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The clutch – canestri e razzismo sotto pressione (4/4)

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di Riccardo Valsecchi – @inoutwards

[parte 4 di 4 – leggi la parte 1parte 2parte 3]

8. LA TERRA PROMESSA

What happens to a dream deferred?

Does it dry up

like a raisin in the sun?

Or fester like a sore—

And then run?

Does it stink like rotten meat?

Or crust and sugar over—

like a syrupy sweet?

Maybe it just sags

like a heavy load.

Or does it explode?

(Che cosa succede ad un sogno differito?

Si prosciuga

Come uvetta al sole?

Oppure marcisce come un’infezione—

E poi si espande?

Puzza come carne marcia?

O fa la crosta e lo zucchero sopra––

come un dolce sciropposo?

Forse semplicemente sprofonda

come un un carico pesante.

Oppure esplode?)

“Harlem” di Langston Hughes – da “Montage of a Dream Deferred”, 1951

Nell’estate del 1988 il decano degli allenatori italiani, Valerio Bianchini, detto “il profeta”, immagina, in un editoriale pubblicato su Repubblica, di poter ingaggiare Isiah Thomas per la propria squadra, la Scavolini Pesaro: “Anche noi vorremmo poter dire: lottiamo con i Pistons per strappare Isiah Thomas alla NBA, portarlo in Italia e trasmettere in diretta la firma del suo mega-contratto per la Scavolini, ma questo è semplicemente impossibile.”

Chissà. Forse, se glielo avessero chiesto…

Un anno dopo la sconfitta al Garden e le polemiche per le dichiarazioni di Isiah nel post-partita, i Pistons sono infatti reduci dall’ennesima delusione: nonostante siano riusciti, finalmente, ad eliminare i Celtics di Bird, hanno appena perso la prima finale NBA della storia di Detroit contro i Lakers dell’amico del cuore Magic. Il quale, per una gomitata di troppo, non parlerà più ad Isiah per i successivi trent’anni. Qualcosina di peggio. Quando l’Olimpo della NBA acconsentirà a confrontarsi con i mortali del pianeta terra alle successive Olimpiadi di Barcellona del 1992, Magic, in combutta con Bird e Michael Jordan, porrà un veto sulla presenza di Isiah. Rancori e gelosie che ancora oggi animano le discussioni sui siti di gossip sportivo, dato che Thomas, vincendo finalmente l’anello NBA nelle stagioni 1988-89 e 1989-1990, e perdendo solo in semifinale l’anno successivo contro i Bulls di Michael Jordan, – aka Mr. Air, MJ, o Black Jesus per gli adepti di questa religione chiamata basket -, confermerà di essere ancora, in quel 1992 olimpico, a tutti gli effetti, il più forte playmaker in circolazione.

Respiro. Wow. Trent’anni sono passati da quell’articolo, eppure ero sicuro di non averlo sognato. Certo, quella di Bianchini era una provocazione, ma spiegatela ad un ragazzino di dodici anni! Ricordo le emozioni, i sogni. Non sarebbe stato il primo talento NBA ad arrivare in Italia: Bob McAdoo, che aveva vinto l’anello con i Lakers nel 1982 e nel 1985, giocava nella mia squadra del cuore, l’Olimpia Milano. Neppure si trattava del primo afro-americano ribelle. Nel lontano 1968, sempre a Milano, aveva giocato Jim Tillman, anche se fu mandato via dall’allenatore Cesare Rubini perché “troppo nero”; poi, nel 1974, era arrivato a Varese Charlie “Sax” Yelverton, che dalla NBA era stato cacciato per essersi rifiutato, in segno di protesta, di alzarsi in piedi durante l’inno americano. La squadra varesina, grazie in gran parte a questo esuberante ribelle con la passione del sax, aveva poi dominato la pallacanestro europea per il decennio successivo, con un incontestabile record di dieci finali di Coppa Campioni consecutive. Ma Isiah era di un’altra categoria. E per un’intera estate sognavo di trovarmelo di fronte al campetto comunale: “Ehy kid, do you want to shoot some loops? Hey ragazzino, vuoi fare qualche tiro?”

I bambini sognano, ed in quei sogni c’è innocenza, emozione… ed un pizzico di apprensione nell’affrontare il mondo in cui vivono. Mi sveglio, felice, sudato, contento. Di fronte a me c’è il poster di Magic, sulla sedia la maglietta dei Bad Boys. Il sogno prende la forma di un’ipotetica fantasia. Parlo da solo: “Isiah Thomas viene a giocare in Italia, lo incontro per caso, e diventa mio amico. Come lo racconto ai compagni di scuola?” Non è tanto una questione di credibilità che mi spaventa. Piuttosto, quale potrebbe essere la loro reazione? L’immagine si precipita al Pianella, nel palazzetto dello sport di Cantù dove il mio allenatore di allora- il quale, per fare l’americano, intercalava un “ok” ogni tre parole – mi portava a vedere le partite della fortissima squadra locale, che militava nella prima serie. Ricordo la bolgia, il luccichio del parquet, lo stridio delle scarpe sul legno, ed i versi del pubblico quando un giovane giocatore nero, Dan Gay, prendeva palla, e, DUNK, schiacciava in faccia all’avversario: “Uh uh uh, uah,” il verso della scimmia, e giù tutti a ridere. Io non rido. Ritorno nella mia stanza, ed Isiah non c’è più.

Quando Dan Gay arriva in Italia, nel lontano 1985, a Rieti, non gli pare vero. L’antica cittadella nell’entroterra laziale non è certo Roma, Milano o Firenze; qui non si respira l’aria frizzante dei grandi centri della moda e dell’arte italiana. Eppure la gente, questi bianchi un po’ scuri che parlano un dialetto ostico, ma non sembrano così ostili come gli italo-americani del ghetto da cui è stato abituato a tenersi alla larga, lo accolgono calorosamente, con un’ospitalità inaspettata. Dan è cresciuto a Tallahassee, contea di Leon: immense piantagioni di cotone che stanno ancora lì a raccontare il passato recente di un territorio con la più alta concentrazione di schiavi di tutta la Florida ed una storia di linciaggi e segregazione che si trascina fino ai giorni nostri. La pellicola scorre indietro nel tempo, siamo nella seconda metà degli anni sessanta. Dan è un bambino e sua madre lavora in un ristorante per bianchi. Un giorno, di ritorno da scuola, scappa dall’autovettura del padre e s’infila nel locale dalla porta principale. Gelo, silenzio. Gli sguardi dei presenti che lo fulminano all’istante: “Che cosa ci fa quel piccolo n- in sala?” tuona una voce dai tavoli. Poi una mano lo afferra e lo porta via. È quella di suo padre, pastore evangelista, che Dan osserva, con ammirazione, ogni domenica, dal pulpito, mentre predica uguaglianza e giustizia per tutti, al di là del colore della pelle. Ma come si può credere alla giustizia ed uguaglianza se il mondo intorno ti costringe a vedere te stesso diversamente?

Intanto Dan cresce, centimetro dopo centimetro, alla stessa velocità del nastro che si riavvolge fino agli anni Ottanta. I due metri e sei d’altezza gli valgono una borsa di studio per giocare con i Ragin’ Cajuns della Southwestern Louisiana University (oggi University of Louisiana at Lafayette). Nella NCAA, il campionato nazionale di basket universitario, si scontra contro future leggende quali Hakeem Olajuwon, Clyde “the Glide” (l’aliante) Drexler, Karl “the Mailman” (il postino) Malone, Patrick Ewing, Joe Dumars, ma quando nell’estate del 1983 viene selezionato dai Washington Wizards per giocare nella NBA, Dan declina: tecnicamente non è ancora pronto e l’offerta economica non è molto allettante. Che cosa fare? Rimanere negli Stati Uniti dove, nella migliore delle ipotesi, lo aspetta una carriera come controfigura di qualche più scarso giocatore bianco, oppure tentare la carta Europa, dove il livello tecnico è sicuramente inferiore, ma proprio per questo potrebbe ritagliarsi qualche possibilità e, per lo meno, essere considerato per quello che vale? Sceglie il vecchio continente e, dopo un anno di apprendistato in Olanda, approda in Italia, nella seconda serie di quello che è, a quei tempi, considerato il campionato più competitivo fuori dagli Stati Uniti.

Il telefono squilla per qualche secondo prima che una voce, corposa e vivace, risponda. “Hello, Industrial Frigo USA.”

“Hi, il mio nome è… parlo con il signor …”

Dan, che oggi ha 59 anni e lavora come rappresentante di un’azienda bresciana di prodotti per la refrigerazione, divide il suo tempo tra la Florida e l’Italia, ma è ormai più italiano che americano. In Italia ha giocato nella massima serie fino al 2007, stabilendo il record di longevità nella pallacanestro europea. Anche se la nostra conversazione si svolge telefonicamente per via del lockdown pandemico, non faccio fatica ad immaginarmelo ancora in gran forma. Un colosso, d’altezza e d’intelligenza: arrivato in Italia come outsider, con lavoro e dedizione è diventato un protagonista assoluto del nostro campionato. Parla con emozione dei suoi primi anni europei. Al suo approdo in Olanda, osserva coppie di diversa etnia passeggiare mano per la mano e non può credere ai suoi occhi. In Italia, a Rieti, viene accolto come una star. La gente lo abbraccia, lo ferma per strada e trascina nei ristoranti e nei bar per offrirgli dolci, specialità nostrane, un bicchiere di vino… Un’esperienza scioccante per uno cresciuto dall’altra parte dell’oceano dove, all’ingresso dei ristoranti, durante la sua infanzia, si trovavano ancora i cartelli “no n-“. Gli chiedo se abbia mai subito episodi di razzismo in Italia: “A parte i cori dei tifosi avversari e qualche commento sulla mia vita privata da parte della stampa, esplicitamente no. Ma è anche vero che da atleta, in uno sport globalmente dominato da giocatori afro-americani, mi trovavo in una condizione privilegiata. Non potevo comunque fare a meno di notare i commenti degli italiani nei confronti degli immigrati, che in quegli anni cominciavano ad arrivare numerosi dal Nord-Africa. Specialmente quando giocavo per Cantù e Treviso. Oggi la situazione è perfino peggiorata.” Domando se gli fosse mai capitato di sentirsi vittima di stereotipi razzisti da parte di giornalisti sportivi italiani: “Purtroppo questo succedeva spesso.” Ci pensa un poco: “Mi faceva strano che ancora sui giornali italiani si usasse la parola n-. Ma, come con gli insulti dei tifosi, ho imparato a non farmi condizionare da un manipolo di ignoranti.” Lo stuzzico su quale sia stato l’avversario più difficile. Si commuove: “You know, quando sono arrivato a Rieti, ho giocato con Joe Bryant…” Indisciplinata ma inarrestabile ala dal canestro facile, Bryant arriva in Italia nel 1985 dopo una decennale carriera nella NBA. “C’era sempre questo marmocchio con lui, suo figlio…” Sospira: “…Kobe… Magro, striminzito, faceva fatica a far arrivare la palla all’altezza del cesto. Eppure ogni giorno, immancabilmente, finiti gli allenamenti, saltava in campo e mi si attaccava al braccio fino a costringermi ad andarlo a sfidare uno contro uno. Un’ossessione…”

Quel marmocchio ne farà di strada. La sua tenacia e competitività che già dimostrava a sei anni lo porteranno a stare lassù, nel firmamento dei più grandi maestri della palla a spicchi: cinque titoli NBA, un premio come miglior giocatore nella stagione 2008, due come miglior giocatore delle finali, quarto marcatore di sempre nella storia NBA, due titoli olimpici. Kobe “Black Mamba” Bryant è deceduto con la figlia in un incidente in elicottero nel gennaio del corrente 2020. In un messaggio inviato ai fan il 16 aprile 2016 per annunciare il proprio addio alla pallacanestro giocata, aveva così ricordato quelle antiche sfide tra le mura della città sabina: “Ora lo posso dire. Dan Gay è stato l’unico giocatore al mondo ad avermi sempre schiacciato in testa.”

Dan ride: “Anch’io lo racconto in giro. Nessuno mi crede, fino a quando non spiego che Kobe aveva solo sei anni.”

Nel 2015 l’Absolutely Free Editore ha pubblicato, a firma Andrea Barocci, una biografia che ripercorre l’esperienza italiana di un giovanissimo Kobe Bryant. Lo scarico incuriosito. Ne traduco ad alta voce alcuni passaggi ad un’amica, Amy, voglio sapere che cosa ne pensa: “Quella coppia [Joe e Pamela Bryant], lui un CALIFFO del basket, lei una AFRODITE NERA, aveva qualcosa di affascinante agli occhi dei reatini. (…) Lei, la DEA, era alta, con lineamenti del volto regali e un fisico statuario; per qualche misteriosa ragione, neppure il vento che soffiava dal mare riusciva a scompigliarle i capelli morbidi e vaporosi. Un’APPARIZIONE CELESTIALE che, appunto come il vento, aveva lo stesso effetto sui reggini: LI FACEVA USCIRE DI SENNO.”

Ancora: “Quelli che passavano con le macchine abbassavano il finestrino e GRIDAVANO I PIÙ VARIEGATI COMPLIMENTI a Pamela. Quando lei intuiva che qualcuno le stava rivolgendo un apprezzamento VOLGARE, abbandonava per un istante la classe che la contraddistingueva, si girava senza mai fermarsi e tranquillamente rispondeva: “Fuck you”. Poi riprendeva il suo allenamento.” So già come va a finire, ma continuo: “[Pamela] si sedeva nel parterre, dietro a uno dei canestri. Prima delle gare il copione non cambiava mai, ed ERA SPASSOSISSIMO: i tifosi, qualsiasi fosse il loro posto assegnato, passavano davanti a Pam con fare indifferente, poi all’unisono giravano la testa per ammirarla; infine, SODDISFATTI, proseguivano.”

Tutt’altro che “spassosissimo” per me, Amy comincia ad innervosirsi: “Joe era un MOSTRO inarrestabile per chiunque(…). Gli appassionati di pallacanestro sapevano che PAGANDO IL BIGLIETTO per una partita con lui in campo, non si sarebbero pentiti. Stravedevano per quel GIGANTE D’EBANO che metteva allegria solo a guardarlo.”

“Ebony?” mi interrompe Amy.

“Sì, si usa per descrivere una persona d’origine africana senza offenderla…”

“Senza offenderla? Asshole! Quando la smetterete di trattarci come pezzi d’arredamento da esibire nei vostri dannati freak show?” rimarca lei scuotendo la testa. Le faccio notare che anche negli Stati Uniti esiste una rivista afro-americana intitolata, per l’appunto, “Ebony”.

“Certo,” incalza inviperita. “La differenza è che quando noi usiamo questa parola, lo facciamo per non dimenticare ciò che i miei antenati hanno dovuto subire prima di permettere ad una persona come me di parlare alla pari con una persona come te. Quando la usi tu, mi ricorda quello che i tuoi antenati hanno fatto alle donne e gli uomini come me in nome della vostra dannata supremazia.” Scuote rassegnata il capo: “What’s wrong with you, Italians? Che cosa c’è di sbagliato in voi italiani?”

La storia della pallacanestro italiana inizia in sordina. L’insegnante di ginnastica senese Ida Nomi Venerosi Pesciolini, senza averne mai visto una partita dal vivo, ne traduce il regolamento e lo presenta al Concorso Ginnico di Venezia del 1907 come “palla al cerchio, un gioco particolarmente adatto alle signorine».” Una nuova traduzione viene presentata qualche anno dopo dal professore Guido Graziani, il quale per lo meno, conosce il gioco per averlo imparato dall’inventore stesso, James Naismith, con cui ha lavorato allo Springfield College. Bisogna comunque aspettare 10 anni per la prima partita ufficiale. È una caldissima e solare giornata di giugno e, poco fuori dal centro di Milano, nella sontuosa ed imperiale Arena Civica, trentamila persone aspettano l’arrivo trionfante dell’eroico ciclista Girardengo, che, in questa stagione 1919, ha dominato dalla prima all’ultima tappa il più popolare degli eventi sportivi italiani, il Giro d’Italia. In un angolo del complesso sportivo, su un prato misto a sassi, goffi individui si cimentano nell’arduo tentativo di infilare la palla in un rudimentale cesto appeso ad un palo storto. Un righino di poche parole in calce al Corriere della Sera suggella l’inaugurazione formale della pallacanestro italiana: “Aviatori Malpensa-Automobilisti Monza 8-8. Partita interessante e giocata con slancio!”

Tuttavia, nonostante la fortuita presenza di tanto numeroso pubblico alla prima milanese, malgrado gli sforzi del professor Graziani e qualche insperato successo contro la selezione transalpina – a cui si aggiungono batoste umilianti contro Stati Uniti e Lettonia -, la popolarità del basket fatica a decollare. Ci vuole un’inaspettata svolta: per puro caso, questa palla a spicchi, più ovale che tonda, con una rilegatura laterale che ne rende il palleggio imprevedibile, attrae l’attenzione di un ragazzino di nome Bruno, di cognome Mussolini. Si tratta del figlio prediletto del Duce, ed i risultati di questo provvidenziale incontro non si fanno attendere: 43492 sono gli iscritti alla Federazione Italiana Pallacanestro nel 1935; i Gruppi Universitari Fascisti (GUF), l’Opera Nazionale Balilla (OPN), ogni associazione atletica che desideri sopravvivere nella morsa del totalitarismo di regime si dota di una squadra di basket; al giovanissimo figlio del duce, che gioca nella società Parioli di Roma insieme al fratello Vittorio e alla futura stella del cinema Vittorio Gassman, viene dedicata la Coppa Italia — dal 1936, per l’appunto Coppa “Bruno Mussolini”. È così che la “palla al cerchio”, già ribattezzata “palla al cesto”, finalmente pallacanestro, si trasforma da “gioco per signorine” a “sport ideale per migliorare validamente e durevolmente la razza,” come lo definisce la rivista Lo Sport Fascista.

“Il giuoco della pallacanestro,” riporta il Corriere della Sera del 28 novembre 1933 in un articolo intitolato “Il fascismo per l’avvenire della razza”, “è al tempo stesso uno sport armonioso e atletico, che conferisce snellezza e vigore, che dona al corpo grazie e gagliardia, e che ha anche notevole pregi spettacolari col vantaggio di una estrema facilità d’installazione.”

Ancora, da “Il Littoriale del 12 febbraio 1935: “Crediamo opportuno rilevare come la pallacanestro sia ormai diventato lo sport prediletto della gioventù fascista in virtù del suo alto valore fisiologico e delle sue doti intrinseche che, perfezionando mirabilmente le qualità che il giocatore naturalmente possiede, sviluppano soprattutto la prontezza, il coraggio e l’intuizione.

PRONTEZZA, CORAGGIO ed INTUIZIONE che sono, e debbono essere, le doti principali delle giovani Camicie Nere.

L’esercizio di questo giuoco sviluppa anche le facoltà mentali e rende abituali il senso della disciplina e del dovere, costringendo il giocatore a sacrificare il proprio successo per quello di tutta la squadra.

DISCIPLINA, CORAGGIO e SACRIFICIO, ecco i canoni fondamentali della dottrina fascista. Chi dunque meglio della gioventù fascista può apprezzare la bellezza ed il valore di questo sport fisiologicamente completo?”

Firmato, “il cestista”.

Ovviamente, in questi anni, per “il cestista,” la pallacanestro è uno sport per bianchi: qualcuno potrebbe insinuare che sarebbe stato difficile immaginare altrimenti, dato che, anche negli Stati Uniti, dove il gioco è nato, agli afro-americani non è consentito giocare nelle squadre ufficiali, nella nazionale, neppure partecipare alla American Basketball League, precorritrice della NBA. Non che il gioco non sia praticato nelle comunità black. Tutt’altro: la pallacanestro, nonostante il bando dalle competizioni dei bianchi, è, appunto per quella “facilità d’installazione” descritta nell’articolo del Corriere della Sera, il gioco più comune tra i giovani afro-americani, i quali già dal 1907 sono organizzati in squadre denominate “five” dal numero dei giocatori e competono in N- League sparse un po’ ovunque sulla East Coast. È difficile, inoltre, immaginare che nessuno si accorga che ad Harlem, New York, un quartiere diviso all’altezza di Lenox Avenue tra comunità afro-americana ad ovest ed immigrati italiani di prima generazione ad est – 110 mila nel censo del 1930, tre volte più numerosi che nella tanto decantata Little Italy in Lower Manhattan -, gioca una squadra di soli afro-americani, i Renaissance Five, i quali, oltre a vincere ogni competizione a cui è concesso loro partecipare, stanno rivoluzionando il gioco con una tattica basata su una fitta rete di passaggi “dai e vai”, una precisa disposizione sul campo, un ritmo forsennato, ed uno spirito di squadra unico. Tutt’al più che al Renaissance Casinò, la balera-palestra dove giocano, si esibisce quotidianamente l’orchestra di Fletcher Henderson, la quale annovera un giovane trombettista di nome Louis Armstrong, popolarissimo fin dai primi anni Trenta in Italia – il jazz è un’altra delle passioni americane e non particolarmente bianche dei figli del duce -, anche se, per compiacere il nazionalismo fascista, nella sua prima tournée italiana del 1935 viene ribattezzato Luigi Fortebraccio. Il dominio dei Rens è straordinario, come testimonia l’ineguagliato record di 2318 vittorie e 381 sconfitte in 26 anni di esistenza. La loro fama d’innovatori è tale che alle partite, tra i fans in delirio, s’infiltrano gli allenatori delle squadre professioniste con la speranza di carpirne i segreti. E, seppure il bando per i giocatori afro-americani sia esteso anche ai fantastici Rens, le squadre della ABL, un po’ con la speranza di riaffermare la propria supremazia, un po’ per l’incredibile folla pagante che accompagna le loro esibizioni, fanno a gara per sfidarli.

“Avevamo una regola, quella del dieci,” ricorda William “Pop” Gates, il playmaker. Mantenere un vantaggio di dieci punti, consapevoli che, alla fine della partita, questi punti sarebbero scomparsi misteriosamente dal referto arbitrale. Non che cambiasse molto: “Nel momento in cui un’irresistibile forza incontra un oggetto irremovibile, qualcosa è destinato ad accadere,” scrive il cronista sportivo del quotidiano afro-americano New York Amsterdam il 2 dicembre 1931 in occasione della vittoria dei Rens contro gli Original Celtics, pluricampioni della lega professionistica. E quando, nell’estate del 1939, le federazioni ufficiali accettano la partecipazione delle due migliori squadre afro-americane – i Rens e gli Harlem Globetrotters, originari di Chicago – al primo World Championship of Professional Basketball, indovinate chi stravince il torneo con uno scarto medio di 10 punti a partita? Ma non sono solo i Rens a determinare la superiorità dei quintetti neri: gli Harlem arrivano terzi, ma solamente perché, per ovviare ad una finale completamente afroamericana, gli organizzatori avevano fatto in modo che incontrassero i Rens in semifinale.

Mi dispero a trovare, tra gli archivi storici dei quotidiani sportivi italiani, un articolo, una citazione, una misera allusione ai Rens o a qualsiasi altra squadra o giocatore afro-americano precedente al secondo conflitto mondiale. Nulla. Eppure, con un po’ di sorpresa, scopro che il quartiere di Harlem non è propriamente sconosciuto ai cronisti italiani. Tutt’altro: “Uscendo da Central Park e incamminandosi lungo la Lenox Avenue, dopo un breve tratto si è già ad Harlem, la città nera,” dal Corriere della Sera del 16 marzo 1931. “Forse vi sono altrove in Africa e negli Stati Uniti città abitate da n- più vaste e popolate, ma nessuna ha il carattere, l’attività, la potenza e il significato di Harlem.”

