sulla gola
le vecchie baracche cadenti di una segheria,
scaglie di legno, scandole, treppiedi,
sostegni corrosi che sembrano scaffolds comanches.
Poi ascolta: abbaiamenti lontani, motori,
non pochi segni confusi di precedenti passaggi,
umani ed animali. Risalire,
dunque, per dove? Per giungere a che? E cos’è, paura

o piacere che vibra tra i rovi lambiti dall’acqua, e anche l’acqua,
perché? La diga in fondo,
di calcestruzzo muto, è il tuo passato, spreme a stento
un poco d’acqua nera sopra il muro. A primavera
spalancano le paratie, scroscia un’ondata
di piena e fango a valle, tronchi marci. Si rinnovano
le geometrie dei sassi, le correnti
segrete.

Federico Pacini attraversa gli interstizi di luoghi d’appartenenza (il senese, il grossetano) che intrecciano l’abbandonato e il racconto vissuto dell’animale e dell’uomo, o le tracce lasciate come un ricordo impresso sulla memoria del territorio che continua a narrare e narrarsi: jeans appesi al fuori che avvolgono un vaso di fiori: dicono un prima che non ha nulla di scenografico ma di vita isolata, di una gestualità di cui non possiamo sapere l’intento né il risvolto. Come fermo è l’obiettivo, così resta fermo lo sguardo di chi guarda, e nel passaggio da pagina a pagina il lettore (perché è di lettura che si tratta) si ritrova all’interno, viaggia con l’occhio che viaggia, una fusione dell’io con l’altro dell’immagine e l’altro del fotografo, una biografia del paesaggio che si espande in orizzontale e nel suo cammino.

“Il memorabile è ciò che può essere sognato del luogo”, come ci ricorda Michel de Certeau ne L’invenzione del quotidiano, così camminando col camminatore che cattura frammenti e territori chiamati ad essere volti, ci ritroviamo in uno stato onirico, il sogno del dormiveglia.

E se la biografia del paesaggio si espande in orizzontale, così in orizzontale sembra espandersi il punctum: dal dettaglio l’iride si sposta a cogliere il contorno che lo racchiude: la schiena di una donna quasi nuda seduta sul margine di una finestra cattura e punge lo sguardo per poi chiederci di comprendere ciò che sfugge, il territorio come un volto che non si limita ad incorniciare la scena ma si porge in uno stato di accoglienza, ne descrive ciò che può essere detto, le mura ingiallite, scrostate, le serrande verdi di due terrazzini, una parabola di un vicino, i fiori poggiati sotto una tettoia lasciata a sé stessa; la cartolina di una Pietà mangiata da una parete o forse un suolo: dove si colloca l’occhio? Al centro o nel dettaglio dello strumento accanto? Il dettaglio si fa così paesaggio e passaggio: da un oggetto all’altro, per poi spostarsi, e tornare al primo, e ancora perdersi e dilatarsi sulla pietra che li avvolge. 

L’umano appare poche volte, quasi a ricordare quel farsi portatore di un silenzio – ma silenzio di segno contrario al mutismo – del fotografo. Seduto o in piedi resta in uno stato di sospensione, un “prima di” o in attesa. Fermi immagine non rubati ma raccolti, chiamati alla comunicazione, senza didascalia. O ancora compare come fotografia di fotografia, un metaverso percettivo (l’uomo incorniciato con la baionetta che fuoriesce dalla stampa per puntare la canna verso un quadro con due volatili, le coppe vinte: da chi, per cosa). 

Ma è il territorio a scandire la narrazione, un territorio che si fa volto, le rughe del tempo che è stato e che continua a restare, un luogo riterritorializzato dalla fotografia di Pacini, e che nel sospendere il tempo affonda in un tempo indefinito: immagini che potrebbero provenire dal passato, non collocate temporalmente ma solo nello spazio, uno spazio dai colori spenti, nebbiosi, un indefinito, fino a quando un dettaglio ci riporta al presente: il rosa acceso di un circo semi abbandonato in lontananza, i capelli blu della donna col carrello. 

“La vita è fatta di piccole solitudini”, scriveva Barthes: e arriva così la necessità di avvicinarsi a queste solitudini con delicatezza, silenziati anche noi, in uno stato di sosta, parentesi tra il vociare della visione e la grana mite del sonno.

Il rischio e la perdita

0

di Vincenzo Frungillo

( è uscito il saggio di Vincenzo Frungillo Il rischio e la perditaSu identità e linguaggi di Martin Heidegger, Mimesis, euro 15, di cui pubblico qualche pagina, g.m.)

Viviamo in un’epoca singolare, strana, inquietante. Quanto più in modo follemente veloce la gran quantità delle informazioni aumenta, tanto più decisamente si estende l’accecamento e la cecità per i fenomeni. Di più ancora, quanto più l’informazione è smisurata, tanto più minima è la capacità della consapevolezza che il pensiero moderno diventa sempre più cieco e un calcolare che non guarda, il quale ha solo l’unica prospettiva di poter contare sull’effetto ed eventualmente sulla sensazionalità.[1]

 

A queste affermazioni Heidegger accompagna anche l’apertura di possibili spiragli che non devono essere accolti esclusivamente come risposta ad un pur legittimo “principio di speranza”, ma devono essere visti prima di tutto come intima necessità etica ed onto-logica:

 

Ma vi sono ancora alcuni, che sono capaci di esperire che il pensare non è un calcolare, bensì un ringraziare (Danken), in quanto il pensare è debitore di sé allo appello-pretesa della manifestività, vale a dire, accettando, permane esposto allo appello-pretesa della manifestività: che l’essente è e non sia nulla. In questo ‘è’, il linguaggio non parlato dell’essere rivolge la parola all’uomo, la cui eccellenza [Auszeichnung] e insieme rischiosità riposa nell’essere-costantemente-aperto in molteplici modi per l’ente in quanto ente.[2]

 

Tutta l’opera di Heidegger si è impegnata nell’approfondimento della natura linguistica dell’essere umano e nella descrizione dei limiti e delle potenzialità che tale natura comporta. Il problema non è salvaguardare le differenze effettive per portare avanti il pregiudizio umanistico della rilevanza che deve avere l’identità di ognuno, è piuttosto mettere in chiaro come la ramificazione planetaria delle tecniche di comunicazione e di controllo non possano andare oltre la singolarità dell’esistenza e l’apertura linguistica che essa comporta, poiché questa tendenza smisurata equivale ad un “crimine ontologico”, per parafrasare il poeta Brodsky. Non c’è parola sensata se non c’è un’apertura esistenziale che l’accolga, la trattenga e le offra una direzione di senso, e non c’è un mondo se non c’è preliminarmente uno spazio linguistico che lo significhi. La questione è proprio la limitazione dell’illimitata identità dell’uomo. “Dove c’è uomo c’è mondo e viceversa”, esiste un legame necessario e indissolubile tra di essi. In dialogo con M. Boss Heidegger, chiamato ad andare oltre la struttura portante della sua storia della metafisica e a fare i conti con la singolarità dell’uomo, dice a proposito della limitazione dell’identità dell’essere umano:

 

Lo spazio è l’aperto, il libero, il penetrabile. Questo aperto, però, esso stesso non è nulla di spaziale. Lo spazio è qualcosa di concedente libertà. Opiniamo, invero, che un ente divenga accessibile in quanto un io, in quanto soggetto, rappresenti un obiettivo. Come se per ciò non dovesse preliminarmente già vigere un aperto, all’interno del cui essere-aperto possa divenire accessibile qualcosa in quanto obietto per un soggetto, nonché l’accessibilità stessa possa venire percorsa in quanto che di esperibile. Attraverso l’appartenenza a questo ambito (dell’essente presente) è, al contempo, assunto un limite rispetto al non-essente-presente. Qui, dunque, il dell’uomo vive determinato in un ‘io’ di volta in volta attuale attraverso la limitazione al non latente che sta intorno. L’appartenenza limitata all’ambito del non-latente costituisce insieme l’esser-sé [Selbstsein] dell’uomo. Attraverso la limitazione, l’uomo diventa un ego, non però attraverso una dislimitazione tale, per cui, prima, l’io, che rappresenta se stesso, si espande allargandosi a misura e centro di tutto il rappresentabile. ‘Io’, per i Greci, è il nome per l’uomo che si adatta [fügt] a questa limitazione e, in tal modo, è presso se stesso, egli stesso.[3]

 

Dando per scontato per ora che lo spazio libero di cui parla il filosofo tedesco sia il linguaggio[4], e che il se stesso (il Selbst) dell’uomo si chiarisca nello spazio da esso aperto, la questione principale da approfondire è il rapporto che esiste tra il Selbst dell’uomo e il linguaggio, tra la singolarità dell’esserci esistenziale di ogni uomo e lo spazio linguistico che l’accoglie. Tale questione risolve in termini più originari la macroquestione del rapporto dell’uomo con il proprio mondo. È in questa direzione che bisogna quindi ritornare ad interrogare gli scritti sul linguaggio di Heidegger.

La fase esegetica dell’opera di M. Heidegger successiva a Sein und Zeit, durante la quale il filosofo si occupa di interrogare i detti dei presocratici e dei poeti in lingua tedesca, fa parlare il filosofo americano R. Rorty di reification of language:

 

Ma la reificazione del linguaggio nel secondo Heidegger è semplicemente uno stadio dell’ipostatizzazione da parte di Heidegger di se stesso, vale a dire uno stadio del processo di trasfigurazione di Martin Heidegger da creatura tra le altre del suo tempo, da io tra gli altri costituito dalle pratiche sociali del suo tempo, da io che reagisce tra gli altri alle azioni degli altri, a personaggio cosmico-storico, a primo pensatore post-metafisico. […] È la speranza che il pensatore possa evitare di immergersi in ciò che è “già da sempre aperto”, di sottrarsi alla relazionalità, seguendo un’unica stella, pensando un unico pensiero. Riuscire a liberarsi della metafisica, del mondo creato dalla metafisica, richiederebbe che lo stesso Heidegger fosse in grado di innalzarsi al di sopra del suo tempo. Significherebbe che la sua opera non sarebbe stata soltanto l’ennesima Selbstauffassung, l’ennesima concezione di sé dell’essere umano, perché sottraendosi al suo tempo egli si sarebbe sottratto anche a se stesso.

 

Dopodiché Rorty, parlando di “entità di tipo A”, che accomunano il pensiero di Platone con quello di Kant o di Russel, ossia di entità metafisiche che permettano di sussumere gli eventi storici e di “imporre dei limiti” una volta per tutte al dato, aggiunge:

 

Senza un’entità simile pensava il secondo Heidegger, il linguaggio, il mondo e l’Occidente sono condannati a rimanere senza forma un mero guazzabuglio senza né capo né coda. Il tentativo di sottrarsi all’essere in relazione, di pensare un unico pensiero che non sia un semplice nodo all’interno di una trama di altri pensieri, di pronunciare una parola che abbia significato anche senza aver alcun posto all’interno di una pratica sociale, corrisponde al bisogno di trovare un posto, se non in cielo, quantomeno al di là della chiacchiera, oltre il Geschwätz.[5]

 

La critica di Rorty denuncia un rischio cruciale a cui va incontro la determinazione dell’essenza del linguaggio: il rischio costante di perdere di vista “la relazionalità” strutturale, ontico-ontologica, di ogni essere fornito di parola. Questo pericolo è presente nel pensiero di Heidegger come monito fin dai suoi primi corsi sull’interpretazione fenomenologica di Aristotele. L’impegno del filosofo tedesco è stato da sempre quello di affermare la verità dell’uomo come relazione oltre il concetto di identità proprio della interpretazione classico-logistica del Logos: l’uomo, sulla base della sua stessa essenza discorsiva, si rapporta da sempre ad un senso eccedente, ad un altro da sé. Il linguaggio, la parola, ma poi in genere le forme dell’esserci, sono la messa in opera di questa verità originaria. Il cammino di pensiero di Heidegger verso l’essenza del linguaggio tende, quindi, dall’inizio degli anni Venti, in modo non ancora del tutto consapevole, fino agli anni Sessanta, con la piena consapevolezza, ad affermare la relazionalità dell’essere umano come esposizione ad un senso sempre eccedente che non può venir determinato, ma solo indicato nella forma della parola, che è pertanto il luogo originario di un rapporto ermeneutico (Bezug). Interpretare la parola nella sua funzione ridotta di segno e simbolo, la proposizione nella sua funzione ridotta di asserzione veritativa, il linguaggio in genere nella sua funzione ridotta di mezzo di dominio e di comunicazione, significa perdere di vista nel modo più radicale l’essenza stessa dell’essere umano. Esiste comunque un punto privilegiato dal quale poter osservare e verificare quanto detto da Rorty a proposito di Heidegger: è il corso del 1934 Logik als die Frage nach dem Wesen der Sprache. Questo corso pone al centro della sua trattazione proprio il problema della singolarità eccezionale dell’uomo e del suo rapporto col mondo, come rapporto con il linguaggio. Proprio attraverso questo corso sarà possibile osservare il destino del Selbst dell’uomo […]

[1]M. Heidegger, Zollikoner Seminare.Protokolle-Gespräche-Briefe, Frankfurt a/M, Klostermann, 1987, tr. it. di E. Mazzarella e A. Giugliano, Seminari di Zollikon, Guida, Napoli, 1991, p. 118.

[2]Ibidem.

[3]Ivi, pp. 247-248.

[4] Per ora si può verificare quanto detto leggendo le prime battute di questo intervento seminariale di Heidegger sul rapporto uomo/linguaggio. Ivi, p. 245: «La parola, non è una relazione; la parola dischiude, apre. L’elemento decisivo del linguaggio è il significato. Anche l’elemento fonetico appartiene al linguaggio, ma non è l’elemento fondamentale. Posso intendere linguisticamente la medesima cosa in lingue diverse. L’elemento essenziale del linguaggio è il dire, che una parola dica qualcosa, non che il suo suono venga emesso. Che una parola mostri qualcosa. Sagen [dire]=zeigen [mostrare]. Il linguaggio è ciò che mostra.»

[5] R. Rorty, Essays on Heidegger and Others Philosophical Papers, Cambridge, University Press, 1991, vol. II, tr. it. di Aldo G. Gargani, Scritti filosofici, Roma-Bari, Laterza, 1993; pp. 86-87.

