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«Avrai i miei occhi», di Nicoletta Vallorani

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Da oltre un decennio, il fenomeno letterario e editoriale è «macroscopico» (per riprendere Carla Benedetti): (auto)biografie, reportage, memorie, cronache, inchieste, testimonianze, basta siano storie vere, fattuali, reali, ed esibiscano pegni documentari della loro autenticità, si rivendichino vissute, esperite. Io c’ero. Io so. Eppure, a dire qualcosa sul mondo, qualcosa di importante e di altrettanto vero, è anche un’altra letteratura, quella in cui predominano immaginario, invenzione, creazione, fantasia. Ne è una prova bella e convincente il recente romanzo di Nicoletta Vallorani, Avrai i miei occhi, una forte e cupissima distopia, ascrivibile alla letteratura di fantascienza più che al noir (anche se ci sono un detective e un intrigo criminale), entrambi generi comunque ormai sdoganati da presunta “inferiorità”. Avrai i miei occhi racconta storie di segregazione sociale, in una Milano soffocata da nubi pulviscolari, divisa in zone da alte mura, nelle cui strade si incrociano ragazzini stracciati e mucchi di cadaveri. Di donne. Perché Avrai i miei occhi racconta soprattutto la violenza sul corpo della donna, sia essa umana, cavia, clone, replicante, cyborg: stessi soprusi, stessa sofferenza. Nicoletta Vallorani, primo premio Urania femminile per Il cuore finto di DR (1992), da allora ha continuato a scrivere fantascienza, noir, fantasy, e romanzi che amo definire femministi, al cui centro stanno tormentate storie di donne, oggetto di rapporti di oppressione, costrette in ruoli sociali imposti con la forza dell’ordine simbolico e fisico.

Nicoletta Vallorani ha gentilmente accettato di rispondere alle mie domande.

S.C. Avrai i miei occhi esce per i tipi di Zona42, che ritengono «la fantascienza uno degli strumenti più utili a riflettere sulla contemporaneità». Non so se definiresti il tuo romanzo fantascientifico, né se ti situi anche tu nella medesima prospettiva. Ti chiederei anche com’è cambiato, se è cambiato, il tuo rapporto con il genere, in quasi trent’anni dal tuo debutto.

 Vallorani. La premessa necessaria è che non ho una passione per le etichette: le uso funzionalmente a uno scopo, spesso di natura critica oppure organizzativa. Ma non ritengo siano scolpite nella pietra: al contrario, sono categorie instabili, che per funzionare vanno revisionate nel tempo. L’etichetta “fantascienza” ha cambiato significato molte volte nella storia del genere letterario, senza perdere alcune specificità importanti e definitorie, ma anche dimostrando una duttilità rara, soprattutto a partire dagli anni ’70 in avanti. Dunque, per farla breve: sì, Avrai i miei occhi è fantascienza, a tutti gli effetti, come lo sono i romanzi pubblicati da Zona42, e che probabilmente altri editori di fantascienza italiani considererebbero fortemente apocrifi. E sì, ho lavorato al romanzo cercando di fare in modo che fantascienza fosse, per rispetto al lettore cui si rivolgeva e per il desiderio di costruire un ponte, attraverso il quale raggiungere sponde di lettori che, per esempio, di donne cose sentono parlar poco. Ma questi stessi lettori leggono di “alieni” da innumerevoli anni, dunque perché non introdurre un discorso sul femminile, rispettando però alcune formule? La scrittura è talento e mestiere. La seconda parte della frase non si può dimenticare, per arroganza o per ignoranza. E così veniamo alla seconda domanda: che cosa è cambiato? Penso di essere cresciuta io come scrittrice, navigando in acque diverse e cercando di imparare da chi era più bravo di me. E penso che sia cambiato il genere in Italia. O che stia cambiando. Zona42 ha fatto da apripista con scrittrici e scrittori stranieri “difficili”. Per questo loro sono una casa “giusta” per il mio romanzo. Ma penso che non ci fermeremo qui. Sono fiduciosa. I fantascientifici italiani sono lettori esigenti e critici, che non accettano di essere truffati. Si può non essere d’accordo col loro giudizio, ma esso è sempre documentato. E secondo me è un bene. Scrivere è una attività dialogica, e dialogare col proprio ombelico non è sano per nessuno scrittore.

S.C. Nel romanzo, mi hanno colpito moltissimo tre aspetti, correlati, certo, ma sui quali ti chiederei di esprimenti distintamente: l’ambientazione in una Milano riconoscibile ma plumbea, disperata; la violenza sulla donna, ancora più grave di oggi nel futuro in cui si svolge la storia; i rapporti di classe brutali su cui si profetizza strutturarsi una società di esclusione e di sorveglianza

Vallorani. Sono i tre fili tematici principali, deliberatamente ma anche in modo naturale, nel senso che si connettono senza forzature. Per prima, la città, ricostruita a partire da quella che è e che conosco, ma in una proiezione futura che ne enfatizza l’aspetto postindustriale: a parte l’omaggio all’iconografia urbana del cyberpunk, l’idea centrale era quella di raffigurare una dimensione architettonica e topografica nella quale ogni organicità e ogni coerenza fossero perdute. Non vi è luce in questa Milano, e l’unico collante è il pulviscolo che ne invade l’aria. Le architetture sono inaffiancabili, i paesaggi urbani per nulla coesi. Non è la città ideale degli utopisti, ma neanche il suo esatto contrario: le topografie concedono inattese solidarietà, tipo San Vittore, che da carcere si è fatto luogo-famiglia, e Rogoredo, che da stazione diventa rifugio di Ariel. Poi ci sono le donne, o, per meglio dire, le cavie. Qui l’idea – che è centrale nel romanzo, almeno nelle mie intenzioni – era quella di mostrare come il corpo femminile violato smetta di essere, nelle intenzioni di chi lo viola, una cosa organica. Esso diventa una cosa, in quanto tale subumana, e in quanto tale idonea a ogni genere di tortura. Con uno slittamento concettuale appena percepibile, ho usato una scienza consueta (anche se non ancora così sviluppata) per conferire a queste cose un’anima, e per ragionare un po’ su come sia sfuggente questa autorizzazione alla violenza contro le donne. Mi premeva molto parlarne. Spero di esserci riuscita. Infine, i rapporti sociali: si trattava di descrivere una polis che è andata in pezzi. Non c’è ombra di comunità in Avrai i miei occhi. Ci sono tentativi di solidarietà tra naufraghi, ma, se sopravvive l’amicizia, la nozione di comunità è andata completamente perduta. Quindi, alla fine dei conti, tutti e tre i filoni tematici girano intorno alla nozione di corpo come entità coesa, fatta di una superficie visibile e di una sostanza. Tutti hanno a che fare con la perdita di coesione che rischiamo di sperimentare in tutti e tre i campi. E tutti e tre parlano di forme di resistenza a questo processo.

S.C. Come ha osservato anche Valerio Evangelisti, nella sua recensione sulla Stampa (http://www.zona42.it/wordpress/avrai-i-miei-occhi-recensioni-3-tuttolibri/), la narrazione poco si conforma ai codici del genere fantascienza. Noto per esempio, l’uso alterno di prima e seconda persona, riflessioni introspettive che sospendono il ritmo dell’azione, un fraseggiare nervoso, descrizioni evocative. Insomma, un alto tasso di letterarietà, una scrittura lavorata. Che comunque coinvolge molto il lettore, lo tira dentro un mondo angoscioso.

Vallorani. Non so dire. Nel senso: ho sempre pensato che la scrittura sia scrittura, in qualunque genere essa scelga di declinarsi. Io so bene che potrei scrivere in modi più semplici, e probabilmente avrei anche maggiore successo, non so. Ma penso che la letteratura debba avere come suo requisito fondamentale il rispetto del valore delle parole, della musica attraverso la quale esse si compongono, del significato che si portano appresso, e che muta a seconda di come le combiniamo. Dunque non mi sono posta il problema. Mi piace molto che tu dica che il lettore si sente tirato dentro. È quello che voglio. La lettura deve essere esperienza, altrimenti non è nulla.

S.C. Tanta violenza, tanta cupezza, nel mondo di Avrai i miei occhi. Ci vedi davvero proiettati in un futuro così disperato?

Vallorani. Non faccio previsioni. Scrivo visioni, o almeno spero. Questa è una possibile visione, che mi spaventa molto, ma che c’è. Non vuol dire che accada. Non sono un profeta. E se devo dire quel che penso io, ecco, ritengo che Milano – persino ora che somiglia di fatto alla Città Murata – abbia moltissime chance di avere un futuro diversissimo da quello che descrivo. Però davvero penso che sia irrilevante. Questa è Milano come potrebbe essere, non come sarà. Il futuro lo costruiamo noi come comunità, non lo anticipano gli scrittori.

Radio days: Alone III

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Immagini di Marco Cazzato

Anime Stanche

di Mirco Salvadori

 

LEI: Guai a sognare: il momento di coscienza che accompagna il risveglio è la sofferenza più acuta. Ma non ci capita sovente, e non sono lunghi sogni: noi non siamo che bestie stanche.

 

Chissà perché ricordo questa frase di Primo Levi proprio ora, pensava lei tra il follemente divertito e il torpore confusionale che le impediva qualsiasi movimento. Ricordava, ma alla rinfusa. Ricordava quel suo primo e ultimo anno di alberghiero, il professore di Italiano, le sue poesie e la speranza che riuscivano ad infonderle: speranza, bella parola. Ora, supina sull’orlo dell’abisso, sentiva un oggetto estraneo accanire dentro il suo corpo, come una bestia che la divorava dal di dentro. Le sembrava di essere distesa sul ponte di una nave in balia della tempesta, scaraventata contro la balaustra di acciaio, dura, spigolosa, maledettamente tagliente. Ecco l’onda! Pensava terrorizzata tra sé e sé, eccola che affonda e mi invade. Affogo, mi manca l’aria ma questo non basta, ora so che arriva anche il colpo, eccolo arriva! Questa volta sul viso, direttamente contro quella balaustra che provoca tagli profondi e tumefazioni. Qualcosa le stava squarciando l’anima, lo faceva in modo scientifico, cadenzato, in un crescendo di follia che trasformava i suoi intestini in carne da macello. Non vedeva né sentiva più nulla se non il feroce canto della violenza che pestava e bestemmiava e malediva mentre lei si rifugiava nel ricordo di quel primo e ultimo anno di scuola vissuto nella meraviglia di una materia sconosciuta che le donava la pace mai trovata e ora le permetteva di comprendere quanto, quanto stanche fossero le bestie di quella poesia.

 

Sono i maledetti mattoni con i quali hanno costruito questi palazzi! Quei cosi rosso cupo tutti bucherellati fanno filtrare il freddo, l’umidità e il rumore. Entri in casa ed è come se fossi ancora per strada, nel pieno centro di questa sciagurata periferia che non ti molla con il suo sguaiato dialetto fatto di rifiuti, grigiore, muffe alle pareti, graffiti e quell’insostenibile rumore di porte sbattute. È come se questo universo di vita grama fosse un immenso stagno e si vivesse immersi nella fanghiglia che ne ricopre il fondale impedendo la vista del fatiscente palazzo, decrepita torre di controllo sopra una palude che non sa darsi pace e non vuole fare i conti con la sua incapacità di amare o di farlo nel modo orribile a cui è da sempre abituata, sbattendo una porta alle proprie spalle, una mano sulla cinta e l’altra sulla nuca di chi gli sta di fronte.

 

I ricordi si sovrappongono, la fuga necessaria dall’insondabile profondità del male si trasforma in delirio: le porte del vecchio ascensore si aprono, lei e sua figlia entrano nello stretto abitacolo sommerso di sporcizia e scritte altrettanto insopportabili. Lo specchio, andato in frantumi da anni, sopravvive grazie al triangolo che ancora riesce a riflettere le miserie di quel luogo e il viso tumefatto di una madre che stringe la propria creatura in seno. Indossa gli occhiali da sole che tanto le piacevano, quelli che suo marito le aveva regalato per il compleanno, comprati in qualche bancarella dove vendevano le copie degli originali con lenti in pura plastica. A lei però non importava, quella giornata se la ricordava bene. Si riflette in quel triangolo di specchio e rivede la festa, la torta, lei che apriva il pacchetto, suo marito che sorrideva ancora sobrio, Clara che giocava vicino al tavolo e il tintinnio di un messaggio che giungeva sul suo cellulare. Continua a scendere e riflette davanti quel residuo di specchio, ripensa a lei a suo marito ma ciò che vede sono solo due paia di lenti di plastica nera che riescono a coprire quello che mai avrebbe voluto guardare: le grida di lui che chiedeva spiegazioni per un innocuo messaggio di auguri, la sua mano che lanciava la figlia contro il muro e giungeva ad artigliarle i capelli. Era lo strappo, la caduta sul duro pavimento, il primo calcio ricevuto, il dolore atroce, i capelli usati come si usa una corda per trascinare la bestia al macello, erano le bestemmie seguite dal rumore sordo della porta che sbatteva dietro le sue spalle per una, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto, nove, diecimila volte! Era la tenebra della disperazione nella quale riecheggiava il rumore sordo di un primo pugno allo stomaco.

 

LUI: E poi son solo. Resta la dolce compagnia di luminose ingenue bugie.

 

Sua moglie la recitava ogni tanto sottovoce, questa strana incomprensibile frase. Erano parole che riuscivano a scatenare un delirio di rabbia nei suoi confusi pensieri. Non sapeva chi ne fosse l’autore, un vip della tivù forse ma conteneva due parole per lui insopportabili: Solo e Bugie.

 

ULTIMA ORA: I corpi di madre e figlia sono stati ritrovati nello scantinato del palazzo dove abitavano. La morte risale alle prime luci dell’alba. Una valigia è stata rinvenuta vicino all’ascensore ed è all’attenzione degli inquirenti. Sembra che la donna cercasse di fuggire con la figlia dal marito, noto nel quartiere per il suo comportamento violento. L’uomo è ricercato per duplice omicidio.

 

 

“Alone – Vol. III”
17 dicembre 2019

di

Gianni Maroccolo

“Non possiedo nome eppure m’invadono tutti.”

Terzo appuntamento con il disco perpetuo di Gianni Maroccolo: il Volume III di Alone (sottotitolo:Palude)  pubblicato da Contempo Records. La collana si avvale del contributo delle illustrazioni e dell’artwork di Marco Cazzato e dei racconti di Mirco Salvadori. A Lorenzo “moka” Tommasini sono stati affidati post-produzione sonora e mastering. La supervisione è di Alessandro “Tozzo” Nannucci.

Il Volume III affronta il tema della violenza contro i più deboli, in particolare donne e bambini. L’animale scelto per questo capitolo è la libellula, figura dal forte significato simbolico. Questo insetto leggiadro ed elegante porta con sé significati profondi.

Nella cultura occidentale, è simbolo di equilibrio, pace e libertà. La palude è l’habitat naturale della libellula. L’insetto ha origini umili: nasce nel fondo fangoso di uno stagno, dal quale evade trasformandosi in un animale alato in grado di staccarsi da terra.

La libellula rappresenta la trasformazione, la ricerca della verità e la transizione dall’infanzia all’età adulta. La sua vita è caratterizzata da due stadi distinti, ancorché connessi tra loro. Per questo il Volume III è suddiviso in due parti, come due atti di un’opera. Vari temi identificano le scene, che suscitano emozioni contrastanti. Dopo una breve ouverture, si dipanano i due movimenti.

La violenza si manifesta in vari modi: fisica, sessuale, psicologica, economica. Chi commette volontariamente atrocità inimmaginabili verso chi non è in grado di difendersi è facilmente assimilabile a una larva intrappolata in un’oscurità profonda.

Difficilmente riesce a fuggire da quell’abisso, talvolta non lo vuole neppure. Comprensibile l’impulso di raggiungere gli aguzzini nel loro stesso fango e commettere altrettante o peggiori atrocità su di loro. La vendetta non può però farci superare i nostri limiti di larve umane. Il Mahatma Gandhi affermava: “occhio per occhio, e tutto il mondo diventa cieco.” Il nostro destino, invece, dovrebbe essere quello di Vedere. Siamo purtroppo imprigionati in noi stessi, bloccati come i corpi in fondo al mare narrati nel Volume II e il solitario bue muschiato perso nella tormenta del Volume I: questo è il tratto che lega i tre volumi pubblicati fin qui. Come Marok ha già avuto modo di ribadire, la sua musica canta il negativo come un inno alla Vita, non alla sua negazione.

Due gli artisti ospiti del Volume III: Luca Swanz Andriolo recita il testo di Nina Maroccolo “Non possiedo nome eppure m’invadono tutti”. Ne scaturisce una meditazione introspettiva e caratterizzata da momenti di rara emotività. Il Volume III verrà inviato a tutti gli iscritti alla campagna abbonamenti ideata nel 2018 da Contempo Records, ma sarà disponibile per chiunque nei formaticlassici: LP, CD e download digitale.

L’ora stabilita di Francesco Filia

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di Daniele Ventre

Al di là della prima impressione a caldo, non si può avere un adeguato confronto con un’opera come l’Ora stabilita di Francesco Filia senza seguirne passo a passo gli snodi interni. Lo spazio dato a una presentazione non è luogo opportuno per un commento perpetuo, e tuttavia è l’opera stessa, talvolta, a imporne in qualche misura la necessità, a richiedere al critico questa piccola messa solenne, questa strana liturgia della spiegazione sistematica della parola.

Quello che sembra a tutta prima un sistema di fulgurazioni tematiche oracolari, è in realtà un tessuto dell’autoevidenza, dell’Urphänomen esistenziale, in un codice comunicativo dalla chiarezza così immediata e diretta da risultare abbagliante e perciò, paradossalmente, oscura, quasi orfica, intendendo ovviamente il termine nel suo genuino, e antico, senso antropologico e filosofico, non nell’accezione torpida, approssimata e transeunte che lo contamina nel gergo miasmatico dei modernisti.

Anzitutto, il testo incipitario risponde immediatamente, come esegesi e contrappunto antifonale, alle coordinate di senso generico del titolo, precisandolo con puntuale e chirurgica definizione. L’ora stabilita: … quando correre/ non sarà questo fuggire/ ma restare/ in sospensione/ tra un passo e la sua impronta/ tra il respiro e un selciato spoglio di pietre e cielo.
È questo un vero e proprio ὄρος metafisico, in cui la fissazione temporale implicita nella significazione del titolo si inscrive, con moto pendolare, sincrono e misurato, in un’oscillazione fra mutamento e stasi, fra corso e dileguamento, fra termini durativi, come il correre, ῥεῖν eracliteo, ma anche de-corso, corso del mondo, invio alla destinazione, Geschick (in un senso più proprio e forte di quello, usuale, della theory post-moderna di façon vattimiana ed ermeneutica), puntuativo-ingressivi, come fuggire, e stativo-resultativi, in specie “restare/ in sospensione”, riposo, quiete, assestamento, nell’epoché/attesa/soffermarsi. La polarità pendolare va però esaurendosi per attrito, con sinuosità ondulatoria sempre più rapida, con picchi di massimo e minimo sempre più ravvicinati, fino alle note finali: passo, ovvero moto, istante, autostato, sezione di processo, in opposizione a impronta, effetto, risultato, segno, traccia, superamento e conservazione implicita nel superamento; respiro, segno vitale, spiritus, psykhé, e suo arresto, fermo immagine, tempo conglobato in eleatica saldezza, consacrazione e sublimazione, fra terra/lapide, che seppellisce/conserva/salva, e ierofania uranica. Ne risulta, nel primo innesco di questa formula poetica, una falsa partenza del tempo, e sul piano dell’involucro uditivo-enunciativo, un ritmo intrinseco, triturato nell’azzeramento percettivo della sillaba e dell’accento e ridotto al dato essenziale, scheletrico, di un ondeggiare dei soprasegmentali, dei contrappunti tonali che forzano la voce interiore di chi legge a seguire questo attrito in cui l’onda dell’esistenza infine si smorza e si cristallizza.

Quest’ultima osservazione, che i versi di Filia ci impongono per sequenza di mosse forzate nel gioco interpretativo, ci offre l’occasione di precisare un aspetto fondamentale, relativo alla realizzazione enunciativa, o meglio verbo-motoria, dei testi de L’ora stabilita. Più che in altre, precedenti opere, più che ne La neve e ne La zona rossa, segnate, la prima dei due, dalla corposità del lungo verso narrativo, e la seconda da un tessuto ritmico “verticale” compatto e centripeto, è ne L’ora stabilita che prende corpo e giunge a maturazione quella peculiare oralità di Filia, fatta di una inconfondibile ritmicità sotterranea e di una gestualità performativa subliminale, che dell’opera di Filia costituisce la cifra distintiva, rispetto al milieu conformistico atonale e neo-atonale dominante nel linguaggio ordinario della poesia ordinaria.

La portante ritmica oscillatoria dell’incipit va diramandosi e proliferando nei nuclei di versi che l’un dopo l’altro fissano gli snodi dell’opera. Così, l’oscillazione metronomica compassata, scansione dell’ossatura di una minimale musica da camera, o forse da cenobio meditativo del senso interno, si dissemina per inquadrature istantanee di frammenti dirancati di paesaggio urbano: l’ordine delle strade e dei visi, il dipanarsi e precisarsi del correre/de-correre/destinarsi di cui all’incipit, si manifesta come abbacinante fenomenicità di presenza nel qui ora, di parousía diretta, oscenamente concreta e perciò, per paradosso ancora più stridente, inconoscibile e aberrante (“è questo/ che ci farà impazzire”). In tale fenomenicità gli elementi, le ῥίζαι materiali del cosmo, gli στοιχεῖα elementi e lettere dell’alfabeto del mondo, perdono di ravvisabilità, di leggibilità, l’autoevidenza formale (assioma) a fondamento della logica regionale dell’atto individuo, dell’atto, chimicamente e ontologicamente, impuro dell’accadere, è un dato di realtà “calato come mannaia”, come perenne confutazione in tronco e troncamento cognitivo, su pensieri che non lasciano impronta visibile, “divenuti passi sospesi”: una terna di participiali grammaticalmente equivoci fra trasparente desinenza grammaticale e derivazione lessicale opacizzata, in strutturale, triadica, tensione d’ossimoro, fra divenire, passare, fermarsi/soffermarsi, nel termine/atteggiamento chiave della sospensione, del limbo; ma sono destinati a svanire nella risonanza sorda dell’asfalto calpestato. In questa seconda tappa da e per l’ora stabilita, il blocco di versi è più simmetrico, meno dinoccolato negli spazi bianchi e nei silenzi: l’unica rima fra “questo” e “gesto”, sia essa calcolata o semiconscia, associa il deittico e l’accadimento, il gesto, e la sua compattezza ontologica: è forse l’evocazione di un ecceità, del contrarsi del verum factum individuo ad esse hanc rem. E tuttavia non è questa la contrazione in un pieno manifestarsi dell’esistere, quanto piuttosto il collasso gravitazionale dell’atto individuo, cognitivamente elusivo ed eluso, in un punto senza dimensioni. L’occhio dell’osservatore resta, in presenza di questa ecceità, concentrato sul vuoto. Non è la chenosi, lo svuotamento interiore, del mistico, non è l’alleggerimento, l’indebolimento virtuoso, dell’essere: è semplicemente la perdita di contatto di fronte all’irragionevolezza chiusa e implosa dell’evento, della fatticità. In presenza di questo fenomeno, in cui ogni informazione si curva nei coni di luce di un orizzonte evenemenziale singolare, l’atto relazionale dell’esperienza si contrae esso stesso in un conato senza efficacia, di fronte alla latitanza dell’esperito.

Il terzo e il quarto segmento versale dell’opera sono a loro volta accomunati all’incipit da un futuro di previsione. La ricorsività, nei passi d’esordio, dei futuri di previsione, risponde a una precisa gestione dei campi temporali: il futuro di previsione è in atto e in effetto la marca temporale della presentificazione anticipatoria. A chi abbia un minimo di cognizione sugli approcci analitico-esistenziali al sondaggio della psiche, alla cosiddetta Daseinsanalyse, diviene immediatamente chiaro a che tenda il futurum pro praesente di Filia, essendo la presentificazione una circostanza esperienziale tipica del soggetto dilaniato da stati di nevrosi o di implosione depressiva. Molta poesia contemporanea dibatte della fragilità espressiva dell’io più o meno lirico, dalla riduzione a comodità formale ed enunciativa del discorso poetico (“la busta della spesa”) propria di una Antonella Anedda, alla negazione programmatica dell’egoitas, propria di tutta un’area delle poetiche attuali che interessa in larga parte, anche se non coincide totalmente con, le cosiddette scritture di ricerca o non assertive o come le si voglia (auto-)definire: ne L’ora stabilita il problema (se di problema si tratta) riceve una soluzione particolare. La presenzialità dell’oggetto è tradotta in implosione: l’ecceità non è principio di individuazione, ma termine di individualità impermeabile alla relazione dell’esperienza; la presenza dell’osservatore candito nell’attimo fra l’occhio sbarrato, il muro, il selciato e il cielo, si riduce, appunto, a presentificazione. Nel terzo nucleo di versi, il soggetto, il “tu” lirico, è evocato come rovesciamento della pelle, come versipelle e mutaforma, come confine epidermico dell’esterno, rispetto a cui esso si individua come eterodiretto, determinato, come buccia rovesciata e confine disegnato dalle pressioni dell’ambiente esistentivo, come “respiro/spirito” la cui passeggera eternabilità si addensa in spasmo, strozzamento, tensione, e verrebbe decisamente da evocare il fantasma ontologico della gettatezza. Ancora una volta si assiste al fermo immagine del tempo. L’uomo eterodiretto è così ridotto a frazione di gloria: una gloria severiniana, e però carica di un peso di distorsione e di dolore tale da rendere intollerabile la fondamentale non transitorietà dell’attimo. Nei passaggi successivi, dalla quarta alla quinta tappa della via crucis esistentiva, il Leitwort/Leitmotiv del “respiro” si frammenta, in una parodia dell’esplosione dell’io idealistico contro il non io: “Difenderò/ lo spazio del nostro invocare/ raccogliendo/ cocci e angoli di strada”. Il percorso dell’enunciato poetico stavolta inizia con un futuro d’intenzione. Il futuro intenzionale è in questo senso il contraltare antitetico del futuro di anticipazione e predizione. L’io presentificato e determinato dal rovescio della sua pelle/confine, dato dall’esterno, e dal laccio che stringe progressivamente il respiro, laccio stretto dal confine temporale di quest’ultimo, è risolto da un io ridotto a volizione, senza ottimismo della volontà. Fra il terzo e il quarto passo della via crucis del soggetto poetico (che è altra cosa, ovviamente, dall’epifenomeno dell’io più o meno lirico), l’esterno, la scorza della gettatezza, col suo futuro anticipatorio presentificante, raggelato, si oppone all’intrinseco dato della possibilità della volizione, per quanto limitata sia la condizione del volente: il blocco monolitico dell’esistente imploso viene aggirato nella sua scomposizione cognitiva; lo spazio dell’invocare, l’enunciabilità non tanto, e non soltanto, della poesia, ma della stessa pretesa di attuarsi come dignità umana nell’era del post-uomo statisticizzato, indebitato, ridotto a spazializzazione del tempo, a consumazione monetizzata del tempo, si difende strenuamente sull’ultima linea, ad triarios, nella trincea dell’esistente quotidiano sminuzzato, frammentario, che pure è espressione di quegli atti impuri implosi dell’essere, della loro ecceità negativa fatta di contratture isolatrici, più che di individualizzante principio di contractiones ad hanc rem. I passaggi tre e quattro della logica del discorso poetico-esistenziale di Filia, dopo aver definito il reale come blocco/monolite, e come blocco/ostacolo/impedimento/inceppamento, dopo aver delineato lo status di negazione d’approccio alle realtà ultime, definiscono l’unico approccio possibile del soggetto poetico-esistenziale al blocco: accettare la parcellizzazione apparente, misteriosa, aporetica, sia del reale sia di sé come parte del reale; procedere sul bordo del reale accompagnando questa parcellizzazione, sentendola con la propria parcellizzazione, “fin dove una gamba ritorna/cancrena” (piano dello sminuzzamento esistenziale, fisico, materiale del soggetto), fin “dove una lingua/ balbettando/ soffoca, strema” (piano dello sminuzzamento frammentario del logos, che si fa balbuzie argomentativa, frammento poetico addensato, finché la voce non soffoca -in sé stessa e ciò che ha intorno- e non strema -sé stessa e ciò che ha intorno). I due piani, reale –“cancrena” -logos –“strema”, sono legati da un’altra delle occasionali figure di responsione ecoica che talora affiorano nel testo: in questo caso una anomala assonanza, al limite della rima ricca, o meglio, una duplice trama di assonanze: “ritorna / cancrena”; “soffoca, strema”.