Il mio viaggio nella “cronaca americana” sulla stampa italiana dell’epoca è un’epica rilettura al contrario della storia del secolo scorso come mi è stata impropriamente insegnata a scuola. Là dove mi avevano indottrinato che la capitale culturale mondiale degli anni Venti era la Parigi di Picasso, Hemingway, Scott Fitzgerald, scopro che, tutt’al più, la capitale francese era una “sorta di copia ed incolla” di quello che succedeva ad Harlem: dalle balere e dai circoli tra Lenox Avenue e la settima, i lavori di Langston Hughes, Claude McKay – tradotto in Italia molto prima di Hemingway e Fitzgerald -, Palmer Hayden, James Weldon Johnson, Zora Neale Huston e Countee Cullen erano giunti nei bistrot parigini insieme alle musiche di Sidney Bechet, Arthur Briggs, Louis ”Braccioforte” Armstrong, Duke Ellington, e da lì, poi, avevano conquistato Berlino, Londra, Roma, perfino Mosca. Approdata alle Folies Bergère, Parigi, direttamente dal Plantation Club sulla 126ma, Harlem, Josephine Baker e la sua “Danse Sauvage” avevano scatenano, tra folle di fans impazziti, gerarchi nazisti e fascisti prolifici di doni, e bigotti che la accusano di stregoneria, il caos per mezza Europa. “I N- ad Harlem hanno sconvolto il ritmo artistico del nostro tempo,” scrive Curio Mortari su La Stampa dell’11 dicembre 1932: “Hanno dato un suono ed un nome all’ondata felicemente primordiale sgorgata dalla guerra.”

L’Italia e gli italiani, ovviamente, non sono vergini di razzismo: lo hanno praticato in epoca pre-coloniale, poi regolamentato ed innalzato a sistema con la progressiva conquista della Libia e del Corno d’Africa. Ma se questo tipo di oppressione trova la sua attuazione perlopiù lontana dal suolo patrio, in luoghi sconosciuti ed esotici dai connotati semi-romanzeschi, Harlem, mecca di artisti intelligenti che invadono con i loro suoni e libri le nostre case e sale da ballo, di pugili in grado di mandare knock-out l’eroe nazionale Primo Carnera, e di riottosi attivisti che bloccano i quartieri e l’ambasciata italiana a New York per protestare contro l’occupazione dell’Etiopia, si trasforma nell’eponimo di un pericoloso risveglio di coscienza che travalica i confini statunitensi: “Noi vediamo il pericolo nero avanzare attraverso l’oceano Atlantico,” scrive Umberto Fracchia in un articolo del Corriere della Sera del 19 agosto 1928 dal titolo provocante, “Magia Nera”: “… e (vediamo) il deserto africano ai ritmi sincopati del “jazz”, rivestito delle sgargianti penne delle danzatrici di “camel-walk” e preceduto da un nugolo di eroi equivoci e malfamati di cui il popolo negro già imborghesito di Nuova York e dintorni deve sentire un sacro orrore ed una giusta onta. Ma tutte le vergogne viene il momento in cui si possono lavare, magari col sangue. E intanto molti incominciano a credere che una questione negra esista realmente allo stato d’incubo, non soltanto per gli Americani o per i n-, ma per tutto il mondo civilizzato. Per costoro c’é sulla faccia della terra una massa bituminosa che fermenta, un nero lievito umano che gonfia. E Josephine Baker, Siki, Clarence Donald, e mille altre figure reali o immaginarie che la cronaca trasferisce ai romanzi e che i romanzi restituiscono alla cronaca, sarebbero come le bolle di aria che scoppiano alla superficie dei calderoni d’asfalto o, se più vi piace, i fiori splendenti o miserabili che sbocciano su quella nera gleba.”

Ma come ostacolare questa “nera gleba” che tanto nella cultura quanto nello sport, sembra destabilizzare la supremazia bianca? “Senza arrivare alle esagerazioni alle quali americani ed inglesi arrivano,” scrive Carlo Volpi nel 1929 sullo Sport Fascista, “senza cioè considerare i n- uomini inferiori e spregevoli, è però interessante vedere il perché la loro razza possa dare (allo sport) tanti uomini di così eccelsa classe. Da che cosa dipende quella supremazia che in parecchi casi hanno luminosamente provata? Io credo che consista soprattutto in alcune caratteristiche fisiche, tutte proprie della razza nera, pur non negando una certa rapidità di riflessi che non può chiamarsi intelligenza — poiché anche in alcune specie animali è spiccatissima (…). Per il resto il n- dimostra di essere tutt’altro che intelligente. Tutt’al più egli è furbo, trucchista e traditore, poiché non conosce che cosa sia la lealtà. L’unico modo di farsi rispettare da un n-, è quello di picchiarlo, di dimostrargli con la forza la sua inferiorità; allora diventa pusillanime…”

Gli anni del conflitto mondiale sono un vuoto nella storia della pallacanestro italica. Bruno Mussolini muore in un incidente aereo nel 1941 e, con lui, l’interesse del regime. È solo nell’estate del 1944 che, con la liberazione di Roma e l’insediamento di truppe alleate nella Città Eterna, l’attenzione dei quotidiani sportivi viene catturata da un gruppo di straordinari giocatori neri che vincono tutte le partite. Si fanno chiamare New Mexicans ed appartengono alla 92ma Divisione della Quinta Armata, l’unico corpo militare interamente afroamericano sul suolo europeo. Nel 1947, due anni dopo la fine della guerra, in un Paese alla ricerca di una nuova identità che possa in qualche modo cancellare vent’anni di totalitarismo fascista, Aldo Mairano, coraggioso ed ambizioso imprenditore alla presidenza della Federazione della Pallacanestro Italiana, decide di compiere un atto storico: nomina allenatore della nazionale di pallacanestro italiana Eliot Van Zandt, giovane soldato di fanteria della 92ma e professore di ginnastica laureato alla Black Historical Tuskegee University dell’Alabama. Diciannove anni prima di Bill Russell nella NBA, quarantuno anni prima di John Thompson, che guida la nazionale Statunitense alle Olimpiadi di Seoul del 1988, l’Italia ha il primo allenatore professionista afro-americano della storia.

L’impatto di Van Zandt sulla pallacanestro italiana è immenso: non solo ci insegnerà le innovazioni che avevano fatto la fortuna dei Rens, ma, attraverso il suo caparbio lavoro, forgerà gli allenatori che guideranno le squadre italiane a dominare in Europa nei decenni successivi. Non sapremo mai se la sua nomina da parte di Mairano fosse stata dettata da coraggio antirazzista o provocazione: l’imprenditore genovese, infatti, finisce alla direzione della pallacanestro solo dopo aver perso per una manciata di voti le elezioni alla presidenza del prestigioso Comitato Olimpico. La nomina di Van Zandt, poi, aggettivato “n- e color cioccolato” nelle cronache dell’epoca, non sembra godere di particolare popolarità tra i giornalisti ed i giocatori della vecchia leva; quattro anni dopo, nonostante un ottimo quinto posto agli europei del 1951, viene licenziato. Diventato preparatore atletico dell’A.C. Milan nel 1956, Van Zandt muore nel 1959 in volo verso gli Stati Uniti per un’operazione ai reni.

Dan è ancora al telefono. È una fucina di racconti e aneddoti. Nel 1988 si sposa con una ragazza pugliese e due anni dopo acquisisce la cittadinanza italiana. Finalmente può realizzare il suo sogno, vestire la maglia azzurra e partecipare ai mondiali ed alle olimpiadi: non è impossibile, di atleti oriundi l’Italia del calcio ne ha avuti a bizzeffe. Anche il basket aveva avuto il suo “straniero” con passaporto italiano: Mike D’Antoni, che aveva vestito la casacca azzurra nel 1989. L’unico inconveniente, nessuno di questi oriundi, per lo meno per quel che riguarda i giochi di squadra, era mai stato nero. Ad eccezione di Van Zandt, che però non era stato un giocatore.

“Il problema,” spiegano dalla Federazione, “non è razziale, ma semplicemente burocratico: per poter giocare nella nazionale italiana deve essere iscritto al campionato come italiano e non come straniero.” Dan ci prova una prima volta nel 1991, la domanda viene rigettata. Nel 1992 idem. Anno 1993, esordisce in nazionale Carlton Meyers, di padre caraibico e madre italiana, quindi Dan spera finalmente che… niente da fare. Il presidente della Federazione Italiana, Gianni Petrucci, adduce un ritardo della domanda da parte del giocatore. Sarà per l’anno successivo? Macché, questa volta la scusa è che Dan, acquisendo il diritto alla nazionale, permetterebbe alla propria squadra, la Fortitudo Bologna, di rinforzarsi ulteriormente con un altro straniero. Ai giornalisti che lo incalzano, Dan risponde con passione: “Non crediate che sia facile decidere di cambiare cittadinanza: io l’ho fatto con entusiasmo perché sono in Italia ormai da 12 anni, pago fior di tasse e ho messo su famiglia. (…) Ma io ci credo. È questo che non hanno capito.”

A 35 anni, dopo sei anni di trafile burocratiche, Dan esordisce finalmente in nazionale nel 1996: l’anno successivo contribuirà alla conquista di una storica medaglia d’argento agli Europei di Barcellona. Chissà se avesse potuto fare parte della selezione nazionale qualche anno prima.

EPILOGO

Una lunga giornata autunnale. Passeggio per Causeway street. Un po’ per la pandemia, un po’ per la ricorrenza del Giorno del Ringraziamento, Boston è vuota. Risuona vuota, con un soffio gelido che sale dall’Oceano. Il Garden, che sorgeva in fondo a questa strada, è stato rimpiazzato da un centro commerciale. Osservo l’edificio da fuori provo ad immaginare i suoni, le voci, i rumori di quel 29 maggio 1987. Mi sembra di sentire la palla che rimbalza mentre Isiah si prepara a tirare i liberi.

Oggi, Isiah Thomas e Larry Bird non sono più avversari. Anzi, per una stagione, nel 2003, hanno perfino lavorato fianco a fianco agli Indiana Pacers: Isiah come allenatore, Larry come dirigente. Entrambi sono personaggi culto nello stardom televisivo NBA: appaiono in telecronache, documentari, talk show, interviste… Raramente insieme. Quando capita, Larry scherza sul fatto che la persona più delusa dalla sconfitta dei Pistons in quella finale di conference fosse sua madre, gran tifosa di Isiah. Anche Magic si è riconciliato con Isiah, in un confronto televisivo sul canale ESPN con tanto di pianto in stile “reality show”.

Il TD Garden, dove giocano attualmente i Celtics, si trova proprio dietro il centro commerciale. È chiuso. La stagione sportiva non è ancora iniziata, chissà quando si potrà tornare a vedere una partita dal vivo. Procedo per West End, dopo Whole Food scorgo il Museo di Storia Afro-Americana. Anche questo è chiuso.

Gli Stati Uniti – o l’America, nell’accezione che spesso si usa in italiano, come se ne esistesse una sola – non sono molto cambiati dagli anni Ottanta. George Floyd è stato ucciso il 25 maggio di quest’anno, soffocato per otto minuti e 46 secondo dal ginocchio di un poliziotto bianco. A Kenosha, Wisconsin, il 23 agosto, un poliziotto ha sparato per ben sette volte nella schiena di Jacob Blake mentre questi tentava di entrare nella propria autovettura. I suoi tre figli, di otto, cinque e tre anni, seduti nei sedili posteriori, hanno assistito all’esecuzione. Secondo dati raccolti dal Washington Post, 1020 sono le persone uccise quest’anno dalla polizia americana: gli afroamericani muoiono nelle mani delle forze dell’ordine ad una percentuale due volte e mezzo maggiore di ogni altro gruppo etnico.

Proseguo. A pochi isolati si trova il Tempio N. 11, fondato da Malcolm X. Quanto suonano profetiche oggi le sue parole, non è vero? Qui dietro si erge la Massachusetts State House, ne scorgo la cupola: cerco la placca commemorativa del famoso discorso tenuto da Martin Luther King nel 1965. Alla morte del reverendo, Indro Montanelli scrisse: “Non aveva la stoffa del grande capo carismatico, trascinatore di folle. Gliene mancavano anche i requisiti fisici, che specie agli occhi di una popolazione ancora PRIMITIVA e INFANTILE come quella di colore hanno la loro importanza.”

Non si tratta solo di beceri residui della cultura fascista, piuttosto della stessa retorica che oggi viene usata contro gli immigrati o gli italiani di prima e seconda generazione. Mi torna in mente un particolare. Durante le ricerche per questa storia, qualcuno mi ha parlato di Van Zandt come l’esempio di come gli italiani, in fondo, non fossero mai stati razzisti… detto da un bianco ad un bianco, mi risuona nelle orecchie come un’ammissione di colpa.

La brezza oceanica si trasforma in un fastidioso senso di vergogna. Per fortuna tutt’intorno i negozi espongono cartelli in supporto di Black Lives Matter. So che molti sono solo di facciata. Ma è una facciata importante, che echeggia e da forza a tante vittime invisibili. Quanti siamo i bianchi disposti a scendere in piazza per protestare contro il razzismo? Tanti, per lo meno qui, negli Stati Uniti. Rivedo le manifestazioni che quest’estate, da Minneapolis e Kenosha si sono estese a tutto il continente, e poi in tutto il mondo. Non trovo la placca commemorativa, ma scopro un monumento che racconta una storia che non conoscevo. È dedicato a Crispus Attackus, il primo martire della Rivoluzione Americana. Non un aristocratico, non un bianco, bensì uno schiavo di origine afro-americana ed indiana. Sono ormai arrivato a Boston Common, il sole splende sopra gli aceri rossi che ossigenano il parco. Mi siedo su una panchina. Immagino Bill Russell e KC Jones arrivare, li vedo da lontano, alti, giovani, eleganti come usavano gli atleti e gli intellettuali di una volta. Apro un libro che ho comprato in un negozio dell’usato. Una gemma, è una prima edizione, originale del 1955. Leggo.

“È giunto il momento di rendersi conto che il dramma interrazziale messo in scena nel continente americano non ha solo creato un nuovo uomo nero, ma anche un nuovo uomo bianco. Nessuna strada riporterà mai più indietro gli americani alla semplicità del piccolo villaggio europeo dove gli uomini bianchi si permettono ancora il lusso di considerarmi un estraneo. In realtà non sono più un estraneo per nessun americano vivo. Ciò che distingue gli americani dagli altri popoli è che nessun altra popolazione è mai stata così profondamente coinvolta nella vita degli uomini neri, e viceversa. Di fronte a questo fatto, con tutte le sue implicazioni, si può vedere che la storia del problema dei neri americani non è solo macchiata dalla vergogna, ma è anche una sorta di conquista. Perché, anche quando il peggio è stato detto, bisogna anche aggiungere che la sfida infinita posta da questo problema è stata sempre, in qualche modo, perennemente accolta. È proprio questa esperienza nero-bianco che può rivelarsi di valore indispensabile nel mondo che affrontiamo oggi. Questo mondo non è più bianco, e non sarà mai più bianco di nuovo.”

James Baldwin, Notes of a Native Son (1955)

Si ringraziano per i contributi la Black Five Foundation, Rhinold Lamar Ponder, Dan Gay III, Saverio Luigi Battente, Mario Arceri e Valerio Bianchini.

[parte 4 di 4Leggi tutte le 4 parti:

The clutch – canestri e razzismo sotto pressione (1/4)

The clutch – canestri e razzismo sotto pressione (2/4)

The clutch – canestri e razzismo sotto pressione (3/4)

The clutch – canestri e razzismo sotto pressione (4/4)

immagine via Wikimedia Commons

Corrosioni

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di Arben Dedja 

 

Lo stuzzicadenti

 

Ah sì lo stuzzicadenti

me lo ricordo

eravamo in quel tal ristorante

i telegiornali tuonavano

i giornali con titoli in prima pagina

sul piano quinquennale

Photosynthesis

1

di Federica Adriani

Le Parche

Passato  Presente   Futuro
porcellana filata per
conchiglie

**

In posa di cosa morta

Anche i morti sentono freddo
e allora mi copro e mi copro
e mi ricopro

i morti non parlano
mangiano foglie colore d’ebano

In posa di cosa morta riesco a sognare
senza neanche chiudere gli occhi
Le mie membra tutte libere godono

Esorcizzo la mia estinzione
in assenza di me
altrove

**

Κoχλίας o della chiòcciola

perfettamente dotata
accogliente quanto basta
per uscire a incontrare il mondo
e accoglierlo dentro
Abitare è un esercizio di confidenza con sé stessi
occorre tenere sempre a mente
che anche gli alberi migrano

Appropriazione indebita

0

(La mia microcasa editrice del cuore ha appena pubblicato un librino densodenso che merita d’essere letto. A detta dell’autore quanto scritto e detto da Ray Bradbury non ha nulla a che vedere con coloro che si definiscono “fascisti del terzo millennio”.

E poi aggiunge: “Secondo me è menzognero citare Ray Bradbury fra gli ottantotto numi tutelari di un’organizzazione i cui membri si sono autodefiniti “fascisti del terzo millennio”. Secondo me il fascismo lo fa chiunque parli male e faccia parlare male; e, parlando male e facendo parlare male, pensi male e faccia pensare male.”

L’editore ci regala un breve estratto del libro che qui volentieri pubblico, ringraziandolo. G.B.)

di Marco Sommariva

In un’intervista del 1964, A portrait of genius: Ray Bradbury, Bradbury racconta che “Durante il regime del terrore di McCarthy ho scritto un romanzo intitolato Fahrenheit 451, un attacco diretto contro il tipo di forza distruttiva del pensiero che rappresentava nel mondo. Eppure pochissime persone mi hanno accusato di aver ideato un romanzo contro McCarthy. Sono riuscito a far propaganda senza essere lapidato o preso a pugni. Più avanti, in Russia hanno diffuso una versione pirata del libro, che pare abbia riscosso un certo successo. Naturalmente, trattandosi di fantascienza, nessuno ha capito che mi riferivo a tutti i tipi di tirannie presenti nel mondo, di destra, sinistra o centro. Perciò sono stato una forza sovversiva […] tanto nell’URSS quanto, contemporaneamente, qui”.

Nell’intervista realizzata da Arnold R. Kunert nel 1972, Ray Bradbury: on Hitchcock and other magic of the screen, lo scrittore americano trova che “François Truffaut abbia fatto un buon lavoro con Fahrenheit” che è un “film bellissimo. Incalzante” e che “la cosa magnifica è che, ogni volta che brucia un libro, Montag ci intrappola nei nostri pregiudizi. Ciascuno ha sicuramente un libro che, se arso, lo porterebbe a dire: «Va bene. Brucialo pure». Ma poi, ripensandoci, esclamerebbe: «Un momento! Fermati!»”. All’intervistatore che gli fa notare che la scena in cui Truffaut mostra dei titoli specifici divorati dalle fiamme, aveva scatenato reazioni piuttosto forti da parte dei suoi studenti perché, anche se è soltanto funzionale al film, molti di loro si sono sentiti offesi dal fatto che quei libri siano stati bruciati davvero, lo scrittore risponde: “Ci credo! Ma era esattamente questo l’effetto che Truffaut sperava di ottenere! E quel che è peggio è che, nella nostra società, esistono individui i quali brucerebbero molto volentieri i libri, se ne avessero la possibilità”.

Dieci anni dopo, nell’intervista Shooting haiku in a barrel, facendo riferimento a Fahrenheit 451, alla domanda “Potresti farci un altro film?” Bradbury risponde “Non credo sia necessario: amo il film di Truffaut […]”.

Nell’intervista realizzata da Rob Couteau nel 1990 a Parigi, The romance of places, Bradbury fa notare che il suo libro Fahrenheit 451 parla “dei totalitarismi di tutto il mondo: siano essi di destra o di sinistra, ovunque si trovino, sono tutti dei bruciatori di libri. È per questo che Fahrenheit continuerà a essere letto in tutto il mondo. Perché esistono ancora regimi totalitari. E incendiari di libri. Verrà letto finché queste realtà, fossero anche solamente delle minacce, continueranno a esistere”.

Nell’intervista realizzata da Ken Kelley nel 1996, Playboy interview: Ray Bradbury, lo scrittore americano dichiara “sconfortante” il fatto d’aver previsto in Fahrenheit 451 l’avvento del politicamente corretto con quarantatré anni di anticipo e ricorda questo passaggio del suo romanzo: “A un certo punto, il capo dei pompieri descrive come le minoranze, una per una, tappino le bocche e le menti della gente, rievocando dei precedenti – bruciateli entrambi o, almeno, non menzionateli mai; ai neri non piaceva che il negro Jim stesse sulla zattera con Huck – bruciatelo, quantomeno nascondetelo; le femministe odiavano Jane Austen e la consideravano incredibilmente sconveniente, in un’epoca tremendamente all’antica – tagliatele la testa; i gruppi conservatori, difensori del valore della famiglia, detestavano Oscar Wilde – tornatene nell’armadio, Oscar; i comunisti odiavano la borghesia – fucilatela! E potrei andare avanti… Se allora scrivevo della tirannia della maggioranza, oggi parlerei di tirannia delle minoranze. Oggigiorno, in realtà, bisogna stare attenti a entrambe. Ambedue cercano, infatti, di controllarci. La prima, facendoci ripetere la stessa cosa all’infinito. Il secondo tipo di tirannia, invece, è ben descritto dalle lettere che ho ricevuto dalle ragazze di Vassar, le quali mi chiedevano d’inserire più femminismo nelle Cronache marziane, o da quei neri che volevano più personaggi di colore in Dandelion wine. […] Avrei voluto dire a entrambe le categorie: «Che siate maggioranza o minoranza, piantatela!». Che tutti quelli che vogliono dirmi cosa devo scrivere vadano al diavolo! La loro società si frammenta in sottosezioni di minoranze che, in effetti, bruciano i libri, proibendone la lettura”.

Nell’intervista realizzata da Sam Weller nel 2010, apparsa su The Paris Review, alla domanda se la fantascienza è un genere che offre allo scrittore un modo più facile per esplorare un concetto, Bradbury risponde: “Prenda Fahrenheit 451. Parla di libri che bruciano, un argomento molto serio. Per non correre il rischio di cadere nel paternalismo, ambienti la tua storia in un futuro non troppo lontano, inventi un pompiere che brucia libri invece di spegnere incendi – che è già una grande idea – e lo lanci all’avventurosa scoperta del fatto che forse i libri non devono essere arsi. Legge il suo primo libro. Se ne innamora. Lo immetti sulla strada che gli cambierà la vita. È una storia di grande suspense, che racchiude la verità che si vuole raccontare senza bisogno di fare prediche”.

Dato che Bradbury ha chiaramente espresso che il suo libro Fahrenheit 451 parla dei totalitarismi di tutto il mondo, vediamo se quello vissuto in Italia può essere ricondotto al suo romanzo.

Dal saggio La villeggiatura di Mussolini: “In Fahrenheit 451 i ribelli al divieto di possedere e leggere libri trasmettono gli uni agli altri i testi imparati a memoria, passeggiando in un bosco. I confinati comunisti a Ponza e nelle altre isole ogni dieci giorni si dividevano in gruppetti di tre o quattro e si mettevano a camminare su e giù per il corso principale: «Anche il più stupido dei poliziotti», ha scritto Pietro Secchia, «capiva che era il giorno del rapporto politico». La trasmissione del rapporto durava alcuni giorni e quindi la scena, per certi versi simile a quella del bel film di François Truffaut, si ripeteva con una certa regolarità. E proprio come in Fahrenheit 451 quel momento della comunicazione tra esseri umani perseguitati ma decisi a resistere, assumeva significati che coinvolgevano valori fondamentali e proiettavano un raggio di luce verso il futuro”.

