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Scrivere la natura. Note su Antropologia del turchese

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Ellen Meloy

di Francesca Matteoni

Negli ultimi mesi mi sono trovata, per scelta e destino, in vari sensi spaesata, ovvero ho perso il mio luogo, anche se il luogo resta sempre là. In termini pratici ho traslocato, portandomi dietro il gatto, trasferendomi in un’abitazione situata proprio all’opposto rispetto al luogo lasciato, nella geografia della mia città. Traslocare non significa soltanto svuotare una casa e insediarsi in un’altra: significa staccarsi da una quotidianità di relazioni con esseri di varia natura, dagli umani al torrente, dagli olivi al bosco, dagli animali ai tetti che si fanno compagnia. Certo, portiamo in noi i luoghi amati. Diventano un pezzetto della carne che conosciamo come conosciamo le nostre braccia. Ma siamo lontani. Ci dobbiamo abituare alla distanza. Quando poi il trasloco avviene con un animale legato al territorio come il gatto tutto si complica. Il mio gatto non può vivere fra le mura di un appartamento. Insieme ci siamo avventurati nell’incolto attorno alla nuova casa, un passo, una zampa, una corsa nell’erba, un’intera ora separati, poi un’intera mattina, con la porta sempre aperta. Qualche difficoltà, qualche disorientamento, e poi il prevalere del gioco e della fiducia. Ecco, talvolta possiamo dire di aver stretto un legame con un luogo o con un animale quando sappiamo giocarci, quando sperimentiamo la leggerezza fino al ridicolo, quello che altri osservatori potrebbero definire follia. A volte non è la profondità dell’affetto, ma l’intensità del gioco a renderci una dimensione familiare. Accade con gli umani, con gli animali, con i luoghi. Accade che ogni stereotipo, perfino quelli positivi, di sacro terrore o rispetto, cada e cominci il dialogo di parole sciocche come di limpida intesa.

Riconosco con sollievo questa necessità di colloquiale leggerezza con quanto chiamiamo natura, nei saggi di Ellen Meloy, singolare scrittrice americana, di cui è finalmente disponibile un libro, Antropologia del turchese. Riflessioni su deserto, mare, pietra e cielo, pubblicato da Black Coffee nella traduzione di Sara Reggiani.
In “Spose fedeli”, uno dei saggi che concludono il libro, leggo:

Se c’è una cosa che mi spinge a scrivere di natura è il fatto che fin troppi suoi amanti sono talmente occupati a esprimere meraviglia o mostrarsi abbattuti dalla vittoria dell’avidità umana sulla necessità di preservarla, da esserci dimenticati che la natura sa anche essere un’inesauribile fonte di ilarità. Personalmente adoro le stravaganze, gli enigmi, i misteri, ossia la sostanza di cui è fatto il paradosso. E poi il piacere. In presenza degli ungulati mi comporto in modo insensato. Instauro un legame patologico con i colori. Gioco con la sabbia. Sono drogata del sesso fra i pioppi, dell’aspetto sadomasochistico di un Echinocerus – un cactus rivestito da una guaina di aculei coronata di vellutati fiori di un delirante rosso scarlatto – di quella solitudine che deriva dall’allontanamento dalla società, dell’esplorazione là dove gli umani scarseggiano, del concetto di umanità stesso, pur sapendo che questa esplorazione non mi condurrà a risposte definitive, che l’unica certezza che al massimo avrò sarà quella di essere sola con un branco di pecore selvatiche a farmi compagnia. E quando rido avverto il tanto temuto arrivo della follia, una sublimazione che confina col dolore. È l’equivalente di ammazzarsi dalle risate.

Dunque si può stare davanti al paesaggio senza una qualche attitudine mistico-reverenziale, che mentre l’esalta l’allontana, allargando il solco e la dicotomia fra umano e naturale, come se appunto fossimo fatti di chissà quale altra sostanza rispetto al posto in cui soggiorniamo. Lo straordinario che viene dal fuori geografico stabilisce contatti con l’ordinario dei nostri cinque sensi, cinque strumenti per comprendere, assorbire e restituire terre.

Ora mi domando se la percezione sensoriale non sia dunque l’unico mezzo di cui disponiamo per tracciare una mappa interiore del mondo. Che cosa ci dicono i sensi in certi paesaggi tanto da indurci a evitarli o a reclamarli come nostri?

E ancora:

Che siate a casa vostra o in territori ignoti non esistono guide migliori del peso dell’aria, il comportamento della luce, la forma dell’acqua. Tutto ciò che vi serve sapere riguardo a un luogo lo troverete in una pietra, una piuma, una foglia, un ciuffo di pelo, e nel modo in cui l’uomo ne ha fatto tesoro o scempio.

Questi estratti delineano lo spirito con cui attraversare il libro, collezione di saggi dove si incontrano il deserto del Sudovest americano, il fiume Colorado, le lagune dello Yucatan, questioni genealogiche alle Bahamas, storie di donne bizzarre nel deserto, animali e piante con i loro desideri, comportamenti, stranezze. Tutti gli scritti, però, ci riguardano, una volta deciso di cedere allo sguardo di Meloy, che va dall’appunto diaristico al memoriale, perché ruotano attorno al tema del qui e dell’altrove, annullando il distacco del mero osservare, e insistendo sull’abitare. Quanto e come abitiamo un posto, quanto ne siamo abitati? Come accade che una geografia ci risponda più di altre, al punto da porsi come pietra di paragone quando viaggiamo? Ogni testo sembra nascondere la domanda: perché questo ecosistema composto del vivente, delle memorie di chi ci è passato, dei richiami ad altri luoghi, ha a che fare con me? Quale scambio avviene fra noi?

Il deserto o il fiume o il colore turchese delle pietre dure divengono il nord della bussola, mentre la presenza dell’umano in loro non si attua tanto nell’esserci fisicamente immerso quanto nel sapere che esistono come esiste il corpo, fino a dimenticarcene. I saperi botanici ed etnologici dell’autrice non servono dunque per insegnare qualcosa dei paesaggi, quanto per intessersi più a fondo nell’intreccio di una realtà stratificata, dove le cose non esistono semplicemente per essere codificate, ma imparano a coabitare superando sia la visione antropocentrica che quella idealizzata e nostalgica della natura come fonte del bene sull’orlo della sparizione.

Dalla brughiera nebbiosa e aspra emerge in mio aiuto un verso di Emily Brontë: “Sono più felice quando più lontana”. Se ricomporre un paesaggio sulla pagina è un atto che avviene a distanza dall’oggetto della narrazione, è perché nella lontananza la storia acquista chiarezza, può essere custodita, dona alle parole rapidamente annotate su un taccuino lo spazio-tempo necessario per farsi vedere anche agli altri, a chi cerca le ragioni di un’erranza come di una sosta prolungata in certi luoghi. Riflettendo sul luogo ancestrale e partendo da un cestino artigianale, un’opera Yokut, gruppo etnico nativo della California centrale, ereditato dall’autrice per via matrilineare, la Meloy dice che gli Yokut “parlavano degli anni definendoli mondi”. Facciamo un salto in questo tempo-mondo. C’è un mondo nel quale il nostro corpo è piccolo, elastico, in divenire vorace, sono gli anni dell’infanzia. C’è un mondo nel quale il nostro corpo diviene una collina all’apparenza arida, rugosa, ma che sa ancora ospitare piccole vite nelle sue buche e nei suoi anfratti. È il tempo dell’anzianità. Traiamo questi mondi fuori dalla nostra immaginazione sensoriale, quando si fanno più fragili sull’orizzonte: “Forse per conoscere meglio un posto che ci è familiare, dovremmo prima estraniarcene”.

Ma quante cose possono dirsi luogo? Per esempio un colore. I nativi del Sudovest, ci racconta la scrittrice, donavano la loro pietra più preziosa, la turchese, al bene più prezioso delle loro terre, l’acqua. La pietra poteva essere lasciata presso sorgenti, polle, rivi. Blu che si riunisce al blu, un amuleto da indossare (e perdere), che ha le sfumature della vita quando corre nel rosso-arancio del deserto. Blu quale acqua e memoria familiare, come accade all’autrice rievocando l’esperienza di un campeggio in viaggio con i genitori e i fratelli da bambina, Meloy, si sofferma sul blu delle piscine nell’Ovest americano, case private, motel, su cui il padre aveva posto un divieto che ovviamente non faceva che aumentare il desiderio. Scrive:

L’Ovest è così pieno di blu da darti l’impressione di potertici tuffare, cosa che appunto da piccola avevo cercato più volte di fare. Il blu mi sembrava un bel posto in cui andare, un Paese in sé, superiore, imperturbabile, dove non eri costretto a parlare con nessuno.

In questo blu l’autrice traccia un percorso a nuoto fra la California e lo Utah, passando dalle piscine ai canyon, ricucendo la storia personale, fluida, cangiante, ritornante, alla solidità della roccia desertica, alla sabbia che riempie le orecchie durante innumerevoli notti all’aperto. Il confine fra autobiografia e descrizione naturalistica viene trasceso. Questo, a dire il vero, succede nell’esistenza di ogni camminante, che percorra valli e monti o che si limiti al solito tratto della passeggiata serale. Per scrivere del paesaggio e del luogo non ci si può semplicemente sedere e osservare. O meglio occorre osservare fino a tal punto da sparire dentro l’osservato e vedersi aprire vie impossibili che rovesciano il tempo nello spazio. Ci si può imbattere nella via del sognare, per esempio, ricordando che i Mohave,

come altre culture sorte sul fiume Colorado, tenevano in grande considerazione i sogni. Qualsiasi capacità o potere che avessero di prevedere le proprie sorti, in amore, in guerra, o nel gioco d’azzardo, venivano loro dai sogni. I sogni plasmavano la vita, e narrarli li trasformava in veri e propri viaggi. In quei viaggi il sognatore camminava verso una meta, si nutriva, si fermava a riposare, incontrava creature, vedeva luoghi importanti: il sogno dunque era una sorta di diario di viaggio del Mohave in cammino.
I sogni tramandati oralmente diventavano miti, o “canti sognati”. Il racconto poteva subire delle modifiche. Trama e tonalità erano fluide, e ben poco accadeva oltre al viaggio in sé. Per raccontare la propria storia si cantavano i nomi delle cose, le sorgenti, le rocce, le piante, gli animali, le stelle, i monti, i fiumi. Per raccontare la propria storia si metteva una cartina in musica. Si dava voce a un’area geografica.

Ripensando il valore del sogno come viaggio rivelatorio e ancora di più incantatorio: grazie al sogno siamo cantati dentro un paesaggio, che a tratti è quello quotidiano, a tratti è quello trasfigurato dalle nostre visioni più intime. Oppure, per il più banale degli incidenti che per un po’ obblighi all’immobilità, ci si può addentrare in questioni di parentela che ben oltre la linea di sangue ci legano ad altre donne, da luogo a luogo. Così, nel saggio “I jeans di Tilano”, Meloy si ritrova cucita per i capelli al tetto dalla spillatrice con cui cerca di appuntare del feltro, e coglie l’occasione per riandare con la mente alle donne ottocentesche che scelsero di traslocare nel deserto. In Australia, nel Nord Africa, in America. Abituati come siamo alla serietà e ai toni solenni quando si trattano le questioni di genere come quelle ecologiche, l’approccio può apparire singolare. Eppure non è così che avvengono le epifanie? Momenti di connessione e autenticità, mentre stavamo facendo altro, magari qualcosa di banale che non ci piace evidenziare nel nostro diario. Muovendomi verso un paesaggio a me più prossimo, Meloy è il tipo di persona che di un cammino nel bosco non viene a dirmi solo dell’assenza o presenza di tracce, della luce del crepuscolo fra i rami, ma, con la medesima passione, del terreno su cui si scivola, cadendo ridicolmente e scoprendo una tana di bestia misteriosa. Ancorata al tetto della sua casa nel deserto quindi esplora le capanne, le case, le stanze delle donne che nel deserto forgiarono se stesse.

O in “Scivolare sulla seta”, ci rende partecipi di un’avventura in kayak sul Colorado, per sapere alla fine e “all’ennesima notte sul fiume”, di non sapere nulla, di avere “l’obbligo di non lasciare questo fiume”. Di assecondarne la forma. “E forse allora imparerò qualcosa”.
Non parla in queste righe del fiume con toni diversi da quelli che useremmo trattando della nostra persona fisica e mentale, quell’essere che non possiamo abbandonare fino alla morte, se scegliamo di esistere. Per alcuni l’esistenza, con il suo caos di momenti sbagliati, bellezza e verità, parole a sproposito e silenzi ingombranti, avviene mentre il paesaggio non si limita a guardarci, ma coopera (a volte ci tollera e noi lo tolleriamo), ci mette alla prova, si stanca o si prende gioco di noi. E questo ben prima e oltre la consapevolezza.

Esco da questo libro rientrando nella mia vita spaesata. Nel suo stupore che sta nella robinia che mi impedisce il passo, mentre cerco di far coraggio al gatto ed è invece lui a confortarmi, tornando indietro ad aspettare che mi liberi. Non saremo mai amiche, dico alla robinia. Ma al tempo stesso mi attraggono le sue lunghe spine. Digito il nome di Ellen Meloy, scopro che è morta all’improvviso nel sonno, a 48 anni, nella sua casa. Chissà cosa resta di lei in quella geografia, oltre i suoi scritti, cosa resta di noi in ogni geografia cui apparteniamo. Riapro le pagine del saggio “La mia vita animale”, leggo:

Quando abbiamo costruito la casa, io e Mark abbiamo incanalato l’acqua piovana che si raccoglie sul tetto di metallo in delle tubature che riemergono ai piedi di alcuni giovani pioppi piantati in precedenza. Pioggia, neve disciolta, condensa – ogni goccia d’umidità presente sul tetto – ora scivola in canali di scolo e tubi di drenaggio, che passando sotto terra scendono a valle e forniscono acqua agli alberi. Una mattina sorprendo una volpe grigia a scavare vicino all’estremità di uno di questi dotti. Agitando le zampe come una forsennata solleva nuvole di terra rossa neanche avesse deciso di proseguire i lavori avviati dal picchio e spuntare finalmente in Cina. Nella tubatura si è acquattata una lepre dalla coda nera. La volpe è grande quasi quanto un coyote, con le zampe rosse di terra, il pelo argentato e lucido, e il lato superiore della coda bordato di nero. La osservo da tre metri di distanza e nel silenzio della lepre lei mi guarda dritto negli occhi. Pensi di restare lì impalata o mi aiuti ad acchiapparla?

Forse alla fine l’essenza di un coabitare relazionale, che sistemi le nostre fratture, ricomponga le eredità e le lasci andare, è tenere la domanda sul significato di una vita ecologica aperta, mentre un pensiero o una voce ci arriva nella testa e nello spirito. Non tormentarsi nel volere la risposta. Chiedersi piuttosto, fra lo scherzo e l’estrema serietà: “Chi ha parlato?”

La stanza

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di Isidora Tesic 

 

Avere un corpo e non sapere come portarlo. Averlo appena, usarlo come mantice. Come gregario, per rompere l’aria. Per il beneficio di chi lo segue – fosse anche l’anima. Il ragazzo ha pensato spesso di avere un’anima esterna, che lo segue arrancando.
È sdraiato nella sua stanza e il corpo, in questo istante, è qualcosa di simile a un rudimento di esistenza. Non dorme. La stanza è una cellula di sopravvivenza e lui la abita ormai da sei anni. Fuori, il mondo ha le sue manie di disintegrazione e disinnesco.
Il ragazzo sa di essere una specie a rischio e da tutto questo si protegge come riesce. Solo che alla natura che lo vorrebbe meno fedele, più incline a cambiare pelle, si ritrova con nulla da offrire.
Il sole deve sorgere alle sei e cinquantasei. Il ragazzo si alza e attraversa la stanza. La finestra è socchiusa e, guardando fuori, si vede solo la strada, poco illuminata e deserta. Le specie fuori della cellula sopravvivono come riescono: apparentemente bene e meglio di quanto abbia mai fatto lui. Infatti non c’è nessun altro a scrutare nulla da una finestra alle tre del mattino.  

“Esercizio di sepoltura” l’ha definito sua madre, esasperata. Nonostante la stanza sia qualcosa meno di una tomba. Più simile, in realtà, a un ecosistema artificiale, a favore di una sola specie protetta. Nulla lo giustifica e lo sa.
Nella distribuzione delle cose, gli atomi sono stati generosi con lui, come la Storia, la geografia, l’anamnesi familiare. E allora, da dove?
Non che non abbia provato a parlarne. Attraverso la porta, i 15 pollici, i 5 pollici, il telefono, con i consulenti, per dar pace alla desolazione del nucleo familiare, per l’imbarazzo della diserzione, per il corpo a suo agio negli spazi aperti e l’anima agorafobica.  

Ma la vita è cacciatrice e lui preda. Non sarebbe scappato, non avrebbe combattuto. Il sacrificio lo ha contemplato.
Se, per ipotesi, la preda avesse deciso di fermarsi e stare ai margini della sua natura, gli istinti predatori sarebbero venuti meno. Avrebbe chiesto perdono al suo predatore per non voler contribuire al gioco eterno della vita e, illesa, sarebbe rimasta a guardare la corsa di qualcun altro. Illesa e senza natura.
Su questa ipotesi aveva costruito i suoi ultimi sei anni. E nella cellula era entrato al modo del monaco o del prigioniero. E cioè senza più uscire. Le cose riuscivano a esistere e ferirsi ed estinguersi nonostante lui. Il loro andamento naturale non si compromette, se uno, o meglio lui, aggiorna il suo status sociale a: mancante.
Il giorno che aveva sentito sua madre cercare di aprire per la ventesima volta, frenetica, la porta che lui aveva chiuso a chiave, suo padre aveva mormorato a bassa voce che forse era il caso di chiamare qualcuno. Il ragazzo si era sentito in colpa di essere richiuso in qualche modo al sicuro. Questo non aveva convinto nulla in lui a cessare quella che tutti avevano smesso di chiamare “sciocchezza” e avevano cominciato a battezzare “problema”. Nei successivi cinque mesi avrebbero cominciato a chiamarla “patologia”.
Alla settantanovesima discussione tra i suoi genitori, la voce di sua madre si era chiesta ossessivamente come avesse potuto non rendersene conto. I suoi ventuno anni e centoquattordici giorni erano stati analizzati, per trovare avvisaglie, presagi, ma non c’era stato nulla di rilevante. Lei piangeva spesso, in quei mesi.
Lo aveva implorato di uscire. Il ragazzo, attraverso la porta, aveva cercato di consolarla. E di spiegare, con la sua trentaseiesima seduta, che, pur non essendoci nulla che lo giustificasse, tutto era autentico.
L’anno era riuscito a passare senza sfiorarlo. Almeno lui. I suoi genitori l’avevano passato come fantasmi, convinti che al di là della porta non avessero più un figlio, ma un estraneo, che avevano creato loro. Avevano quasi rischiato di separarsi.
Dei trecentosessantacinque giorni dell’anno successivo più della metà l’aveva passata nel mondo virtuale, dove avere un corpo e condurlo non era un requisito indispensabile. Non aveva portato a nessuna risoluzione, perché non era il corpo l’origine di tutto. E l’anno dopo aveva evitato derive iperconnesse.  

La sveglia ora segna le cinque. Il ragazzo scuote la testa con repulsione. Sta camminando lungo la stanza ormai da un’ora. La riesamina del passato è un metodo come un altro di devastazione. Nel suo caso, particolarmente efficace.
Sulla porta ha appeso uno specchio. Cornice antica, legno di noce. Ogni volta che si avvicina alla porta, si vede: “Tu, uscire…?”. Un altro ottimo meccanismo dissuasivo.
La vita al di là della porta, dopo il trauma, si è aggiustata a proseguire con buona pace di tutti i coinvolti. I suoi si sono abituati ad avere una voce al posto di un corpo e gli equilibri familiari hanno finito per ristabilirsi. A dispetto dell’entropia e della corsa al caos, nessuno può sopravvivere senza la parvenza di una stabilità.  

Alle sei di oggi il ragazzo ormai ha finito di enumerare per la ottocentosettantacinquesima volta tutti gli eventi. È in attesa di qualcosa. Furioso, alza le mani e colpisce la parete di fronte alla quale si è fermato. Nonostante il tempo sia clemente, benché il corpo sia stato obbediente, a dispetto della vita e del circondario che gli hanno permesso la resa, senza punirlo ulteriormente, il ragazzo è ancora una preda. E allora, è davvero dove è posta la trappola, quello che conta?
La stanza è solo una stanza e lui un ragazzo, con una famiglia disfunzionale, e cioè a norma di secolo, e una vita irrigidita di terrore o qualcosa di simile, in questo sanguinosissimo mondo – e anche questo, in qualche modo, capita che sia a norma di secolo.
Scivola a terra, con la schiena contro il muro, coprendo il viso con le mani. Galassie, costellazioni e un vuoto pneumatico dietro le palpebre. Il pianeta terra assolutamente indistinguibile da altri punti sparsi tra le dita. Gli sembra di vedere tutto dall’alto, da una capsula sganciata nel buio, come probabilmente vede le cose dio, sempre che esista – e cioè senza alcuna possibilità d’intervento.
Eppure dalla finestra filtra un’aria fredda e via via più luminosa e lui respira sempre più a fondo, sempre più veloce, che il sole sta per sorgere.
Così timida la sua vita finora, con i suoi movimenti in ritardo e la prescrizione connaturata e i sei anni senza uscire – tutto forse per arrivare alla scoperta che non si può vivere alla maniera delle formiche, ma alla maniera delle stelle. Che ogni cosa vive, persino lui che ha provato a non farlo. Sì, tutto per giungere finalmente alla terrificante sapienza di resistere indifesi di fronte al predatore e tuttavia senza sgomento. 