L’aporia che affianca il reale alla sua parcellizzazione, il blocco dell’atto puro alla frammentarietà degli atti più o meno mancati, lo spasimo al respiro, vede necessariamente il respiro identificarsi con lo spasimo, e infine quest’ultimo fagocitare il giorno (“nel tendersi/del giorno/fino allo spasimo/non c’è che un battito/di ciglia”). È come se questa ridefinizione, questo ripensamento poetico di quello streben che è ormai nel momento arcaico della nostra modernità, in grembo al proto-romanticismo e alla sua poesia ingenuamente sentimentale, risolvesse immediatamente in sé stessa la particellarità del tempo, i nows in cui alcuni paradigmi fisici quantizzano il tempo (e con esso lo spazio). Il vissuto filosofico che si assiepa nella memoria culturale dell’autore, che della trasmissione della filosofia ha fatto da tempo il suo mestiere, sembra imprimere, nella quinta poesia della raccolta, una svolta decisiva alla sistematizzazione di questi generi sofferenti dell’essere. Spasmo, respiro, blocco, presentificazione, schiacciamento del decorso del tempo nell’istante, sembrano implodere in un’unica struttura di dramma ontologico, in cui la presenza del vivente volente non volutosi, nel suo “muto/ sgomento che non conosce/ inizio”, si tende, nel farsi vita, come una corda d’arco (eracliteamente: βίος che è vita nel nome e nell’effetto morte), recita a soggetto la propria paralisi, il proprio parcellizzarsi, la propria sostanza fatta non di tempo e spirito che misura il tempo, ma di respiro e spasimo che strozza il respiro, misurandolo nell’intercisione. Non si può fare a meno di pensare che un certo esercizio, quasi heideggeriano, sulla perversa filiazione delle parole dalle loro radici, abbia qui agito come ipogramma, facendo riaffiorare all’immaginazione del lettore più o meno avveduto la vecchia comunanza etimologica indoeuropea fra il latino tempus e i le voci greche τέμνω, “tagliare”, τέμενος “spazio sacro, recinto sacro, campo separato [tenuto da parte per culti eroici o prerogative sacerdotali/regali]. Il tempo è qui, forse, quell’intercisione, incisione, dell’atto d’essere, quella scalfittura del blocco che non ne infrange la paralisi, ma semmai ne evidenzia la profonda inamovibilità; e nello stesso momento è quello spazio sacro, separato, quel tempio (templum < *tem-lom <*tem-nom) altro derivato dell’arcaica radice del tagliare, *tem-), in cui la nostra invocazione si rinchiude per estrema difesa, di fronte al blocco, alla presentificazione, senza inizio, senza arkhé, cioè senza principio esplicativo, eppure finita. E un altro partner sotterraneo di questi Sprachspiele ipogrammatici si attiva, nell’atomizzazione dell’adesso, dell’atto (ontologico) impuro, dell’entelechia sporca, dello spurcum complementum, il telos, cerchio, confine, fine tributo impuro, contaminato, miasmatico, dell’esistere: si rappresenta qui un atomo (un a-tomos: non tagliabile, non analizzabile, non divisibile) di esistenza che solo il tempo misurato nell’intercisione, transitoria o definitiva, del respiro/spirito ad opera dello spasimo/angoscia/morte riesce ad analizzare. Il vivente volente non volutosi che si recita a soggetto si definisce così, nella poesia de L’ora stabilita, come una singolarità ermeneutica di fronte ad altre singolarità ermeneutiche, un atomo scalfito di esistenza, condensato in una contrattura de-finitoria e de-limitante, un respiro contratto in uno spasmo, nel moto incubico, corsa eterna fra inseguito e inseguitore, di una tensione centrata su sé stessa. Da questi parametri e da queste metacondizioni, che ineriscono sia al discorso poetico sia all’esistenza stessa, resi ormai eleaticamente indistinguibili, discendono tutte le altre tappe di questa Ur-phänomenologie del respiro/streben/spasimo/tensione che è l’esistenza implosa e spezzata in contratture locali individue di atti intercisi e frammentarietà verbo-gestuale: l’epifania del giorno, il giorno che è battito di ciglia, il giorno e l’aurora che è un dito, secondo l’antico proverbio già noto all’arcaica poesia dei lirici antichi, si aprono “senza colore/nel punto cieco/ al fondo/ di un orizzonte di catrame/ e bagliori” dove la dimensione abissale del fondo a cui ombre si proiettano per bagliori evoca l’abisso dell’illusione in quel mito della caverna che è il mondo; la tensione del respiro che si ferma e sospende in “un’attesa/ che dilapida/ i suoi istanti”, in una atmosfera pulverulenta e granulare che grava sul diaframma tra essere e nulla con “un vuoto di mensole e rantoli” (rantoli che non a caso sono lo stadio terminale, frammentario, del respiro), in ciascuno dei punti di vista ciechi sul blocco dell’esistere complessivo, in ciascuno dei fondi e sprofondi e delle gettatezze delle verità che giacciono al fondo, nei sogni obliati dei singoli esisteri, universi monadici tesi e sospesi alle fini/ai fini senza inizio, respiri/spiriti intercisi e spezzati, atomi scalfiti, divisi e isolati, singolarità di pelli e scorze a rovescio, versipelli, archi vitali di cerchi infranti; la “strada” che procede per sottrazione di “tracciato”, per progressiva diminuzione di spazio (e dunque di tempo) residuale, si condensa in “un labbro/inchiodato” e la progressività implicita nel “tracciato”, progressività ossimoricamente affidata a una forma perfettiva di stato compiuto, va in automatica rima grammaticale con l’organo “inchiodato” da cui passa logos e respiro/spirito, così che la presenza del volente non volutosi, del soggetto recitato, si fa “accennato sorriso”, e ancora una volta “grido spezzato in frammenti”, viso/maschera/persona/soggetto-recitato congelato nel momento e “coperto di brina”, come per concrezione di ghiacciaio su corpo esanime o per accumulo di ghiacci in camera frigorifera -quasi che il paesaggio degli esisteri monadici al fondo delle singole caverne individue si palesi come camera di conservazione di corpi in stasi criogenica; e ancora il giorno, dies/solis:, sempre, come da tradizione, endiadicamente vita e breve istante come “esercizio mal riuscito”, timore di “giurare” -e qui nuovo riaffioramento di glomeruli di etimologie, fra il ius-iurandum, il giuramento che è sanzione di diritto, invocazione, formula religiosa e magico-rituale, e lo swear/Schwur, radicato nella truth, nella trustis, nella quercia (*druh-) e nella roccia, come basi del giuramento/fede, dell’“essere fedeli a sé stessi”, della pistise del uerus, verità su cui si giurerebbe e rimane sempre un istante/segmento fuori della portata della tensione esistenziale; progressivo cadere delle parole come foglie, con immagine omerica del mietersi delle vite umane traslato all’articolazione dei narrati, sfrondati i quali, nell’autunno dell’esistere, i “fili spinati” del Lager ontologico traspaiono senza più pietosi velami verbali; progressivo estenuarsi dell’enunciato di esistere, “l’esile di questa voce” nel più flebile dei balbetti, unico che al soggetto recitato dell’esistere sia stato concesso. In questa carrellata a-logico-disontologica, o meglio disontica, disesistentiva, di tensioni frammentarie, di esisteri contratti, di ecceità terminali e terminate, il susseguirsi delle tappe si fa quasi tumultuoso: il fronte nero del giorno che cade in frantumi, con immagine rovesciata di un ben noto quadro di Magritte, per dar luogo allo scavo archeologico à rebours, fino a un grano di sale, residuo di reale razionale, di vita che potrebbe riattuarsi; il bambino che corre nella trappola di stanze e buio verso un’attesa che è orizzonte di luce, con rovesciamento della buccia della vecchia allegoria del “vecchierel bianco infermo/mezzo canuto e stanco”, di leopardiana e petrarchesca memoria, con condensazione di entrambi gli esiti che il correlato oggettivo e il medium comparationis hanno nei due predecessori; azzeramento dell’esistere nell’ultimo respiro fino al nulla e alla sua svolta, senza bisogno di somme fra volizione, intenzionalità e gestualità, tutte condensate nella stessa spurca entelecheia; la parabola della morte ospedalizzata come istante teso fra le stelle, figura dell’assoluto, e l’erba falciata, figura della mietitura dell’essere; la fissità dell’attimo d’incubo “nel soprassalto del sudore”, in un paesaggio liminare di sobborghi e palazzi, condensamento e obliterazione del borgo di sabiana memoria, affiancato al rantolo finale e all’ultimo “sbocco di sangue” e al grazie inespresso che segna la fine delle sofferenze, in due nuclei contigui di versi contigui che ominosamente giustappongono morte e risveglio dall’incubo; la definizione dello spazio bianco come luogo dell’inarticolato luminoso e numinoso in cui tratto di penna e misura di sillaba scandiscono la distanza “che separa/ogni vita/ dal suo urlo”, con trasformazione ontologica dell’arcaica allegoria dello scrivere dell’indovinello veronese; lo scambio fra occhi (letterariamente = luci) e buio, “per cogliere il bordo/nascosto degli oggetti/il filo, spezzato,/ che li unisce/ a quel che non muore, dove, in opposizione allo spazio bianco della pagina, lo spazio buio dell’annientamento misura e scandisce la distanza che separa/taglia la creaturalità dall’eventuale fonte della creazione, il fondamento e i fondati, la cima e il fondo dell’essere equivoco; i due testi, apparentemente rivolti a un “tu” che può immaginarsi femminile, accomunati dal motivo dell’ombra proiettata a penetrare una maschera e a far luce sull’altro, l’ombra che è (dantescamente) corpo tramite cui legarsi al di là dei confini monadici dell’esistere, corpo da restituire; la diade dei due micro-poemi del “silenzio” fra contemplazione fenomenica del mondo esterno, per una volta condensato in paesaggio (“rado silenzio/ di un paesaggio di macchia/ e scogli”, con evocazione voluta di tratti quasimodiani, senza vergogne letterariamente improprie, di censure da post-avanguardia avariata), e auto-riflessone sulla poesia, definita, quanto al suo involucro esterno come un “silenzio di/ sillabe/ e bianco,/ qui, dove/ l’attrito dell’aria/ prova, di nuovo,/ che esisto”, con entimema o sillogismo tronco di cartesiana memoria a sugellare il Witz metapoetico; ridefinizione del tema del tempo frammentato, atomizzato, parcellizzato, anche all’interno del semplice nucleo dell’attesa/tensione/respiro/spasimo, così che di questo atomo temporale diventino nucleoni segnici “il giorno e la notte”, “la pausa e il suo battito” e mesoni frastici, relatori, forze forti compresse e arrotolate in dimensioni indicibili, “l’assenza” e “la pausa”; il tema del finire, del confine, che nemmeno quello è proprietà del volente non volutosi (“Non è nostro/ il calmo/ furore/ della terra/ l’immenso di/ lampi e silenzio/ la mano/ che afferra/ la ringhiera e trema/, non è nostro nemmeno/ questo finire”); la nuova diade di testi centrati sul bisticcio “ora” avverbio vs. “ora” sostantivo, che culmina con il verso che fa da titolo e capo alla raccolta “l’ora stabilita” al culmine di una “scena… muta” e perciò senza “tregua”. La carrellata dei nuclei versali della raccolta potrebbe così continuare indefinita, in un commentum veramente perpetuum, in cui tutte le letture e gli ipogrammi compossibili, tutti gli echi, i suggerimenti, le suggestioni convergono attorno a quest’unitario, ossimorico, tessuto di frammenti che abbiamo cercato di illustrare membro a membro, di seguire snodo per snodo. Restano però pochi elementi da porre in ulteriore evidenza: lo statuto del soggetto recitato, che dimora in un giorno senza titolo, è il culmine di questo disvelamento dell’esistere frammentario, e si traduce in un giuramento sulla soglia del nulla, e in una promessa “davanti al cupo specchio dei tuoi occhi”, specchio di un “tu” lirico che potrebbe essere, ancora una volta, immaginato come femminile, una creatura sorella emersa dal buio degli abissi esistentivi. È con questo “tu” lirico, che si fa, fichtianamente, seme e radice argomentativa di una pluralità in possibile evoluzione verso una relazionalità vuota, che la poesia di Filia si propone di accompagnarci nell’esistenza, “fiaba senza lieto fine”, al termine della notte in cui si è “liberi dall’errore”, dall’erranza, erramento, buddhisticamente ignoranza/illusione, “da quell’a tutti costi vivere”, finché il soggetto recitato depone la maschera, “finalmente/cadavere: cosa nelle cose/niente nel niente, tutto/ in tutto, omeomeria dell’esistentivo, senza più angoscia, inveratasi l’ultima possibilità dell’esserci; così, jaspersianamente, il naufragio dell'ente (non l'ennesimo, futile inno al fallito concetto di fallimento fine a sé stesso) trova una sua dicibilità solo in vista di un qualche tipo di trascendenza, come monade finalmente approdata alla sua futurizione di silenzio.

Nel paese delle ceneri (un estratto)

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 di Francesco Permunian

 
Grande era stata perciò la sorpresa quando mi ero trovato per la prima volta di fronte suor Zenobia e la cosiddetta “banda delle ostie”, come mi ero ormai abituato a chiamare quel manipolo di suore che da qualche tempo accudivano mia sorella.
Che Eugenia, fin da ragazzina, avesse sempre nutrito una speciale devozione nei confronti degli ordini religiosi, di tutti gli ordini e le congregazioni religiose, questo non era mai stato un mistero in famiglia.
Se invece di sposarsi si fosse fatta monaca, sicuramente sarebbe stata più felice. Ma adesso che era sola, sola e disperata dentro quell’enorme casa vuota, era normale che riempisse le sue giornate con una miriade di opere di carità.
Le più diverse, e strampalate, iniziative di beneficenza costituivano dunque l’occupazione quotidiana di mia sorella. E poiché il ricordo del figlio morto le era insopportabile, spediva soldi a orfanotrofi e a missioni sparse in tutto il mondo, adottando “a distanza” qualunque orfano le capitasse a tiro. Mi pervenivano bollettini di pagamento dalla Cina, dalla Guinea-Bissau, dal Belucistan! Oppure istituiva sostanziose borse di studio destinate a studenti di teologia poveri in canna.
«Molti sacerdoti, quando erano in seminario, hanno mangiato il pane dei Biscossa Aldegheri» mi confidava, orgogliosa, tutte le volte che la invitavo a moderare le spese.
In pratica, quasi la metà del patrimonio di famiglia si era già dissolta in mille rivoli caritativi ed è naturale perciò che accogliessi con malcelata irritazione quell’ennesimo drappello di suore che, un bel giorno, ebbero l’ardire di presentarsi allo Sheraton a batter cassa direttamente da me, visto che Eugenia ormai si era ridotta in bolletta.
Erano in quattro, mi ricordo, tutte e quattro vestite di grigio: grigio chiaro su grigio scuro, con una piccola croce dorata sul petto. Molto eleganti, devo dire. Anche le loro scarpe, lucidissime, senza neppure un granello di polvere, risultavano di ottima fattura, sicuramente confezionate a mano.
Più che suore, in realtà sembravano quattro estetiste. Per la precisione, quattro estetiste di provincia che, per sfuggire alla noia mortale del loro ambiente, si erano divertite a camuffarsi da religiose.
Per questo ero molto imbarazzato al momento delle presentazioni. Naturalmente mi guardai bene dal riceverle nella suite, ma d’accordo con il direttore dell’albergo – di cui purtroppo non mi sfuggiva lo sguardo ironico e divertito – ci appartammo in un angolo del vasto salone della reception.
“Dite, dite pure, sorelle!” ricordo che esclamai, tanto per rompere il ghiaccio.
Quelle sciocchine infatti continuavano ad ammirare, letteralmente a bocca aperta, le tende e i lampadari della reception. Ogni tanto tiravano il collo per sbirciare in altri saloni, di cui intravedevano le splendide scenografie parietali che riproducevano le più belle piazze del Veneto.
Allora sospiravano, amaramente, confrontando tutta quella magnificenza con l’inevitabile squallore del buco di provincia da cui provenivano.
Quindi, dandosi di gomito, bisbigliavano tra di loro: “hai visto in che lusso vive l’avvocato? Adesso capisco perché non viene più al paese, qui è meglio del Vaticano, dovrà essere ben generoso con noi!”
E cercando di non dare nell’occhio, di tanto in tanto prendevano in mano i bordi del tappeto – intendo quell’enorme tappeto che ricopre quasi per intero il pavimento della reception – e ne tastavano la consistenza, neanche fossero in un mercatino rionale.  La più sfacciata delle quattro, forse per risolvere definitivamente la questione, a un certo punto si infilò in bocca un lembo del tappeto. Lo masticò a lungo, molto compunta e ad occhi chiusi, come meditasse sul mistero della eucarestia, quindi lo sputò esclamando a voce alta: “è autentico, ve lo dicevo io che non era sintetico!”

 

Per fortuna intervenne suor Zenobia a mettere fine a quella pagliacciata; tutti i camerieri sghignazzavano, io morivo dalla vergogna. Anche i cuochi avevano abbandonato le cucine per assistere allo spettacolo delle suore che ingoiavano i tappeti.
«Non è nostra intenzione farle perdere del tempo prezioso, gentile avvocato» così esordì la superiora di quel branco di scimunite, trattenendo la mia mano nella sua per un tempo francamente eccessivo per una donna di fede.
«In sostanza», proseguì, «lei avrà sicuramente intuito» – non avevo ancora capito un bel nulla, invece – «che se noi sorelle della Compagnia della Santa Eucarestia siamo venute da lei, evidentemente è per impetrare il suo sostegno a un progetto eucaristico assolutamente eccezionale.
Come lei ben sa, l’eucarestia è il fulcro della vita soprannaturale nella chiesa ed è quindi il mistero più alto in cui si accentra la liturgia cristiana. I tempi antichi e l’età moderna sono testimoni  di numerosi miracoli eucaristici, giusto la settimana scorsa – tanto per dire – abbiamo compiuto una visita di preghiera presso il duomo di Orvieto, dove viene venerato il famoso miracolo di Bolsena.
Avesse visto quant’era felice sua sorella! Girare un po’ per il mondo alla scoperta di illustri reliquie religiose, ovviamente guidata da mani esperte; uscire ogni tanto dal silenzio asfissiante di quella casa e svagarsi tra chiese e santuari, ebbene, lei non ha idea, caro avvocato, degli enormi vantaggi che ne derivano alla salute psicofisica della povera Eugenia.  E se ora sono qui, è appunto per assicurarle che il progetto eucaristico al quale stiamo lavorando si trova ormai in una fase molto avanzata. In quella fase cioè in cui – magari per un nonnulla, badi bene! – potrebbe scaturire un miracolo grandioso  oppure il fallimento più abietto.
Insomma il momento è delicato, molto delicato, non so se mi sono spiegata a sufficienza?»
«Lei è stata chiarissima, sorella. E mi dica: quanto le serve?» chiesi allora per troncare quel colloquio durato anche troppo. Tanto, sapevo già per esperienza dove andava a parare quel genere di discorsi.
«Prego?» rispose sorpresa suor Zenobia. Se fingeva, era davvero una grande attrice.
«Ripeto, quanti soldi le occorrono?» e posai sul tavolo il blocchetto degli assegni.
«Naturalmente», aggiunsi, «esigo una relazione scritta e firmata sull’uso del denaro, con tanto di ricevuta per qualsiasi spesa. Ogni centesimo che vi sarà elargito, dovrà venire impiegato esclusivamente nell’interesse di mia sorella,  sono stato chiaro?»
Dopo tali parole le suore si guardarono in faccia, sgomente. Parevano sul punto di scoppiare a piangere, una si soffiò il naso molto rumorosamente. Quindi madre Zenobia estrasse dalla borsa un catalogo di oggetti sacri, ognuno con tanto di prezzo. E con molta competenza, devo riconoscere, mi illustrò il funzionamento di una macchina automatica per l’impasto, la cottura e lo stampo di ostie e di particole.
Trasecolai, lo ammetto, ascoltando le prestazioni tecniche di quel marchingegno, il quale produceva dalle quattrocento alle settecento particole all’ora, più un numero imprecisato di ostie magne.
«Cosa ve ne fate di tutte ‘ste ostie?» domandai perciò sbalordito. «Dopo tutto, per certe esigenze eucaristiche, potreste rivolgervi alle canossiane del Lauretum».
«Ma figuariamoci, quelle sono  ferme al medioevo; anzi, alla preistoria!» mi rispose bruscamente suor Zenobia. La quale mi spiegò, scandalizzata, come le canossiane si servissero ancora di un rudimentale “fornetto” per cuocere  le loro ostie.
«Hanno avuto perfino il coraggio di rifiutare una macchina termoelettrica per ostie e particole – troppo moderna! hanno detto – di cui la nostra congregazione intendeva disfarsi per acquistare, appunto, un modello automatico. Noi siamo per l’aggiornamento continuo, ecco il punto, loro invece sono letteralmente spaventate dalla tecnologia applicata al corpo eucaristico. Ogni progresso per loro equivale a una diavoleria, non meraviglia quindi che siano rimaste soltanto in quattro gatti là dentro al Lauretum. Sì, quattro vecchie suore dove neppure vostra sorella, a quanto mi risulta, si arrischia più a mettere piede. Quello è un ospizio, avvocato, l’estremo rifugio di una fede ormai decrepita e superata. Noi invece rappresentiamo il futuro della chiesa; reliquie e miracoli oggi contano più di qualsiasi preghiera.
Pur con tutto il rispetto verso madre Bettina, cosa possono mai valere anche le preghiere più ardenti di fronte al silenzio dei cieli? E’ nostra intenzione pertanto entrare in possesso di una reliquia importantissima ai fini di un miracolo che io spero imminente. O perlomeno, di un frammento di quella preziosa testimonianza divina  (in fondo è giusto che anche lei ne sia al corrente, visto che è il nostro benefattore)  costituita dalla coda di quell’asino che “fu fatto degno di portare il nostro Dio dal monte Oliveto a Jerosolima”.
La reliquia in questione, lei deve sapere, era custodita fino a non molto tempo fa presso i domenicani della chiesa di Santa Maria di Castello, a Genova. Adesso sembra sia sparita, purtroppo. I frati ne parlano malvolentieri, è evidente che si vergognano di un tale ingombro del passato. Ma conoscendo i domenicani, credo che con un po’ di pazienza e molta elemosina, alla fine riusciremo a procurarci almeno una porzione di quella coda miracolosa. Ripeto: un crine, un pelo appena di quella coda sarebbe più che sufficiente!»
A quel punto, avendo notato come i camerieri dello Sheraton – che da ore ci spiavano facendo finta di nulla – se la ridevano alle nostre spalle e addirittura si scambiavano a voce alta, da un salone all’altro, alcune battute inequivocabili del tipo: «ale  muneghe ghe piase la coa del musso!», proprio allora, dicevo, mettendo da parte ogni ulteriore esitazione, ho staccato un assegno più che sostanzioso porgendolo nelle mani accoglienti di suor Zenobia.
«Iddio le renderà merito, caro avvocato» furono le sue ultime parole prima di congedarsi. E mentre si avviava all’uscita, volle regalarmi un prezioso portaostie in ottone dorato con coperchio in legno d’ulivo, sul quale era stato inciso il seguente acronimo: P.I.S.T.A!
Lo userò come contenitore per i sonniferi, pensai infilandolo in tasca.
Sì, ci metterò dentro le pastiglie per il sonno, mi dicevo, e intanto suor Zenobia mi illustrava il significato di quella strana iscrizione. Che era il seguente, se ben ricordo: Paremus Iesu Semitas Tenacissimo Ardore!

La paura della normalità. Sui Diari di Susan Sontag

1

di Angela Galloro

Nell’intervista fiume a Jonathan Cott per Rolling Stone, ripresa in due parti e pubblicata nel 2013, Susan Sontag dà quella che potrebbe essere la sua non dichiarata definizione di curiosità: dal momento che mi piace ciò che non sono, amo cercare di imparare ciò che non sono o quello che non so.

Su questa chiave di lettura, della più vivace voracità intellettuale, della curiosità instancabile si possono studiare i diari, pubblicati di recente da Nottetempo (Rinata. Diari e taccuini 1947-1963 e La coscienza imbrigliata al corpo. Diari e taccuini 1964-1980) raccolti dal figlio David sulla base di quaderni e appunti.

A puntellare ogni pagina l’ossessione della scrittura a tutti i costi: tra le note di intensa intimità che ci si aspetta da un diario fanno la loro comparsa complesse critiche letterarie, sociali, cinematografiche, prodromiche a quelli che sarebbero stati (o che contemporaneamente venivano pubblicati) i romanzi e i saggi critici. Annotazioni centrifughe che solo una volta – e solo verso la fine dei quaderni – trovano pace in due colonne dal tono infantile: quello che mi piace / quello che non mi piace.

Sempre nell’intervista a Cott, il giornalista fa notare a Susan Sontag l’immagine di Hercules alle prese con l’Idra sulla copertina del saggio La malattia come metafora, pubblicato nel 1978 dopo la sua – infinita – lotta contro il cancro. Nonostante questo possa far pensare che il mostro sia la malattia, le teste del mostro rappresentano invece per Susan Sontag le false convinzioni, il pensiero demagogico, l’ossessione della scrittura, del tempo, delle convenzioni sull’età, sul genere, la misoginia, l’ambivalenza del potere.

La formazione intellettuale della giovane Sontag comincia molto presto, a giudicare dalla sconcertante maturità dei diari di Rinata, quella di una quindicenne combattiva e insieme di una giovane donna colta e dalle idee chiare, studentessa prodigio diplomata in anticipo. Ho intenzione di fare tutto… di avere un solo modo di valutare l’esperienza – mi procura piacere o dolore? E mi premurerò di rifiutare ciò che è doloroso – pregusterò il mio piacere ovunque, e per giunta lo troverò, perché è ovunque!

Una passionalità che lascia spazio a mille dubbi, e che rimane così intatta nel tempo come rimangono, cambiando ed evolvendo, alcune incertezze. Ogni posizione estetica è oggi una sorta di radicalismo. La mia domanda è: qual è il mio radicalismo, quello prodotto dal mio carattere?
I diari sono una corsa all’inseguimento di questa definizione di personalità. Eppure non vi si troverà alcun atteggiamento radicale o categorico. La delicatezza del dubbio, la femminilità della soluzione sono le strade che la scrittrice percorre, a volte in preda a confusione consapevole, altre con chiarezza e convinzione disarmanti.

Si ha sempre paura di interpretare Susan Sontag, dal momento che gran parte della sua speculazione critica si è concentrata sul contestare l’interpretazione. Gli aspetti di cui Sontag parla nei diari, vita, scrittura, amore e tempo, sono gli stessi che nei saggi vengono studiati nelle personalità di altri intellettuali (si leggano le note su Benjamin o Barthes in “Sotto il segno di Saturno”) e che nei romanzi si risolvono e prendono le forme di un personaggio (Diddy l’ignavo ne “Il kit della morte”, Emma in “L’amante del vulcano”).

Sembra quasi che i diari servissero a sparigliare le carte di un ordine creativo mai completo.

Come si tengono insieme le mie varie identità – donna, madre, insegnante, amante, ecc.? Ci riuscirò tra un quarto d’ora? Sarò capace di mettermi nei panni della persona che devo essere, di abitarla? È solo una delle riflessioni sull’io, nelle quali però concima un fine più alto, un’idea dell’esistenza che non si chiude nella propria vita, nei limiti dell’ego e del successo (L’attrito del successo: dispersione di energie e ancora Chi ha il diritto di dire “io”? è un diritto che ci si deve guadagnare?) ma che trascende il momento e lo spazio e diventa meditazione sulla coscienza: un progetto spirituale – ma legato alla creazione di un oggetto, così come la coscienza è imbrigliata al corpo, è la frase che dà il titolo alla raccolta e che tradisce un’ambizione più alta in cui l’amore, il successo, l’esperienza, la maternità, l’arte si fanno strumenti dichiarati di un raggiungimento spirituale. All’inizio del ’66, dopo anni di insegnamento in accademia e dopo aver pubblicato il suo primo romanzo, “Il benefattore”, Susan dubita ancora di sé: so di avere una buona mente, una mente persino potente. Sono brava a comprendere le cose + a dare loro un ordine + a usarle. Ma non sono un genio. L’ho sempre saputo.

L’ossessione della mediocrità, della non-genialità, messa più di una volta in connessione con le aspettative genitoriali tutte al femminile – dopo la morte del padre quando era appena bambina le figure affettive di riferimento erano la madre e la sorella – ricorre più di una volta nel percorso di formazione della scrittrice, ma meno in quello della donna che si risolve molto presto in una percezione del mondo più elevata.