Letto quanto sopra, parrebbe che il totalitarismo vissuto in Italia sia riconducibile alla distopia immaginata in Fahrenheit 451.

In Fahrenheit 451 Bradbury cita, fra gli altri, il Mahatma Gandhi, Jonathan Swift, ed Henry David Thoreau; li comprende tutti e tre fra gli autori di opere meritevoli d’essere ricordate, trasmesse ai posteri. Accennerò a questi tre autori nei prossimi capitoli.

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(il libro è ordinabile da ogni piattaforma dell’Impero oppure anche direttamente da qui)

Il realismo performativo de “La Fiaba di Natale”. Il sorprendente viaggio dell’Uomo dell’aria di Simona Baldelli (Sellerio, 2020)

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di Enrica Maria Ferrara

 

Un uomo in là con gli anni, che a suo tempo è stato un famoso funambolo, si prepara ad affrontare un’ultima traversata. Mette a punto con precisione scientifica il suo piano che prevede un meticoloso studio delle condizioni atmosferiche, dell’equipaggiamento meccanico e delle leggi fisiche che ne permetteranno la realizzazione. Nelle settimane precedenti al Natale, il piccolo uomo magrissimo, con le giunture arrugginite, la prostata ingrossata e un sogno negli occhi, si solleverà su un cavo teso tra l’ultimo piano della vecchia biblioteca e il campanile della chiesa abbandonata a 175 metri di distanza. Partirà all’alba, un corpo sospeso in equilibrio precario sul sottile palcoscenico a cielo aperto, impugnando il suo bilanciere come uno scettro, pregustando la sorpresa del pubblico che di lì a poco si assembrerà sotto il filo ad osservarne le prodezze.

“Appoggiò la punta del piede e la fece scivolare in avanti con delicatezza, finché tutta la pianta aderì perfettamente al cavo. Molleggiò impercettibilmente sulle ginocchia; un dolore sordo si fece vivo nella zona del crociato. Spostò il peso del corpo sulla gamba destra. Con il piede sinistro disegnò un piccolissimo arco nell’aria. Lo riportò sul cavo, lo rattrappì e distese, lentamente, per trovare la presa più salda. Un grande bruco che avanza su un ramo.” (p. 11)

Non è chiara la ragione per cui l’uomo ha deciso di esibirsi in un gesto così estremo, donando ai concittadini uno spettacolo imprevisto che genererà un misto di sorpresa, sgomento, eccitazione, paura. Uno dopo l’altro, si avvicendano accanto e sotto al cavo vari personaggi che provano a interrogare il funambolo per dissuaderlo dall’impresa e smascherarne i motivi reconditi. Sfilano un pompiere, un poliziotto, la figlia dell’uomo scomparsa da tempo, la bibliotecaria, uno scienziato. A un certo punto compare anche una troupe televisiva che organizza una diretta per approfittare del fatto che presto l’acrobata si trasformerà in un “trend-topic”, in un hashtag dei social, facendo schizzare in alto la curva dei “rilevatori di audience”. Mentre l’Uomo dell’aria avanza con passo di lumaca, la domanda a cui tutti cercano di trovare risposta è: perché lo fa? Sarà un terrorista, il capo di un’organizzazione criminale o addirittura un medium che comunica con abitanti di altri mondi attraverso un tunnel spazio-temporale? E man mano che la storia va avanti abbiamo la netta sensazione che quell’interrogarsi sia l’obbiettivo cui la narrazione tende.
Da che ho finito di leggerlo, continuo a girarci intorno. In qualche modo l’Uomo dell’aria mi attende, mi fa cenno di seguirlo. Non riesco a liberarmi dell’immagine che Simona Baldelli ha messo in calce al libro, quella dell’Uomo dell’aria che “le si presentò un pomeriggio di ottobre, qualche anno fa” (p. 179). Nel corso di un’intervista alla radio, ho sentito la scrittrice confessare che un giorno, mentre stava lavorando ad un progetto di scrittura del quale non riusciva a venire a capo, il funambolo le si sedette accanto per parlarle di quell’ultima passeggiata di 175 metri, nella quale avrebbe voluto che lei lo accompagnasse raccontandola.
La concretezza di quell’immagine non dovrebbe stupirmi perché ad essa corrisponde la solidità del personaggio narrato, tutto nervi, prodezza fisica ed energia mentale, un uomo che investe nella sua impresa passione, immaginazione e conoscenza puntuale delle leggi che governano la gravità, il volo, lo stare sospesi. Vengono subito in mente i personaggi pirandelliani che fanno visita al suo autore, lo tormentano mentre lui sta scrivendo un’altra pièce, si calano di prepotenza nella sua creazione.
E della coincidenza non dobbiamo stupirci perché Baldelli è innanzitutto persona di teatro, la sua arte si è formata nello studio della voce, del gesto, della performance, è stata attrice e drammaturga prima di passare alla scrittura narrativa. Il suo funambolo è figura della tradizione “comica” e circense che da un lato si ricollega al teatro dell’avanspettacolo di Petrolini, Totò e Macario, dall’altro alla maschera melanconica e clownesca dei vagabondi chapliniani che popolano i film di Fellini, primo fra tutti La Strada (1954).
Ed è proprio al funambolo de La strada di Fellini, il Matto (interpretato da Richard Basehart) che compare per la prima volta nel film su un cavo altissimo teso fra il tetto della chiesa di Bagnoregio e l’attico del palazzo Barboux, che la mia mente è corsa quando ho sentito parlare dell’Uomo dell’aria di Simona Baldelli. Il Matto di Fellini avanza con la sua asta fra le mani, acclamato dal pubblico sottostante — prima fra tutti l’eterea Gelsomina/Giulietta Masina—che ne accompagna la traversata con schiamazzi e terrorizzati silenzi. A un certo punto l’acrobata si siede sul filo a mangiare un piatto di spaghetti, finge di capovolgersi e si rimette in piedi. La scena è commentata da una presentatrice che impugna un grosso microfono, progenitrice della giornalista che si accampa sul set della Fiaba di Natale per intervistare il pubblico, rovistare nel passato dell’Uomo dell’aria, rubarne l’anima e poi darla in pasto al mostro mediatico da cui siamo tutti assediati.
L’innocenza del Matto, la sua irriverenza e il principio di necessità che domina la sua natura—per cui, ad esempio, non può fare a meno di scagliarsi contro il bruto Zampanò—sono caratteristiche rintracciabili anche nell’Uomo dell’aria il quale non sa spiegare la vera ragione del suo bisogno di camminare sul filo. Nonostante i piani meticolosi da lui orditi, non sa fornire una motivazione che vada oltre l’elementare impulso ad assecondare la propria natura. Il funambolo, quello felliniano e quello baldelliano, ci esorta innanzitutto ad essere noi stessi, anche se questo significa spingersi al limite dell’immaginabile, sfidare le leggi della fisica, disegnare un tracciato mai concepito fino a quel momento, e farlo sotto gli occhi di tutti. L’utopia di un idealista, verrebbe da pensare, che ci propina la materia dei sogni e delle fiabe. Senza dubbio. Ed è questo il punto. O uno dei punti.
“Le fiabe sono vere”, diceva Italo Calvino nella memorabile introduzione alle Fiabe italiane. “Sono il catalogo dei destini che possono darsi a un uomo e a una donna, soprattutto per la parte di vita che è appunto il farsi di un destino […] dalla nascita […] alle prove per diventare adulto e poi maturo, per confermarsi come essere umano” (I. Calvino, “Introduzione”, in Fiabe italiane raccolte dalla tradizione popolare durante gli ultimi cento anni e trascritte in lingua italiana dai vari dialetti, Torino, Einaudi, 1956, Vol. I, p. xviii).
Se c’è un insegnamento calviniano di cui Simona Baldelli, finalista al Premio Calvino 2013 (e poi vincitrice del Premio John Fante) con il romanzo magico-realista Evelina e le fate (Giunti), sembra aver fatto tesoro, è proprio questo. La casistica ripetitiva e tipizzante delle fiabe—con i re, le regine, gli eroi, i mostri da sconfiggere, le donzelle in pericolo, i ricchi e i mendicanti—adempie al suo ruolo di rassicurante catalogo che si può rimescolare per creare una storia imprevista, un nuovo tassello nella giostra universale dello storytelling. Questa scheggia colorata e inattesa è appunto l’Uomo dell’aria, un “essere”—prendo ancora in prestito le parole di Calvino—“determinato da forze complesse e sconosciute”, dominato dal dovere elementare di “autodeterminarsi” e “liberare gli altri”, consapevole che è impossibile liberarsi da soli ma che bisogna “liberarsi liberando” (Ivi, p. xviii).
La prova cui si sottopone l’eroe della Fiaba di Natale, e sul cui significato si interrogano gli astanti, potrebbe essere dettata da un capriccio senile, un disperato bisogno di esibirsi, o anche solo dall’urgenza di sentirsi vivi esercitando il corpo, strappandosi alla vita sedentaria—sentimento che alla generazione passata per le restrizioni della libertà di movimento imposte nel 2020 sarà estremamente familiare. Potrebbe anche essere la risposta automatica al richiamo della propria natura, intesa non come insieme di qualità essenziali ma come tensione alla realizzazione di un’identità centrata sul principio di autodeterminazione—e in tal senso, oltre al funambolo felliniano, l’Uomo dell’Aria ci riporta alla mente il suo illustre antenato sospeso, il barone rampante Cosimo Piovasco di Rondò, che per nessuna ragione apparente saltò sugli alberi del bosco di Ombrosa all’età di 12 anni e lì rimase fino alla fine dei suoi giorni.
Ma c’è di più nell’universo baldelliano.
All’illuministico e razionalissimo sforzo del giovane barone arboricolo che pare essere sorretto sulla cima degli alberi da un mero impulso volontaristico—metafora, come si sa, di un’aspirazione ad un modo diverso di essere intellettuale che consente di far parte per se stesso pur mantenendosi coerente con le proprie ideologie e la propria formazione—Simona Baldelli contrappone un omino apparentemente gracile, semi-pensionato, la cui impresa è resa possibile da un misto di resilienza, allenamento del corpo, consapevolezza (oggi diremmo mindfulness) e studio approfondito di coordinate, equazioni fisico-matematiche, carrucole e ventature.
La performatività del gesto del funambolo, l’aver camminato tante volte su quel filo in passato e il conoscere le regole di uno spettacolo apprezzato dal pubblico, ne garantirà il successo. Uscendo fuor di metafora, l’artista incarnato dall’Uomo dell’aria conosce a fondo i ferri del mestiere, le leggi anche non scritte della disciplina di cui si occupa, i rischi che le opinioni dello spettatore e i tentativi di manipolazione da parte dei media comportano, e sa che il suo ruolo è quello di perseguire ostinatamente il compito che si è prefisso tenendo gli occhi puntati sul traguardo: 175 metri, non uno di più non uno di meno. L’arte è pozione alchemica fatta di numero, studio ed estro.
Ma anche questo non è sufficiente. Non bastano il talento, l’abilità, il calcolo matematico dei passi da compiere, il computo dell’attrito, della resistenza, degli ostacoli naturali e sociali che bisognerà affrontare. C’è un elemento in più che Simona Baldelli ci propone nei panni di un’apparizione magica, parente delle fate che popolano il suo primo romanzo, della nuvola d’oro che accompagna la protagonista doppia Caterina-Antonio de La vita a rovescio (Giunti, 2016) e della piccola ombra che precede l’altra protagonista doppia, Clelia-Amalia, de Il vicolo dell’immaginario (Sellerio, 2019). È uno spiritello che compare sul filo un giorno che il funambolo si sta esibendo in uno dei suoi numeri più arditi, un simulacro formato dall’addensarsi granuloso di puntini luminosi e colorati: “L’Uomo a colori gli venne incontro danzando, poi fece un balzo, aprì le gambe e cadde in una spaccata perfetta.” (p. 42)
Stupito dalla nuova presenza e consapevole che l’Uomo a colori è visibile solo a lui, l’acrobata ne osserva i movimenti e comprende che la figura magica lo esorta ad imitarne i gesti: “L’altro sollevò il cappello blu e fece un inchino, poi con la mano disegnò un movimento rotatorio all’indietro, imitando la piroetta eseguita poc’anzi.” (p. 43). Così, replicando mosse che solo lui può vedere, l’Uomo dell’aria riesce per la prima volta a fare la capriola sul filo, senza la rete di protezione, davanti al pubblico sbalordito ed esultante.
Abbiamo la netta sensazione che Baldelli ci stia indicando l’esistenza di un mondo di possibili che esiste parallelamente al nostro e che viene in essere grazie alla nostra capacità di vederlo come se già esistesse, perché esso, di fatto, già esiste in realtà. Si tratta di un universo altro da quello che riusciamo a percepire con i nostri cinque sensi e seguendo il principio causa-effetto della logica aristotelica e della fisica newtoniana. È piuttosto il mondo dell’infinitamente piccolo, governato dai principi di indeterminazione e probabilità della meccanica quantistica, dove gli elettroni possono comportarsi di volta in volta come particelle ed onde a seconda dell’interazione con l’osservatore e con la strumentazione adoperata per osservarli. Non starò qui ad addentrarmi nei minuti dettagli della questione, ricostruita mirabilmente da Carlo Rovelli nel suo Helgoland (Adelphi, 2020). Quello che importa è che la presenza del folletto di luce—e di tutte le entità cosiddette magiche nei romanzi di Simona Baldelli—può essere interpretata come elemento visionario e fantastico (nella prospettiva newtoniana) o come elemento realistico (nell’ottica quantistica), nei termini di un realismo che è stato definito “performativo” o “agenziale” (Karen Barad, Meeting the Universe Halfway: Quantum Physics and the Entanglement of Matter and Meaning, Duke University Press, 2007). Se optiamo per la seconda ipotesi, allora accettiamo che la realtà già esista in diversi possibili stati (il gatto vivo e morto di Schrödinger) e che l’Uomo a colori non sia altri che l’Uomo dell’aria, la forma di se stesso con la quale il funambolo aspira a ricongiungersi: ci riesce, appunto, compiendo il tragitto di 175 metri.
Se dunque uno degli ingredienti fondamentali dell’identità performativa, dell’artista o semplicemente dell’homo faber, rivelataci dal funambolo di Simona Baldelli consiste nel visualizzare se stessi in una forma che già esiste e che dobbiamo semplicemente attualizzare fra le tante forme possibili, ciò non vuol dire che possiamo metterci passivamente in posizione di attesa. Dovremo infatti approntare la scena, affilare i ferri del mestiere, allenare la mente e il corpo, e perseguire un obbiettivo misurabile che agli altri potrebbe apparire velleitario ma che per chi lo sceglie è in fin dei conti la strada della libertà.
Liberando se stesso nella performance alata della sua autodeterminazione quantistica, l’uomo della Fiaba di Natale diventa l’eroe di una fiaba tutta contemporanea che apre il cammino ad una nuova dimensione fisica ed etica.

Da Parigi a Damasco, alla ricerca della Siria promessa

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di Giuseppe Acconcia

Il romanzo epistolare di Hala Kodmani La Siria promessa (traduzione di Elisabetta Bartuli, Francesco Brioschi Editore, 2020, pp.232, 18 euro) racconta le speranze di tre generazioni di una famiglia della borghesia di Damasco di vedere il cambiamento nel loro paese. L’autrice, corrispondente dalla Siria per Liberation e L’Express, nel 2013 ha vinto il premio della stampa diplomatica francese (Apdf), realizzando in seguito memorabili reportage dalla città di Raqqa, assediata dallo Stato islamico (Isis). Ispirata dalla rivoluzione del cyber-attivismo che ha segnato le Primavere arabe del 2010-2011 (di cui in queste settimane ricorre il decennale), l’autrice si impegna in una corrispondenza via mail con suo padre, da poco scomparso, il diplomatico Nazem, naturalizzato francese dopo il carcere e l’esilio forzato in Francia per aver criticato il regime siriano di Hafez al-Assad. Il testo originale e coinvolgente parte da un dibattito su radici, “identità nazionale” francese e razzismo quanto mai di attualità. Definendo “irritanti” alla stessa stregua islamofobi, islamisti e islamofili d’oltralpe, Hala comprende il desiderio di alcuni giovani arabi, come il figlio Zeyd, di lasciare la Francia per il Canada con l’obiettivo di schivare il razzismo dilagante. E si scontra così con le convinzioni del padre che, dall’amore per i cimiteri parigini, è passato a idolatrare il “negativismo francese” a tal punto da non voler vederlo sciupato. Eppure l’autrice incalza, riferendo di una Francia che ha perso la sua autenticità e trasformata ormai in “museo”. Mentre il padre, che ha molto facilmente ottenuto la cittadinanza francese perché nato durante il mandato coloniale, ripercorre il suo rifiuto della futilità della tirannia dell’autoritarismo siriano. Il dialogo epistolare tra padre e figlia acquista vigore con lo scoppio delle rivolte in Tunisia, la così detta “Rivoluzione dei Gelsomini” che le ha dato la “gioia” di vedere la fine del regime dell’ex presidente Zine El Abdine Ben Ali dopo proteste con grande partecipazione popolare. Eppure la notizia non sorprende il padre che ha sempre creduto nel “risveglio dalla sottomissione” dei popoli arabi. Ancora più emozionante è l’escalation della cronaca che coinvolge giorno dopo giorno piazza Tahrir al Cairo, fino alle strade di Bengasi in Libia e le vie di Daraa in Siria. «La sorpresa è totale e globale […] Supera ogni immaginazione […] Questi giorni hanno del miracoloso», ammette Hala, confrontando le manifestazioni del 2011 con la quasi totale assenza di reazione alla disastrosa guerra in Iraq del 2003. Richiamando la necessità di “giustizia sociale” richiesta a gran voce dalle strade di Tunisi e del Cairo, Hala non esita a definire le proteste un “movimento ineludibile” che unisce le contestazioni degli anni Cinquanta a quelle del Duemila e così facendo mette insieme due generazioni di oppositori ai regimi autoritari della regione. L’autrice ammette che sono state proprio le Primavere arabe ad aver segnato il suo primo accesso nel mondo dei social network, da Facebook a Twitter, e che proprio attraverso queste piattaforme i giovani egiziani, tunisini, siriani, libici, yemeniti riuscivano ad organizzarsi, attraverso coordinamenti dal basso (tansiqiya) e superando i controlli di uno stato poliziesco. E così gli attacchi alle sedi del partito Baath e le proteste del venerdì non possono non risvegliare anche in Nazem la nostalgia per il suo deluso impegno marxista giovanile, mentre l’entusiasmo più sincero pervade le pagine del libro. Hala inizia a organizzare la diaspora siriana a Parigi e a viaggiare verso Damasco, chiusa ai giornalisti stranieri, per sostenere le aspirazioni delle opposizioni, inclusi i curdi. «Bisogna partecipare a questo movimento straordinario, sostenerlo mettendo in campo le proprie competenze e la propria esperienza», aggiunge l’autrice. A questo punto Nazem, critico ma non militante dopo l’assassinio dell’editore Salah Bitar nel 1980, racconta i terribili giorni del carcere prima di fuggire per la Francia. Eppure la speranza lascia presto il posto al buio della distruzione, di alti militari che non si ribellano a Bashar al-Assad, della strumentalizzazione delle minoranze, della guerra civile, dei manifestanti uccisi a fucilate, delle migliaia di morti. E così Hala e Nazem chiudono il loro dialogo con l’umore della sconfitta, del fallimento ma anche della consapevolezza di una “rottura profonda” che segnerà la loro Siria promessa.

Fate Morgane

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Le visioni di Marilena Renda hanno un preciso contesto geografico di riferimento, eppure proprio per questo sfuggono, costantemente: la memoria non scrive più le mappe dei luoghi, che restano in attesa di svanire o divenire. Perfino l’amore è una fata morgana: fatale segno del destino, che permane in impressioni, più che nella reciproca comprensione. Nei corpi della madre, della figlia e dei bambini del mare (in senso reale, con riferimento ai migranti, e simbolico, come creature più forti e selvagge dei loro genitori), affiora una verità tutta fisica e sensoriale, in cui trovare riconciliazione. Forse la sospensione delle fate è l’enigma della parola che insieme contiene e tradisce il passato, anticipa e fallisce il futuro, ma continuamente si china per accogliere. Parafrasando i versi di una poesia: “fa le prove” per un mondo e il suo successore. (FM)

di Marilena Renda

 

È vero, della natura non ti puoi fidare,
ma non dovresti nemmeno disturbare i vulcani.
Potrebbero, se vogliono, emettere
quella bava di fuoco per cui sono famosi
oppure non fuoco, ma metano e fango,
un muro alto venti metri, o anche quaranta
che nelle belle giornate può sollevarsi
e seppellire una famiglia di tre persone.
Ci sono luoghi che non sono come appaiono,
come isole che compaiono all’improvviso
e spariscono dopo una settimana,
terreno per fate morgane e inganni perfetti.

 

***

 

Ti abbiamo spaventato, una sera, con gli anni Cinquanta,
i mercoledì sera che si sparava e i bambini che non uscivano,
con mio nonno che sparò al fidanzato della sorella
e gli zii americani che non disdegnano la compagnia
dei narcotrafficanti e dei feroci bestioni di Villabate.
Mio padre coltiva la leggenda dei mafiosi di una volta,
che aiutavano le ragazze a rompere i fidanzamenti
e i paralitici ad ottenere le sedie a rotelle.
Mio nonno contrabbandava grano ed era protetto da Giuliano
e da strani Robin Hood che gli permettevano di trafficare.
Non volevo spaventarti, e non ti ho neanche consolato,
il giorno dopo, in aeroporto, quando sentivi ancora
il fischio delle pallottole alle spalle,
quando mi sono liberata della tua innocenza,
e superato Montelepre, le pietre, le montagne dei briganti
ho gettato dal finestrino la protezione e quel che resta.

 

***

 

Non avevo mai visto una casa, quindi la trovai spaventosa.
Venivamo da una tana, conoscevo solo tane.
Mia madre non aveva più lo sguardo del terremoto,
la gonna sgualcita e lo sguardo verso il basso
di quelli che provano a fare ordine nel terrore.
Le madri sono buone, buone come la terra
e la terra è buona anche quando non lo è affatto.
Il loro regno è potente e silenzioso
e nel sangue hanno la quiete della morte.

 

***

 

Partorirò un mostro perfetto,
già senza pregi,
che mi guardi
con l’odio della creatura
che prometto di ricambiare,
per espiare il detestabile dono
della vita.
Nessuno amerà tenerlo,
tutti frettolosi nel toglierselo dalle braccia.
Per questo ho ronzato attorno al sogno
finché non sei arrivata tu,
che adesso corri nel recinto
insieme a una bimba malata
che cade sulle mattonelle.
La madre la rimette in piedi,
e tu le piombi addosso
col tuo verso alluvionale,
mentre io ricordo la promessa
a cui non ho prestato orecchio
e che certamente si vendicherà.

 

***

 

per Bonaviri

 

Raccontami di nuovo la storia del bambino
che al tramonto strapparono alla madre
per innestare il suo corpo nel carrubo,
perché dalla circolazione di linfe e succhi
gli uomini ricavassero nuovo nutrimento.
È il padre che deve cibarsi dei frutti di questa infiorescenza,
mangiare carne giovane mescolata a foglie,
in modo da tornare dalla morte al figlio che lo cerca.
Raccontami di nuovo di come il figlio si illuse
di riportare il padre sulla terra e ribaltare le leggi di natura,
di come la madre si trovò perduta, in mezzo alla terra,
perduta, e poi che trovò il figlio-pianta sul punto della morte,
gli si abbracciò dimenticandosi tutta l’altra vita.