Le sette, la sveglia comincia a suonare, il ragazzo si riscuote e si dirige verso l’armadio. Apre le ante, prende l’abito, lo posa sul letto, in bagno si sciacqua il volto. Torna nella stanza e comincia il rituale di vestizione, tutto in lui si muove come fosse la prima volta. S’infila i pantaloni, indossa la camicia, la giacca, le scarpe. Per ultimo stringe il nodo della cravatta.
Lo specchio dalla porta emana una luce. Certo, è il riflesso del sole. Ma il ragazzo lo guarda e quello che vede è il bagliore di una stella morta. Dell’esodo di una stella resta la propagazione di una luce, se qualcuno la osserva dal terzo pianeta del sistema solare, un miscuglio di particelle elementari che la segnalano. Qui-c’era-una-stella – un alfabeto morse cosmico. L’assicurazione che niente, nessuno può essere dimenticato.  

L’ultimo gesto prima di lasciare la stanza il ragazzo lo usa per coprire lo specchio.
“Esco” comunica, entrando in cucina. Alla madre, seduta al tavolo, sfugge un grido. “Tuo padre è a lavoro” riesce a dire soltanto, il ragazzo le sfiora appena la spalla e la donna sussulta. È più vecchia e meno gentile di quello che era. Le dà un bacio sul capo, leggero, lo stesso gesto ma a parti invertite, perché si diventa genitori dei propri con il passare del tempo. Sulla porta aggiunge: “Non ti preoccupare, torno presto”.  

Alle 10.30 di oggi il ragazzo è seduto tra i banchi. Una folla. Molti stanno in piedi. La funzione è sobria, discreta. Sul globo ci sono modi diversi di venire a patti con le perdite.
Era giovane. Lo conosceva – ricorda bene il suo viso. Erano a un grado di prossimità, non abbastanza da essere amici. Sono nati nello stesso giorno. Il ragazzo l’ha saputo ieri sera: lui è morto senza preavviso, nella sua stanza.

22 frammenti di testo e immagini per una cronaca casuale

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di Filippo Polenchi (testo) e Andrea Biancalani (immagini)

#1
Sono dieci anni che non lo vedo. Levi entra nell’ufficio. Sto scrivendo una lettera commerciale con un’offerta, da inviare via mail. Ho la giacca e la cravatta, i pantaloni neri comprati all’Oviesse che mi stringono al cavallo. Sento i bottoni della camicia tendersi in corrispondenza dello stomaco. Sto mettendo su peso. La sera mi lamento con Teresa perché sono convinto che questo modo di vestirmi mi stia facendo perdere anche i capelli, oltreché ingrassare. Levi imbocca la porta: ha quasi trent’anni, adesso, come me del resto; ha la barba lunga e folta, i capelli con un taglio da studente. Indossa una giacca di velluto a costine, una camicia bianca e jeans sdruciti. Sono convinto che sia diventato un professore universitario. La sua sola presenza in ufficio mi rende nervoso, polverizza gli ultimi anni di costruzioni e sacrifici per avere quello che ho. La sua perfezione animalesca mi ricorda a quanto ho mancato. Mi fa pensare di aver desiderato qualcosa, un giorno, ma di non avercela fatta. Per lui è diverso: dove finisce il suo polpastrello inizia il fatto compiuto. Levi – lo chiamavano Lev a scuola? Ricordo qualcosa in proposito, il Lev del «Newton», il Lev impegnato in politica, come il famoso nonno partigiano e poi dirigente della socialdemocrazia cittadina – Lev guarda i faldoni, le pratiche degli assicurati, i loro sinistri, le loro polizze, i premi, la storia delle loro collisioni, le volte che le carrozzerie delle loro auto si sono scontrate con quelle di altri, le volte in cui la faccenda si è chiusa con una firma sul cofano dell’auto e le volte in cui, invece, qualche paramedico ha sparso segatura sul sangue versato.

Il padre di Teresa mi dice che faccio un lavoro rispettabile, che sono un lavoratore rispettabile, che ho buoni orari e dei benefit. Ogni estate riesco ad avere tre settimane di ferie. Lavoro abbastanza vicino a casa.

Spero che Levi non chieda di stipulare una nuova polizza o che voglia parlare con qualcuno dell’Area Commerciale. Cerco in anagrafico il suo nome, ma non lo trovo. Poi Lev scarta lontano dalla mia postazione. Ficco lo sguardo al di là della parete e lo vedo accolto dal direttore. Ritorno al mio loculo; la camicia bianca che sale sul monte della pancia.

#2
I margini dello stradone sono giardini di erbacce e polvere. Piante infestanti, rampicanti, quando ci cammino accanto si fanno adesive ai pantaloni. Si attorcigliano intorno al polpaccio, a toccarle sono urticanti e umide, come spugne repellenti. Non so che piante siano, ma sono certo figure della nostra estinzione. Sono residuali, sopravvissute. Si comportano come polipi vegetali, tramano in silenzio reticoli di colonizzazione. È un mondo di mostri di ruggine e ferrame, di metallo smanioso e riccioli di polvere e peli di animali scorticati dagli attacchi dei predatori notturni; agguati agli accessi delle fognature, terrori oscuri di bestialità. L’autobus mi scarica in un punto di nessun valore da qualche parte dello stradone. Ci sono insediamenti con villette strette a grappolo, ex terreni poderali che scavalcano nel grande campo incolto – ettari su ettari di sterpaglie e qualche baracca, che costeggia il raccordo autostradale. Le case sono perlopiù le vecchie cascine del contado riadattate a ville di lusso, a tre, quattro piani. In questa terra irredenta non si deve vivere poi così male. Alle 8 del mattino è già caldo. Dai campi le folate di aria umida accrescono l’afa di giugno. I vestiti si appiccicano addosso; la camicia a righe, il suo tessuto sintetico fabbricato in Cina o in Vietnam, comprato al mercato delle Cascine prima di Pasqua, aderisce in una larga pozza sulla schiena. Sento le cosce sfregarsi poco sotto lo scroto raccolto nelle mutande. Pacchetto da 6, 10 €, ma di una taglia troppo stretta. Man mano che mi avvicino all’ufficio le ville dei signori si trasformano in palazzi di quattro piani, geometrie grigio scuro o color ruggine, imponenti e periferici, spiegati in lunghezza, come autobus di cemento. Hanno finestre aperte e chiuse, avvolgibili abbassati e alzati, ammiccano strabici e con le ciglia di tappeti o dei lenzuoli immobili nella bonaccia. Da una finestra arriva una musica, un cha-cha-cha. Qualcuno che fa le pulizie, o qualcuno che sta bevendo e ballando, che ha sovvertito le regole del lavoro. Forse questo sconosciuto vive nella canottiera a righe sottili, il ventre acuto dal baricentro basso, i capelli unti di brillantina e una bottiglia di Nastro Azzurro in mano, la moglie fuori di casa, a fare le pulizie da qualche signora in centro o in collina. E mentre la moglie è fuori e i ragazzini sono a scuola, lui si scola la Nastro Azzurro e ascolta ad alto volume il cha-cha-cha. Prepara baccanali nella sua spelonca de-coniugalizzata. Invita signore e le accompagna nel centro caldo della danza con la sua canottiera al traguardo, offre birra tiepida in bottiglia.

Tutto qui attorno odora di cialda abbruciacchiata: dev’essere per colpa dell’incontrastato reame dello scarto che va fabbricando la propria regione giorno dopo giorno, lotta dopo lotta, nel misero spazio di un canaletto di scolo. Ci sono anche fiori che sbocciano sulle maglie dell’erba parassitaria; fiori di colori malarici, abbagliano per l’eccessivo pallore febbricitante. Non c’è niente per strada. Ci sono case ai lati, cassonetti, giardini con cani che abbaiano al passaggio, accompagnandomi, ma non c’è niente. Ci sono indicazioni, una vetreria, un parcheggio di ambulanze, un cartello che devia le auto verso una piscina comunale. Però non c’è niente. Non c’è aria in quest’estate. È una canicola continua, offuscante, senza respiro. Attraverso le giornate senza forza, senza cognizione del mondo. Sono una fotocopia passata di mano in mano. Mi siedo alla postazione, lascio cadere lo zaino per terra. Accendo il computer, guardo il muro. Sul muro c’è un cartello: Forza e coraggio, il male è di passaggio. Il male dell’afa, della cappa di umido e di caldo che maledice questa terra nella ripetizione dei secoli. Non c’è un solo spacco nel cemento che sostiene questi palazzi, queste costruzioni che sia libero dalla polvere, che sia capace di respirare. Tutto è bloccato, costretto, tutto è un bolo che rimane indigesto perché qualcuno lo sta sognando altrove. Apro il programma gestionale, indosso le cuffie. La giornata ha inizio.

Guardo i fuochi d’artificio dalla sponda del fiume, seduto su un telo da spiaggia, sopra l’erba secca e schiacciata dai nostri culi. Siamo tutti seduti con le ginocchia al petto, in un terreno che sarebbe più adatto ai grossi ratti che hanno fatto la storia dell’Arno. Tutti quanti a vedere il cielo che fa sbocciare fiori di fuoco nel nero come in una notte di bombardamenti. Dopo i primi botti alcune camionette dei vigili del fuoco attraversano il ponte, proprio come in emergenza. Dal nero grafite del cielo non comparirà il sacro. Più che altro siamo di fronte a una sorta di illustrazione stellare del bilancio comunale: tutto quello che è stato speso per i fuochi, gli introiti dei chioschi ambulanti che vendono il panino con la porchetta, con la salsiccia grigliata, le birre in formato 66 cl, anche se non si potrebbe, la ZTL del centro. È solo un modo come un altro per non perdere la giornata di lavoro, visto che per tutto il giorno la città si è fermata. I ratti d’Arno, dunque, se ne stanno al riparo: rosicchiano dai loro sogni la visione mistica di un’apocalisse imminente. Finisce lo spettacolo: risaliamo il costone di terra ed erba. Non mi fermo a bere, a godermi il fresco notturno, a scacciare gli ultimi fantasmi prima del rientro a lavoro l’indomani. Torno a casa a piedi. M’incammino nella notte e i neon separano l’abbaglio dalla tenebra, come l’olio nell’acqua.

#4
Erano passati altri tre anni dall’ultima volta che l’avevo visto, in agenzia: mi ero divorziato, tenevo i capelli rasati quasi a zero. Avevo un cranio ispido e una barba rada sulle guance sode: non avevo un lavoro, ero in uno dei miei intervalli: un amico mi aveva consigliato di donare il sangue, non per ricevere soldi o una colazione gratuita, ma come gesto simbolico. Un talismano. E poi mi avrebbero fatto esami del sangue con l’esenzione. In sala d’attesa avevo riconosciuto subito Giovanni Levi: aveva lo stesso stile della mattinata all’Unipol, anche se era pieno inverno e sopra la giacca portava un parka verde militare. Aveva i capelli più lunghi e appena un po’ ingrigiti. Mi aveva riconosciuto lui: gli avevo parlato brevemente del mio divorzio con Teresa (che non era un divorzio ufficiale, ma una separazione tra persone che erano rimaste amiche, che il tempo aveva messo davanti alla propria distanza), poi gli avevo chiesto di cosa si occupasse lui. Stava scrivendo per riviste culturali on-line. Si occupava di cultura e società. Erano i margini del suo interesse, il perimetro nel quale, diceva, poteva fare qualcosa. Parlava di possibilità, sulle sedie di plastica rossa, scomode e deformi. Diceva che scrivendo quegli articoli – dei lunghi pezzi, nei quali partiva dal racconto di una storia sociologica di solito marginale e poi estendeva il suo sguardo a questioni più complesse – lui poteva agire in qualche modo sul contesto, su questo mondo in frantumi. Ripeteva le parole «possibilità» in alcune varianti, «le nostre possibilità», «le possibilità della nostra generazione».

#5
Le ellissi tra un lavoro e l’altro non erano mai disperate; ero perseguitato dalla maledizione di trovare lavoro in continuazione, ma uno peggio dell’altro. Se non mi licenziavano loro me ne andavo io. Allora riducevo la mia quota vitale, le norme della mia esistenza. Tutto si faceva più sottile, ma anche meno necessario e meno velenoso. I rapporti sociali, così ridotti, divenivano meno pressanti e la solita guerra di tutti-contro-tutti entrava in una fase meno acuta, mi dava più sollievo. In quei periodi vivevo grazie al sussidio oppure a certi risparmi oppure risparmiando. Vivevo bene in quegli interstizi. Poi, però, trovavo un lavoro e tutto ricominciava. Il bisogno materiale tornava a chiedermi il prezzo dell’umiliazione. Teresa, con la quale, anche dopo la separazione, capitava di vedersi – soprattutto ero io a cercarla, per chiederle dei prestiti, per un conforto – mi supplicava di accontentarmi, di cedere alle lusinghe della quotidianità, così le chiamava lei. Mi diceva di non sentirmi obbligato a essere felice, ma soltanto ad essere appagato da quello che un salario decente mi poteva dare. Lei diceva che, nonostante tutto, ero fortunato, che ogni volta che me ne andavo da qualche posto non capitavo in un mattatoio, in una raccolta stagionale di pomodori o in altri luoghi osceni della civiltà. Ma io non pensavo di essere fortunato. I miei piccoli privilegi di lavoratore garantito, quando li avevo, mi procuravano quell’ansia che soltanto chi vive sull’orlo di un abisso – pur essendo ancora sulla terraferma – percepisce. Come potevo gioire della mia personale fortuna in mezzo alle disgrazie collettive? Tanto più che sapevo trattarsi di una fortuna così fragile. Levi, invece, godeva di un’altra attenzione: lui godeva dell’amore degli dèi. Per quella fortuna avrei ringraziato, non perché anche quel mese o quel semestre evitavo il banco alimentare con il mio contratto determinato in un benzinaio. Allora le dicevo che mi aveva morso il demone dell’infelicità e non potevo farci niente.

#6
Accanto a un cassonetto vedo degli ortaggi gettati via. Sono due zucchine, una melanzana sbudellata e due peperoni gialli. Le zucchine sono incrociate. È una geometria blasfema, che richiama l’attenzione con le fluorescenze del peperone. Il santuario del cibo buttato è meta di senzatetto, tossici o vecchietti che non mettono insieme il pranzo con la cena di pensione. Ci vuol poco per finire ai piedi del cassonetto, a servirsi di quell’insperato discount. È un intervallo quantico che ti separa da quel momento: probabile, infinito, eventuale. Se lo fissi troppo attentamente è già qualcosa di diverso. Non lascia traccia, svanisce con l’alba di qualcun altro; qualcuno più fortunato. Nei giorni successivi la direttrice del Club (che in realtà è un centro diurno per gente con disagio psichico, ma tutti ci tengono a chiamarlo «club») mi ripete molte volte che mi vendo meglio di quello che sono. Uno dei «soci» (perché in questo Club non ci sono pazienti, ma «soci») parla dell’unico parente più giovane di lui, un suo cuginetto. Dice: Non sopporto l’idea che non sarò l’ultimo della mia famiglia a morire.

#7
La recinzione, di siepi e di metallo, ha una forma circolare e chiude con un cancello di ferro battuto. Il cancello sembra tentenni nel vuoto, come una porta che cadrà al primo schianto di nocche, come in un film comico delle origini. Dicono che ci faranno un campo sportivo: uffici, campi di allenamento, palazzine, spogliatoi, palloni a temperatura controllata. Nel frattempo, nelle interzone incerte di poderi e demanio, corrono i cinghiali che si erano acquartierati nella macchia ormai eradicata, nei pressi del cimitero: ci sono volpi che corrono, al mattino, sporche e metallizzate, in senso contrario alla marcia delle auto incolonnate ai semafori. La diaspora delle bestie che hanno vissuto in questi territori per decenni. Oltre la strada, di là dal guardrail, spesso vado a pranzo al chiosco di lampredottari. Prendo un panino col condimento classico – sale pepe salsa verde – una lattina di Coca Cola. Mangio sulle panche, accanto a muratori, ai giardinieri, a qualche raro pensionato che vive in una casa in questa spoglia periferia. Qui la campagna preme anche sugl’ultimi avamposti di città: sobborghi di villette, un carrozziere incastrato tra due palazzine dalle architetture incongruenti. C’è una cappella, una costruzione dal baricentro basso, sembra un’installazione islamica. La campagna, qui, è battuta dal vento e dalle ferite astrali dei tir che passano a tutta velocità. Il paninaro ha un’uniforme bianca: mano a mano che avanza la giornata la parannanza si sporca di unto, di grasso, di sugo. Le mani callose schiacciano la fetta di pane superiore, precedentemente intinta nel brodo del lampredotto. Lui sta tutto il giorno tra i fornelli, in postazione rialzata. Parla con i suoi avventori, li conosce tutti per nome e quelli che non conosce li chiama «mago», «professore», «belloccio». Conosce anche me: una mattina alle 10, prima che arrivassero tutti, gli ho portato il curriculum.

#8
Da poco avevo trovato impiego presso il call center di Vladi, alla Deep Blu. Lavoravo in una zona periferica, per spostarmi usavo un autobus e la tramvia. Levi aveva la schiena contro il palo centrale fra due carrozze, non doveva aggrapparsi all’asta, si reggeva con la forza del suo equilibrio: il baricentro perfettamente individuato, la gravità che gli rispondeva, le ginocchia sollecitate e sorrette dai muscoli delle cosce. Parlammo, naturalmente: per me non erano che passati due giorni da quando l’avevo visto in ospedale a donare il sangue: nella mia vita le cose si erano susseguite mansuete e neutre: volta dopo volta avevo dato uno scossone perché la dinamo si rimettesse in funzione, ma la luce che emanava era sbiadita. Levi adesso insegnava: storia e filosofia in un liceo e aveva dei corsi all’università. Studiava, preparava lezioni per liceali e per laureandi. Mentre mi parlava dell’insegnamento capii che stava riprendendo un discorso interrotto due anni prima: educare i ragazzi era la sola forma di «possibilità» che si dava alla nostra generazione. La nostra occasione di lasciare un’impronta politica in questo mondo era fallita: eravamo stati sonnambuli, più o meno consapevoli, più o meno bruciati, ma pur sempre catatonici. Adesso, però, lui si era risvegliato e quello che doveva fare era insegnare il risveglio alle nuove generazioni. Per lui era una responsabilità dell’età. Capii che in due anni la neutralità ombelicale della mia esistenza, il bianco proseguire dei giorni, non era stato affatto docile come avevo immaginato: quella che avevo scambiato per pigrizia, in realtà, era stato un violento tirocinio al fallimento. Avevo appreso i fondamentali della sconfitta.

#9
Avevo iniziato a frequentare Lucia: ci eravamo conosciuti al mare e mi ero trasferito da lei. Passavo i giorni e le notti, indistinguibili, cercando di tenere sotto la cenere i miei desideri, i miei ricordi, la vergogna, lo schifo di esserci. Consumavo con Lucia la cena, silenziosamente, poi ritornavo in camera senza dare troppe spiegazioni. Arrivavo con le ciabatte e l’accappatoio e masticavo piano, ma senza pigrizia, solo con molta cautela. Cenavamo sotto il cerchio di neon pallido della cucina. Dopocena cercavamo qualche film fra i canali del digitale terrestre, ma la tregua serale finiva con l’ultimo boccone ingurgitato: il giorno dopo ci sarebbe stato soltanto il lavoro, per otto interminabili ore. Dragavo le emittenti locali per trovare qualche classico, per aggrapparmi alla solidità di una visione assoluta, a qualcosa che mi avrebbe fatto trascendere la paura quotidiana. Lucia era leggera, la pioggia delle sue ossa che lasciava attraversarsi dal pulviscolo dei problemi. Per lei il «fa niente» era reale, tattile. Per lei esisteva davvero la formula del «fa niente»: lei aveva davvero una pelle che poteva proteggerla. Sono le creature come Lucia che possono andare avanti nel mondo, mi dicevo. Le stavo accanto e valutavo le nostre differenze biologiche. C’era una postura nel suo sopportare ogni destino possibile che io ritenevo intollerabile. E così era sempre stato, per me. Ad ogni mietitura avevo sfoltito le mie possibilità: ogni volta pensavo che qualcosa di meglio dovesse pur nascondersi da qualche parte. Anche Teresa era come lei: ma ormai quello era un matrimonio di molti anni prima. Come Teresa, seppur silenziosamente, anche Lucia mi domandava una specie di obbligo alla felicità. L’accettazione di un salario e una vita media.