Essere madre e figlia insieme. Su “Petite maman” di Céline Sciamma

1

di Ornella Tajani

Ho fantasticato varie volte di conoscere mia madre da bambina, di poterla incontrare al di fuori dello schema madre-figlia, in una cornice di parità; non mi sono mai molto interrogata sull’origine di questo desiderio, lo consideravo più che altro una curiosità scaturita dalla narrazione che lei fa tutt’oggi della ragazzina taciturna e schiva che è stata, mostrandomi un ritratto molto distante dalla persona che vedo, cioè una donna solare, socievole, a cui piace chiacchierare. Questo contrasto deve avermi fatto immaginare con particolare vividezza la casa in cui è cresciuta insieme a cinque sorelle e due fratelli, una casa in cui sono stata in diverse occasioni – non abbastanza, però, da sentirla davvero familiare, tant’è che quelle mura hanno continuato a possedere un potenziale fantastico sempre attivo: anche perché, a ogni visita, mia madre mi raccontava che la camera da letto era stata altro, che il salotto un tempo era diverso, innestando nella mia mente una sorta di gioco di scatole cinesi che moltiplicava i piani narrativi, un po’ come succede nel graphic novel Here di Richard McGuire (di cui ho scritto qui).
La immaginavo in quelle stanze, solitaria nonostante la numerosa tribù, chiedendomi cosa le passasse per la testa, quali desideri, paure, pensieri la attraversassero; come si figurasse da adulta.
Così, quando diversi mesi fa ho saputo del film Petite maman di Céline Sciamma (2021), ho pensato che volevo assolutamente vederlo, cosa che sono riuscita a fare soltanto ieri. La giovane protagonista di 8 anni, Nelly, torna insieme ai genitori nella casa della nonna materna, all’indomani della sua morte: bisogna svuotarla, raccogliere ciò che si vuol tenere con sé e buttar via il resto, seguire quella particolare liturgia che consiste nello spogliare i luoghi quando, per qualche motivo, occorre lasciarli. In una delle prime scene in cui si suddividono e inscatolano oggetti, Nelly ritrova i quaderni della madre bambina e la canzona perché non aveva una buona ortografia; il reperto-quaderno, che per età è più familiare alla figlia che alla madre, la spinge subito a relazionarsi con la figura genitoriale su un piano di parità, o addirittura ribaltando i ruoli: tant’è che, forse per timore di averle dato un dispiacere con il suo commento, aggiunge premurosa «però disegnavi bene».
L’elaborazione del lutto è molto dura per la madre, che sparisce di colpo, lasciando la figlia sola con il padre: al risveglio Nelly viene a sapere che se n’è andata senza salutare, rinvigorendo specularmente quello che è già un tormento della bambina, la quale rimpiange di non aver potuto salutare la nonna prima che morisse. Questa cornice accende la miccia del racconto fantastico: attraversando il bosco in cui va a giocare, Nelly scopre una casa parallela, dove vive la propria madre a 8 anni, e vede la nonna appena morta in veste di genitrice: Nelly e Marion – poiché da pari la madre è chiamata per nome – hanno modo di conoscersi, giocare insieme, fare le crêpes, montare una capanna di legno e attraversare un lago in barca, rievocando il classico richiamo all’acqua come simbolo del materno, ma suggerendo anche che questo elemento è legato a una fase di trasformazione, come giustamente rileva Ilaria Feole nel bel saggio dedicato al film (in Architetture del desiderio. Il cinema di Céline Sciamma, a cura di Federica Fabbiani e Chiara Zanini, già anticipato qui).
È forte in Nelly il desiderio di capire davvero chi sono i propri genitori, e chi fossero da piccoli: al padre chiede di raccontarle «les vrais trucs», le cose serie/importanti, ad esempio le sue paure di bambino; così come, a Marion che le dice che da grande vuol fare l’attrice – mentre entrambe recitano delle scenette inventate da loro, un po’ come le protagoniste di Piccole donne –, risponde con fiducia che potrebbe farlo, sottintendendo che ha del talento, e tutta la vita davanti. Si tratta a mio avviso di uno dei momenti più intensi del film: la protagonista viene, in maniera inedita, messa a parte del sogno della madre bambina, forse già sapendo che quel sogno non si realizzerà, magari proprio perché ostacolato dalla maternità. Tutto ciò resta nel non detto, ma lo sguardo di Nelly nel dire alla madre «Tu pourrais» (“Potresti”), incoraggiandola a credere nell’avvenire, racchiude forse il senso dell’opera: perché, se da un lato il gioco di ruoli madre/figlia sembra declinarsi all’interno di uno schema ordinato, dall’altro prevede dei rovesciamenti continui. Nelly e Marion – interpretate da due attrici gemelle, Joséphine e Gabrielle Sanz – incarnano forse non tanto una parità (eventualmente più di stampo sororale), ma una dualità al contempo impossibile e reale: sono madre e figlia insieme, madre e figlia l’una dell’altra, in qualche maniera (si pensi alla scena in cui interpretano i due genitori di uno stesso bambolotto).
E qui mi riallaccio a un’associazione giustamente richiamata da Feole:

L’idea della ri-nascita accende un legame anche con l’opera di un’autrice molto importante per Sciamma, Annie Ernaux, che nel suo romanzo Una donna affronta il lutto per la scomparsa della madre, da tempo malata di Alzheimer e ricoverata proprio in un istituto di Cergy-Pontoise, narrando per iscritto la sua vita. Scrivere della madre diventa un modo, dice Ernaux, per «a mia volta, metterla al mondo».

Mettere al mondo la propria madre attraverso la scrittura, attraverso una forma di appropriazione, quasi di fagocitazione produttiva: descrivendola come la madre che è stata e al contempo generandola nella narrazione. È ciò che accade anche in Petite maman: le due protagoniste sono madre e figlia insieme, in modo reciproco e sincrono, e Sciamma sceglie genialmente di farle interpretare da due gemelle, in modo che la sovrapposizione/confusione sia anche visivamente completa – inseguendo una circolarità impossibile sul piano di realtà, eppure fondamentale e pregna di significati su quello simbolico.

 

Lorenzo Mizzau: due poesie

0

Introduzione di Massimiliano Tortora

 La ricerca poetica di Lorenzo Mizzau in questi anni si è concentrata su due aspetti. Il primo è quello della tensione narrativa. I suoi testi, infatti, descrivono situazioni, in cui ovviamente agiscono dei personaggi (Tom in questo caso) e si riconoscono scenari, ambienti, luoghi. Insomma come in ogni narrazione vi è uno spazio e soprattutto un tempo che scorre. Nel caso di Mizzau – come si vede leggendo il primo dei due testi – la temporalità è duplice: quella della scena del testo e quella (esibita e dichiarata) che separa il narratore-poeta dal protagonista. E a fronte di tutto questo scorrere del tempo, la narrazione però non parte, inciampando su sé stessa, come se fosse contrastata da qualche intralcio non pienamente visibile. Se ne ricava un senso di stasi e di immobilità. Questa immobilità conduce al secondo punto: la rappresentazione del soggetto sofferente. L’io di Mizzau non è in armonia con il mondo, ma nemmeno in una fase di scontro. E del resto non si può dire neanche che l’io subisce il mondo: semmai lo ha già subito, ne è rimasto vittima o ferito, e ora vive il conseguente dolore e l’inevitabile disagio: un disagio che trova espressione in immagini e tenta una sua via di espressione attraverso le continue allitterazioni, che creano un significativo rumore di fondo. Ed è con questo rumore di fondo che Mizzau cerca di sintonizzare il suo lettore.

  1. In cui si racconta l’ammirevole tentativo di Tom di far fronte alle insidie nascoste nel cuore del giorno

Tom s’è spinto alle estreme conseguenze:
misurava i marciapiedi con scarpe
nuovissime e pensava senza impegno
nell’alba opaca, cioè:
farciva fantocci di fumoluce
che non si appagavano di misere lotte
(la gloria militare persa nelle
sospirate battaglie giovanili,
col pieno vigore dei cinque anni:
sconfitte da papà le orde verdi
e la retrovia dei supereroi);
soldati rivoltati, dunque, assediano
il fiacco generale.
Tom faceva programmi per la sera,
scomodava gli amici,
e non prendeva sul serio il pericolo.
Una bici sale sul marciapiede,
cinque minuti fa,
evitando con eleganza i contrattempi
di macchine e rotaie.
Tom aveva imbrigliato la sua infanzia
con strenua fatica e il consueto scoramento
in quell’istante, e imbastito la biga
raccomandandosi alla mansuetudine
del vacillante senso della vita
che poteva dirsi in quell’istante chetato,
stabilito con malferma risoluzione.
La bici passò e d’istinto al muro
si appiattirono le sudate architetture
diplomatiche delle età del mondo:
l’accordo era saltato e Tom lasciò
la propria chanche seccare sul selciato.
Il giorno gli si chiuse sulla nuca.

2. L’architetto e la preistoria

Non da dentro ma da fuori, com’è
che si esce al vento? La sistole è il nodo al fazzoletto:
il muscolo è il tessuto più pesante:
il suo ritmo è ritornare al suo nodo:
àncora e una corda di grasso l’assicura
da vecchi venti in cui parlano più
che uomini, non ospitano voci
– inospitali, soli, sì, e terreni,
e spazzano i fondali corallini.
A queste latitudini
salgono a galla da mari viscosi
mondi come lucidi tuorli d’uovo,
grassi figli sopiti della terra,
non piangono salendo dalle faglie:
pacifici, corpulenta gioia per gli occhi,
– e ogni volta lo ricordo di nuovo.
È fondamentale il ruolo che gioca
la pesantezza dell’impulso alla discesa
nel parallelogramma delle forze.
Unghie grigie d’argilla
di mani piccole e concave e dita
piccole e rigide consolidano il fondo
della buca: aperto, aperto, arginato
il rovinare della sabbia nella buca:
non più scendere e riportare la sfilata
dei fossili e dei troni
di templi e vestiti e di tutto ciò che torna
(poiché già ci hanno detto che il destino
lasciò andare come un brutto aquilone chi
disperava del governo del sole
e il nuovo lo chiese alle porte della notte)
ma a cementare le pareti del riparo, e
dargli il nome di casa.
È qui che si attende. Sarà il bacio
della risacca a benedire la mia casa.

Bullezzumme

0
Nicolas de Staël, "Paysage du midi"

Nicolas de Staël, “Paysage du midi”

[Bullezzumme è un romanzo inedito di Francesco Cozzolino. Ne pubblico un capitolo, intitolato Profezie e malombre. ot]

di Francesco Cozzolino

Bullezzumme è il termine ligure usato per indicare il mare moderatamente mosso, che per l’azione del vento schiuma e ribolle. Il bullezzumme è lo stato fra il mare calmo e il mare grosso.

_

 

Il sole barbagliava in fondo al vicolo, il sale lo scortava per i caruggi e insieme importunavano occhi e froge dei passanti.
Dopo l’intossicazione commerciale, Bartolomeo non disiava altro che quella rinfrancante distesa azzurra.
Attraversò piazze come francobolli e vicoli simili a corridoi, girandolò per diletto corteggiando il porto, un’ultima voltata e alfine il mare apparve.
Il solleone si mangiava il porto. La meandrica passeggiata gli aveva messo sete, si ritemprò sul gradone del molo e decise di meritarsi un cordiale.
Al tavolino del Bistrotto sbramò la sete con un Asinello, lo sorbì con sollecitudine, lasciò una buonamano al cameriere e sorrise al cielo.
Quello si rabbruzzò e gli rispose a suo modo: una libecciata investì la Città Vecchia e asciugò il madore dei vicoli.
Le si gettò tra le braccia, a spasso tra i palmizi il sentore equoreo lo mise di buonumore. Rinsaldò così il suo proponimento: Tilde.
Tilde era settivolte vedova. Lei, laconica, diceva semplicemente che s’era malmaritata.
Purchessia, come tutti i professionisti del settore, non amava entrare nel dettaglio dei fatti, anche perché soltanto semiquattro furono accertate come morti violente.
Per i primordi mariti la faccenda si risolse in breve tempo: Gilberto cominciò ad accusare dolori al petto una mattina di gennaio e già anzi la cena, steso sul talamo, la pratica era archiviata.
Tre anni dopo, Agostino fu raggiunto da furiosi singhiozzi postprandiali; noncurante uscì comunque a bagordare con gli amici. Poco dopo mezzanotte capitombolò a faccia in giù nella ritirata della fiaschetteria.
Altri semiquattro anni e, appena rientrati da un viaggio per mare, Ettore fu colto da un colpo apoplettico mentre rincasava da una malanotte spesa a corseggiare i vicoli.
Al quartario marito andò persino peggio: Felice perì durante il viaggio di nozze, scivolò dalla goletta che li portava a spasso per i mari caraibici e i pescecani s’occuparono del resto.
Amedeo, invece, lottò fino all’ultimo contro la paralisi che s’era impossessata del suo corpo. Si spense muto, sulla poltrona del tinello.
Leonardo, risultò il lutto più rocambolesco: una frizzante mattina di settembre uscì di casa e fu sfiorato da un pitale in caduta dal seigesimo piano.
Scampato all’accaduto e sicuro che l’aneddoto avrebbe intrattenuto i caffeioli per tutta la colazione, tagliò la strada in fretta. Tradito dal binario del tramvai s’allungò sulla ferrata: la decapitazione fu repentina.
Comecchessia, Bartolomeo sfilò tra la ragazzaglia che affollava il sestiere del molo e giunse al palazzaccio.
Senza troppe madamerie, Tilde lo fece entrare. Aveva lunghe borse sotto gli occhi, anche lei veniva per sicuro da una malanotte.
Bartolomeo, affannone per i nove piani di scale, ebbe appena il tempo di occhieggiare fuori dalla finestra. La distesa blu già mareggiava, ma Tilde lo scostò e serrò le gelosie. L’oscurità era d’obbligo.
Gli fece strada nel tenebrore del corridoio dove le sette buonanime occupavano tutta la parete, raggiunsero il tinello e in quella mescidanza di oggetti, Bartolomeo indentificò i suoi ferri del mestiere.
Tilde aveva bacinelle ottomane e dadi arabi, medicine andaluse e rimedi indiani d’ogni tipo.
Il libeccio s’infiltrava per tutti i pertugi e zufolava per casa. Nella penombra accanto alle gelosie c’era Norberto, il gufo di Tilde. Artigliava il trespolo con una zampetta monca e mirava fissamente Bartolomeo.
Tilde aprì la madia, piazzò la candela al centro del tavolo e fece brillare un cerino. Il lucore le bagnò il viso e la donna s’affacciò su di lui.
“Ci sono malombre intorno a te, Bartolomeo.”
“Di che tipo?”
“Del peggior tipo, giocolieri e scherzatori.”
“Cosa possiamo fare?”
“Bere.”
Tornò alla madia e gli presentò un bicchierino colmo di biancamaro.
Era ancora una bella donna, aveva fianchi generosi e occhi da lupa. Negli anni, Bartolomeo le fece tre proposte di matrimonio. Tutte per ragioni professionali, è inteso.
La primordia fu avventata, ma sincera. Tilde era già alla triaria vedovanza e a Bartolomeo sembrò un’occasione ghiotta. Lei si negò con una carezza.
L’altra avvenne dopo il trapasso di Felice ma Tilde, ancora scossa dall’accaduto, nicchiò per qualche tempo, risolvendosi poi a declinare.
L’ultima avvenne molto tempo dopo, la chiese in sposa sotto un tramonto settembrino. Fu allora che Tilde gli raccontò la sua storia.
In pochi sapevano di come lei, giovane e sola, fosse approdata in quella città brindellona, una dieciata d’anni innanzi.
Era nata su un’isola, Tilde. E da bambina parlava coi pesci e coi gabbiani. Fu quando era già ragazza che conobbe l’amorgrande.
Se la matematica non finge, si sarà notato che la lista nuziale difetta d’un consorte.
Storia infelice quella di Amerigo, si può dire l’unico che Tilde amò veramente.
Tecnicamente non ancora sposo, ma promesso tale, Amerigo fu il più grande navigatore del suo tempo. Ammiraglio in patria, raccolse titoli qua e là per il mondo.
Aveva comandato così tanti barchi che non ne ricordava più il nome o il numero. I cinque oceani gli s’inchinavano, dicevano alcuni.
Lui e Tilde strinsero il patto d’amore il primordio giorno di primavera, la mattina dopo Amerigo s’imbarcò per Kapingamarangi.
Sarebbe stato il suo ultimo viaggio, sempre che nella vita d’un uomo di mare esista invero una tale eventualità. Sennonché, la malafortuna era in agguato.
Fu la tempesta più feroce che si ricordi. Il suo vascello, il Pelagus, guerreggiò col mare per settigiornate. Alla ventuvesima alba si spezzò nel mezzo del Pacifico.
Amerigo adesso è in un abisso marino. E lei l’amò doppievolte, da vivo e nel ricordo.
Bartolomeo capì così che la vera scienza non ammette accorciastrade.
Tilde accese un legno di palosanto, si cavò tre fagioli di tasca e li lanciò sul tavolo.
Poi prese il suo dado fenomenale, quello che non aveva mai perso, e lo cacciò in mezzo ai fagioli. Quindi ingollò il biancamaro in un sorso.
“Tutto ciò è malurioso.”
“È grave?”
“Potrebbe.”
“Cosa possiamo fare?”
“Pranzare.”
S’insalivò le dita e spense il lucignolo della candela. Alfine aprì le gelosie e il bagliore straripò nel tinello.
Bartolomeo, abbacinato dalla luce, strinse gli occhi: fuori dal vetro il cielo era nemboso.
Mangiarono insieme culaccini di pane e acciughe dissalate, galletta secca, scorzonera e condiglione.
La bottiglia le sciolse la lingua: “Ci sono persone che cabalano, se presti orecchio le puoi sentire.”
Bartolomeo trangugiò il vino e si guardò intorno con circospezione.
“L’avvedutezza non servirà, Bartolomeo, gli oceani sono grandi, ma non infiniti: la Sabrina ha già lasciato il molo.”
Alzò lo sguardo, i suoi occhi saettarono per il tinello e si posarono sulla finestra.
“Cosa vedi?”
“Prue e poppe che si rincorrono, onde alte come torri. Una tempesta, Bartolomeo.”
“È grave?”
“Potrebbe.”
“Cosa possiamo fare?”
Tilde non rispose. Norberto bubolò. S’alzò in volo, fece tre cerchi intorno al tinello e artigliò la seggiola. Zampettò tra i resti del pranzo e ghermì un fagiolo.
Bartolomeo non aveva capito granché di ciò che aveva detto Tilde, ed era anche un po’ ottuso. In ogni caso si fidava ciecamente di lei: Tilde vedeva e sapeva.
Si rimise in strada alticcio, le cassandriche profezie della donna non aiutarono la digestione.
S’aggirò ramingo, in equilibrio sulle mura di Malapaga, raggiunse Porta Siberia, lì un gatto piangolava e l’accompagnò fino ai Portici dai mille passi.
Decise di lasciare che il pomeriggio si srotolasse prima di tornare per il suo cappello.
Girandolò nubivago per i vicoli, lambiccando le vetrine fino all’angolo di piazza del Caricamento; fu lì che lo vide.
Il manifesto fresco di stampa recava il timbro del Municipio e diceva Radunanza Generale.
Sarebbe iniziata da lì a poco, già sentiva la pispilloria levarsi.
E sia, si disse.