 

***

 

A Chernobyl, dopo l’evacuazione, i veicoli
sono rimasti a lungo sulla strada. La ruggine non ha fretta,
i bambini venivano su come capitava, in tempo di guerra
nessuno può pretendere attenzione.
Da dove arrivava la nube, tutto è stato sigillato.
A che serve coltivare le arti del passato,
i gesti classici, quando la terra muore?
Non c’è accordo, invece, su cosa fare delle rovine,
nessuno pensa a liberare le vecchie case dai mobili,
dai materassi, i libri e le bottiglie.
Il cinghiale e la lince corrono molti rischi,
ma possono sempre tornare dalla preda,
la foresta fa un silenzio che dice la verità,
gli animali ricordano l’uomo, ma in modo confuso
le categorie si sono mescolate nella zona d’esclusione
le foglie hanno cambiato forma
il mondo fa le prove di un altro mondo.

 

***

 

Una nigeriana, a Palermo, in via Juvara
ha gettato in un sacco ciò che resta di un bambino.
La sua morte fino a ieri sarebbe stata solo un pericolo scampato,
uno di quelli di cui si nutre con divertimento
la nostra storia di adulti, con le cadute dalle scale
gli incidenti stradali e i danni ai denti.
Quante cose non vedono i santi che proteggono,
tutta la violenza al centro di questo amore.

 

Poesie tratte da: Marilena Renda, Fate Morgane (L’Arcolaio, 2020)

The clutch – canestri e razzismo sotto pressione (3/4)

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di Riccardo Valsecchi – @inoutwards

[parte 3 di 4 – leggi la parte 1parte 2]

  1. RAZZISMO AL CONTRARIO

Boston, Massachusetts. 29 maggio 1987. La partita tra i Celtics ed i Pistons è finita, hanno vinto i primi: 117 a 114 il risultato finale. Ancora una volta, la terza negli ultimi quattro anni, la finalissima sarà tra Boston e Los Angeles. Ancora una volta, Magic contro Bird.

Nell’ultima gara contro Detroit, Larry è stato protagonista di un incredibile prestazione: 37 punti, 9 assists, 9 rimbalzi. Negli spogliatoi un giornalista dello sconosciuto quotidiano Orlando Sentinel si avvicina alla matricola dei Pistons Dennis Rodman. Non è ancora il Dennis Rodman devastante degli anni Novanta che vincerà tre titoli con i Chicago Bulls, neppure l’iconica star che farà parlare di sé per la relazione con la cantante Madonna, per le sfilate travestito da donna, per l’amicizia con il dittatore nord-coreano Kim Jong-un e per gli eccessi alcolici. In questo 29 maggio 1987, è semplicemente un ragazzone timido, introverso, con le orecchie a sventola, cresciuto nel ghetto di Newark, New Jersey, arrivato nella NBA come gregario e, per la prima volta nella sua vita, si sente parte di una famiglia dove nessuno lo giudica o prende in giro per essere nato povero e nero: i Pistons. Il cronista gli chiede un giudizio sulla prestazione di Bird: “Non è Dio,” risponde Dennis. “È bianco, altrimenti non avrebbe ricevuto il trofeo come miglior giocatore della Lega la stagione scorsa. Quel trofeo lo meritava Magic.”

Il giornalista va poi da Isiah che, in quanto star della franchigia, è circondato dai reporter dei maggiori quotidiani nazionali ed esteri. A brucia pelo aziona il tasto play del registratore, la dichiarazione di Dennis scorre dai nastri magnetici all’etere misto di sudore e tristezza che circola nello spogliatoio. Isiah sorride amaramente, ha appena perso la partita della vita, ci sta che sia affranto: “Io penso che Larry sia un ottimo, incredibile giocatore di basket,” risponde Thomas. “Un eccezionale talento, ma devo dare ragione a Rodman. Se Bird fosse stato nero, sarebbe stato semplicemente un buon giocatore come tanti altri.” Apriti cielo. Il mondo del basket, quel globo costruito attorno al mito della competizione “politically correct” tra Magic e Bird, tra nero e bianco, implode come un pallone bucato sulla testa della star di Chicago. L’accusa è di “reverse racism”, razzismo inverso.

I giorni successivi alla sconfitta sono surreali per Isiah. Viene invitato ad una conferenza a due con Bird, a Los Angeles, prima della partita che i Celtics si preparano ad affrontare contro i Lakers per l’assegnazione del titolo NBA. L’evento viene trasmesso in diretta. Da una parte c’è un Bird scocciato di dover interrompere la preparazione per questa pagliacciata mediatica; dall’altra Thomas è visibilmente scosso, con gli occhi lucidi. L’intervista che ha rilasciato un paio di giorni prima al giornalista del New York Times Ira Berkow non ha certo placato le polemiche: “Quando Bird fa una grande giocata, è dovuta alla sua intelligenza ed alla sua etica lavorativa. È tutto strategicamente pensato e rifinito da lui stesso. Non è la stessa cosa per un giocatore nero. Tutto quello che facciamo è correre e saltare. Non ci esercitiamo, non riflettiamo mai su come giochiamo. È come se io stesso fossi uscito dribblando dal grembo di mia madre. Sono commenti che si sentono in televisione, si leggono sui giornali. (…) Magic, Michael Jordan, me stesso, per esempio, sembra che giochiamo solo grazie al talento conferitoci da Dio, come se fossimo animali, leoni e tigri, che corrono selvaggi nella giungla, mentre il successo di Larry è dovuto all’intelligenza e al duro lavoro. I neri hanno combattuto questi stereotipi per così tanto tempo, ma esistono ancora, indipendentemente dal fatto che la gente voglia crederci o meno.”

Il punto di vista di Bird sulle dichiarazioni di Thomas è chiaro: “Se quello che ha detto Isiah non offende me, non capisco in che modo possa offendere voi.” Punto, discussione chiusa.

Per Isiah la condanna è già stata sentenziata. Come ad un criminale sul banco degli imputati, gli viene fatto ascoltare ancora una volta il nastro della registrazione. Le telecamere inquadrano le mani, gli occhi, primo piano a 45 gradi laterale sul viso, ne trasformano la passionalità e sincerità delle parole in una caricatura emotiva: “Sabato scorso è stato il giorno peggiore della mia vita. Ho perso la partita, sono stato accusato di essere razzista, ed ora sono il cattivo ragazzo – bad guy, bad boy! (…).”

Prende coraggio: “In questi giorni ho dato un’occhiata alla definizione di razzismo. Ha avuto qualcuno di voi la premura di farlo? Vi assicuro che è una brutta parola, sarebbe meglio non usarla a sproposito.”

  1. bis LA SEMIOSI INVERSA

“Noi tutti siamo impegnati in una società nel quale gli uomini e le donne devono avere eguali opportunità per avere successo, e proprio per questo motivo ci opponiamo alle quote razziali. Noi aspiriamo ad una società senza colori, una società che, nelle parole del Dr. Martin Luther King, giudica le persone non in base al colore della loro pelle, ma in base al contenuto della loro personalità.”

Ronald Reagan. 19 gennaio 1986, trasmissione radiofonica.

RISPOSTA: “Signor Presidente, la disoccupazione tra i neri adulti si attesta al 15.6%, mentre nel 1978 era al 12.3%. Il reddito medio di una famiglia afro-americana ammonta al 56% di una famiglia bianca. Presidente, la realtà è sotto gli occhi di tutti: 32% delle famiglie afro-americane sopravvivevano sotto la soglia della povertà nel 1980; oggi parliamo del 42%. Con quale coraggio può sostenere che questo vago concetto di “società senza colori” sia la migliore garanzia per una società priva di razzismo?”

William H. Gray, delegato al congresso per la Pennsylvania. 20 gennaio 1986.

Che cosa è il razzismo inverso? Per logica, se accettiamo la consueta definizione nell’enciclopedia anglosassone come “discriminazione diretta contro un membro di un gruppo etnico dominante o privilegiato,” o la fuorviante traslitterazione della voce inglese su Wikipedia Italia in “razzismo contro i bianchi”, si tratta di un ossimoro senza senso. Se il razzismo è l’abuso sistemico e sistematico di un potere o privilegio basato su principi etnici, si può parlare di pregiudizio, avversione, ma non certo di razzismo quando la “vittima” appartiene allo stesso gruppo dominante.

In effetti, il termine “razzismo inverso”, che appare negli Stati Uniti per la prima volta nel dibattito pubblico in quel 1865 che sancisce la fine della guerra civile e la formale, quanto fittizia, abolizione della schiavitù, si basa su un contorto assioma: che il contrario del razzismo non sia la sua assenza, una società libera da ogni forma di discriminazione, piuttosto una nuova forma di esso che ribalta la storia e, come nello stile delle più fantasiose teorie complottiste, trasforma i colpevoli in vittime, e viceversa. Ma, ancora più interessante, l’accusa di “razzismo inverso” manifesta una marcata negazione dell’esistenza del razzismo come manifestazione storica e dato di fatto, trasformandone la sua natura in pura rappresentazione retorica, una figura semantica che non esiste al di là del linguaggio politico: ma è la politica uno strumento atto a regolare la realtà in cui viviamo oppure un burlesco strumento di camouflage retorico?

10 anni prima di Larry Bird, i Celtics si chiamavano Bill Russell. Nel basket, nessuno aveva ed ha mai vinto tanto quanto Bill. Undici dei diciassette stendardi che oggi, anno 2020, pendono dal soffitto della nuova arena dove gioca la franchigia, portano il suo nome. Otto di questi arrivano di fila, dal 1959 al 1966, stabilendo la più lunga serie di titoli consecutivi nella storia degli sport professionisti americani. Nonostante i suoi due metri e otto di muscoli, Russ – così lo chiamano i compagni – non si distingue per prestanza fisica tra i giganti della National Basketball Association; non è neppure un’incredibile macchina da canestri, come il suo acerrimo rivale Wilt Chamberlain, che arriva addirittura a segnare 50.4 punti di media nella stagione 1961-1962. Eppure, grazie ad un’intelligenza e leadership fuori dal comune, Russ è considerato il giocatore più influente della storia del basket. L’abilità difensiva, la visione di gioco, l’introduzione della stoppata come arma di difesa e contrattacco, la rivoluzione del ruolo del pivot, il quale diventa, a suon di rimbalzi e schiacciate, il perno tattico attorno a cui si muovono gli altri giocatori, gettano le premesse per quello spettacolare gioco oggi emulato dai ragazzini e le ragazzine di tutto il mondo. Solo un paio di note fanno arricciare le ciglia anche dei più fedeli tifosi dei Celtics: Bill Russell è black, un nero. Per giunta, un nero che crede di poter cambiare il mondo, di poter sconfiggere il razzismo.

Corre l’anno 1964, che negli annali di storia anti-razzista verrà ricordato per l’assegnazione del nobel per la pace al reverendo Martin Luther King e la ratificazione del Civil Rights Act, ovvero il documento che sancisce l’abolizione della segregazione nelle scuole, negli uffici pubblici, sul posto di lavoro e nella liste elettorali. Boston, nonostante la fama di città liberale, roccaforte di quei Kennedy che hanno fatto dell’appoggio al movimento dei diritti civili il proprio baluardo politico, non è immune dal fenomeno segregazionista. Uno studio rivela che agli studenti afro-americani è consentito frequentare esclusivamente istituti nei quartieri black di South End, Roxbury e Donchester. Nel marzo dello stesso anno il reverendo James Bevel, braccio destro di Martin Luther King, guida una marcia di protesta da Roxbury allo storico parco di Boston Common, nel centro della città. Tra i 10 mila manifestanti, in prima fila, Russ ed il compagno di squadra K.C Jones. Nota a divenire: K.C. Jones sarà il futuro allenatore dei Celtics di Larry Bird dal 1983 al 1988.

“Non è necessario andare in Alabama per trovare la segregazione,” esclama dal palco il reverendo Bevel. “Basta uscire dalla porta di casa e camminare per le strade della vostra città.”

La folla applaude, Russ e K.C. si scambiano un’occhiata, poi, di scatto, si voltano a guardare i volti irritati dei giornalisti e poliziotti presenti. Un giovane assistente del Boston Globe chiede al suo principale che cosa abbiano detto. Quello bestemmia, poi sputa a terra: “Shut up kid, stai zitto ragazzino.” Come si permettono questi neri di infangare con l’ accusa di razzismo l’onore di queste coste dove approdarono i – bianchi – padri Pellegrini? Come possono offendere l’orgoglio della città in cui per primi un gruppo di patrioti – ancora bianchi – diedero il via alla rivoluzione contro la corona inglese? Con quale coraggio si azzardano a macchiare la nobiltà d’animo di questa società che diede i natali alla prima pubblicazione a stampa del romanzo abolizionista più famoso della storia moderna, “La capanna dello zio Tom” della scrittrice – ovviamente bianca – Harriett Beecher Stowe?

“Boston non è razzista”, sbotta una signora paffutella, con un cappellino fiorito, Mrs Louise Day Hicks, che, del Comitato Scolastico cittadino, è la presidentessa: “Al sud sono razzisti, lì esiste la segregazione, non a Boston.”

Il pensiero della Signora Hicks è basato, per così dire, su un trucchetto semantico: “Segregazione significa separare o dividere. Le scuole di Boston sono integrate, quindi non possono essere segregate.” Chiaro? Assolutamente no, ma nella contorta confusione tra significato e significante, Russel, originario di Monroe, Louisiana, profondo sud, non ci casca: non ha bisogno di nessuna elucubrazione retorica per riconoscere il razzismo e la segregazione. Si tratta di ferite che neppure lo status di super atleta osannato dalle folle hanno cancellato dalla sua vita. Il 17 ottobre 1961 i Celtics sono invitati ad una partita dimostrativa contro i Saint Louis Hawks a Lexington, Kentucky. Quando la squadra si presenta per la colazione presso la hall del Phoenix Hotel, il personale di servizio si rifiuta di servire i giocatori neri. Russel, Sam Jones e Satch Sanders, i tre giocatori afro-americani dei Celtics prendono il primo volo e ritornano a casa, organizzando il primo boicottaggio di una partita nella storia della NBA.

Casa… non proprio “home sweet home – casa dolce casa”, rimarca Bill. Ogni volta che i Celtics giocano in trasferta, la facciata dell’abitazione che la famiglia Russell ha affittato a Reading viene imbrattata con la scritta n-: “Una notte tornammo a casa dopo una vacanza di tre giorni,” rammenta Karen, la figlia di Russell, “e la trovammo in soqquadro.” I ladri non si erano limitati a rubare: “Avevano gettato a terra e distrutto i trofei di mio padre, versato birra sui divani e defecato nel letto dei miei genitori.”

L’abitazione diventa bersaglio quotidiano dei vandali, ma ogni volta è sempre la stessa storia: Bill chiama la polizia e le denunce finiscono nel dimenticatoio. Esasperato, decide di trasferirsi in un nuovo appartamento in un quartiere più sicuro. Il vicinato bianco puntualmente si oppone, protesta: non vogliono una famiglia afroamericana nei paraggi. Nulla di tutto questo appare nei quotidiani dell’epoca: sebbene si tratti dello sportivo più vincente – ed in quel 1964 più pagato – dello sport americano, un nero non ha il diritto di lamentarsi per qualche scritta offensiva sulle pareti di casa o per la merda lasciata in segno di disprezzo sopra il proprio letto nuziale.

Russ non molla: durante un post-partita negli spogliatoi del Garden, al giornalista George Sullivan dell’Herald Traveler che gli chiede come si trovi a Boston, risponde che “è la città più razzista degli Stati Uniti.”

Sullivan controbatte stizzito: “Non parlare in questo modo, potrei tirarci fuori un pezzo.”

Russ lo sfida: “Fallo, tanto non lo pubblicherà mai nessuno.”

Qualche settimana dopo Russ telefona al giornalista. Lo fa dal telefono negli spogliatoi, vuole che tutti gli altri giocatori lo sentano: “I am sorry Mr. Russell, mi dispiace Mr. Russell,” risponde Sullivan dall’altro capo della linea: “L’editore preferisce non pubblicare la storia.”

Russ ride, fragoroso, con un tono triste che perfora la traiettoria del suo eco: “I knew it, I told you, lo sapevo, te l’avevo detto…,” ripete fino a quando il suono della voce si affievolisce. Intorno, nello spogliatoio, nessuno osa dire nulla.

L’unico motivo che tiene Russell a Boston è un ebreo bianco, tarchiato, scontroso, e con un enorme Havana tra i denti. Con Russell quest’uomo, che tutti quanti chiamano Red, ha costruito la roccaforte Celtics su un semplicissimo concetto: lasciare fare a Bill ciò che vuole. Se è vero che le fortune di Arnold “Red” Auerbach si basano su un pacchetto di giocatori incredibili, dall’altra la sua gestione manageriale è visionaria: nel 1950 è il primo allenatore di una squadra professionista di basket a selezionare un giocatore afro-americano; nella stagione 1963-64 è anche il primo allenatore a schierare un quintetto di partenza di soli neri. E quando, alla fine della stagione 1966, Red decide di averne fin sopra i capelli di allenare, indovinate a chi decide di lasciare la panchina, nella doppia veste di giocatore ed allenatore? Ovviamente al pupillo Russell, che diventa il primo allenatore afro-americano della storia della NBA. È il 18 aprile del 1966 ed in una sala stampa gremita di giornalisti stizziti dal successo di questo atleta che non sa tacere di fronte alle ingiustizie razziali, una voce dal fondo lancia la domanda trabocchetto: “In quanto allenatore nero, pensi di essere in grado di mantenere parità di giudizio nei confronti dei tuoi giocatori bianchi?” L’accusa di razzismo inverso comincia a prendere forma.

La segregazione negli istituti educativi pubblici di Boston diventa uno scandalo di dominio nazionale nell’aprile del 1965, quando il nobel per la pace Martin Luther King giunge nella “città sulla collina” per partecipare ad una manifestazione pacifica. Il mese prima un nuovo studio ha rilevato che 55 scuole pubbliche nello stato del Massachusetts, di cui 44 in Boston, sono segregate. 90% degli studenti di colore continuano a frequentare istituti fatiscenti nei quartieri a maggioranza afro-americana. Quando i genitori tentano di iscriverli ad istituti più qualificati, le domande vengono rigettate. Il reverendo King conosce bene la gente che lo ascolta dal palco installato nel parco di Boston Common, tanto quanto il razzismo che tra i palazzi di questa metropoli si nasconde sotto una superficiale parvenza liberale: qui ha infatti studiato, nel triennio 1951-53, presso la Boston Universty, e a Roxbury, uno dei quartieri più segregati, è di casa. Alla locale Twelfth Baptist Church del reverendo Michael Haynes, fratello di Roy Haynes, mitico batterista di Charlie Parker, Martin Luther King ha cominciato il suo cammino pastorale, forgiando quell’inimitabile forza retorica che affonda le radici in un misto di gospel, predicazione, e rivendicazione di diritti umani.

“È stato proprio su queste sponde che la visione di una nuova nazione, concepita nel segno della libertà, è nata.” Piove sul capo dei 20 mila accorsi ad ascoltare il reverendo. “Ed è proprio da queste sponde che la libertà deve essere preservata.”

Ed è proprio da queste sponde,” ripete King, “che il cuore e le anime di ogni cittadino debbono preservare il mantenimento di quelle condizioni di giustizia e fratellanza necessarie per salvaguardare i figli del nostro Signore.”

Il tono sale: “Anche se abbiamo percorso un lungo tratto nella battaglia per trasformare i diritti civili e la fratellanza, il cammino è ancora lungo… non dobbiamo guardare troppo lontano per rendercene conto… basta aprire i giornali, accendere i televisori o volgere lo sguardo alla stessa società in cui viviamo… ci sono ancora così tanti problemi che dimostrano quanto siamo ancora lontani dall’aver raggiunto la terra promessa…”

Respira: “Ora è tempo di cessare la segregazione nelle scuole pubbliche. I nostri ragazzi e e le nostre ragazze devono poter crescere con delle prospettive. La segregazione debilita i segregati quanto coloro che segregano. È arrivato il momento, di mantenere le promessa della democrazia. È arrivato il momento, ora, di rendere questa fratellanza reale. È arrivato il momento, ora.”

La scossa data da King produce risultati. Nel giugno del 1965 il tribunale del Massachusetts passa il Racial Imbalacement Act, che non si limita a dichiarare illegale la segregazione nelle scuole, ma punisce gli istituti che non si conformano alle nuove direttive revocandone i fondi statali. Il Comitato Scolastico di Boston, guidato dalla cicciottella Louise Day Hicks, non ci sta. Louise, guanti bianchi ed un vestitino rosa che sembra uscito da un lungometraggio animato Disney, dichiara la legge antidemocratica, antiamericana, e chiama i loro promotori, “agitatori razziali.”

Il battibecco tra la Hicks e la National Association for the Advancement of Colored People, che continua a denunciare la mancata attuazione della legge, va avanti per un decennio. Quando Russell viene invitato dall’ NAACP a tenere un discorso ai diplomati della Black Junior High School a Roxbury, la Hicks è in mezzo al pubblico. Non le manca certo il coraggio. “Certi membri del consiglio comunale,” denuncia Russell dal palco, “ignorano gli interessi della comunità afro-americana, e ci si aspetta che noi non rispondiamo. Qui, a Roxbury, si cova un fuoco che il comitato scolastico si rifiuta di riconoscere, e questo fuoco che sta consumando Roxbury, finirà per consumare l’intera Boston.”

Il fuoco esplode nel 1974, nove anni dopo l’emanazione del Racial Imbalance Act. Il giudice Arthur Garrity scopre che esiste ancora un ricorrente pattern di discriminazione razziale ed impone un piano di ridistribuzione etnica nelle scuole di Boston. Il metodo adottato da Garrity è noto con il termine di “busing”: gli studenti vengono ridistribuiti nei vari istituti attraverso un sistema di bus. Per esempio, un’intera classe della predominantemente bianca South Boston High School viene ricollocata presso la Roxbury High School, e viceversa. La Hicks , in tutta risposta, crea il ROAR, Restore Our Alienated Rights (Restaurare i nostri diritti alienati), un movimento di protesta che fa del ribaltamento semantico la propria arma di punta: “I diritti civili dei neri hanno cancellato i nostri diritti civili di bianchi, ridateceli.”

È facile comprendere i motivi del successo della Hicks, che diventa l’eroina delle famiglie bianche del nord: imporre, per legge, che i bambini debbano frequentare determinate scuole, spesso lontane dall’abitazione, in una società che ha fatto della libertà individuale il principio fondatore, appare contraddittorio. La controversia permette alla Hicks di difendersi dalle accuse di razzismo di fronte alla platea bianca ed ai media che la sostengono, ma basterebbe un poco di innocente malizia per realizzare che se la legge deve imporre la convivenza tra studenti bianchi e neri, esiste un problema a priori che continua ad essere ignorato. Se poi la protesta contro il busing e la de-segregazione delle scuole si trasforma in sistematica violenza contro la comunità afro-americana, allora il razzismo non è un fenomeno poi così fittizio su queste sponde dell’Atlantico.

Il 25 settembre del 1974 lo studente Jean-Louis Andre Yvon fa appena tempo ad uscire dal bus che lo ha trasportato alla sua nuova scuola nel quartiere di South Boston, a predominanza irlandese ed italiana, quando un centinaio di adulti bianchi lo insegue e picchia brutalmente. A Roslindale High tre pullman che trasportano studenti afro-americani vengono bloccati dai residenti e costretti a ritornare indietro. Il primo ottobre una bomba molotov è lanciata alla finestra di Gladys Carnes, un afro americano che vive ad East Boston. All’inizio dell’anno scolastico 1974, il 50% degli studenti bianchi si rifiuta di presentarsi in classe. Una folla di circa trecento ragazzini bianchi attende i pullman dei coetanei neri fuori dalla South Boston High School: appena le vetture approcciano il parcheggio di fronte alla scuola, vengono prese a sassate.