#10
Aveva una voce del Nord e diceva che a lui il calcio piaceva poco. Così l’uomo con la stampella, che gli sedeva davanti, mentre la carrozza sobbalzava sulla linea malferma, diceva che forse era il caso di sperare vincesse l’Inter. Ero salito sul treno a Empoli. Insieme a me erano salite le francofone sarabande dei ragazzi con i sacchi sulle spalle, i sandali, le magliette di squadre di calcio, delle schede SIM smerciate nelle stanze d’affitto. I due uomini sembravano conoscersi. Quello senza stampella aveva qualcosa sui capelli che avrei detto brillantina ed erano, nonostante l’età avanzata, foltissimi e tirati all’indietro. Neri di tintura. La temperatura condizionata dello scompartimento mi strizzava lo stomaco. Misi lo zainetto di tela sull’addome, per ripararmi. La truppa dei senza biglietto occupava tutti i sedili: abitavamo tutti in quei paesini ex rurali, nei villaggi usurpati dai condomini di sei piani per lo stesso motivo: perché non potevamo permetterci l’affitto di case in città più attrezzate. L’uomo con i capelli lucidi diceva che non gli piacevano neanche i cavalli: lo faceva solo per il gusto della scommessa. Il sole verdognolo attraversava la ragnatela di righe sul doppiovetro: mi scaldava il capo sino a farmi male. Aveva il ventre florido e una camicia pitonata allacciata fino al collo tozzo, incassato nelle spalle. Giocava le sue piccole cifre, non voleva passare il segno. L’altro lo provocava: Si direbbe che lei è un uomo giudizioso. Il giocatore aveva la risposta pronta: L’avidità è un peccato mortale. Il treno passava accanto a campi verdi, vigneti, altri treni, acquitrini. Erano il fondale sul quale proiettavo il mio tempo, tutto ciò che poteva esserne un residuo. Il treno aveva rallentato all’improvviso fino a procedere a passo d’uomo e infine fermarsi. Sa, io stuzzico la fortuna e basta. Se poi una cosa deve succedere succede, diceva lo scommettitore. I passeggeri avevano chiesto al capotreno cosa fosse successo e lui aveva risposto che un uomo era caduto sui binari. Caduto o buttato?, avevano chiesto, ma il capotreno non aveva risposto. L’uomo con la stampella si era affacciato al finestrino, ma non vedeva nessun corpo. C’erano solo fiori di zucca seminati tra i binari. Spero si sia buttato, disse il giocatore: Anche il suicidio è un peccato mortale.

#11
Levi non guarda le persone come le guardo io. Lui ne coglie il punto di desiderio, la capsula animale. Si siede accanto a me, al tavolino che occupo da solo. È ancora presto, io ho ancora una casa e Lucia che mi aspetta. Non ha bisogno di avviare una conversazione con un espediente: sono gli altri che hanno bisogno di confidarsi, che sembrano dirgli di aver atteso lui soltanto per tutto questo tempo. Nel mio spazio claustrale, assediato dal bicchiere, la bottiglia di birra, il posacenere, il volume della rumba che scuote i culi delle avventrici di mezza età lui si adagia con naturalezza. Siamo due quarantenni separati dal dismorfismo dei nostri corpi dentro al bar: nel mio caso non c’è incongruenza, nel caso di Levi sì. Si siede senza chiedermi il permesso, mi fa domande, chiede della mia vita, dice che sono fortunato ad avere una donna, che lui non ha nessuno, ma sta bene, ha sempre avuto un’anima solitaria. Insegna ancora, sempre diviso tra università e licei; sta scrivendo un romanzo, ma adesso ha dovuto interrompersi, non ha la concentrazione per finirlo. Altri pensieri, altre questioni. Rispetto agli anni passati sembra irrequieto, nonostante all’aspetto non dimostri più di trentacinque anni. Per me, invece, ogni intervallo trascorso tra una visita casuale e l’altra, ha inciso la sua impronta: noia e insensatezza e il corpo che è tracimato in una non-forma alla quale non si può voler bene. Tutti, eccetto Lucia, non vogliono bene al mio corpo: percepisco l’offesa che reca agli sguardi degli altri. L’adipe, che suda anche d’inverno dentro la costrizione della canottiera. I pochi capelli rimasti, senza un verso: non c’è più poesia in questo decadimento di mezza età. Levi mi ricorda che detesto gli specchi, i confronti, le fotografie. Vivo nell’angolo cieco e sordo di una vita che va avanti grazie all’amore di Lucia. L’obbligo della felicità: glielo devo. Non parliamo dei suoi successi, stranamente. Non che abbia mai chiesto di essere adulato, tutt’altro. Però stavolta m’incalza con le domande: come si chiama la mia compagna, dove abitiamo, in quale lavoro sono imbarcato adesso. Rispondo a tutto, con sollecitudine. Mi chiede di accompagnarlo fuori a fumare: in tanti anni non è mai riuscito a smettere. Adesso però fuma i sigari, ché recano meno danno ai polmoni. Fuma un sigaro, nella transumanza del pubblico da bar, che improvvisamente mi sembra molto malinconico, ma anche ingenuo, benevolo. Avere Levi al mio fianco inquadra in una nuova luce tutto il reale: la disperazione si mitiga, la tristezza s’addolcisce. Studio le striature perfettamente grigie sui suoi capelli che non hanno perso il colore castano. Le nuvole di fumo alla vaniglia si dissolvono lontano dal dehor. Poi, togliendosi un pezzo di tabacco dal labbro, mi dice che avrebbe bisogno di un aiuto. Domani deve partire e avrebbe bisogno di una persona fidata che lo accompagni, che gli stia accanto. Dice che ha pensato a me; in tutti questi anni ha sempre pensato che, qualora si fosse presentato il momento adatto, la sola persona della quale si sarebbe potuto fidare ero io. Dice che partirà domani, che ha bisogno di una risposta subito, che il viaggio che deve intraprendere è lungo. Devo salvare una vecchia compagnia di liceo, dice. Non so come fare per aiutarlo, le mie ferie sono concentrate perché possa assentarmi in agosto, prenotare al mare una stanza con Lucia, non pensare a niente per venti giorni, anche se poi dopo la prima settimana inizio sempre a pensare al ritorno. Se faccio questa cosa, dice Levi, dovrò fregarmene delle ferie, del mare: lui è sicuro che Lucia capirà, che non vorrebbe impedire a suo marito di dare un contributo ad una causa. Una giusta causa. Non mi dice chi è la ragazza che «deve salvare», né da cosa la debba salvare. Però è determinato: ad ogni boccata di sigaro il tempo passa, s’avvicina l’alba e se anche lo seguissi ora dovrei tornare subito a casa, mettere le cose apposto, parlare con Lucia e poi non potrei neanche dirle per quanto starei via, perché neanche Levi lo sa. Mi dice: Non ti sembra di essere stato fin troppo nell’ombra?

Acqueforti spagnole

2

SANTIAGO DI COMPOSTELA – CITTÀ TRISTE, SENZA ALBERI, CHE SI RALLEGRA D’INVERNO SOTTO LA PIOGGIA
(“El Mundo”, 6 ottobre 1935)

Il Medioevo. Sì, il Medioevo, con le sue vaste zone di ombra e pietra, così lo immaginiamo dopo aver letto una cronaca e aver chiuso gli occhi.
Gelido, ascetico.
Galizia, la bucolica, si cancella al giungere dinnanzi alle mura di cinta di Santiago di Compostela. La violenta presenza della città medievale è così intensa che di colpo ci si dimentica che nel mondo esistono ancora città allegre. Si volta la testa, spaventati, come se il mondo finisse qui, lungo questi confini granitici, tra i quali, alle tre del pomeriggio si potrebbe uscire nudi per strada senza che nessuno se ne accorgerebbe. I caseggiati di pietra, grigi, di tre piani, con ampie scale scure, sembrano un pretesto per riempire lo spazio che lasciano i quarantasei edifici religiosi, monumentali e sinistri. I negozi, sotto i portici contorti, sembrano tane, molti banchi sono di granito, ed è inutile cercare la folla sotto le arcate levigate dal vento o a cassettoni. Solitudine. Solitudine di morte, di spopolamento, di noia e di penitenza.
Dico che Santiago di Compostela gela il cuore. Strade oblique e in pendenza, con nomi taciturni: Angustia,
Lagarto, Pescadería Vieja, Ànimas, Sal–si–puedes, Calderería. Mostruosi cubi di pietra, lisci, con alte finestre e inferriate, porte verdi, scudi di armi sulle facciate, pale d’altare con bambini scrostati che gettano saette di oro finto, vergini scolorite sulla groppa di un asinello, illuminate lateralmente da fanali di ferro, appesi, come impiccati, a catene, e una farfalla che brucia al sole in un bicchiere d’olio. E poi stemmi, campane che suonano, tuoni, pilastri di pietra al centro della carreggiata, irregolare, morse cancellate dall’ossido dei secoli. Nei buchi dei muri ciclopici, immagini di tortura e sofferenza sorvegliano una porta verde. Di fronte a un fanale di ferro, un santo con un pugnale piantato nella gola e la palma del martirio nella mano. Le gronde sporgono orizzontalmente da altissimi muri di pietra, teste di iena col busto di donna. Dove si guarda, figure abominevoli, segregate, dietro le sbarre come nelle gabbie dei leoni, bare di pietra, rilievi di monaci, la barba con gli anelli come i re assiri.

Neanche un albero.

Nelle fughe, tra i blocchi di pietra, qua e là c’è una macchia, lilla o viola. Un pon–pon sinistro nato da un prato. Ai fianchi della cattedrale, si apre una piazza con una gradinata talmente larga che sembra entrare in mare, e il mare è una pianura di pietra, e non c’è un solo albero nel cuore della città signorile, e questa piazza, tutta lastricata e chiusa da un lungo muro e da portici di fronte, è la Plaza de los Plateros con piccole vetrate dove, nell’ombra, brillano intagli di argento, oggetti religiosi e, nel punto più alto del lungo muro di ferro, scendendo una scala di pietra come se si attraversasse un corridoio, si scopre un’altra piazzetta lastricata dove non c’è un solo albero, come se il verde fosse sacrilegio qui, dato che tutto è di pietra, e al centro c’è una fontana di pietra con cavalli di pietra, con le colombe che beccano nelle giunte, tra una lastra e l’altra, o dentro gli occhi delle statue. Ovunque cadano gli occhi, ferro o pietra, e se si alza la testa, non si vedono cime di alberi, solo torri piramidali di pietra, annerite dal muschio e dai liquami degli uccelli, e scudi di pietra, squartati, con corone orizzontali. E il vento corre in questo deserto pietroso, sinistro, come se soffiasse nella città degli spettri, che qui ci devono essere, stipati sotto i portici che coprono i vicoli, e le stesse persone si perdono come fantasmi sotto gli archi, perché le colonne, rotonde o quadrate, e gli archi delle colonne sono di pietra, e il sole sembra un sole di pioggia, un sole bagnato e triste, venuto forse dal purgatorio, e tutto così crudele, che i ferri verdi, i fari agli angoli, e i monaci che si perdono tra le arcate, e le macchie del sole livido, il rintocco delle campane ci fanno pensare a un’umanità consacrata esclusivamente agli offici della penitenza religiosa, inginocchiata, solo inginocchiata.

La città silenziosa.

Ed è inutile che i bambini ridano, incorniciati dalle ciclopiche arcate, ed è inutile che le donne passino con luccicanti vestiti a fiori. La morte ha esteso così il suo impero a Santiago di Compostela che le voci umane risuonano fuori dal tempo, come quelle degli uccelli in gabbia, che ogni volta che cantano, dal loro carcere, ci ricordano che non dovrebbero stare lì dentro.
Silenzio. I clacson delle macchine non suonano, nemmeno gli altoparlanti delle radio, o i grammofoni, e neanche il chotis madrilegno, o i canti dei ciechi con la chitarra, o le orchestre di strada degli ebrei tedeschi. Silenzio, spegnimento, morte. Dicono che Santiago in inverno rivive con l’allegria degli studenti. Ma è d’inverno che in questa città piove ogni giorno, finché la pietra da grigia non si fa nera, così che, se Santiago, ora, in estate, è buio come un purgatorio, in inverno deve sembrare un sepolcro, il sepolcro dei vivi.

 

NdR: questo magnifico pezzo fa parte della magnifica raccolta “Acqueforti spagnole” (il titolo originario è ben diverso: “Aguafuertes, Gallegas Y Asturianas”) di Roberto Arlt, pubblicato recentemente da Del Vecchio, nella traduzione di Marino Magliani e Alberto Prunetti)

Ritrovamento

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di Andrea Cafarella

 

Questa sofferenza porta il nome di chi ha scagliato queste maledizioni e ha la responsabilità di aver contribuito a distruggere i corpi e le menti di milioni di persone sparse su tutto il pianeta, creando il deserto sul quale oggi imperversa la guerra. L’unica speranza possibile passa dall’avere memoria: quando tutto sarà «finito» bisognerà ricordare che la storia di questi corpi derelitti accusa la storia della politica, chiedendo vendetta.

T.Z.Anusgate

 

Immagine di Roberto Abbiati

Metto mano al linguaggio poiché sento il dovere di documentare un ritrovamento che mai avrei pensato di poter fare in vita. Un gran quantitativo di brandelli di testo recuperati dallo spazio virtuale che pare fosse conosciuto una volta con il nome di Internet. Dopo attenta analisi oso affermare che il contenuto di questi file potrebbe risalire esattamente al periodo descritto da Eolele Bellizario nell’emblematico racconto che sembra svelare il significato nascosto della data palindroma 02.02.2020, secondo parecchi molto più vicina a noi di quanto si possa pensare. C’è infatti chi farebbe risalire quel giorno a una cinquantina di anni or sono e chi invece lo identifica con il momento della fine dell’ultimo ciclo, decine di secoli addietro. La maggior parte degli studiosi concorda però sull’idea che quei giorni siano stati palcoscenico di un evento senza precedenti. Un particolare accadimento di carattere globale che ha cambiato le sorti della storia. C’è chi teorizza la seconda venuta degli alieni, chi un disastro ambientale e chi ancora ipotizza una grande guerra occultata dalla storia. In molti però concorrono nell’affermare che questa sia stata la causa principale del nostro modo di vivere odierno. Nonostante ciò, queste supposizioni non sono mai state certificate e non è stato possibile trovarne tracce tangibili né documenti utili a svelarne il mistero. Fino a oggi.

Il dossier che ho fortuitamente individuato ha per titolo «2666» e le frasi che da esso ho estrapolato – per quanto fosse possibile – e manipolato, nel tentativo di interpretarle, dandovi un senso logico, hanno dell’incredibile. Duemilaseicentosessantasei è un numero che inizialmente non mi diceva nulla, fino a che non ho provato a sommare le cifre che lo compongono raggiungendo come risultato il numero 20; dopodiché le ho moltiplicate ed è apparso il celeberrimo numero sacro, il 432.
A quel punto ho capito che c’era qualcosa di importante e occulto in questa sequenza.
La mia ipotesi è che si tratti di un messaggio in codice, all’interno del quale, numerologicamente, si tenta di avvertire il lettore di un periodico andirivieni del tempo che riporterebbe costantemente a quella data fatidica: 20/20 (oppure 02/02) ripetuta nel ciclo cosmico (432) all’infinito.
Il nome dell’autore del dossier risulta impossibile da decifrare. Riporto qui le lettere che ho potuto svelare, per onor di cronaca, seppure non sembrino dire o significare alcunché: E-D-U-R-R. Ognuno dei testi che compongono i capitoli del dossier è preceduto da una cifratura con schema ricorrente: una data, relativa al 2020, seguita da quello che potremmo presumere si tratti di un orario, sempre lo stesso: «06:00». Questa dicitura ce lo riconsegna come una sorta di diario, eppure quel 6 ripetuto giorno per giorno non può che risaltare allo sguardo attento. Soprattutto quando incontriamo un’eccezione, una singola anomalia: uno dei capitoli risulta scritto a un orario differente: le «20:26». Questi numeri ricordano evidentemente quelli presenti nel titolo del dossier e viene quindi spontaneo pensare a una codifica piuttosto che alla mera indicazione dell’orario. Appare come se colui che da questo punto in poi chiameremo, per comodità, Edurr voglia indicarci l’epicentro della vicenda, il punto dal quale, probabilmente, bisognerebbe iniziare a scavare.
Ed è proprio da qui che ho cominciato a vedere.

I numeri, tuttavia, potrebbero non bastare, in quanto non siamo assolutamente sicuri del loro uso, poiché non saprei dire nemmeno se effettivamente questi siano testi concepiti nell’oscuro duemilaventi oppure se quell’anno emblematico ne sia solo l’oggetto di studio. Si potrebbe anche trattare di una combinazione che niente ha a che vedere con un periodo temporale specifico. Ciò che mi ha davvero impressionato è il titolo di questo particolare capitolo indicato da una sequenza anomala e unica in tutto il dossier:

Lo Sconosciuto in Cina e la sua evocazione tecno-sciamanica a opera di Nick Land.

Ci sarebbe da interrogarsi per secoli su questa inscrizione: chi è Lo Sconosciuto? Soprattutto, però, chi è Nick Land? E cosa c’entra la Cina? In effetti, sarebbe più logico chiedersi cosa intendesse Edurr per Cina. In un contesto «tecno-sciamanico» possiamo ancora immaginare la Cina come quella valle sperduta e desolata che conosciamo oggi?
Quello che più mi incuriosisce di tutti questi dettagli oscuri all’interno del titolo, tuttavia, sono i «Sette punti». Essendo la dimensione numerologica preponderante in questi stralci di testo, mi sembrerebbe superficiale escludere l’indicazione.
Sette è il numero della completezza e della conoscenza.
Non potevo certo accontentarmi.
Così ho iniziato un lungo ed estenuante lavoro di estrapolazione e riconfigurazione dei testi che mi permettesse di riportare alla luce quanto fosse rimasto di ancora intellegibile negli scritti del fantomatico Edurr.

Arriva il coronavirus, la Cina è isolata, stamane l’opinione pubblica si è svegliata e ha pensato: anche oggi niente di nuovo, anche oggi si è affacciato lo Sconosciuto; il futuro prende la forma dei mostri: un virus, il contagio, antiche dittature e, dall’altra parte del mondo, Donald Trump.

Questo è quanto sono riuscito a ricostruire della sezione «20:26».
Un testo ermetico, in cui si nomina un «coronavirus» come se fosse un nuovo venuto. Per coronavirus s’intende la rinomata famiglia di organismi virali comunemente conosciuta come Orthocoronavirinæ che domina il mondo esterno, ovvero il fattore decisivo che renderebbe – secondo quanto dice il Codice – totalmente invivibile il ‘fuori’, e ancora: uno dei motivi principali che stanno dietro alla conformazione della nostra società e della nostra storia recente.
La cosa spiazzante è che mi sembra che se ne parli, in questa sezione del dossier, come di una novità: «arriva», scrive Edurr, come se si trattasse di un nuovo arrivo, appunto. Allora è forse possibile supporre un mondo, una società in cui la pestilenza non aveva luogo. Possiamo, presumibilmente, pensare a Edurr come a un uomo che prima di scrivere queste pagine era stato libero di girovagare all’esterno senza il rischio, o meglio: la certezza di morire a causa del contagio. Immaginiamo uno stato di cose che venga prima della pestilenza; nel momento esatto in cui la conosce per la prima volta nella sua forma mortifera e conglobante. Proviamo a figurarci Edurr come un testimone chiave, esemplare, di questo processo mastodontico e definitivo.
L’altra dicitura del testo che mi lascia interdetto è quel nome sconosciuto e di carattere quasi umoristico (il termine ‘trump’ ricorda l’antico strumento a fiato di cui si conservano alcuni esemplari nell’Archivio). Potremmo forse contrapporre, come due poli in guerra, Nick Land e Donald Trump? Nick Land potrebbe essere un antico sciamano, un precursore, e Donald Trump la sua controparte, un oscuro stregone voodoo. Potremmo congetturare considerando quella raccontata da Edurr come la guerra primeva tra le forze magiche che oggi governano l’Altrove.

Viviamo in tempi interessanti in cui è in corso una guerra spirituale tra le forze dell’apertura e quelle della chiusura.

Ha scritto Edurr in un altro frammento.
Devo ammettere che quando sono riuscito a recuperarlo e decrittarlo ho dovuto strofinarmi gli occhi e cambiare il liquido interstiziale più volte, nel tentativo di capire se quanto stessi leggendo fosse una mia proiezione o corrispondesse a un’inscrizione tangibile rimasta nello spazio.
Ho avuto timore di aver evocato io stesso Edurr, dalle pieghe del tempo dentro di me.
Rassicurato dalla medicina, ho continuato a lavorare senza sosta a quei file così danneggiati, a scavare ed enucleare ciò che era rimasto integro. Dopo poco mi sono imbattuto in un altro titolo:

Decide la Macchina. Il Calcolatore universale di Culianu.

Cos’è la Macchina? La definizione che costruisce Edurr ricorda molto da vicino la «teoria dell’Apparato» di Kolef, il bio-filosofo che sostiene da secoli la presenza di un enorme organismo onnipresente atto a controllare le nostre esistenze.

L’universo è chiuso in un immenso social network ed è bloccato in un eterno presente dove non esiste alternativa.
[…]
non esiste futuro perché ogni cosa è già decisa e prevista: la Macchina, governatrice dello spazio e del tempo, è colei che ha decretato la fine della Storia.

L’Apparato di Kolef potrebbe corrispondere allora al «Calcolatore universale di Culianu»? Sarebbe forse Culianu lo sciamano che ha individuato l’organismo controllore delle nostre vite? Oppure lui ne è il creatore, l’inventore, l’architetto? O ancora si potrebbe trattare solo di una nomenclatura o di un luogo geografico. Mi sembra però che l’idea del «Calcolatore» corrisponda esattamente alla descrizione dell’Apparato che sta riscrivendo la nostra storia, proprio a partire – come scrive Kolef – da un punto preciso dello spazio-tempo, un istante palindromo, in grado di modificare contemporaneamente passato e futuro.
E se quella data fosse proprio il bellizariano 02.02.2020?

Nonostante la domanda resti aperta, trovo comunque interessante paragonare le parole di Kolef, quando dice che l’Apparato ha rinchiuso le nostre esistenze cancellando il passato e riproducendolo a sua immagine e somiglianza, per eliminare la possibilità di una rivoluzione immaginale; e quelle di Edurr che, nello stesso capitolo sul Calcolatore di Culianu, scrive:

Il tempo e lo spazio sono piegati. Il super-computer algoritmico sta lavorando retroattivamente per riscrivere una storia che lo vedrà trionfante.