La guerra come forma della pubblicità. Un breve poema

3
 
Di Guido Caserza

Non tutto è come sembra chiede
cosa pensa della 
guerra cosa pensa
un istante e ci vediamo
non tutto è come sembra pote
te sentire i boati sordi del
le esplosioni un paese di quaran
tamila persone comple
tamente sfollato quaran
tamila cadaveri potenziali
alla fine del
la pubblicità si sta combat
tendo buonasera Fabio Buccia
relli ho fotografato due corpi di ci
vili
uccisi mentre stavano scap
pando
ci sono bambini
molto bambini fra le vittime
per mostrare la crudeltà della guerra
non tutto è come sembra cosa
pensa lei della cosa pensa
sono saltati i corridoi umanitari
viviamo la velocità della guer
ra la velocità della super
fibra viviamo Amazon prime
nessuno è perfetto
a solo 9 euro virgola 92 al mese
ci vediamo dopo la guerra
un istante e ritorniamo
restate con noi 
                            quella ragazza
sulle labbra ha il vermiglio della passione 
                       la Russia ha ritrovato il grande Pietro
     morto da secoli sta ritto sul margine d’Europa
Questa è la mia terra!
       sulle labbra ha il vermiglio della passione
temprata dal freddo del nord
            la Russia rievoca il dramma della redenzione
sulle labbra ha il vermiglio della passione
           la Russia immensa reca la forza
                     reca i suoi giovani si contorcerà
                            un po’ poi cadrà
      sulle labbra ha il vermiglio della passione un bel visino
sopra i capelli si mette le mani e geme
          Non può essere mio Dio non può essere!
fiera ed entusiasta del suo ruolo
             la conduttrice adorna coi suoi capelli
                     lo spettacolo della morte
                              questa è l’aria che tira
                                      una canèa in studio
                       sciocchi paci
             fisti avete sulle labbra solo
        parole d’amore una canèa
    parole senza scopo
un corpo scop
piato al margine della strada
una specie di scoop
l’amore serbiamolo
per i nostri fratelli che canèa
il fuoco dell’odio 
è nei nostri focolari
venite alla finestra
arriva la primavera i man
dorli sono in fiore siate
gentili con le donne in strada
le donne in festa
chiede a Cardini cosa pen
sa della guerra della guerra
cosa pensa nulla è come sembra
nulla come la guerra l’e
sercito russo si sta avvicinando
venite alle finestre
vivevano il tempo più bello
nella loro terra venite
dove palpitano le colombe
gli uomini cantano alle finestre
con la voce sopra le tombe
per dimenticare la morte
steli lunghi di dolore
un peccato scannarsi
venite è primavera
la più dolce la più colpevole
delle dimenticanze è impossi
bile raggiungere la linea del fronte
cosa pensa Alan Friedman questa
è la banca costruita intorno a te
un massacro senza fine
ci dobbiamo fermare per la
pubblicità ci vediamo dopo la
il depurativo Colon
san contro la diarrea
contrasta la crescita dei
batteri cattivi
non tutto è come sembra
Kinder cereali è come lo vedi
vedo da distante gli elmetti
lucci
canti al sole un mis
sile imprime l’aria
stinge la luce
segugio punto it un mas
sacro senza fine grazie Buccia
relli seguiremo ancora i tuoi rac
conti senza luce sen
za acqua senza fine un 
massacro costruito intorno a te

moltiplica gli uccelli in cielo 
          il suono della violista nel metrò
    qualcuno pensa primavera
      è in questo modo che vivono i cieli
un boschetto di limoni
         nelle orbite dei trapassati
il cevello dello zar 
    come un gigante si è levato 
         candidato col suo metro e settanta
all’obitorio per farla breve
quando sarà morto lo chiameranno 
l’idiota dalla bassa fronte
un istante di pubblicità        
piccolo stacco resta
te con noi
i cellulari non funzionano
il mondo ha perso i suoi confini
ci sono gli innamorati og
gi come allora inna
morati come noi
uomini donne bambini sot
to i colpi dei mortai
sussulta il cuore sus
sulta la terra
è quasi primavera
ci vediamo dopo la guerra

usciti dalle tombe dove
     troveranno le mani
             per suonare i vecchi ritornelli

hanno di nuovo decapitato il cielo
       la luna una grossa pancia
              in un cielo gremito di zecche
ci si può baciare nel giorno della morte?
       amore sì! col fuoco dei palazzi
                 con gli occhi morenti dei vecchi
                        col fiato raddoppiato dalla paura amore sì!
corrono in guerra morti vecchi di secoli
      escono dai canali di scolo
ci sono facce che recriminano occhi
      corpi che recriminano facce
   un circolo vizioso la mano 
        che cerca il braccio il braccio
che cerca la mano che cerca
  la gamba la gamba che cerca
     il corpo il corpo senza viso
fa qualche passo in avanti
      prima di cadere a terra
   deve andare in pubblicità
aspettate ogni morto ritorna
      fronte nuca petto e schiena
   bisogna ucciderli due volte
      un momento perfetto per aprire
controcorrente i tuoi soldi al riparo
     ogni morto ritorna ogni trincea
un boato sotto la luna un boato 
      nella pancia una mano nel cratere
a chi appartiene questa mano
         questa mano a chi la do
un boato che assorda ogni anno
        una persona su tre fa il con
trollo dell’udito i sanguinari com
        battenti della Cecenia
trenta minuti di rianimazione per entrambi
        non c’è stato niene da fare
   la bambina morta in una pancia morta
    su qualche ramo canta un uccello
l’orizzonte crepita lontano
    notte e giorno canta un uccello
l’orizzonte si fa vicino
i cannoni suonano a festa
    l’uccello non sa in quale campo combatte
scusate devo andare in guerra
     interrompo la pubblicità
ci vediamo vado in guerra e ritorno
un break bellico restate con noi
un’esplosione kinder festa
vado e torno
è un ritornello del vecchio mondo

         le belle studentesse morivano di voglia
avrebbero ceduto il cuore
     per una parola tenera
i bei corpi delle studentesse in fiamme
          il palazzo dell’università 
le gambe delle belle studentesse
            un missile per conquistarle
    ragazze così dolci
         le poesie di Verlaine sotto il braccio
     sulle labbra il vermiglio della passione
       il cuore trapassato dalla folgore
pensa alla dolcezza dei mattini 
     visini e corpi turgidi affiancati in letto
   non ti ho mai amato così tanto le dice
         con l’enfasi dell’apocalisse
affiancate le bare
                              altrove i cadaveri nelle fosse
   ci fermiamo un istante per andare in guerra
             decine di corpacci 
se muoiono sanno il perché
        in ogni grembo c’è sempre
 un cromosoma di morte
         la bambina nella pancia salvata
dalla tortura dell’ostetrica la grande
       levatrice il più grande degli orrori
vivere
      dolcemente dolcemente quel visino
se ne sta nella pancia nella pancia
         dolcemente dolcemente
       ben pasciuto ben nutrito
   dolcemente dolcemente dolcemente
tieni chiusi gli occhi o bel visino chiusi per sempre
      la bambina nella pancia la luna per sempre salvata
buongiorno al latte e al caffè
       buongiorno a chi più non è
un boato nel reparto maternità
     ho sentito un rumore strano in garage
c’è sempre un direttore che ordina
       contribuisce alla normale funzio
natalità della prostata
       ai musicisti di suonare dà 
               l’attacco con la bacchet
       ta imperiale impregnati di benzina
i musi 
           cisti sono pronti a esplodere basta  
   una scintilla questa è la musica più appassionante
la suspense del suono
       al mattino ci possiamo baciare
sì amore la terra è ormai nuda
       il sangue inonda chilometri di terra
l’armata del sangue
      il vento dei missili strappa facce e vestiti
povera vecchia dove dirigi i tuoi passi
    la spettacolare aurora dei traccianti su Baghdad
          appartiene alle vecchie coscienze d’Occidente
    questa è una guerra di trincea
            posizione contro posizione
                   una canèa in studio
  mamma mia che orrore dice 
       la bionda in studio le schegge
            delle cluster attraversano i muri
  mentre noi ragioniamo là si muuuoooore
giorno dopo giorno pubblicità! vi permetterò
    di ricevere un sistema di riposo com
          pleto offerta valida per tutto
                il mese di marzo arriva
                     la rigida primavera russa
       a piccole rate da diciannove euro
e novanta centesimi non perdere
        la possibilità di offrire ai tuoi cari
un posto sicuro dove dormire prima
    che sia troppo tardi questa
         è l’aria che tira
una cluster fa esplodere il materasso
   la poltrona all’incanto
     la cucina più amata dagli italiani

      So che avete bisogno di armi
              dice l’emissario cinese vestito da monaco
                     ma non avete più labbra per sorridere
i cecchini si divertono nella tempesta
      cantano le loro filastrocche a bassa voce
fra un tiro e l’altro
            a due chilometri di distanza
    fanno saltare un cervello
tutta la vostra vita non vale il peso di un bossolo
       rispondono in coro i morti
               è una specie di responsorio fra cecchini e morti
con parole a tratti molto liriche
a tratti molto assurde
             il visino di una bimba con lecca 
    lecca e fucile d’assalto
un altro di una bimba con archetto e viola
            la viola del mio amore
    amore sì il nonno è morto non piangere
         l’aria si fa chiara
raccontami sciocchezze fai sorridere 
        il mio visino amore sì
la storia del panettiere
         Amore andiamo a prendere il pane
Il panettiere è stato bombardato!
             Caro che lusso 
il pane integrale coi pollici!
             Amore sì.
Si sparano i mignoli vedi?
            La guerra che sciocchezza!
Un’altra storia amore sì
                Il nonno era venuto 
    con una bracciata di giocattoli
il nonno nell’esercito dei morti
      lo hanno afferrato con le scheg
ge di una bomba 
     suona per lui bella bimba
dobbiamo trovare un nonno
     che sia uguale a lui
un’amata per me del tempo di guerra
        al suono delle sirene in cielo
la bocca di Petrarca avrebbe balbettato
       nei carri Nato i motori
della nostra salvezza

nulla è come sembra
    sotto le macerie d’Europa
          ci sono i veri morti
i morti delle vecchie guerre
            escono dai canali di scolo
si prendono i nostri volti
      i nostri piedi
                una canèa in studio
il Gun Digest reclamizza un Remington 12 C
       la controparte del Winchester
             nel giorno del suo centenario
alati cadaveri escondo dai bassifondi della storia
        con le penne arruffate i volti sbigottiti:
                Di nuovo qui?