Per poter scrivere l’ego deve sparire o si deve ingrossare?

Vive appollaiato su ogni pagina il gigantesco contrasto tra ego e abbandono del desiderio, tra l’individualità, il genio creativo, e l’umanità profonda in contrasto, l’amore e l’ambizione: preferisco essere cortese che giusta, è il proposito che la muove già dalla prima giovinezza. Nei diari il distacco dell’individuo dal proprio sistema è al centro della riflessione: di fondo anche l’estetica fascista nei saggi di Sotto il segno di Saturno viene definita come esasperazione dell’individualità, celebrazione del genio a tutti i costi, dove il costo principale è la perdita dell’amore e della solidarietà del pensiero.

La normalità terrorizza Susan Sontag anche nella scrittura: nei diari vi è in controluce una consapevolezza per cui il genio egoico sia più portato allo scrivere, in particolare alla narrativa, una prova che l’autrice sentiva sempre molto ardua e che affrontava con più ansia rispetto al lavoro critico o cinematografico. Il mio “io” è gracile, cauto, troppo sano di mente. Gli uomini sani di mente, i critici, li correggono – ma la loro sanità mentale è parassitaria e vive della facoltà creativa del genio.

Coscienza e corpo fanno a botte in molti passi, in altri si parlano e spesso si abbracciano: è evidente nel rapporto con il sesso, un atto sempre pronto ad ammettere sé stesso come errore. Susan cerca la risposta a questa dualità creativa, tra questo corpo “basso”, mortale, voglioso e – da un certo momento, purtroppo – malato e una mente che divora l’esperienza tutta, in modo “siddhartiano”, per elevarsi. La scrittrice esemplifica molto bene il contrasto purezza – saggezza impersonandoli rispettivamente in Simone Weil e Flaubert. Rimanere puri precludendosi l’esperienza o rinunciare alla purezza, preferire la lucidità e così l’esperienza? L’origine più profonda della mia mediocrità: volevo essere pura e saggia allo stesso tempo.

Il prezzo da pagare è una profonda e dolorosa solitudine, quella che si manifesta durante l’atto creativo. Scrivere annullava tutto della vita di Susan Sontag: mangiare, dormire, uscire, vedere gli amici: ho trasformato la mia vita in un’officina. Amministro me stessa.

Il lavoro che inonda progressivamente ogni aspetto della realtà della scrittrice non fa che aumentare la fame insaziabile della mente, che diventa quasi una malattia e che Susan aveva preannunciato nei primi diari al tempo della passionalità sfrenata, annotando convintamente: il bisogno intellettuale simile al bisogno sessuale.

L’amore, anche nei suoi momenti di tenerezza e/o passione, è trattato come un esperimento sociale. Con incredibile lucidità Susan Sontag si guarda dall’esterno e da fuori guarda la coppia, l’omosessualità, la perversione, il matrimonio. Pur amando, sinceramente e follemente.

Le sette teste dell’Idra con cui inizia l’intervista di Cott, alla fine dei diari, sembrano diventare i grandi dualismi con cui la Sontag combatte ogni giorno. Alla ricerca disperata di un assoluto che li contenesse tutti, proprio come una “posizione estetica” ai tempi molto richiesta.

Ma al radicalismo, Susan preferiva la libertà e l’intolleranza verso gli stereotipi giovane / vecchio, uomo / donna, sui quali – sosteneva  – si tiene in piedi la società e che prevedono, com’è naturale, un vincitore e un vinto per poter convivere. Contrapposizioni e manicheismi inaccettabili per una personalità affamata di vita, per le infinite possibilità che Susan Sontag dava all’arte, al libro, al film, alla letteratura, al sesso, alla fotografia, all’umanità.

“Contro l’interpretazione”, il saggio del 1966, si fonda proprio sulla lotta alle categorizzazioni e ai limiti che queste impongono, impoverendo così il mondo e l’arte. Nel tempo dell’interpretazione a ogni costo, non stupisce che l’autrice sentisse mancare, e lo esprimesse nei suoi scritti più intimi, l’autostima data da una corrente, da una linea da seguire, come molti suoi colleghi (per giunta strutturalisti). Scrive spesso e in diverse forme di mancare di “audacia” e di “carattere”. La sua posizione umana e umanista, completamente priva di pregiudizio, passionale e vogliosa di vita non doveva sembrare a sé stessa completa, come si addiceva e si richiedeva all’approccio critico del tempo, ed è forse questo il grande aspetto del tutto nuovo che rende preziosi i diari.

I due volumi (che precedono un terzo di prossima pubblicazione) sono fondamentali per tracciare le mille strade interiori e quotidiane e sembrano diventare l’esemplificazione immaginativa e potente del pensiero di Susan Sontag, di un corpo indebolito da troppa coscienza.

Se il virtuale trabocca nel reale

2

di Mariasole Ariot

Forse ai nostri giorni l’obiettivo non è quello di scoprire che cosa siamo, ma di rifiutare quello che siamo. Dobbiamo immaginare e costruire quello che potremmo essere.

Foucault

 

Dove prima stava una gabbia poggiata sul terreno – e la guardavamo, introducevamo piccoli granelli di parole, fotogrammi, pensieri che ritenevamo inutili alla carta, un giorno  nella gabbia siamo entrati.

Ora, le regole della gabbia sono schizzate fuori dalle grate, invadono le strade, ci gonfiano gli occhi al mattino, dispercepiscono le relazioni, modellano come creta una morte che non sarà più morte: perché tutto resta. Modellano la vita togliendo grammi di vita alla vita.

Le bocche spalancate, la pelle dei corpi senza pelle, la vendetta dei bisogni, la chiusa del peso specifico del sogno, avere fili al posto degli arti, avere arti al posto dei figli.  

Prima era l’oggetto guardato, usato. Poi l’oggetto ci “ha diventati” – e ora, la coincidenza tra l’io che fruisce del dispositivo e il dispositivo stesso ha oggettificato i fruitori e soggettivato l’oggetto.

Scorrendo la “propria” bacheca passano milioni di informazioni, e il tempo e lo spazio e l’attenzione dedicati ad ogni singolo elemento è pressoché identico: una foto di mare del compagno di scuola, un quadro di Schiele, una dichiarazione di guerra, la morte di un padre, uno schizzo di sangue, la nascita di un figlio, una riflessione a margine dell’esistenza, un lettino d’ospedale, un pianto, un grido, un lamento, una citazione, un verso, uno sputo.

L’indice scivola veloce sullo schermo, e la frequenza con cui lo si apre e si chiude e si riapre cresce esponenzialmente: eppure non è una schiavitù, piuttosto la scelta inconscia di essere scelti: perché rassicura, perché non richiede sforzo ma solo posizionamento.

Ma se prima i meccanismi perversi della rete restavano nel loro interno, ora sono usciti nel fuori: la gabbia in forma di animale impazzito si è gonfiata al punto da non poter più contenere i propri organi e le proprie leggi, e così organi e leggi che la governavano sono diventate le leggi che governano le intimità (mancate) del mondo esterno.

Un’allucinazione cenestesica che sborda i confini e si riversa nel reale. Il dato diventa un fatto assoluto: se sorride in foto è felice. Se non scrive più è venuto a mancare. Se è mancato, va dimenticato.

E in questo sbordare, in questo traboccare del retroscena nella scena del mondo, raccogliamo fotogrammi per le strade, brevi informazioni, poche parole, un singulto, il dettaglio minimale di un abito, qualche silenzio per farne narrazione arbitraria di un altro che non vogliamo più conoscere ma che vogliamo conoscere perché crediamo di aver già conosciuto, di saperlo già: il potere di un sapere vuoto che sorpassa e supera e ingoia il desiderio di una piena conoscenza.

Se il sapere non concede dubbi, la conoscenza (che è movimento) li apre: e se i dubbi sono buche nel mondo, riconcepirli significa disporsi al sommottamento. Significa: disfare l’io, smontarlo. Significa: togliere strati solidi all’esistenza: un’operazione intollerabile.

Come intollerabile diventa la minima crepa: imbattersi nel fuori in un dettaglio non corrispondente alla narrazione che abbiamo costruito ci permette il diritto di togliere la parola all’altro con la stessa velocità con cui con un tastino in rete lo si banna.

Oppure: l’opposto. Un accoppiamento tra simili che si accoppiano perché l’algoritmo dice: compatibilità.In una bulimia del raccolto non è possibile raccogliere nulla: tutto è perdita, tutto va in perdita in una compulsione al legame ridicolo, la progressiva perdita di lettura della realtà: guardare non è vedere. Il voyeurismo solitario si spinge al collettivo, gli argini sono caduti.

Migliaia di esserini come acini uno uguale all’altro, dove tutti diventano tutti, quando il noi scompare, quando il tu non serve, quando noi è  dire io, quando io è dire io, come acini uno uguale all’altro aggrappati a grappoli per non dirsi soli  –  ma quanto siamo soli.

In un’epoca in cui l’interno vacilla, lo slittamento delle dinamiche malate dei luoghi di scambio illusorio ha aperto la strada alla sua chiusa: il virtuale trabocca nel reale: andare sul sicuro, smetterla coi territori accidentati, vanificare la scoperta, la possibilità di delusione o di stupore, non contemplare la frana, lo scricchiolio, l’imperfezione, l’abbaglio – e la scelta slitta all’indietro, anticipa sé stessa in un cortocircuito che non ha tempo di perdere tempo.

La pancia della gabbia è piena, vomita nel fuori gli organi che ha concepito. Resta la resistenza degli spazi minimali, allargare gli interstizi, disinquinare lo sguardo dai codici con cui ci stiamo eliminando.

 

 

Immagine: “Good fences make goood nieghbors” by Ai Weiwei per il Public Art Fund a New York. Courtesy Ai Weiwei Studio

*a Sergio, alle sacche di resistenza

A un’amica (lettera da Shanghai) # 1

1

di Matthias Schäfer

(Traduzione dal francese di Andrea Inglese)

Messaggio del 28/01/20 10:50 à « Brevi nuove dal Grande Est »

Sono in vacanza per il Nuovo anno cinese da venerdì. La settimana di vacanza iniziale è già stata prolungata dalle autorità di una quindicina di giorni. Inoltre tutte le manifestazioni che implicano una raduno di persone sono state annullate, perché ormai vietate e le scuole resteranno chiuse.

Dal momento che il mio gennaio è stato abbastanza tosto (ogni anno, un sacco di progetti franco-tedeschi che comincio a organizzare già alla fine di ottobre prendono forma in gennaio), non ho avuto la forza – la voglia per essere franco – e di lavorare un po’ questo primo giorno di vacanze, anche se volevo a ogni costo terminare questo e quello proprio all’inizio delle ferie per sbarazzarmene. Che cosa io abbia fatto venerdì te lo dico subito: dormire, fare un giro in bici, tra due acquazzoni, fare un salto al mercato per fare scorta di mandarini, poi dormire di nuovo, con grande successo per altro.

Non so più da quando fa brutto, cielo grigio e pioggia. Ho davvero l’impressione di non aver visto la luce del giorno questo mese: partenze per la scuola con ancora il buio e rientri a sera, l’intera giornata passata al chiuso. I 10 gradi mi accompagnavano nel corso di questa andirivieni abitudinario: era come se li avessero disegnati sul mio termometro, fissato alla porta che conduce alla mia piccola terrazza, sul lato nord dell’edificio. Nonostante ciò esco – ben coperto – cogliendo un po’ l’atmosfera della città in questi ultimi giorni, e in effetti è stradeserta. Nulla di speciale a priori, dal momento che tutti sono in giro per le vacanze del nuovo anno.

La città è bella ordinata, anche se un po’ fantomatica. Le scarpe da ginnastica lussuose brillano nell’iapm (uno dei giganteschi centri commerciali, dove percepisci appena entri che gli architetti hanno goduto grandemente a progettarlo), riccamente popolato di negozi di lusso, di ristoranti e caffè, ma al momento completamente vuoto sia dei clienti fedeli che dei visitatori occasionali, e ciò gli conferisce l’aspetto di una stazione spaziale in sosta.

Vetrina di una delle boutique di lusso di iapm-mall

 

Iapm-mall, veduta dell’interno arrivando dall’entrata nord-est (intersezione delle strade Xiangyang e Huaihai)

 

I lampioni rossi annunciano la festa, e brillano anch’essi sospesi sopra porte e cancelli, ma non c’è nessuna festa. La squadra iperrealista di pallavolo sul manifesto, sembra infondere coraggio a tutti quanti. La via Huaihai (un viale assai largo che, con i suoi generosi 7 chilometri, sembra dieci volte più lunga della Rue de Rivoli) hai l’impressione di vederla in tutta la sua lunghezza, idem per la pittoresca rue Fuxing (che è una parallela alrettanto lunga) – e, incredibile, questa città ha finisce per assomigliare a una cittadina di provincia di 3000 abitanti un pomeriggio piovoso di domenica.

Decorazione luminosa sopra il cancello d’entrata di un’abitazione in via Hunan (vicino alla via Wukang)

 

Manifesto luminoso di una fermata d’autobus che mostra le quattro giocatrici della vecchia squadra di pallavolo, che fa la pubblicità per un latte bio, via Jiango (vicino alla via Gao’an)

 

Carreggiata centrale Partie della via Fuxing, all’altezza della Shanghai Symphony Orchestra Hall

L’atro ieri sera, verso le 19 (in tempi normali, è ancora l’ora di punta e ti lascio immaginare l’effetto di transumanza urbana) nonostante la pioggia, ho preso il mio ombrello grande e poi le linee 10 e 1 della metro per scendere alla stazione di Piazza del Popolo, soltanto per vedere i riflessi delle luci sull’asfalto bagnato. Per strada, quattro gatti; ho contato in tutto cinque persone con la mascherina. Delle auto della polizia, i lampeggianti accesi, ferme agli incroci. Non ho fatto foto per il troppo vento e le gocce di pioggia in ogni direzione.

Ieri sera, per verificare, ho fatto lo stesso tragitto. Alla stessa ora. In metrò ero il solo senza bagagli, la prima sessantina di vacanzieri era già di ritorno. Sulla famosa via Huaihai, una decina di auto, non di più.

La città è calma.

Sotto la pioggia.

06: incrocio delle via Hunan e Wukang, veduta della Wukang, verso sud

 

È per questo che il sarto locale (bel caratterino, lui!)  mangia la sua zuppa sulla soglia di casa, riparandosi dal vento. L’ho visto, andando alla posta il giorno dopo. All’uscita, un piccolo miracolo, la sorpresa della giornata: ho colto l’occasione di mangiare finalmente da Cha’s, un ristorante di specialità di Hong Kong che si trova proprio di fronte alla posta. Di solito vi è una coda mostruosa e oggi, anche se era il solo ristorante aperto, non c’era nessuno. Dopo avermi installato e preso la mia ordinazione (un caffè al latte concentrato, un piatto di riso cantonese, e un “bolo bao”, sorta di brioche soffiata tiepida, con la sua fetta di burro), i camerieri si annoiavano a tal punto che abbiamo improvvisato una piccola sessione fotografica.

Il sarto della via Nanchang (vicino alla via Maoming)

 

Un « bolo bao » servito da Cha’s Restaurant, via Sinan (vicino alla via Nanchang)

 

 

Gli impiegati di Cha’s Restaurant

 

In questo momento, mentre ti scrivo dal mia casina sul tetto di Shanghai, scaldo lentamente la mia piccola zuppa di verdure invernali e di « danjiao » (sono delle frittate in miniatura – ca. 10 cm di diametro) che tu pieghi una volta cotte, mettendovi un po’ di carne di maiale macinata e hop, nella zuppa per far cuocere la carne).

Cielo piovoso sopra la vecchia concessione francese, veduta della via Fuxing, verso il nord-est

 

Zuppa di verdura fatta in casa con qualche « danjiao »

*

Matthias Schäfer è dottore in Storia dell’arte e fotografo. Insegna lingua e cultura tedesca a Liceo Francese di Shangai dal 2011.

Le foto sono stare realizzate con una piccola macchina fotografica digitale (Pentax Optio P70).

Genesis Breyer P-Orridge: un ritratto occulturale

3

 

di Andrea Balietti

 

 

[Il 14 marzo è morta Genesis Breyer P-Orridge. Come omaggio e congedo, ospito qui un suo ritratto occulturale curato da Andrea Balietti, originariamente apparso sul quarto numero di T-mag. Nel testo è presente anche una selezione di collage di P-Orridge, tutti dal contenuto esplicito.]

 

-“Ogni arte è magia […]
Non esiste mezzo più potente dell’Arte per ottenere l’apparizione visibile dei veri Dei.”

(Aleister Crowley)

La nascita dell’arte deriva da un gioco; fu istinto non intenzione a guidare il primo gesto, il gesto antico del rifiuto, della vergogna di esser diventati umani, di aver sacrificato il tempo al lavoro, la seduzione alla produzione, l’animalità alla civiltà. Non fu azione ma rito, atto magico, ludico e slegato a slegare l’homo ludens, non più sapiens, dalle logiche lineari, pato-logiche, di un pensiero ancora troppo giovane per essere ingabbiato nel buio, costretto a terra, negato alle stelle.

Arte = gioco = rito = mito-l’equazione che portò l’uomo dei primordi a tracciare le prime pitture rupestri e che, in egual misura, spinse Neil Megson quindicenne ad inventare GENESIS P-ORRIDGE.
Analogamente ai primi segni petroglifici nelle caverne della storia umana, la nascita di G.P.O rappresenta un momento cruciale, punto di non ritorno nella vita di Neil, divenuto ormai memoria, esattamente come gli abitanti della preistoria paleolitica. E’ impensabile spiegare l’opera di P-Orridge prescindendo dal germe, dalla scintilla, da quel primo atto MAGICO di volontà estrema che spinse un adolescente a distrugger-si identità per costruir-si opera d’ARTE e, per GIOCO, ri-nominar-si Gene-si, a segnare l’inizio, a sognare l’ignoto.

-“Since there is no goal to this experiment other then goal of perpetually discovering new forms and new way of perceiving, it is an infinite game. An infinite game is played for the purpose of continuing play, as opposed to a finite game witch is played for the purpose of winning or defining winners. It’s an act of free will.”

(Genesis P-Orridge)

 

 

.Process-u-AL

-“Noi ci proponiamo di creare nuovi mondi, nuovi esseri, nuove modalità di conoscenza.” (W. Burroughs)

-“Il corpo è come una frase che può essere spezzata in parti indipendenti, in modo tale che il nuovo contenuto possa essere rimesso insieme in una serie infinita di anagrammi.” (J.Lacan)

-“Il primo dovere dell’uomo è quello di essere artificiale” (O.Wilde)

-“The brain it’s not linear, and existence is not linear, everything is disassembled and reassembled constantly […] And that’s why we have to keep changing, we have to keep changing ourselves constantly.”

(G. P-Orridge)

 

 

Genesis P-Orridge nasce come carattere, alter-ego, rifugio dissociato di un enfant terrible, evoluzione di una distanza naturale da persone, oggetti e situazioni già matura nel corso dell’infanzia. Il Processo ha inizio, la caricatura si fa corpo, corpo concetto, corpo oggetto di ricerca, ricerca del sé, del sé puro che non è mai lo stesso, mai sé stesso. “Make space in order to be space”: creare uno spazio significa proiettarvisi, disintegrarsi e reintegrarsi in quello stesso, farsi teatro desertico del sé dove le identità possono annullarsi o prolificare all’infinito, le impossibilità svanire e le possibilità germogliare.
Uscire fuori da sé è un atto sacro, un voto alla coscienza universale contro l’inaridita idea di personalità. Come antichi antri dipinti, contenitori magici fuori dal tempo e dallo spazio, luoghi di nascita e riappropriazione dell’arte, Genesis P-Orridge è un laboratorio archeologico, una macchina mutante che continuamente viaggia dal biografico all’archetipico, spiraleggiando tra le pieghe della memoria individuale e collettiva.
Collage vivente costantemente impegnato nella riscrittura di sé, possiamo (dis)identificare G.P-O nel suo stesso progetto artistico, un processo che per definizione non sarà mai proprio in quanto incarnato nel prodotto, proiettato nel futuro, (in)compiuto nel presente mutevole. Process is the product / Artist is the artwork: Genesis sarà sempre o non sarà mai l’autore di sé ‘stesso’.

“ E am trying to integrate my body and brain (ego) and then lose them. Negate them to sit thee deeper magickal self free to travel into other dimensions and time zones to try and retrieve or locate information and revelation and bring it back.”
(G.P-O.)

 

 

.Occult-ur-AL

-“Nego che esistano colori belli e colori brutti, forme che siano belle e forme che non lo siano. Sono convinto che qualsiasi oggetto, qualsiasi luogo, senza distinzione alcuna, possa diventare una ‘chiave di incantesimo’ per la mente a seconda del modo in cui lo si guarda e delle associazioni di idee con le quali lo si collega.” (J.Dubuffet)

– “La verità non ha mai liberato nessuno. Soltanto il dubbio potrà portare all’emancipazione mentale (A.Lavey)

-“L’uomo normale ormai sa che la sua coscienza doveva aprirsi a ciò che l’aveva disgustato più profondamente: ciò che ci disgusta più profondamente è in noi.” (G. Bataille)

 

Le radici di questa complessa (e)missione sono da rintracciarsi nella letteratura e nel collage, quando negli anni sessanta un giovane poeta amante di Dada e Surrealismo, fortemente attratto dalla controcultura beat, viene a conoscenza delle tecniche di scrittura sperimentale di William Burroughs e Brion Gysin. Da quel momento, cut-ups e permutazioni (eseguiti progressivamente su parola, immagine, suono, corpo) saranno i mezzi prediletti per destrutturare / demistificare il reale, sulla base dello slogan Burroughsiano,dogma anti-dogmatico, secondo cui “Niente è vero e tutto è permesso”. Nel Cut-Up, Genesis non vide della semplice arte beatnik-psichedelica ma la rivoluzione stessa, il primo passo per la riappropriazione del linguaggio, usato fin dall’antichità come un virus per controllare la mente dell’individuo; finalmente le parole potevano essere ricombinate per ottenere effetti inaspettati e sfruttare il loro potere a proprio piacimento. I suoi primi poemi letterari, sulla base di ciò, non furono esperimenti estetici ma congegni sovversivi dove le parole stesse e la loro posizione nella pagina venivano concepite in stati alterati di coscienza, con l’intento consapevole di creare una realtà altra fondata sulle più profonde attività della mente e dello spirito.

Con il collage le lettere divennero figure o si combinarono a queste per disperdersi nel network mondiale della mail-art sotto forma di bizzarre cartoline in cui immagini generate in un certo contesto per una data ragione, venivano trascinate in un nuovo scenario con tutt’altra funzione. I punti d’intersezione tra realtà interconnesse ma generalmente distanti, diventavano generatori simbolici, motori magici attivati a volte semplicemente dalla vista e capaci di produrre effetti perpetuabili per via psichica una volta giunti al destinatario.

Nella gran parte dei casi ad esser ricontestualizzati erano ritagli di materiale pornografico; P-Orridge non trovava questo genere di riviste particolarmente sexy di per se stesse in quanto estremamente standardizzate secondo formule convenzionali, da ciò nasceva la curiosità di estrapolarne le immagini per lasciarle dialogare con oggetti e contesti completamente inusuali in termini isotopici: è forse nell’inaspettato che è celata l’essenza di ciò che rende il sesso eccitante?

L’indagine sessuale sarà fin dall’inizio complementare a quella identitaria ed entrambe saranno volte alla lotta contro un dominio inibitorio che, attraverso l’azione dei media, atrofizza i corpi e semina scopofilia nelle menti. Oltre ogni genere, le parole fatte immagini diverranno poi carne, scrigni ermafroditi spalancati dall’orgone per indicare i varchi liquidi di una nuova sessualità. La Pandroginia sarà soltanto l’ultimo(?) stadio di un processo occulturale che è sinonimo di controculturale ma perseguito con mezzi occulti, perché occulti sono i persuasori del pensiero.

 

 

“She and I function as a symbiotic team when we do rituals… We become fused as an androgynus being, or as we call it, a Pandrogynous being; P for Power, Potency, and also for the Positive aspects of being male- female. And also because it then makes it Pan, and Pan it also a good concept. Pandrogyne is one of my on- going investigations, and other one is the idea that we’re not an occult group, we’re an occulture.” (G.P-O.)

 

. Rit-u-AL

“Eventually Gen does not exist, only a body, its senses and ego kept occupied and engaged imprisoned and suspended, so that thee nameless spirit is set free to wander and travel.” (G.P-O.)

Nel metodo del Cut-Up, P-Orridge aveva trovato il mezzo magico-sovversivo per frantumare la realtà e riplasmarla sulle linee di un intima cosmografia. Fenomeni ultra-linguistici del tutto accidentali scaturivano da collisioni testuali sotto l’azione della forbice, urtando il linguaggio comune con effetti prodigiosi. Da questi impatti poetici nascevano segni, toni e colori inconcepibili, da usare come chiavi d’accesso a dimensioni alternative. Il focus energetico cresceva grazie all’incessante ripetizione degli esperimenti: l’arte si faceva rito.
L’abuso odierno del termine ‘sperimentale’ ci rende difficile capire esattamente cosa significa, in ambito artistico, mescolare casualmente elementi senza preoccuparsi di ciò che ne uscirà, costatando piuttosto che durante l’operazione un ‘cervello alieno’ è intervenuto a suggerire eventi futuri o a produrne altri del tutto inaspettati. Testi e immagini provenienti dalle zone più antiche o presenti della storia possono essere combinati per compiere viaggi spazio-tempo, esplorare gli angoli più nascosti della memoria e registrare le informazioni reperite nel film presente inesistente e inconsistente. Perfino quella trappola genetica chiamata DNA potrà essere smembrata e ricomposta per definire le infinite sorti evolutive del genere oltre- umano.

“Rimuovi le cose ordinarie dal loro senso ordinario” per reimmetterle nelle cosmologie personali dell’immaginario. Le Allucinazioni sono paesaggi mentali, morbidi laboratori di riscrittura, magazzini archetipici dove tornare bambini, eternamente sedotti da ogni cosa: “Change the way to perceive and change all memory”. Incontrerai animali, esseri anormali cantare cambiamenti infiniti, suggerimenti preziosi per trascendere il conflitto della Mente oltre i limiti dei valori conosciuti. I Diritti umani non esistono. L’unico diritto dell’uomo è quello di dis-umanizzarsi: “The best trip is the bad trip”.

 

 

Questo carattere profondamente psichedelico sarà una elemento determinante nelle opere di P-Orridge che, dagli anni Sessanta ad oggi, sono sempre apparse come intraducibili caleidoscopi partoriti da logiche deviate, alterate, neurotiche. In questo senso risulta difficile parlare di opera d’arte, piuttosto che, in senso quasi anti-artistico, di artefatto. Come nell’arte primitiva, si tratta di ricerca pura, senza fine e senza un fine al di là di quello magico, processo puramente ludico e ritualistico.

Dopo i Surrealisti l’opera di P-Orridge rinnova ulteriormente l’idea di Arte Magica, un tempo rivolta esclusivamente al passato, a definire oggetti totemici realizzati in Africa o in generale fuori dall’occidente. I suoi lavori sono schegge di presente contemporaneo ma sempre tutti sull’orlo di strabordare nel futuro, specie nel momento occasionale in cui vengono realizzati. Un futuro ancestrale in cui elementi tribali si fondono con le nuove tecnologie, ritagli di giornale sono pervasi da liquidi biologici e antichi feticci convivono con Polaroid espanse.

 

 

Le forbici servono a tagliare le parole, i coltelli servono a tagliare la carne.
Genesis vede nella cultura di massa una percezione altamente diluita delle cose, e identifica nelle offese sessuali e nel crimine patologico gli oggetti di studio per svelare la natura umana nella sua (im)pura essenza. Scopre così che attraverso azioni estreme di sado-masochismo e auto-mutilazione eseguite in stati ipnotici, era possibile innescare un processo di ‘patologizzazione’ in cui costruire fabbriche di sofferenza, ed ‘evocare’ all’interno di queste, situazioni di neurosi controllata. Questo complesso metodo di pensiero creativo non ha nulla a che fare col ‘diventare patologici’, al contrario, consiste nello sperimentare quadri morbosi sul proprio corpo per esplorare il terreno immaginario della Mente e le sue strutture archetipiche. Performance di body art venivano eseguite pubblicamente all’interno di paesaggi concettuali, geografie numerico-simboliche dove ogni oggetto/segno veniva posizionato secondo logiche completamente intuitive. Genesis stava cercando di scoprire se il corpo esiste davvero e, se si, quali sono i suoi limiti: autoipnosi, assunzione di droghe, pratiche sessuali estreme, erano i mezzi di deprivazione sensoriale che venivano sperimentati all’interno di questi teatri di seduzione, templi di disordine altamente regolato come la perversione stessa ama esser definita. L’intento, rispetto a chi osservava, non era di abbattere i tabù ma di revitalizzarli attraverso atti di altissima devozione erotica.