Le teorie di Kolef, come quelle di Ralser e Bhulz, ritrovano in questo dossier la loro veridicità: se dovessimo certificarne la provenienza temporale e geografica, allora risulterebbe ormai chiaro e lampante quanto Kolef avesse ragione e dovremmo arrenderci all’evidenza che la nostra esistenza altro non è se non un riverbero di un grande Apparato in grado di scrivere e riscrivere la nostra storia ciclicamente, intrappolandoci per poter succhiare da noi non si sa quale energia né per quale oscuro scopo. Le nostre vite sarebbero allora una menzogna. I nostri cari non sarebbero più i nostri cari; gli eventi che hanno costellato la nostra esperienza di crescita sarebbero allora meno che immaginari.

Personalmente, la sola idea che la mia vita (che considero una vita felice, di cui essere orgoglioso) sia stata tutta un’illusione, mi fa tremare e mi appassiona al contempo. Certo, quando entro nella mia capsula e apro il Varco, quello che posso esperire mi riempie in modo talmente profondo che non potrei dire che sia falso, non potrei mai considerare la mia Unione una menzogna.

Nonostante ciò, provo a prendere in considerazione l’ipotesi di considerare Edurr come un essere umano reale, vissuto centinaia se non migliaia di anni or sono. Un’epoca in cui una devastante guerra magica ha decretato le nostre sorti e nella quale risiede la risposta a tutte le nostre domande: rimaniamo comunque imprigionati in una gigantesca illusione e tutt’attorno pestilenze e carestie devastano il pianeta e noi siamo conservati, inermi nei nostri bunker, nutrimento eterno per un enorme organismo cibernetico che produce per noi un’illusione digitale – chiamarlo Apparato di Kolef o Macchina di Culianu fa poca differenza.

Cosa ne conseguirebbe?
La necessità di tentare di cambiare questo stato di cose e quindi di prepararsi a una nuova guerra.

Il voodoo digitale che chiude la mente ha bisogno di un controrituale capace di sintonizzarla verso l’imprevedibilità e l’unicità.

Il nostro Edurr ci esorta a compiere un ‘controrituale’ magico e immaginale, tramite il quale, ci dice,

opporre al Dataismo della Macchina un nuovo Dadaismo dell’Immaginazione.

Il «Dadaismo immaginale» sarebbe quindi un tentativo di riconfigurazione mentale che vada verso l’imprevedibilità e il caos. Uno sforzo, quantomeno eccentrico e forse insensato.

Vi è uno stralcio, che spero di aver ricostruito in modo abbastanza fedele, nel quale Edurr scrive che

i fantasmi del passato sono i possibili alleati di un dadaismo del futuro.

E se Edurr fosse proprio uno spettro? Credo che potremmo davvero dare ascolto a questa voce nel buio e quantomeno tentare di attraversare la soglia dell’immaginale con un altro spirito, con un’altra concezione mentale, che ci permettano di considerare il ‘fuori’ sotto una nuova luce: forse esso esiste ed è qui che si trova.
Proviamo a raffigurare l’esterno come un luogo vivibile. Tentiamo di fare uno sforzo: immaginiamo quello che è fuori dai nostri bunker come se fosse un mondo simile a quello immaginale, ma legato in modo inscindibile al nostro tempo, alla nostra carne, ai nostri corpi. Cosa potremmo fare se non uscire?
Credo che davvero sia possibile, concretamente, uscire dal bunker e che lo spazio immaginale dove viviamo tutte le straordinarie esperienze che formano la nostra vita possa essere veramente solo un luogo virtuale controllato dall’onnipresente Apparato, all’interno del quale noi subiamo un intrattenimento vuoto, utile soltanto a tenerci chiusi, serrati nei nostri bunker, necessario per insegnarci subdolamente che il fuori non esiste e la pestilenza perenne ci ucciderebbe all’istante.
O forse i virus sono lì in agguato e provano a entrarmi nel cervello nel tentativo di avermi e potersi nutrire delle mie carni.

L’Immaginazione è lo spazio dove la magia è possibile. Se nell’Immaginazione ciò che è corporeo diventa spirituale e ciò che è spirituale diventa corporeo, allora l’immaginazione è il punto d’incontro tra i due domini opposti del mondo: è il luogo dove la materia e lo spirito si incontrano. È il vecchio sogno della magia: fare cose con le parole.

Il «Dadaismo immaginale» sperato da Edurr potrebbe essere davvero l’insegnamento sul quale si basa il controrituale tramite cui poter trascendere l’immaginale e raggiungere l’Immaginazione. Si tratta di magia rituale, adesso lo so. Ogni giorno, da quando ho ritrovato questo dossier tecno-sciamanico, pratico l’Immaginazione nel tentativo di congiungere ‘corporeo’ e ‘immaginale’ nell’unico luogo d’incontro. Sono convinto che così mi sarà possibile uscire dal bunker. Sono sicuro che questa possa essere una strada, l’unica.

***

Se qualcuno sta leggendo o leggerà questi miei file testuali, che sembrano stralci di strani appunti e divagazioni: io mi rivolgo a te. Non prenderli come uno studio filologico molto fantasioso. Le parole che ho qui riportato sono davvero state scritte nel 2020, un anno catastrofico i cui eventi eccezionali sono forse soltanto i primi di una lunga catena. Non importa chi tu sia o quanto tempo sia passato da quell’anno emblematico. Siamo tutti arrabbiati e delusi dai nostri simili. In collera con i nostri avi per il mondo che ci hanno lasciato e sprezzanti verso i nostri figli e i figli dei nostri figli e tutte le generazioni a seguire. Ci chiediamo entrambi se la nostra esistenza si possa ridurre a un’illusione e se questa si trovi al momento culminante della sua egemonia. Sentiamo tutti l’avvicinarsi dell’apocalisse, eppure potrebbe essere già avvenuta, più di una volta, e potrebbe ripetersi per sempre. Non c’è differenza tra me e te: siamo vivi poiché possiamo morire. Questo è il rischio di essere. Andare incontro alla fine senza considerare i limiti del corpo, abbandonarsi alla vita. Arrendersi alle frustrazioni del tempo, alle domande senza risposta, alla possibilità che niente abbia senso e tutto sia falso. Cos’è poi vero o falso? Edurr e il suo diario misterioso sono davvero più reali delle mie mani e dell’epidermide morbido e liscio che le conchiude? Il mio respiro, qui dentro, è più reale di ciò che vedo tramite le lenti? Abbiamo sconfitto la morte oppure è la morte che ci ha battuto dandoci l’illusione che non esista più, che sia finalmente scomparsa?

Eppure ho in testa delle immagini di corpi sconosciuti che s’incontrano, si toccano e si penetrano l’un l’altro. Li vedo mentre riposano. Queste immagini sono meno reali di quelle che osservo oltre il Varco del cyberspazio? Morire e vivere, sono davvero gli opposti; oppure vivere corrisponde proprio a morire?
Quello che ti chiedo è una cosa semplice e di enorme portata, un atto collettivo. Ti chiedo di partecipare al controrituale con un gesto elementare che può davvero cambiare il mondo. Sollevati e respira profondamente. Guarda l’esterno e spalanca l’apertura del bunker. Esci dal loculo che chiami casa e respira di nuovo e se morirai,

 

Testo tratto da: AA.VV.,Piccola antologia della peste, Ronzani editore 2020

Paolo Virno: sulla natura dell’animale loquace

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di Paolo Godani

 

Sono due le istanze fondamentali che guidano il lavoro filosofico di Paolo Virno dal Saggio sulla negazione. Per una antropologia linguistica (Bollati Boringhieri 2013) sino a Avere. Sulla natura dell’animale loquace, passando per le pagine inedite contenute in L’idea di mondo. Intelletto pubblico e uso della vita (Quodlibet 2015) – entrambe volte indagare o a costruire lo spazio che si apre all’intersezione di logica e antropologia.

La prima è l’esigenza di rendere espliciti e il più possibile trasparenti i modi spesso intricati, opachi e non a caso paradossali, con cui il soggetto umano sembra relazionarsi con le proprie caratteristiche naturali o essenziali. È un’esigenza dialettica o, come preferisce dire l’autore, l’istanza di una “filosofia dello spirito intrisa di materialismo” che trova la sua matrice nella filosofia classica tedesca.

La seconda, sulla quale vorrei attirare innanzitutto l’attenzione non solo perché mi è più congeniale, ma anche perché qui in Avere viene in piena luce, è l’esigenza di affermare nella maniera più netta la consistenza al contempo ontologica e impersonale della natura umana, ovvero delle abilità, degli affetti, dei requisiti biologici e delle situazioni storiche che ci definiscono come animali loquaci. È, questa, un’esigenza che porta Virno a un confronto serrato, ma mai accademico, con la metafisica greca (in particolare con il Parmenide di Platone e con le Categorie di Aristotele).

La tesi di Avere, in fondo, è molto semplice: l’essere umano, per il fatto di avere un linguaggio, e in particolare per il fatto che nel suo linguaggio esistano operatori peculiari come la negazione e il verbo avere, è un essere costitutivamente incapace di coincidere con la propria essenza, un essere che si pone costituzionalmente a distanza da se stesso. Lo testimonia, in maniera apparentemente inoppugnabile, la possibilità di “levare la mano su di sé”, cioè di rinunciare al proprio stesso esserci. All’essere umano, a ogni essere umano, può capitare di essere se stesso, solo perché, innanzitutto, può non essere ciò che è – e questo per il semplice fatto che il “ciò che ognuno è”, l’essenza di noi stessi, la possediamo, l’abbiamo, è nostra, sempre e solo come alcunché di estrinseco. Possediamo la nostra natura, ma come qualcosa che non ci appartiene.

Questa tesi, che nelle mani di qualche “squisito” intellettuale alla moda potrebbe diventare un ritornello da cantare in coro ad ogni festival, viene trattata da Virno con estrema circospezione. La stoffa del filosofo si riconosce dal modo in cui riesce ad evitare i tranelli che le sue stesse tesi gli tendono immancabilmente.

Il più infido tra i fili tesi sulla via dell’avere o, più semplicemente, la “tentazione cui può essere indotto il pensiero” è la “credenza sempre fallace, spesso irresistibile, talvolta abietta” secondo la quale il vivente umano sarebbe qualcuno che “compone come un puzzle, anzi inventa, giocando con il linguaggio, l’ousía che più gli aggrada” (cap. 6., § 1.,Domande scabrose). La trappola, dunque, consiste nel prendere il soggetto umano che ha, e non è, la propria essenza, per “un soggetto privo di qualsivoglia prerogativa essenziale” (ibidem), ovvero – se vogliamo considerare la formulazione filosofica più nota di questa credenza, quella heideggeriana – per un soggetto o un Dasein che, in quanto ha da essere la propria essenza, risulterebbe “privo di, o provvidenzialmente esonerato da, qualsiasi requisito essenziale” (cap. 6., § 2., Apparenze inevitabili).

Per evitare il tranello di un soggetto che, in quanto vuoto o indeterminato, sarebbe infine capace di tutto, Virno adotta diverse strategie, tra le quali la più sorprendente è forse il riferimento alla dottrina platonica della “partecipazione” (methéxis). La sorpresa, naturalmente, sarebbe frutto di ingenuità, se è vero che il verbo metéchein implica échein, “avere”. Per il soggetto umano avere, e non essere, la propria essenza, significa partecipare della natura umana (cfr. cap. 4, § 1. Partecipazione). Il punto rilevante, qui, è che affermare il distacco dell’animale umano dalla propria essenza non ha la funzione di stabilire la nostra abissale e angosciosa assenza di determinazione, cioè la nostra “libertà”, bensì di stabilire che ognuno è parte, modo, variazione di una natura comune. I tratti caratteristici della natura umana, spiega in questo senso Virno, non sono in alcun caso predicati ascrivibili ad un soggetto, ma sono res, cose, che non mancano di manifestare una perfetta indipendenza rispetto a ogni loro singola “incarnazione”.

È forse persino superfluo aggiungere che questo prelievo platonico non conduce Virno ad assumere per interno la dottrina platonica delle idee, ivi compresa, dunque, la pre-esistenza di queste ultime. Ma che le idee non esistano per sé e non popolino l’Iperuranio, bensì siano esse stesse il prodotto di azioni, abitudini, usi, non le priva affatto della loro consistenza ontologica, né del loro carattere impersonale ed estrinseco. Nella sintesi di Virno: “Mettere al centro della scena l’incompatibilità delle abilità e degli affetti che abbiamo con la funzione predicativa equivale a segnalare la consistenza ontologica di quelle abilità e di quegli affetti, vale a dire la loro natura di res autonome. Le azioni partecipative emancipano i requisiti biologici e le occasioni storiche cui si applicano dalla imbarazzante condizione di puri contenuti semantici, di significati indipendenti dalla prassi. Ne fanno piuttosto delle risorse estrinseche, impersonali, pubbliche” (cap. 4, § 7. Risorse pubbliche, non predicati).

Resta, tuttavia, il fatto che, di queste risorse estrinseche, impersonali e pubbliche, qualcuno sembra far uso. Virno non si accontenta di dire che le abilità e gli affetti caratteristici della natura umana presentano un ampio spettro di variabilità, con cui di volta in volta si realizzano in questo o quel singolo individuo. Non si accontenta, cioè, di mettere la variabilità (e, di conseguenza, l’individuazione) tutta a carico di quella stessa natura comune di cui ognuno di noi è parte. Né l’affermazione del distacco, né il tema dell’uso mi pare precludano questa via: si potrebbe dire, per esempio, che non sono i singoli individui a usare la natura umana, ma che è quest’ultima a far uso di sé, attraverso gli individui che la incarnano di volta in volta.

Ma è un’altra la strada che Virno prende sul finale del testo, dove, parlando del “groviglio logico e antropologico” che caratterizza il “paradosso della soggettività”, non rinuncia a sostenere che il soggetto, cioè “l’avente, pur essendo determinato fin nelle sfumature dall’avuto [cioè la natura umana], mantiene una spiccata autonomia, o distanza, da ciò che possiede” (cap. 6., § 3., Tre coppie per una danza). Virno vede molto bene che se il soggetto, pur conservando una qualche autonomia, è interamente determinato dalla natura che possiede, non ha alcun senso domandarsi che cosa esso sia al di là di quella natura – dato che la risposta potrebbe essere soltanto una, ovvero che il soggetto è appunto la natura che ha. Ecco allora che l’unica strategia possibile resta quella, tipicamente aristotelica, di sviare la ricerca di una definizione. Non, dunque, domandarsi che cosa sia il soggetto che ha la propria vita e la propria natura, i propri affetti e la propria biografia, ma come si configuri la sua situazione paradossale. Una fenomenologia.

E una dialettica, per quanto spaesata. Ammessa l’autonomia del soggetto umano, la sua situazione sembra quella di un essere anfibio, capace di sopravvivere in due ambienti differenti solo perché si trova sempre in quello sbagliato.

L’umano sembra potersi appropriare della natura che è sua, ma in realtà non può che viverla come un portato esteriore: posso dire, certo, “questo è il mio corpo”, ma non mancando di percepire tutta l’estraneità che questo mio stesso corpo porta con sé. Oppure, viceversa, posso sapere che l’affetto di amore o d’ira che mi trascina è alcunché di comune a tutti, eppure non posso, al contempo, non assaporarne o soffrirne la declinazione particolare che esso sembra assumere per il fatto di essere il mio affetto di amore o d’ira. Da un altro punto di vista (che declina lo spaesamento della dialettica esistenziale in termini temporali), il vivente umano possiede la propria natura non come si possiede un pacchetto di beni utilizzabili, ma la possiede come un credito esigibile: “ha realmente le risorse innate che gli spettano, il vivente creditore, ma le ha a mo’ di ipoteca sull’avvenire” (cap. 6, § 6. Debito e credito). D’altra parte, questo stesso “creditore della propria essenza” (ibidem) è anche qualcuno che “ha ricevuto le proprie prerogative essenziali senza dare in cambio alcunché” (ibidem); è cioè un “vivente indebitato”.

Dialoghi con le tubature

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di Roberta Salardi

Frammento tratto da Trilogia della scomparsa di Roberta Salardi, Effigie, settembre 2020 (pagg 99-102)

 

T’è mai capitato di mangiarti le mani? Io ho continuamente voglia di masticare qualcosa, qualunque cosa. Finito il pane e le sigarette, mi mangio le unghie, i capelli, le pellicine… Finiti i miei, vorrei passare ai tuoi. Ma dopotutto non credo affatto che staresti meglio senza tua madre. Nonostante tutto, ti sono necessaria. Qualcuno deve pur piangere sul latte versato! Tu saresti capace di sprecare persino l’olio senza fare una piega.

«Senti quello che dico?»

Mi fai blaterare e blaterare al vento. Dov’è quel disgraziato di tuo fratello? Non è colpa sua se non risponde. Sei tu che l’hai ridotto così.

 

È difficile per te immaginare una corsa per portare a qualcuno, da qualche parte, a qualcuno, un corpo freddo, bagnato, ferito, esanime, svenuto, trascinato correndo, prendendo in braccio un corpo morto, incespicando, sollevato ansimando, pesantissimo, caduto, cadendo a corpo morto, rialzandosi, facendosi aiutare da qualcuno sulla strada, forse dietro l’angolo, fuori dalla boscaglia, credendo che fosse un tuffo non un scivolata, mettendo male il piede, raddrizzandosi, il corpo di qualcuno respirante, gorgogliante però muto, assente, snodato, annegato, il corpo di un fiume, di un mare scivolato per sbaglio in una bocca, in una gola aperta, con i pesci che vogliono nuotare, saltare, respirare, il naso che vuole respirare, uscire tra le foglie, gli occhi chiusi che anelano alla luce oltre i rami, oltre la superficie delle foglie, ma la testa riversa, un braccio pesantissimo, il corpo molle, sciolto, libero di nuotare sbracciato, con la testa indietro, in giù, crollata, scrollando l’acqua, vomitando i pesci, la sabbia, le mie collane, nuotando, affogando, sbagliando strada, rifacendola a testa in giù, sott’acqua, ma respirando ancora, soffiando, senza dimenticare di saltare le onde, mangiare i pesci, passare sotto i rami, dandomi la spinta, ancora un colpo di reni, incrociando qualcuno, chiamando a gran voce, a grandi bracciate…

È difficile immaginare le fatiche inutili, le corse controvento, il tempo perso per salvare qualcuno: per qualcuno che era già morto tanto tempo fa, a sedici anni: felice di esserlo, di sedici anni e morto per sempre.

 

Lasciatemi stare! Sto tanto bene dove sono… Voi scherzate! Non tornerò per due donnette stupide, per una madre che straparla e per una ragazzina presuntuosa e petulante, favola di tutto il quartiere. Tutti ridono a crepapelle alle nostre spalle per le sue stramberie e vanterie. Una che vorrebbe darsi a tutti ma nessuno si prende, tanto per capirci. C’è da vergognarsi ad avere una famiglia così. Non tornerò per un inferno ammobiliato con cucina abitabile, meglio non abitarle troppo le cucine: pane e sangue marcio, sangue marcio con e senza pane… Soprattutto se torna mio padre, quello proprio non fatemelo rivedere. Lavorava ma era sempre povero in canna; manco a farlo apposta, più lavorava e più era povero… Qua in giro non lo poteva vedere nessuno. Doveva dei soldi a metà isolato e tutti a chiedere a me, da quando era sparito, manco m’avesse lasciato l’eredità, lo stronzo. Mia madre, una scema e mia sorella, una stronza anche peggio di mio padre. Due gocce d’acqua. Mai una volta in sedici anni che mi abbia regalato uno dei suoi ciondoli, delle sue collanine, che so, da rivendere tanto per farci qualche dose, per sballare un po’ con gli amici. Poteva venire anche lei se voleva. Ma no, lei faceva la freddina, la perfettina. Si dava un tono, la cretina, poi si sarebbe fatta scopare da cani e porci, soprattutto i porci. Se per caso c’era un nuovo arrivato scartato da tutti con la faccia da depravato, quello le piaceva. E chiedeva a me come arrivarci, come fare a conoscerlo. Ah, sì? E tu cosa mi dai in cambio? Inutile stare a spiegarle, solo tempo perso. Quante volte avevo provato a dirle che volevo ritrovare nostro padre per spaccargli la faccia? Ma lei non ascoltava, le parole le entravano da un orecchio e le uscivano dall’altro. Solo canzonette. Non aver tirato un pugno a mio padre, questo sì, questo lo rimpiango. Ma non rovinatemi il trip, se no m’incazzo. Questa è la dose più figa che mi son fatto, se permettete.

Non torno indietro certo per quella faccia di merda di chi ha avuto la viltà di mettermi al mondo. Prima si è scopato per bene mia madre, ma non è tutto. Non gli è bastato. Ci ha pure lasciato a galleggiare tutti quanti in questa fogna. Grazie tante. È questo che dovrei dirgli? Bastardi!

Dovrei tornare  indietro per voi, figli di puttana?

Le fighe… ho capito dove volete arrivare. Ma io non ne ho bisogno. Visto che ci tenete, v’insegnerò un trucco. Si può arrivare al bello saltando quel passaggio, tutta la rottura di coglioni delle donne. Io ci ho dato un taglio. Be’ c’è chi può, modestamente…

Quando scopri la chimica, sei salvo. Sei Dio, cazzo!

Modestamente, ce l’ho fatta. Io sono in paradiso. E voi crepate, stronzi!