Un breve stacco! primavera! 
             Occhio alle precoci fioriture
un dentino avvelenato
          può guastare il più bello dei sorrisi
il più bel visino
       non trascurare i sintomi più lievi
   il sangue gengivale è un segno di
da tempo c’era fuoco sotto la cenere
un carcassone nel teatro di Odessa
      nulla è come sembra
    questi morti
         non sono reali bisogna 
       scavare un chilometro
sotto la terra per trovare quelli veri
    amici dei vecchi tempi
         con le sciabole snudate
              tornati a far baldoria
      sotto la cenere andare a frugare
 questo pubblico non è reale
           è l’inganno della primavera
    sotto terra scavare
              la baldoria della primavera

***
Nota

I versi “Amore andiamo a prendere il pane / Il panettiere è stato bombardato! / Caro, che lusso / il pane integrale coi pollici! / Amore sì. / Si sparano i mignoli vedi?” 
sono di Dario Meneghetti

Sintesi dalle radici, Riflessioni sulla raccolta di Antonia Santopietro

2

di Gabriele Belletti

 

Sintesi dalle radici, la prima opera poetica di Antonia Santopietro, prende le mosse da un’epigrafe affidata, non a caso, alla voce di Virginia Woolf. Versi ieratici che danno il via, aprono letteralmente, al libero movimento delle cadenze e alle direttrici della raccolta. Si tratta di affermare subito, attraverso di essi, la propria libertà in quanto individuo, e altresì quella coadiuvante il tentativo di scardinare le griglie tra sé e l’altro da sé, di non delimitare lo spazio in cui la mente e la voce della raccolta andranno ad abitare. Se esiste uno spazio, questo è uno spazio aperto, nell’aperto. Lì, il primo agglomerato versificatorio che il lettore incontra proviene dalle radici; da lì, quell’io, uso tanto alla stoffa quanto alla corteccia (Fronde e velluto), che si vuole sin da subito libero e interrogativo («che ne sarà del primo giorno su questa terra?», Marine litter, v. 12), si lascia coinvolgere dalle materie che accoglie e in cui è costantemente avvoltolato. La voce diventa (in) questi luoghi, in loro vive e in loro – e con loro – si dice («chiedo alla pioggia un rumore forte / un temporale se possibile», Temporale, vv. 4-5). In sintesi questa apertura diviene sintomo di una coappartenenza («La nostra solitudine / è dell’albero / e della prima alba la viola», in sintesi:, vv. 4-6) dove l’animale e il vegetale si incontrano e si confondono («liquor linfa e sangue», Ibidem, v. 1).

Esiste, è innegabile, una progettualità reticolare insita in quest’opera, incline a ricercare delle corrispondenze tra tipologie di caratteri, di elementi e di regni (Direttrici della raccolta). Vi è l’esigenza di riconoscerle per intercettare qualcosa che saprà rimpicciolire la postura umana e liberarla nelle coordinate di una nuova attenzione e in una pienezza metamorfica e comune (Anedonia). Si realizza, in tal modo, la poesia di una creatura femminile – una Donna rovesciata – che si sfilaccia e si ramifica, accoglie sul suo corpo viva materia di altri («sulla sponda estrema della schiena / sospesa, astratta neve», Terra donna, vv. 6-7; «Porto gli anni grandi, / e per ognuno e uno a uno / lentamente conto / gocce di rugiada», Gli anni, vv. 1-4); chi la ascolta presto non sa più se stia assistendo al movimento dell’altro da sé verso una forma antropica o allo spargimento di un’orma umana che si fa inesorabilmente «velo» («Nullo il passo, è velo», Terra donna, v. 1). Anche per queste ragioni, nel canto torna spesso il sentire, inteso come percezione e sentimento, ma altresì come facoltà ermeneutica di intercettare altrui orme nello spazio aperto («ne riconosco l’orma», L’osso, v. 5), e somiglianze. Fino a intravedere un’origine, l’«osso»-concepimento della voce, che del vento – materia naturale inafferrabile – «ha preso il suono» (L’osso, v. 6) e di cui si possono solo «dire poche cose» (L’osso, v. 1). Affiorano segnali, umani e no, corrispondenze («Il giorno in cui invecchiai / si era vista la pioggia», Il giorno in cui invecchiai, vv. 1-2), particolari duraturi di un sempre effimero esserci («solo candido vestito in riuso», Ibidem, v. 13), così come «lemmi piccini e fragili / che si allungano per ore» (Serpente, vv. 7-8), lacerti temporali dove momenti della giornata assumono connotazioni arboree («Accade che una linea di buio resista, / che l’aurora abbia un ramato tormento», Memoria ferma, vv. 1-2; «i giorni sono legni magri / vanno come foglie», Ibidem, vv. 5-6; «Memorie sante di luoghi fibrosi», Pudore, v. 5) e vegetali che, a loro volta, rivestono naturalmente un valore inestimabile («non perdere il colore della viola / non tradire il profumo del glicine», Pioggia, vv.  9-10).

Il bisogno di questa “libertà della mente”, tornando all’epigrafe woolfiana, in ultima istanza genera un canto che sfocia in un’urgenza di cura («Curo le linee d’orizzonte», Finis terrae, v. 9), permettendo agli elementi che si provano di interagire col corpo in ascolto che ne segue «il suono» (Ibidem, v. 8), fino a modificarlo («Ascolto ogni sintomo, / allargandomi, alleggerendomi», Il conforto della poesia, vv. 8-9). Un corpo che si espone alle intemperie del foglio, della terra (La vita sulla terra) e dell’acqua («dagli abissi motu proprio / un salmo blu / che non prendiamo sul serio», Sonorità marine, vv. 1-3), le cui labbra e le cui mani, strumenti per eccellenza della scrittura, diventano di fiori e di frutti («le labbra rose bocciolo», «le mani grappoli d’uva», La vita della terra, vv. 8 e 10). Resta la vivida consapevolezza – merwiniana – della limitatezza della lingua («la linea di confine messa / tra il mio e l’oltre è falsa», Titolo a scelta, vv. 9-10) che non rinuncia – proprio per coerenza alle materie che canta – a sempre modificarsi in brevi prose o in quasi-randomici grumi (Grammatica sterile dell’antropocene) in cui si affacciano nel «minuscolo», nella «sottrazione» (Brevitas I e II), piccole formulazioni di verità subitanee. La chiave per leggere questa raccolta sta proprio nel cogliere la convinta arrendevolezza – potente e integerrima nei suoi principi – che espone chi canta al libero mutamento, per cui viene a mancare qualsiasi suo «vantaggio inappropriato», e umano, sull’altro da sé (Un centesimo di grazia), per diventare e guardarsi diventare poeticamente un elemento cangiante e indifeso di uno spazio sempre co-abitato.

testi di Antonia Santopietro


Memoria ferma

Accade che una linea di buio resista,
che l’aurora abbia un ramato tormento.
Ricordi appena quando sotto i tigli sorridevi,
la mano del cielo aperta a cupola.

I giorni sono legni magri,
vanno come foglie.

Al mattino c’è più spazio
gli oggetti si organizzano,
di sera affaticano i nervi.

La vita sulla terra

Non era roccia, quercia o larice,
ma sabbia – e vi scrissi
con le unghie sorgenti una
lunga prigione d’ametista.
Il foglio arbusto forte mi regge
mi arroventa gli zigomi,
gli occhi sono calcina,
le labbra rose bocciolo
le gambe architetture antiche
le mani grappoli d’uva

il racconto appassisce –
tradito un migliaio di buone volte.

La scrittura “non originale” di Fabrizio Venerandi

0

[Questo testo è uscito in una versione più breve su “Le Monde Diplomatique” del 15/3/2022, supplemento de “il manifesto”] 

.

Di Andrea Inglese

 

Nel 2011 escono negli Stati Uniti due libri che costituiranno un punto di riferimento a livello internazionale per quanto riguarda la poesia di ricerca e in particolar modo per quella che viene chiamata “scrittura concettuale”. Il primo, Against expression: an Anthology of Conceptual Writing (Northwestern University Press) è un’antologia curata da due autori, che mescolano riflessione teorica e pratica della scrittura: Craig Dworkin e Kenneth Goldsmith. Quest’ultimo è anche l’autore di Uncreative Writing. Managing Language in the Digital Age (Columbia University Press), un saggio uscito nello stesso anno e che annuncia l’avvento di una nuova “letteratura” non più basata sulla creatività dell’autore, sulla sua originalità o sulla leggibilità della sua opera. Al di là delle proposte molto eclettiche (da Benjamin e Gertrude Stein a Yoko Ono e Charles Bernstein) che l’antologia e il saggio di Goldsmith allineano a partire da alcuni concetti chiave, come quelli di “appropriazione”, “protocollo”, “plagio”, ecc., questa operazione è stata in grado di delineare nuovi territori entro i quali poeti e non-più-poeti si sono inoltrati in anni recenti. La poesia italiana, per lo più ancorata ancora saldamente al paradigma lirico, guarda con un misto di altezzoso disinteresse e di fascinazione esotica a questi fenomeni, ma vi è anche chi, senza eccessivi sbandieramenti teorici, si è non solo familiarizzato con essi, ma li ha fatti propri con grande efficacia. Da tempo siti come GAMMM hanno favorito la diffusione di autori soprattutto statunitensi che lavorano su prelievi casuali tratti dalla rete attraverso Google (il cosiddetto googlism). È però oggi che appare, grazie a Niente di personale di Fabrizio Venerandi (Argo Libri 2021), uno dei migliori esempi italiani di scrittura “non-originale”, come il titolo letteralmente afferma. Le prime quattro sezioni, per altro del tutto “leggibili”, sono realizzate attraverso protocolli semplici per prelevare e assemblare nella forma del “verso” e della “strofa” delle frasi circolanti in rete, pubblicitarie o meno. Nelle note, l’autore ci dice, ad esempio, per quanto riguarda la sezione spam poetry : “i testi (…) sono presi da messaggi spam ricevuti via email nel corso del 2021. È stata sostituita la seconda persona con la prima e il tempo imperativo o presente con il passato prossimo”. Ma allora – protesterà qualcuno – il soggetto scrivente non è cancellato, neutralizzato, ucciso! Certo che non lo è: ma alcuni presupposti importanti dell’attività poetica sono comunque stati azzerati: l’autore non esprime più se stesso, non pesca più dal tesoro della sua interiorità qualche parola inaudita in grado di sorvolare l’idiozia linguistica circostante. L’autore documenta e trasforma secondo procedure fisse “frasi” prodotte in massa e per le masse. Ciò genera nel lettore un misto di raccapriccio e ilarità: “… ho cliccato lì e sono diventato / il più grande dio del sesso // il mio membro era piccolo / l’ho allungato con un metodo sicuro // ho ottenuto in 14 giorni / una linea perfetta senza morire di fame // mi sono voluto iscrivere a fisioterapia / senza test d’ingresso ma con corso preparatorio”. Innanzitutto, il verso e la strofa sembrano ritrovare qui una loro necessità “percettivo-conoscitiva”: grazie anche all’uniforme bianco della pagina, permettono la cristallizzazione in rilievo, l’inquadratura stretta, su materiali linguistici destinati a fluire a margine della nostra attenzione o addirittura nell’inconscio – la cartella spam – dei nostri apparecchi elettronici. Oltre alla ripulsione e alla comicità, l’operazione di Venerandi produce il novecentesco – e sempre salutare – straniamento: vediamo infine – leggiamo – ciò che non vorremmo proprio vedere. L’impalcatura audio-visiva del verso funge da espositore e da lente d’ingrandimento: là dove c’era l’inconscio (la discarica linguistica dello spam) c’è ora la coscienza (la scansione grafica e sonora). La sezione più sorprendente – questa sì ai limiti della leggibilità – è però l’ultima, Words from the afterlife, che costituisce quasi due terzi del libro. Nel settecentenario di Dante, che ha mobilitato in tutt’Italia forze sia specialistiche che divulgative, Venerandi sbullona con noncurante freddezza il monumento della Commedia, ritrascrivendola secondo l’ordine alfabetico delle parole di cui è composta, punti d’interpunzione inclusi e presentati in appendice. Nonostante le apparenze non si tratta di un atto vandalico, perché l’incontro desemantizzato del materiale linguistico dantesco sollecita paradossalmente un desiderio di “ricodificazione”, di rinnovata lettura, ma dopo un vagabondaggio stralunato tra le sue rovine. In conclusione, non possiamo che apprezzare la capacità di Venerandi di riconsiderare la poesia non come un’arte destinata all’espressione linguistica del sé individuale, ma come l’arte di organizzare diversamente porzioni linguistiche del nostro sé collettivo, riuscendo per altro a suscitare riso e spavento, e anche maggiore consapevolezza del mondo in cui viviamo.

 

Verso il Sahara

1

 

di Nick Casini

“L’Africa è una droga che prendi per non ammazzarti, un’evasione”, diceva Pasolini, che in Uganda era andato in cerca di luoghi e di volti per un film (mai fatto) e ne era rimasto folgorato. Ti seduce e poi non ti lascia più andare. Africa significa avere a che fare ogni giorno con qualcosa di inaspettato, vivere alla frontiera del mondo.
Ogni essere umano è in fuga da qualcosa; c’è chi cerca sicurezza e tranquillità, chi proprio da quelle vuole allontanarsi il più possibile.

***

Sul van che da Marrakesh ci sta portando verso il Sahara siedo accanto ad Oscar, uno svizzero che ogni inverno si avventura nel continente africano per quattordici giorni e nei restanti trecentocinquantuno (ne sono sicuro) ne parla a chiunque gli capiti a tiro. Discorriamo per una buona mezz’ora e ci diamo ragione a vicenda come si fa tra sconosciuti. Poi mi fa l’elenco dei paesi africani che ha visitato (un elenco lungo, da vero tossico) e io snocciolo controvoglia i miei (una lista corta, macchiata dall’invidia). Per risparmiarmi delusioni, si offre di darmi delle dritte su dove valga e non valga la pena andare, ma poi perde il filo e finisce a lamentarsi della moglie che l’Africa nemmeno la vuol sentire nominare e gli ha fatto sprecare anni preziosi in villaggi vacanze nel Delta del Po.

“Per fortuna”, mi dice in un italiano tagliato con l’accetta, “adesso i figli sono grandi e ognuno va per conto suo. Lei con le amiche in Provenza, io dove l’essere umano deve ancora preoccuparsi di non farsi mangiare dai leoni sulla strada di casa. Un uomo che vive di come e non di perché”.

Non so a chi si riferisca perché qui di leoni non ce ne sono, ma ha l’aria seria. I suoi occhiali da sole riflettono la neve che luccica sulle vette degli Atlas. Tremano, mentre il nostro van si arrampica verso i duemiladuecento metri del passo Tizi n’Tichka, passaggio obbligato per chi da Marrakesh vuole raggiungere il deserto. L’orizzonte assomiglia ad un’Austria inaridita e sprofondata nella miseria, ridotta a vendere frammenti di quarzo e bottigliette di olio d’Argan a bordo strada. Land Rover (di un’altra epoca) cariche di turisti sorpassano gli affannati automobilisti locali senza nessun riguardo per chi viaggia sull’altra carreggiata. Bassi cespugli polverosi punteggiano un panorama dominato dal grigio delle montagne e dal blu del cielo. I tornanti, accerchiati da massi e pezzi d’asfalto sgretolato, sembrano non finire mai; si attorcigliano uno sull’altro come serpenti in una cesta e si fanno sempre più stretti. Come il mio intestino.