In questa dimensione il taglio e la ferita assumono un valore altamente simbolico e il processo magico si intensifica verso forme più complesse.

 

. Magick-AL

“From a very young age I worked with stones to make simbols, circles, to make shapes, make tunnels and hidden chambers. And as soon as I knew how to masturbate I would use my sperm and I would eat it. Sex magick came completely naturally to me. It was like various flags were set there for me to find […]
It was like a biological imprint.” (G.P-O)

In un ricordo di Genesis P-Orridge risalente al 1957, Neil Magson, all’età di sette anni, stava camminando in una via del sobborgo di Gatley (Cheshire), quando un vecchio uomo lo raggiunse ed iniziò a parlargli; nello stesso istante le strade cominciarono a cambiare e le case apparirono come fatte di pane. Una volta cresciuto, leggendo “Magick in Theory in Practice”, Genesis s’imbattè nella foto di Aleister Crowley, provando la schiacciante sensazione di averlo incontrato e di averci parlato da bambino.

Proprio come Nietzsche con il suo “Also sprach Zarathustra”, anche Crowley, circa quarant’anni dopo, dichiarerà il suo capolavoro “Magick” essere un libro per tutti (e per nessuno). In effetti i due testi hanno molto in comune, in modo speciale il reggersi principalmente sul concetto di volontà dell’individuo contro ogni dovere, dogma, valore imposto o precostituito. Al secondo dei due, in particolare, va riconosciuto il merito di aver rinnovato in maniera radicale le basi dell’occultismo moderno. Questo carattere integrante di un’opera scritta “per aiutare il Banchiere, il Pugile, il Biologo, il Poeta, il Marinaio […] a realizzarsi perfettamente, ognuno nella funzione che gli è propria” è qualcosa di completamente nuovo nella storia del sapere occulto, tradizionalmente detenuto da iniziati di dottrine esoteriche entro sistemi chiusi e inaccessibili. In “Magick” vengono forniti gli stimoli e le chiavi per esercitare la “Scienza e l’Arte di causare cambiamenti in conformità con la volontà”, e l’unica vera conclusione che possiamo trarre da questo testo, è che la chiave è differente per ognuno di noi, che le chiavi sono infinite come i piani costituenti dell’essere multi-dimensionale: la chiave sei tu, e tu sei ciò che vuoi.

Quell’enorme Gesamtkunstwerk che può essere considerata la vita e l’arte di Genesis P-Orridge, è l’espressione concreta di questo enunciato e, nella personale (ri)definizione che questo incredibile personaggio darà di “HumanE Being”, la “E” starà per “Enlightment, Evolution, Energy, Ecstasy, Ecolibrium, Etc…!” a descrivere un’idea di individuo capace di svilupparsi oltre i parametri imposti dall’ambiente sociale.

L’affinità estrema che lega il concetto Crowleyano di Magia con il processo artistico di P-Orridge basterebbe da sola a conferire al secondo dei due il titolo di ‘Arte Magica’.
Il primo punto d’incontro riguarda tutta l’opera di Genesis e risiede nell’intento primo che lo accompagna fin dall’inizio del suo percorso, ovvero quello di livellamento tra arte contemporanea e cultura popolare; l’esempio più rappresentativo sta nell’idea di musica industriale, intesa originariamente come la nuova musica pop dell’era tecnologica, ma generalmente questo carattere anti-elitario è caratteristico di ogni aspetto delle sue opere: dai materiali usati (oggetti di recupero, comuni giornali, fotografie, tampax usati, animali morti, secrezioni corporee) ai rimandi culturali mai eccessivamente colti, perché specchio di un immaginario completamente personale o profondamente rimodellato partendo da tematiche storiche/artistiche/scientifiche.

Il secondo aspetto che accomuna la Magia Crowleyana all’arte di P-Orridge è la natura shamanica delle due. Le tecniche rituali concepite dal grande Magus erano volte a stabilire contatti con entità extraterrestri, spiriti e forze elementari per estendere la coscienza ed espandere gli orizzonti vitali fino a proporzioni cosmiche. Allo stesso modo, P-Orridge non è mai solo nella realizzazione delle sue opere che sempre documentano il passaggio di qualcun altro da sé, l’incursione di qualcosa che, dall’altrove, viene a palesarsi. L’altro carattere accomunante è quello performativo. La terza parte dell’opera Crowleyana, scritta durante la permanenza nell’Abbazia di Thelema (Cefalù), è senza dubbio la più importante del grande trattato in quanto contenente il vero sistema di occultismo pratico sviluppato personalmente da Crowley. In esso vengono insegnati nuovi e moderni cerimoniali che, attingendo dal tantrismo e dall’alchimia, sfruttano l’energia sessuale dei corpi per trasmutarla in elisir di potenza magica. In quest’ottica, i fluidi vitali diventano sostanza sacrificale indispensabile ad ogni rito magico-sessuale. Simbolicamente, lo sperma (che genera vita ma viene espulso come scarto e deiezione allo stesso modo dell’urina) rappresenterà la coincidentia oppositorum, concetto caro a Crowley come a surrealisti e patafisici, abbracciato a pieno dallo stessa P-Orridge che nelle sue cartoline mescolava foto della famiglia reale con sudati amplessi pornografici. Il sangue, che nella magia tradizionale andava gelosamente conservato, viene ora sacrificato e disperso per produrre effetti re-vitalizzanti.

 

 

-“The release of blood allows thee release of thee ‘wolf’. It also leads thee ‘wolf’ back to thee HOST body when all journeys and hunting are over.” (G.P-O.)

 

La pratica del ‘taglio’ viene sperimentata da Genesis durante le prime performance pubbliche dei Coum Transmissions, per poi essere altamente ritualizzata in privato, nel corso di una ricerca quotidiana che non ha mai avuto termine. Chiave simbolica, gesto iniziatico da compiere al principio di ogni rito, tagliare la propria carne significa incidere uno Yoni, nuovo orifizio, varco sanguinante sul proprio corpo.

Inducendo periodicamente il sangue a fuoriuscire come nella naturale routine imposta alla donna dal ciclo mestruale, si attiva un processo di regolare femminizzazione iniziato nel periodo giovanile con i primi travestimenti e coronato negli anni Novanta con concreti interventi di modificazione del corpo. Arrivati a questo punto, non sarà troppo difficile vedere nella chirurgia plastica un rito magico e, in Genesis P-Orridge un occultista contemporaneo.

Dall’inizio degli anni Ottanta la magia sessuale insieme a particolari metodi di sigillazione saranno una componente imprescindibile nella ricerca occulturale dell’artista ed ogni frammento della sua arte ne sarà pregno. Parole e immagini si estenderanno fino a diventare corpi e gli alfabeti letterari-iconografici confluiranno in un unico ‘Alfabeto del Desiderio’.

 

 

Le foto scattate durante rituali privati vengono continuamente incorporate in questi lavori, innescando un processo di mitologizzazione dello spazio che ospita la performance, quanto di quello mentale creatosi durante l’esperienza una volta indossato il tradizionale ‘cappuccio’ (qualsiasi cosa possa essere indossato per occultare la vista e proiettarsi altrove).

Così facendo, P-Orridge imprime il tempo della performance nel Sigillo, creando una dislocazione temporale in cui un momento di attività magica viene fissato nell’opera entro un altro momento, quello artistico di attività creativa. Genesis diventa geneticamente legato ai suoi Sigilli, estensioni corporee, frammenti psichici che non conoscono possibilità di lettura, se non nella dimensione intima da cui provengono.
Considerando il passato come oggettivo, il presente come soggettivo e il futuro come qualcosa di indeterminato, possiamo vedere in questi collage, solitamente eseguiti nello stato di trans prolungato che segue la fine del rituale, delle simboliche rappresentazioni d’intento in cui un messaggio viene a prodursi nel presente per essere spedito alla mente inconscia e, come un talismano, agire sull’universo conscio determinando il futuro: l’ARTE diventa AGENTE.

Fuori dall’ordinaria comprensione, il personale universo di Genesis P.Orridge è un enorme mosaico in movimento, composto da vibranti tasselli di tempo presente, costantemente riattivati in una rete di variabili infinite. In questa arena multiversale costruita dall’artista fuori dal mondo oggettivo, come nello svolgersi di ogni singola azione volta ad incrementare le possibilità del corpo processuale, è importante ricordare che la realtà non è fatta di sostanza ma di eventi o attività; che il vissuto non è il risultato di concatenamenti fisici e casuali, quanto piuttosto di manipolazioni contestuali e invocazioni immaginative.

 

 

“I lay in the desert, on my back, staring up at the stars. I could feel millions of rays of light entering my body, one from each star, infinite numbers, my cell walls broke down, my sense of bodily existence ended, i was illumination, a 3D projection of cosmic light, i could see the ancient shamans building sacred sites to fix their relationship with the stars, to solidify their connections and effects. I remembered the thousands of Holy Teachers, the idea of the Divine ‘spark’, the descriptions of white light, the myths and legends of our descent from the stars, i was not corporeal, i was a mirage, sealed within an inherited, apparently solid body by the weight of Thistory, by the weight of Fear and Guilt. I shimmered like a ghost, ectoplasm, illusion, and all the puzzles i had heard, and all the limited descriptions of limitless trascendent experiences made sense. I knew i had to find a way to G.O., to leave this sealed coffin that is my body, to find an accelerator to project my brain, bypassing the tedium of mechanistic evolution, into deepest omniversal space, into immortality, into the very fabric of myth and heaven. I was everyone, everything, and everything was here to G.O.” (G.P-O.)

Il motivo per cui è stato scritto questo testo, ammesso che ne esista almeno uno, non è certo quello di far conoscere Genesis Breyer P-Orridge, personaggio che non conosceremo mai per le ragioni già elencate, quanto invece quello di spiegare come egli/ella abbia liberato l’arte dalla dimensione sociale in cui era (s)caduta, per restituirla alla dimensione rituale da cui fu generata.

NO. 1, OP. 1

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di Giacomo Zibardi

NOTTURNO NO. 1

 

Notte. Una strada di provincia. Lui sta guidando sereno: è un ragazzo dal viso pulito, sincero. Ascolta musica rilassante, un adagio al pianoforte. La strada si srotola sotto la luce dei fari.

Poi accade.

Al lato della strada c’è una ragazza. Si sbraccia, sembra chiedere aiuto. Lui si ferma, lei sale sull’auto.

È sconvolta, trema. Andiamo, dice la ragazza, come se si conoscessero da una vita, o avessero una meta da raggiungere. Sembra indifesa, ma nasconde un segreto. Lui è stranamente tranquillo, e sembra innocente, ma è colpevole.

Nel bagagliaio dell’auto c’è un corpo.

 

NOTTURNO NO. 2

 

Ha uno sguardo rilassato, il ragazzo, e guida nella notte infinita di una provincia senza nome. L’auto è un oggetto di luce che si muove seguendo la lingua d’asfalto che taglia campi incolti, vigne, campi coltivati. Dentro l’abitacolo il tempo del mondo è dilatato dalle note leggere di un adagio per pianoforte. Dentro l’auto un tempo, fuori dal tempo dell’auto il mondo e la sua notte. Poi uno stacco netto divide prima e dopo: lei appare sulla strada. Muove le braccia come ali cercando di farsi notare nel fascio di luce dei fari. Lui rallenta, osserva, decide, si ferma. Lei sale e prende posto, sbatte la porta, andiamo dice; trema, sconvolta. Il ragazzo esegue l’ordine senza fare domande, procede sulla strada spaccando il buio, destinazione ignota. Sembrano una coppia reduce da un litigio, stanno in silenzio. La ragazza è un dolce mistero. Questo è il mondo che accade, pensa lui, guardando la strada rivelarsi insieme a un paesaggio distorto, illuminato dagli abbaglianti.

Il corpo chiuso nel bagagliaio sobbalza quando le ruote incontrano disconnessioni sull’asfalto. Lei sembra calmarsi. Lui la guarda. Diventeranno amici in meno di un’ora.

 

 

 

NOTTURNO NO. 3

 

Io sono il mondo, ha pensato mentre la soffocava. Io sono il pianeta, io sono il cielo e la terra e il fuoco e l’aria e l’acqua, oltre lo spazio io sono il firmamento, l’evoluzione e la storia. Questo è il regno dell’uomo e l’uomo sono io, ha pensato. Il corpo si è irrigidito dopo l’ultimo respiro. Il viso del corpo ha smesso di essere un viso, trasfigurato da un pittore invisibile. È tutto finito. È un corpo, nient’altro. Ha sollevato il corpo con fatica, trasportandolo fuori casa, è inciampato crollando solo una volta, è stata dura, uno sforzo importante, ma finalmente l’ha chiuso nel baule dell’auto. Si è fermato a respirare. Profondi respiri per ristabilire un battito cardiaco accettabile. Io sono una persona, ha pensato. Si è seduto in macchina. Le note di pianoforte, un adagio sconosciuto, hanno cullato quel viaggio impulsivo. Il mondo accade, io sono il mondo, io sono una persona nel mondo, ha pensato, questo è il regno dell’uomo. La notte ha inghiottito l’auto, preservandola dagli occhi dell’universo. I fari hanno illuminato la piccola porzione di strada davanti all’auto. Poi è apparsa la ragazza. Una visione paradossale. Non sa spiegarsi perché la carica. Quella ha aperto la porta, è salita. Con un volto distrutto dalla paura. Lui è annegato in quel mistero. Dentro ha sorriso. Il corpo nel baule sarà un dettaglio inutile per la storia del loro grande amore. Il ragazzo ha guardato in alto, dove i fari non sono riusciti a illuminare la vita. Siamo due persone abbracciate dal buio, protette dalla lamiera, incastonate nel mondo come una gemma preziosa nella miniera assoluta dell’Universo, l’Universo si espande, io sono l’Universo, ha pensato voltandosi verso la ragazza, io sono l’Universo, il tuo Universo: tu il mio.

La radice dell’inchiostro. Dialoghi sulla poesia (prima parte)

2

 

NOTA INTRODUTTIVA

 

Magdalo Mussio, In pratica

 

 

«Forse non spetta a te di portare a termine il compito, ma non sei libero di rinunciare.»

(Avot 2,21)

 

Un questionario, come luogo di una sollecitazione: «È ancora legittima la radice dell’inchiostro?». Non solo il come si scrive, ma lo scrivere stesso, malgrado le storture. Lo scrivere che si porta avanti per decifrare la qualità del proprio silenzio o del proprio arretramento.

Una nota appuntata altrove scompiglia ulteriormente il ciglio dell’interrogazione: «Come dimenticare la fine -della storia, della poesia-? Non soltanto la fine che è già stata decretata, ma anche quella sempre sul punto di venire, di tramutarsi in eschaton rovesciato, in buona novella liberale: “la fine della storia ad opera di Dio è diventato il progresso storico dell’umanità” (Sergio Quinzio, La Croce e il Nulla, 1984).»

Oggi la scrittura non sarebbe altro che uno stornare la necessità di una risposta a tali quesiti, e insieme un esserne già in partenza incomodati, chiamati a dire prima ancora di sapere. Citati in giudizio. Forse per questo i poeti italiani somigliano sempre più a glossatori dell’affaccendamento, come se l’andirivieni tra le cose quotidiane fosse un modo per incenerire con uno stesso rogo i sintomi del presente e l’eredità del secolo passato. Qualcosa continua a battere sulla pagina, e allora ne riporto una traccia…

Adriano Spatola, da Poesia Apoesia e Poesia Totale (1969): «Il poeta sa che la poesia è qualcosa che lo riguarda sempre meno. […] “Per il poeta, la fine della poesia come poesia è un fatto accertato”». Corrado Costa, da Alzare la gru ad alta voce (1972): «Che nome è che gridano / alle gru spaventate dal loro nome / volano via inseguite dal nome che le insegue / che vola via sta insieme con le gru / senza sapere che nome è». Emilio Villa, da quell’abiura in forma di annotazione che segnerà il suo congedo definitivo dalla letteratura (1985): «Ma, volevo dire: non si sente che io non credo alla “poesia”, che ritengo una baldracca del baldraccone che è il linguaggio … Io mi sono duramente dissociato della “poesia”, quindi perdonami, e non mi chiedere più niente».

Nulla più che righe inferme, potrebbe obbiettare qualcuno. Se non altro, questo breve attraversamento aiuterà a scamuffare le tresche dell’oblio programmato, e così a comprendere qual è il fantasma con il quale ci dobbiamo confrontare. Ogni nostra parola vigila il suo personale dirupo: sta a noi scrivere come se già custodissimo un anticipo della caduta.

Il vero lavoro del glossatore, conviene ripeterlo con Heller-Roazen, è quello di rinnovare l’incompletezza, poichè sempre precaria dovrà essere l’interpretazione del libro-mondo (e insieme sempre cercata). Proprio a partire da ciò, ho chiesto ad alcuni poeti e critici letterari di farsi alleati a una riserva di bianco. Di raccogliere gli interrogativi da posizioni divergenti, cioè di strincerarsi, e di usare questo spazio come un modo per tornare a domandare un qualche assenso alle cose nominate…

 

Giorgiomaria Cornelio,

dicembre 2019

 

SOGLIA

 

«It is all very well to keep silence, but one has

also to consider the kind of silence one keeps.»

 

Samuel Beckett, The Unnamable

 

 

«A rigor di termini non credo che la sua posizione offra nessun futuro,

né remoto né prossimo, né politico né poetico: ma questo è altro discorso[…]»

 

Franco Fortini, Lettera a Corrado Costa

 

 

«Glossators and their kind are incessantly in search

of the animating element in their textual objects that bears no name. 

[…] They knew how to find the secret source

of incompletion sealed in every work of thought.»

 

Daniel Heller-Roazen, The inner touch

 

 

TAVOLA DEGLI INTERVENTI

PRIMA PARTE

 

Giulia MartiniAldo TagliaferriDavide Brullo / Polisemie (Mattia Caponi, Costantino Turchi) / Francesco Iannone / Giovanna Frene / Carlo Selan / Marco Giovenale / Mattia Tarantino / Carlo RaglianiMarilina CiacoSergio Rotino

 

SECONDA PARTE

(in uscita il 29 marzo)

 

Matteo Meschiari / Andrea Inglese / Davide Nota / Renata Morresi / Riccardo Canaletti / Bianca Battilocchi / Anterem (Flavio Ermini, Ranieri Teti) / Mariangela Guatteri / Mario Famularo / Fabio Orecchini / Giovanni Prosperi

 

TERZA PARTE

(uscita il 31 maggio)

 

 

 

GIULIA MARTINI

 

Firenze, 6 gennaio 2020

Caro Giorgiomaria,

la domanda di partenza del tuo questionario, se ho ben capito, è se sia «ancora legittima la radice dell’inchiostro». Ti domando, a mia volta, se e in quale epoca non lo sia stata, recente o lontana nel tempo. Parli dello «scrivere stesso, malgrado le storture» – ma non si scrive proprio perché le storture?

E quanto più le storture perdurano, tanto più la radice della scrittura ne sarà legittimata.

Se c’è, come dice Quinzio, una «fine […] decretata» per il gesto poetico e più in generale per la letteratura, questa fine coinciderà necessariamente con la nostra fine tout court, proprio in virtù di quella che sembra essere la particolarità del gesto poetico: renderci la realtà interessante con l’additivo della finzione (ma leggi anche duttile, digeribile, benevola rispetto al tempo). In questo senso, quella radice mi sembra non solo legittima ma anche auto-legittimante.

Rispetto invece al rapporto tra scrittura e conoscenza, la rinuncia a questo gesto, cioè la rinuncia al dire, potrebbe venire da quel senso di essere «citati in giudizio» di cui scrivi: sempre se ho capito bene, sarebbe lo sconcerto di essere chiamati a testimonianza di qualcosa, per esempio di un delitto, senza la memoria di avervi assistito.

Ma perché Omero è cieco? Se qualcuno può testimoniare il non-conosciuto, questi sarà proprio il poeta, in quanto scriba, scriptor, scrivente di un dettato che per larga parte lo trascende, quindi dotato della capacità di antivedere.

Occorre quindi, forse, distinguere, quando si parla di rinuncia al dire, a cosa si stia effettivamente rinunciando: perché se il poeta può esimersi dal dire il dicibile, passando inosservato, non altrettanto impunemente potrà dissociarsi dal tentativo di dire l’indicibile, che è la sua vera missione, come Dante ci mostra bene.

Farsi tramite, cioè, di quelle cose che solo la poesia può dire, con il suo linguaggio preciso, che ha a che fare sostanzialmente con il pre-linguistico della materia e del mondo. Mi sembra questo, per chiudere con parole di nuovo tue, «il fantasma con il quale ci dobbiamo confrontare».

 

Con un caro saluto,

Giulia Martini

 

 

ALDO TAGLIAFERRI

 

Sulla scia di Emilio Villa molti suoi amici, contagiati da una tentazione diffusa tra poeti e artisti dopo Rimbaud, si sporsero sull’abisso di un silenzio senza ritorno, ma infine tornarono sui loro passi, a differenza di altri poeti, anche tra i maggiori, che incalzati da eventi insopportabili e pressanti erano stati risucchiati nel vortice mortifero. Nella prospettiva nazionale cui Cornelio si riferisce, la denuncia dell’insufficienza del linguaggio coincide, in Villa come in Beckett, con la caduta in uno stato di depressione dal quale il poeta non rinuncerà a uscire, mentre Costa, più flessibile dell’amico e socialmente accorto, non cessò di misurarsi con le difficoltà che incontrava, o aggirava, cercando un varco sul confine tra la parola e il segno. Diverso fu il caso di Spatola,  che aveva colto la tendenza delle arti a contaminarsi tra loro nella ricerca di una via del ritorno a uno stato aurorale. Un incombente “finale di partita” costituiva lo sfondo storico entro il quale questi poeti si mossero e tuttavia il “fatto accertato” della morte della poesia, per ciascuno dei poeti citati, Villa compreso, si tramutò in interrogazione, in indagine volta, se mai, ad accertare se non si trattasse di assistere al funerale di una idea di poesia tramontata insieme con l’idea di una cultura europea vincente e dispensatrice di civilizzazione. A fini del tutto diversi mirava la riflessione di Sergio Quinzio, indotto dal proprio nichilismo a giustificare la fede eludendo la filologia e introiettando la verità assoluta della lettera, come dimostra al di là di ogni dubbio la sua schermaglia con Guido Ceronetti, amichevole ma divisoria.

Non credo che si possa introdurre una esigenza di legittimità senza rischiare di offuscare i presupposti della questione, dato che, soprattutto a partire dalle avanguardie, la poesia si è ribellata alle pretese del simbolico di legiferare sui poteri del linguaggio. La contestazione dell’autorità del linguaggio come strumento di dominio discende direttamente dalla ricusazione del “come è”, di come stanno le cose e dell’uso corretto e ad esse correlato delle parole. La maledizione che ci viene “dall’alto” è quella della castrazione operata dal simbolico che, nella accezione lacaniana, costituisce la gabbia nella quale nasciamo e dalla quale cerchiamo di uscire. La maledizione ha un’origine teologica, nel senso che è scaturita da una Legge prestabilita, punto di riferimento di letture “ortodosse”, ma ha avuto una continuazione laica ancora più soffocante dopo aver trovato ospitalità in istituzioni accademiche spesso ridotte a allevamenti di flabellanti a cui traffici è consustanziale la tendenza a sminuzzare la poesia secondo prospettive disciplinari a loro volta governate dalle specifiche leggi richieste da insularità scientifiche. Nel creare un humus favorevole alla crescita delle arti si era dimostrato più produttivo ascoltare la voce di una divinità primitiva, ora loquace ora provocatoriamente taciturna, che seguire le istruzioni sempre aggiornate di istituzioni progressive.

L’operazione di rigetto messa in opera da Villa e dai suoi interlocutori prediletti, poeti e artisti, per quanto convulsa, nutrita di perplessità e ostacolata dai tecnocrati della parola, non fu affatto una opzione meramente dissipativa se non nella prospettiva avanzata da Nietzsche secondo la quale l’azione creatrice non va disgiunta da una distruttiva. Essi non dimenticavano che, dopo la morte di Dio annunciata dal filosofo e con l’avvento su scala globale dell’informazione tele-comandata e manipolata, era iniziata la serie negativa comprendente la morte dell’Autore, la fine della Storia e la crisi del Soggetto, eventi culturali concorrenti nel marginalizzare la rilevanza dell’arte in genere intesa come pratica culturale extra-sistemica, “controcorrente” (Lacan), “arrischiante” (Heidegger), e nell’acuire tra i poeti quel senso di estraneità ed esilio, rispetto ai discorsi e ai rituali ufficiali, già esperito da Baudelaire.

Se ci si propone di abbozzare una risposta plausibile ai quesiti posti da Cornelio, è comunque sconsigliabile prescindere dalla duplicità dell’atto di nominare, che da una parte è vivificante, nato dalla nostra corporeità e dalla nostra capacità di progettare, ma dall’altra comporta un aspetto mortifero teorizzato sia dalla tradizione filosofica che, messa in moto da Hegel, tramite Kojève arriva fino ad Agamben, sia dalla tradizione artistica accolta, e soprattutto praticata, da poeti e artisti diversi tra di loro ma reattivi nei confronti del quoziente di violenza implicito nella nominazione, come Gherasim Luca e Artaud. Al poeta della tarda modernità, consapevole di assumere, con l’atto di nominare, un potere che gli viene dalla partecipazione alla mitica uccisione del padre, e che è inscindibile dalla mitica colpa indagata da Freud, spetta ancora contrastare la castrazione simbolica ritorcendo il linguaggio contro se stesso. Questo è il compito perseguito da rappresentanti esemplari della letteratura novecentesca, coerentemente antifascisti, come Beckett, Celan e Villa, in esplicita ribellione contro le ingiunzioni oppressive di una “lingua madre” istituzionalizzata, ridotta a informazione devitalizzata e pubblicitaria, i cui custodi sono a loro volta consapevoli della valenza politica acquistata da una parola trasgressiva, sovvertitrice del funzionamento dello stato esistente. Gli effetti della sovversione non sono immediati, né pratici, come tutti sanno, ma indicano una via che può trasmettere, per contagio, speranze ed entusiasmi giudicati pericolosi: trasmettono vitalità, come aveva rilevato Leopardi e ribadito con tenacissima determinazione, nella incipiente modernità, Joyce.

Nel campo delle arti, data la insopprimibile natura relazionale della parola, risulta disfattista e velleitaria la decisione di togliere l’iniziativa alle parole per attribuirla alle cose confidando in un superiore stato di realtà di queste ultime (che ultime non sono, giungendoci elaborate attraverso le parole). Tradizionalmente incline a situarsi sul confine tra opposti che non si escludono tra di loro (cfr. l’infinito irrompente nel rapporto tra la siepe e l’orizzonte leopardiani), in area di tra-passo, e a far traballare ogni rigido confine tra parole e cose, il poeta si trova alle prese con parole scivolose e impoverite dai tipi alternativi di discorso che Lacan, sensibile alle sorti delle arti, aveva individuato e distinto.  Non si limita a proporre ibridazioni o connubi tra lingue diverse, spazializzazioni inedite, livelli di realtà eterogenei, stati depressivi e deliri di onnipotenza, tutti artifici che gli permettono di rapportarsi a una totalità sempre perseguita e sempre inconclusa, ma cerca la fruizione di un frère et semblable disposto a partecipare alla costruzione di un rebus in divenire (la stessa impresa in cui si erano impegnati i nostri avi più antichi inventandosi un linguaggio e, più precisamente, passando dal calcolo amministrativo al rapporto tra concreto stabile e astratto dinamico). Proponendo un ritorno alle origini, cioè alla enigmatica sequela di pittogrammi e icone tracciata dall’”uomo primordiale”, e sapendo, dopo Nietzsche, che a rigore tale meta è inattingibile, e dunque che l’impresa è destinata a un fallimento epistemico, ma ritenendo che solo quella destinazione assoluta valga la pena di essere ritentata (che si possa “fallire meglio”, come suggeriva la non-conclusione lasciataci da Beckett), Villa ha indicato la via paradossale di un travalicamento à rebours che ha affascinato e influenzato i suoi sparsi amici ed estimatori, ma ha anche esemplificato, percorrendola, i momenti traumatici e sacrificali coi quali l’artista si misura nel tentativo di rapportarsi alla totalità senza rassegnarsi a rinunciare a conseguirla.