Il clima è rovente, gli episodi violenti si susseguono senza sosta: all’inizio dell’anno scolastico 1975 i bus che conducono gli studenti neri continuano ad essere fermati, bersagliati da mattoni, mentre la folla si accanisce esibendo cartelli raffiguranti scimpanzé, sputando ai finestrini ed urlando ai bambini tra i 6 ed i 14 anni asserragliati dentro gli autobus, “go home n- , andata a casa, n-!” Un anonimo, in segno di protesta contro il senatore Kennedy, che sostiene l’iniziativa del giudice Garrity, lancia una molotov nella casa natale del presidente John Kennedy ed imbratta il marciapiede di fronte con la scritta “Bus Teddy”. Qualcuno suggerisce che dietro la violenza ci sia la mano della pericolosa mafia irlandese. La Hicks nega, si tratta solo di sporadici episodi dovuti al clima di esasperazione causato dalla legge anti-segregazione.

Il 5 aprile del 1976 la focosa Louise, che ora ha fatto carriera, e siede sulla poltrona della presidenza del consiglio municipale, invita un gruppo di giovani ragazzi della South Boston e Charleston High School. Li abbraccia uno per uno, commossa: “Come si può biasimare le proteste di queste innocenti vittime del razzismo inverso che mina i principi basilari della nostra amata democrazia?” Finito il cerimoniale, i giovanotti escono dall’edificio. Da lontano vedono un afroamericano che viene incontro di fretta. È un giovane avvocato, si chiama Theodore Landsmark, ed è semplicemente in ritardo. Di certo non è in cerca rogne, men che meno con questo gruppo di sconosciuti. Non il contrario. Un paio lo afferrano e buttano a terra. Un cazzotto gli spacca il setto nasale. Joseph Rakes, un teenager della South Boston High School, lo infilza, senza alcun motivo, con l’asta di una bandiera americana. La foto che ritrae l’istante, scattata da Stanley Forman del Boston Herald Tribute, è nota con il titolo di “The Soiling of the Old Glory”, il fango della vecchia gloria.

Onere non onorevole della cronaca: il fratello di Joseph Rakes, Stephen, risulterà poi essere associato al leggendario gangster James “Whitey” Bulger, che per trent’anni, tra i Settanta e la fine dei Novanta, controlla, nel doppio ruolo di criminale e collaboratore FBI, l’underground criminale di Boston. Le gesta di Whitey sono narrate nei film “Departed” di Michael Scorsese – con Jack Nicholson, Leonardo di Caprio, e Matt Damon -, e “Black Mass”, di Scott Cooper, con Johnny Depp. Quando infine catturato, nel 2011, dopo sedici anni di latitanza, Whitey confesserà di essere stato lui in persona a tirare la molotov nell’abitazione dei Kennedy.

Sebbene ridotto drasticamente nel 2013, il sistema di bus del giudice Garrity è tutt’oggi, anno 2020, ancora in servizio. La segregazione non è affatto scomparsa, ha semplicemente cambiato casa: le famiglie bianche si sono spostate fuori dall’area metropolitana in modo da evitare le zone soggette alla legge. E se nell’intero Stato del Massachusetts, di cui Boston è la capitale, il 60% degli studenti delle scuole pubbliche è bianco, nella “città sulla collina” l’81% è afro-americano, latino, o asiatico.

Come dire, il razzismo non esiste. O, per lo meno, l’importante è non nominarlo.

[parte 3 di 4 – segue Leggi tutte le 4 parti:

The clutch – canestri e razzismo sotto pressione (1/4)

The clutch – canestri e razzismo sotto pressione (2/4)

The clutch – canestri e razzismo sotto pressione (3/4)

The clutch – canestri e razzismo sotto pressione (4/4)

immagine via Wikimedia Commons

Ammoniaca

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di Clelia Attanasio

La prima volta che Micol ha bagnato il letto aveva nove anni, frequentava le elementari. Il giorno prima tutti si erano spesi in complimenti con Riccardino – bambinetto paffuto e gentile fino al fastidio – per il miglior tema d’italiano della scuola. Micol aveva osservato lo spettacolo della direttrice dell’istituto leggere il tema di fronte a tutti i bambini, tenendo Riccardino al fianco come una statua celebrativa. La rabbia e l’invidia le si erano presentate in corpo, a metà tra la pancia e l’inguine, trasformandosi in esigenza di urinare. Era corsa al bagno sotto lo sguardo contrariato della maestra di matematica e lo sbuffo del bidello costretto a seguirla per aspettare che uscisse. Micol aveva svuotato la vescica circondata dal silenzio; avrebbe voluto piangere per la furia, ma sembrava che l’acqua fosse tutta scivolata tra le gambe.

Quella notte, Micol non dormì bene. Sognò di stare davanti a una libreria invasa di libri, tutti col suo nome, e tante persone anziane che la applaudivano mentre lei aveva i pantaloni della tuta tutti macchiati di pipì: quando se ne accorgeva, iniziava a girarsi nervosamente in cerca della mamma che la aiutasse a cambiarsi; ma nessuno veniva a soccorrerla, anzi l’applauso diventava ancora più forte, così forte da impedirle di piangere, di chiamare aiuto. Si svegliò la mattina col letto invaso di pipì.

Arrivò a scuola con lo sguardo della madre davanti agli occhi, la vergogna sulle guance come un vestito incadescente, per scoprire che tutto era ricominciato da capo. Tutti sembravano essersi dimenticati d’aver vissuto un giorno in più. Ognuno ripeteva il copione del giorno prima, una replica fedele che sembrava aver visto solo lei, fino a quando la direttrice non la chiamò al centro dell’atrio, per leggere il tema migliore. Riccardino sedeva tra il pubblico di bambini silenziosi, attenti o annoiati, totalmente ignaro d’essere stato autore di un capolavoro defraudato. Micol lo guardava dall’altro lato dell’atrio: fu invasa da una sensazione così potente di euforia e adrenalina che dovette concentrarsi per non macchiare i pantaloni di pipì.

Nei trent’anni trascorsi dal suo primo prestito – così chiama la sua magia – Micol non ha mai più sentito un odore che non sia ammoniaca: ogni cosa s’è impregnata dell’odore di un cesso pubblico, costringendola a inventarsi i sapori del cibo. Ne è derivato che Micol Maimann non abbia avuto mai il vero e proprio gusto per il cibo e la convivialità che esso porta con sè, lasciandola in un corpo di ragazzina, senza forme e senza ciclo mestruale. Non è malattia, la magrezza di Micol è mancanza che si incorpora.

Poco è importato, però, al mondo: Micol Maimann sarebbe rimasta una donna magra e rachitica, destinata a scomparire nel suo gruzzolo d’ossa, se non avesse raggiunto una notorità tale da permetterle d’esser nominata col solo cognome: la Maimann, scrittrice di successo internazionale, tradotta in otto lingue, con una vita divisa tra Londra e Napoli. Mentre Micol Maimann si taglierebbe il naso per placare i conati di vomito, il mondo non sente nessun odore, non vede le macchie di piscio che bagnano il letto di Micol romanzo dopo romanzo; il mondo non sente Micol Maimann piangere, perché l’acqua non scende più.

Micol vive la sua vita un romanzo alla volta: divora libri giorno e notte. Il suo gusto per la scrittura è sicuramente il migliore al mondo, Micol ama i libri come nessun altro essere umano: li ama talmente da comprenderli anche più di chi li ha partoriti. La rabbia e il livore sono i suoi campanelli d’allarme che le dicono che la scrittura è buona, che c’è qualcosa sotto la superficie di una trama di cui vale la pena appropriarsi. Micol non prova rimorso, perché la cura che riserva alle sue prede è maniacale tanto da renderla – agli occhi di un mondo senza olfatto né gusto – l’autrice più devota alle sue opere. Micol Maimann ama la letteratura un po’ come un monaco ama la vita più di quanto non faccia Dio.

Per ogni libro che ruba, Micol bagna il letto. In trentanove anni questo meccanismo non ha fallato una volta sola: lei legge, apprezza, invidia, va a dormire e nelle agitazioni notturne bagna il letto. Per i primi anni fu frenata dalla potenza degli incubi e dalla vergogna che provava di fronte allo sguardo perplesso dei genitori. Ma l’euforia è l’anestetico più potente che esista, e col tempo persino i genitori impararono a ignorare il problema trattenitivo della figlia: era un genio, dopotutto.

Oggi, Micol aspetta Riccardo De Stefano nel suo ufficio di Napoli: è tornata da Londra di primo mattino appositamente per incontrarlo. Il suo primo romanzo, Fenomelogia dei liquidi, era uscito da più di un mese e non c’era stato verso, per Micol, di riuscire a prenderlo in prestito. Aveva provato con ogni mezzo a sforzarsi di più, i suoi incubi – sempre ricorrenti per ambientazione e trama – erano evoluti in una potenza tale da far svegliare Micol più volte nel cuore della notte, tanto da impedirle quasi di fare pipì tra le lenzuola. Una notte aveva persino defecato nel letto, tanto era forte lo sforzo: Micol si era ritrovata la mattina dopo a dover pulire prima dell’arrivo della donna delle pulizie (la quale era abituata al piscio, ma alla merda ancora no). Ma nulla, il romanzo di Riccardo non si lasciava convincere.

Riccardo è appena sceso dalla metropolitana, fermata Quattro Giornate, e si rende conto di essere in anticipo di mezz’ora: è frenetico. Per calmarsi si fionda nel primo bar che trova all’uscita della metro e chiede un ginseng. Lo beve con calma, respirando sulla tazzina con regolarità, nella speranza di calmare il respiro. Dopo cinque minuti, il ginseng è diventato una ciofeca: Riccardo lo beve d’un fiato, paga il barista senza aspettare il resto, ringrazia con un sorriso smagliante ed esce in strada, con il viso rivolto al sole. Si lascia illuminare dalla bella giornata per un attimo, poi riprende a camminare verso lo studio di Micol Maimann. Tutto avrebbe potuto aspettarsi Riccardo dalla pubblicazione del suo primo romanzo, fuorché essere chiamato proprio da lei, il suo idolo indiscusso. La Maimann rappresentava per Riccardo tutto ciò che uno scrittore dovrebbe essere, tutto ciò che uno scrittore dovrebbe dire e il modo in cui dirlo. Micol Maimann era riuscita a fare ciò che Riccardo ambiva per sé stesso: era riuscita a scrivere del nulla in modo autentico.

Riccardo adesso è davanti al portone della Maimann, bussa al citofono e dice il suo nome al segretario d’ufficio, il quale gli apre e gli dice di salire al quarto piano, senza ascensore. Riccardo sale le scale di quel palazzo antico con calma, considerando piano le parole da utilizzare, ripetendosi un discorso mentale che aveva preparato la sera prima con la moglie: Salve Micol, è un onore per me conoscerti; anzi, incontrarti ancora, perché – forse tu non lo ricordi – ma io e te abbiamo frequentato lo stesso istituto elementare; il tuo invito per me è un grande attestato di stima: se oggi sono uno scrittore è grazie a te; quando andavamo a scuola, la preside lesse ad alta voce un tuo tema, e io lo ricordo ancora; ho pianto quando tornai a casa da scuola quel giorno, piansi per l’emozione di aver sentito delle parole così autentiche, che quasi desiderai di averle scritte io.

Riccardo finisce di ripassare mentalmente il copione, giusto in tempo per entrare nello studio di Micol, accolto dal segretario che gli fa cenno di avviarsi alla porta semiaperta dell’ufficio di Micol. Apre quindi la porta, e sente solo un fortissimo odore di ammoniaca, poi nulla più: Micol lo ha colpito con un ombrello proprio dietro la testa, aprendo un buco gigantesco sul cranio. Guardando Riccardino steso a faccia in giù, con una pozza grandissima di sangue che si apre sotto il corpo, Micol piange e, per un’abitudine che ormai è diventata istinto, si tocca i pantaloni: neanche una goccia.

Foto di Free-Photos da Pixabay

Oggi ti sono passato vicino

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di Tommaso Urselli

queste tre poesie sono tratte da Oggi ti sono passato vicino, Ensemble, Roma 2020, euro 12, primo libro di poesia dell’autore teatrale Tommaso Urselli, g.m.)

Da “Corpo-città”

I

 

Che cos’è questa nebbia

questi occhi in mezzo alla nebbia

queste mani queste facce

che mi sembra di essere morto

in mezzo a pianure di parole tutte morte

in fila riposano

ridono sguaiate

si spogliano sgrammaticate

sono zoppe e s’impigliano

nel canale della gola

si tuffano con la testolina piccola piccola

dentro le vene e premono

contro la pelle premono

e vogliono uscire, segnare

tutta la geografia del corpo

scavare canali, crateri

 

 

 

Giorgia Romagnoli: Reflex

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«Non è qui che si esaurisce tutto?»

Reflex di Giorgia Romagnoli è il terzo titolo della nuova serie dei Cervi Volanti, la collana di scritture poetiche che curo insieme a Giuditta Chiaraluce all’interno del progetto Edizioni Volatili.

«Libri come laboratori, primi confronti, materie pensanti, montaggi e scavi attraverso la carta; libri senza profitto, in tiratura limitata, consegnati interamente agli autori e alle autrici, che ne gestiscono liberamente il transito (esoeditoria); libri evidenti nella loro invisibilità, indirizzati a chi saprà ospitarne l’implicita consegna; libri col solo intento di essere vigilie per una geografia del dopo-diluvio.»

Pubblico qui alcune pagine in anteprima, insieme a una nota dell’autrice del testo. Le partiture visive e i segnalibri sono di Giuditta Chiaraluce.

 

NOTA 

(2012 – 2020)

 

Una prima prova di traduzione che è anche un giocare a osservare ed essere inevitabilmente osservati, a dare un’immagine attraverso altri occhi senza la presunzione di comprendere l’abisso in cui guardano. Ritorno a questi testi dopo anni per spostarli un passo più avanti, dargli una forma nuova, acquisirne maggiore consapevolezza, riconoscerne le deviazioni dettate da ciò che è accaduto nel mentre.

 

 

Giorgia Romagnoli (Jesi, 1995) dal 2012 contribuisce allo spazio di ricerca eexxiitt.blogspot.it. Nel 2015 il suo ebook “Prove tecniche di trasmissione” è risultato finalista al concorso Opera prima ed è stato pubblicato su poesia 2.0. Nel marzo 2019 pubblica il libro “La formazione delle immagini” per Arcipelago Itaca Edizioni. Suoi testi, traduzioni e articoli sono apparsi su: lettere grosse, Nazione Indiana, Poetarum Silva, Extreme Writing Community, Argonline.it, Container – Osservatorio Intermodale, tradotti in svedese nella rivista OEI e in inglese nella rivista Contemporary Works in Translation: A Multilingual Anthology Vol II (Oomph! Press). Ha tradotto, tra gli altri, Dmitrij Prigov e Ciaran Carson.

 

Barbari in Campidoglio: cronaca di una telecronaca

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di Andrea Inglese

 

Proprio un afroamericano ci aveva insegnato che non avremmo visto la rivoluzione in TV (Gil Scott Heron), ma un colpo di stato magari sì. Se poi il colpo di stato riguarda niente popò di meno che gli Stati Uniti d’America, che di colpi di stato se ne intendono parecchio, soprattutto nel caso in cui avvengano fuori dalle loro frontiere, allora vale proprio la pena di restare incollati davanti alla TV come sono rimasto io la sera del 6 gennaio. Non vorrei sembrare cinico, anche perché sono morte ben cinque persone durante l’assalto dei trumpisti al Campidoglio.

L’oscuro magnetismo delle cose

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di Stefano Lazzarin

Ezio Puglia (1982) fa parte di quella che vorrei chiamare la “scuola bolognese” del fantastico. Perché è un dato di fatto che, da un quarto di secolo a questa parte, i migliori libri sulla letteratura fantastica – e sul fantastico italiano – pubblicati in Italia siano venuti tutti da studiosi che o si sono formati a Bologna, o vi hanno lavorato per lunghi periodi, o entrambe le cose. L’elenco non è lungo, e vale la pena di compilarlo: penso ai nomi di Remo Ceserani (Il fantastico, Bologna, il Mulino, 1996), Vittorio Roda (I fantasmi della ragione. Fantastico, scienza e fantascienza nella letteratura italiana fra Otto e Novecento, Napoli, Liguori, 1996; Studi sul fantastico, Bologna, CLUEB, 2009), Ferdinando Amigoni (Fantasmi nel Novecento, Torino, Bollati Boringhieri, 2004), Angelo M. Mangini (Letteratura come anamorfosi. Teoria e prassi del fantastico nell’Italia del primo Novecento, Bologna, Bononia University Press, 2007), Luigi Weber (curatore insieme a Mangini dell’opera collettiva Il visionario, il fantastico, il meraviglioso tra Otto e Novecento, Ravenna, Allori, 2004 e poi 2006). Ho citato libri che risplendono di fulgida luce nel campo degli studi sul fantastico; alla lista viene ora ad aggiungersi Il lato oscuro delle cose. Archeologia del fantastico e dei suoi oggetti di Puglia (postfazione di Angelo M. Mangini, Modena, Mucchi, 2020, pp. 320), degno erede di quella che può essere descritta, per l’appunto, come una tradizione di studi consolidata e caratterizzata da tratti comuni – uno fra tutti, il rigore storico, teorico, metodologico.

Ma c’è un altro filone critico in cui possiamo inquadrare Puglia, e che va menzionato prima di oltrepassare la soglia del suo libro. Alludo a quei teorici “esclusivi” che, nel dibattito suscitato dalla pubblicazione della famosa Introduction à la littérature fantastique di Tzvetan Todorov (Paris, Éditions du Seuil, 1970), si oppongono nettamente ai teorici “inclusivi”: i primi lavorano su un sistema complesso di categorie generico-modali, come aveva fatto Todorov (che al “fantastico puro” affiancava il “meraviglioso”, lo “strano”, il “fantastico-meraviglioso” e il “fantastico-strano”); i secondi ampliano la definizione di fantastico fino a includervi il fiabesco, la fantascienza, il fantasy, il gotico, l’horror, e alle cinque categorie di Todorov preferiscono una dicotomia vastissima e un po’ annacquata, quella tra “realistico” e “fantastico” (inteso come “non-realistico”, “anti-mimetico”, e simili). Gli “esclusivi” concepiscono il fantastico come un genere o un modo letterario, dalle radici storiche ben precise, e ne fondano la definizione su criteri tematico-formali, cercando di costruire intorno a esso una tassonomia dei modi letterari confinanti; gli “inclusivi” pensano invece al fantastico come a un sentimento, un impulso, un’attività della mente umana: perciò la loro definizione, basata su un criterio essenzialmente tematico, ha di solito carattere metastorico, e intuitivo o funzionale (viene introdotta soltanto per comodità di linguaggio). Ora in questo panorama Puglia si colloca decisamente dalla parte degli “esclusivi”, conferendo al termine “fantastico” un preciso significato storico-letterario e rimanendo in tal modo fedele alla critica intesa come esercizio razionale di comprensione della letteratura (e della realtà): cioè a quel compito che la critica dovrebbe svolgere senza eccezione.

Ma pur inserendosi nella tradizione teorica “esclusiva”, e risultando perciò familiare a chi abbia letto – poniamo – Roger Caillois e Tzvetan Todorov, Remo Ceserani e Lucio Lugnani, il libro di Puglia è al tempo stesso abbastanza sconcertante, perché quella tradizione ridiscute in profondità rivedendone molte acquisizioni fondamentali. Puglia conferisce un significato originale a una serie di rilievi, connessioni ed elementi che ormai credevamo (a torto?) fossero assodati, perfino scontati; di questi elementi muta radicalmente il senso e a volte lo capovolge. Di seguito, esaminerò alcuni esempi di quanto vado affermando.

Forse la prima cosa che si nota inoltrandosi nella lettura del Lato oscuro delle cose è la schietta prevalenza, nell’argomentazione di Puglia, delle idee e delle poetiche degli scrittori sulle teorie dei critici. Non si tratta ovviamente di un ghiribizzo del caso: il fantastico è un genere costitutivamente metaletterario, come è stato sottolineato da molti teorici (basterà ricordare R. Ceserani, Il fantastico, cit., p. 70: “il fantastico, fra gli altri modi e generi letterari, è uno dei più chiaramente autocoscienti”); ciò significa che gli scrittori fantastici si dedicano volentieri a giustificare le proprie scelte, scrivendo prefazioni, introduzioni, note, appunti, veri e propri saggi sul fantastico; e questo (gigantesco) corpus di testi che discutono il significato della categoria fa parte della storia del fantastico proprio come i capolavori di Hoffmann, Poe, Maupassant e Henry James: come negare che il 1830 di Du fantastique en littérature di Nodier o il 1888 di A Chapter on Dreams di Stevenson – tanto per ricordare i primi due saggi che mi vengono in mente – segnino due date decisive nella storia del genere? Se molti studiosi hanno notato l’autocoscienza del fantastico, Puglia le conferisce però una rilevanza inedita, verificandola meticolosamente sui testi con un lavoro di scavo che non credo altri abbia compiuto prima di lui; le conferisce, inoltre, un senso nuovo: studiando gli oggetti del fantastico e il loro “lato oscuro”, infatti, Puglia scopre in essi un’ulteriore manifestazione dell’autoriflessività fantastica. Come osserva l’autore della postfazione al volume, “si può dire che, nell’universo finzionale, il ‘rovescio delle cose’ svolga per il personaggio una funzione molto simile a quella che il testo fantastico intende svolgere nel mondo reale per il lettore” (A.M. Mangini, Postfazione, in E. Puglia, Il lato oscuro delle cose, cit., p. 286): detto altrimenti, è possibile riconoscere negli oggetti auratici e spettrali del fantastico altrettante mises en abyme di questo genere letterario.

La scelta di Puglia di “ascoltare il più possibile gli stessi autori attraverso le cui opere e riflessioni il fantastico, come autonomo genere narrativo, ha preso forma, oltre che alcuni critici loro contemporanei” (p. 10), la predilezione cioè per il “farsi” progressivo della letteratura fantastica, per il suo graduale costituirsi in genere letterario a mano a mano che le opere vengono pubblicate, i giudizi sulle opere formulati, le discussioni e le polemiche accese, ha un’altra conseguenza importante nel libro. Quello di Puglia è un fantastico che non assomiglia più al simulacro teorico, magari geometrico e di cristallina limpidezza, ma fin troppo astratto, dei teorici strutturalisti (Todorov su tutti, ma anche il suo più accanito avversario, il belga Jacques Finné, nonché, in ambito angloamericano, Christine Brooke-Rose: cfr. rispettivamente J. Finné, La littérature fantastique. Essai sur l’organisation surnaturelle, Bruxelles, Éditions de l’Université de Bruxelles, 1980, e C. Brooke-Rose, A Rhetoric of the Unreal. Studies in Narrative and Structure, Especially of the Fantastic, Cambridge, Cambridge University Press, 1981); bensì è un fantastico immerso nella concretezza vivace delle battaglie letterarie, delle prefazioni e dei racconti tradotti e travisati, delle dichiarazioni d’autore e degli scambi intellettuali, anche a distanza d’anni o di generazioni. Nel Lato oscuro delle cose non abbiamo più a che fare con un genere teorico, secondo l’impostazione prevalente nella riflessione sul fantastico dell’ultimo mezzo secolo a partire dalla già citata, e fondativa, Introduction à la littérature fantastique di Todorov; bensì con un genere risolutamente storico: di cui Puglia ricostruisce la vicenda complessa e possiamo ben dire avventurosa con eccezionale sensibilità per le sue connessioni con la storia, la società, la cultura, l’immaginario, il linguaggio e le idee delle varie epoche e aree geografiche. In questo lo aiuta la felice impostazione comparatistica del libro: perché l’autore è un comparatista autentico, non – come ce ne sono tanti oggi – soltanto per modo di dire.