Ieri era l’ultimo dell’anno e Marrakesh era divisa in due schieramenti identici: da una parte noi turisti disperatamente sobri (il Marocco è un paese musulmano e l’alcol, ufficialmente, non si può vendere) e dall’altra la popolazione locale, altrettanto sobria e disperata. Per fortuna, in Marocco come ovunque le leggi esistono per essere aggirate.

Mentre l’oscurità si stringeva su Jamaa el-Fna, e le scimmie ammaestrate se ne andavano in spalla ai padroni e i serpenti tornavano nei sacchi di juta, mi sono avventurato in una strada secondaria. Le mie sneakers scivolavano sulle pietre consunte del Suq, mentre un fumo appiccicoso si alzava in cielo dalle bancarelle su cui cuocevano gli arrosticini di montone. Senza che dovessi chiedere nulla, due adolescenti mi hanno indirizzato verso un locale senza insegne dove turisti bianchi e circospetti stavano trangugiando birra. Bottiglie nascoste sotto tavoli di plastica tintinnavano colpite da piedi irrequieti, e schiene si sovrapponevano una all’altra davanti ad un frigorifero presidiato.

“If it’s a cocktail you’re looking for”, mi ha consigliato un americano buttato su un divanetto, “take a cab to l’Hivernage (il ricco quartiere internazionale di Marrakesh dove si trovano tutti i grandi hotel). If you want some hashish, stick around. The kid said he’ll be back.”

L’ho ringraziato e ho girato i tacchi.

 

In Marocco, come in tutti i paesi che gli occidentali considerano poveri, i grandi hotel svolgono lo stesso ruolo delle ambasciate. La legge che vige al loro interno non dipende da nessuna coordinata geografica e avere la pelle bianca significa libero accesso.

Supero le camionette con i mitragliatori parcheggiate sotto le palme senza esser degnato d’uno sguardo e mi trovo circondato da palazzi moderni, auto di lusso e ragazze in minigonna. Nessuno finge più che i vizi e i bisogni umani qui funzionino diversamente che altrove. Incontro un nano vestito da soldato francese in groppa ad un poveraccio nascosto sotto un costume da dromedario e, al loro fianco, un enorme Mickey Mouse che sembra essersi perso. Entro nel primo bar che trovo. Le luci sono basse e calde, le pareti vetrate, la musica soffusa, il fumo dei narghilè occupa la sala come una foschia. Al bancone, tra la nebbia, sono sedute due prostitute meticce che si scattano selfie senza sosta. Ai tavoli, i figli dei boss locali si mescolano a turisti in ciabatte già sbronzi. Una dozzina di camerieri vestiti in full black e una caposala con un fisico da top model si assicurano che i bicchieri e le bottiglie viaggino veloci e i narghilè non si spengano mai. Dopo mezz’ora, le sostanze e la confusione mi hanno già intontito. Guardo le escort pavoneggiarsi con gli altri avventori ed è come guardare Federer giocare a tennis mentre si è troppo storditi per seguire la traiettoria della pallina. Non capisci bene quello che sta succedendo, ma ne vieni comunque rapito.

***

Il primo vero stop lo facciamo al villaggio fortificato di Aït Benhaddou. Scendo dal van a ruota di So-Jung, una ragazza sudcoreana che ha tenuto la testa appoggiata sul finestrino e lo sguardo fisso sul telefono per tutto il tragitto. È avvolta in un cardigan nero che la copre fino alle ginocchia, e mi sorride da sotto un paio di occhiali da sole spessi un dito. La sua pelle ha il colore e l’odore chimico della cipria, i suoi lineamenti la rotondità e la grazia di un merletto di Burano. Ahmed, l’autista del van, che dalla partenza non ha mai smesso di fumare e parlare al telefono da un auricolare a filo, ci tiene aperta la portiera e ci indica la strada.

Attraversiamo un torrente riarso saltando da una pietra all’altra tenuti per mano da bambini del luogo e, dopo avergli lasciato la mancia, tiro fuori la macchina fotografica e cerco di immortalare l’unica cosa autentica rimasta ad Aït Benhaddou: i venditori di cianfrusaglie. Questi però si negano o mi chiedono soldi in cambio. Le donne, invece, scappano via come mi fossi messo a mangiare pagine del Corano davanti ai loro occhi. L’autista, che adesso fa anche da guida, mi chiede con gentilezza di lasciar perdere. Mi spiega che gli uomini del luogo hanno l’abitudine di setacciare il web in cerca di immagini delle mogli e, se ne trovano, le usano come pretesto per cacciarle di casa e risposarsi con donne più giovani. Non gli credo, ma desisto lo stesso. Deluso, me ne vado in un bar polveroso a bere tè alla menta, mentre lui racconta agli altri che proprio qui a Aït Benhaddou sono state girate scene de Il Gladiatore. Mi siedo al banco e il barista, un ragazzo con gli occhi neri e i baffetti da adolescente, mi serve il tè nel solito bicchierino di vetro e mi allunga un biscotto alla curcuma. Bevo e mangio. Al momento di pagare i nostri sguardi si incollano uno sull’altro. Mi fissa tenendo in mano i miei soldi come se si aspettasse almeno una protesta. A ragione, non ritiene possibile che non mi sia accorto che gli altri avventori del bar, suoi compatrioti, hanno pagato un quarto di quel che ha appena chiesto a me per lo stesso servizio, così come non ritiene possibile che essendomene accorto non voglia almeno protestare. Quello che non sa, è che essere derubati di pochi soldi è un toccasana per l’umore di qualsiasi turista occidentale, che in cambio di una cifra insignificante ha l’occasione di voltarsi verso la moglie e dirle:

“Ne hanno più bisogno loro di noi, cara. Non facciamo una scenata.”

Lo penso anch’io che una moglie non ce l’ho e, anzi, gli lascio pure la mancia. Poi torno fuori. Sono arrivati altri van stipati di turisti e la cima di Aït Benhaddou adesso ha l’aspetto di un formicaio color ocra. Venditori ambulanti poliglotti, musicisti stropicciati e occidentali tarantolati si muovono a macchie da un lato all’altro del villaggio, circondano la kasba per fotografarla, cercano riparo all’ombra delle mura in terra battuta. Due signore sovrappeso fanno capolino dalla finestra di una stalla in disuso. Un uomo avvolto in un caffettano color ocra suona la lira seduto su un sasso. La neve degli Atlas e il deserto del Sahara si guardano da lontano come vecchi amici che hanno appena litigato. Un ragazzo siciliano cerca di attirare la mia attenzione facendo la faccia annoiata.

“L’anno scorso siamo stati in Tanzania”, mi dice quando lo guardo, “è stato fantastico. Altro che questo polverone.”

Il noi si riferisce alla fidanzata, che sta scattando foto ad uno steccato. Annuisco. Sembra abbia voglia di dire qualcos’altro, ma si prende una pausa e io ne approfitto per immortalare un panorama da mandare ai parenti.

Gli italiani all’estero si dividono in due categorie: quelli che odiano incontrare altri italiani e quelli che ne sono entusiasti. Quelli che odiano incontrare altri italiani sperano che i loro viaggi siano unici ed autentici, e pensano che incontrare dei compaesani mandi tutto al diavolo e allora si comportano da stronzi. Gli entusiasti, invece, di solito non spiccicano una parola d’inglese e allora non vedono l’ora di parlare italiano con qualcuno. Sono ossessionati dal cibo di casa e dai bidet, ma almeno non fingono che tutto quello che gli viene messo sotto il naso sia incredibile perché diverso. Il siciliano è uno degli entusiasti, e appena si riprende dalla pausa mi chiede se è la mia prima volta in Africa. Se hai la pelle bianca, è la prima domanda che ti viene rivolta ogni volta che metti piede in un luogo dell’Africa che non sia Hurghada o Marsa Alam. È come se tutti dessero per scontato che se sei venuto quaggiù una volta è impossibile che torni, a meno che tu non sia un grande avventuriero come loro. Io scuoto il capo e faccio per allontanarmi, ma il siciliano non mi molla.

“Ti ho visto dare la mancia al ragazzo del bar”, mi dice. “L’hai fatto contento, puoi giurarci. Mica come in Italia che mandi mille euro ad una onlus e ti tornano indietro una mail automatica e un abbonamento ad una rivista che ti fa passare l’appetito ogni volta che la apri. Qua la gente dà valore alle buone azioni, ti sorride. Devi solo imparare a non farti prendere la mano o finisci a dare più mance che in uno strip-club di Las Vegas.”

Mi fa l’occhiolino, prima di raggiungere la fidanzata che sta contrattando con una bottegaia il prezzo di una sciarpa. Gli sorrido, e dev’essere l’aria fresca che viene dalle montagne che mi mette di buon umore visto il mal di testa che ho.

Il sole sta tramontando e il cielo dietro al minareto di Merzouga è una grande macchia rossa. Oscar e So-Jung, abiti al vento, guardano verso est dove adesso è rimasto solo il Sahara. Non riusciamo ancora a vederlo, ma la sua immensa assenza incombe come una minaccia. Anche se ridotto a una toccata e fuga di sedici ore nel nostro programma congestionato si sente il suo richiamo ogni volta che si alza lo sguardo. La sua sabbia è poggiata ovunque: copre le case, le macchine, gli alberi, gli animali e le persone.

Il tratto di strada da Aït Benhaddou, infinito e desolato, è stato una sequenza ininterrotta di città cresciute lungo la carreggiata e posti di blocco presidiati da soldati armati. Donne con fascine di legna sulla schiena e ragazzini in cerca di un passaggio ci guardavano passare senza reagire. Più il buio si avvicinava, più i loro passi si facevano concitati. Adesso che il tramonto è vicino, in giro non c’è più nessuno.

Le guide berbere che ci prendono in consegna ci caricano sui dromedari appena in tempo per colmare la distanza che ci divide dal deserto. Guardati a vista, dondoliamo per mezz’ora in groppa a quelle bestie ispide e maleodoranti, poi saliamo a piedi sulla sommità di una duna per ammirare il sole sprofondare nella sabbia. Il senso di meraviglia, solitudine e impotenza che provo di fronte a quel mare di sabbia mi stordisce. Il mio sguardo si perde mille volte, e ad ognuna ho il timore che possa non tornare indietro. Anche i berberi si godono lo spettacolo in silenzio, seduti uno accanto all’altro con le mani nascoste nella sabbia.

Avvolti in coperte intrise di mille odori ceniamo tra le tende di un accampamento, intorno ad un fuoco che avvampa in un bidone di latta che i berberi tengono vivo con olio da motore esausto. Beviamo tè alla menta e mangiamo una zuppa ai cereali, poi quando anche l’ultimo bongo dello spettacolo serale si è acquietato e molti sono già a letto, le guide radunano quelli di noi ancora svegli e ci propongono una passeggiata nel deserto. Usciamo in silenzio, come fuggiaschi, senza torce e con i telefoni spenti. Ci lasciamo alle spalle i gelidi bagni da campo con le taniche d’acqua mezze vuote e i dromedari che, pancia nella sabbia, rilasciano peti fragorosi ad intervalli regolari. Nel buio riconosco Oscar, ma lo perdo di vista appena anche l’ultima luce dell’accampamento scompare dietro una duna. All’improvviso, mi trovo avvolto dall’oscurità completa. Solo i contorni sfocati del berbero che cammina davanti a me mi guidano lungo un sentiero che non c’è mai stato. Il resto è il nero profondo di una stanza buia, senza spiragli di luce o spie accese. Sopra la mia testa, fin dove gli occhi mi permettono di vedere, brilla un alveare scintillante. Le stelle coprono il cielo dalla sua sommità fino alla sabbia, scendono così in basso da dare l’impressione di affondarci dentro. Non c’è altro rumore a parte quello del vento che fischia tra le dune. Ci teniamo vicini, mentre il freddo si insinua sotto i nostri abiti e la sabbia ci entra nelle scarpe. Parliamo a bassa voce come avessimo paura di svegliare chissà chi. Qualcuno si stende a terra, ma riesco appena a vederlo. Della luna non c’è traccia. Una guida mi tocca la spalla, poi indica un pezzo di buio qualunque.

“That is Algeria. Beautiful, right?”

Ride. Poi riabbassa la mano. Guardo l’oscurità che mi ha indicato, distante dieci come diecimila passi. La mancanza di riferimenti mi sbilancia, mi toglie l’equilibrio. Allora chiudo gli occhi e d’improvviso tutto si acquieta. La mia testa smette di girare. Per la prima volta dall’inizio del viaggio, affogato in una doppia oscurità, sento che nulla mi divide più dall’Africa: non le leggi dell’uomo, non la paura, non il senso di colpa.

La coda

0

di Giulio Spagnol

Oggi a pranzo, mia madre, appurato che quel non-so-cosa di viscido attorcigliato intorno alla caviglia era davvero la coda di un rettile, è svenuta tirandosi dietro la tovaglia e tutta la cristalleria. Mio padre, intravedendo la coda arretrare tra le gambe di Johanna e pensando a uno scherzo, si è precipitato a sollevare le gambe di sua moglie e a ricoprirmi di ingiurie.

– Lo sai che tua madre ha la fobia dei serpenti: a trent’anni ancora con ’sti scherzi!?

Johanna è scattata in piedi: un istante prima mi carezzava furtiva la gamba sotto il tavolo, ora gli occhi le traboccavano di lacrime, lo sguardo era inchiodato a terra mentre torceva le pieghe della gonna come se volesse strangolarla.

– Non vuoi entrare in azienda? – ha ruggito ancora mio padre rovesciando tutto il secchiello per lo champagne sulla faccia smorta di sua moglie – E va bene, fai il diavolo che vuoi, ma sappi che da noi non avrai più un soldo.

Io volevo rispondere, ma non me ne ha lasciato il tempo: puntava il dito contro Johanna.

– Lo sai che è colpa sua, vero? È da quando l’hai sposata che ti comporti in maniera assurda.

– E tu – rivolgendosi direttamente a lei – come ti permetti di venire in casa mia a tormentare mia moglie, tua suocera, con i tuoi scherzi idioti?