 

 

 

DAVIDE BRULLO

 

non è aristocratico l’ingresso

nel Torturatore – basta decomporre

la rabbia in briciole di bene

con cui i bimbi crescono astuti

e stupidi a Est dove le città abusano di blu

 

nel retro del ghiacciaio il rumore

sembra quello di una sedia che scoppia

«con poche pietre potrò infliggerti

un pasto» disse una memoria

ruminata ora oltre

la perizia di latitudini e offese

 

disse di sentirsi in un velo

«nell’alveare dell’alba» scrisse quando

la sera lo costrinse a pensare

che neppure le parole sono umane

– poi si frantumò in quella cosa che ha molti cuori

 

«ci spinge al freddo un desiderio

di assoluzione e di assoluto»

*

il rientro dal frastuono stabilì

in marmo la marea – una ventata

di volpi confermò che tra la vita

e l’altra non c’è l’angelo ma protratta

violenza – «a Nord un grido sgretola

la cronaca e inchioda i ghiacci all’onestà»

è scritto nell’anagramma delle aurore

 

«ad uno è dato aggiogare le consonanti

all’alba perché sia vertiginosa la pronuncia»

 

dall’incastro iperboreo che sfiducia i prati

in stelle capì l’evoluzione del migrare

– la bambina si apposta nel lato barbaro

della stanza e sa ora che la debolezza

argina gli immortali –

 

l’assenza di serpenti non genera

l’innocenza e la colpa non colpisce

la babele delle banchise – «allora

giudicarono di aggiungere vipere» è scritto

– la bocca delle bisce fiorì nel ghiacciaio

come una rosa – «parlano le lingue

degli angeli» ma il ghiaccio

è un insegnamento indubbio

e autarchia è l’Antartide

 

 

 MATTIA CAPONI, COSTANTINO TURCHI

(POLISEMIE)

A e B, un dialoghetto radicale

 

A: Ancora una volta, siamo qui chiamati per rispondere allo spinoso quesito che attanaglia la poesia moderna: se scriverla, la poesia, sia legittimo o meno. Dal mio canto, mi trovo ad affermare come illegittimo sia ancora domandarsi se legittimo è in effetti scrivere poesia, almeno in questi termini. Stabilire se la scrittura della poesia sia legittima è impossibile, ancor di più se questa legittimazione è richiesta all’ispirazione, ovvero alla dedizione, in ogni caso a un altrove che precede la stessa scrittura: e ciò poiché sarebbe assente il campo di verifica. Solo il testo si propone a noi come luogo d’osservazione, sicché domandarci della sua legittimità, a posteriori, è dunque speculare su di esso in chiave metafisica.

 

B: Credo di essere d’accordo, fintanto che teniamo presente un particolare di portata molto ampia. Se è vero che pretendere di occuparsi di poesia (farla e disfarla è tutto un lavorare) fuori dell’ambito concreto porterebbe a perdere l’appiglio con la scientificità, col caso e con il reale in fin dei conti; se tutto ciò è e resta vero, scontrarsi con un testo o con un libro di poesie può rimettere in gioco la nozione di poesia; trasportando quel testo o quel libro, nel suo fare, un’idea poetica attuata, può estenderne o restringerne il campo semantico, fino a rendere obsoleti anche alcuni strumenti critici: non posso quindi che pensare (e temere) che ogni incontro possa minare la legittimità della poesia e di questa poesia.

 

A: Tu mi suggerisci che da un testo, leggendo il suo modo d’esser fatto, possiamo estrapolare da una parte un’idea specifica d’autore di cosa sia poesia, dunque da molti testi un’idea più astratta e condivisa; anche che la prima idea può provare a conformarsi con la seconda, oppure agonisticamente confrontarcisi, comunque relazionarcisi. Ammettiamo allora e piuttosto, dalla nostra parte di destinatari e tenendo da parte la poesia in generale, che ci si possa chiedere (e poi determinare) se una poesia – o un loro gruppo per conseguenza di estensione – si comporti secondo uno dei due casi nei confronti della convenzione (ma leggi anche: tradizione). Ebbene, se non volessimo cadere subito in una petizione di principio per cui solo una delle due tendenze è imposta come legittima, non trovo possibile comunque designare come tali certe poesie anziché altre, da uno e dall’altro insieme, senza addurre principi che a quelle siano estranei.

 

B: Noi, perdendo le qualità coi tempi, stiamo lasciando indietro la pelle vecchia di una poetica composita e discorsiva – non solo di un «gruppo» di testi, ma una organizzazione testuale strutturata. Ma che non si facciano valere princìpi esterni lo dimostra il fatto che gli unici cardini che si possono cercare sono nel testo – altrimenti non sono. Il metodo, quando vuole quindi affrontare i nostri casi, varrà per un’«idea specifica» e autoriale o potrà applicarsi e rimodularsi nei confronti di ogni particolarità? E la legittimità (come problema e non come tema) cacciata dalla porta rientra passando dal cortile, dove Govoni fa crescere il suo rosmarino profumato che si accalca fra mill’altre cose sul bordo di che cos’è poesia: spingendo perché il limite s’allarghi, si sgualcisca – e crudelmente lo infiacchisce. Questo perché l’agone ritorna nell’ambito della cultura autoriale e col tempo sempre più personale, dove un poeta non si adegua ad una tradizione egemone e ad una retorica prescritta. Lavora, prova e riscrive per formarsi una cultura ed una prassi personale – non per forza antagonista. Scavare all’interno della concettualizzazione di un poeta serve proprio a vedere se e come questi si trova nei confronti della cultura, della tradizione; se si sta creando dei mezzi per attraversarli e crearsi una voce, una forma e dei modi propri.

A: Ma come monete estratte da un forziere il cui contenuto è limitato, le qualità dei tempi si perdono solo in attesa di guadagnarne altre: ed eccoci ancora davanti al banco di questa transazione – schermato dal vetro, seduto in modo che solo a tratti ne vediamo il volto – il cassiere che chiamiamo condizioni esterne. E se possiamo lamentare l’abbandono di una poetica composita come l’arrugginirsi degli attrezzi, perché non prospettarci nuove poetiche e nuovi attrezzi, propri di questo secolo? Oltretutto, è più importante la composizione di una poetica o la mente che la compone, gli arnesi del fabbro o la mano che li userà? La legittimità, d’altronde, come tu la proponi, sorge dall’elaborazione della materia (per materialia surgit) e come tale non si distingue dalla sua sostanza di verità (mens hebes ad verum), sia questa sostanza del contenuto o della forma. Ma che questa verità espressa in stratagemmi non sia legata alla storia per quei tramiti che chiamiamo cultura oppure tradizione, la loro violazione, così come economia o società; ancora, che questa verità non si possa trovare esemplificata in qualche modo sia nel minimo che nel massimo impegno, tutto questo non lo posso credere.

B: La vediamo questa nuova poetica? Io piango ciò che ho visto e perso, non ciò che immagino e desidero. E da quando, nel poeta, si cerca la «mente» o sarà meglio dire lo spirito, piuttosto che le sue abilità tecniche e le sue capacità di critica, analisi, sintesi e descrizione culturale? La materia testuale occorre anche al poeta per elaborare il suo procedimento e la sua volontà formale, perché l’elaborazione teorica di un’opera si costruisce nel farsi dell’opera stessa e così partecipa all’invenzione degli strumenti tecnici costruendoli. Le condizioni storiche e culturali determinano, almeno in parte, l’insieme delle scelte possibili, e non possono non farlo rimanendo l’arte poetica (e quella critica) nelle pratiche umane e trovandosi legata dalla materia linguistica, carica di storia e di ideologia – lo sappiamo. È fra le necessità della storia costruire una cultura che rompa i legami col predeterminato, sia questo costruirsi una cultura o porsi da antagonista con essa.

A: Non so se tra le lettere la sua necessità mi apparve, o la possibilità di sviluppi ignoti: quindi chiameremo la storia una potenza da realizzare? Se sì, noi non possiamo che porci come umili traghettatori la cui imbarcazione si sfascia nell’uso per la fragilità del materiale, e le cui parti sfasciate dobbiamo rinnovare nel durante: e ciò, dopotutto, non mi sembra così dissimile da quanto sarebbe chiamato il poeta a fare – semplicemente è diverso il fiume che gli tocca attraversare, perché diversa è l’interazione. Ma ecco che una nota si impone: perché ieri di canne, oggi di legno, di resina domani, una canoa ancora guidata con la pagaia non chiameremo più tale? Perché ha cambiato ancora una volta tutti i suoi pezzi non diremo più che la nave di Teseo è del suo padrone? L’uso – o, perché no, la funzione – mi sembra il solo che in questa chiave possa dettar legge su ogni possibilità di legittimare.

 

 

FRANCESCO IANNONE

Silenzio celeste

 

Hai la vita, dice Antonio, ed ha sette anni. Perché non sei mai contento di niente? O Giuseppe che di anni ne ha quattro e da grande vuole fare il maestro elementare perché le deve salvare tutte le persone tristi. Io così dico che devono essere i poeti.

Solo i bambini e i poeti abitano allegramente le celle, o i vecchi quando sono finalmente dementi. Parola-cella, quindi parola-pertugio dentro cui il detenuto rigetta in cerchi il vapore dei polmoni e oltre il muro un’altra bocca pronta a raccoglierne l’alone nero. Così una volta ci insegnò Genet. Parola-bava che congiunge i vuoti facendoli tremare insieme alla solitudine del filo.

Mi vengono in mente le storie. Le fate sognate di notte, la tragica impiccagione del burattino cattivo e insolente. I due assassini che gli cavano le monete dalla bocca, il berretto di mollica che gli adombra la vista. Sono spaventose le fiabe. Più spaventose sono le vite sedate dal tepore della cenere. Stordite dalle sberle delle chiacchiere.

Percio siate gente del sì, siate i pazzi che ribaltano le ore con un grido e fanno del tempo uno zero mai iniziato. Siate i protesi con le biglie in gola, allevatori di disastri e non custodi del torpore. Siate gli avvezzi alle pozzanghere, gli inclini alle bizzarrie adolescenti. Siate gli innamorati del singolo preso nel morso delle folle. E siate pure le folle quando cantano gaie nelle piazze.
Mi direi così. Me lo direi immergendo la testa nell’acqua per ricordare ancora il fragore della nascita, il muggito gigante del mondobue.

Ma ho dimenticato tutto. Come quei sopravvissuti che non ricordano più niente. Dopo l’assedio, il silenzio della polvere. La veglia degli uccelli. Gli uomini dietro le porte chiuse. Le proteste mute del sangue che preme le arterie. Per andare verso dove?

Ringrazio allora per la pazienza della cova. Per le natiche abbandonate sul fieno della memoria. Per la crepa dilatata dal sibilo di una parola. Per la parola.

*

Frasi (da Parole del tempo)

Dopo la tormenta ora
balena il silenzio celeste.
Le mute frasi s’involano
in una piaga di amore
verso un confine statuario.
L’ultima delle mie ultime parole
giace attaccata alla penna
e segna uno spazio senza confine.

In quale nodo d’amore?

Lorenzo Calogero

 

 

 

GIOVANNA FRENE

L’attrazione della cornice (un omaggio a Baltrušaitis)

 

benché apparentemente discordi, le due leggi centrali della scultura romanica concorrono

parimenti con il loro horror vacui e con l’attrazione per i margini geometrici alla messa

in atto del regime delle forme elementari della struttura, sia su vasta scala che su scala

locale, come si vede in un dettagliato capitello del corridoio centrale del Tribunale dell’Aja, scolpito

nel 2005 da un anonimo maestro della Sezione Italiana del Comitato Internazionale per la Difesa di

[Slobodan

Milošević (d’ora in poi ICDSM Italia), che rappresenta in maniera allegorica il pensiero dello statista

serbo, il quale riteneva essere fondamentale per un politico mantenere l’unità del suo

Stato in modo appunto che nessuna avversità lo potesse spezzare, un po’ come quella palma che

laddove è più pressata da un grave peso resiste incurvandosi ad arco, e dunque il puer

arrampicandosi saldo otterrà poi buoni risultati senza abusi di potere, o pesi superflui

esorbitanti, e infatti mentre Slobodan aveva affermato in aula che ciò non rappresentava

un’aspirazione a un peso maggiore ma solo il giusto premio alla scalata, aveva le orbite

vuote, gli occhi proprio fuori delle orbite vuote, a cerchio, proprio

attratti dalla cornice della fossa, o dall’orrore, vacui

 

 

Descrizione. Esistono due diverse riproduzioni del capitello del corridoio centrale del

Tribunale dell’Aja. La prima è una versione disegnata a mano durante i giorni del processo

del leader serbo e poi utilizzata per realizzare una xilografia con fregio (Figura A); il fantasioso

artista ha spinto all’estremo la rappresentazione allegorica del capitello a forma di ciuffo di

palmizio oppresso e piegato dal peso di un grande tronco reciso, estendendo tale forma

anche alla rappresentazione della colonna, che in tal modo diventa il fusto della palma

medesima. Solo in seguito, un fotografo originario di Srebreniza in gita ricordo al Tribunale

dell’Aja ha fotografato il lato nascosto del capitello (Figura B), che sembra rispondere più

da vicino all’estetica del non-finito, perché il suo messaggio allegorico non è del tutto chiaro.

 

________________________________________________

[Giovanna Frene, nel mese dei februa 2020]

 

 

 

 

CARLO SELAN

Appunti per una scrittura in nota

 

Un ringraziamento a B. per un parlare

  

« Forse per questo i poeti italiani somigliano sempre più a glossatori dell’affaccendamento, come se l’andirivieni tra le cose quotidiane fosse un modo per incenerire con uno stesso rogo i sintomi del presente e l’eredità del secolo passato. »

Si potrebbe partire da qui, da un termine che è glossatori, per delineare un perimetro, alcuni momenti di un percorso che abbia in sé l’esigenza di confrontarsi su possibili significati del concetto di ritorno in letteratura, su un atto di scrittura che sappia farsi e dirsi solamente laddove è situato in nota ad ulteriori testi, ereditando ma al tempo stesso modificando, comprendendo e facendosi comprendere nel comporre di altri. Mi è necessario, per cominciare, riportare qui una mia poesia facente parte di una piccola selezione di materiali usciti qualche mese fa su Nazione Indiana. Che non lo si prenda per narcisismo; l’intento sarebbe piuttosto quello di dare spunti teorici riguardo a un modesto tentativo di poetica messo in atto.

«Sto con gli ultimi anni di un uomo a cui voglio bene,

vorrei perdonargli di morire, cosa fare.

A sapere bene forse potrei dire:

anche per noi una visione intera

con uno specchio sopra, con un cielo.

Mi tengo al suo sguardo perduto

così particolare, così solo,

senza romanzi, con il campo che non è un mondo.

Non so andare avanti.

[…]»*

*Poi se ti sembra ti spiego e si parla poco

perché distrarsi e dire o riprendersi e guardare

«sto guidando, chiamalo tu», chiama mio padre.

Non si ricorda, siamo nati noi e non si ha memoria,

questa cosa che sembra, come dire, tu mi racconti

tuo nonno teneva sempre la radio aperta in casa

a Olomouc. Mi guardi? Mi vedi che ti sento parlare?

Qualcosa perdi e poi dici, si spiega e si lascia in fianco una vita,

ricordo sembravi con i capelli tagliati un po’corti di lato eri quasi

sembravi mostrando un sorriso.

Come si può osservare, il componimento è strutturato graficamente e visivamente in modo tale da far dialogare due parti testuali differenti: una formata da stralci di poesie di Mario Benedetti contenute in Umana gloria[1] (i versi in carattere più ampio al centro della pagina), l’altra costituita da materiali scritti da me (inserita come in nota ai versi di Benedetti). Ragionare sul perché della scelta di un autore (Benedetti) piuttosto che un altro non è ora importante ai fini del discorso (anche se in conclusione di intervento si accennerà anche a questo). Vorrei invece provare a soffermarmi sul senso di un gesto e di un movimento di scrittura.

L’autore latino Aulo Gellio, nel XVIII libro delle Notti attiche, riferisce di essere stato spettatore di una conversazione tra un grammatico e un uomo colto riguardo alla corretto significato con cui è usata la parola insecenda all’interno dell’orazione di Marco Catone Su Tolomeo contro Termo. In conclusione del dialogo Aulo Gellio, provando a dire un suo parere riguardo alla questione, cita un presunto manoscritto di Patrasso (non conservatosi e dunque a noi contemporanei inaccessibile) nel quale sarebbe stata presente la stesura più antica dell’Odusia di Livio Andronico, una traduzione (anche se, come si noterà poco più avanti, forse il termine maggiormente adatto è riscrittura) dell’Odissea omerica. Gellio riporta il primo verso dell’opera di Andronico così come esso doveva presentarsi nel manoscritto:

Virum mihi, Camena, insece versutum

Se lo si analizza nel dettaglio e lo si confronta con il corrispondente cominciamento in greco della narrazione omerica si possono notare delle fondamentali differenze:

Virum mihi, Camena, insece versutum (Livio Andronico)

Andra moi ennepe, Mousa, polutropon (Omero)

A livello metrico, l’esametro omerico è reso da Andronico con un verso saturnio. La scelta dell’autore è dettata dal fatto che l’esametro nel contesto greco è anzitutto il verso della scrittura oracolare, così come lo è il saturnio in ambito latino; egli sceglie di compiere una traslazione metrica tra la versione originale e la sua traduzione non basata sull’identico, ma sul voler trovare il modo più adatto per fondare il concetto di epos in un contesto culturale altro rispetto a quello di partenza. Sul piano semantico, invece, si può notare un caso in particolare: il termine «Musa», divinità ispiratrice del canto in ambito greco, viene reso da Andronico con il termine «Camena»,  divinità latina che in questo contesto sembra divenire a sua volta colei che suggerisce il verso al poeta (notare come la parola è corradicale di carmen). Dunque, si è nuovamente di fronte a un tentativo di adattamento culturale. Pure guardando agli aspetti stilistici sono riscontrabili alcune questioni interessanti. Ad esempio, l’allitterazione e l’omoteleuto a cornice tra il termine virum e il termine versutum che mettono in relazione la prima e l’ultima parola del saturnio (valorizzando il termine centrale che, per l’appunto, nella versione latina è la parola che rappresenta la divinità). Il verso latino sembra voler mirare a ricreare in maniera autonoma una solennità e una compostezza stilistica già presente nel suo corrispettivo greco. In tal modo, dunque, sembra nascere l’epos (e con esso un’intera letteratura) in ambito latino, direttamente come poesia dotta e consapevole di un modello di provenienza, come traduzione che diventa riscrittura, atto vivo e creativo. Nell’Odusia di Livio Andronico pare non esserci solo l’intento di rendere comprensibile una materia a un nuovo pubblico di lettori, ma anche il tentativo di riscrivere il testo affermandolo a partire dai modi e dai valori di una cultura altra. Non c’è atto di traduzione passivo, c’è un momento di creazione attivo, di appropriazione e superamento del patrimonio greco. Un comporre che non nasce originale, che è novità in quanto si mostra capace di contenere il noto ricevendolo e rifondandolo.

È utile, a questo punto, prendere in considerazione il saggio di T. S. Eliot Tradizione e talento individuale (la versione italiana si può trovare all’interno del volume di interventi critici Il bosco sacro[2]) in quanto fornisce alcuni spunti importanti per ragionare sull’operazione di Livio Andronico appena osservata. Egli scrive che:

Nessun poeta, nessun artista di nessuna arte, isolatamente preso, ha in sé tutto il proprio senso. […] Non possiamo giudicarlo isolato, dobbiamo collocarlo, per paragone o confronto, tra i morti, ed io considero ciò come principio di una critica estetica, non solamente storica. La necessità che egli si conformi, che egli s’accordi non è unilaterale: ciò che avviene quando è creata una nuova opera d’arte è qualche cosa che avviene in tutte le opere d’arte che la precedono. […] L’ordine esistente è completo prima che arrivi una nuova opera; perché l’ordine resista dopo il sopravvenire della novità, l’intero ordine esistente deve essere, sia pur di poco, mutato; e così le relazioni, le proporzioni, i giudizi di ciascuna opera d’arte rispetto all’altra vengono ordinati di nuovo: e questo è l’accordo tra il vecchio e il nuovo. Chiunque abbia approvato questa idea dell’ordine, della forma della letteratura europea, della letteratura inglese, non troverà assurdo che il passato sia rinnovato nel presente, come il presente è sostenuto dal passato.[3]

L’opera nuova, secondo Eliot, può dirsi tale laddove si mostra capace di modificare una letteratura del passato inserendosi in una tradizione. Essa è necessaria nel momento in cui riesce a essere parte di un percorso tramandato modificandolo, portando in esso una rilettura. Riprendendo il caso di Livio Andronico, risulta evidente come a monte di un suo scrivere ci sia stato l’aver scoperto una ricchezza del testo di provenienza; proprio nell’atto del produrre un’opera nuova, anzi, egli è riuscito a gettare nuova luce e a illuminare il testo del passato, mostrandolo secondo una prospettiva diversa. Il concetto di tradizione, allora, diventa corpo mobile e vivo incarnato nell’oggetto letterario che irrompe in esso rinnovandolo.

Hans Robert Jauss, nel suo saggio La teoria della ricezione. Identificazione retrospettiva dei suoi antecedenti storici contenuto nel volume miscellaneo Teoria della ricezione[4], scrive che le radici più antiche di un’effettiva teoria della ricezione possono essere individuate nei primi tentativi ermeneutici aventi come oggetto gli scritti di Omero e la Bibbia. Un reale problema su questi testi, infatti, comincia a porsi nel momento in cui la distanza temporale tra l’epoca dei lettori rispetto al momento di scrittura degli originali diventa eccessiva, rendendo la parola poetica di Omero e quella rivelata della Bibbia qualcosa di non più comprensibile immediatamente ma, anzi, qualcosa portatore di un significato oscuro o scandaloso, difficile per il presente. Come poter agire laddove un libro che è autorità (religiosa, letteraria, morale) si trova ad aver perso l’immediatezza del discorso vivente che possedeva nel contesto culturale orale delle proprie origini? Non è un caso, allora, che proprio il concetto di receptio venga utilizzato per la prima volta all’interno della teologia scolastica. Tommaso d’Aquino concilia l’affermazione della Bibbia di parlare secondo dicentem deum con la condizione di limitatezza dell’uomo finito, che non permette di cogliere pienamente la verità della rivelazione; nonostante questo, però, il teologo scolastico sostiene che le scienze teoretiche potrebbero effettivamente riuscire a giungere gradualmente dall’imperfetto al perfetto, sicché le generazioni successive sarebbero in grado di riconoscere qualcosa di vero anche negli errori di coloro che li hanno preceduti. Il testo della Bibbia, dunque, si svelerebbe gradualmente nella sua sostanza soltanto in un tornare costante ad esso attraverso il commento e la glossa, in un processo di ricezione che, fino al suo compimento nell’ultimo lettore, sarebbe da ritenersi previsto ed ispirato dalla sapienza divina. Per condurre questo discorso in un contesto che sia altro dal testo sacro, mi sembra utile riportare una citazione di Maria di Francia (a quanto pare costruita su un’affermazione di Prisciano) che sempre Jauss trascrive nel saggio:

«Gli antichi già sapevano che quelli che li avrebbero seguiti sarebbero stati più saggi, dal momento che essi (i successori) possono glossare la lettera del testo e arricchirne il senso.»[5]

Mi interessa ora rendere una particolare sfumatura che può darsi in un commentare e glossare un testo con fare ermeneutico, interpretativo. George Steiner, nel volume Vere presenze[6], sottolinea come siano tre i possibili sensi principali che si possono attribuire ad un movimento ermeneutico inteso come interpretazione: la decifrazione e comunicazione di significati; la traduzione di culture e convenzioni di rappresentazione; la messa in atto del materiale che si ha davanti per tornare a dare ad esso vita intellegibile. È importante, però, quanto egli scrive subito dopo:

«Per quanto riguarda la lingua […] l’interpretazione attiva e creativa può anche essere interiore. Il lettore o ascoltatore individuale può diventare l’esecutore del significato che sente o prova quando impara a memoria una poesia o un brano musicale […]. Mentre noi cambiamo, cambia anche il contesto che dà forma al poema […]. A sua volta, la memoria si trasforma in riconoscimento e riscoperta.»[7]

Ecco, dunque, che se si guarda all’azione del fare commento e glossatura di un testo come a un momento interpretativo attivo e creativo (lo è ancora di più laddove ci si pone in nota proprio con del materiale in versi, facendo dialogare due testi primari), si può cominciare a parlare di questo gesto assegnandoli dei modi e dei toni che siano anche personali, che siano la possibilità di ogni lettore di poter recepire e significare una scrittura di altri a partire da una propria esperienza, attraverso un proprio fare memoria che sia un costante tornare a uno scrivere altrui rievocandolo e portandolo a sé. Succederà, allora, una comprensione dell’esperienza a partire dalla scrittura chiamata a sé e, allo stesso tempo, una risignificazione di quest’ultima a partire dall’esperienza.

Occorre però domandarsi che cosa possa significare un atto di scrittura che non sia un movimento del tornare su un testo altro (e di altri) in chiave di una riscrittura (esempio estremo e ipotetico di un’operazione letteraria simile potrebbe essere il celebre racconto Pierre Menard, autore del «Chisciotte» di J. L. Borges) ma nelle modalità, invece, di un porsi in nota. Dove può essere individuata una sostanziale differenza tra i due gesti? Se si guarda visivamente la poesia situata all’inizio di questo intervento, si può osservare come in posizione preminente appaia non soltanto la parte dei versi di Benedetti ma anche l’esplicitazione formale del collegamento logico tra la scrittura di Benedetti e il materiale testuale posto a commento. In altre parole, in primo piano per il lettore non c’è tanto (o soltanto) il testo, ma lo stesso mettere in nota come pura struttura logica e interpretativa. La poesia diventa possibilità di riflessione sul che cosa significa una comprensione dell’esperienza a partire dalla scrittura chiamata a sé e, allo stesso tempo, una risignificazione di quest’ultima a partire dall’esperienza. Come nel verso «Mi guardi? Mi vedi che ti sento parlare?» l’osservato non è il contenuto del parlare e ciò che si sta dicendo ma il dire di per sé stesso, il gesto del dire da intendersi come il gesto del guardare, così in una strutturazione in nota preminente diventa l’atto del porsi in nota rendendo dipendenti tra loro due materiali testuali.

Per comprendere meglio quanto ho appena scritto, credo sia importante ragionare su un saggio di Erving Goffman dal titolo Frame Anlysis. L’organizzazione dell’esperienza[8]. Termine chiave in questo libro è il concetto di frame (traducibile come struttura interpretativa) da intendersi alla stregua di un’inquadratura mai neutra attraverso cui abitudinariamente le persone significano e rendono portatrici di senso le esperienze che gli accadono. In Frame Anlysis si cerca di lavorare (attraverso varie tipologie di classificazione) non su che cosa si trovi al centro di un’inquadratura, ma sull’atto dell’inquadrare stesso e su come questo modifichi poi la percezione e il significato dell’oggetto guardato.

Riporto qui una sezione di un’intervista di Claudia Crocco a Mario Benedetti contenuta nel libro Materiali di un’identità[9]:

Sembra che ti stiano molto a cuore questioni epistemologiche. Un problema è l’incertezza dell’esistenza delle cose, che per esistere realmente hanno bisogno di essere ricordate, quasi incise, attraverso una continua rimodulazione verbale: è quanto accade spesso in Umana gloria.