A sua volta, l’immersione nella concretezza del genere storico produce riverberi molteplici: viene da qui, per esempio, un nuovo modo di concepire il percorso storico del genere stesso. Puglia riformula il significato di due categorie introdotte nel dibattito da Remo Ceserani, che possedevano peraltro un’indubbia utilità ermeneutica: il “modo fantastico” e la “fantasticizzazione”. Quella del “modo fantastico” è una piccola rivoluzione che Ceserani lancia, nel campo degli studi sul fantastico, con il suo libro del 1996 (cfr. R. Ceserani, Il fantastico, cit.), ma già in un importante articolo uscito a metà anni Ottanta (cfr. R. Ceserani, Le radici storiche di un modo narrativo, in R. Ceserani et alii, La narrazione fantastica, Pisa, Nistri-Lischi, 1983, pp. 7-36). Per ovviare agli eccessi teorici dei suoi predecessori – soprattutto Todorov, che aveva ristretto fino all’inverosimile il canone del “fantastico puro”: “[s]i un conte fantastique est un récit où l’hésitation entre explication rationnelle et explication surnaturelle se maintient en dernière page”, nota spiritosamente il già menzionato Finné, “la littérature universelle n’en possède pas assez pour former un genre” (J. Finné, La littérature fantastique, cit., p. 31) – Ceserani propone di considerare il fantastico non come un genere letterario, bensì come un modo: cioè una categoria più ampia e flessibile, dai confini meno rigidi di quelli del genere perché meno codificata del genere. Il fantastico avrebbe insomma il medesimo statuto del comico, del tragico, del patetico o dell’elegiaco; il modo assumerebbe poi varie forme di genere: così, per esempio, potremmo parlare di romanzo fantastico, racconto fantastico, ballata fantastica, e perfino di sinfonia fantastica (una ne scrisse il musicista francese Hector Berlioz, la Symphonie fantastique del 1830); in tutti questi casi il nome indica la determinazione di genere, l’aggettivo quella modale. Nel Lato oscuro delle cose Puglia attribuisce alla categoria ceseraniana un senso nuovo: il modo è la posterità del genere. Dopo essere “stato in auge per poco più di mezzo secolo”, il fantastico avrebbe cominciato “a decomporsi, a sgretolarsi”: nel Novecento si sarebbe diffuso “verso la periferia di un sistema letterario dominato dai modelli anglo-francesi”, invadendo tutte le letterature mondiali e contemporaneamente disseminandosi, sotto forma di “frammenti sparsi”, in tutto il sistema letterario (p. 227). Questo fenomeno, che Puglia definisce “trascolorare da genere a modo”, ci consente di continuare a “parlare di un fantastico posteriore alla crisi di fine Ottocento: il fantastico novecentesco va messo in relazione con il disgregamento e la disseminazione del genere storico” (p. 228). Se dunque Ceserani insisteva sull’origine tardo-settecentesca della letteratura fantastica, sottolineando come “[e]lementi e atteggiamenti del modo fantastico, da quando esso è stato messo a disposizione della comunicazione letteraria, si ritrovano con grande facilità in opere di impianto mimetico-realistico, romanzesco, patetico-sentimentale, fiabesco, comico-carnevalesco, e altro ancora” (R. Ceserani, Il fantastico, cit., p. 11), per Puglia il fantastico nasce come genere e soltanto quando “il genere si esaurisce e si trasforma in altro da sé” (p. 228) assume le sembianze riconoscibili di un modo letterario. Questo spostamento in avanti della periodizzazione del modo – dalla svolta storica di fine Settecento-inizio Ottocento, su cui insisteva Ceserani, alla frattura anch’essa epocale che separa l’Otto dal Novecento – induce Puglia a collegare strettamente la nozione di “modo” al fenomeno della “fantasticizzazione”. Ceserani aveva coniato quest’ultima categoria ispirandosi alla “romanzizzazione” indagata da Bachtin: nell’Ottocento il fantastico si troverebbe, rispetto agli altri generi e modi letterari, in una posizione egemonica, simile al “dominio del romanzo su tutte le altre forme letterarie nel mondo moderno, a partire dal Settecento”, di cui parla il grande studioso russo (R. Ceserani, Il fantastico, cit., p. 101); il successo prodigioso che arride al récit fantastique suscita un fenomeno di ibridazione nei generi non-fantastici, per cui opere appartenenti, ad esempio, al modo mimetico-realistico assumono elementi – temi, forme, strutture – che sono tipici della letteratura fantastica. Puglia riprende tale e quale questa analisi, ma di nuovo, la sposta a valle, dopo la fine del genere storico e la disseminazione o lo sgretolamento di cui si è detto in precedenza: “in un secolo che non crede agli spettri, gli spettri non si dissolvono ma si insinuano in contesti inaspettati manifestando la loro presenza nel linguaggio e nel pensiero, la loro capacità […] di coagulare e manifestare quel lato oscuro delle cose nel quale l’io coglie la rivelazione, a cui il nostro tempo ha restituito straordinaria e bruciante attualità, della propria impotenza e vulnerabilità di fronte al mondo che vorrebbe dominare, della finale inconsistenza di ogni pretesa sovranità del soggetto sugli oggetti che lo circondano e finiscono per sopraffarlo” (p. 289). Così, la “fantasticizzazione” di Ceserani diventa la chiave di volta di una nuova interpretazione del rapporto fra tradizione ottocentesca e novecentesca: una delle cruces, forse quella maggiormente problematica, della discussione teorica intorno alla letteratura fantastica.

La volontà di rimanere solidamente ancorato alla storia del fantastico otto-novecentesco induce inoltre Puglia a ridiscutere il canone del genere, al quale apporta leggere ma significative modifiche: nel campo della letteratura italiana, ad esempio, Papini si guadagna un posto di assoluto rilievo, che non molti studiosi erano stati finora disposti a riconoscergli (cfr. pp. 229-233). Una delle modifiche di cui sopra, del resto, non è tanto leggera, anzi; la torsione impressa da Puglia alle categorie precedentemente ammesse fa vacillare sul suo piedestallo nientemeno che l’autore considerato da generazioni di colleghi scrittori e poi di studiosi come il fondatore, o per lo meno il primo indiscusso maestro, del fantastico ottocentesco: Ernst Theodor Amadeus Hoffmann. Per Puglia, Hoffmann non è fantastico: un’asserzione sorprendente, che merita qualche parola di spiegazione. Cominciamo col sottolineare che questa opinione di Puglia ne riecheggia un’altra, famosa e controversa: quella di Todorov secondo cui Edgar Allan Poe, alter ego di Hoffmann e inquilino anch’egli del cuore bifronte del canone ottocentesco, non sarebbe, in realtà, un autore fantastico. “D’une manière générale”, aveva rilevato il teorico franco-bulgaro, “on ne trouve pas dans l’œuvre de Poe de contes fantastiques, au sens strict, à l’exception peut-être des Souvenirs de M. Bedloe et du Chat noir. Ses nouvelles relèvent presque toutes de l’étrange, et quelques-unes, du merveilleux” (Tz. Todorov, Introduction à la littérature fantastique, cit., p. 54). In nome della storia, Puglia capovolge intenzionalmente – e con piena ragione – l’opinione di Todorov: “Poe, un autore spinoso per tutti coloro che hanno cercato di elaborare una definizione teorica del fantastico […], al genere storico può essere aggregato senza problemi” (pp. 10-11). Ma poi, sempre in nome della storia (e però con un ragionamento che il recensore non si sente di approvare), lo stesso Puglia mette al bando, come si è detto, il grande predecessore dell’americano: “A rigore, la letteratura di Hoffmann, compresi quei testi che di solito vengono riconosciuti come l’incarnazione più pura del fantastico, non può essere inclusa all’interno del genere storico. La ragione è banale: il fantastico non esisteva ancora al tempo in cui Hoffmann scriveva quelle opere che erano destinate a diventare prototipi di una nuova tipologia narrativa” (p. 10). È, mi sembra, un bel paradosso: a forza di storicizzare, Puglia finisce con il raggiungere gli esiti aporetici di chi invece, della storia letteraria, faceva “cavalièrement litière”, almeno se sottoscriviamo le accuse che a Todorov rivolge il solito Finné (J. Finné, La littérature fantastique, cit., p. 34). Laddove Todorov, cedendo a “cet enchantement que procure la radicalité” (Tz. Todorov, Devoirs et délices. Une vie de passeur, entretiens avec C. Portevin, Paris, Éditions du Seuil, 2002, p. 112), aveva decretato l’espulsione di Poe dal canone, il giustissimo scrupolo di Puglia per i contesti storici della letteratura spinge lo studioso italiano a staccare dal muro, nella galleria di ritratti del fantastico europeo, quello che riproduce le fattezze di Hoffmann: seguendo percorsi diversi e anzi opposti, lo strutturalista e lo storicista finiscono per convergere nell’ostracismo ai danni di uno dei due maestri unanimemente riconosciuti del secolo d’oro del fantastico. Non sarebbe più sensato – questo il parere di chi scrive – lasciare entrambi al loro posto, visto che non abbiamo argomenti davvero decisivi per rettificare il giudizio di un paio di secoli di letteratura e di critica? A chiudere il cerchio del paradosso, annoto qui che il più volte citato Finné – acerrimo fustigatore, come si è visto, di Todorov, ma da una postazione di fatto interna allo strutturalismo – aveva anticipato l’opinione di Puglia su Hoffmann, definendo quest’ultimo “le moins fantastique de tous les conteurs allemands” (J. Finné, La littérature fantastique, cit., p. 185): in altri termini, il medesimo amor di storia persuade Puglia a dissentire su Poe dallo strutturalista Todorov e, viceversa, a consentire (credo inconsapevolmente) su Hoffmann con lo strutturalista Finné; i casi strani della teoria del fantastico!

Sarebbe poco opportuno chiudere questo resoconto senza accennare a un altro aspetto fondamentale e innovatore del libro di Puglia: l’attenzione agli oggetti che lo pervade in ogni pagina. Finora si sapeva, sì, che l’oggettualità del fantastico era importantissima; ma lo si sapeva quasi esclusivamente grazie al saggio di Lucio Lugnani sugli oggetti mediatori e al volume di Francesco Orlando sugli oggetti desueti: ovvero due ricerche di grande valore e due topoi assolutamente decisivi, ma per l’appunto soltanto due (cfr. rispettivamente L. Lugnani, Verità e disordine: il dispositivo dell’oggetto mediatore, in R. Ceserani et alii, La narrazione fantastica, cit., pp. 177-288, e F. Orlando, Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura. Rovine, reliquie, rarità, robaccia, luoghi inabitati e tesori nascosti, Torino, Einaudi, 1993, seconda edizione riveduta e ampliata presso lo stesso editore nel 1994). Puglia invece – pur rifuggendo dalla casistica, e avvisando il lettore che nel suo libro non si troverà nessun “elenco esaustivo delle cose auratiche e spettrali del fantastico ottocentesco” (p. 12) – ci fa discernere e apprezzare i mille volti, spesso affascinanti, delle cose descritte nei racconti e nei romanzi fantastici: oggetti inquietanti, assurdi, erotici, da collezione; feticci, reliquie, indizi, rifiuti; oggetti surreali, alieni, spettrali e auratici (secondo la bipartizione principale, abbozzata alle pp. 11-12); e via di seguito. E grazie al punto di osservazione particolare – ed estremamente fecondo – costituito dalla rappresentazione letteraria degli oggetti, getta nuova luce su molti capolavori del fantastico otto-novecentesco che ci illudevamo di conoscere a menadito.

Si sarà notato, per inciso e anche per concludere, che l’autore del Lato oscuro delle cose, parlando deliberatamente di teoria il meno possibile e soltanto quando non si poteva evitare di farlo (cfr. p. 9), giunge ugualmente a ridiscutere quasi tutti gli snodi fondamentali, e i più problematici, della teoria contemporanea del fantastico. Anche questo, forse, è un paradosso: ma ben vengano certi paradossi, che sono sintomo di vitalità.

Gli USA sempre progrediscono

5

di Antonio Sparzani
questo è solo un invito a rileggere questo, ascoltando la relativa ballata di Giovanna Marini, e quest’altro e a riflettere che quello che è successo ieri a Washington è un bel progresso: il terrorismo rivolto verso molti altri stati adesso viene rivolto verso se stessi. La “culla della democrazia” è diventata la bara della democrazia. O dovremo dire “sic transit gloria mundi”?

Overbooking: Federico Nobili

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Nota

di Marco Rovelli

 

Enigma del Metodo Erodoto è un libro de-genere, non è poesia, non è un romanzo, non è filosofia, non è un saggio, ma tutte queste cose insieme, al limite (ma al limite, appunto). È prosa, questo si può dire, e, forse, si può anche dire che sia anche autobiografia, ma nei termini cartografici che diremo. Anche l’autore, dunque, è un autore de-genere: Federico Nobili depone il suo nome e si fa Fred Biondina.

Metodo Erodoto: un’indagine geografica, senza inizio né fine, una catabasi che precipita in un catapumfete (che è l’ultima parola del libro), ma l’ultima volta non arriva mai, la fine é ricorsiva e non fa che tornare, a un inizio che non c’è, é una fine che non finisce, fallisce semmai, precipita in un precipizio senza fine e resta a mezz’aria, come un will coyote che diventa munchausen, (ac)cade come sempre é (ac)caduto, resta lì, nel tempo che resta, che é quello dove non c’è tempo, ma spazio, lo spazio da indagare con una catabasi geografica.

The clutch – canestri e razzismo sotto pressione (2/4)

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di Riccardo Valsecchi – @inoutwards

[parte 2 di 4 – leggi la parte 1]

  1. ZEKE THE FREAK

Quando nell’estate del 1979 il mitico Bobby Knight, dalla cui corte Bird era fuggito qualche anno prima, si presenta a casa Thomas, mamma Mary non sta più nella pelle. Da settimane riceve decine di lettere anonime che accusano Knight di picchiare i suoi giocatori. Accuse verosimili, che venti anni dopo indurranno il rettore dell’Università dell’Indiana a bandire dal campus uno degli allenatori più vincenti della storia della pallacanestro universitaria. Black Pride? Orgoglio nero? Mettetevi nei panni di mamma Mary. L’unico uomo, Fred Hampton, che le aveva dato una speranza di cambiamento, era stato ucciso dal governo. I figli più grandi sono ormai proprietà delle gang; chi spaccia, chi si fa di eroina, chi sta in carcere. Quel bianco, Bobby Knight, rappresenta la sola possibilità di salvezza per il più piccolo dei suoi figli. L’unica clausola che mamma Mary pone è che Isiah debba avere una borsa per studiare legge. Se dovesse fallire nello sport, con una laurea in legge potrà aiutare almeno la sua gente. È una giornata drammatica. Lord Henry, Gregory e Larry, i maggiori dei sette maschi Thomas, circondano Knight appena mette piede in casa, lo insultano. Ci vuole tutto l’amore di mamma Mary per evitare che se ne vada immediatamente. Ed anche la consapevolezza di Knight che un talento come quello di Isiah non si butta via per un paio di offese provenienti dalla bocca di tre sbandati. Seguono due lunghi anni in cui il controverso coach si vendica del trattamento subito con parolacce, punizioni esemplari e minacce, ma ciò che non può fare è togliere Isiah dal campetto da basket. Il ragazzino sopporta tutto, lavora duro, più di chiunque altro. Da matricola è eletto giocatore dell’anno, l’anno successivo vince il torneo nazionale universitario ed il trofeo come miglior giocatore della competizione. Zeke, come lo chiamano i tifosi degli Hoosiers – così si definiscono i giocatori di basket dell’Indiana University -, ispirati dalla famosa canzone “Zeke The Freak” di Isaac Hayes, è pronto per la NBA. La stagione successiva viene selezionato dai Detroit Pistons e diventa a tutti gli effetti un giocatore professionista.

Non tutti sono convinti delle potenzialità del giovane playmaker. È alto solo 185 cm, la prestanza fisica non è certo la sua migliore caratteristica, chissà se l’abilità palla in mano e la velocità possano bastare a farlo sopravvivere in mezzo a questi giganteschi energumeni di due metri e passa! Basta una sola partita per sfatare ogni dubbio. Il 30 ottobre del 1981, data comunemente celebrata negli Stati Uniti come “the Devil’s Night”, la notte del diavolo, un giovanissimo demone con un sorriso da chierichetto fa il suo esordio nel basket professionistico: 31 punti ed 11 assist marcano la seconda prestazione di sempre per un debuttante.

Fin da quella notte del diavolo, è chiaro che Thomas non è Magic e Bird. Prima di tutto, i Detroit Pistons non sono i Lakers o i Celtics, le due franchigie più celebrate della lega: non hanno mai vinto nulla, vengono da un decennio catastrofico con una media di cambio allenatore ogni sei mesi. Magic e Bird sono inoltre speculari: entrambi oltre i due metri, sono i prototipi dei cestisti totali, capaci di giocare in ogni posizione. Al contrario, Thomas è un regista puro, un playmaker, un maestro nell’orchestrare il gioco della propria squadra, ma ha bisogno di compagni sotto canestro in grado di raccogliere rimbalzi e finalizzare i suoi brillanti passaggi. I Lakers, dalla loro, hanno, oltre a Magic, all stars quali Kareem Abdul Jabbar, Bob McAdoo – che qualche anno dopo approderà in Italia alla Tracer Milano -, Michael Cooper, James Worthy; i Celtics invece, oltre a Bird, esibiscono Danny Ainge, Kevin McHale, Robert Parish, Bill Walton, tutti giocatori – bianchi, ad eccezione di Parish – diventati leggendari negli anni a venire. Ad accogliere Isiah, a Detroit, c’è solo un anonimo bianco con la pancetta di nome Bill Laimbeer, più famoso per le risse in campo che per le qualità sportive. Bill ed Isiah diventano inseparabili. Mentre il primo forgia quel gioco aggressivo e cattivo che diventerà il marchio di fabbrica della squadra, il secondo si prende beffa degli avversari con una velocità d’esecuzione incredibile ed un ritmo forsennato: è l’embrione di quella squadra passata alla storia con l’etichetta di Bad Boys. Ma ci vorrà ancora qualche anno, e l’innesto di qualche altro talento, prima che la sola ombra di questi cattivi ragazzi faccia tremare gli avversari.

Isiah, le cui abilità ora sono fuori dubbio dopo avere trascinato la squadra, nella prima stagione, ad un totale di vittorie maggiore della somma delle due annate precedenti, è legato, sin dai tempi del college, da una profonda amicizia con Magic Johnson. Insieme con un altro giocatore esplosivo, Mark Aguirre, che si unirà ai Pistons di Thomas sul finire della decade, si fanno chiamare i “ghetto boys”. I tre trascorrono l’estate in tour con i leggendari Jackson Five, ammirano da dietro il palco il perfezionismo di Michael Jackson, si allenano insieme nel campetto che Magic ha fatto costruire nella sua nuova residenza di Bel Air. Tuttavia, pur essendo entrambi afro-americani, Magic è molto diverso da Isiah. Anche se non si possono definire agiati, i Johnson sono lavoratori impeccabili, non hanno mai fatto mancare il cibo o l’affetto ai propri figli. In più, Magic, sorriso largo, sguardo amabile, una sicurezza incredibile, ha il dono di trasformare tutto ciò che tocca in oro. Partita sei della serie finale 1980. Kareem Abdul Jabbar, allora il giocatore più forte dei Lakers e dell’intera lega – per molti, dell’intera storia del basket – è infortunato, non può giocare. La squadra si appresta a salire sull’aereo che li condurrà a Philadelphia per sfidare i Philadelphia 76ers di Doctor J, Julius Erving, che in quegli anni si contende con Kareem lo scettro del migliore. L’atmosfera è lugubre, è una sconfitta annunciata. La matricola Earvin è l’ultima a salire. Prende il posto di Kareem, lasciato vuoto in segno di reverenza. Si gira verso i compagni che lo fissano increduli dell’arroganza di questo ragazzino, sorriso smagliante: “Hey guys, never fear because Magic is here! – Hey ragazzi, nessuna paura, c’è qui Magic!” Risultato: Magic realizza 42 punti, 15 rimbalzi e 7 assists; i Lakers vincono la partita ed il titolo, Magic è eletto miglior giocatore delle finali, per la prima ed unica volta assegnato ad una matricola.

Isiah non possiede lo stesso tipo di confidenza. La sua sicurezza è quella dell’acrobata sospeso su un filo tra due grattacieli: non credere di essere in grado di arrivare dall’altra parte significa morire. Certo, è un ragazzino prodigio, che i media descrivono come “innocente, diabolico, sarcastico e fuori di testa”, ma ciò che si porta dentro è la sofferenza e le frustrazioni che ha dovuto ignorare per guadagnarsi il rispetto. Velocità ed acrobazie palla in mano sono sempre stati gli unici ingredienti su cui poter contare per ovviare alla statura minuta ed alle botte degli avversari; perdere significa soccombere in mezzo alla violenza che da sempre lo circonda. Ma proprio per questo, quando approda nella NBA, lui, figlio di una Black Panther, prodotto dei ghetti, che ha conosciuto la fame ed il razzismo della società americana, rompe quell’equilibrio da favola instaurato dalla premiata ditta Magic-Bird. In Isiah Thomas, l’America rivede l’ombra della disparità sociale, della discriminazione istituzionale, dei soprusi della polizia, della segregazione che, 20 anni dopo la lotta per i diritti civili, ancora ghettizza ed affligge la comunità afro-americana. Una diseguaglianza che a Detroit, non sulle colline holliwoodiane che fanno da sfondo al Forum dove giocano i Los Angeles Lakers, non nella bianca e collegiale Boston, conoscono molto bene.

  1. IL PRIVILEGIO BIANCO

Tempo: una lunghissima estate del 1987. Luogo: periferia di Boston. Una donna, bianca, si trova seduta nel proprio studio. È assorta, di fronte una macchina da scrivere. I caratteri si susseguono uno dopo l’altro, l’esposizione è semplice ed efficace, sembra quasi incredibile che nessun bianco ci sia mai arrivato prima. Peggy McIntosh, questo è il nome della donna, è una ricercatrice presso il Wellesley Center for Women e si occupa di discriminazione di genere. Zoomiamo sulla pagina che pende dal rollo della macchina e leggiamo il titolo scritto a lettere maiuscole: “White Privilege: Unpacking the invisible Knapsack”. (Privilegio bianco: disfare il bagaglio invisibile.)

“Nello sforzo di raccogliere materiale di studio sulle donne, ho spesso notato la riluttanza dei maschi ad ammettere di godere di maggiori privilegi, anche quando sono in grado di ammettere che le donne siano spesso svantaggiate. Queste ritrattazioni, che appaiono nella forma di tabù, sono caratteristiche nei discorsi che riguardano i vantaggi che gli uomini ottengono dagli svantaggi delle donne. Lo stesso atteggiamento negazionista è il muro di protezione che evita che i privilegi dei maschi siano riconosciuti, attenuati, oppure, una volta per tutte, cessati. Ragionando su questo non riconosciuto privilegio maschile come fenomeno, ho realizzato che, dal momento che le gerarchie nella nostra società sono interconnesse, potrebbe esserci un fenomeno denominato privilegio bianco che viene similmente negato e protetto. In quanto persona bianca, ho realizzato di essere stata educata a considerare il razzismo come una qualche entità indefinita che pone altri in svantaggio, ma nessuno mi ha insegnato a vedere uno dei suoi aspetti corollari, il privilegio bianco, che pone me stessa in una posizione di vantaggio, di privilegio. Questo stesso atteggiamento negazionista è il muro di protezione che evita che i privilegi dei bianchi siano riconosciuti, attenuati, oppure, una volta per tutte, eliminati.”