Io sono rimasto lì impalato. Morivo dalla voglia di confessare tutto a mio padre: le visite specialistiche, l’espressione crucciata dei luminari nei loro studi tappezzati di diplomi mentre esaminano Johanna, tutti che scuotono il capo e tutti – dico “tutti” – che se ne escono con lo stesso «non ho mai visto nulla di simile in tutta la mia carriera», le parcelle che si accumulano, lo stipendio che non ci basta più, sprofondare nel buio di tutte le notti insonni… come avrei voluto inginocchiarmi ai piedi di mio padre e raccontargli di tutte le nostre notti insonni, inchiodati al letto dall’angoscia, in un labirinto lastricato di cartelle mediche e bugiardini di pillole, svegliarsi dagli incubi e abbracciare Johanna, «adesso basta, dobbiamo chiedere aiuto, mio padre ha un amico che fa il chirurgo a NYU, ci aiuteranno», e lei che mi stringe a sé, «i tuoi già non mi sopportavano prima, figurati se lo scoprono; e se questa cosa non si può curare? a quel punto vedrai che faranno di tutto per separarci», e io che passo quel che resta della notte a cercare altri luminari su internet, finché la mattina non crollo sfinito. E dopo la confessione avrei aggiunto «ma non vedi che non ce la facciamo più? che padre sei che non ti accorgi di nulla? io non posso dirtelo, Johanna non me lo perdonerebbe mai, ma tu devi arrivarci da solo».

Invece mio padre mi stava ancora urlando addosso.

– Cos’è questa storia che adesso servi ai tavoli? E non negare perché ti ho visto io in persona, passando davanti alla vetrina, con il grembiule e tutto il resto; mi sarei sotterrato dalla vergogna; se hai deciso di rinunciare all’accademia, allora vieni a lavorare con me. Ti vergogni di essere il figlio del padrone? che assurdità.

Invece di confessare, ho preso a urlargli di non usare mai più quel tono con Johanna, che non ho bisogno dei suoi soldi e che presto un amico mio avrebbe pagato l’anticipo di due quadri. Intanto erano mesi che non prendevo più un pennello in mano. Da quella notte in cui avevo portato Johanna al pronto soccorso con un febbrone da cavallo e il giorno dopo le era spuntata quella maledetta coda da varano: «Intossicazione alimentare», ci aveva detto il medicuccio del pronto soccorso, sprofondato in un camice di due taglie più grande di lui. «Ha mangiato pesce crudo, di recente?». A Johanna non l’avevo detto, ma da fine mese avevo iniziato a farmi invitare a cena dai miei. Alla fine della cena mi toglievo il cappello e chiedevo soldi in prestito. In cambio sostenevo i loro sguardi sarcastici, ma non mi pesava, perché sapevo che con quei soldi avremmo pagato almeno un mese d’affitto, e l’ennesima visita dall’ennesimo specialista.

A quel punto mia madre, come resuscitata dall’acqua gelata, si è diretta barcollando verso la presunta artefice dello scherzo. Johanna, più pallida di mia madre, non osava indietreggiare troppo (aveva paura di inciampare su sé stessa). Prima, però, che riuscissi a mettermi di traverso, mia madre ha afferrato la coda che spuntava da sotto la tovaglia:

– I soldi per lo studio te li puoi anche scordare – mi ha sibilato, e ha strattonato la coda con tutte le sue forze.

Johanna, che ha una soglia del dolore molto bassa, è caduta all’indietro, cacciando un urlo bestiale e lacerandoci i timpani. A quel punto mia madre, trovandosi in mano la punta di una vera, fredda, squamosa coda di varano, è svenuta di nuovo. L’acqua, questa volta, non è bastata a rianimarla, così è finita trasportata in ospedale: due giorni in osservazione.

Io e mio padre siamo rimasti in piedi a guardarci negli occhi, sospesi, come quando da bambino mi lanciava in aria e poi mi riprendeva al volo. Tutti e due abbiamo le pupille asimmetriche – è genetico – anche se la sue adesso sono un po’ intorbidite dal tempo. Ci scherza sempre: «con quegli occhi sghembi, non potevi che fare il pittore». In realtà, da quando sono entrato in accademia, quasi non mi parla più. L’ultima volta che siamo andati al museo solo io e lui è stato per una mostra sul realismo magico a Palazzo Reale. Volevo fare degli schizzi di Cagnaccio e gli ho chiesto di accompagnarmi. Ha insistito per pagarmi il biglietto e, con il cappotto sottobraccio, mi ha seguito. Io mi aggiravo incerto tra le stanze mentre, schiarendomi la voce, a ogni quadro cercavo di spiegargli quanto meglio potessi Cagnaccio, la Neue Sachlichkeit, Oppi. Non mi giravo mai a guardarlo, ma sentivo il suo respiro asmatico sulle mie spalle e il suo odore pungente, tipico di un esemplare adulto. Sapevo che non ci capiva niente e, soprattutto, che non voleva capirci niente, però sapevo anche che mi ascoltava con estrema attenzione. Soppesavo attentamente ogni parola, sapendo che mi sarebbe potuta tornare indietro riveduta e corretta; cercavo di semplificare le mie spiegazioni, a tratti mi limitavo a snocciolare piccoli avvenimenti della biografia del pittore – date, numeri, fatti concreti – per cercare di intercettare il mondo in cui viveva mio padre, una sorta di mondo gnostico, creato da un demiurgo pigro e incapace, gettato agli uomini con il solo scopo di implementarlo.

Ho sistemato il mio sgabellino davanti a Dopo l’orgia di Cagnaccio e ho cominciato a tracciare qualche schizzo. Con gli occhi fissi sul quadro, facevo correre le mani sul foglio, affidavo a loro la comprensione di quel mondo nuovo che mi si apriva davanti: un mondo in cui le gambe nude delle donne, i loro sessi ancora fradici si facevano calzare dai simboli del potere – la bottiglia di Champagne, i guanti bianchi degli alti quadri fascisti – senza forzature, come una mera conseguenza fisiologica, immanente a ogni rapporto fra uomini, come la schiuma deve per forza di cose formarsi sulle onde nere; un mondo che mio padre non avrebbe esitato a definire osceno, davanti al quale io invece rimanevo stregato. Concentrarmi però mi riusciva difficile: mio padre, in attesa, si era a messo a girare tra i quadri e l’eco dei suoi passi pesanti rimbombava cupa per tutta la stanza. A volte si fermava dietro di me in silenzio. Sentivo il suo sguardo posarsi prima sui miei schizzi, poi sul quadro, e la sua bocca tremare e contrarsi in una smorfia impercettibile. Poi riprendeva il suo giro. Dopo non so quanto tempo, ho rialzato la testa, e con lo sguardo l’ho cercato nella stanza: lui se ne era andato. Da quella volta non siamo più usciti insieme. Non gliene faccio una colpa. Forse è il suo modo per farmi capire che mi stima, o non mi chiederebbe di entrare in azienda nelle rare occasioni in cui ancora mi rivolge la parola. Certo, mi è dispiaciuto vedere i disegni che gli regalavo da bambino sparire dal frigo uno dopo l’altro.

Adesso siamo ancora in piedi l’uno di fronte all’altro. Mio padre ha smesso di urlare, in mano ha ancora la flûte di champagne, si festeggiava la nuova acquisizione di una controllata o qualcosa del genere: passa il pollice sull’alone di sporco lasciato dalla sua bocca sul cristallo, altrimenti perfettamente limpido: prova a pulire via la macchia. Più ci prova più l’alone si espande offuscando sempre di più la superficie del cristallo, rendendo lo champagne luccicante al suo interno come una poltiglia irriconoscibile. Johanna intanto piange rannicchiata sul pavimento finché, esausta, non si addormenterà.

( n.b.: modificato su richiesta dell’autore il 9/9/23)

La traduzione del testo poetico tra XX e XXI secolo

0

a cura di Franco Buffoni

[Molto volentieri segnalo l’uscita di questo volume per le edizioni Interlinea. Dice la quarta di copertina: “I maggiori autori e studiosi della traduzione letteraria sono raccolti in un libro di riferimento a cura di Franco Buffoni, tra i massimi esperti del settore a livello europeo. Da Bonnefoy e Sanesi a Bacigalupo, Magrelli e Gardini, sono messi in luce i diversi aspetti del tradurre, nell’idea che occorra comprendere e monitorare «il concetto di costante mutamento e trasformazione che è delle lingue e della traduzione, come metafora del nostro esistere».”
Riporto qui due stralci dell’introduzione di Franco Buffoni. a.r.]

Su “Noi” di Alessandro Broggi

0

di Andrea Inglese

.

[Questo testo è apparso sul numero 65 (2/2021) della rivista “Semicerchio”]

Il primo pregio del nuovo libro di Alessandro Broggi, Noi, uscito per Tic edizioni nel 2021, è di non assomigliare a nessun libro in circolazione. È probabile attendersi qualcosa del genere da un autore che è stato a ragione etichettato “poeta di ricerca”, ossia qualcuno che si situa consapevolmente alla frontiera dei generi, là dove si tradiscono spesso le attese dei lettori e si richiedono attitudini di comprensione del testo meno consolidate. Sette anni dopo Avventure minime, il precedente e più rappresentativo libro di Broggi, Noi presenta i tratti esteriori della narrativa di viaggio. Questa iniziale riconoscibilità del testo si rivela però fallace. Uno dei capisaldi della letteratura di viaggio, infatti, è il patto referenziale che sottende il rapporto tra lo sguardo dell’autore e uno spazio geograficamente e storicamente determinato. Vedremo come questo patto, nel lungo racconto di Broggi, sia infranto fin da subito. Siamo comunque lontani dalle prose brevi e dalle quartine che hanno caratterizzato il lavoro del 2014. In Avventure minime dominava un impianto critico, che sembrava aver tratto i propri strumenti da una lettura fresca e simpatetica della Società dello spettacolo di Debord. La carica negativa e decostruttiva di quei testi era però compensata da una strategia fondata sull’ambiguità o, come ha scritto Vincenzo Ostuni (“Oggettivo indecidibile”, in Ex.it 2014), su un certo grado di “indistinzione e indecidibilità”. Lo stereotipo narrativo o espressivo, che Broggi distillava con accurata freddezza, poteva sempre lasciarsi leggere in termini referenziali e lirici. E le stesse quartine, oltre a costituire un inventario delle formule più elementari della comunicazione quotidiana già intrise di ideologia, potevano fungere da poesia didascalica. In Noi, l’urgenza di esibire-decostruire lo stereotipo lascia lo spazio a un’architettura narrativa alla ricerca di un proprio orizzonte di senso. Questa architettura, pur non rispettando i principali criteri di verosimiglianza di una narrazione realista, permette quantomeno d’identificare un tema generale, che potremmo definire – utilizzando le parole stesse dell’autore – “un viaggio ai bordi della civiltà”. In altri termini, abbiamo abbandonato il terreno dei triti fatti e modi di dire per inoltrarci in un mondo vergine, ai margini appunto della società umana. Che cosa voglia dire, per Broggi, un tale viaggio e tale configurazione di uno spazio “inesplorato”, “integro”, “incontaminato”, è quanto ci interessa qui indagare. Punto certo, è che – anche se d’intreccio e fabula non si può parlare –, dei personaggi esistono – quattro, due uomini e due donne – e pure uno scenario costantemente cangiante ma riconoscibile. Si potrebbe pensare che, proprio in virtù del titolo, a non permettere uno sviluppo narrativo sia l’impossibilità di distinguere i quattro personaggi, che vivono quasi tutto il tempo in uno stato “fusionale”. Non solo abbiamo degli individui sottratti alle particolarità sociali e biografiche, ma nel corso delle pagine neppure acquistano delle nuove caratteristiche, in virtù degli eventi nei quali sono progressivamente coinvolti. L’unico evento in grado di incidere almeno parzialmente su questo stato d’indeterminazione permanente dei protagonisti è la morte violenta di uno di loro a opera di un orso. Qui abbiamo almeno un evento irreversibile, che sembra per un certo lasso di tempo condizionare se non le azioni almeno gli stati d’animo dei tre sopravvissuti. In realtà, nel penultimo capitoletto, verrà rievocata la presenza del compagno ucciso in questi termini: “l’uomo chiamato Norberto Orci, nel cui nome come si era aperta si chiuderà questa breve rassegna di fatti, sarà seduto di fianco a noi”. Anche l’uccisione e la morte diventano processi reversibili. Non vi è quindi da raccontare né una vicenda specifica né la trasformazione che essa avrebbe suscitato nella coscienza di un personaggio. Siamo di fronte a un impianto che assomiglia più a un paesaggio allegorico, in cui i movimenti locali non contraddicono la staticità dell’insieme. Tale paesaggio si propone di raffigurare la possibilità dell’io di sciogliersi nel noi, e dell’umanità di sciogliersi nell’ambiente che la circonda, laddove tutto il lavoro della civiltà – “moderna” aggiungerebbe Bruno Latour – è quello di edificare il confine e l’opposizione tra l’individuo e la specie, e tra la specie e il suo ambiente. In Noi, sono innumerevoli le immagini di “fusione”, “osmosi”, “abbattimento dei limiti” tra la mente e il mondo. Un piccolo campionario: “Non dobbiamo resistere a nulla, non dobbiamo erigere barriere contro nulla”; “Disidentificarci da questo luogo e da questo tempo ed essere qualcun altro”; “Magari le volte che avremo visitato tutti i possibili habitat integrandoci tra le specie, e in risonanza con essi avremo tentato di dissolvere la grande illusione separatrice in cui viviamo”. A volte l’insistenza su tali immagini sembra quasi approdare a un discorso apertamente didascalico, come quando uno dei personaggi sentenzia: “Sono senza una storia da custodire, non sono più la linea del mio movimento – niente persona, niente morte, non ho più una biografia. Finalmente senza identità”. Ancora una volta, però, la qualità della scrittura di Broggi, ossia la sua persistente capacità di rendere instabili le coordinate spaziali e temporali – gli slittamenti di modo e tempo dei verbi, di persona grammaticale, ecc. – mette in crisi non tanto il tema ricorrente della fusione, ma la sua possibilità di costituirsi come principio volontaristico, nuova dottrina, elemento ideologico, da integrare tra gli armamentari “buoni” della nostra civiltà. Il viaggio allegorico di questo soggetto umano plurale, che ambisce a fondersi dentro gli ecosistemi terrestri, non può funzionare che come ipotesi figurativa. Non sarà mai garantito da un concetto, e quindi da un discorso di questo mondo storico-sociale. Se Noi è un’allegoria, lo è come anticipazione utopica, che può acquistare senso unicamente nello spazio separato, irreale, della pagina letteraria. Al resoconto delle azioni vere o verosimili dei personaggi subentra allora una successione d’ingiunzioni o di formulazioni ipotetiche, che non hanno ancora trovato tipi umani e contesti reali di radicamento. Il materiale figurativo di una tale operazione, come già nel classico Fortini (e prima di lui in Brecht), è costituito in gran parte da magnifiche descrizioni di paesaggi naturali, di universi non umani, che soli paiono promettere qualcosa d’altro rispetto a questa umanità. Possiamo allora salutare il nuovo libro di Broggi come un felice e sorprendente contributo alla letteratura utopica, in un’epoca che è fin troppo propensa a ingozzarsi di distopia.