Sì, è così. È tutto molto provvisorio in maniera forte, è così pregnante la parola «provvisorio» per me. È così tutto. Forse anche perché mi sembra di aver vissuto epoche diverse. Sono nato in un Friuli molto arcaico, arretratissimo; ho sentito molto la trasformazione della società, del paesaggio – che era tutto per me, allora. Molte volte sono andato via da diversi luoghi, ma lì è davvero cambiato tutto. Qualche anno dopo il terremoto si sono modificati il torrente, le case, la gente. Già gli uomini della generazione precedente la mia avevano i loro ricordi; ma io ne ho molti di più, perché ho filtrato i ricordi di mio padre, più tutta la mia vita, attraverso la cultura «libresca». L’idea del tempo storico viene quando hai un po’ di cultura; mia madre non ne aveva, né mio padre. Nella mia prospettiva tante cose non sono solo guardate (perché anche mio padre guardava le stelle), ma rimodulate da scienziati, da poeti. Poiché tutta l’esperienza umana è per definizione provvisoria, quel che si può fare è cercare di testimoniarne piccole parti.[10]

In questo breve brano, come in generale nei testi di Benedetti, si mostra costante l’attenzione dell’autore verso l’atto del guardare, verso un dire del guardare quale unica modalità di esprimersi possibile. Nei versi di Benedetti gli oggetti e le cose sembrano non poter esistere di per sé stesse o se non altro appaiono come non conoscibili, come solamente guardabili e dunque soggette a un filtro, interpretate. Uno scrivere conseguente a un guardare che non sa mai formulare la sostanza delle cose (ammesso che essa ci sia) ma può solo parlare di sé stesso. In questo è il senso di una precarietà che non riesce (anche se vorrebbe) a contemplare «le parole che nominano». Nel frammento di intervista riportato c’è tutto un gesto del ritornare che nella scrittura di Benedetti avviene su diversi piani: un tornare reale e fisico indirizzato verso un paesaggio friulano («che era tutto per me allora») profondamente cambiato sia materialmente che sociologicamente a causa del terremoto; un tornare che è un riflettere nuovamente su luoghi, cose ed esperienze con prospettive e strumenti diversi e mutati dall’aver assimilato e studiato un pensare di altri («Nella mia prospettiva tante cose non sono solo guardate […] ma rimodulate da scienziati e da poeti»); un tornare che in qualche modo si fa accettazione di una precarietà e di un fallimento, che non è capace di ridare un ricordato e di raggiungerlo ma può solo constatare un’impossibilità, un doversi ripiegare a osservare sé stesso.

«Proprio a partire da ciò, ho chiesto ad alcuni poeti di farsi alleati ad una riserva di bianco. Di raccogliere gli interrogativi da posizioni divergenti, cioè di strincerarsi, e di usare questo spazio come un modo per tornare a domandare un qualche assenso alle cose nominate…»

Concludo chiedendo allora quanto si possa ancora domandare al canto di nominare, interrogandomi su quale rapporto possa esserci tra le parole e la possibilità di affermare la presenza e l’esistenza delle cose di per sé stesse, al di là del loro essere guardate e ricordate. Cosa può dire la scrittura se non un tornare a riflettere su quello stesso gesto del guardare che sembra rimanere il poco che ancora si può tematizzare con convinzione in versi? Resta il senso di un comporre che sappia mettersi in nota, che accetti il proprio essere luogo di un’esperienza con un reale che non si riesce a conoscere ma che si può solo guardare e interpretare attraverso pensati e strutture che sono ereditate, che ci derivano dall’avere cultura e non solo, dal leggere e dall’aver assimilato il ragionare di altri. Qui uno dei possibili significati di uno scrivere glossando, di quel personale e non finito mettersi in commento che implica un costante tornare, un considerare qualsiasi testo come mai esaurito nel suo significato e nel suo poter dire di un vivere nostro e di un nostro stare. Qui, forse, una possibile alternativa alla parola che si ritiene capace di nominare le cose, di fondarle o conoscerle. Qui, il gesto umile di farsi voce seconda, annotazione sussurrata al dire altrui.

[1] Mario Benedetti, Umana gloria, Mondadori 2004

[2] Thomas Stearns Eliot, Il bosco sacro, Mursia 1971

[3] Thomas Stearns Eliot, Il bosco sacro, Mursia 1971, p. 94 – 95.

[4] Robert C. Holub (a cura di), Teoria della ricezione, Einaudi 1989

[5] Hans Robert Jauss, La teoria della ricezione. Identificazione retrospettiva dei suoi antecedenti storici, in Teoria della ricezione, Robert C. Holub (a cura di), Einaudi 1989, p. 7

[6] George Steiner, Vere presenze, Garzanti 2014

[7] Ivi, p. 21

[8] Erving Goffman, Frame Analysis. L’organizzazione dell’esperienza, Armando Editore 2013

[9] Mario Benedetti, Materiali di un’identità, Transeuropa 2010

[10] Ivi, pp. 56 – 57

 

 

MARCO GIOVENALE

The working dead

 

 

Forse non parrà dissennato dire che è l’inchiostro stesso che s’è felicemente1 chinato a spiccare di netto, tutt’uno con gli artigli dell’espressionismo, la propria radice melica ed eolica, e la corda, pure, ha tagliato, resecato, o la coda vizza, o insomma – massime in chiusa di Novecento – si è assai speso per l’idea stessa di una improbabilità e improponibilità di sé medesimo in certe forme.

[Tuttavia, e ovviamente, e certo, gli utenti dell’inchiostro d’antan(i) hanno continuato a comprare grappoli di Moleskine, in qualche modo dovevano riempirli, e quindi non gli han dato retta, al siglo de plomo, i miserrimi].

Gli a-capo (signum sacerrimo, acerrimo nemico della prosa, invito al picco di senso continuato, all’orgasmo multiplo, alla dromomania altrimenti celebrata col sur-sacerrimo nome di poesia) si sono spacchettati e scompattati e si sono 1felicemente e fortunatamente sparsi, scattered all around, nello stesso sgretolarsi disfarsi della pagina larga: da schermo o libro il discorso passa, è passato, a tablet, poi a cellulare orizzontale, infine verticale. A quel punto avrebbero dovuto capirlo tutti.

Dove starebbe l’a-capo, di grazia? E il ritmo, disgrazia? Da nessuna parte. Ma vàglielo a mimare, se a parole non funziona. No way.

La stele – sventurati lettori – ricrea agli occhi loro / ha ricreato il poetico, l’apparenza, ricreazione e riaggomitolazione del Moi lacaniano, da palco: manda a fare un enjambement – random – ora questo ora quel punto del discorso, che altrimenti si darebbe, io credo, sempre meglio anarchico, depensato, prorsus, à bout de souffle in linea diritta (che è certe volte perfino una dirittura) (della stortura, naturalmente).

L’inchiostro continua a fare il suo corso? Ricorso? Quale? A recitare la poesia? A buttare a mucchio e imburrare coperte su coperte du roman? E fa le mossette al microfono? Spettacolino, e morale, alza l’audio? Certamente. Certamina se ne gaiamente generano.

Allora questo, questi, sono i produttori, i superconduttori, che rete e banco di libri governano. I morti lavorano fino a sfiancarsi, per governare.

 

 

 

MATTIA TARANTINO

da Fiori Estinti, (Terra d’ulivi, 2019)

 

Il bambino

 

Il sangue urta il sangue, e il bambino

è già messaggero da altre

terre, altri verbi: è già nell’angelo.

 

Ho pronunciato la parola che fonda

i fiori, ho convertito

gli uccelli che annunciano l’inverno:

 

c’è qualcosa nel mio nome

che lo strazia e maledice.

 

*

 

La terra del verme

 

Allora donatemi

il cerchio e la croce. Non temete

questa parola che nasce

in altri mondi, dove nerissimi

gigli affliggono e azzannano.

 

Amate anche il canto

finale del passero; le astuzie

che nutrono i morti. Altrove

è la terra del verme, ma solo

al di qua può regnare col cuore.

 

Prima che carne nient’altro

che carne nutrì il fiore ossuto.

Prima che acqua nient’altro

che acqua devastò la mancanza

di forma: tutta loro è la colpa.

 

Ecco, amate

ostinati la grazia, le impervie

vie della sorte e mai, mai

la sciagura dello stare.

 

*

L’uccello

 

Ecco, arriva quest’uccello

che nella voce ha il fuoco d’ogni terra

promessa, che crolla

al segno fatto soglia e sangue.

 

Nel tuo sangue sta il vento che profana

e poi rovescia: a quale eco

tornerai nel nome? in quale

veglia sbranerò la luna?

 

Offrimi dell’acqua e sia nell’acqua

questa parola che fummo. Traccia

e poi colloca la sorte

 

di tutti i fiori mai donati

 

 

 

CARLO RAGLIANI

 

Il senso implicito della domanda sembra collegare naturalmente, così come avviene ne Il Cratilo platonico, il nome alle cose. Ma è sensato dare testimonianza scritta della quotidianità?

Di fatto non può essere razionale staccare la società e la sua civilizzazione dalla natura delle cose scritte, e del resto non c’è motivo di dividere la ragione della civiltà e la sua evoluzione dalla scrittura. Come del resto non ci sono ragioni per non pensare alla poesia come forma di espressione apicale della cultura di un popolo.

Rispondere a questo questionario costringe a riflettere sulla restrizione e sulla condensazione della parola, alla contrattura ed allo svuotamento del linguaggio; e va da sé che in un periodo in cui ci si pone pressocché sempre il traguardo di ridimensionare il concetto e la figura, rispettivamente, di poesia e poeta, in fondo non si arrivi a poter definire davvero il punto da cui partire.

Supponendo che si possa indicare un esordio, il quesito si può svolgere in maniera più cinica, rielaborandolo in questo modo: È ancora necessario l’essere umano nella definizione della realtà?”

Se la risposta fosse affermativa, l’essere umano risponderebbe alla logica antropocentrica tipica del pensiero occidentale, la quale – e mi legittima la traccia ad indicare il precedente storico, e l’eredità di ciò che è la nostra storia – ci è dato rintracciare un inizio nella Genesi biblica, o meglio quando Adamo è stato chiamato a dare un nome alle cose. Questo conferma una tale teoria del linguaggio, in quanto Dio – dopo aver creato la luce solamente pronunciandone il nome (Genesi 1,3) – sollecita l’uomo affinché nomini, dia nome agli animali ed alle cose contenuti nell’Eden.

In questo modo secondo il racconto biblico l’uomo viene a conoscenza delle cose, e una volta conosciute, dà loro un nome. E questo sottolinea ancor più la differenza tra l’uomo-soggetto e le cose-oggetti, e che la realtà delle cose di fronte alla soggettività umana è strumentale.

Ma se così fosse, altro non ci spetta che accogliere come vero la totale dispersione e lo svuotamento chenotico della divinità; o meglio: dall’evento che coincide con il “b’reshit” ebraico alla morte sulla croce di Cristo, la parola ha solo potuto definire una realtà già vuota del soffio divino.

Vale la pena ricordare che tale fosse il comandamento di Dio a Adamo ed Eva: “Mangia pure da ogni albero del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non ne mangiare; perché nel giorno che tu ne mangerai, certamente morirai”. (Genesi 2:16-17)

Dopo la cacciata dall’Eden, la parola perimetra ciò che è già morto.

Ed è l’inclinazione naturale alla morte della realtà è ciò che spinge a lasciare una testimonianza; un documento – in primis a sé stessi, e successivamente al terzo – di essere stati vivi. Che non tutto è stato inutile, non tutto è stato vano.

“Scrivere, proprio perché è lo strumento adatto alla lontananza, è l’ultima possibilità”, direbbe Quinzio; oppure scrivere perché è l’ultima cosa che si può fare, nonostante tutto. Scrivere nonostante gli uomini siano irreparabilmente separati dalla vita, e l’abisso incolmabile non possa che tradursi in sangue.

Scrivere nonostante l’impoverimento senza fine della parola, la quale non può che seguire di pari passo la miserabile natura del mondo, nonostante entrambe siano la testimonianza indelebile dell’impotenza del dire, e quanto testimonia la gloria ormai spoglia di ogni creazione.

Questo potrebbe essere il sistema su cui si muove il verso, che come una veste troverà ordito nella natura delle cose tutte – nel senso di globalità univoca in cui siano compenetrate umanità e realtà inumana – e trama nella necessità biologica di dover fondare, dover rivendicare, dover costituire e delimitare ciò che possiamo ritenere come intramontabile, ineliminabile, incorruttibile.

Perché il sottrarre un istante dallo scorrere interminabile del tempo, lo sottrae anche all’oblio che, seppur inevitabile, tutto attende e divora. Il “tempus edax rerum” ovidiano in fondo è Saturno che ingoia i suoi figli, e la poesia può essere la via per cui si possa salvare ogni brandello di ogni vita, per poi preservarlo nonostante ogni delusione.

In questo l’impulso della poesia può giustamente essere trovato nell’affaccendamento (come dice Cornelio in traccia) della quotidianità, e quindi si incardina come risposta biologica di segno contrario alle spinte del contesto storico imperante. Ed il poeta risponde alla necessità universale di formare le coscienze attorno ai concetti che è portato a far emergere: per questo mi sento di paragonare la parola ad un esercizio di ascesi non tanto come moto a, ma più coincidente in un via da.

Divenire uno psicopompo, più o meno consapevolmente, per guidare il lettore – perché, per quanto abbia senso parlare di poesia senza lettore, non può esistere una parola che nessuno debba leggere – in fondo è la ragione per cui si scrive in senso generale. E la celebrazione del rituale è la ragione della poesia, se non anche la poesia stessa; così trovano il loro posto l’ostia, la lama, il sangue, il sacerdote e, soprattutto, la parola per cui si può evocare sull’altare della più antica primitività. La poesia potrebbe essere il tentativo più coraggioso di poter sciogliere il “mysterium tremendum et fascinans” di cui ogni cosa è pervasa in ogni atomo.

Si parla di eredità quando ci si riferisce ad un erede, ossia chi accetta tacitamente o esplicitamente il patrimonio lasciato da chi gli è mancato; se questo è vero, se è vero che noi discendiamo dai progenitori edenici, non possiamo che testimoniare la finitezza della realtà – la sua compiuta imperfezione. E le cose imperfette devono imparare a completare la propria incompiutezza.

Il lascito, ovvero la ricchezza inesauribile che viene trasmessa e che a mio avviso trova legittimità solo quando ha modo di arricchirsi ed aumentare, non può che essere accolto con responsabilità, se non anche diniego del sé.

Nell’atto di tradurre questo in un “perché” ed in un “come” scrivere, il poeta immerge le mani nel sangue dell’umanità – che qualunque cosa essa sia, non può che ispirare più di ogni altra cosa – e ne traspone in versi le conseguenze inevitabili del farlo.

 

 

MARILINA CIACO

 

Se penso alla parola «legittimità» e provo anche solo per un istante ad avvicinarla all’atto della scrittura – quel conato del tutto arbitrario a macchiare il foglio o, più realisticamente, a pigiare un tasto – quello che ne scaturisce è un rigetto irreversibile, il moto uniformemente accelerato che allontana il primo termine dal secondo e che, posizione dopo posizione, stenta a cristallizzarsi in uno stato di quiete. La scrittura è illegittima, e anzi vive della propria illegittimità, di questa immanenza radicale che prolifera nel vuoto di significato del mondo che la ospita – essa significa soltanto ciò che è, libera dalla coercizione all’utile e dall’ordine categoriale caro alla logica aristotelica (ma non solo).

Gioisce della propria tautologia, celebra una liberazione che sempre è in atto e sempre è sul punto di negarsi. D’altro canto, qualsiasi scrittura che si voglia necessaria e consapevole sarà giocoforza radicata in quel mondo che pure si ostina a sovvertire, a capovolgere, a disordinare. Non le sono aliene l’etica, la politica, la religione o la morte degli dei, i grandi interrogativi dell’esistere, eppure essa si nutre per lo più di oggetti desueti e involucri vuoti, indossa lenti sfocate per inoltrarsi nei territori meno abitati, non più fertili o non ancora coltivati poiché inospitali. È la scrittura nella propria illegittimità consustanziale ad essere sempre estranea, sempre straniera. Raccoglie l’exuvia del mondo e vi si annida. Questa è la sua libertà.

Nonostante lunghi decenni (ormai secoli!) di ritrattazioni e contro-dimostrazioni volte a dissuaderci dall’idea di un presunto potere taumaturgico della scrittura – di quella poetica in particolar modo –, oggi più di qualcuno sembra non aver (ancora) accettato che scrivere non serve a nulla. Non ci guarirà, non ci renderà persone migliori, non ci indicherà la via della salvezza. Non serve. Se qualcosa potrà mai indicarci, quel qualcosa prenderà corpo soltanto nella materialità e nella gratuità della scrittura stessa. L’essere-etica della scrittura arriva così a coincidere con il suo non volerlo essere, non voler essere nulla al di fuori di se stessa. Questo corpo che è inchiostro, pixel, o soltanto scarabocchio o squarcio, sembra dirci, continuamente e senza ragione: c’è qualcosa, c’è ancora qualcosa, «tu» esisti.

 

 

 

SERGIO ROTINO

 

«Lasciava cadere il cerino sulle parole di carta […]»

 

 

Lingua, politica e la terza ondata dell’avanguardia: un’introduzione alla poesia di Mariano Bàino

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di Gianluca Rizzo

Quanto segue è un estratto dall’introduzione a Yellow Fax and Other Poems di Mariano Bàino (Agincourt Press: New York, 2019; introduzione e cura di Gianluca Rizzo, traduzione di Gianluca Rizzo e Dominic Siracusa). Il volume è disponibile in formato cartaceo e ebook a questo indirizzo: https://www.agincourtbooks.com/agincourt#/baino-yellow-fax/

Una meravigliosa storia d’amore

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di Romano A. Fiocchi

Cristò (Chiapparino), La meravigliosa lampada di Paolo Lunare, 2019, TerraRossa Edizioni.

È un libretto di un centinaio di pagine. Eppure credo uno dei più belli usciti nell’ultimo anno. Perché La meravigliosa lampada di Paolo Lunare non è solo una meravigliosa storia d’amore ma una raffinata analisi del rapporto di coppia, del sistema di menzogne – a fin di bene o a fini personali – su cui tale rapporto regge. Fantasioso, bizzarro, immaginifico, echeggia il celebre Ghost cinematografico ma se ne distacca attraverso la sua struttura letteraria, i cambi alternati di prospettiva (ora quella di Paolo, ora quella di Petra), l’approfondimento psicologico dei caratteri, l’uso di una lingua fatta nel contempo di scorrevolezza e di eleganza. Cristò – al secolo Cristò Chiapparino – deve aver sicuramente letto le Lezioni americane, e aver appreso i princìpi di leggerezza rapidità esattezza.

Princìpi che erano già presenti, per quanto con minore evidenza, nel suo precedente romanzo, Restiamo così quando ve ne andate (Terrarossa, 2017). Un romanzo che con la densità delle sue duecentotrenta pagine offriva una lettura gratificante e impegnativa, fatta di intrecci e di cambi di scena, senza però raggiungere la perfezione e la bellezza che incarna la storia di Paolo e Petra. Non per nulla mi piace considerare Restiamo così una sorta di palestra di allenamento dell’autore. A cominciare dall’esercizio dei cambi di prospettiva della voce narrante: prima quella di Francesco, il protagonista iniziale, che gradatamente viene sovrastata da quella della casa, che poi si rivela il vero fulcro del romanzo. Perché gli uomini vanno e le case restano. I ricordi delle case sono i fantasmi degli inquilini che se ne sono andati: “Eppure certe volte ci sentite e avete paura di noi, ci chiamate fantasmi, presenze, spiriti. E invece siamo noi”. Noi, le case.

Affinità nei due romanzi anche per quel che riguarda le ossessioni che tormentano i personaggi: Francesco, in Restiamo così, si industria nel costruire una Dream-Machine, sorta di lampada dinamica che produce stimoli visivi, per stordire il proprio disagio. Paolo, nella Meravigliosa lampada, cerca di costruire una lampada che produca “la luce del sole così com’è”, per farne un regalo. Ecco, questa divergenza di finalità lascia intendere l’impostazione realistico-concreta del primo libro e quella magico-poetica del secondo. Francesco porta sino in fondo la sua agonia esistenziale senza accorgersi minimamente dell’animismo della casa in cui abita. Viceversa, Petra e Paolo scoprono la magia del mondo che li circonda e la vivono (Paolo addirittura da morto) come se fosse la più normale delle cose. Normale una lampada che consente di vedere gli ologrammi dei morti. Normale Petra che scrive con la luce della lampada magica per comunicare con il fantasma di Paolo. Normale Paolo che da morto vede Petra come una lucciola. Normale, per Petra, dire ad un fantasma l’ultima menzogna a fin di bene: “Sono stata in ospedale, scrisse Petra nel buio. Come stai ora, mimò Paolo. Meglio, mentì Petra”.

È un realismo magico, quello di Cristò, tutto speciale, che ti immerge in una realtà-altra con poche esatte parole: “Paolo aprì gli occhi in mezzo alla campagna nella consapevolezza precisa e inequivocabile di essere morto”. Cose banali diventano straordinarie e svelano i loro segreti. Persino lo schema di un sudoku, riprodotto fedelmente in un circuito di ottantuno lucine di nove colori diversi (da un blu quasi nero all’arancione), ti permette di generare una luce che illumina quella parte del mondo fuori di ogni dimensione, il mondo misterioso dove si muovono gli ologrammi dei morti.

Magia e poesia, dicevo più sopra. Magia del mondo nascosto, che esiste ma che non vediamo se non attraverso la poesia. E attraverso l’amore. Perché è solo grazie all’amore che Paolo si inventa la sua lampada straordinaria. Emergono insomma, nella storia di Paolo e Petra, tutti i tentativi dell’uomo moderno di superare l’isolamento e comunicare all’altro/altra i propri sentimenti, nella speranza di essere corrisposto. Cosa che non accade in Francesco, che incarna invece il malessere del nostro tempo e l’impoverimento dei rapporti umani: i social network, la televisione, la precarietà del lavoro, l’individuo ridotto a un numero, abbrutito in mansioni denigranti come passare la giornata a contare le monetine del supermercato e a dividerle in sacchetti.

È dunque una storia positiva, quella di Paolo e Petra, che nonostante l’amarezza (non si tratta certo di un romanzo rosa a lieto fine) lascia del dolce in bocca al lettore. Sia chiaro: non si tratta di leziosità, ma di un sentimento profondo, che va appunto oltre la morte, senza che i due protagonisti vestano i panni di eroi o figure eccezionali. Paolo e Petra sono due esseri semplici che il destino ha legato casualmente, che si sono trovati, forse proprio per condividere inconsciamente il peso dei problemi delle rispettive famiglie. E la loro solitudine di esseri umani.

Tutto questo è narrato con la leggerezza di un concerto strumentale a due voci, che ti prende dalla prima all’ultima pagina con la forza di un brano di Chopin (non per nulla, Cristò è anche pianista). La stessa leggerezza con cui le lapidarie parole dell’autore scandiscono la postfazione: “La letteratura è una menzogna. Ogni storia è una finzione. Niente di ciò che avete appena letto è accaduto fuori da queste pagine. I personaggi non corrispondono a persone viventi o vissute, sono spiriti erranti, esistenze potenziali, funzioni narrative. Se quindi dovesse sorgervi il sospetto di aver riconosciuto in qualche anfratto di questa novella la vostra vita, o quella di qualcun altro, siate certi che si tratta di una coincidenza”.

Maestri e Amici

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di Franco Buffoni

Dante e i suoi maestri

Nel canto XV dell’Inferno due parrebbero essere i punti fermi relativamente al rapporto tra Dante e Brunetto Latini:
– Dante mostra rispetto e affetto per il maestro: gli dà del “voi”; si rivolge a lui come a “ser Brunetto”;
– Dante condanna Brunetto alla pena eterna in quanto “sodomita”.
Il mio obiettivo è di mostrare come entrambi questi assunti possano essere messi in discussione, e persino radicalmente contraddetti.
Iniziamo dal primo, considerando anzitutto l’arretratezza del bagaglio letterario e culturale di Brunetto – ancora strettamente legato all’enciclopedismo e alla poesia didascalica – rispetto all’ampiezza del respiro lirico e al rigore morale della nuova poesia di Dante, una volta abbandonato nell’incompiuto Convivio l’insegnamento del maestro. Da una parte, dunque, Brunetto che pervicacemente continua a dare credito al caso («Se tu segui tua stella…»), dall’altro Dante che invece si affida alla Ragione rappresentata da Virgilio, guidata dalla Grazia: per lui la Fortuna è ormai Intelligenza celeste, all’interno della quale – pur permanendo chiare considerazioni relative all’influsso degli astri, come nel Paradiso all’entrata nella costellazione dei Gemelli – appare completamente trascesa la meccanicistica visione astrologica del Latini.
Alla riflessione sull’arretratezza culturale di Brunetto, vorrei aggiungere un dato che non mi risulta sia mai stato posto nella debita luce: Brunetto non riconosce Virgilio. Laddove Dante, all’inizio della cantica, lo riconosce immediatamente. Come mai? Credo vi sia una sola risposta, perché sarebbe ridicolo parlare soltanto di luce soffusa: Brunetto non è degno, non è all’altezza di riconoscere Virgilio. Brunetto pensa solo al suo Trésor, lo raccomanda all’ex allievo pateticamente, e l’ex allievo gli darà gloria perenne per luce riflessa, il modo peggiore che un autore possa desiderare per essere ricordato. Brunetto non riconosce Virgilio perché questi è troppo grande per lui. E nemmeno cammin facendo Dante ritiene sia il caso di rivelare a Brunetto l’identità del suo nuovo maestro Virgilio.
Virgilio la cui opera assorbe e trasmuta la grandezza dei più grandi tra i suoi precursori; Virgilio capace di celare in ogni esametro un universo citazionale, referenziale, intertestuale, e al contempo di mostrarci poesia pura, limpida, affatto appesantita, semplicemente perfetta, e volta a preconizzare, prevedere, abbracciare le più grandi tra le opere future. Come quella di Dante.
Ser Brunetto – per contro – non vede oltre il proprio naso, pensa solo a sé stesso, si vanta di aver compreso le doti letterarie del suo allievo, ma anche qui in modo estremamente riduttivo, non accorgendosi che proprio in questo suo in-coraggiare e incitare l’allievo («non puoi fallire a glorioso porto»; «dato t’avrei a l’opera conforto») sta un’ulteriore di-mostrazione di arretratezza culturale, di inadeguatezza.
Dante vuole far fare brutta figura a Brunetto Latini non perché “sodomita”, ma perché mediocre letterato. E ci riesce perfet-tamente, malgrado le parole di affetto («la cara e buona immagine paterna») e le manifestazioni di gratitudine («m’insegnavate»). L’immagine diviene persino scultorea con Brunetto in basso – non in quanto peccatore, ma in quanto culturalmente inadeguato – e Dante rivolto ormai a Virgilio in modo definitivo. Virgilio che pur si degna di considerare Brunetto per il suo buon senso («Bene ascolta chi la nota»), ma dall’alto e con lo sguardo già volto a ben altri incontri, a ben altre esperienze di viaggio.
Quanto al secondo punto, occorre fare attenzione a non procedere in modo banalmente sillogistico e superficiale. Dante in Inferno XV non condanna l’omosessualità, così come in Inferno V non condanna l’adulterio. Certo, Paolo e Francesca sono all’Inferno in quanto adulteri; e Brunetto Latini vi si trova in quanto sodomita. Perché Dante applica la lettura cristiana della corrispondenza peccato-pena. Ma indica anche una via a sé stesso e al lettore: impegniamoci a essere virtuosi, a superare le tentazioni della carne e della vita terrena, noi che questi atti li abbiamo desiderati, li abbiamo commessi. E questo senza voler minimamente rinverdire antiche dispute su Dante uomo e poeta da una parte, e Dante teologo e giudice dall’altra; o tra struttura teologale del poema e poesia capace di comprendere e assolvere.
Occorre anche distinguere tra la legge – che per sua natura non può che essere generale e astratta – e l’atteggiamento “umano” di Dante, che è sempre concreto, individuale. Pertanto, così come tutta una tradizione di amore cortese rivive e viene immortalata nel bacio di Paolo e Francesca, allo stesso modo tutta una tradizione di omosessualità e cultura rivive nell’incontro tra Dante e Brunetto. «Tutti fur cherci / e litterati grandi e di gran fama», rivela Brunetto parlando dei tanti chierici e letterati che compongono il suo gruppo.
Brunetto è un omosessuale organico. È il maestro omosessuale che non riesce a trattenersi dall’accarezzare “pater-namente” ogni volta che può i propri allievi: lo fa ancora, anche con Dante, anche in questa occasione. Non dimenti-chiamo che Brunetto ha applicato in chiave omosessuale gli stereotipi del corteggiamento amoroso tipici della scuola sici-liana nella canzone per Bondìe Dietaiuti. Ma Brunetto è anche un pavido, che nel Tesoretto (2, 33, 44) condanna senza appello la sodomia: «Deh, come son periti / que’ che contra natura / brigan cotal lusura». Ciò che un Dante estremamente problematico e intrigante si guarda bene dal fare nella Commedia, dove mostra la fine che fanno i peccatori: tutti i peccatori. Oggi diremmo che Brunetto è un omosessuale velato. Come ognun sa, si tratta della categoria più scatenata sessualmente in quanto maggiormente repressa, e quindi la più a rischio in ogni senso.
E Virgilio? Virgilio, il modello, il nuovo Maestro? Durante l’adolescenza veniva deriso dai compagni, schernito e sbeffeggiato come “fanciullina”, perché capace di provare trasporto amoroso solo per i ragazzi. Era di salute cagionevole, timido, già malato di tisi, e dunque spinto a condurre una vita solitaria, volta alla meditazione, alla speculazione filosofico-letteraria e quindi alla grandezza dell’artista creatore. Dante sa benissimo che anche le pulsioni del nuovo mae-stro furono sempre di segno omoerotico. Ma non se ne stupisce e tanto meno se ne preoccupa. Il punto è non più peccare, non non desiderare.
Dante non è omosessuale come Virgilio o come Brunetto. Ma, come ogni uomo “normale”, può compiere atti omosessuali se le circostanze sono favorevoli. Va ricordato che, nella sua cerchia, tra chierici e letterati per l’appunto, il fatto che certi rapporti esistessero era non solo tollerato, ma praticamente considerato la norma. E forse l’immagine emblematica di questo dantesco stare “sia di qua sia di là” appare proprio all’inizio del canto, con Dante che cammina sul ciglione dell’argine del Flegetonte, paragonato a una diga.
Non abbiamo dati precisi relativi al Trecento, ma all’inizio del Quattrocento, a Firenze, oltre il sessanta per cento dei maschi adulti era stato arrestato almeno una volta per avere commesso atti di sodomia. E si sa che le multe che si pagano per le infrazioni commesse – e quindi registrate – sono di gran lunga inferiori alle infrazioni effettivamente commesse ma con discrezione (e comunque non rilevate). In sostanza l’accusa di sodomia era il mezzo più semplice a disposizione di chiunque per vendicarsi di qualcuno: funzionava sempre.
Tutto ci lascia supporre che la situazione non fosse molto diversa all’epoca di Dante. D’altro canto è risaputo che la relazione omosessuale per antonomasia fioriva nelle scuole di retorica tra maestro e allievo. Dante, dunque, detto in termini contemporanei, compie un outing rivelando pubblicamente l’omosessualità di Brunetto. Ma il décor stesso del canto insiste su immagini di reciprocità e di inversione. Come ha osservato Tommaso Giartosio, «maestro e allievo si muovono in parallelo, si toccano, perpetuano i ruoli scolastici oppure praticano un rituale gioco delle parti, fino a un curioso scambio di cortesie per decidere chi sta sopra e chi sta sotto (l’argine)». E ancora: l’atmosfera stessa del canto, solitamente definita come purgatoriale, una penombra discreta e sfumata; con apparizioni indistinte che scrutano «come suol da sera / guardare un altro sotto nuova luna»; pochi accenni alla pena; il Flegetonte descritto come un ruscello. Una ambientazione che sottolinea la dimestichezza tra Dante e Brunetto, il tono patetico e pudico del loro ritrovarsi. Un simile regime di scarsa visibilità si adatta perfettamente (come scrisse Mario Mieli) ai luoghi di battuage un tempo frequentati dagli omosessuali.
Va infine ricordato che entrambi, Dante e Brunetto, furono condannati all’esilio (Brunetto era guelfo e fu esiliato per sei anni). E proprio da Brunetto giunge a Dante la profezia più chiara relativa al proprio esilio. Al punto che, per alcuni commentatori, tema vero del canto non è la sodomia bensì la polemica di Dante con Firenze. Resta il fatto che il canto dedicato all’omosessualità è anche il canto dell’esilio; e in tale ottica il verso «dell’umana natura posto in bando» possiede polisemica valenza.