 

Mia madre che correva per le scale cercando di capire, di sentire: «Cos’è successo?» Ma il fiato era fermo in gola, allacciava le parole. Scendendo, risalendo le scale. Correndo con lentezza, la voce arrotolata, le gambe annodate… «Ho sentito qualcosa…» … i piedi…  «un rumore… » … pietrificati… «Perché i piedi sono così freddi?» Non un rumore, un grido.  «Mi avete chiamata?» I piedi pesantissimi. Un corpo scomposto, un grido disarticolato, caduto giù per le scale… Scendendo, non più salendo, solo scendendo… «Non sarà…?» Il corpo ghiacciato. «Fulvio! Martina!» Credevo fosse un tuffo, non una scivolata. Quando uno salta sugli scogli e sta provando… salta sui lastroni… «Martina!» Credevo fosse una finta, non una caduta… «Non è possibile!» Una passeggiata, non una corsa. «C’era qualcuno con te, se no… » Saresti capace… «Dov’eri?» Soltanto una stupida…

 

 

L’aratro della discordia

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di Giacomo Sartori

C’eravamo già da moltissimo tempo abituati a raccogliere quello che trovavamo andando in giro, milione di anni dopo milione di anni, poi l’altroieri ci siamo messi a raccogliere i semi delle piante e a piantarli noi. Per varie ragioni sulle quali gli esperti non sono nemmeno troppo d’accordo, adesso non stiamo lì a disquisire di questo. Invece di sgambettare in giro raccoglievamo i semi delle piante che avevamo seminato e li mangiavamo, e una piccola parte, quelli più grandi e delle piante più belle, li riseminavamo. Era insomma nata l’agricoltura, e la genetica. E erano apparsi i commercianti. E anche i guerrieri, perché dove c’è commercio c’è guerra, questo è assodato.

Non cerchiamo di appurare se in questo passaggio siamo diventati più felici o meno, la felicità si soppesa male. Senz’altro nel cambiamento siamo diventati più stupidi, e il nostro cervello si è rimpicciolito. Perché per raccogliere quello che c’era ci voleva un’ottima memoria e bisognava essere molto esperti, ognuno doveva essere un insigne tassonomo e naturalista. In ogni caso seminando noi le piante abbiamo fatti progressi incredibili anche in termini numerici, cosa da fare invidia alle formiche dei formicai.
Siamo una specie intelligente, anche se magari un pochino meno di prima, questo non si nega, e abbiamo visto che se preparavamo la terra con uno strumento idoneo, che abbiamo chiamato aratro, i semi attecchivano meglio, e le piante erano più contente. Perché le piante coltivate non amano le erbacce, insomma quelle che consideriamo erbacce, e amano trovare il terreno morbido e arioso. Nel frattempo avevamo adottato i metalli, e quindi gli aratri erano molto più robusti, sempre più robusti, e più pesanti. Per tirarli ci attaccavamo dei buoi, e dopo qualche rapidissimo migliaio d’anni dei motori con le ruote, che chiamiamo trattori. Abbiamo arato tutte le foreste di pianura, e non solo quelle, per creare campi arati, sempre più campi arati, campi arati dappertutto, basta vedere il disegno di Silvia. Spesso alla terra non piaceva essere arata, e se ne è andava via. Siamo sempre più numerosi, e sempre più affamati di animali, che mangiano tantissimo, e quindi abbiamo bisogno di tantissimi campi arati.
Il nostro vero avanzamento tecnologico è questo, l’aratro, tutto il resto, compresi i tanto decantati computer, e l’ingegneria genetica, sono dettagli da niente. Da sette-diecimila anni mangiamo piante coltivate su terreni arati, o animali che mangiano piante coltivate da terreni arati, e adesso anche pesci che mangiano piante coltivate su terreni arati. Il problema è che negli ultimi cento anni abbiamo molto tirato la corda, a forza di concimi chimici e di arature e riarature, e la terra arata si è stancata, spesso è ammalata, o semplicemente se ne è andata via per sempre. Poi qualche decennio fa gli americani si sono accorti che potevano in fondo piantare i semi anche senza arare, la terra si stancava meno. Facendo dei buchini con una grande macchina, e mettendoci dentro i semi: le piante sono contente anche così. Il problema senza arare sono le erbacce. Per sterminare le erbacce gli americani usano i diserbanti. Giù pesanti con i diserbanti, e il terreno è pronto per la semina. E’ un metodo che si sta diffondendo dappertutto, perché le trovate americane fanno sempre colpo. Il problema sono questi cavoli di diserbanti, e le porcherie che formano degradandosi: dal terreno vanno anche nelle acque, e poi nel nostro sangue e in quello degli altri esseri viventi.
Il nostro problema adesso è questo: siamo tantissimi, sempre di più, e abbiamo tanta fame, fame di torelli e maiali che maciniamo e infiliamo nei panini, o che spadelliamo a fettine. E quindi attacchiamo gli ultimi lembi di foresta tropicale. Se però continuiamo a usare l’aratro stanchiamo troppo la terra già indebolita dai concimi chimici e dall’erosione, già morente. Se non usiamo l’aratro la facciamo ammalare per i diserbanti, e ci ammaliamo anche noi. Un bel cruccio, un vero di lemma, altro che intelligenza artificiale e nanotecnologie.

 

NdA: questo pezzo è inserito nel catalogo della mostra di (bellissime) opere infantili “Terra!“, organizzata da Fondazione PinAC di Brescia (Rezzato), e ora aihmè sospesa, ma aperta fino a giugno 2021; il catalogo comprende anche vari altri interventi di ricercatori e specialisti ambientali, ognuno dei quali abbinato a un’opera esposta; l’immagine:: Silvia Heimbach, Vienna, 1967, tempera, 50×41 cm

 

TECHNE.

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di Andrea Migliorini

Rick Gin, dopo una lezione di greco in cui aveva ascoltato ben poco, si era convinto che anche il sesso, come la retorica, fosse una questione di tecnica. Era lunedì mattina. Nel weekend, Rick Gin aveva incollato post-it riassuntivi ai bordi delle pagine di un libro che, il sabato prima, gli era apparso in fondo alla schermata di Amazon, nei consigli basati sulla sua cronologia, dopo aver appoggiato nel carrello un pacchetto di preservativi latex-safe e una borraccia termica. Al termine della consultazione del volume, incuriosito e non del tutto soddisfatto, Rick Gin aveva scorso le pagine dei siti che quel libro – Sex for dummies – si arrischiava di definire affidabili. In breve, Rick Gin si rese conto che il grado di scienza da lui raggiunto era ormai tale da permettergli di progredire nella materia. Era tempo di visitare quei siti che l’autrice – una sessuologa americana specializzata in angolatura del pene – aveva ritenuto adatto isolare in una apposita cornice dai contorni tratteggiati che, N.B., avvertiva l’amor proprio di chi v’entrava:

SOLO PER UTENTI
ESPERTI

Spulciate le sezioni più recondite dell’ultimo sito della lista – Duffy Dick – Rick ritenne di aver chiarito gli ultimi dubbi sulle sue lacune, e si dedicò alla stesura di un programma di allenamento personale: non gli sarebbe più successo, al suo livello di preparazione teorica, così pensava, di venire dopo due minuti – misura che, con fiduciosa generosità, Rick Gin era giunto a stimare quale media delle sue performance, costretto a questi calcoli da un format online che poneva ai visitatori più curiosi un questionario circa l’annosa questione della durata del piacere.

Sebbene, allo scoccare del secondo minuto, la sua ragazza – Linda Blummy, due anni più piccola di lui – lo accarezzasse sempre con una tenerezza sfrenata e accogliente, quel lunedì, mentre tornava a casa da scuola, Rick Gin si era convinto che doveva esserci una soluzione meccanica ai suoi problemi. Gli tornarono alla memoria le parole di suo zio, primario di urologia infantile all’ospedale Baby Jesus di Vike City, pronunciate tempo addietro, a una cena di Natale: «Il pisellino, caro Rick, è un congegnetto: tutto storto, ma simpatico. Sotto la linea della pancettina sta una fune. Ecco. Questa fune, caro Rick, si collega agli occhi, e alle mani, e alla lingua. Hai presente i ponti levatoi dei castelli?, ecco, funziona più o meno così». «Dunque – pensò di nuovo Rick, ripercorrendo con la mente il discorso dello zio – Dunque, il sesso è una questione di tecnica; deve essere, una questione di tecnica». Bastava capire come.

Quel lunedì era il 23 Novembre 20**. Erano le 23.45 quando lo schermo del cellulare di Linda Blummy si illuminò: RICKY<3 le scriveva che per quella settimana non avrebbe fatto in tempo a vederla, nonostante le avesse promesso che avrebbero fatto colazione insieme mercoledì prima delle lezioni. Linda gli rispose con un messaggio conciliante: non c’erano problemi, si sarebbero visti nel weekend; qualora, ovviamente, lui fosse stato più calmo; ma mi manchi di già, così gli scrisse lei, infine, prima di spegnere il cellulare.

Rick sarebbe stato pronto a giustificarsi con miliardi di scuse: verifiche, interrogazioni a tappeto, versioni senza dizionario, la simulazione di terza prova. Ma Linda non gli aveva chiesto giustificazioni, così Rick Gin passò il tempo libero di quella settimana a rileggere i passi che aveva evidenziato nel libro della sessuologa e a navigare fra le pagine web salvate tra i preferiti. Si stupì di quanto l’alimentazione fosse importante in questo genere di processi, e organizzò un regime alimentare che unisse le ancora valide convinzioni degli antichi – riso Venere, zenzero, vino rosso – ai consigli degli specialisti d’oggigiorno: tuorli d’uovo, avocado, fettine di roast-beef crudo e così via. Si diede poi, seguendo le indicazioni di un personal trainer il cui motto di presentazione era:

Your cock
is the strongest muscle you’ve got,

a doppie sessioni di masturbazione quotidiana. La mattina cercava di sfruttare le vivide fantasie di sogni declinanti; la sera invece ripiegava su siti porno di nicchia, ripromettendosi di non saltare mai l’intro. Mai avere fretta, ammoniva Duffy Dick. Mercoledì notte, nonostante il GLORIOSO allenamento del martedì sera, Rick Gin si svegliò con una macchia biancastra, quasi giallognola, al centro delle mutande nere in microfibra di Underwearest. Fu costretto poi, con estrema difficoltà, dato il materiale, a bruciarle con dell’alcool, così come indicava, per casi del genere, la regola numero 8 del breviario di autocontrollo pelvico redatto da un blogger di nome Francesco che, su Medium, si faceva chiamare fra.legambe.

Il giovedì e il venerdì passarono tranquilli, quiescenti nella nuova routine del LEONE – si era dato questo soprannome per motivarsi, Rick Gin, come consigliava manoamica.org. Mentre il sabato, quando ormai la tensione iniziava a insistere alle porte della coscienza, Rick uscì a correre, per rilassarsi, e percorse 10,5 km in 47 minuti e 08 secondi, con una velocità media di 13.7 km/h e un dispendio calorico di 578 kcal. Il pomeriggio, per sollecitare la produzione di testosterone, seguì le linee guida di un workout che aveva individuato nel libro della sessuologia: 40 flessioni a braccia larghe, 15×4 burpees, 20 squat thrust, 3.50 minuti di plank sui gomiti.

Al termine di una notte senza macchia e senza sogni, tra i buchi delle tapparelle filtrò l’alba timida della domenica, che la madre di Rick, con ingenua fedeltà, salutava ancora come il giorno del Signore, concedendosi, per ringraziarlo, una colazione di circa tre ore, accompagnata dalla lettura integrale delle pagine culturali di The Truth. Rick aveva appuntamento a casa di Linda, che abitava sulla Settima, alle 11:30, giacché aveva letto, su manoamica.org, che l’orario preprandiale è il più indicato per gli amplessi di lunga durata. Per colazione si preparò, con il sottofondo delle sottili pagine di The Truth che giravano, un vasetto di yogurt per i grassi e fette biscottate con burro di arachidi per carboidrati e proteine. Erano le 9.30, controllò Rick, e calcolò che i tempi digestivi erano perfetti. Così mandò un messaggio di conferma a Linda, che, quando lo lesse, si mise a preparare una torta di carote e ricotta dolce.

«Vai da Linda, oggi?» chiese la madre, prima di voltare pagina, indugiando tuttavia a metà su una parola lunga, di difficile lettura. Rick scavò nel vasetto di yogurt le ultime tracce, ed emise un muggito nasale – riprodurre versi animali era, secondo fra.legambe, un buon riscaldamento per risvegliare l’atavismo dei sensi. «Che carina che è, la Linda. Speriamo solo che non si tagli di nuovo i capelli da maschietto». La madre di Rick era in grado di innescare nella coscienza di lui, con semplici frasi, a sua detta innocenti, fenomeni che alle amiche Mary Bertal – così si chiamava la madre – definiva problemi di comunicazione, mimando le virgolette con le dita. Quella volta in Rick si agitarono gli stessi demoni per i quali suo padre si era sempre rifiutato di guardare per intero Magic Mike. Ripensò al taglio a caschetto di Linda, al giorno in cui, senza avvisarlo di nulla, si era presentata a scuola coi capelli corti, e lui l’aveva trovata non soltanto più bella di prima, ma bellissima. Bellissima, pensò di nuovo, e scacciò, grattandoli a forza, i tratti ingiustamente virili che la frase di sua madre aveva apposto all’immagine di lei, come una caricatura. Avrebbe voluto litigare, ma si rese conto di non averne la forza, e si limitò a pronunciare, sillabandola, la parola difficile sulla quale la attenzione della madre si era posata fino a quel momento: GEN-TRI-FI-CA-ZIO-NE disse, e la madre sospirò di sollievo, prima di passare finalmente alla pagina successiva.

Rick tornò in camera sua, indossò le mutande in microfibra, fece una ventina di flessioni aggiuntive e uscì schiaffeggiandosi le guance: LEONE, lui era un LEONE. Il campanello di Linda suonò dieci minuti prima del previsto: Rick Gin aveva bruciato le previsioni di Google Maps, che calcolava un tragitto di 28 minuti tra le due case; lui ne impiegò 15. Scarsi. Linda lo accolse con il calore del forno ancora acceso; l’odore di carote e zucchero che pervadeva la cucina ricordò a Rick Gin quello delle mattine che seguivano le loro prime notti d’amore e, assieme, l’umiliante brevità delle sue erezioni. Non se l’aspettava, Rick Gin, quel simbolo: nessun sito aveva preso in considerazione quella eventualità, e il libro della sessuologa, come del resto si dichiarava onestamente nella prefazione, si limitava a questioni pratiche, rimandando ad altri specialisti per i problemi di natura psicologica.

Cercando di vincere il peso di quel fastidioso inconveniente, Rick trattenne il fiato per qualche istante, e sfruttò l’ossigeno incamerato per slacciare con foga il grembiule di Linda, ancora sporco di granelli di farina; lei si lamentò di quei gesti volgari, che in lui non ricordava; dapprima, con tono divertito, tentò di schermire la violenta passione di quella voglia inaspettata, ma quando le mani di Rick cominciarono a toccarla come se fosse un idolo d’argilla, lei cercò di respingerlo. Fattasi più seria, Linda chiese a Rick di aspettare un attimo: che appoggiasse lo zaino in camera, che bevesse un goccio d’acqua, che assaggiassero una fetta di torta, almeno; ma Rick, che principiava ad avvertire una sorta di patina anestetica intorno al pene, prese il preservativo dalla tasca e si slacciò la patta dei jeans; il pene tuttavia non era alto quanto s’aspettava: era ancora a mezz’altezza; formava un angolo di 90 gradi rispetto alla perpendicolare delle gambe, mentre il libro della sessuologa americana consigliava di tenerlo fra i 70 e i 45 per una penetrazione confortevole e soddisfacente.

Linda, sedutasi sul divano, si slacciò il reggiseno, cercando di indicare con la lentezza dei gesti una conciliante reticenza: poi fissò Rick, il cui corpo pareva tremare pur senza tradire alcun tremore, e ne scrutò lo sguardo, che le cadeva addosso; le cadeva, senza sosta, sui seni; Linda li coprì istintivamente con il braccio, e, mentre Rick si avvicinava, lo osservò di nuovo. Dopo un acuto istante di timore, non provò altro che compassione. Qualcosa le sciolse il guscio d’orgoglio restio che l’aveva avvolta sino a quel momento: scostò il braccio. Davanti a quei seni inutili, Rick, che tentava di reggere con l’indice e il medio il membro cadente, si fermò: «Linda» la implorò Rick, con una voce che non si conosceva. «Linda» era l’unica cosa che riusciva a dire, anche se, in teoria, lui sapeva come affrontare situazioni di stallo: fra.legambe, per esempio, suggeriva alla partner femminile di titillare i testicoli partendo dai peli; ma Rick, sopraffatto dall’odore crescente di carote e zucchero e pasta, riusciva soltanto a ripetere il nome di colei che, per prima, l’aveva iniziato al sudore dei corpi.

«Linda» disse ancora, con il tono che userebbe un giovane padre venendo a conoscenza dell’aborto inaspettato della moglie. Al nome di lei si aggiungessero lacrime di disperazione quando l’angolo acuto divenne piatto. A riposo, l’avrebbe definito la sessuologa. «Ricky» fece Linda, indossando la maglietta di lui, sconvolta dalla sincerità della compassione che provava, che animava le carezze e i sussurri: Shh. «Ricky, lascia», Shh. «Non ti preoccupare», Shh, fece Linda, con la mano sul petto di Rick, Shh, cercando di abbassare il ritmo dei respiri, Shh, salendo con il dorso della mano sino alla attaccatura dei capelli, Shh, capelli castani che tirò fino a intravederne l’origine bianca, Shh. «Io, io non so» riuscì a dire Rick Gin, fra un respiro e l’altro. Shh. «Nemmeno io» rispose Linda sorridendo, seguitando a indagare la soglia fra le ciocche e la fronte.

Città in bilico

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di Valentina Parisi

 

Vicini per chilometri, vicini per stagioni.

C’è modo e luogo di scoprire che il confine è d’aria e luce.

D’aria e luce.

 

C.S.I., Vicini

 

 

Ci sono città in bilico, dove il presagio del confine è così onnipresente da spingerci a credere che a ogni passo potremmo inavvertitamente varcarlo. Città che, come un seggiolino catapultabile, proiettano altrove chi vi è nato, facendogli capire che la loro vera natura consiste nell’essere un trampolino di lancio e, nel migliore dei casi, un luogo cui fare ritorno. Perciò non stupisce che Trieste – dopo le “escursioni” tra saggio e reportage di Magris e Rumiz – continui a generare testi che, eleggendola a proprio punto di partenza, la abbandonano quasi subito per guardare al di là, preferibilmente a est. Pur nella differenza delle rispettive scritture, La frontiera spaesata di Giuseppe A. Samonà e Il bosco del confine di Federica Manzon tematizzano entrambi la natura liminale del capoluogo giuliano, l’uno sotto forma di un erudito invito al viaggio attraverso l’Istria e Lubiana fino a Zagabria, l’altro con una vicenda esemplare di inquietudine e rispecchiamento tra ovest ed est prestata a un io autofinzionale.

Fulcro comune per i due testi è la definizione che Samonà dà di Trieste come città del non: “Non Austria, non Ungheria, non Italia, non Slovenia, non Serbia o Croazia, e un poco, o anche molto, in proporzioni e con propensioni diverse, di tutte queste culture (…) A pochi passi da Venezia, non è più Italia, nello spazio (…); non è più Austria nel tempo, anche se ricorda Vienna per l’architettura; non è ancora Balcani, anche se se ne pronunciano molti suoni e se ne sentono gli odori, i sapori”. Quel non che per Samonà ha una valenza positiva, in quanto presupposto di un’inevitabile tendenza all’incontro con l’altro e alla mescolanza, per la protagonista di Manzon è invece all’origine di un senso di spaesamento indotto dalla decisione assai poco convenzionale dei suoi genitori di iscriverla alla scuola slovena. Una scelta per cui non si ravvisava alcuna ragione concreta: “…ho trascorso l’infanzia in un equilibrismo esotico: straniera in una scuola che non avevo motivo di frequentare non potendo vantare nemmeno un parente nella linea diretta del sangue che abitasse fuori confine, intrusa nel mio quartiere dove i bambini andavano tutti alle stesse elementari nell’ordinato viale di commissione asburgica”.

Senonché – come l’autrice suggerisce fin dall’incipit – un motivo ovviamente c’era, e consisteva nella scuola di anticonformismo cui il padre “distintissimo nullafacente”, pacifista e poliglotta, sottoponeva l’io narrante sin da piccola, portandola a camminare senza meta per intere giornate nei boschi. Il posto migliore – a suo avviso – per spiegare a un bambino l’inconsistenza delle frontiere: “…il bosco non si divide per nazionalità come una cartina geografica, hai mai visto una betulla ritrarre i rami per non sconfinare in territorio straniero?” Benché questo convincimento sia destinato a rivelarsi tragicamente errato, l’esplorazione in salita e in discesa di un entroterra montuoso, a piedi o con gli sci, di giorno o al buio, resta la coordinata essenziale del romanzo. Se per l’autore della Frontiera spaesata mare e montagna sono a Trieste pressoché “inseparabili”, Manzon esclude invece risolutamente dal suo orizzonte quello che Samonà chiama l’“apeiron dalle frontiere liquide”. Nel Bosco del confine il mare è rimosso e riguarda sempre qualcun altro: i compagni di scuola, liberi di sguazzare “nell’acqua petrolifera dei bagni Ausonia” mentre la protagonista e il fratello vanno a scarpinare sul Carso, ma anche i turisti che dell’ex Jugoslavia conoscono solo le isole della Dalmazia.