La verità su tutto

0

di Vanni Santoni

 

Quando Dattadeva fece venire gli sbirri nella sede centrale, lì al Mulino, all’inizio credetti che stesse portando all’estremo le logiche da brigatisti del Carme e di Girolamo – scatenare una repressione per attivare una mobilitazione generale, pensa tu cosa mi toccava sentire nei rapporti che ci facevano i nostri.
Poi, quando un ulteriore rapporto da Shaktiville riferiva che Dattadeva non si faceva più vedere, che dava ordini da dietro una porta chiusa che poteva essere varcata solo dai suoi fedelissimi, mi venne il dubbio che Kumari non mi avesse dato retta. Me lo immaginai tutto ingessato, nascosto in quella stanza guardata a vista, a portare avanti la sua vendetta.
Kumari negò di aver fatto alcunché, anzi diede la colpa alla mia opposizione, dicendo che se gli avessimo dato davvero una lezione, tutto questo non sarebbe accaduto. Non seppi mai se Kumari l’aveva fatto pestare o meno; se il comportamento di Dattadeva fosse la reazione a un atto di Kumari o il frutto della mia opposizione a quell’atto.
Fatto sta che nella sua azione, o vendetta, Dattadeva trovò sponde anche in quel che restava della stampa, e non solo italiana. Quando polizia e carabinieri invasero il Mulino riuscimmo a far sparire tutto, ma una settantina di acidi e un pezzo di fumo di qualche ospite bastò a sollevare un bel casino, e quando il giorno dopo arrivò puntuale una lettera anonima di un “ex sannyasin” – che poi: non cerano ex sannyasin! Nessuno aveva lasciato l’ashram sbattendo la porta, la gente entrava e usciva e non c’erano investiture particolari! che spiegava come alla Fondazione Shakti si usassero sostanze illegali per “dare l’illusione dell’illuminazione” ci sentimmo veramente fottute.
Intendiamoci: sapevamo che lavorare con sostanze ancora illegali era rischioso, per quanto altrove il vento fosse cambiato e in tanti Paesi fossero rientrate in società dalla porta principale – anche un po’ grazie a noi, potremmo dire, se è vero che in quegli anni il nostro centro aveva iniziato almeno diecimila persone, che a loro volta ne avevano iniziate dieci volte tante –, e sentivo un retrogusto ribaldo, forse addirittura perverso, nell’assumerci un rischio del genere (avremmo potuto trasferire la sede in Portogallo o in Olanda o in Repubblica Ceca o in Colorado o in un altro Paese dove vigessero la piena depenalizzazione o almeno un minor moralismo rispetto alle libertà cognitive), un rischio che era anzitutto possibilità del tradimento.

Dopo gli sbirri arrivarono le tv, con tutta la loro beceraggine, e ci stettero addosso fino al processo. Furono mesi dolorosi, passati a rinfacciarci le responsabilità, in cui l’unica soddisfazione che ebbi fu quella di cacciare Girolamo dal Mulino a calci nel culo, letteralmente e personalmente (il Carme, più sveglio, era già sparito da solo). Molti se ne andavano da soli, come se la nostra stella si fosse improvvisamente offuscata. Fuori, non ne parliamo: parevano tutti contro di noi. Va da sé che ci preparavamo al peggio.
Arrivò invece la sentenza meno attesa: assolte in virtù della libertà di culto. E ancora non ho detto la cosa più importante. Pensa, infatti, che neanche avevo voluto prendere uno studio legale di New York a cui era stata legata la madre di Kumari, io volevo l’avvocato d’ufficio, ma sai invece chi si offrì quando la notizia arrivò sui giornali? Proprio “la tizia del mare”, l’avvocato Pia Nandretti… Che smacco, eh? O meglio, che trionfo per lei. Trionfo doppio, dato che ebbe l’acume di impugnare sentenze precedenti riguardanti la Chiesa del Santo Daime, che usava l’ayahuasca, ovvero il DMT, sostanza non meno attiva e non meno illegale, ancorché meno nota, dell’LSD, e ci fece assolvere.
Già quello era un segno, se vogliamo. Figuriamoci quando, il giorno dopo la sentenza, scoprimmo nel conto dell’associazione una donazione da quattrocento bitcoin, dodici milioni di euro, da parte di un fantomatico “Pomegranate fund”. Pomegranate fund che, scoprimmo in un sol colpo di Google, era costituito da certi anonimi “attivisti psichedelici” i quali, capimmo cercando un po’ più a fondo, altro non erano che seller della prima ora su Silk Road, venditori di acidi sul dark web divenuti ricchi sfondati grazie alle criptovalute. Potevano essere le stesse persone da cui compravamo noi stesse le sostanze per le varie sedi. Gente che aveva incassato qualche decina di migliaia di bitcoin ai tempi in cui valevano pochi euro, se li erano visti levitare sotto al naso di diecimila volte, e adesso, secondo quella propensione al proselitismo così diffusa tra chi aveva tratto benefici interiori dagli psichedelici, distribuivano donazioni spropositate alle varie organizzazioni che si battevano, ormai vincendo, per la loro rilegittimazione, legalizzazione e diffusione. Noi comprese, a quanto pareva.
Quell’evento fu la cesura tra il “prima” e il “dopo”, certo; ma se adesso avevamo i fondi per aprire non un altro paio di centri, ma decine, centinaia, il fatto che, allo sfaldarsi delle strutture sociali là fuori continuassero ad arrivare accoliti da ogni dove a riempirli, a farsene carico disinteressatamente, a diffondere il nostro verbo, quello non poteva dipendere né dalla fortuna che ci aveva baciate (ma anche quella fortuna, non era forse il frutto di precisi processi storici?), né dalle nostre capacità o dai nostri insegnamenti: ormai ci giovava – e quanto! – anche la pubblicità negativa. Evidentemente i tempi erano maturi perché una nuova sintesi spirituale si affermasse, e a incarnarla c’eravamo noi come avrebbe potuto finirci qualcun altro. Pure, c’eravamo noi. E di certo si vedeva, considerando quanto si moltiplicavano, ovunque, i nostri ritratti, non importa quanto cercassi di impedire la cosa (era vero che Kumari non la impediva, anzi): da sole o insieme, più spesso con Kumari in grande e io come iconcina a lato, ma a volte anche a parti invertite…

Così crescevamo ancora, ineluttabili. Sebbene ci arrivassero notizie sul fatto che in India un Dattadeva bandito da Shaktiville e pieno di rancore continuasse a lavorare contro di noi, animando gruppuscoli, spargendo voci, vedendosi con politici dei peggiori, l’organizzazione, con quell’iniezione di liquidità che neanche avevamo dovuto usare per il processo, cresceva ancora e ancora si strutturava, ma un paio d’anni più tardi si era già su un altro piano, e non solo perché stavamo per toccare il milione di fedeli. Un piano ulteriore, oppure molto precedente, per il contemporaneo e inverso degenerare del mondo fuori.
La folla che si era formata nel cortile centrale faceva impressione: per numero, per come ribolliva, per come alzava la polvere, ma ancor più per essere nuova: chi era tutta quella gente, perché era lì?
Quando uscii ci fu un “Oooh!” generale e si avvicinarono. Quando uscì Kumari partì un “Oooh!” anche più forte e qualcuno si buttò in ginocchio.
– Non mi piace, ti dico che non mi piace, – dissi volta verso di lei.
– Ma se sono qua tutti i giorni.
– Prima non avevano cartelloni con le nostre facce. E non erano così tanti.
– Nell’ingenuità risiede la purezza.
– Non raccontare ’ste cose a me, Kumari, ti prego… ti dico che oggi sono diversi, è come se fosse stata passata una linea…
Dalla folla si staccò un gruppo più piccolo, come uscito da un’oscura fantasia medievale: le donne scarmigliate si lamentavano, gli uomini si battevano la fronte, e al centro, in mezzo a quella angosciosa simmetria di supplicanti, c’era una donna che teneva in braccio una bambina che si sarebbe potuta dire viva solo per i piccoli spasmi che a tratti ne scuotevano il corpo pallido, con le labbra blu come quelle di un’annegata e delle occhiaie che erano le orbite di un teschio.
– La tocchi! La tocchi!
– Gridavano questo. Dicevano a me. Pietà, Shakti Devi, la tocchi!
– La tocchi, la tocchi!
– …
– Toccala, su, mi disse Kumari mettendomi la mano sulla spalla mentre quella gente invitava anche lei a toccarla. Non avere paura.

– Non ho paura, le dissi nell’orecchio. A differenza di te, non sento la seduzione di simili scene.
– Che vuoi farci. Il mondo sta andando come sta andando. Toccala, su. Dai loro quel che vogliono, Shakti Devi. Se morirà, vorrà dire che doveva andare così.
– Non ho paura che muoia, Kumari, ho paura che guarisca.

Tratto da: La verità su tutto, Milano: Mondadori, 2022

Calvino e il saggismo della mediazione

0

Su Sergio Bozzola e Chiara De Caprio, Forme e figure della saggistica di Calvino. Da ‘Una pietra sopra’ alle ‘Lezioni americane’, Salerno, Roma 2021

© Saul Steinberg

 

di Carlo Tirinanzi De Medici

Quanti Italo Calvino ci sono? Dallo «scoiattolo della penna» di Pavese al pensoso utopista «discontinuo» di Claudio Milanini, il Calvino combinatorio quasi-oulipista del Castello dei destini incrociati, fino allo scrittore scientificamente avvisato di Paolo Zublena e Massimo Bucciantini, le immagini critiche dell’autore ligure si sono moltiplicate. Forse nessuno scrittore italiano continua a polarizzare così tanto gli animi degli studiosi: da Fortini, che inaugurando una lunga tradizione lo accusava in un celebre epigramma di opportunismo e gusto per il mercato, al Calvino-uomo di paglia che Carla Benedetti contrappone a Pasolini in un famoso, intelligente saggio, Pasolini contro Calvino (tanto più illuminante per capire Pasolini quanto meno disposto a discutere i rovelli di Calvino), fino alla (vulgatissima e pertrattata) bipartizione tra un “primo” e “secondo” Calvino, l’uno che ancora indirizza la sua fantasia verso l’impegno o almeno il Reale, l’altro che, invece, la libera verso una vertigine combinatoria: di qui, sia detto per inciso, la lettura di un Calvino postmoderno lesto a un ilare nichilismo, laddove né il postmoderno è così tanto ilare, né Calvino condivide con esso più di un’«analogia di posizione» (lo rileva Mazzoni in Teoria del romanzo). Più che Calvino, Pirandello, insomma, o magari Qfwfq, il proteiforme protagonista delle Cosmicomiche e di parte di Ti con Zero.

Su un altro piano, c’è un Calvino narratore, studiatissimo, un Calvino giornalista (il Calvino delle polemiche sui grandi fatti di cronaca degli anni Settanta), meno studiato (Ferretti, Le capre di Bikini), e un Calvino saggista (affrontato tra gli altri con lucidità da Barenghi in Le linee e i margini) spesso convocato in primo luogo per indagare la poetica del Calvino narratore (con risultati anche brillanti come fa Raffaele Donnarumma in Da lontano, 2008). Quasi un Calvino “di servizio”, quest’ultimo. Perciò il volume di Sergio Bozzola e Chiara De Caprio dedicato alla produzione saggistica di Italo Calvino è tanto più benvenuto. De Caprio firma i primi tre capitoli (“Posture autoriali e modelli macrotestuali”, “Organizzazione tematica e linea argomentativa”, “Il saggista e il lettore”), Bozzola gli ultimi due (“L’espressione del soggetto e il filo del discorso”, “Le geometrie dell’informe”).

Forme e figure indicano l’approccio alle strutture complessive (le forme) e ai singoli elementi (le figure) dei testi calviniani. In questa tensione tra generale e particolare si avverte la generale natura del volume, tutto basato su coppie oppositive che si distendono, per ragioni di studio, in nuclei separati all’interno dei singoli capitoli, senza però evitare di mostrare i riflessi di un polo nell’altro, rendendo conto dell’intreccio degli elementi che compongono il saggismo di Calvino. Al fondo, il volume ripercorre – molto calvinianamente, direi – riprendendolo sotto numerosi punti di vista, il rovello dicotomico, che attraversa anche la prosa calviniana, tra ordine e disordine che gli autori declinano in diversi campi metaforici e categorie. Ad esempio De Caprio identifica in diffusione e compattezza i due poli della scrittura saggistica calviniana: il tentativo di inseguire, mostrandoli, i molti aspetti del reale e delle possibili interpretazioni; la concomitante spinta a «inseguire il concetto per delimitarlo» (p. 10) e dunque comunicarlo. Di qui la natura bipartita dei capitoli, che aggrediscono il corpus sempre affrontando ora l’uno, ora l’altro corno del dilemma, e ricostruiscono un percorso che è anzitutto storico nell’oscillazione tipica di Calvino tra uno e l’altro aspetto.

In una linea temporale, si passa da una maggior compattezza (evidente nei saggi anteriori di Una pietra sopra: il Midollo del leone mostra «una regia stilistica che fa convergere il mondo e le cose verso un punto che resta chiaro e centrale», 39). Avanzando dominano invece le figure della «diffusione» (intesa in senso fisico, come sparpagliamento di particelle: in tal senso, direi io, quasi più chimico che fisico, le molecole che appunto diffondono in un mezzo e si distribuiscono ovunque), e con ciò diminuiscono anche gli elementi ipotattici in favore di giustapposizione e paratassi. Nell’avanzare verso i saggi della Collezione di sabbia si rileva che la maggior perplessità dell’autore si riflette anche in una posposizione del momento in cui il tema del saggio viene enunciato. In assenza di certezze, di sicurezze interpretative che delimitino una volta per sempre il senso, il compito che si assume Calvino è quello, complementare, di far domande: di qui la moltiplicazione delle descrizioni e l’aumento del tasso di narratività. La Collezione predilige dunque l’aspetto destrutturante rispetto a quello strutturante di Una pietra sopra. Questa destrutturazione, però, non finisce mai per travolgere tutto: anzi, l’alternarsi di spinte centrifughe e centripete, di narrazioni e ragionamenti, costituisce il cuore delle Lezioni americane (44 ss.), e l’organizzazione stessa (macrotestuale) della Collezione prova, almeno, a redimere la cattiva infinità dei granelli di sabbia, considerandoli parti di diverse modalità di conoscenza e insistendo però sui rimandi, i richiami da una parte all’altra, che gettino ponti tra queste forme e cerchino di produrre un «caos ordinato» (54-5).

Nel secondo capitolo si descrivono le forme di compattezza e diffusione nelle raccolte seguendo lo sviluppo tematico dei saggi, e le modalità di argomentazione (59-85), per poi concentrarsi sulle impurità che costellano la saggistica calviniana: De Caprio identifica un vero e proprio «cortocircuito tra descrivere e raccontare» (93) nella Collezione, con momenti narrativi che dinamizzano la descrizione (e in ciò non si può non pensare alla struttura di Palomar, che infatti riprende nella sua tripartizione momenti descrittivi, narrativi e meditativi cioè saggistici). I tre elementi si confondono per rendere conto di un senso intessuto di variazioni, mai fisso — come si legge poco prima, crea il sospetto che ciò che si vuole dire (capire) stia solo negli interstizi tra ciò che è stato detto (e rifiutato, e revocato in dubbio): «il testo non sembra giungere a una vera e propria chiusa; piuttosto si congeda dal lettore con una serie di riflessioni che paiono estratte da un flusso più ampio di pensieri» (84).