 

Testo da: Franco Buffoni, Maestri e Amici (Vydia 2020)

Simone Weil e i passaggi all’impersonale

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olycom - weil - NELLA FOTO RETRO DEL 1936 SIMONE WEIL

 

di Sara Fumagalli

 

 

[Dal 13 al 15 settembre 2019 si è svolto a Modena, Carpi e Sassuolo il FestivalFilosofia, giunto alla sua diciannovesima edizione e dedicato al tema della persona. Nelle tre giornate si sono succeduti 54 relatori, suddivisi tra lezioni magistrali e lezioni dei classici del pensiero filosofico. Il programma del Festival è stato articolato in piste tematiche, all’interno delle quali è emerso un lessico concettuale a più voci che ha generato prospettive plurali e talvolta divergenti. Viene qui pubblicato un estratto dalla cronaca integrale del festival riguardo all’introduzione che  Laura Boella – professoressa di Filosofia morale presso l’Università degli Studi di Milano – ha dedicato a La Persona e il Sacro: «I passaggi all’impersonale ci indicano variazioni minimali, infinitesimali, che non cambiano il mondo, ma sono punti di contatto, spiragli aperti da cogliere.»]

La Persona e il sacro, scritto da Simone Weil all’inizio del 1943, è stato presentato da Laura Boella nella sua critica al concetto di persona attraverso la riflessione sulla sacralità dell’impersonale, della singola donna e del singolo uomo. «Ciò che è sacro, lungi dall’essere la persona, è quello che in un essere umano è impersonale», scrive Weil. Boella ha insistito sul carattere anticipatore degli scritti della filosofa e sullo sforzo costruttivo di un nuovo pensiero (questo negli anni Trenta del secolo scorso). Weil non fece in tempo a vivere i buchi neri dei lager nazisti, ma la sua scelta di sperimentare il lavoro operaio la fece riflettere su di un mondo in decadenza (gli operai erano facili prede della propaganda nazista, favorevole alla guerra).

L’impersonale di Weil, che rappresenta la sua esperienza di vita e di pensiero, è una cifra che va contro l’atmosfera filosofica del tempo -costituita dal personalismo cattolico francese-. Il piano del bene è quello dell’impersonale. Weil  si interroga sull’umano e all’interno del suo scritto si può individuare un contrasto fra umano, sacro e persona. Impersonale è ciò che è anonimo ed è insieme verità, bellezza e imperfezione che scavano nell’animo umano. Le categorie “personale” e “impersonale” stanno su binari diversi e paralleli, ma tra di loro si toccano. Boella, nella sua ricostruzione del pensiero weiliano, ha indicato dei punti importanti, che hanno la capacità di orientare all’interno del saggio: la critica della compassione naturale (che porta dall’io al noi) e i fragili passaggi all’impersonale.Lo stesso incipit del saggio è fondamentale. Subito si pone un lui, un egli che implora: “non farmi del male”. Ma questo non si risolve nella compassione. Il riconoscimento del valore dell’altro non può risiedere unicamente nel suo corpo.

Weil ha condotto delle forti obiezioni alla filosofia della persona: per lei l’inumano sta all’interno dell’umano medesimo ed è l’atroce. In una lettera al padre, la pensatrice chiese di essere perdonata per la compassione che provava verso gli altri, una compassione istintiva (in questo Weil ha subito l’influenza del pensiero di Rousseau) e imperdonabile perché convinta di risolvere i mali del mondo con una risposta automatica. Nella sofferenza fisica c’è qualcosa di più; il dolore (maleur) e la sventura possiedono una forza di contagio verso chi li prova.

Boella sottolinea il rigore implacabile di Simone Weil, che nella sua vita e nel suo pensiero filosofico ha rappresentato una figura nel cui contatto si gioca tutto: Priamo, cioè il punto zero dell’umano. Nel Diario di fabbrica Weil racconta gli incidenti sul lavoro: è il modo in cui il capitalismo entra nel corpo (es. una lamiera sul braccio). Attraverso il dolore vi è un contatto con l’ingiustizia: esattamente in questo sta il sacro dell’umano, che è un momento di massima vulnerabilità. Proprio l’anonimato di queste figure porta all’universalità dell’umano (si veda il saggio La prima radice).

Il pensiero presentato dalla filosofa francese è molto radicale, ma sicuramente rilancia il vincolo tra etica-politica e ideale. La verità, allora, coincide con il senso di realtà e non con le dinamiche retoriche o consolatorie: per questo, ha esortato Boella in conclusione, i partiti politici dovrebbero occuparsi di aprire lo spazio ai grandi problemi anziché limitarsi all’ordinaria amministrazione. I passaggi all’impersonale ci indicano variazioni minimali, infinitesimali, che non cambiano il mondo, ma sono punti di contatto, spiragli aperti da cogliere.

 

 

 

Femminismi da leggere

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di Jamila Mascat

 

 

Quasi dieci anni, fa con Sabrina Marchetti, Vincenza Perilli e qualche dozzina di donne-compagne-studiose, ci siamo imbarcate nell’impresa di complilare un dizionario critico del lessico femminista intitolato, per l’appunto, Femministe a parole.  Si trattava, in realtà, di un dizionario critico che chiamava a raccolta una lunga serie di parole femministe “aggrovigliate” e controverse, da qui il sottotitolo: grovigli da districare. Un volume sfacciatamente fucsia con un titolo poco serio, che regolarmente prestava il fianco a due tipi di critiche, diametralmente opposte e entrambe legittime, che possono essere riassunte con “manca x, y, z” e “c’è di tutto di più”. Da un lato si notavano le assenze ingiustificate e, dall’altro, si rimproverava al libro un eccesso di ecumenismo e la deriva verso un  femminismo-per-tutti-i-gusti. Per alcuni versi, mi pareva allora (e mi pare tuttora) che un’impresa del genere – per come era stata pensata fin dall’inizio, a partire dalla forma prescelta a vocazione enciclopedica, il dizionario – sarebbe stata sempre suscettibile di essere considerata troppo inclusiva e troppo escludente, sebbene, per altri versi invece, il libro sia stato letto e apprezzato precisamente per la sua utilità parziale. Ovvero, precisamente perché, tra il poco e il troppo, c’era qualcosa e quel qualcosa rifletteva lo stato dall’arte delle preoccupazioni, delle passioni e delle urgenze del momento che attraversavano il dibattito femminista in Italia, rivisitandole a partire dal punto di vista, solo relativamente disomogeneo, di 44 femministe pensanti. A distanza di qualche anno, quell’operazione mi pare ancora più chiara nei suoi connotati, proprio a partire dalla lista delle parole prescelte: tante, non tutte, troppe, che tentavano una pluralizzazione dello spettro del dibattito con lo scopo di legittimare temi e problemi che ci pareva avessero, dieci anni fa molto più di oggi, difficoltà a trovare “asilo” nelle fila del movimento femminista in Italia.

Pur non essendo un dizionario, Introduzione ai femminismi (DeriveApprodi, 2019, 108 pp., a cura di Anna Curcio), si presta ad essere letto in modo simile. Non alla ricerca di “che cosa manca” né lamentando il “di tutto po’”, ma all’opposto con lo scopo di cogliere e meditare quel qualcosa che è detto in ciascuno dei saggi che compongono il volume, così come nella raccolta nel suo insieme – insieme che sempre eccede la somma delle parti.

Cinque sono le “tappe della critica femminista del Novecento” ricostruite in questa Introduzione ai femminismi, seguite in appendice da un sesto saggio di Lorenza Perini – “Appunti per una cronologia dei diritti” – che sviluppa una storia ragionata dei diritti delle donne in Italia. Ripercorrendo sinteticamente le battaglie del secolo scorso – dal diritto di voto alle donne (1945) alla legge contro la violenza sessuale (1996) che riconosce finalmente il reato contro la persona, passando per la legge Anselmi sulla parità di trattamento sul lavoro (1977), e le leggi sul divorzio (1970) e sull’aborto (1978) –questa breve genealogia legislativa ricorda anche che sulle conquiste del passato incombe sempre una minaccia di revoca – da cui la necessità di non smettere di lottare per difenderle, in nome di quella “parità dei diritti nella differenza dei corpi” che si profila come l’orizzonte contemporaneo delle rivendicazioni giuridiche in campo femminista (p.91).

Procedendo a ritroso, al sesto capitolo segue il quinto, intitolato “Femminismo (e) queer. Per una critica dell’eterosessualità”. La e tra parentesi non è un vezzo, come spiega l’autore Federico Zappino, ma un indice delle asimmetrie della relazione in campo: “che il queer emerga in seno al femminismo non significa infatti che tutto il femminismo concordi con le teorizzazioni queer, né che ogni posizione che si definisce queer possa anche legittimamente definirsi femminista” (p.73).

Lungo la trama della critica dell’eterosessualità presentata da Zappino, che ne rintraccia giustamente le origini nei testi di Ti-Grace Atkinson, G. Hocquenghem, C. Lonzi, M. Mieli, A. Rich nel corso degli anni Settanta, ovvero ben prima dell’emergenza della teoria queer in campo accademico vent’anni dopo con T. de Lauretis, J. Butler et E. K. Sedgwick, un ruolo di primo piano spetta a Monique Wittig e al suo lesbismo-materialista. Per Zappino, infatti, è proprio l’opera di Wittig – The Straight Mind (1978), One is Not Born a Woman (1981) – quella che meglio permette di elaborare una critica dell’istituzione eterosessuale attraverso il prisma dei rapporti patriarcali, prisma che ci consente di individuare ancora una relazione asimmetrica: quella tra l’uomo eterosessuale e la donna eterosessuale. E di asimmetria in asimmetria, seguendo Wittig, si arriva anche alla relazione, di nuovo tutta asimmetrica, che sussiste tra le donne eterosessuali e “le lesbiche che non sono donne”. Perciò, a cominciare da questa reiterabile catena di asimmetrie, si tratta di ripartire, secondo Zappino, da Wittig – dalla sua definizione dell’eterosessualità come “sistema sociale che si fonda sull’oppressione delle donne” – [e di tutte le minoranze di genere e sessuali] – da parte degli uomini” – verso e oltre Wittig, ovvero verso il rifiuto dell’eterosessualità per mezzo di un separatismo queer radicale.

Il quarto e il terzo capitolo, rispettivamente il “Femminismo materialista” di Sara Garbagnoli e “Il pensiero della differenza sessuale” di Federica Giardini, raccontano due immaginari distinti e rivaleggianti germogliati all’interno di una storia coeva. Da una parte l’“ethos femminista radicale nelle sue pretese e prospettive e esigentissimo quanto al suo coinvolgimento in prima persona”, restituito nel contributo di Giardini: ethos che s’esprime nella postura relazionale della differenza, sovvertimento del simbolico e “taglio sistemico” contro l’uguaglianza, che serve a smarcarsi del tutto dalle costrizioni dell’inclusione (pp. 44-47). Dall’altra la rivoluzione epistemologica delle femministe materialiste francesi (C. Delphy, M. Wittig, N.-C. Mathieu, C. Guillaumin, insieme all italiana P. Tabet), che gravitano intorno alla rivista Questions Féministes, contro la naturalizzazione dell’ordine sessuale e delle differenze tradizionalmente ritenute “somatiche”, rivoluzione da cui, scrive Guillaumin, “nasce il sapere che nulla avviene che non sia storia” (p. 63).

Procedere parallelamente a cavallo tra le due storie per opposizione sarebbe un’esercizio di inutile equilibrismo intellettuale destinato a risolvere le antitesi in un’altalena dei concetti tra linguaggi dissonanti – schierando il simbolico contro il sociale, la sessuazione contro il sexage e poi ancora l’etica della relazione contro l’epistemologia antinaturalista.

Se abbandoniamo invece la lettura comparata dei due saggi per concentrarci sull’originalità di ciascuno ritroviamo, nel percorso tracciato da F. Giardini attraverso il campo della differenza sessuale, la valorizzazione delle pratiche tentate e inventate collettivamente nella consapevolezza che “la generazione di un’alternativa all’ordine patriarcale è impresa sperimentale, relazionale, materiale e linguistica insieme”, affare di corpi sessuati, e in quanto tali espressivi e desideranti (p. 48). Di queste stesse pratiche femministe – come il separatismo, l’autocoscienza, il partire da sé – Giardini rintraccia al presente evoluzioni e ricadute per concludere, da un lato sulla possibilità di salvaguardare la relazione come principio di costituzione della soggettività, e dall’altro sulla necessità di “rilanciare l’idea che la differenza – una differenza che articola desiderio, corpo, capacità di significazione, ordini discorsivi e organizzazione sociale – sia un operatore che agisce sempre e di nuovo per il disciplinamento o per il conflitto e la trasformazione” (pp.55-56).

Alla passione teorica antinaturalista che investe il femminismo materialista francese è dedicato il contributo di Sara Garbagnoli, in cui spiccano, e con ragione, il nome di Colette Guillaumin e le sue ricerche pionieristiche dedicate all’indagine del razzismo e dei processi di razzizzazione. Dimostrando la comune matrice ideologica che presiede alla genesi dei gruppi di sesso e di razza, Guillaumin elabora “un paradigma interpretativo che fa del razzismo e del sessismo due sistemi di oppressione articolati e non sovrapponibili” (p. 68), ma anche mutevoli e alterabili in funzioni di diversi contesti storici e geografici. Se quindi, comme suggerisce Nicole-Claude Mathieu, “l’anatomia è politica”, la differenza anatomica che cessa di interrogarsi sulle sue condizioni di produzione non può che assurgere a fonte di stigma, differenza imposta a scopo d’inferiorizzazione, strumento repressivo e non ribelle. Ciononostante, il contributo di Garbagnoli termina su una nota di segno opposto – ovvero sottolineando che “i processi di designazione non funzionano solo come operatori di verdetti sessuali e razziali” (p. 72) per concludere con Wittig e l’invito a concepire parole, categorie e definizioni come “luoghi d’azione” risignificabili.

Il secondo capitolo ricostruisce l’avventura del Femminismo Nero nordamericano. Marie Moïse ne propone un affresco complesso che affonda le sue radici nella storia tutta diasporica della tratta e delle piantagioni, quella storia in cui, come sottolinea Hortense Spillers, da un lato la deumanizzazione dei corpi in condizione di schiavitù passa per una privazione del genere e, dall’altro, il destino delle donne schiave  le costringe a subire un’assegnazione coercitiva alla funzione sessuale del lavoro riproduttivo. Nate e cresciute tra stupri e sfruttamento, le schiave Nere hanno elaborato da sempre strategie di resistenza, attraverso la fuga e il sabotaggio, o anche attraverso l’aborto e l’omicidio, talvolta vissuti e sperimentati come armi nella lotta per la sopravvivenza. Sulla scia di queste esperienze il femminismo Nero medita la fragilità della vita e l’urgenza della lotta, se è vero che come scrive Audre Lorde “che non era previsto che noi sopravvivessimo”. Moïse illustra le specificità di una tradizione femminista – da Sojourner Truth a bell hooks, da Harriet Tubman a Kimberlé Crenshaw – che ha sempre dovuto combattere duramente e su più fronti per esistere: contro le violente caricature della femminilità nera, contro il razzismo e la discrminazione, contro il patriarcato bianco e contro quello nero, contro il femminismo bianco e contro l’etnicizzazione dello sfruttamento sul lavoro. Valorizzando “le radici marxiste del discorso” che alimentano nelle lotte delle donne nere l’aspirazione a una trasformazione radicale della società capitalistica (p.32) – è il caso in particolare di Angela Davis e del Combahee River Collective – il contributo si sofferma a tematizzare le maggiori conquiste teorico-pratiche che sono maturate all’interno di questo tortuoso percorso: dal ripensamento della famiglia e delle relazioni di parentela alla critica della bianchezza; dal vantaggio epistemico dell’outsider within per comprendere gli ingranaggi della dominazione (Patricia Hill Collins) alla teoria dell’intersezionalità; per concludere, infine, sulla “centralità strategica delle coalizioni”, della solidarietà e delle politiche delle alleanze che abitano l’immaginario delle lotte condotte dalle femministe nere contro l’oppressione, e che rimandano a quell’imperativo di sopravvivenza che caratterizza il femminismo Black fin dalle origini.

Il primo capitolo, elaborato da Anna Curcio e intitolato “Il femminismo marxista della rottura”, ricostruisce quell’“incontro proficuo e critico” tra femminismo e marxismo che si sviluppa a partire degli anni Settanta, in Italia e non solo (p. 9). Protagonista di questo incontro è un nutrito gruppo di femministe, le cui riflessioni sono ritornate in auge ormai da diversi anni, tra le quali S. Federici, M. Dalla Costa, L. Fortunati, S. James, A. Del Re e ancora tante altre coinvolte nei gruppi di Lotta femminista e della campagna internazionale Wages for Housework. Quali sono allora le “rotture” prodotte all’epoca dall’emergenza di questo nuovo paradigma femminista? Curcio sottolinea in primo luogo la presa di distanza dal marxismo, anche nella sua versione operaista, una presa di distanza sui generis che spinge Marx “oltre le strette griglie del marxismo” per inscrivere nella sfera del lavoro riproduttivo un nucleo di produzione del valore (p.16). Al tempo stesso però riconosce i tanti punti di contatto che il “femminismo marxista della rottura” stabilisce con esponenti del marxismo eretico ed eterodosso, quali C.L.R. James e Frantz Fanon, o ancora l’esperienza di “Socialisme ou barbarie”.  La molteplicità delle battaglie e delle rivendicazioni che avvolgono la campagna per il salario al lavoro domestico – il rifiuto degli stereotipi di genere, la riduzione della giornata lavorativa, i diritti riproduttivi e l’assistenza del welfare – testimoniano della vitalità politica contenuta in quella leva teorica che riannodando le fila di produzione e riproduzione, riesce  a “mette[re] al centro le donne e i neri razzializzati, rimasti fuori dalla classe perché estranei al rapporto salariale” (p.15). Eppure, l’operazione condotta dal “femminismo marxista della rottura” appare oggi all’autrice più valida sul piano del metodo e della pratica teorico-politica, come “una bussola per orientarci nell’analisi della nuova funzione sociale svolta dalla riproduzione e dal salario”, che sul piano concreto delle lotte, dove l’organizzazione del lavoro riproduttivo fa i conti con tanti ostacoli, primo fra tutti, scrive Curcio, la difficoltà “a individuare il nemico, ovvero i soggetti che incarnano l’accumulazione del profitto” (pp.23-24).

Alla fine della rassegna, seppure condotta in senso inverso, Introduzione ai femminismi tiene fede al suo dovere etimologico di guidarci con semplicità all’interno di un labirinto teorico complesso da cui non è altrettanto facile uscire. Se non continuando a approfondire le letture femministe.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Le città e il desiderio: Daniel Guebel tra utopia e storia

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di Luigi Marfè

In uno dei suoi racconti più fulminanti, Del rigor en la ciencia (Del rigore nella scienza, 1946), Jorge Luis Borges immagina un impero i cui cartografi si propongono di disegnare la mappa più minuziosa che il mondo abbia visto. Ma ogni volta, al cospetto di quel collegio di saggi, qualunque tavola topografica risulta manchevole e inesatta, tanto da richiederne un’altra, e poi un’altra, e un’altra ancora, finché non ne è realizzata una in scala 1:1, che, una volta srotolata, sovrappone la sua perfezione al mondo, rischiando di soffocarlo, rendendo impossibile ogni consultazione e finendo abbandonata nei deserti dell’Ovest.

Amore e repressione

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Hong Kong 18 novembre 2019 ore 23:12
Hong Kong 18 novembre 2019 ore 23:12

di Alessandro Malaterra 

Hong Kong, 28 Luglio 2019
In memoriam Liu Xiaobo

Zhao ed io siamo scappati dai lacrimogeni tirati su Des Voeux Road. Era la prima volta per entrambi. Un manifestante mi ha visto mentre mi sciacquavo gli occhi in un bagno pubblico e mi ha dato del tè freddo. Usa questo, mi ha detto. E’ meglio dell’acqua. Aveva ragione. Mi ha lasciato la bottiglia ed è andato ad affrontare la polizia. Avrà pensato che sono un pivello. Prima correvamo con gli altri, ora la situazione è più tranquilla e stiamo camminando. I poliziotti avanzano poco a poco, a strappi. Tirano i lacrimogeni per disperdere i manifestanti, poi caricano. Picchiano e arrestano quelli che resistono. I manifestanti si muovono in tutte le direzioni: alcuni vanno ad affrontare i poliziotti, o portano ombrelli, caschi, bevande, materiali per il primo soccorso; altri si ritirano, come Zhao ed io, verso il centro di Hong Kong.
Come stai, chiedo a Zhao. Sta bene. Solo arrabbiata.
Andiamo a Chater Garden, dico. Lì la manifestazione è autorizzata e forse ci lasceranno in pace.
Zhao è d’accordo. L’ho dovuta portare via dalle barricate quasi a forza. D’altronde, questa è la sua battaglia molto più della mia.

Un manifesto appeso durante la marcia del 29 settembre per protestare contro la graduale assimilazione di Hong Kong al sistema del resto della Cina

Il ragazzo era in una strada della sterminata periferia di Pechino, indistinguibile da migliaia di altre. La contornano palazzoni lunghi e stretti, di cemento scolorito, anche questi tutti uguali per un occhio distratto. Il ragazzo camminava svelto e contava a ogni palazzo che si lasciava alle spalle da quando aveva imboccato la via, cinque, sei, sette… Arrivato al nono si fermò e si mise a guardare. Non si era mai spinto fino a lì, così lontano dal campus dell’Università di Pechino, e la vista di quell’edificio anonimo e sgradevole, insieme a tutti gli avvenimenti degli ultimi giorni, gli lasciò un senso di angoscia. Un vecchio usciva in quel momento dal portone. Il ragazzo ebbe un ultimo istante di indecisione, dovuto più al pudore che alla mancanza di coraggio, poi si affrettò a reggere la porta, per evitare che si chiudesse dietro le spalle del vecchio, ed entrò.
Già conosceva il piano, così prese a salire le scale senza nemmeno guardarsi intorno. Gli ascensori bastavano a terrorizzarlo, claustrofobico com’era; si chiese quanto avrebbe resistito nel vivere l’incubo di una piccola cella. Ricominciò a contare: uno, due… Era stato un altro studente dell’Università di Pechino a sussurrargli l’indirizzo. Gliene era grato: nel clima di quei giorni persino un’informazione innocente come quella poteva costare caro. Una traccia esile come il fumo di una sigaretta, ma era la sua unica speranza di capire. Tre, quattro, cinque… Una delle tante domande a cui cercava una risposta, ammesso che ci fosse, era perché non l’avessero ancora preso. Aveva marciato con gli altri nel campus, era andato con loro a lavorare nelle fabbriche, in supporto di quegli operai diffidenti e gelosi, aveva provato senza troppa convinzione a parlargli di Marx, quello vero oltre le balle che gli avevano propinato a scuola, quello che il Partito aveva tradito. Sei, Sette…
Il fato aveva stabilito che si trovasse a Vancouver quando erano entrati nell’università a prenderli tutti. Era stata la sua salvezza, ma anche la sua ignominia, non essere lì: lì a lottare a fianco dei suoi compagni, a lottare per lei… otto, sbuffò ormai senza fiato, ma non si fermò. Aveva letto la notizia sul New York Times, di nascosto per non farsi vedere dagli altri studenti che erano stati invitati come lui a Vancouver per quella conferenza inutile. Non si era permesso di sperare allora, non se lo doveva permettere adesso – la sola cosa che voleva era capire.
Quando era tornato al campus e non aveva trovato nessuno dei suoi si era sentito il cuore in gola. Malgrado si fosse ripromesso di non sperare, per un attimo aveva sperato. Come un bicchiere di cristallo schiacciato da un carro armato, quella speranza diafana era andata in frantumi alla vista delle stanze vuote che avevano ospitato i suoi amici. Non aveva osato chiedere, del resto nessuno avrebbe parlato. Solo nella sua stanza, evitato da tutti i conoscenti alla stregua di un appestato, si era abbandonato finalmente al pianto.
Nove, dieci, undici… Ma perché non l’avevano ancora preso? Forse era per la risonanza internazionale che aveva avuto l’arresto illegale degli altri studenti marxisti che avevano osato schierarsi con gli operai. O forse nessuno dei suoi compagni arrestati e – qui sentì un nodo alla bocca dello stomaco – torturati aveva fatto il suo nome. Ma nemmeno il loro eroismo avrebbe potuto salvarlo: in ogni caso, la polizia doveva già aver ricostruito suoi rapporti con gli altri dalle comunicazioni elettroniche, dalle testimonianze dei sicofanti. Forse era per il premio che aveva ricevuto a Vancouver, per il potenziale interessamento dell’università canadese? Scosse la testa. Tutto quello non aveva più importanza, ora che anche lei era stata portata via. Dodici. Si fermò e riprese fiato. Come una madre che ha perso un figlio in un incidente aereo cerca un’ultima testimonianza, per quanto povera, nella scatola nera, così la sua unica speranza di afferrare qualche frammento rimasto di quelle vite forse già spezzate era dietro a quel portone.