Proprio questa attenzione esclusiva accordata al retroterra verticale che cinge Trieste consente a un certo punto la sua “metamorfosi” in Sarajevo, città che, non a caso, appare all’io narrante che la raggiunge durante le Olimpiadi invernali del 1984 stranamente “vicina”, e insieme inspiegabilmente affascinante, come del resto tutto ciò cui l’avverbio “di là” allude. Una sensazione di “inquietante familiarità”, in grado di far riemergere strati rimossi della memoria, che si ritrova anche in Samonà, anzitutto a proposito delle spensierate “gite senza valigia” in quella che all’epoca era ancora e semplicemente “Jugo”: “…tutto ti era esotico e familiare nel contempo”. Viaggi invariabilmente intrapresi da Trieste, consuetudinari al punto da non sembrare neppure tali, eppure che per l’autore già tracciano quella via verso i Balcani, in cui ogni tappa non fa che rinnovellare il desiderio di partire, “come se si trattasse di conoscere il mondo semplicemente mettendo un passo dietro l’altro”.

Un titolo o sottotitolo alternativo della Frontiera spaesata avrebbe infatti potuto essere “Fin dove arriva l’eco di Trieste”; ma anche la presenza fantasmatica di Venezia non è meno sporadica in queste pagine dedicate sì a luoghi concreti, ma anche e soprattutto “alla grazia/disgrazia (…) di non poter scegliere di appartenere completamente a un posto, a una nazione, persino a una lingua invece di un’altra”. “Non sono serbo se non per caso (…) Non sono bosniaco perché sono nato in un paese che si chiamava Jugoslavia e lì sono cresciuto (…) Non posso dirmi nemmeno europeo perché in Europa non ci vogliono (…) È molto pericoloso non avere un’identità collettiva”, spiega Dragan all’io narrante di Manzon tornata a Sarajevo nel 2015, dopo che la guerra ha posto fine a quella che Samonà, citando Fulvio Tomizza chiama “la miglior vita”. E soprattutto dopo che il bosco del Trebevic, quello dov’era stata realizzata la pista di bob per le Olimpiadi, da proiezione delle selve dell’infanzia s’è trasformato nel “bosco del confine”, ossia un punto in cui le linee convenzionali che separano gli stati hanno acquisito una loro minacciosa ancorché invisibile realtà. La Sarajevo post-bellica sembrerebbe dunque incapace di continuare ad assolvere la funzione di “luogo di elezione” attribuitale dai ricordi; eppure, lasciando il finale sostanzialmente aperto, Manzon ci lascia liberi di chiederci se la sua protagonista non preferirà in extremis un’altra soluzione al ritorno in quella città molto più a ovest di Trieste “dove tutto funziona a meraviglia”. Anche se, come suggerisce acutamente Samonà, “la terra che si pretende amare è un tempo, più che uno spazio”, e infinite sono le delusioni cui si espone chi spera di ritrovarvi ciò che si era desiderato.

 

Giuseppe A. Samonà, La frontiera spaesata. Un viaggio alle porte dei Balcani, Edizioni Exòrma,  2020, pp. 306, euro 16.

Federica Manzon, Il bosco del confine, Aboca, 2020, pp. 176, euro 14.

 

 

 

 

Claudio Kulesko: nella macchina “caosmica”

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Ospito qui un estratto da un saggio di Claudio Kulesko, Macchine Composite. La natura come intelligenza sintetica, contenuto nel libro Divenire invertebrato. Dalla Grande Scimmia all’antispecismo viscido a cura di Massimo Filippi e Enrico Monacelli.

«Questi testi fanno emergere l’umido viscidume del vivente (i rettili, i mostri partoriti dalla nostra testa, gli insetti, le zanne ricoperte di bava, le squame rilucenti, una fitta moltitudine di genitali ectopici…) per consegnarci a una natura radicalmente aliena, ma a cui partecipiamo con passione e senza scarto, soprattutto nella gioia incontenibile che percepisce il senso di una libertà condivisa, allo zenith della dépense, della disseminazione, della catarsi, dentro le beanze del reale e del godimento» scrivono i due curatori nell’introduzione al volume. E ancora: «Questa psicanalisi della natura, che fa ritornare il rimosso dell’im/mondo, secerne vie di fuga e indica in direzione della Cosa che, come nel film di Carpenter, riposa in/tra noi, l’animale che dunque siamo

Leggendo il saggio di Kulesko si ha come l’impressione che il viscidume non sia solo una provincia tematica, ma un modo d’invertebrare la ricerca, un umore primario, la misura di uno studio filamentoso e tentacolare; che la bava sia teoria liquefatta, archeologia che s’infila  ovunque nei pertugi delle storia e delle diverse “scienze”. Kulesko, mettendoci al corrente della «macchina “caosmica” nella quale ci si costruisce e si è costruiti nel medesimo istante», ci guida  attraverso una vertigine prospettica, mutando radicalmente lo sguardo sulla “natura” e sull’esclusività dell’intelligenza umana.

Scrive Kulesko: «Poggiamo sulle nostre abitudini irreflesse che, a loro volta, poggiano sulle abitudini contratte dalla natura nel corso di miliardi di anni. Questi habitat filogenetici costituiscono dei veri e propri “resti fossili”, tracce che ci consentono di comprendere come la natura non sia che un’immensa memoria, fissatasi gradualmente sulla materia -una sedimentazione di frammenti e relazioni tra frammenti.»

Siamo questa turbinante relazione tra frammenti. La visita al compostaggio della “storia naturale” e lo studio delle sopravvivenze -dei “fossili danzanti” di warburghiana memoria- risultano quindi pratiche sempre più necessarie per fornire nuovi modelli operativi attraverso i quali costruire e sperimentare scenari altri – calandoci nell’intreccio di relazioni e tempi, congendandoci dalle gerarchie tra i diversi ordini di realtà.

Tavole dell’informe, assemblaggi, vie di fuga nell’invisto: questo studio viscido è una disciplina dell’esserci di traverso, per mezzo della quale ripensare non solo il nostro “stare al mondo”, ma anche i “resti” del passato come possibili contenitori di prodigi concettuali da riscattare, o addirittura da de-estinguere. Penso dunque alle forme ruotanti e ai fenomeni d’inversione del Medioevo Fantastico -che già Alessandro Dal Lago esplora in apertura a Divenire invertebrato- , oppure ad alcune righe di Luis de León (uno dei massimi autori del rinascimento spagnolo), dedicate proprio alla “macchina dell’universo”: «[…] si abbracci e si concateni tutta questa macchina dell’universo, e si riduca a unità la molteplicità delle sue differenze, e restando non mescolate si mescolino, e rimanendo molte, non lo siano.»

Forziamoci a riflettere su questa prodigiosa macchina e sul continuo emergere di zone d’attrito, trasformazioni, ritorni, mescolamenti. Forziamoci ad invertebrare le impalcature della ricerca, riformulando una “scienza senza nome” come risposta alla molteplicità danzante: una scienza (una vita!) plastica, concertata d’incompiuto.

 

 [ Ringrazio Ombrecorte per la gentile concessione ]

 

 

L’INTELLIGENZA ARTEFICE

 

Sebbene sia emersa gradualmente, facendosi largo tra il caos e l’assenza di forme ‒ anziché essere preesistente alla formazione dell’universo, in quanto Intelligenza Creatrice ‒ l’intelligenza non sarebbe un’invenzione degli organismi. L’intelligenza della natura si sarebbe “occasionata” nel corso di eventi singolari, dai quali sarebbe stata prodotta, plasmata ed esercitata ricorsivamente, per poi differenziarsi e specializzarsi, nel corso di miliardi di anni, fino a giungere, per via contingente, agli organismi biologici e alle macchine artificiali (transitando occasionalmente, appunto, da intelligenze individuate a base di carbonio a nuove intelligenze individuate a base di silicio). Se, come fa notare Monod, è così difficile distinguere tra oggetti “naturali” e oggetti “artificiali”, non è unicamente a causa delle evidenti affinità funzionali ma anche perché tali affinità non fanno che rinviare a pattern di un’attività comune ‒ quella dell’adattamento intelligente, mediato dalla selezione. L’intelligenza, definita come facoltà impersonale di contrarre e fissare (in)varianze, complica e sconvolge i confini che separano natura e artificio, in direzione di una continuità di tipo “naturculturale”. La capacità di fare memoria, di categorizzare e filtrare informazioni, di dare forma a nuove configurazioni, accomuna tutta la materia, come sembrerebbe dimostrare il fatto che esiste qualcosa anziché nulla, sebbene questo “qualcosa”, le cosiddette “quattro forze fondamentali della natura” (l’elettromagnetismo, la gravitazione e le due interazioni nucleari, debole e forte) non siano in alcun modo necessarie, ossia “fondamentali” in senso prettamente ontologico. Se, tuttavia, possono essere dette a buona ragione fondamentali è poiché rappresentano il fondamento a partire dal quale l’intero impianto della natura ha potuto gradualmente svilupparsi. Ogni struttura e ogni ricorsività, in quanto elaborazioni relative a problematiche concrete, sono per certi versi delle invenzioni tecnologiche, ossia il prodotto di una serie di convenzioni e “giochi adattivi”:

«La tecnica non è un’invenzione degli uomini […]. Anche l’organismo vivente più semplice, gli infusori o le piccole alghe sintetiche sui bordi delle pozzanghere, già da qualche milione di anni sono un dispositivo tecnico. È tecnico qualunque sistema materiale che filtri informazioni utili alla sua sopravvivenza, le memorizzi e le tratti, e che induce, a partire dall’istanza regolatrice, delle condotte che assicurino quanto meno il suo perpetrarsi»[1].

Nel tentativo di espandere le caratteristiche creative e performative alla materia inorganica si potrebbe provocatoriamente suggerire che l’intelligenza della natura sia, al contempo, un genere di intelligenza prettamente “artificiale”, ossia incentrata sull’artificio. Lo sarebbe in un duplice senso e secondo due modalità differenti: da una parte, come abbiamo già visto, l’intelligenza della natura corrisponderebbe a una facoltà “sintetica”, a una primordiale capacità di estrarre campioni da serie di elementi differenti, producendo pattern ricorsivi. D’altra parte, tale produzione di strutture architettoniche non potrebbe in alcun modo essere definita “seriale”. A ripetersi, di fatto, non è un’identità (una matrice archetipica), giacché la differenziazione è possibile unicamente a partire dalla ripetizione di singole variazioni, le quali si manifestano sotto forma di errori, scarti e slittamenti prospettici. Benché in diversi casi le singole particelle o i singoli atomi e molecole possano essere correttamente definiti “identici”, ciascuna composizione di atomi, molecole e cellule è assolutamente singolare e unica nel suo genere, in virtù di variazioni infinitesimali. Ogni struttura, di conseguenza, è “fatta ad arte”, in quanto prodotto di un’attività di assemblaggio, raffinamento e specializzazione relativa a un pyhlum tecnologico, a una successione storica e a una stratificazione di adattamenti selettivi (organici o inorganici). Si tratta di una caratteristica individuata persino dalle scienze naturali, nel cui ambito l’apprezzamento estetico viene spesso tradito da espressioni quali “eleganza”, “simmetria”, “ordine”, “perfezione” e “bellezza”.

Le differenze evolutive tra architetture appartenenti a diversi ordini di realtà (come, ad esempio, animali e minerali) sarebbero pertanto attribuibili a differenze di modalità, velocità e intensità: in certe situazioni la selezione delle componenti è operata da agenti esterni, come nel caso della domesticazione, in altre da fattori strettamente ambientali; certe strutture mutano nel corso di milioni di anni, altre nel giro di poche generazioni; le mutazioni possono comportare effetti estremamente evidenti o sottili variazioni sul tema.

La campionatura di memoria e la produzione spontanea di nuovi pattern sono attività che, tendendosi come i capi di una fune sull’oceano dell’esperienza, rivelano la stupefacente continuità che collega le prime molecole, i primi organismi e le più rudimentali intelligenze meccaniche. Come fa notare Butler nel meraviglioso Libro delle macchine:

«se, per ipotesi, nel più antico periodo geologico, una qualche forme primitiva di vita vegetale fosse stata dotata della facoltà di ragionare sulle prime manifestazioni della vita animale, essa avrebbe pensato che gli animali potevano un giorno raggiungere al massimo il livello dei vegetali; e già questa idea le sarebbe parsa estremamente audace. Ma, tuttavia, il suo errore sarebbe stato meno grave di quello che commetteremmo noi se immaginassimo che, siccome la vita delle macchine è molto diversa dalla nostra, essa non può raggiungere un livello superiore al nostro; o che, siccome la vita meccanica è molto diversa da quella umana, non può essere considerata veramente vita»[2].

Viviamo all’interno di questo vortice iper-costruttivista, in questa macchina “caosmica” nella quale ci si costruisce e si è costruiti nel medesimo istante e nella quale le possibilità concrete oltrepassano qualunque immaginazione.

 

NOTE

 

[1]Jean-François Lyotard, L’inumano. Divagazioni sul tempo, trad. it. di E. Raimondi e F. Ferrari, Lanfranchi, Milano 2001, pp. 29-30.

[2]Samuel Butler, Il libro delle macchine, in Erewhon (volume I), a cura di L. D. Demby, Adelphi, Milano 1975, p. 190.

Mots-clés__Velo

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Velo
di Elisabetta Abignente

Richard Strauss, Salomè, Danza dei sette veli -> play

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Da Thomas Mann, Le storie di Giacobbe (1933), in Giuseppe e i suoi fratelli, trad. di Bruno Arzeni, Mondadori, Milano 2000, p. 352.

«[Rachele] Si dilettò a lungo con il variopinto tessuto, con la fastosa veste di velo; se lo avvolgeva intorno, s’immergeva nelle sue volute girando su se stessa, inventando sempre nuovi modi di drappeggiarsi con quella istoriata trasparenza. Era il suo passatempo mentre aspettava ritirata in casa e gli altri erano impegnati nei preparativi della festa. Talora riceveva la visita di Lia, sua sorella. Anche questa provava talvolta sulla sua persona la bellezza del velo, e poi sedevano l’una vicino all’altra, il tessuto in grembo, e piangevano accarezzandosi. Perché piangevano? Esse lo sapevano. Noi diremo soltanto che ciascuna piangeva per una sua speciale ragione».

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[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. Ogni prima domenica del mese, Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]

 

 

F come Frankenstein Filibustiere

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Un racconto di Mario Schiavone
Ettore Filibustiere, a dispetto del suo cognome, non era un uomo molto sveglio. Questa sua forma di pigrizia mentale gli aveva fatto perdere il lavoro presso la farmacia di paese, dove era stato assunto come aiuto-magazziniere. Proprio nello stesso piccolo negozio in cui dopo alcuni anni di (poco) onorato lavoro avevano assunto un giovane dalle braccia più veloci delle sue. Un operaio capace di essere anche più puntuale sul lavoro ben prima del momento in cui bisognava timbrare il cartellino e dare inizio alla giornata di lavoro. Eppure lui, Ettore, ogni giorno si alzava dal letto; per fare la sua parte. Guardandosi allo specchio diceva a se stesso frasi a effetto sentite dalla bocca del prete di paese. Parole che suonavano più o meno così:
-Devo trovare il mio posto nel mondo.

Il camion della guardia

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di Pedro Lemebel

 

Poi il mare è agitato
e piove sangue.

Pablo Neruda

 
Mai avrebbe pensato che il calore sarebbe stato così intenso. Cinque minuti prima, l’ombra dei muri massicci e il letto intatto perfettamente vuoto di Francisco le avevano fatto venire freddo: si sentiva congelata dentro, se avesse respirato troppo profondamente il suo cuore si sarebbe frantumato come un pugno di ghiaccio. Ma ora, completamente all’aperto, il sole picchiava forte, bruciava la sua mediocre gonna a quadri azzurri, che all’altezza dell’addome si allargava in una protuberanza senza forma e un po’ troppo in alto per essere una gravidanza. Sotto i suoi piedi, una strada sperduta e aspra senza nessuno che si avventurasse a percorrere a piedi i cinque chilometri fino a Basaure. Allora si fermò: nel reggimento il boato del cannone di mezzogiorno le bloccò il battito

A Mario Guaraní Galzigna

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di Mariasole Ariot

 

Ricordo la prima volta che ci siamo parlati: ero appena rientrata a Vicenza dopo gli anni trentini, abitavo in una casa buia. Ho una memoria vivida per i dialoghi, debole per le immagini, ma ricordo sempre i luoghi precisi e la posizione dei corpi quando si parlano. Me ne stavo seduta sul divano con un gatto, la luce accesa e troppo forte, e ti immaginavo da qualche parte nella tua città, forse nella casa di cui ogni tanto apparivano scorci di fotografie ne L’ordine del discorso, la rubrica che curavi. Io avevo un gatto, tu avevi un cane.
 
Ero imbarazzata, come gli studenti nell’aula insegnanti, a comporre il numero che mi avevi lasciato negli interni, poi fu una lunga conversazione di un’ora e più come due nuovi amici. La mia tristezza, la tua sensibilità, la mia pena, la tua capacità di entrare nella pena senza invadenza, le mie parole, le tue parole. 
Sei stato uno dei primi lettori dei frammenti di un libro che sto portando a termine, era il duemilaquindici. L’avevi letto in rete, e tu eri un divoratore di parole, avido di conoscenza, nel sapere ma fuori dal Sapere di cui si gonfiano il petto certi accademici – e ti premeva conoscere e far conoscere, ti premevano i vasi comunicanti, così siamo diventati vasi comunicanti.  

Poi ci siamo scritti, e poi è arrivata la voce.  

Abbiamo parlato delle derive della psichiatria, abbiamo parlato di Artaud, abbiamo parlato della melancolia, delle Lettere a Theo di Van Gogh, della disperazione, dell’epoca a cui inappartengo, di quella che stavi cartografando,la psichiatria, l’etnopsichiatria, la psicoanalisi, la filosofia, la resistenza, il resistere. Mi hai fatto parlare sottovoce di me, mi hai parlato con discrezione di te, delle tue ricerche, delle tue passioni. Io suonavo Schubert quand’ero bambina, tu lo ascoltavi, e lo cantavi.
Appassionato è l’aggettivo giusto per darti un nome. Ne avevi aggiunto uno al tuo: Guaraní, di ritorno dal tuo viaggio in Brasile. Mario Guaraní Galzigna  

Eri serio ma non eri serioso, conoscevi la risata:e abbiamo anche riso. 

Dovevamo vederci quell’anno, ma non ci siamo incontrati – io, troppo timida per tutto. 
Poi è passato il tempo, io ti seguivo, tu mi seguivi, sempre in sordina, senza mai fare troppo rumore.
Avevi capito quello che scrivevo più di molti altri, sapevi in quali radici affondava il mio discorso che non aveva ordine, e lo sapevi senza sapere, prima di saperlo, e io seguivo il tuo come si faceva in certe aule fumose delle lezioni francesi degli anni Sessanta, quando a volte sfuggono parole ma resta forte il desiderio di andarle a ricercare, ritrovarle, ritrovare chi le ha pronunciate, rimasticarle, sentirle in bocca e trascriverle. Non avevo la conoscenza per comprendere tutto ciò che scrivevi, ma le cose non passano solo attraverso la comprensione, riescono a tracciare solchi invisibili, direzioni, e tu li tracciavi, le tracciavi. Percorsi. 

Per me eri un po’ così, forse lo eri per tutti: arrivato da un’epoca passata dove la sete di libri e lavagne e pensiero era grande. Ma vivevi anche il fondo del presente, lo scavavi, nei tuoi libri di filosofia, di epistemologia, e nel tuo impegno nella salute mentale. Archeologo dell’esistenza.
Il tuo volto mi ha sempre ricordato qualcuno, ma non ho mai saputo chi, e ancora non lo so, un volto come un enigma da decifrare, ma il sorriso delle tue foto con tua moglie Maddalena non era un enigma, diceva una sincerità delicata.  

Un giorno abbiamo unito le nostre visioni, qui, tu hai messo le parole, io uno scorcio in bianco e nero che, avevi detto, sembrava un violino. In realtà era solo l’interstizio del sedile di un treno. Resta questo saggio, la tua profondità, la meticolosità della ricerca della linea della frase, le lingue, il linguaggio, l’arte, la filosofia.
Un anno fa ci siamo riscritti, non stavo bene, mi invitasti a raggiungerti a Padova, parlare dal vivo, volevi aiutarmi. Un’altra lunga telefonata, gentile.  
Gentile è un altro aggettivo con cui vorrei ti si ricordasse. 

Ti risposi che quando avrei avuto le forze l’avrei fatto. 
Poi ho atteso, non ce l’ho fatta. Ancora una volta. Ho saputo ora della tua scomparsa, e sono rimasta in silenzio. Credevo ci saremmo visti, non ci siamo mai visti.
Resta tutto quel che resta, tutto quello, così tanto, che ci hai lasciato.

Mariasole

Una post-recensione a ‘The Human Voice’ di Almodóvar

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di Ornella Tajani

Mi sarebbe molto piaciuto vedere The Human Voice di Almodóvar, tratto da La voix humaine di Jean Cocteau; al momento in cui scrivo, però, i cinema sono chiusi e l’ipotesi di riuscirci mi appare remota. Così, un po’ per protesta, un po’ per una singolare forma di compensazione, ho deciso di recensirlo, sulla base delle dichiarazioni del regista, delle poche immagini che circolano, della descrizione della trama e di quello che mi ha detto qualcuno che conosce qualcuno che l’ha visto. La recensione ai tempi della post-verità, o un esercizio sul modello dei libri pubblicati da Pierre Bayard: Comment parler des films que l’on n’a pas vuset que l’on ne verra pas pour l’instant.