Dall’altra parte si vede che la stessa dinamizzazione del testo avviene tramite il ricorso a figure d’interlocuzione e dialoghi che permette di tenere «insieme conflitto di idee e di voci, riflessione e partecipazione» (98). Questa ultima sezione ci proietta verso il capitolo dedicato al legame narratore-lettore. Qui si evidenzia come il passaggio dal «noi» all’«io» come istanza di enunciazione sia conforme a una maggiore incertezza — incertezza che non si risolve mai in semplice decostruzione del senso, puro ritrarsi di fronte all’inconcludenza di un reale nel quale ci si smarrisce (la resa al labirinto, per citare il nostro). De Caprio ci mostra come la domanda posta in apertura possa ripetersi, in un gioco di scatole cinesi che forse non sarebbe dispiaciuto all’autore: le posture autoriali, i Calvino saggisti, sono molteplici, ognuno dotato di una sua maschera autoriale ben precisa, che comunque resta al di qua del confine testuale, non si identifica né si confonde mai pienamente con l’autore reale. Coerentemente con la posizione di Calvino, per il quale il saggio si situa come ponte o mediatore tra la necessità di rendere intelligibile – di comprendere, di spiegare – la complessità dell’esistente e appunto render conto, mostrare, e pertanto esperire, questa stessa complessità. Una forma insomma di «linguaggio comunicabile» (p. 9), il che ci pone leggermente fuori dall’ipersoggettivismo del saggismo novecentesco: si evitano certezze, si mostra la fatica del cogitare, ma appunto lo scopo è comunicare, chiarire.

Proprio la posizione defilata dell’io saggistico punteggia il quarto capitolo, che si concentra sulla funzione delle ripetizioni: Bozzola individua ed enuclea le figure di ripetizione attraverso le quali vengono messi in luce i due elementi fondativi del saggismo contemporaneo, cioè espressione dell’individualità soggettiva che prende la parola e tentativo di tenere «in chiaro la linea del discorso» (129). Questi due poli emergono attraverso il medesimo gesto (la ripetizione), ma prendono corpo in modi diversi. Bozzola osserva che il primo elemento resta spesso sottotraccia ed emerge per lampi, il che evidenzia – di nuovo – il distacco del Calvino saggista da molti altri saggi “moderni”: l’io sembra quasi in posizione subordinata al ragionamento, sebbene come ovvio proprio questa sua marginalizzazione finisca per farlo essudare in numerosi punti, spesso distanti l’uno dall’altro, del testo e così formando una sorta di rete isotopica. La strutturazione retorica delle ripetizioni riproduce questo contrasto.

Così vediamo che emergono figure legate all’eloquenza (ispirata a un ideale quasi classico della retorica), dell’eleganza (che invece si basa su sottili variazioni dell’intonazione, che contribuiscono alla scansione ritmica e di senso del testo), e infine su puri giochi fonetici e sintattici, che servono sì come gesti capaci di rendere conto della soggettività dello scrivente, ma al contempo si mostrano sempre legati alla necessità di far procedere il ragionamento, allargandone a ventaglio le possibilità. A tenere sotto controllo l’espansione sintattica ed argomentativa intervengono le «figure del contenimento» (143 ss.) spesso con funzione «strutturante e architettonica» (146), tramite periodi riassuntivi e ordinativi di quanto si è gettato, prima, in maniera diffusa e un po’ caotica. Da questo punto di vista assume centralità il ricorso ai parallelismi e alle replicazioni di parole e strutture sintattiche, esaminato nell’ultimo paragrafo del capitolo.

Infine si affrontano analogie, metafore e similitudini: attraverso queste figure, Calvino dà corpo a quella dicotomia che giace sempre in fondo ai suoi scritti, di cui si parlava in apertura — la tensione tra ordine e disordine, tra forma e informe, che non si risolve ma mostra una posizione «problematica e plurale» (173), che testimonia l’uso (tipicamente calviniano) di scrivere e riscrivere fino al risultato che, finale nella pratica, è in realtà solo un’altra approssimazione (174-6).

Questo, sommariamente, il contenuto del libro, che come si è potuto forse intuire apporta un contributo significativo e ricco agli studi su Calvino, anche grazie all’acribia analitica che puntella il testo con numerosi esempi, i quali non possono certo essere riportati nello spazio di questo breve scritto. Inoltre gli autori, con il loro riferirsi anche alle prose narrative calviniane, dànno conto della contiguità tra i due media (benjaminianamente intesi) adoperati dal ligure, saggio e racconto. Il piano tematico di fondo, il ragionamento se non dicotomico almeno per coppie oppositive (generali e forse quasi trascendentali nei primi scritti, poi via via locali e sempre più empiriche) mostra il ritornare dell’opposizione ordine/disordine, logico/illogico ecc. che caratterizza il pensare calviniano, e ne osserva l’evoluzione, pendente sempre più verso l’accettazione che il secondo polo (nell’assiologia di Calvino sempre negativo) non possa essere eradicato. Sembrerebbe che si sia tornati a quella visione di un Calvino scettico e disilluso evocata in apertura. Ma il lavoro di Bozzola e De Caprio è importante anche per ciò che ci dice su questo apparentemente definitivo scacco e, di riflesso, relativamente all’arte del saggio in generale. Partirei da questo secondo aspetto.

Negli ultimi anni le indagini sulla forma-saggio (spesso esse stesse in forma di saggio) in generale si sono moltiplicate: da Kundera (I testamenti traditi, 1992) Berardinelli (La forma del saggio, 2002) a Cortellessa (Libri segreti, 2008), a Massimo Rizzante (Non siamo gli ultimi, 2009; L’albero del romanzo, 2007 e 2018) che ha dedicato all’argomento un ciclo del Seminario internazionale sul romanzo. Allo stesso tempo si è indagata la forma che il saggio assume quando si ibrida con strutture propriamente romanzesche (Stefano Ercolino, Il romanzo-saggio, 2014; Guido M. Gallerani, Pseudo-saggi, 2019). L’idea di saggio che accomuna queste posizioni è quella post-lukácsana, ripresa da Adorno, sviluppata da Fortini e derivata alla lontana dagli Essais di Montaigne, di una scrittura con forte componente personale e idiosincratica, che procede per salti e tagli: ma Bozzola e De Caprio ci svelano un’altra possibilità del saggio contemporaneo, che potrebbe tornare utile anche per leggere (ri-leggere) uno sparuto ma sempre interessante manipolo di autori, a partire da Sciascia e Primo Levi, passando per i saggi narrativi di Auster e, più indietro, per certe prose di Borges o Camus.

Un abbozzo soltanto di costellazione, che ricorre al saggismo per ampliare e sfumare un processo essenzialmente logico, senza però cancellarlo. Il ragionamento si complica, si arricchisce, talvolta s’incarta e tutto ciò appare sulla pagina: ma tutto ciò per rilanciare quel ragionamento. Siamo dalle parti, ancora, di quella lettura ricœuriana della «scuola del sospetto» che non si caratterizzava in primo luogo (secondo il filosofo francese) per il suo scetticismo, quanto semmai per il tentativo di illuminare in modo nuovo un problema, distruggendo sì le vecchie certezze e non riconoscendo alle nuove altrettanta solidità e tuttavia offrendo «una scienza mediata del senso, irriducibile alla coscienza immediata del senso» (Ricœur, Del senso, p. 48). Marx, Nietzsche e Freud ponevano l’accento sull’atto del decifrare, ma allo stesso modo questo saggismo è tutto un tentativo di decifrazione, che non sempre giunge (oggi) al cuore del problema, ma ne ricostruisce la complessità. La mediazione si allunga, s’ispessisce, il procedimento occupa sempre più spazio, così da render conto del processo decifratorio: atteggiamento noioso, inconcludente, rinunciatario? In tempi di predominio dell’emozione, della hot cognition, che sembra proporre un ritorno di quell’immediatezza del senso, forse tale lezione andrebbe riscoperta: un pensiero consapevole dei propri limiti (calvinianamente, la difficoltà di trovare un modello dei modelli), ma comunque inteso a sceverare il reale, mostrando anche il costo (psichico) di questa operazione. Il rovello insomma non s’iscrive sulla pagina solo per celebrare, o accettare, lo scacco gnoseologico: ma è esso stesso resistenza a quello scacco, e il saggio diventa un modo per illustrare la complessità – epperò anche la necessità – dell’atto mediatore in un mondo molteplice, irrigidito in opposizioni e antitesi. Ora dunque, oltre ad avere un Italo Cavino in più, forse abbiamo anche una idea di saggio che prima era rimasta un po’ in ombra. E di entrambe avevamo bisogno.

_

[Segnalo che il volume si presenta a Pisa domani, 16 marzo; qui sotto la locandina. ot]

 

L’aspirapolvere (frammento)

0

[Nell’ultimo pezzo scritto per Nazione Indiana (11.6.2005), che era anche un pezzo di commiato, e come tale presentava riflessioni e argomenti, a seguito dell’uscita dei fondatori Moresco, Scarpa e Benedetti, ebbene in questo suo ultimo pezzo, serio, quasi meditabondo, Sergio Nelli inseriva questo breve paragrafo finale, che riproduco per intero. Mi unisco a Giacomo Sartori per ricordarlo qui, per ricordare in particolare il modo spiazzante attraverso cui si presentava, di persona e nella scrittura, esibendo simultaneamente tenerezza e promesse di tavoli rovesciati. Andrea Inglese]

di Sergio Nelli

Sto già operando in questa direzione e dedicherò nell’immediato il tempo sottratto a questa felice (fin qui) partecipazione a uno stage per apprendere a tirare su col naso le briciole del parquet, trattenerle in gola, farle risalire all’occorrenza e poi sputarle a raffica dalle finestre. E’ un corso olistico contro la legge della minor azione che domina il mondo della tecnica; non c’è nessun invasato perché tutti sono invasati, e vi spadroneggia incontrastato il paradigma della complessità.
D’altronde, sono sicuro che non tirerò su molto.

Anno naturale

0
Tillandsia

di Luca Baldoni

 

TILLANDSIA

Esistono creature che solo d’aria e luce
riescono a nutrirsi, come questa Tillandsia
per ultima arrivata tra le altre sul balcone,
pianta senza radici o aerea o epifita,
proveniente dai fianchi rocciosi delle Ande
o sospesa in inganni di foreste pluviali;

e il miracolo nasce nei lanosi tricomi
ovvero tricopompe che coprono le foglie,
portentosi organi che i sali minerali
nell’aria galleggianti assorbono nei pori,
e in saggia commistione concorrono batteri
azotofissatori che accolti tra le fronde,
ripagano dimora con chimica cattura
di organici composti, vaporizzata linfa,

e tu così sospesa in pneumatiche spirali
da tutto sollevata, stellata e filiforme,
creatura intelligente che sfida la sua forma
fisiologia perfetta che eccede convenzione,
le leggi del tuo regno: natura che prevede

lo scarto, l’eccezione – il verso di sé stessa.

 

SEMINA DI PLUTONE

Ricercati ogni inverno in questa regressione,
macerati in te stesso sino a dissoluzione

perché esistono profondità senza rumore
dove la materia frolla in stallo cellulare,
nel tratto dell’ellissi più tardo a rivoltarsi
degrada su sé stessa per fradice reazioni,
nella curva più interna fermenta nel torpore

quando il tempo sbanda, non sembra ripartire;

ogni anno fai il punto su questo assorbimento
vivo disfacimento: semina di Plutone.

 

CICLO DI ORIONE

Signore della notte: divino cacciatore
Orione tempestato nella volta invernale,
le membra luminose risorte ad ogni morte
riscuotono lo spazio in gesta siderali

rossastra Betelgeuse la prima che risplende
distingue la figura, l’enorme spalla spinge,
Bellatrix la guerriera glaciale l’arco tende,
sopra Rigel e Saif le gambe poderose
imprimono la curva, l’ascesa avventurosa,
tre astri allineati la snella vita conta,
si innesta qui il pugnale, il sesso tuo stellare
nella grande nebulosa gonfio e risplendente

il firmamento accusa inerme la tua forza
ti seguono i due cani fedeli alla tua impresa,
Sirio canicolare basso sull’orizzonte
e il Minore festante, più alto nella fuga
per primo sfida il vuoto, le spalle ti protegge,

e ti risucchi dietro quest’empito di cielo
un vuoto nel tuo moto rivolto sempre avanti

mentre in opposizione senza tregua ti attende
Aldebaran gigante rossa fiammeggiante
l’occhio del fiero Toro che contro ti si avventa
a contrastare te che vinci, che ancora sempre
come ogni altra notte di alte gesta splendi:

lo blocchi, lo batti, sotto terra lo respingi.

 

BIANCO

Ho anche una finestra che dà dall’altra parte
e supera le cime degli alberi del viale:

e oltre vedo l’ampio arco degli Appennini,
e in fondo, a Ovest, dorso a dorso, le ripide
faglie delle Apuane – e proprio l’altro ieri
di notte ha nevicato, e al mattino le vette
di luce acuminate si ergevano nel sole

fissando l’infinito mi svuoto di piacere,
mi penso lassù in cima a contemplare il bianco

un monaco scintilla su rupi himalaiane.

 

CAVALCATA NOTTURNA NEL CIELO D’ESTATE

L’Orsa la conoscerai: col caldo si solleva
fiera sull’orizzonte, splende tutta la notte
sigillo di stagione nel cielo dell’estate,

dalle Puntatrici puoi schizzare a settentrione
cinque salti e saprai la gemma di Polaris
da cui discende l’asta del Carro più leggero,
s’insinua tra le due flessuosa e sibilante
la coda segmentata del Draco primordiale

e nella regione confinante, a levante
rorida Cassiopea in forma di farfalla,
Perseo che si appressa con urla di conquista,
e su in diagonale Andromeda s’allunga,
scomposta nel terrore santifica l’eroe
le braccia in alto getta verso il cavallo scosso
Pegaso neroalato che accorre in suo soccorso

verso il colmo dell’arca considera scattante
del Cigno la saetta che fende il firmamento,
mira alle quattro stelle, l’Aquila che rosseggia,
e collegate a Vega tracciano quell’immenso
triangolo d’estate, diadema interstellare
che da sempre per mare accompagna i marinai
e in curva verso Ponente sopra l’orizzonte
risorgerà Arturo, la stella più pulsante
di Boote, il bovaro che pensieroso spinge
il punto di partenza, il Carro risplendente,
chiamato in antico anche Elice, elica

perché è circumpolare e rivolge su sé stessa.

 

Poesie tratte da: Luca Baldoni, Anno naturale (Passigli, 2021)