La Stampa, 6 agosto 1967: “La rivolta n- di Detroit ha scosso più di ogni altra l’opinione americana, poiché Detroit era una città modello. Il sindaco Cavanagh era stato forse il più coraggioso amministratore d’America: grandi investimenti per la gente degli slum (bassifondi), molte scuole, una polizia moderata. La sua United Automobile Worker, a sua volta, aveva fatto in Detroit più che qualsiasi sindacato della storia americana per distribuire impieghi senza discriminazioni razziali. Detroit – si diceva – è la migliore città del mondo per la gente di colore.” Firmato, Alberto Ronchey, futuro ministro italiano per i beni culturali ed ambientali dal 1992 al 1994.

All’inizio del XX secolo la modesta città di Detroit si trasforma nella capitale mondiale dell’automobile. Qui stabiliscono i propri quartieri generali le “Big Three”: Ford, General Motors e Chryslers. La necessità di operai favorisce un incredibile flusso migratorio, soprattutto di afro-americani in fuga dagli Stati del Sud, dove ancora vige la segregazione razziale. Detroit passa da 285.000 abitanti nel censo del 1900 ad un milione e 600.000 del 1930. All’inizio degli anni Cinquanta, la città è considerata la mecca dell’economia americana. Non per gli afro-americani. Fin dall’inizio del flusso migratorio, la popolazione bianca fa scudo boicottando l’affitto o la vendita di case. Un sistema semplice ed antico: quando un afro-americano si presenta per vedere un appartamento, il prezzo triplica o quadruplica. Se riesce ad avere la casa, allora si comincia tirando i sassi alle finestre, poi si passa ai pestaggi per strada, e, se proprio non basta, gli si brucia la proprietà. A supportare la causa, il facoltoso Ku Klux Klan locale. Nonostante le difficoltà, la comunità afro-americana riesce a stringersi attorno ai quartieri di Black Bottom e Paradise Valley, dove sviluppa una vivace, variegata ed intraprendente vita sociale ed economica. Paradise Valley ospita alcuni dei più famosi night club del Paese; qui si esibiscono regolarmente Billie Holiday, Sam Cooke, Ella Fitzgerald, Duke Ellington e Count Basie. Ma non solo. La prosperità di questo piccolo miracolo afro-americano conta su ospedali, farmacie, studi professionali, scuole, alberghi di lusso famosi in tutto il mondo, come il Gotham Hotel, il primo hotel stellato gestito e dedicato a clientela afro-americana. In una piccola chiesa in fondo ad Hastings Street c’è poi un reverendo con una voce portentosa i cui sermoni, in un misto di recitativo e canto, accusano la discriminazione contro i neri da parte del potente sindacato automobilistico cittadino: si tratta del reverendo Clarence Franklin, e se avete la pazienza di aspettare la fine del sermone – tra quelli oggi raccolti in formato audio presso la Libreria del Congresso Americano -, potrete udire il gospel intonato dalla magnifica e sensuale voce di sua figlia, Aretha Franklin, la futura regina della soul music. Qui intorno, tra i tombini di Black Bottom, si dice che sia nato quel suono a metà tra gospel e pop che conquisterà le discoteche di tutto il mondo grazie ad una etichetta indipendente che ha sede in West Grand Boulevard, la Motown. Creata nel 1959 da un geniale produttore afro-americano, Berry Goddy, l’etichetta in pochi anni produce locali artisti quali Diana Ross, the Supremes, Stevie Wonder, the Temptations, Marvin Gaye, the Marvelettes, e molti altri ancora.

Mother, mother

There’s too many of you crying

Brother, brother, brother

There’s far too many of you dying

You know we’ve got to find a way

To bring some lovin’ here today, eh eh

(Madre, madre

Ci sono troppe di voi che piangono

Fratello, fratello, fratello,

Ci sono troppi di voi che muoiono

Sai che dobbiamo trovare il modo

Per portare un po di amore qui oggi…)

In un certo senso, Alberto Ronchey ha ragione. A vederla da fuori, da bianco, che non ha mai ragionato o fatto caso ai propri privilegi, la città doveva sembrare un’isola felice per gli afro-americani, o per lo meno per una sparuta parte di loro. Ma allora perché Rosa Parks, la leggendaria attivista che, con il suo boicottaggio degli autobus segregazionisti di Montgomery nel 1955, aveva dato il via alla stagione della lotta per i diritti civili, trasferitasi a Detroit nel 1957, descrive la città come l’ultimo avamposto del Sud ultra-razzista?

Alla fine degli anni ‘50, le Big Three sono in crisi: dopo decenni di dominio del settore, registrano per la prima volta una diminuzione di vendite a discapito dell’emergente industria automobilistica europea ed asiatica. Gli amministratori decidono di spostare la produzione nel Sud degli Stati Uniti, in Canada e Messico, di chiudere gli impianti nell’area urbana e di trasferirli in periferia. 150 mila persone perdono il posto di lavoro. Non è certo la popolazione bianca la più colpita: la percentuale di disoccupazione tra gli afro-americani sale al 15.9%, nel resto della popolazione si attesta intorno al 6%. Il sindaco Cavanagh ha, inoltre, un piano preciso per evitare la fuga della popolazione bianca dalla città: la giunta comunale ordina un’ispezione di Black Bottom e Paradise Valley, fa classificare l’area come degradata – “slums”, come li chiama Ronchey, per intenderci -, ed in virtù di un decreto governativo che permette la sostituzione di aree impoverite con progetti autostradali, procede alla demolizione dell’intera zona ed alla sostituzione con aree residenziali con entrate ed uscite preferenziali sull’autostrada che conduce direttamente ai 25 nuovi stabilimenti aperti in periferia. Alla fine del 1964, 2800 sono gli edifici spazzati via nei quartieri di Black Bottom e Paradise Valley. Uno dei primi è il Gotham, che viene chiuso dopo una retata della polizia. Parte restante dell’area viene trasformata nel moderno e facoltoso Lafayette Park Residence. I mutui per i nuovissimi appartamenti vengono assegnati in base alla classificazione del quartiere residenziale di provenienza: la comunità afro-americana, che aveva popolato queste strade fino a qualche giorno prima, viene quindi relegata in palazzine-ghetto, i famosi “projects”, a nord, lungo la 12esima strada.

  1. VIOLENZA AL CONTRARIO

È il 14 febbraio 1965 ed un uomo alto, con lo sguardo stanco, sale sul palco del Ford Auditorium. L’uomo è cresciuto non molto lontano da qui, a Lansing. Suo padre, Earl Little, è stato ucciso dai militanti della Black Legion, un gruppo suprematista bianco, quando aveva solo 6 anni. Quell’esperienza traumatica ha contribuito a renderlo l’uomo che è ora, e che il mondo intero conosce come Malcolm X. Indossa una giacca stropicciata: “Innanzitutto vorrei chiarire di essere molto felice di essere qui, questa sera, a Detroit.” Non si tratta di nostalgia. “Ieri sera mi trovavo in una casa, la mia casa, ad Harlem, New York, quando è stata fatta saltare con dell’esplosivo. Questa roba che indosso è l’unica che ho potuto tirare assieme prima di mettermi in salvo.”

Malcolm è appena tornato dall’Africa e dal Medio Oriente, dove ha conosciuto un mondo diverso da quello in cui è cresciuto: “In Asia, o nei Paesi Arabi, oppure in Africa, se trovate qualcuno che asserisce di essere bianco, tutto ciò che sta facendo è usare un aggettivo per descrivere qualche cosa che è accidentale, una caratteristica casuale; niente altro, è semplicemente bianco. Ma quando vi confrontate con l’uomo bianco qui in America, e vi rinfaccia di essere bianco, egli intende qualche cosa d’altro. Potete sentire il suono della sua voce: quando asserisce di essere bianco, intende dire che è il capo. (…) Ora, la stampa, in risposta alla nostra auto-difesa contro una società ed un governo che ci opprime, ci chiama razzisti e persone con un’attitudine alla “violenza al contrario.” Questo è il modo in cui si prendono gioco di voi. Vi fanno credere che se provate a fermare il Ku Klux Klan dal linciarvi, allora praticate una sorta di “violenza al contrario”. Pensateci bene: ho sentito parecchi di voi spappagallare ciò che l’uomo bianco vi ha detto. Vi ho sentito ripetere, “non voglio essere una sorta di Klux Klan al contrario.” Vedete, l’uomo bianco sta usando uno dei suoi trucchi su di voi. E, nel frattempo, senza che ve ne accorgiate, continua ad indossare la divisa del Ku Klux Klan ed a scorrazzare per la campagna spaventando i neri. Ora, io vi dico, è arrivato il momento per la gente nera di riunirsi ed organizzare quel tipo di azione, quella unità, che è necessaria per strappare il cappuccio bianco da questi individui! Solo così la smetteranno di spaventare la gente nera. Badate, è proprio questo quello che vi sto dicendo ora. Ma quando noi sosteniamo questi concetti, la stampa ci chiama “razzisti al contrario.”

Annotazione storica, questo è l’ultimo discorso pubblico di Malcolm X; 21 proiettili gli perforeranno il petto una settimana dopo, il 21 febbraio 1965, presso l’Audubon Ballroom di Harlem, New York.

La Stampa, 24-25 luglio 1967: “Una rivolta di n- di straordinaria violenza è scoppiata a Detroit (nel Michigan), la quinta città in ordine d’importanza qui negli Stati Uniti, con oltre due milioni di abitanti, di cui il 30% di colore. Incendi, devastazioni, saccheggi e violenze di ogni genere sono continuati fino a questa sera. (…) Poliziotti e soldati hanno arrestato più di milleduecento persone. La lotta più dura è quella contro i cecchini n- appostati sui tetti delle case. (…) Il governatore del Michigan George Romney ha telegrafato al presidente Johnson sollecitando l’invio di truppe federali.”

Annotate, “cecchini n-”, ne sentiremo parlare più avanti.

Non è ancora sorto il sole quando, la domenica mattina del 23 luglio 1967, in un locale sulla 12esima strada, si sta festeggiando il ritorno a casa di due reduci della guerra del Vietnam. La polizia irrompe ed arresta tutti gli 82 afro-americani presenti. Fuori dal locale montano le proteste. Quando i poliziotti cominciano a caricare gli arrestati sulle camionette, comincia a volare di tutto; lattine, sassi, sedie. Dall’altra parte della strada vengono incendiati due cassonetti. Le forze dell’ordine circondano il quartiere, ma alcuni residenti riescono a sfondare il blocco. Le proteste si espandono a macchia d’olio per tutta la città.

Il secondo giorno della rivolta, Isiah McKinnon, uno dei 40 afro-americani tra i 4000 poliziotti in servizio a Detroit, sta tornando a casa dopo 16 ore di pattugliamento per le strade. Ha ancora la divisa addosso. Lo ferma una pattuglia di colleghi bianchi: “Where are you going, n-? Dove stai andando, n-?” gli urla il collega. McKinnon fa vedere il distintivo, pensa ad uno scherzo. L’ufficiale gli punta la pistola in faccia, a denti stretti: “Questa notte morirai, n-!” Sta per premere il grilletto, McKinnon d’istinto si getta in macchina, aziona il motore d’accensione, sgomma via, mentre i “colleghi” gli sparano addosso. Appena arrivato a casa, chiama il proprio superiore, che lo esorta ad andare a letto, di dormirci sopra: nessun provvedimento verrà mai presa contro i responsabili.

Corriere d’Informazione (sussidiario del Corriere della Sera), 28 luglio 1967. “Difficilmente la rivolta si acquieterà con la fine dell’estate. Il “POTERE NERO”, secondo alcuni osservatori, sognerebbe una guerra civile, lunga e disperata, senza esclusione di colpi. I leaders dell’ESTREMISMO N-, che PREDICANO L’ODIO E LA CACCIA AL BIANCO, coverebbero un piano che prevede il crollo dell’economia e delle attività del “potere bianco”, e la creazione di una società di 22 milioni di N-, separata dal resto della nazione americana, anzi in lotta con essa.(…) L’opinione mondiale è profondamente turbata per gli eccessi che sconvolgono l’America e guarda ai giorni ed alle notti dell’ira di Detroit, di Chicago, di Nuova York, con la convinzione che il problema riguarda tutti coloro che si preoccupano per un avvenire ORDINATO e GIUSTO dell’umanità, di CONVIVENZA LEALE fra i popoli e le razze. Addolora che una prova tanto amara divida sanguinosamente una grande nazione come quella americana, che ha un così vivo e concreto sentimento della libertà.”

Nel distretto di Virginia Park, la sera del 25 luglio, alcuni poliziotti e militari sentono degli spari provenire dal vicino hotel Algeri, di proprietà dei due afro-americani Sam Gant e McUrant Pye. L’hotel si trova a due passi dall’allora quartiere della General Motors ed è spesso frequentato dall’esecutivo e dai clienti dell’azienda. I militari credono che si tratti di “CECCHINI N-”; circondano l’hotel, notano delle ombre ad una finestra. All’interno i pochi ospiti rimasti, dieci afro-americani e due donne bianche, rifugiati nell’hotel in attesa della fine delle proteste, stanno ascoltando della musica. Motown music, ovviamente. Larry Reed, 19 anni, e Roderick Davis, 21 anni, sono membri della leggendaria band The Dramatics, che proprio all’Algeri si è esibita qualche sera prima. Fred Temple, 18 anni, fa parte dell’entourage del gruppo.

“I wanna go outside in the rain

It may sound crazy

but I wanna go outside in the rain.

Once the rain starts fallin’

On my face

You won’t see

A single trace”

(Voglio uscire sotto la pioggia

Ti sembrerà stupido

Ma voglio uscire sotto la pioggia.

Quando la pioggia comincerà a cadere,

Sulla mia faccia,

Non vedrai più

Alcuna traccia.)

I militari sparano alla finestra, poi, in coordinamento con la polizia, fanno irruzione nell’albergo. Carl Cooper, 17 anni, è freddato sul colpo. Legittima difesa. Il resto degli occupanti viene radunato al primo piano, messo in fila e preso a calci e pugni, a turno, da ogni militare e poliziotto presente. Alle due donne bianche, Juli Hysell e Karen Malloy, 18 anni, vengono strappati i vestiti di dosso ed apostrofate come “niggers lovers, amanti di n-.” Ai prigionieri maschi viene ordinato di mettersi in ginocchio, un coltello è appoggiato sul pavimento di fronte e vengono indotti ad afferrarlo, così possono essere uccisi per legittima difesa. Non è ben chiaro ciò che avviene poi. Aubrey Pollard, 19 anni, viene portato nella camera A-3 ed ucciso dall’agente Rodney August. Legittima Difesa. Stessa sorte per Fred Temple, ucciso dall’agente Robert Paille. Legittima difesa. I prigionieri rimasti vengono liberati con la promessa che se faranno ritorno verranno freddati con un proiettile in testa. Poi anche gli ufficiali se ne vanno, senza fare alcun rapporto sull’accaduto. I cadaveri vengono scoperti due giorni dopo per caso.

Il 28 luglio la rivolta è sedata: il conto è di 43 morti, di cui 33 afro-americani, 7000 persone arrestate, 1000 edifici bruciati.

[parte 2 di 4 – segue]   Leggi tutte le 4 parti:

The clutch – canestri e razzismo sotto pressione (1/4)

The clutch – canestri e razzismo sotto pressione (2/4)

The clutch – canestri e razzismo sotto pressione (3/4)

The clutch – canestri e razzismo sotto pressione (4/4)

immagine via Wikimedia Commons

La caverna non è una muta

4
India. 2007.

di Mariasole Ariot  

O dovremo obbedire, e cavalcare con te fra gli annegati
Dylan Thomas

 

 
 

Cui Cesar – Preludes – Moderato assai “

 

Al mattino fuoriesce un verme dalla bocca, annodato dalla notte che è di ottone, una tomba annuncia il sangue del mattino, mi sputa nella gola un meccanismo artefatto di parole, quando non sappiamo dirci e il corpo disfa per una comunicazione interna, fondersi con l’altro, diffondersi nell’aria, e i vermi escono, uno a uno, annunciano un giorno malato, le cecità mortali delle grotte e delle gole

 

Il grembo della madre è una caverna

 

Un cordone ombelicale carezza l’animale, e gli animali non portano ginocchia con cui inginocchiarsi, pregano ferite suturate attorno al collo, la dolcezza falsa della polvere di millenni caduti addosso, l’umano con le ghirlande al collo che dimentica i fiumi e i fumi con cui è nato, tornato sempre all’origine del male, masticando un alone sulle teste rapate dei baci, quando siamo accorti e ci preghiamo di non fare, e preghiamo: non urlare l’inverno sotto la sabbia

 

Post in translation: The City Next Door

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Nota dell’autore

Rua Breathnach

The City Next Door esplora una parte di Bruxelles poco rappresentata in letteratura: Molenbeek, quartiere proletario e di immigrati.

Rispecchiando la ricchezza linguistica della città, ognuna delle dieci sezioni del poema è tradotta in una lingua diversa: irlandese, neerlandese, brusseleir (dialetto di Bruxelles), turco, lingala, tedesco, italiano, rumeno, greco e francese. Le traduzioni sono pubblicate a fronte del testo originale.

Questa scelta poliglotta s’intreccia a uno dei temi pricipali del poema: il desiderio di scoprire una città più aperta dietro le barriere che separano persone, comunità e quartieri.

THE CITY NEXT DOOR

I

The city of incredible crumbling façades The shining new city

The same old dilapidated faces

The city that welcomes you into her arms Spurns you and spits you out

The indifferent city

The city that leaves nobody indifferent The city of tenements

Gated communities Bleak prospects Endless opportunities

The grey city where even a patch of grass is hard to find The city of canal boats

Piles of scrap metal, gravel, and sand The whirr of the cement grinder Grinding out cities

 

 

 

I

Cathair na n-aghaidheanna dochreidte is iad ag sceitheadh An chathair nua lonrach seo

Na seanphusanna scriosta céanna

An chathair a deir, ‘Chugam aniar thú!’

A dhiúltaíonn duit is a chaitheann amach as a béal thú

An chathair nach bhfuil éinne ar nós cuma liom ina taobh Cathair na dtionóntán

Na bpobal geataithe Droch-bhail ar chúrsaí

Féidearthachtaí gan áireamh

Cathair liath is an brobh féir ar a sheachaint inti Cathair na mbád canála

Dramh-mhiotal ina charn, gairbhéal, is gaineamh Seabhrán ón meascóir stroighne

agus cathracha á mbrú amach aige

[ irlandais : ROSENSTOCK Gabriel ]

*

IV

The city of parallel universes Coughing heat pipes Encrusted sewer pipes Noises inside the walls

Of life going on all around

The city smudged in a layer of dirt The city covered in a layer of rust The oxidizing city

The oxygen in our blood cells The layers of meaning

The city you can never sum up The city you could never leave The city where you ended up

Where men sit on terraces drinking tea and facing the street The internal city of housewives, semiliterate women Washing and ironing clothes, taking short trips to the shops,

Feeding and changing babies, pottering around blazing kitchens The city beyond one’s horizons

Beyond the reach of any one mind The city composed of minds

The minds trying to impose themselves on the city The vain city, the city that gets too big for its boots The city that risks becoming a caricature

Trapped inside the image of itself This is not that kind of city

The down-to-earth city The down-at-the-heel city

 

This is the city that surprises you constantly

Just when you thought there was nothing else to learn

 

 

IV

Paralel evrenlerin şehri Öksüren ısı borularının

Kabuk tutmuş lağım borularının kenti Duvarlar içindeki sesler

Dört tarafta süregelen hayatın sesi Bir kir tabakasında kirlenmiş şehir Bir pas tabakasıyla kaplanmış kent Oksitleyici şehir

Kan hücrelerimizdeki oksijen Anlamın katmanları işte

Asla özetleyemeyeceğin kent

Asla terk edemediğin Nihayete erdiğin şehir

Adamların teraslarda çay içerek oturduğu ve caddeye baktıkları

İç şehri ev hanımlarının, yarı eğitimli kadınların

Çamaşır yıkayan ve ütüleyen, dükkanlara çıkan kısa gezintiye Bebekleri doyurup altını değiştiren, uğraşan alevli mutfaklarda Ufuklarının ötesindeki kent

Her aklın uzağındaki Zihinlerden oluşan şehir

Kendilerini kente kabul ettirmeye çalışan zihinlerden Nafile şehir, kendini bir şey sanan şehir

Bir karikatüre dönüşme tehlikesine düşen şehir Kendi görüntüsünde kapana kısılan

 

Öyle bir şehir değildir ya bu Gerçekçi kent

Pejmürde şehir

Tam da başka öğrenecek bir şey yok diye düşündüğünde Bu şehirdir ikide bir seni şaşırtan

 

[ turc : YALÇINKAYA Ahmet ]

*

VII

The city outside the window:

Slices of watermelon on display in a crate on the pavement. First melon of the season. A group of men huddled around it on a hot day, the shop-owner dealing out slices. Buckets of olives drowned in olive oil, wrinkled Medjoul dates at 50 cents apiece, buzzing with flies. Toilet paper and nappies piled up under fluorescent lights. All the stuff necessary for a comfortable life with no frills.

The city where the planes fly low The thundering atmosphere

A panorama of the city

The city’s glowing embers seen from the sky The eternal city

The city as a wellhead of stories These stories imagined from above

Each one of the spoken streets containing Life and dreams and consciousness

The people of the city as actors The façades of the city as décor

The violent city just beneath the surface:

The night of the raids, packing a bag and being ready to leave If things get too hot. The neighbourhood cordoned off,

A helicopter hovering. Blackout. In the thick of it. Rubbish blowing down the empty streets.

The city that can turn on you The city as a point of tension

Running feet, hollow-sounding on the pavement The crowd of onlookers milling about Agonising

The men at the café muttering The ambulance paralysed in traffic The city of near misses

 

 

Horrific injuries

The man on the cherry picker whose arm is crushed The high-pitched yelping

The way your mind concentrates on that one sound And filters out the rest

 

VII

La città oltre la finestra:

Fette di anguria esposte in una cassetta sull’asfalto. La prima anguria della stagione. Un gruppo di uomini stretti intorno in una giornata calda, il negoziante distribuisce fette. Secchielli di olive affogate in olio d’oliva, grinzosi datteri Medjoul a cinquanta centesimi l’uno, ronzanti di mosche. Carta igienica e pannolini impilati sotto i neon. Tutto il necessario per una vita comoda e senza fronzoli.

La città dove gli aerei volano basso L’atmosfera tonante

Un panorama della città

I tizzoni ardenti della città visti dal cielo La città eterna

La città come fonte di storie Queste storie immaginate dall’alto

Ciascuna delle strade parlate racchiude Vita e sogni e coscienza

Gli abitanti della città come attori

Le facciate della città come scenografia

La città violenta appena sotto la superficie:

La notte delle retate, riempire una borsa ed esser pronti a scappare Se le cose buttano male. Il quartiere transennato,

Un elicottero in cielo. Oscuramento. Totalmente dentro. Rifiuti che volano lungo le strade vuote.