Almodóvar ha un rapporto stretto con il testo di Cocteau: in La legge del desiderio Carmen Maura – indubbiamente la sua attrice più adatta a interpretare il ruolo della protagonista della pièce – recita La Voix humaine; aggrappata al telefono (rosso, ovviamente), in sottoveste, oscillando fra la disperazione e la rabbia, Maura si muove sul palco e di tanto in tanto incrocia altri due personaggi. Uno di loro, la bambina, resterà sul palco al termine della telefonata, cantando «Ne me quitte pas». Nonostante fosse di Jacques Brel, il brano fu interpretato anche da Édith Piaf ed è probabilmente a lei che il regista pensa: se molti conoscono il rapporto di profonda amicizia che legava Cocteau a Édith Piaf (lui morirà d’infarto esattamente il giorno dopo di lei, si pensa anche a causa del dolore provocato dal lutto), è meno noto che il tema dell’amante abbandonata sia ripreso nuovamente nel successivo Le Bel Indifférent, scritto dall’autore proprio per Piaf.

Sarà sempre Carmen Maura a scoprire di essere stata lasciata dal suo uomo, nel successivo Donne sull’orlo di una crisi di nervi, tramite un messaggio sulla segreteria telefonica (bianca, stavolta, ma il telefono accanto resta rosso). Il rosso s’impone anche nei colori di The Human Voice: il divano, la rosa d’un dipinto incorniciato, il rossetto di Tilda Swinton, il suo look vagamente androgino, che lascia spazio, insieme all’indeterminatezza di genere dei pronomi inglesi, a una lettura in chiave lesbica della pièce. Il décor coloratissimo è il primo elemento a contrastare con la versione originale: Cocteau aveva sì previsto una cornice rossa di drappeggi dipinti in trompe-l’œil, al cui interno però la camera appariva «tetra, bluastra», con vestaglie, soffitto, porta, poltrona, abat-jour bianchi. Almodóvar spezza inoltre il regime claustrofobico di una pièce in cui la protagonista non usciva mai dalla propria stanza, così vediamo Tilda Swinton in varie scene girate in esterna, fra cui quella in un negozio di fucili; la camera si rivelerà poi essere un set teatrale. La voix humaine, invece, era improntata a un classicismo ferreo, che sarebbe piaciuto a Racine: un atto, una camera, un personaggio, l’amore còlto in un momento tragico – e un telefono, «l’apparecchio meno adatto a trattare gli affari di cuore», secondo Cocteau; un oggetto moderno e diabolico attraverso il quale «ciò che è finito è finito». Non è detto che la medesima ineluttabilità valga per gli auricolari wireless indossati da Swinton.

Tuttavia il rovesciamento estetico era prevedibile da parte di Almodóvar, e rientra nel gioco stesso della reinterpretazione. Ciò che merita maggiore attenzione è il rovesciamento morale dell’opera: «Penso che oggi nessuna donna si comporterebbe davvero come nella pièce di Cocteau – ha affermato il regista in un’intervista. – Si tratta di una visione obsoleta». La sua protagonista, dunque, reagisce al dolore – e così facendo purtroppo demolisce la struttura della vera Voix humaine, il cui personaggio, indicava Cocteau nella didascalia iniziale, è «una vittima mediocre, totalmente innamorata, che gioca d’astuzia solo in un caso: quando tende una mano all’uomo per fargli ammettere la propria bugia e risparmiarle quel ricordo meschino. [L’autore] vorrebbe che l’attrice desse l’impressione di sanguinare, di perdere sangue, come una bestia zoppicante, di terminare l’atto in una stanza piena di sangue».

Non stupisce che Cocteau avesse amato la versione di Rossellini: lì Anna Magnani si consumava nello struggimento, avvolta in uno scialle, spettinata. La visione di quel mediometraggio è insopportabile per chi guarda, è inaccettabile nella misura in cui lo è l’amore non corrisposto, indubbiamente un fil rouge tematico che attraversa l’intera opera di Cocteau. La sua protagonista è pietrificata dal dolore, in una maniera che certamente l’attuale società condanna, una società che si fa paladina ipocrita e kitsch del superamento di ogni stato esistenziale e psichico negativo. Ma tali stati vanno attraversati fin in fondo, prima di poter essere archiviati, laddove l’idea di superamento implica una superiorità morale nei confronti del proprio dolore: è questa superiorità che Almodóvar insegue, mentre era il rispetto del dolore che Cocteau insegnava. Al termine della pièce originale e della telefonata, dopo la serie di pose in cui vediamo la protagonista cristallizzare «il colmo del disagio», all’apice della sua pateticità, comprendiamo la sua sofferenza e non possiamo non empatizzare, non commuoverci, mentre saluta in questo modo l’uomo che la sta lasciando:

«Sono forte. Sbrigati. Forza. Chiudi! Chiudi subito! Chiudi! Ti amo, ti amo, ti amo, ti amo, ti amo………….. (il ricevitore cade per terra)».
SIPARIO.

Colonna (sonora) Gramsci

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di

Claudio Loi

Questa playlist nasce – oltre che dal grande rispetto e ammirazione verso Antonio Gramsci di cui sono conterraneo – dalla volontà di colmare una défaillance. Ogni anno ad Ales in Sardegna, il paese natale di Gramsci, un manipolo di irriducibili organizzano Rock per Gramsci, una giornata di festa a base di ottimo rock, cibo preparato in loco, tanti amici, tanta birra e la gioia infinita di stare insieme sotto la protezione dell’amato Antonio. Anche nel 2020 la festa si è consumata tra mille sacrifici e rinunce ma io, purtroppo, per un impegno concomitante, non ho potuto partecipare. Per questo mi sono sentito in obbligo di pensare questa playlist con musiche di ogni tipo e ogni dove. Ecumenica, politica, sardocentrica, instabile, disorganica e illogica come il mondo che ci circonda e che ci piacerebbe vivere in altri termini. Quindi buon ascolto nel nome di Antonio Gramsci e lunga vita a Rock per Gramsci.

Caproni, Sereni, Luzi e gli altri

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(Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo un estratto da Daniele Piccini, Luzi, Salerno editrice 2020)

di Daniele Piccini

Mario Luzi fa parte di una generazione forte. I poeti nati negli anni Dieci del Novecento costituiscono una leva letteraria caratterizzata da notevole vitalità e longevità, oltre che da valori espressivi di grande rilievo. Si direbbe che lastessa presenza, alle loro spalle, di maestri riconosciuti e presto classicizzati come Saba, Ungaretti e Montale invece che costituire un’ipoteca negativa, un limite, sia stata un elemento favorevole. Luzi e i suoi coetanei si muovono in una culturaflorida e vivace, in cui anche i modelli recenti della poesia italiana sono l’esempio di una possibile auto- revolezza, superati itempi di crisi e di contestazione, in letteratura, rap- presentati dalle avanguardie di inizio Novecento e dal cosiddetto crepuscolarismo. Luzi non è solo compagno di strada di altri poeti fiorentini nati nello stesso 1914, Piero Bigongiari (nato però a Navacchio) e Alessandro Parronchi, amici e sodali di gioventú e poi ancora legati tra loro per un lungo periodo, ma appartiene a una generazione che conta personalità poetiche di spicco, che animeranno l’intero secolo come, per citare alme- no i nomi principali, Attilio Bertolucci (nato nel 1911), Giorgio Caproni (nato nel 1912), Vittorio Sereni (nato nel 1913), Franco Fortini (nato nel 1917).

Questa generazione giunge alle prime prove poetiche negli anni Trenta e Quaranta e, anche se matura nel periodo fascista,1 ha modo di organizzarsi in esperienze di gruppo, come le riviste, di trovare canali di espressione e di incontro. Soprattutto, le grandi personalità citate, che avranno tutte una lunga e fertile carriera, sviluppano un rispetto reciproco, pur nelle differenze, che non fa mancare a nessuno dei protagonisti di quella stagione il riconoscimento. L’esperienza lacerante della Seconda guerra mondiale coglie questi protagonisti della storia poetica nella fase della prima maturità e contribuisce a spingerli, insieme ad altre suggestioni e necessità, ad esiti ulteriori. Essi vivono, nel dopoguerra, la trasformazione dello Stato e la nascita di una società di massa, continuando tuttavia ad attingere a fonti culturali che non vengono meno. Sarà da ricordare che per quasitutte queste personalità la cultura letteraria e poetica gravita intorno a un orizzonte piú ampio di quello italiano, nonostante la formazione avvenuta negli anni dell’autarchia di regime: vale per Bertolucci come per Caproni, per Luzi e Sereni, per Fortini, per Bigongiari e per Parronchi, non a caso tutti traduttori da altre lingue. Nell’insieme si può parlare di una generazione complessa, solida, legata internamente da rapporti di coesione, pur tra inevitabili differenze e a volte distanze tra i suoi protagonisti, distanze che non impedirono, tuttavia, l’espressione di una stima al- meno sul terreno propriamente letterario.

Per quanto riguarda Luzi, i rapporti piú saldi, costruiti soprattutto a distanza, riguardano Caproni e Sereni. Con entrambi il poeta fiorentino rimase in costante relazione epistolare.2 D’altronde Luzi è citato spesso anche nel carteggio, molto ampio e strutturato, tra Sereni e Parronchi,3  a dimostrare una sorta di costellazione amicale che uní diversi dei poeti della generazione. Anche con Bertolucci, meno strettamente legato a lui, Luzi ebbe del resto rapporti e contatti.4 Si può arrivare fino al riconoscimento, a denti stretti, di un poeta culturalmente su posizioni molto distanti da quelle luziane come Franco Fortini. Sono significativi di questa ammirazione nella distanza, di questo rispetto pur nella esibita e sottolineata differenza, due testi in particolare di Fortini: il profilo di Luzi, risalente al 1977, contenuto ne I poeti del Novecento,5 e la testimonianza riportata come introduzione ai saggi di Discorso naturale 6 (ma non si dimentichino i precedenti saggi fortiniani degli anni Cinquanta, risoluti nel segnalare l’appartenenza a una diversa cultura).7

Nemmeno un Fortini, dunque, ben poco incline alla concezione luziana del mondo e della letteratura, giudicata dall’intellettuale comunista come perpetuamente in difetto di concretezza storica e di impegno,8 può far mancare al poeta la sua ammirazione almeno tecnica, almeno letteraria (e in fondo il suo interesse per la forza di quella poesia, seppure letta da una grande distanza). Luzi è anzi additato come un interlocutore, inevitabile e presente, quanto piú sentito agli antipodi dalpunto di vista ideologico.9 Un atteggiamento simile, al limite dell’ambivalenza, anche se piú ancora connotato in senso polemico, è quello di Pasolini (nato nel 1922) nei confronti di Luzi.10 Se con personalità come queste il poeta fiorentino ottiene riconoscimento insieme a distinguo, l’ammirazione reciproca che lo lega a Caproni e a Sereni sembra scevra da contrasti di fondo, sebbene la differenza di formazione e di orientamento sia forte anche in questi casi. Nei quali, tuttavia,sembra pre- valere il comune sentimento di una lingua e di una strumentazione poetica da tutelare e difendere da ogni troppo stringente richiesta di adesione (politica o ideologica), oltre a un sincero affetto e a una autentica simpatia.11

Insomma con Caproni come con Sereni, partendo da una solida intesa sul piano personale, Luzi pare condividere la sottolineatura dell’autonomia (un’autonomia non superba, però) del fatto poetico e la consapevolezza di un comune destino, quello di essere poeti autentici in tempi difficili per la poesia. Di qui la continua messa in evidenza degli elementi dicomunione su quelli potenzialmente oppositivi, sia nell’uno come nell’altro caso, con un effetto di stabilizzazione generazionale anche negli anni, i Sessanta e Settanta, della neoavanguardia e della rinnovata contestazione ai valori letterari consolidati. Scendendo agli autori di pochi anni piú giovani, si potrebbe del resto arrivare a evocare l’ammirazione e il rispetto reciproco che legarono Luzi e Zanzotto (nato nel 1921);12 per quanto riguarda la generazione seguente, è poi significativo il costante riconoscimento critico di Giovanni Raboni, lettore sempre attento a stabilire confronti, pur nella distinzione, tra il percorso luziano e quello sereniano.13

Restringendo il punto di vista su Luzi e sul suo ambiente, negli anni del suo primo affacciarsi al mondo culturale, in una capitale intellettuale come Firenze, si noterà poi, una volta di piú, la forza e la solidarietà di un gruppo di scrittori, poeti,traduttori che matura assieme e che assieme guarda alla vita letteraria. Luzi appare insomma immerso in un gruppo, senza che questo possa togliere nulla alla specificità della sua ricerca, in una comunità in cui il suo talento e i suoi interessi si sviluppano, a contatto con altre rilevanti personalità. La “brigata” fiorentina nella quale il poeta si trova coinvolto, fin dagli anni dell’università e poi in seguito, costituisce un terreno fertile e propizio allo svolgersi della sua vocazione poetica e intellettuale. Di quel gruppo fanno del resto parte non solo poeti – tra i quali, oltre a Bigongiari e Parronchi, andrà citato il nome di Alfonso Gatto (nato nel 1909) – ma anche narratori, come Pratolini e Bilenchi, e critici, come Carlo Bo e Oreste Macrí, con i quali Luzi lavora a stretto contatto. A parte andrà poi nominata una figura appartenente alla generazione precedente, quella di Carlo Betocchi (1899), che Luzi individuò sempre come proprio maestro e che lo introdusse nel gruppo della rivista «Il Frontespizio».

Tutto ciò suggerisce la consapevolezza di un ruolo e di una presenza nella vita intellettuale del tempo, con tutti i legami e le connessioni che un ambiente fervido e vitale come quello fiorentino determina. Vorrei dire che seppure la sua giovinezza si svolse in tempi ardui e calamitosi dal punto di vista storico, Luzi appartenne a un ambiente culturalmente e intellettualmente favorevole, che avrà importanza nella stessa crescita e maturazione della sua personalità. A proposito degli interessi extra-italiani, a fargli da guida in ambito europeo saranno personalità appena richiamate, come quelle di Carlo Bo e di Oreste Macrí, e ancora quelle di Leone Traverso 14 e Renato Poggioli: il primo, Bo, soprattutto per la cultura francese, il secondo, Macrí, per quella spagnola, Traverso per la letteratura tedesca e Poggioli infine in ambito prima di tutto russo.

Circa l’impegno dei traduttori negli ambienti frequentati dal giovane poeta, Luzi stesso ne parlerà come di un fenomeno decisivo:

Effettivamente […] era un’epoca di appropriazioni coraggiose e insaziabili, fra Poggioli dagli slavi, Traverso dai tedeschi, dai greci e poi Baldi dagli inglesi, Bo dagli spagnoli, poi venne Macrí; e quindi fu un arricchimento della scena letteraria e anche del linguaggio della poesia che in quegli anni si stava rielaborando e formando, quella che si chiamò appunto la stagione ermetica o degli anni Trenta. Viene soprattutto esplorata la lingua della poesia, ma viene anche arricchita da notizie, da immagini, che vengono da lontano.15

Non c’è dubbio, in proposito, che Luzi abbia sempre avuto la coscienza di appartenere a una tradizione europea, che culmina, in campo poetico, con il simbolismo. Se nel corso della sua lunga carriera Luzi potrà poi prendere le distanze da quella temperie, lo farà sempre nella consapevolezza, anche fiera, di far parte di una storia, di avere origine all’interno di una cultura dagli snodi magari imprevedibili e dagli sviluppi non scontati, ma certo ben riconoscibile nelle sue radici. Inciò lo aiuteranno anche gli interessi di francesista, che a un certo punto Luzi potrà coltivare in ambito accademico e professionalmente, affrancandosi dall’insegnamento scolastico. Tutto concorre alla posizione di un poeta che può riconoscersi, affermare la sua identità. Essa sarà poi sottoposta a riprove, a messe in questione, a interrogativi angosciosi, ma a partire da una forte e solida autocoscienza, che è, appunto, non solo individuale, ma anche collettiva, generazionale. Sarà utile inoltre ricordare che Luzi, ben presto riconosciuto come il principale poeta del gruppo cosiddetto ermetico, andò incontro a una rapida storicizzazione, che lo fece entrare ancora molto giovane, per poi rimanervi stabilmente, nel canone della poesia italiana novecentesca.16

La ormai ricchissima bibliografia critica relativa ai vari aspetti e versanti dell’opera di Luzi ne è ulteriore riprova.17

***

  1. In proposito ricorderà il poeta nel saggio Oggi, poesia, raccolto in M. Luzi, Discorso na­turale, Milano, Garzanti, 1984, 95-100, a p. 95: «Quanto a me, io appartengo a una generazione cresciuta in epoca ostica e ostile e perciò introversa, guardinga nei confronti degli aspetti pubblici della cultura. Negli anni tra il ’30 e il ’40 in cui mi sono formato tutti i motivi che fino dal secondo Ottocento avevano creato una separazione tra il poeta e la società, tra il poeta e l’istituzione, tra il poeta e la cultura in auge si erano in Italia approfonditi e aggravati». Specifico qui una volta per tutte che le citazioni dei testi poetici luziani fatte nel presente volume provengono sempre, salvo diverso avviso, da M. Luzi, L’opera poetica, a cura e con un saggio introduttivo di S. Verdino, Milano, Mondadori, 1998, fino alla raccolta poetica Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini (1994), e da M. Luzi, Poesie ultime e ritrovate, a cura di S. Verdino, Milano, Garzanti, 2014, per le raccolte successive. Un tacito mistero. Il carteggio Vittorio SereniAlessandro Parronchi (19411982), a cura di B. Colli e Giu. Raboni, pref. di Gio. Raboni, Milano, Feltrinelli, 2004, per le raccolte successive.
  2. Si vedano i rispettivi carteggi, entrambi editi: M. Luzi-G. Caproni, Carissimo Giorgio, carissimo Lettere 19421989, a cura di S. Verdino, con unoscritto di M. Luzi, Milano, Scheiwiller, 2004; M. Luzi-V. Sereni, Le pieghe della vita. Carteggio (19401982), a cura di F. D’Alessandro, Torino, Aragno, 2017. Per le testimonianze materiali della frequentazione dei libri luziani da parte di Caproni si può vedere F. Miliucci, Nella biblioteca di Giorgio Caproni. Note a margine e segni di lettura dei volumi luziani, in «Paragone. Letteratura», lxv 2014, 111-13 pp. 151-62; quanto al rapporto tra i due si tenga presente L. Toppan, GiorgioCaproni et Mario Luzi, une amitié fidèle, croisée et antinomique, in «Revue des études italiennes», n.s., 62 2016, pp. 11-22.
  3. Un tacito mistero. Il carteggio Vittorio SereniAlessandro Parronchi (19411982), a cura di B. Colli e Giu. Raboni, pref. di Gio. Raboni, Milano, Feltrinelli, 2004. Già nella prima lettera a Parronchi, dell’8 febbraio 1941, Sereni chiede gli indirizzi di Luzi e di Gatto, per poter fare avere anche a loro il libretto in uscita per le Edizioni di «Corrente», cioè Frontiera.
  4. Del Bertolucci maturo si può ricordare la recensione dedicata al libro luziano Al fuoco della controversia, apparsa su «La Repubblica» il 16 giugno 1978 (con il titolo A Marilyn concu­pita vamp), dove si legge, proprio all’inizio del testo: «Nella generazione di poeti nati dopo che il nostro secolo ha superato la boa del primo decennio, Luzi spicca per la sua figura implicata e solitaria, partecipe e appartata» (cito l’articolo da Mario Una vita per la Cul­tura, a cura di L. Luisi, con la collaborazione di C. Becattelli, Fiuggi, Ente Fiuggi, 1983, p. 319). Ma in precedenza si veda la breve testimonianza intitolata Mario a Parma, raccolta con altri interventi su Luzi in «La Fiera letteraria», 14 agosto 1955, p. 5, dove dice tra l’altro Bertolucci, con riferimento alla loro frequentazione a Parma ai tempi dell’insegnamento di Luzi in quella città: «Tutta la sua poesia di quegli anni è d’esilio, e sono felice che la mia città sia stata il luogo di meditazioni che per tendere all’assoluto non affondano meno nel territorio dell’esperienza quotidiana. Cosí è possibile scoprire nell’Avvento notturno i profili delle dorate stagioni che io negli stessi anni cercavo di fermare ora per ora con la fiducia di un fotografo ambulante. Quei giorni in comune nella mia Parma al morire dell’“entro due guerre” mi han legato a Mario come a un fratello, per sempre».
  5. Cito dalla terza ristampa: F. Fortini, I poeti del Novecento, Roma-Bari, Laterza, 1981, 143-51. Si veda l’attacco del breve saggio, rappresentativo dell’insieme (pp. 143-44): «L’opera poetica di Mario Luzi è attraversata e sostenuta da una certezza che può subire oscillazioni ma tende sempre a tornare identica a se stessa: quella dell’essenza spirituale dell’universo. Ad essa conseguono: la possibilità di conoscere tale essenza indipendentemente dalla storiaumana (quindi per via di scienza e per via intuitiva), e di viverla come “verità”; la centralità drammatica del soggetto parlante; e, infine, la delega che la trascendenza conferisce al poeta. Di qui l’immutabile tono alto, di fremito pensoso, di tutta l’opera luziana».
  6. F. Fortini, Introduzione, in M. Luzi, Discorso naturale, Siena, Messapo, 1980, 5-9, poi in Mario Luzi. Atti del Convegno di Siena, 9-10 maggio 1981, acura di A. Serrao, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1983, pp. 49-54, da cui si cita. Per quanto riguarda il volume luziano di saggi, lo si cita sempre in seguito dall’edizione accresciuta del 1984, presso Garzanti, già in precedenza richiamata.
  7. Basti citare, in proposito, alcuni giudizi del saggio del 1959 su Le poesie italiane di que­ sti anni, dalla sezione dedicata al poeta fiorentino (in particolare a Onore del vero): «Il mondo di Luzi è quello di una economia del risparmio, anzi di una economia agrario-artigiana precapitalistica o ai margini dello sviluppo borghese […]. C’è, in questo, una inadempienza assai. Se prendo quella che è certo una delle piú belle poesie di Luzi (A mia madre dalla sua casa – ma, a mio avviso, fra le piú autentiche e ricche, bisogna citare le piú “astratte”, come Uccelli, E il lupo, La notte lava la mente) e leggo di quello scendere “piú che già non sia / profondo in questo tempo, in questo popolo”, superata la prima emozione per la forza dell’accento e per il tipo di “posizione” – in Luzi davvero inconsueta – mi chiedo che tempo, che popolo siano quelli di cui il poeta ci parla […]. E si toccherebbe cosí il limite piú grave di questa poesia: l’impossibilità, quando essa resti sul suo terreno ideologico, che è tuttavia di rifiuto della storia, di inserire, di connettere o contrapporre piú ordini di realtà terrestre, di non appiattirla davanti all’eterno ma di preservarne la pluralità e la gerarchia». D’altronde, piú oltre osserva Fortini: «Ma – e questo mi pare il punto centrale, senza del quale non si capirebbe perché Luzi, con tutti i suoi limiti e anzi proprio grazie ai suoi limiti, sia un poeta fra i pochissimi dei nostri anni – quella riduzione di obietti, quella “miseria”, è espressa con un monolinguismo tendenziale che non è piú quello della tradizione petrarchesco-leopardiana, ed è invece un altro tentativo di “volgare illustre”: una lingua quasi smorta, non espressionistica, mediana, eppure mai quotidiana» (F. Fortini, Le poesie italiane diquesti anni, ora in Id., Saggi ed epigrammi, a cura e con un saggio introduttivo di L. Lenzini e uno scritto di R. Rossanda, Milano, Mondadori, 2003, pp. 548-606; la sezione su Luzi alle pp. 572-79, la citazione è tratta dalle pp. 575-77 n. 26 e pp. 577-78; il saggio, uscito originariamente in «Il menabò», 2 1960, pp. 103-42, fu raccolto in F. Fortini, Saggi italiani, Bari, De Donato, 1974, e nella nuova ed., Milano, Garzanti, 1987; il precedente saggio da ricordare è rifuso in Di Luzi, in Id., Saggi ed epigrammi,cit., pp. 519- 27, uscito dapprima, col titolo La poesia di Mario Luzi, in «Comunità», viii 1954, 27 pp. 52-57, poi raccolto in Id., Saggi italiani, cit., prima e seconda ed. Siricordi che in Fortini, Saggi ed epigrammi, cit., pp. 1551-56, è stata ristampata anche l’Introduzione a Discorso naturale, per cui si veda la n. 6).
  8. Sulla formazione e la cultura di Fortini si vedano almeno – oltre alla voce di S. Foà, Lattes (Fortini), Franco, in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 64 2005, pp. 31-35 – P.V. Mengaldo, Per Franco Fortini, in Id., La tradizione del Novecento. Quarta serie, Torino, Bollati Boringhieri, 2000, pp. 255-70 (la prima uscita in rivista del saggio risale al 1995), gli scritti di Luca Lenzini e Rossana Rossanda premessi a Fortini, Saggi ed epigrammi, cit. (utile riferimento per ulteriore bibliografia) e il volumetto «Se tu vor­rai sapere». Cinque lezioni su Franco Fortini, a cura di P. Giovannetti, Milano,Punto Rosso, 2004.
  9. Si veda in proposito Fortini, Introduzione, , pp. 50-51: «Per questo Luzi è sempre stato per me l’avversario ideale e continuo; quello di cui, preziosa come un rimorso, si sarebbe voluta l’amicizia. […] Di qui, con l’ammirazione costante e spesso ostinata (non di rado inesplicabile a molti dei miei vicini) perla sua poesia, anche la riluttanza, piú che alle sue formule e cadenze polemiche, a comprenderne gli orizzonti ideologici e politici, le scelte di campo e, soprattutto, le inevitabili solidarietà; riluttanza, devo dire, ben ricambiata». A Fortini Luzi dedicò a sua volta alcuni scritti, tra ritratto e memoria: Fortini: de amicitia (quadam), del 1980, infine raccolto in M. Luzi, Vero e verso, a cura di D. Piccini e D. Rondo­ ni, Milano, Garzanti, 2002, pp. 151-54, e Franco Fortini. «Un antagonista di se stesso», del 2004, raccolto in M. Luzi, Una voce dal bosco, a cura di R. Cassigoli, intr. di G. D’Elia, Roma, Nuova Iniziativa Editoriale, 2005 (in allegato a «L’Unità»), pp. 121-22. Presso l’Archivio del Centro Studi Mario Luzi «La barca» si conservano sedici lettere di Franco Fortini a Luzi, datate dal1958 al 1991 (si veda in proposito il sito del Centro Studi all’indirizzo http://www.nautilus-mp.com/tuscany/reticiviche/comunepienza/centroluzi/archivio.html). Lettere di Luzi a Fortini (dagli anni Trenta al 1991) sono conservate presso l’archivio del Centro Interdipartimentale di ricerca Franco Fortini in «Storia della tradizione culturale del Novecento» (http://www.sba.unisi.it/baums/fondi-archivistici/centro-studi-franco- fortini/larchivio-del-centro-il-fondo-franco-fortini). Si veda in proposito lasezione Cor­rispondenze con Fortini e Parronchi, a cura di L. Lenzini e E. Nencini, in Mario Luzi. Un segno indelebile. Presenze e incontri in terra di Siena, a cura di R.Nencini e L. Oliveto, Firenze, Polistampa, 2016, pp. 95-130.
  10. Per alcune osservazioni sul rapporto tra Pasolini e Luzi mi permetto di rimandare a D. Piccini, Impegno e “disimpegno” della poesia tra Sereni e Luzi: analisi di due testi programmatici, in «Smerilliana», 16 2014, pp. 247-64 (poi con alcune modifiche e senza ilsistema di note in Id., La gloria della lingua. Sulla sorte dei poeti e della poesia, Brescia, Morcelliana, 2019, pp. 53-69).
  11. Riguardo a Caproni  annota  il poeta in Luzi-Caproni, Carissimo Giorgio, carissimo Mario, , p. 8: «[…] Giorgio era un interlocutore piacevolissimo di non molte parole, incline spesso al mugugno, ma tutt’altro che chiuso alla meraviglia. E quell’amico, quell’interlocutore ci manca molto». A proposito di Sereni, all’indomani della sua scomparsa, scriveva Luzi: «La violenza del nostro improvviso passaggio alla condizione di posteri sbalestra il rapporto che avevamo, io ed altri suoi coetanei, instaurato con la poesia di Sereni: un rapporto che non poteva prescindere dalla umbratile e allo stesso tempo chiara presenza della persona, a sua volta ispiratrice di affetto – e questo di una specie influente sul tipo e sul grado della lettura fino a una piú o meno esplicita connivenza. Questo era ilproprio di Sereni: che piú si ritraeva nella sua discrezione piú riusciva a rendere intersoggettive e quasi pubbliche le sue ambagi e le sue inquietudini» (M.Luzi, Di una lunga familiarità, ora in Id., Di­ scorso naturale, cit., pp. 73-76, a p. 73).
  12. In proposito valga il giudizio di Luzi, che in conversazione con Mario Specchio, il quale gli suggerisce che negli anni di Nel magma giunge a maturazione anche un gruppo di altri poeti all’incirca coetanei di Luzi come Gatto, Sereni e Bertolucci, osserva: «Direi che quelli che avevano un interesse reale erano questi; dopo è venuto anche Zanzotto che è ben altra cosa, però era uno che incideva nella continuità del discorso Anche Bertolucci è un buon poeta, però meno attinente al problema, alla sostanza del discorso e della crisi del discorso che in fondo denota tutta la storia della poesia italiana e della poesia europea. Se dovessi proprio restringere direi: Caproni, Sereni e Zanzotto. Ce ne sono anche altri, certo, c’è Penna, anche lui è un poeta notevole, epoi Giudici e altri» (M. Luzi, Collo­ quio. Un dialogo con Mario Specchio, Milano, Garzanti, 1999, pp. 143-44). Zanzotto si interessò crome critico all’opera di Luzi(piú avanti si citerà la sua recensione a Onore del vero); è anche edito un pugno di lettere e biglietti che Zanzotto inviò a Luzi: M. Mandorlo, Andrea Zanzotto.Lettere a Mario Luzi (19581986). Nota al testo, in «Forum Italicum», xliv 2010, pp. 156-69 (in precedenza pubblicate su «Cenobio», lvii 2009); si veda inoltre, per una ricostruzione dei rapporti tra i due poeti, Id., Una poesia ostinata a sperare, in «Forum Italicum», xliv 2010, pp. 37-48.
  13. Si veda il saggio Il respiro del pensiero, in Pensiero e poesia nell’opera di Mario Luzi, scritti di Gio. Raboni et alii, con un inedito di M. Luzi, a cura di S. Mecatti, Firenze, Vallecchi, 1989, pp. 7-18, da ultimo ripreso in Gio. Raboni, La poesia che si fa. Cronaca e storia del Nove­cento poetico italiano 19592004, a cura di A. Cortellessa, Milano, Garzanti, 2005, pp. 106-15.
  14. Edite sono le lettere scritte da Luzi a Traverso: Una «purissima e antica amicizia». Lettere di Mario Luzi a Leone Traverso 19361966, a cura di A. Panicali, Manziana, Vecchiarelli,2003.
  15. Luzi, Colloquio, , p. 143. Riguardo all’importanza delle traduzioni per lo sviluppo della poesia italiana nel periodo che qui interessa si può vedere da ultimo il quadro tracciato da E. Esposito, Con altra voce. La traduzione letteraria tra le due guerre, Roma, Donzelli, 2018, soprattutto alle pp. 65-86.
  16. Basterà pensare alla precoce presenza di Luzi nei Lirici nuovi di Anceschi (L. An­ceschi, Lirici Antologia, Milano, Hoepli, 1943; ristampata poi presso Mursia nel 1964); si veda la lettera luziana ad Anceschi, relativa all’allestimento in corso dell’antologia, pubblicata in M. D’Angelo, La mente innamorata. L’evoluzione poetica di Mario Luzi (19351966), Chieti, Noubs, 2000, pp. 87-88) e al fatto che nessuna importante antologia poetica del Novecento italiano successiva, nemmeno quella di Sanguineti, certo molto lontano dall’idea luziana di poesia (Poesia italiana del Novecento, a cura di E.Sanguineti, Torino, Einaudi, 1969), lo vedrà escluso. Semmai la figura di Luzi, acquisita al canone, è stata valutata e di- scussa, ma non accantonata. Per la presenzadi Luzi nelle antologie della poesia italiana novecentesca si veda l’elenco approntato in Luzi, L’opera poetica, cit., pp. 1840-43; si consideri inoltre S. Verdino, Le antologiedi poesia italiana del Novecento. Primi appunti e materiali, in Poesia di un secolo. Immagini e forme, incubi e sogni del ’900 italiano. Atti del Convegno di Chieti, 6-8 novembre 2000, a cura di G. Quiriconi (num. mon. di «Studi medievali e moderni», X 2006, 1), pp. 173-92.
  17. Per una sintesi sulla bibliografia critica relativa a Luzi si veda la specifica sezione alla fine di questo volume.

Demi-sommeil

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Sharon Vanoli

 

Quale intuizione mi aspetto, per liberare che cosa?
Sylvia Plath – Diari

Hai detto che avresti provato di nuovo. Non serve aspettare la notte. Guarda, l’infermiera ha abbandonato il Signor Vito un’altra volta in mezzo al corridoio. Puoi vedere la punta dei suoi piedi, da qui. L’alluce che spunta da un lato del lenzuolo, ricoperto di peluria candida. Le mani – ah, le mani – non le vedi: saranno raccolte sopra la pancia. Se sollevassi il busto e ti sporgessi un po’, forse, riusciresti a vedere anche quelle. Ma stesa ti senti meglio. È questa la posizione giusta. Allora comincia, riprendi da dove ti eri interrotta. L’infermiera ha affidato Vito a un’altra infermiera. Senti le ruote del letto volante che lo portano via. Ora la prima sta per entrare a salutarti. “Hai preso le medicine? Hai dormito bene?”, chiederà. “Sì, sì”, risponderai. “Sicura?”, ribatterà. Non vuole credere che prendi sempre le medicine – ma ti piacciono, ti fanno bene. E che dormi fin troppo – come potresti spiegarglielo? Non potresti spiegare che è proprio questo il problema. Eccola, sta entrando. Sorride. Sistema il comodino del letto accanto al tuo, vuoto. Hai proprio voglia di ricordarglielo.
“Un quadro starebbe molto bene, sulla parete.”
“Ancora con questo quadro!”
Sorride. Non può essere aggressiva con te e lo sa.
“Più tardi passerà il medico”, aggiunge.
Bene. Il medico ti piace. È sobrio, ma sa prenderti in giro. Non si compiace mai: allora ti concedi di farlo tu. Ti piace proprio farti ascoltare, e poi starlo a sentire – concentrata – e poi esclamare: “Insomma, secondo lei, entrare in un quadro: si può?”
A lui hai raccontato tutta la storia dall’inizio. Gli hai parlato di Klee, del regno intermedio, di Kandinsky, del regno della luce. Delle creature fantastiche fluttuanti sopra la tela blu scuro, delle linee e delle forme dorate. Gli hai spiegato che devi proprio andare lì. Però non gli hai detto che hai trovato la chiave, forse, che hai trovato la via d’entrata.
Te lo ricordi bene. Era settimana scorsa: stavi per dormire, qui non puoi fare molto altro. Ma non riuscivi a dormire perché il corpo non può sempre dormire. Allora sei rimasta sospesa – appesa tra la veglia e il sonno. Sai bene che in quello spazio si muovono figure più stravaganti che nei sogni. E sai bene che a volte, per qualche secondo, senti come delle voci. Di queste ultime non ti sei mai preoccupata – l’hai detto anche al medico. Non te ne curi perché lo dice pure un romanzo: «Questo fenomeno delle voci è abbastanza comune, e a volte lo sperimentano anche i sani, più di frequente sul punto d’addormentarsi e dopo una giornata di fatica». Hai riferito la citazione al medico.
“A te succede solo sul punto di addormentarti?”, aveva chiesto.
“Solo sul punto di addormentarmi.”
“E cosa dicono queste voci?”
“Non si capisce. Una ride. È spaventosa. È sempre lei a farmi tornare indietro.”
“Indietro da dove?”
“Dal dormiveglia.”
Il medico aveva picchiettato le dita sul bordo della sedia.
“Non vuole farti dormire, insomma. Ascoltala, forse ha qualcosa da dirti.”
È stato lì che hai capito. Forse. Hai aspettato che il medico lasciasse la stanza. Prima di uscire ti picchietta sempre un ginocchio con le nocche. Tu immagini che a farlo sia il Signor Vito. Quando il medico ha lasciato la stanza, hai chiuso gli occhi, di nuovo. Ti sei fatta trasportare dai pensieri – sempre più tenui – fino alla soglia. Hai visto le figure stravaganti, hai sentito le voci. Sei caduta a tua insaputa in un sonno bianchissimo senza sogni. Da quando sei qui, sogni poco. Le medicine servono anche a questo. Eppure avevi spiegato che l’insonnia non era un problema. Dormire non ti è mai piaciuto – l’hai detto anche al medico.
Restare in equilibrio sulla soglia non è facile. O si torna indietro, o si cade nel sonno. Ma a te interessa esplorare la soglia. Hai avuto questa intuizione. Le parole del medico: “Ascoltala, forse ha qualcosa da dirti”. È stato lì che hai intuito. Non ha niente da dirti, quella voce: ti sta solo chiamando. Le figure – è chiaro – appartengono al mondo dei quadri. Perché quella voce debba ridere, non lo sai: è felice, forse, un po’ sfacciata. Come ogni mondo, anche quello avrà i suoi arroganti, i suoi cattivi. Devi soltanto trovare il modo di indugiare sulla soglia. Giusto il tempo di caderci dentro, o di farti catturare. Forse la voce che ride è il guardiano, o il maggiordomo. Ti sta aspettando, riprendi da dove ti eri interrotta. L’infermiera sta tornando. Lo capisci dal passo trascinato delle sue pantofole – è diverso da quello di tutti gli altri. Ha abbandonato il Signor Vito in corridoio, di nuovo, fuori dalla tua porta. Questa volta intravedi una mano, sul bordo del letto volante. Il Signor Vito la muove su e giù, lentamente, picchietta il bordo del letto volante. Ti senti vibrare – un fremito in fondo alla pancia. Riesci proprio a immaginarle sulla pelle – le sue mani – quando erano ancora giovani, più forti. Non che vecchie, con la peluria bianca, non vadano bene – anche così sono sensuali. Però il Signor Vito deve fare tali sforzi per muoverle – lo vedi bene. Non ne hai mai viste di più belle – l’hai detto anche al medico. Avete parlato dei tuoi feticismi sessuali.
“Lo sguardo e le mani”, avevi detto.
“Tutto qui?”, aveva commentato.
È già troppo, avevi pensato, di mani e di occhi se ne vedono a centinaia, ogni giorno, non c’è pace.
L’infermiera sta posizionando il letto volante del Signor Vito ben stretto al muro, per non intralciare il corridoio. Senti le ruote che stridono contro il muro. L’infermiera lancia un occhio nella tua stanza. Ti guarda, sorride. Tira il letto volante del Signor Vito un po’ più indietro, per non intralciare l’ingresso della porta adiacente alla tua. Allora riesci a vedere il suo viso. Non capita spesso. Ti senti vibrare – un fremito in mezzo ai polmoni. Ha gli occhi chiusi, forse dorme. Picchietta il bordo del letto volante, allora non dorme. Socchiude gli occhi. Allora puoi vederla: la pupilla ovattata nel torpore del sonno – del dormiveglia? Forse il Signor Vito è già là, forse ti sta aspettando insieme alle voci. Non l’hai mai sentito parlare. È chiaro: la sua voce è già nell’altro mondo. Forse è lui che ride. L’infermiera entra nella tua stanza, di nuovo. Ti guarda, sorride. Dice che ti trova pallida, fa un sorriso inquieto compiaciuto. Chissà come starebbe, lei, nel regno intermedio. Oh, senz’altro male. Lei è fatta per vivere in questo mondo. Ma ci sono posti migliori. Hai avuto questa intuizione. L’infermiera sta per uscire dalla stanza, porta pazienza. Inizia a farlo nella mente: chiudere gli occhi, scivolare verso la soglia. Hai una gran paura di non farcela. Di tornare indietro, o di cadere nel sonno. Non aver paura, non sei più una bambina, forse esistono altre chiavi, altre vie d’entrata. L’infermiera scuote via un insetto dalla tenda verde acqua. “Preferisci la luce o il buio?”, chiede. “Fa’ lo stesso”, rispondi. Cambi idea: il buio non ti è mai piaciuto – l’hai detto anche al medico. L’infermiera se n’è andata. Senti le ruote del letto volante che portano via il Signor Vito. A presto, pensi. Chiudi gli occhi. C’è troppo buio nella stanza – non ti è mai piaciuto. Arrangiati da sola, bambina, non hai perso le gambe. Provi a sollevare il busto. Fai fatica. “Sei un po’ pallida”, ha detto l’infermiera. Non avrebbe dovuto impedirti di camminare almeno un’ora, tutti i giorni, tra i corridoi – l’hai detto anche al medico. Pazienza. Il regno intermedio è senz’altro buio – raggiungerai prima quello. Penserai dopo al regno della luce, a come «trovare rifugio, alla fine, nella vita immobile delle linee e delle forme». Non hai riferito la citazione al medico – peccato. Chiudi gli occhi, rassegnata al buio. Non sai dire quando hai perso il controllo dei muscoli. Senti come il tuo corpo è vuoto, lontano. O forse sei tu, lontana. Senti come la voce è lontana. Non è più qui. Non siete più qui – tu e la voce. Avete lasciato il corpo, o lui ha lasciato voi – ha ceduto al sonno, o alla morte, o alla vita in questo mondo. Ci sono posti migliori. Hai avuto questa intuizione. Senti come parli a te stessa da fuori – una parte è già altrove. Senti come le palpebre fremono di fronte a questo buio nuovo. Senti come il corpo ti saluta, come piange, non vuole farti andare. Fagli “ciao” con la mano. Sei già partita.

I poeti appartati: Massimo Rizzante

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Ho provato una vera felicità  quando Massimo mi ha dato la bella notizia di questa nuova uscita – a dire il vero si dovrebbe dire entrata per queste occasioni, perché una pubblicazione significa proprio questo, la  parola che entra nel mondo. E credo che il titolo di questa mia longeva rubrica, I poeti appartati, nel caso di Massimo diventi tanto eloquente quanto il silenzio che circonda la sua opera. In un’epoca dominata dai poeti tromboni e non avari in decaloghi di penna e di pena dei lettori, a noi rimane questo salutare venirci incontro delle vere poesie. effeffe

 

 

 

Tre poesie di Massimo Rizzante

 

 

Stato di grazia

 

non si può entrare nello stato di grazia

se non dopo una lunga abluzione nella vasca

dell’idromassaggio, una sauna e un infuso al ginepro,

naturalmente nudi, sotto lo sguardo severo dei giardinieri

delle terme, un pomeriggio all’ombra della vallata,

in cima c’è una fortezza, siamo solo alla metà di giugno,

la guerra non è finita, dopo aver lasciato il sentiero

del sottobosco e il lago incustodito – del resto

c’è un dio là sotto –, i loro sguardi sono solo passerelle

provvisorie sull’infinito, mentre ora, nell’acqua,

sembrano talee, forme vegetali dalle parti mancanti,