La città che può rivoltarsi contro

 

La città come punto di tensione

Passi di corsa risuonano sordi sull’asfalto La folla di astanti brulica

Angosciata

Gli uomini al bar mormorano L’ambulanza bloccata nel traffico La città delle tragedie sfiorate Ferite orribili

L’uomo sulla gru a cestello con il braccio maciullato Le grida acute

Il modo in cui la mente si concentra su quell’unico suono Tagliando fuori il resto

 

[ italien : SPINELLI Francesca ]

pezzo yule

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Mots-clés__Motivetto

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Motivetto
di Oriana Scarpati

Gino Paoli, Senza fine -> play

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Da Dino Buzzati, “Le precauzioni inutili”, in Id., Sessanta racconti, Mondadori, Milano, 1958

Ora che lui è partito, e non si farà vivo più, scomparso, cancellato via dal quadrante della vita esattamente come se fosse morto, a lei, Irene, non resta che armarsi di tutto il coraggio che una donna può chiedere a Dio e sradicare tutti i rami per cui quello sfortunato amore si è attaccato alle sue viscere. È sempre stata una ragazza forte, Irene, questa volta non sarà da meno.
È fatto! Meno tremendo di quanto lei pensasse; e meno lungo. Non sono passati neanche quattro mesi, ed eccola completamente liberata. Un poco più magra, più pallida, più diafana, però leggera, col languore soave della convalescenza dentro cui già palpitano vaghe illusioni nuove. Oh è stata brava, eroica è stata, ha saputo essere crudele con se stessa, ha respinto con accanimento tutte le lusinghe dei ricordi, ai quali sarebbe stato pur dolce abbandonarsi. Distruggere tutto ciò che di lui restava nelle sue mani, fosse pure uno spillo, bruciare le lettere e le foto, buttar via i vestiti indossati quando c’era lui, sui quali forse gli sguardi suoi avevano lasciato una traccia impalpabile, sbarazzarsi dei libri che anch’egli aveva letto e la comune conoscenza stabiliva una complicità segreta, vendere il cane che ormai aveva imparato a riconoscerlo e gli correva incontro al cancello del giardino, abbandonare le amicizie che erano appartenute a entrambi, cambiare perfino casa perché a quel camino lui una sera si era appoggiato con un gomito, perché un mattino quella porta si era aperta, e dietro era apparso lui, perché il campanello della porta continuava a dare lo stesso suono di quando lui veniva, e in ogni stanza le sembrava così di riconoscere una misteriosa impronta. Ancora: abituarsi a pensare ad altre cose, gettarsi in un lavoro massacrante per cui di sera, quando il pericolo si ridestava più insidioso, un sonno di pietra la atterrasse, conoscere nuove persone, frequentare nuovi ambienti, cambiare anche il colore dei capelli.
Tutto questo lei è riuscita a fare, con impegno disperato, non lasciando sguarnito un angolo, una fessura, da cui il ricordo potesse farsi strada. L’ha fatto. Ed è stata guarita. Ora è mattino, con un bel vestito azzurro che la sarta le ha appena mandato, Irene sta per uscire di casa. Fuori c’è il sole. Lei si sente sana, giovane, tutta lavata dentro, fresca come quando aveva sedici anni. Felice addirittura? Quasi.
Ma da una casa vicina viene una breve onda di suono. Qualcuno ha la radio accesa o fa andare il grammofono, e una finestra è stata aperta. Aperta e poi subito chiusa.
È bastato. Sei o sette note, non di più, la sigla di un vecchio motivo, la sua canzone.

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[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. Ogni prima domenica del mese, Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]

Francesca Marica – Concordanze e approssimazioni -con una nota di Bruno di Pietro

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La storia si ripete e lascia andare.
Non trattiene perché quella è la vittoria
incisa tra lo scheletro e il cielo
dove neanche tu sai, neanche tu puoi.
Bisogna camminare accanto per capire.
Come la parte migliore,
la forma assoluta e vicino allo zero,
un’isola che non è gelo ma nube,
la possibilità di una danza tra i larici ingialliti.

L’inverno è spostare il bianco con la mano,
per andare giù nel profondo, con le dita.

* * *

Tra le clavicole,
la casa rifugio di ieri,
con la terra nella bocca e le braccia sospese.
Non è più tempo e le nostre parole
finiranno, finiranno a breve.
Ci guarderemo da lontano,
come si guardano le cose che ci hanno attraversato
senza lasciare un segno.
Ma poi bisognerà alzarle le braccia,
alzarle in sengo di resa, anche dopo.
Alzarle in modo visibile che non resti dubbio.

Stesi sotto il peso dei corpi di poca importanza,
rimpiangeremo il rosso intorno>:
urlerà la sera dentro le forme e saranno incompiute.

* * *

Basterebbe il silenzio rotto della sera,
la materna pazienza dell’acqua,
una veglia che tenga a riparo le polveri.

Non è una terra straniera
quella che ti asciuga gli occhi
nell’istante della confessione che cade
e non c’è rumore che sappia farsi sordo
intorno a questa stanza senza più illusione.

Riparo lo spazio con la calma della parola,
maneggio gli eventi con cura.

* * *

C’è il morso della sera
dentro ai giorni in cui si compie l’anno
ed è una marcia di ritorni.
Non conosco l’ordine delle mani
il loro tentativo di esistere.
Si può spiegare tutto
anche l’approssimarsi di una bocca
il suo preciso mormorare
con i sensi in caduta intorno.

Tutto chiaro mentre sale.
Ma domani non sarà più qui
e ci vergogneremo dell’attesa.

Batterà la testa sul tempo un poco mosso
batterà la lingua. Tutto previsto, senza sosta,
senza sapere dove.

* * *

Disimparare il buio per colpa della luce
è l’istinto di precauzione a suggerire
il tratto dove andare ma la memoria trema
e un passo avanti l’altro
segna il respiro da ascoltare.

L’impronta della nascita che si fa umana
a ogni strappo
mentre intorno si continua a dire
noi ci siamo, noi siamo qui.
Quasi fosse la prima volta.
Quasi qualcuno potesse rispondere.

* * *

Avevano perso attrito le parole
era il tempo del loro scivolare.
Come quella mattina a piede a Rue Polonceau
dove gli orli si erano fatti casa,
rifugio in un modo di là fuori.

Dici che stai, che ti fermi,
non importa di avere ragione.
Hai sembianze di animale.

I luoghi come le persone sono un odore,
da dire, forse quasi, esattamente.

* * *

Come sempre è restare
tra gli spazi risparmiati dal silenzio.
Bisogna essere fatti per la luce
esserne in qualche modo imparentati.
Tu mi raccomandavi di spezzare il ritmo,
abbandonarmi in una corsa verticale
confinando la prudenza un passo indietro.
Abbandonati dicevi, Abbandonati e poi vai.

Io pensavo alla metafora della polvere,
alla misura esatta della presa.

____________________________

Nota di Bruno Di Pietro

Ciò che subito si manifesta, nella scrittura poetica di Francesca Marica, è l’esaltazione del visibile di tutto ciò che è generato (“natura” o physis). La visibilità sembra quasi vi prevalga sulla parola. Il seme vitale della verità è il vivente, il colore, lo scambio e la fusione di tutte le elementarità naturali, che segna così l’ingresso di Eros. Lo stupore, il corpo, l’amore vi si ritrovano vincolati in semplici tracce o spie morfologiche nella trama della scrittura.

È come se in questi versi al poeta fosse stata data parola dal creato, ma in una prevalente assenza del soggetto. Tuttavia il sacrificio del soggetto, il suo non essere sempre vigile, resta solo presunto, come la semplice apparente indifferenza nello svelare al lettore la meccanica della natura oggettiva. L’assorbimento avviene attraverso l’espediente del colore, nei giochi interni ed impercettibili di scansioni cromatiche con una sintassi senza vuoti o angoli di privato consumo. Il soggetto poetico risulta non perduto per mezzo di una identificazione esatta dell’essere con una sorta di “mondità” intesa non come categoria in senso ontologico ma come dimensione esistenziale del/nel mondo. In tale dimensione, il rapporto di prossimità della materia fatta essa stessa visibile avviene nella assenza di compromissione ed è rivelazione percepita con stupore dell’autonomia dell’oggetto, e il mondo funziona e vibra di una pulsione erotica in un paesaggio abbagliato, affamato di sale.

Molteplici sono i livelli del libro e le chiavi di lettura per entrarvi; crediamo tuttavia che la chiave giusta per appropriarsi dell’interezza dell’opera, sia quella dell’eros, che si sottrae alla trappola tripartita del tempo, mettendo in mora e in fuga Khronos, per rintracciare una sorta di sincronicità nella bellezza del mondo, nella sua esperienza visibile e vivibile qui ed ora.

L’indagine poetica di Francesca Marica verte sul paradosso del vivente nel suo proprio, indipendente da chi osserva. La singolarità del vivente è qui tutta nel suo “giacere nel mondo”, non nell’ “essere-gettati-nel mondo”, che postula poi un ancoraggio a un fondamento e alla fine, se si vuole, si risolve o si rifugia nel sacro. Assistiamo in questi versi a una ricerca della fisica dell’origine, di cui è essenziale momento il colore.

Fondale di tutto il libro è il bianco: il bianco della neve: L’inverno è spostare il bianco con la mano,/ per andare giù nel profondo, con le dita.” (pag.19). “È la neve che misura. È la neve la salvezza degli invisibili./ Un legame di piccole mani bianche.”(pag.22). Un diverso connotato simbolico porta con sé la matrice chimica della neve, l’ acqua: “Sapevamo di terra e di pioggia/ con l’istinto del lupo/a farci bambine selvatiche…/ C’era il balzo della vita a divorarci/ e l’aria che in faccia scendeva/ a imitare il gesto dell’acqua.” (pag.26) Si definisce così, in questi testi, un sistema di coordinate visive e materiali: “neve” > “acqua”- “bianco” > “nero” Ma da dove emerge il nero?

Questo riferirsi ai colori e ai chiaroscuri come struttura dell’esperienza richiama la visione di Empedocle, di colui che prova a conciliare la fissità dell’essere di Parmenide con il divenire e la dialettica di Eraclito, immaginando un ingresso del “plurale” e del “complesso” nella mescolanza armonica degli elementi. Di Empedocle ci interessa in particolare un aforisma, che rivela il suo pensiero sulla natura del colore: si tratta del frammento 71 DK , dove si afferma la relazione tra gli elementi che formano le cose e i colori delle cose stesse. In particolare, due dei quattro elementi fondamentali, il fuoco e l’acqua, sono colorati. Il colore del fuoco è il bianco/chiaro, il colore dell’acqua è il nero/scuro. Il sole è fuoco e produce la luce che è chiara, dunque al fuoco è assegnato il bianco. La pioggia, invece, è acqua, ed è presentata come scura, dunque all’acqua è assegnato il nero. Così, per esempio, l’arcobaleno, che è formato dalla luce del sole e dall’acqua della pioggia, è il risultato della combinazione di fuoco e di acqua, e dunque di bianco/chiaro e di nero/scuro.

Come Empedocle collega la trama dei colori alla sostanza dell’esperienza, così Francesca Marica, fin dall’incipit del suo libro, ci dice che non esiste una substantia ma solo i modi, le maniere di apparire, e che la realtà si dà in superficie, nell’apparizione di attimi irripetibili, ciascuno dei quali è uno scarto qualitativo non quantitativo di una “infinita complessità”. Una complessità che si può intuire d’improvviso, in un intravedimento della “bellezza del vivente”. In particoare il frammento 71DK di Empedocle fornisce un ulteriore spunto di analogia con la poesia della Marica, nel momento in cui precisa che “le forme e i colori dei mortali, così numerose quante ora, sono generate da Afrodite congiunte…” Eros (figlio di Afrodite) è principio generatore della pluralità”, quindi della alterità”. Questo è il senso della presenza dell’eros in Francesca Marica. Questo è fra l’altro il senso del distico di pag. 19, che abbiamo poco fa citato. L’inverno (il solstizio, i riti dell’albero e della vegetazione) consiste nello spostare il bianco (la neve, la coltre del gelo) con la mano “per andare giù nel profondo”: per cercare il germoglio, il seme che si fa vita, che “si apre” per dare vita. E questa ricerca nel profondo è fatta con le dita”, con allusione latente ai rituali arcaici di deflorazione della sposa (se ne veda la descrizione nel Trattato di storia delle religioni di Mircea Eliade).

L’intero libro si inizia con una iniziazione sessuale: così a pag.20 “Qualcosa fiorisce anche dentro un taglio” (il “solco” che è l’organo genitale femminile); e ancora “la pancia di piccole finestre feritoie” (pag.21); e ancora L’ “abbandono” associato alla “presa” (pag.23) e l’incompiutezza del “rimpiangeremo il rosso intorno” (l’istante della deflorazione), o dell’essere “stesi sotto il peso dei corpi di poca importanza” (pag.34); e più avanti, nella seconda sezione del libro: “Non basta l’ostinazione di un osso/che scalpita e poi esplode/ entro una fessura pronta ad ospitare” (pag.51). In tale contesto “l’acqua” (pag.26) e il “nero” iniziano la mescolanza di tutte le cose, in modo che possa arrivare “il lusso anche di amare” (pag.35) e s sente forte l’invocazione di un Eros riparatore. Non è la parola a riparare, ma Eros che mescola il bianco e il nero e genera la pluralità dei colori e del possibile, in una potente fisicità gettata nella scrittura: una fisicità” coniugata con l’alterità: “Dobbiamo raccontarci le vite precedenti/ e dirci che mancano le cose viste insieme “(pag. 79).

In questo spettro immaginativo, la Terra (il bianco) è sì madre, ma anche “grembo”, non solo materno (che contiene) ma anche matrice che si apre e accoglie. A chiarire l’essenza di questa componente erotica intervengono le nozioni di “animale” / “animalità” che sono coessenziali a Eros nello svolgersi dello scritto. Certo, la categoria dell’“animale” è una delle più maltrattate nella storia della filosofia occidentale. La filosofia occidentale pone la differenza tra uomo e animale come per legittimare la prevaricazione – violenta e spietata – dell’uomo sull’animale stesso -si pensi a come Adorno, nella Dialettica dell’Illuminismo, scriva che l’idea dell’uomo, nella storia europea, trova espressione nella distinzione dall’animale. Con l’irragionevolezza dell’animale si dimostra la dignità dell’uomo”. Per contrario, nella poesia di Francesca Marica “l’animalità” è invece categoria essenziale del tutto ed è connessa all’esperienza dell’alterità, e si potrebbe citare qui, a chiarimento il Derrida che a pag. 71 de L’animale che dunque sono, scrive: L’animale, che parola! L’animale è una parola che gli uomini si sono arrogati il diritto di dare. […] Si sono dati la parola per raggruppare un gran numero di viventi sotto un solo concetto: l’Animale, dicono loro. E si sono dati questa parola, accordandosi nello stesso tempo tra loro per riservare a se stessi il diritto alla parola, al nome, al verbo, all’attributo, al linguaggio delle parole e in breve a tutto ciò di cui sono privi gli altri in questione, quelli che vengono raggruppati nel gran territorio della bestia: l’Animale”.

L’animale nella sua insidiosa prossimità è in effetti il rimosso, il perturbante. All’istituzione del primato antropologico corrisponde il vilipendio animale. Per converso, nelle parole di Francesca, è centrale l’immedesimazione con la maschera figurale del lupo: si pensi ai versi già citati di pag. 26, che qui riprendiamo: “Sapevamo di terra e di pioggia/ con l’istinto del lupo/ a farci bambine selvatiche.” L’autrice assegna a se stessa (e nel plurale forse a una generazione di donne) “l’istinto del lupo”. Giorgio Agamben in Homo sacer (pag. 117) rileva la prossimità del bandito (colui che è messo al bando) con il lupo, la bestia, da cui la figura dell’uomo-lupo o lupo mannaro come “un ibrido mostro tra l’umano e il ferino, diviso tra la selva e la città –il lupo mannaro – è dunque , in origine la figura di colui che è stato bandito dalla comunitàSituandosi così in una zona di indifferenza (che è poi il regno del sacro, di ciò che può essere sacrificato) e sottraendosi alla logica dell’ inclusione/ esclusione”. Francesca Marica è dalla parte del lupo. Nello spazio del margine, del confine, negli interstizi (e forse è per questo che la terza sezione reca come titolo Interstiziale). Accantonata ogni prospettiva antropocentrica si rivela all’occhio un mondo non abitato solo da uomini, un mondo che “si offre anche agli animali, ai bambini, ai primitivi , ai folli che lo abitano a modo loro e coesistono con esso” (Merleau-Ponty Conversazioni ,Milano 2002 p. 44).

Molta importanza assume nel discorso quanto si legge a pag. 55 di Concordanze e approssimazioni: C’erano mani impegnate a scrivere lettere d’amore con minuta calligrafia./Altre mani affogavano dentro l’onda per portare a galla visi dimenticati./Poco oltre altre mani frugavano in cerca di bocche ammalate di sale./Era l’animalità dell’istinto, la preparazione di un rituale.” (pag.55) L’acqua qui si fa lago. Il lago per sua natura riceve, accoglie le acque. Le acque degli affluenti, le acque della pioggia e delle lacrime. In quel lago mani scrivono, affogano, frugano “in cerca di bocche ammalate di sale”. Viene fatto di evocare quell’idea alla base dell’alchimia secondo cui, delle tre sostanze che compongono il corpo umano, lo zolfo rappresenta l’elemento aereo, il mercurio i fluidi, il sale le parti materiali dell’essere umano. Le mani cercano bocche ammalate-vogliose, con un istinto animale, di corpi. “la preparazione di un rituale”, una seconda iniziazione sessuale.A ogni nuovo inizio/ torniamo…” (pag.85),immagine che si chiarisce nei versi a pag. 78: “È l’atto di fede di una giovane sposa/ che non conosce la parola inganno/ col sesso dato/ e la nebbia che mima un ritorno/ tra balconi che dicono la giustizia era ieri/ e luci che fanno testamento col silenzio che c’è” (pag.78)

Tutta la seconda e la terza sezione del libro dicono di un esilio. Di una prova di resistenza in attesa. E si noti che il bianco si è fatto nebbia in una attesa carica di un erotismo che si tocca, palpabile nelle parole, fino all’invito di chiusa seguito dall’affermazione “Adesso sono innocente e non più prigioniera” luogo che andrebbe letto: sono di nuovo innocente in seguito a una liberazione. Nel discorso poetico di Francesca Marica si è condotti a un ripensare la vita come alterità, animalità e autopoiesi. Delle prime due connotazioni della vita abbiamo già detto; la terza richiama le biologie della complessità della seconda metà del Novecento, ma è già latente nelle visioni filosofiche di Merleau-Ponty e di Bergson per cui la Natura è continuo rinnovamento, creazione ininterrotta, scenario dell’eteroreferenza.

Il mondo degli animali così connotato è il mondo del silenzio, dove non c’è il linguaggio che ha fondato il dominio dell’umano sull’animale. Il silenzio è l’altra chiave di lettura fondante dell’opera di Francesca Marica, che nella sua solida formazione musicale, sa quanto “la parola” sia ingombrante per la musica e che la musica “dice” senza necessità di parola. Il silenzio si esprime in uno dei versi di maggior immediatezza dell’intero libro: “basterebbe il silenzio rotto della sera” (pag.50). Tutta questa scrittura invita al silenzio: è una scrittura fatta di schegge, luccichii, brividi, pulviscoli dorati, giochi istantanei che non esprimono più un oggetto organico, ma tutt’al più generano impressioni, allusioni simboliche, coaguli di sensazioni oniriche, reminiscenze di rituali.

Il silenzio è una conquista dell’uomo. Ma poiché la parola poetica è a sua volta una conquista, il silenzio umano è una conquista su questa conquista. Il silenzio è una contemplazione clandestina che, come la notte, sospende le occupazione ciarliere del giorno, frena l’eloquenza dei retori mette la sordina agli affari umani. Il filosofo della musica Jankélévitch cita alcuni versi di C. van Lerberghe musicati da G. Fauré (op. 106) : “Je me poserai sur ton coeur/Comme le printemps sul la mer… Je me poserai sur ton coeur/ Comme l’oiseau sur la mer” [“Mi poserò sul tuo cuore/Come la primavera sul mare… Mi poserò sul tuo cuore / Come l’uccello sul mare”] e ne argomenta: “Un’ala di uccello non ha alcun peso. Un soffio di primavera non fa rumore. Questo silenzio che l’uomo al contempo regola e ricerca è un silenzio già abitato. Più il silenzio si approfondisce più noi scopriamo nuovi segreti in questa profondità elementare; nel fondo del silenzio percepiamo un ‘mormorio immenso’ ancor più silenzioso dello stesso silenzio… Le musiche della natura popolano il fantasticare del passeggiatore solitario; umili, piccole fate animano così i deserti della vita” ((Jankélévitch, Da qualche parte nell’incompiuto, Torino 2012 p. 152 s.). Queste stesse impressioni richiamano il trattamento del silenzio nel libro di Francesca Marica. La lettura di altri versi dell’autrice, al momento inediti, conferma questa stessa impressione. Fra questi, tre versi appaiono particolarmente significativi: “Saranno gli alberi il nostro aiuto alla memoria e scorrerà di nuovo l’acqua/ e scorrerà di nuovo il sale, dalla mia alla tua schiena, tra le case rosse,/ tra le ossa rotte, oltre quel confine senza più il rischio di un naufragio.

È un passo rilevante, perché chiarisce che si è alle prese con la metafora di un “essere che, come le macchie di colore di Klee, è il più vecchio di tutto e, in pari tempo ‘al primo giorno’” (Merleau-Ponty). Per Merleau-Ponty la natura è quel presentarsi sempre di nuovo di quanto c’è di più vecchio, l’origine che si configura come sempre presente; una eterna ri-creazione, un infinito ripresentarsi di un tessuto primigenio. Ne deriva “la durata” come fenomeno essenzialmente lussurioso e “culmine del possibile” (alla Bataille) del piacere e indice del fallimento di Khronos (soprattutto in un inedito dal titolo “Niente resta uguale”).

Ma meritano anche gli inediti una lettura e una meditazione a parte perché è evidente, a chi li ha appena letti, la linea evolutiva del discorso, del “senso” (“oltre quel confine senza più il rischio di un naufragio”) e della scrittura, e vanno pertanto esaminati ed analizzati in modo compiuto. A voler tirare le somme e azzardare qualche provvisoria conclusione su un’opera ancora in fase di sviluppo, si direbbe che Francesca Marica al di là di ogni dialettica o ermeneutica, guidata dalla tradizionale distinzione fra apparenza e sostanza, segno e senso, che vede negli enti una simbologia allegorica o il rinvio ad una verità trascendente, rivendica alla splendida apparenza il diritto di significare in sè. La realtà vi è tutta dispiegata nell’insistere del proprio “esserci”.

Insomma, la meraviglia di una onnipresenza simile alla magia caleidoscopica di una danza di colori affascinanti. Del resto è quanto accadeva in epoca barocca: se si concentra l’attenzione sull’effettivo movimento del reale, ci si accorge che esso – al pari dei giochi d’acqua e pirotecnici (ricordiamo tutti le stupende musiche di Haendel) – ci offre lo spettacolo di costruzioni instabili e fugaci, dicreature che appaiono e dileguano , simili a riflessi nell’acqua, miraggi, nebbie. Ma – ed è qui il punto decisivo – dietro questo gioco di forme non c’è nessuna sostanza che lo fondi, nessuna causa che lo spieghi. Esiste per se stesso. Il reale dispiega le sue forme e i colori a partire solo da sé . E proprio per ciò è mistero. Il suo fascino inquietante -ciò che può chiamarsi, senza timore di eccedere, la bellezza del vivente, la bellezza del mondo- è quel che ritroviamo gettato nei versi, talora onirici, di Francesca Marica.