 


Mi sistemo la maschera sul viso. E’ quasi sera, ma l’afa di luglio a Hong Kong non lascia scampo. Tengo la maschera solo sulla bocca, per poter respirare almeno con il naso. Porto la maschera non tanto per non farmi riconoscere ma per mostrare il mio supporto alla causa. Siamo quasi arrivati a Chater Garden. Da lì potremmo andare verso Soho e poi a casa mia. Invece continuiamo a camminare per Queen’s Road, tra le boutique di lusso.
Hanno lasciato i vestiti nelle vetrine, osserva Zhao. Io dico, fossero stati i gilet gialli a Parigi avrebbero spaccato tutto.
Siamo a Chater Garden. Quello che non capisco, dico a Zhao, è perché la comunità cinese all’estero non faccia sentire la sua voce.
Quelli che riescono a emigrare, dice lei, non si preoccupano più della Cina. Altri sono addirittura patriottici. Molti hanno parenti indietro in Cina, e il regime si vendicherebbe su di loro. Quindi stanno zitti.
Io dico, è questo quello che non capisco. Durante il fascismo italiano c’era una comunità di oppositori all’estero. Stampavano e distribuivano opuscoli, facilitavano la fuga dall’Italia dei perseguitati dal regime. Neanche per loro era facile. Alcuni hanno pagato con la vita. Il regime è riuscito ad assassinarli perfino all’estero, a Parigi.
Non è la stessa cosa, dice lei. Ha ragione. Sto applicando categorie italiane a un contesto alieno. Eppure scuoto la testa, non riesco a credere che quelle categorie non valgano ovunque.

Manifesto appeso durante la marcia del 29 settembre per chiedere libertà per Hong Kong, lo Xinjiang e la Cina intera

La porta era guardata da un cancello di metallo. Lo studente suonò il campanello e attese. La porta si aprì per pochi centimetri, e la vecchia lo guardò di sbieco da lì dietro, attraverso le inferriate.
Mi riconosci, disse il ragazzo. Più che una domanda era una constatazione. La vecchia non rispose.
Fammi entrare.
L’ultima volta che l’aveva vista, la vecchia davanti a lui era solo l’inserviente che faceva le pulizie nel suo dormitorio. Una lavoratrice oppressa come tante altre, era tutto ciò che aveva pensato di lei. Ora era lui a pregarla di salvarlo, per qualche istante, dall’oppressione. In silenzio, solo con gli occhi, la pregava. La vecchia aprì del tutto la porta e poi il cancello. Il ragazzo si precipitò dentro prima che potesse ripensarci e quasi la travolse. La vecchia si scansò e gli indicò un tavolo con un gesto brusco. Il ragazzo si tolse le scarpe e andò a sedersi, mentre la vecchia sparì in un’altra stanza. Il ragazzo sentì gridare al di là del muro, un’altra voce di vecchia. Parlavano un dialetto di campagna che lui non capiva. Il piccolo salotto era povero ma pulito, la piccola soddisfazione di una vita passata a nettare le case degli altri.

 


Un gruppo di ragazzi e ragazze vestiti di nero corrono in direzione degli scontri tenendo alte alcune bandiere americane.
Andiamo anche noi, dico a Zhao. Mi segue senza esitazione. Rifacciamo al contrario la strada che abbiamo fatto prima. Stavolta la polizia deve essere molto più vicina. Camminiamo insieme ai manifestanti vestiti di nero. Alcuni sono equipaggiati per gli scontri: portano caschi e maschere antigas, hanno avvolto le braccia in una pellicola trasparente per proteggersi dagli spray urticanti. Ci sono sia ragazzi che ragazze. Sembrano tutti molto giovani. I ragazzi sono alti e magri; le ragazze, magre anche loro, hanno l’aria di pesare meno di quaranta chili. Tra di loro c’è chi porta dei tubi di ferro. Ma la maggioranza, come noi, è lì senza equipaggiamento, per opporre alla polizia nient’altro che la resistenza pacifica dei loro corpi.
Davvero anche io sono lì per resistere? Non posso farmi arrestare, penso. Ho un lavoro da cui sarei licenziato; una posizione sociale da difendere. Ho troppo da perdere per lottare. Consiste forse in questo l’essere borghesi? Posso andarmene da Hong Kong quando voglio. Nell’Italia fascista, sarei stato dalla parte degli oppositori o degli ignavi?
Inalo il gas e mi metto a tossire, a lacrimare. Sento una botta di adrenalina, è il mio corpo che crede di soffocare. Scappiamo insieme per una via laterale, Zhao ed io. Rivolgo ai poliziotti delle ridicole parolacce in Italiano, anche se non mi possono sentire e non capirebbero, né gli importerebbe.
Zhao dice, non credevo fossero così vicini. Hanno sgombrato la strada in fretta.
Massaggio gli occhi con la mano. La via lungo cui siamo scappati sale verso Soho. Da lì possiamo raggiungere casa mia in pochi minuti.
Andiamo a casa, dico.
Camminiamo insieme, in silenzio. In un’osteria ci sono alcuni manifestanti vestiti di nero, fuggiti anche loro dagli scontri. Ragazzi del liceo o forse dell’università: malgrado tutto, scherzano tra loro.
Zhao parla della sua esperienza di cinese continentale immigrata a Hong Kong. Dice che tra i suoi compagni di università si va formando una frattura tra chi supporta le ragioni dei manifestanti e chi invece vuole restarne fuori, o addirittura è più o meno d’accordo con Pechino. Una sua amica è sull’orlo del divorzio, perché il marito le ha intimato di smetterla di schierarsi a favore dei manifestanti.
Dice, è difficile per noi. Gli abitanti di Hong Kong ci vedono come dei robot senza cervello. Pensano che il Partito Comunista abbia fatto a tutti il lavaggio del cervello. Sono apertamente razzisti.
Non credevo, dico io.
Zhao dice, sono stupidi. Non capiscono che dovremmo unirci. Che combattiamo la stessa battaglia contro lo stesso nemico. Solo se la Cina diventa più aperta, più democratica, Hong Kong potrà salvarsi.
Zhao inizia a piangere.
Dice, ma ormai non spero più che le cose migliorino. Il regime ha vinto.
L’abbraccio. Dice, non ho più speranza.
Siamo in una strada secondaria vicino a Hollywood Road. E’ tranquillo qui. Possiamo restare abbracciati alcuni minuti. Le asciugo le lacrime con la manica, le faccio bere un po’ d’acqua.
Ti amo, le dico.

Manifesto appeso durante la marcia del 29 settembre per chiedere libertà per Hong Kong e per tutta la Cina

La vecchia tornò con un bricco di tè e una tazza. Si sedette, riempì la tazza fino all’orlo e la spinse verso il ragazzo.
Grazie.
La vecchia non rispose. Sembrò volersi alzare di nuovo, poi ci ripensò e riprese a guardare lo studente di traverso. Lui non si scompose. Più per pudore che per sprezzo, andò dritto al punto.
Tu c’eri.
La vecchia rimase impassibile.
Tu c’eri quando li hanno presi. Tu c’eri.
Sì, c’ero, rispose, in un Mandarino con un pesante accento.
Come è successo?
La vecchia aprì la bocca come per rispondere, poi la richiuse e lo guardò dura, quasi la sua domanda l’avesse offesa.
Il ragazzo lasciò perdere. Non aveva più importanza oramai.
Chiese, quando infine trovò il coraggio: e lei?
La vecchia fece finta di non aver sentito. Il ragazzo ripeté la domanda, impaziente.
Hanno preso anche lei?
Chi?
Il ragazzo si alzò in piedi di scatto, facendo cadere la sedia dietro di lui. Sbatté forte un pugno sul tavolo e rovesciò il tè sul pavimento.
Sai benissimo chi! Gridò. La mia ragazza!
La vecchia prese a salmodiare maledizioni nel suo dialetto, in un tono a metà tra grida e litania. L’altra vecchia apparve da dietro la porta, attirata dal baccano, e si aggiunse a quella lagna. Si assomigliavano in ogni dettaglio, considerò il ragazzo; dai vestiti alla postura gobba ai tratti del viso. Un’altra inserviente, pensò.
Rispondi! Gridò di nuovo.
La vecchia continuò a maledirlo come se parlasse da sola, poi si fermò per un attimo. Disse solo una parola in Mandarino: sì. Poi ricominciò con la sua nenia. Senza dire altro, il ragazzo si diresse verso la porta, si rinfilò le scarpe e uscì. Dietro di lui sentiva l’ininterrotto borbottare delle due vecchie. Non avrebbe sopportato di restare in quella casa per un altro istante.

 


Un giorno, dico, il regime crollerà. Nessuno a Praga negli anni ’50 si sarebbe aspettato che quaranta anni dopo sarebbe caduto il muro. E a quel punto potremo chiedere conto ai servi del Partito Comunista di tutte le porcate che hanno fatto, da Tienanmen in poi. E chissà perché mi viene in mente di mettermi a recitare, in Italiano,

Loro puntarono qui i fucili carichi
e ordinarono l’aspro sterminio;
loro trovarono qui un popolo che cantava,
un popolo per dovere e per amore riunito,
e la bambina magra cadde con la sua bandiera,
e il giovane sorridente rotolò accanto a lei ferito,
e lo stupore del popolo vide cadere i morti
con furia e con dolore.
Allora, nel sito
dove caddero gli assassinati,
si abbassarono le bandiere per bagnarsi di sangue
e per alzarsi di nuovo di fronte agli assassini.
Per questi morti, i nostri morti,
chiedo castigo.

Eccetera eccetera. Traduco la poesia di Neruda in Inglese per Zhao. Le parlo dei regimi sudamericani, dei desaparecidos. Ancora una volta, mi rifugio nelle mie categorie.

Il ragazzo uscì. Avrebbe dovuto andare a sinistra per tornare alla metro. Invece decise di andare nella direzione opposta, per quella via che non conosceva, uguale a tante altre. La libertà di andare in una direzione piuttosto che un’altra era l’unica che gli restava, e ancora per poco. Per gioco, per esercitare la mente nella libertà di una fantasticheria infantile, si mise di nuovo a contare i palazzi, uno, due… Forse, pensò, avrebbe potuto prendere il treno e nascondersi in campagna dai nonni, a seicento chilometri da Pechino; ma sapeva che era anche quello un gioco, una fantasia. Sei, sette… Era arrivato a undici quando si rese conto di essere seguito. Non si stupì, ma ebbe paura.

Camminiamo lungo Hollywood Road e siamo quasi a casa. Qui le facce iniziano a cambiare, si iniziano a vedere per lo più ragazzi occidentali. Alcuni escono dalla palestra dove vado anche io. Di manifestanti vestiti di nero se ne vedono pochi in giro, quasi nessuno si è spinto fino a qui su. Prendo il braccio a Zhao, andiamo lenti fianco a fianco. Da un locale esce una ragazza che mi sembra di conoscere, la guardo meglio: è lei. Distolgo lo sguardo ma è troppo tardi. Cazzo, mi ha visto. Mi impietrisco.

Sedici, diciassette… ancora contava i palazzi, ormai non riusciva più a smettere. Si guardò indietro: erano tre poliziotti, uno in borghese. Allungò il passo e quelli accelerarono a loro volta. Non ci sono dubbi, si disse, anche se aveva capito già da prima. Si mise a correre e i poliziotti lo inseguirono. Ventisette, ventotto. Vide una donna che entrava in un portone e corse dietro di lei. Afferrò la maniglia della porta prima che questa si chiudesse ed entrò. La donna lo guardò per un paio di secondi, senza che il suo viso formasse alcuna espressione, poi entrò nell’ascensore e chiuse la porta. Il ragazzo salì a piedi. Ora contava i gradini: non aveva avuto il tempo di vedere il palazzo da fuori, ma doveva essere come gli altri; alto trenta o quaranta piani. Non correva. Sapeva di non avere abbastanza fiato per correre fino in cima, e non sarebbe servito a niente comunque. Perse il conto dei gradini e abbandonò quello stupido gioco. Poi, si fermò. Trattenne il respiro, in ascolto. Sentiva il rimbombare di dei passi pesanti; dovevano calzare degli stivali. La situazione era allo stesso tempo paurosa e ridicola. Non sapendo che altro fare, riprese a salire.

Zhao mi guarda con aria interrogativa mentre resto lì impalato e l’altra ragazza, Jessica, mi viene incontro. Quasi corre, mi abbraccia e mi stampa un bacio al lato delle labbra, giusto perché faccio appena in tempo a scansare la testa. Prego che la mia faccia terrorizzata la porti a capire la situazione, che c’è lì Zhao, ma Jessica non sembra cogliere, forse fa apposta. Ma un bacio non me lo dai, dice. Poi mi chiede, ma allora per domenica è confermato. Balbetto qualcosa, ormai il danno è fatto. Zhao ha capito tutto, è senza parole, si incammina a grandi passi nella direzione che stavamo percorrendo prima. Provo a comportarmi come se tutto questo fosse naturale, dico a Jessica sì certo a bassa voce; Zhao è già ad alcuni metri di distanza, spero che non mi senta. Mi accomiato da Jessica e quasi corro dietro a Zhao. Lei si volta per un istante, mi vede arrivare, subito si rigira e riprende a camminare più velocemente di prima. L’affianco. Era un’amica le dico, una collega. Il passo veloce e la paura mi fanno venire il fiatone. Sbuffo. Con l’afa che c’è a Hong Kong sono sudato da fare schifo. Provo a prendere il braccio di Zhao come avevo fatto prima. Si libera con uno strattone, poi mi da una spinta con entrambe le mani e mi fa quasi perdere l’equilibrio. Vai via!, grida con quanta voce abbia in corpo, e poi corre via. Nella strada si sono girati tutti. Io resto lì, immobile, a guardarla andare via giù per Hollywood Road.

Le scale si arrestarono di fronte a una porta chiusa che doveva portare al terrazzo. Era l’ultimo piano. Provò ad aprire la porta, senza successo. Provò a forzarla con le mani, a spallate. Allora pestò a tutte le porte del piano, in successione. Solo da dietro una delle porte sentì dei rumori, ma nessuno rispose. Riprese fiato, il sudore che gli colava dai capelli fino al viso e gli bruciava gli occhi. Si calmò e si mise ad ascoltare. Il rumore dei passi era a malapena udibile, ma diventava pian piano più forte. I poliziotti non avevano fretta. Sapevano che non sarebbe andato da nessuna parte. A lui non restava che attenderli, senza più speranza.

 

Operette entomologiche

4

di Tommaso Lisa

Dorcus Parallelepipedus

AUTORITRATTO DA ENTOMOLOGO

È un giorno di fine estate, uno di quelli in cui inizia già a far fresco verso sera e le foglie sugli alberi, stremate dall’arsura dell’agosto, preannunciano l’abscissione autunnale. Sono tornato da poco dalla fiera entomologica che si tiene ogni anno. Non ho potuto fare a meno di andarci poiché è un luogo dove si possono incontrare altri studiosi, scienziati o appassionati, acquistare libri specialistici e osservare insetti meravigliosi, anche vivi. Tuttavia detesto i mercati, ogni luogo dove molte persone si radunano per mettere un cartellino col prezzo sopra ogni cosa e per intavolare trattative vantando i pregi delle merci esposte. Nella luce del tardo pomeriggio mi ritrarrei forse proprio nella maniera in cui Hermann Hesse descrisse il pittore Hermann Lautenschlager in un racconto del 1917 intitolato In una cittadina.

Ho il volto abbronzato, camicia bianca dal colletto aperto e una giacca a righe blu un poco impolverata quando, entrando nello studio dove ho affastellato disordinatamente libri e reperti, analizzo quanto ho acquistato o scambiato. Rigiro davanti agli occhi, preparati sui cartellini o confezionati in buste chiuse col cellophane, quei pochi coleotteri secchi che ho reputato interessanti per le mie ricerche, esaminandoli e comparandoli con quelli già custoditi nelle teche. Intorno, ugualmente mescolati tra pinze e spilli, giacciono alcuni tubetti di colori a olio, molte matite e della strumentazione entomologica. Stenditoi per farfalle, un microscopio, una lente d’ingrandimento, un retino. Pile di libri s’accalcano sulla scrivania uno sopra all’altro tanto che ogni volta, per ritrovare un saggio o un estratto, eseguo una specie di scavo archeologico, stratigrafia delle ricerche compiute nei mesi trascorsi. Dal fauna box che contiene scorze di pino e di abete (nel quale alcuni cerambici alternano accoppiamenti a lieti banchetti a base di frutta) si leva un profumo pungente di resina che si sposa con quello dell’acquaragia riposta nell’angolo della stanza, accanto alle tele dipinte. Il mio sguardo s’illumina di una gioia infantile. Il volto distende le rughe impresse dal groviglio dei problemi di lavoro.

Malato d’insetti, folle e fuori dal mondo, detergo il sudore dalla fronte con un fazzoletto rosa e con cautela torno a osservare. Lo sguardo si fa acuto, a metà sospeso tra quello del pittore, dello scrittore e dell’entomologo, con la gioia di poter tornare con me e in me, ogni volta che accedo nello spazio circoscritto dello studio. Ecco la terra incognita e misteriosa dove tutto è magico e splendente, vitale ed entusiasmante! Proprio quando mi escludo dalla vita in questa cellula di meditazione che è il mio mondo, osservando le forme dei gusci lucidi e dorati dei coleotteri e i colori delle ali – ora splendenti, ora vellutate – delle farfalle, mi dimentico di me, entro in una trascendente contemplazione. Questo universo di piccole cose a margine è una nicchia vitale. Il luogo in cui alchemicamente m’incrisalido. Apro i tappi delle flipcap in cui custodisco una minuscola collezione di tarli: ne estraggo alcuni esemplari minuscoli da osservare al microscopio, da fotografare e disegnare in punta di matita. Il tavolo da lavoro è popolato di cartoni con spilli, cuscinetti di cotone, strisce di carta, pinzette, forbicine, bicchieri. Percorro poi in lungo, in largo e in diagonale la stanza, che misura trentasei passi, zigzagando tra gli oggetti. Potrei indugiare sulla descrizione di ciascun insetto e sui ricordi, avviando un vero e proprio viaggio notturno intorno alla camera.

Inebriato dall’aroma dei terpeni comincio quindi a disporre in fila alcuni coleotteri preparati su cartellini, stesi e repertoriati con cura. Ecco una fila di anobidi. Ciascun esemplare ha un nome e racconta una storia, un luogo, delle vicende individuali. Non ho invero alcun intento collezionistico. Mi è estranea l’idea ragionieristica di una sistematica preordinata nella quale, come in una raccolta di francobolli o di monete, gl’insetti devono prendere il loro posto. Non amo l’idea di una collezione di animali uccisi per il gusto del possesso. I pochi esemplari che mi concedo di allineare nelle scatole entomologiche sono testimoni di una ricerca sul campo, di una trama di relazioni con l’ambiente naturale e con me, una indagine di relazioni che proseguo leggendo sui libri e ricercando in rete. Scelgo alcune specie di determinate famiglie, spesso tra le più bizzarre o alle quali sono legato da un’occasione emblematica. Da qui avvio un’indagine, l’analisi antropologica di come queste forme si riflettano nelle mie percezioni.

Lascio immaginare quanto vibri di emozione davanti allo Xylostenus navale, al Bostricus capucinus, a un Diaperis, un Paussus, una pattuglia di Cucujidi tropicali ecc. E poi una scatola con le farfalle, dei Libiteidi, qualche licenide, una Graellsia isabellae e una Bramea. Sono amuleti salvifici nella selva dell’inconscio. “Vago già di cercar dentro e dintorno / la divina foresta spessa e viva”. Dalla mancanza di luce emergono questi esemplari che mi guardano con occhi composti e scintillanti. Senza dubbio sono loro ad osservarmi, benché morti ormai e secchi da tempo. Sono forme strabilianti come fiori, muschi, alberi, foglie, fossili, dei quali portano e sommano il ricordo. Sono l’argine alla dissoluzione del senso, a una sorta di cataclisma esistenziale che è la consapevolezza stessa di stare al mondo. Non so più se la serie di riti e di pulsioni ottiche che metto in atto infatti sia più argine o piuttosto sintomo di un’apocalissi psicopatologica, una crisi della presenza.

Mi pervade però al contempo anche un piacere palpitante simile a quello descritto dallo stesso Herman Hesse, soddisfatto e infantile, per le cose della natura, “il sentimento di essere parte di un tutto e vicino alla creazione, che si può trovare solo nell’amore e nella comprensione della natura”. Dedicherò loro, durante questo tardo Antropocene, uno Zibaldone di riflessioni, una serie di Operette entomologiche. Singole storie compendiate in brevi “ritratti di insetti”.

 

CARABUS GRANULATUS

Ma poi perché tanta morbosa attenzione per un Carabo di piccola taglia, senza riflessi metallici e senza particolare colore? Si dice sia molto comune nelle zone umide, quale igrofilo, e che sotto le cortecce dei tronchi in decomposizione, ai bordi di laghi e di paludi, durante l’inverno si raduni in colonie assai numerose. Perché lo cerco quindi con tanto scrupolo, tanta dedizione, in questo freddo gennaio nei dintorni di Firenze? Sono scarafaggi in fondo, privi di qualsiasi valore commerciale. E – se disturbati nel sonno, cavati dalle tenebre del loro sicuro riparo subcorticolo – si muovono alla luce del sole, sovrabbondanti, con un mulinare di zampette esili e coriacee al contempo che l’occhio profano probabilmente non distinguerebbe neppure da quello delle volgari blatte. E allora perché salto il pranzo pur di andare, oggi, al parco fluviale di Lastra a Signa? Perché, vestito di tutto punto con le scarpe non più lucide che si lordano vieppiù di fango e la cravatta che s’impiglia a tratti tra i rovi, mi sporgo verso le acque torbide della palude? Perché sfido il rischio di scivolare nella melma e mi metto a scortecciare a mani nude un ceppo lordo e viscido, dall’interno del quale escono a getto continuo solo onischi grigi e scolopendre rossastre, sempre più grandi via via che scavo in profondità, senza neanche trovarlo? Di quale altro significato, mi domando, diventa allegoria quest’avventura che metto in atto, sottraendo tempo ai civili costumi, alla ragionevolezza del quotidiano bilancio borghese. Cosa finisco per far significare questa bestia che vive in luoghi tanto lontani dal mio nel tempo e nello spazio. Inseguo forse solo un nome. O, come al solito, un ricordo. Finisce che mi imbatto in qualcosa che a prima vista sembra un’enorme lumaca ributtante ma che mentre sorte rotolando da sotto la corteccia estroflette le zampe e mostra il ventre arancione e luminoso, costellato di piccole chiazze. Apro gli occhi sui suoi già ben spalancati.

È uno splendido tritone.

 

Dorcus

DEPOSITO DI LEGNAME

C’era una volta, vicino al quartiere dove sono nato, una segheria. O forse meglio un deposito di legname. Adesso quell’accumulo eterogeneo di tronchi sfusi, che occupò per diversi anni quelli che avrebbero dovuto essere i parcheggi dei condomini, non esiste più, rimpiazzato da un luccicante showroom in vetro e cemento di articoli da bagno. Ecco che mi rivedo lì a otto anni circa intabarrato nel giubbotto blu scuro, con una sciarpa di lana che provocava qualche prurito sul collo e sulle guance. Sto accompagnando diligentemente, mano nella mano, mio padre, ilare assicuratore e pittore a tempo perso, lungo la discesa asfaltata che porta al piazzale, che allora pareva immenso, ingombro di assi di legni tropicali, impiallacciature, trucioli, frammenti di corteccia.

Lui cercava tavole di massello sulle quali dipingere ad olio i suoi paesaggi toscani, seguendo le naturali venature del legno, lasciate vive a fare da orizzonte o stratificazione di cirrocumuli. Il mondo non era ancora così globalizzato, all’alba degli anni Ottanta e il legno d’ebano evocava luoghi lontani, foreste pluviali e un caldo inimmaginabile, giacché qui l’inverno era ancora rigido. Come ovvio, non esisteva neppure l’idea di “riscaldamento globale”. Mentre lui sceglieva, soppesandole, le possibili superfici pittoriche io speravo di rintracciare, tra la rumenta di trucioli, qualche carcassa di cerambice importato dalle lontane regioni. Sarebbe stata sufficiente un’elitra, un pronoto, qualcosa che testimoniasse l’insetto venuto d’oltremare. Sognavo, durante quelle rare visite che facemmo al deposito, di trovarne anche di vivi e di poterli allevare in terrari – in casa, magari vicino al termosifone.

Ah! Il fascino colonialista dell’esotismo… non supponevo potesse trattarsi di un costrutto culturale, di un pregiudizio eurocentrico. Il centro del mondo era casa mia, la mia famiglia. In una serie di cerchi concentrici, più lontane erano le cose, più erano strane, inusuali, affascinanti. Non sapevo cosa sarebbe accaduto poi, crescendo. E non erano ancor giunti gli insetti alloctoni, importati dal commercio globale nei pallet, nei gerani, nelle palme orientali. Beata ignoranza di tartarughe americane liberate negli stagni, di gamberi infestanti che avrebbero occupato nicchie di artropodi autoctoni, spodestandoli e stravolgendo ecosistemi. Non punteruoli della palma, non curculionidi del fico, non cerambici cinesi. Non ancora. Sognavo, in quel piazzale grigio e squallido, nel freddo pungente dell’inverno fiorentino, le scaglie colorate di Buprestidi scaricati per sbaglio dalle navi cargo al porto, provenienti da terre lontane a seguito di avventurosi viaggi. Sognavo ad occhi aperti come se esistesse davvero un altrove esotico da fantasticare, come se io fossi davvero me stesso e la realtà davvero reale.

Ma quando un sogno infine s’avvera, muta talvolta nel suo contrario. Oppure dissolve alla luce dell’arido vero.

 

IL DIAPERIS DI JÜNGER

Il giorno di Natale del 1942, dopo la messa, senza preoccuparsi delle pattuglie sovietiche che perlustravano comunque la regione, lo scrittore ed entomologo tedesco Ernst Jünger andò a caccia d’insetti sul fiume Pšiš, in Caucaso, tra Kutais e Majkop. Si trovava lì, sul fronte orientale, in missione d’ispezione con la Wehrmacht, tra il gelo, il fango e gli scontri armati. Lo immagino incedere vestito di nero, con lunghi stivali e una inquietante uniforme uncinata, passo dopo passo fino a un ceppo marcescente e lì, in solitudine o sotto lo sguardo incredulo dell’attendente, iniziare a scortecciare. L’entomologia, la ricerca e l’osservazione degli insetti, rappresentava uno dei quattro esercizi che quest’intellettuale controverso si era posto per arginare il dolore della guerra alla quale stava suo malgrado partecipando, assieme alla meditazione sulle sacre scritture, alla lettura dei classici e alla frequentazione dei pochi altri spiriti affini all’interno di quel contesto atroce. Ma ecco che per un attimo, nel silenzio del bosco, la storia si sospende. Sotto la corteccia egli trovò un nido popolato da numerosi esemplari di Diaperis boleti, appartenenti alla sottospecie del Caucaso, caratteristica per i femori rossi. Lo constatò quindi, annotandolo con gioia manifesta, sul suo diario.

 

ALLEVAMENTI

Da ragazzo – avrò avuto circa dieci anni – come educazione alle forme della natura allevai farfalle, falene, ma anche insetti stecco e cerambici.

Ogni volta, immancabilmente, qualsiasi insetto si stesse sviluppando nei terrari custoditi nel ripostiglio, col calar delle tenebre, nel silenzio della notte, produceva lo stesso concerto. Era un rodere oscuro, un brusio onomatopeico, un crunch crunch di mandibole, un ruminare ininterrotto di fibre e foglie e poi un tessere di bave, di muchi, di mute e bozzoli, operosissimo, incessante. Nel giro breve di un giorno i bruchi smontavano interi cespi di pianta portati con pazienza a casa da mio padre il giorno prima. Sfrascava, il pover’uomo, in giacca e cravatta di ritorno dall’ufficio, fermandosi sull’argine del Mugnone o alle Cascine, per il bene della passione del giovane figlio entusiasta che ero allora. Tronchi ridotti in trucioli e poi in polvere. Rami di ligustro spogliati, frasche di rovo rinsecchite.

A volte gli insetti, compiuto il ciclo di sviluppo, giunti all’immagine finale, fottevano, si accoppiavano e riproducevano esponenzialmente ripopolando i terrari. In mancanza di copula alcuni, come gli insetti stecco, si riproducevano per partenogenesi. Le femmine deponevano uova non fecondate ma ugualmente atte a schiudersi. E quel suono orripilante, un ticchettio ininterrotto di mandibole diffuso in casa, nel salotto, pareva di sentirlo in cucina, nel telefono, tra le lenzuola. Mia madre diceva che era impressionante. Incredibile tanta acribia nel divorare, nel consumare. Bontà sua che mi concedeva di tenere quei terrari nauseanti in casa o sul terrazzo! Il fondo delle teche e delle scatole si riempiva infatti ben presto di escrementi non propriamente puzzolenti: emanavano piuttosto una dolce fragranza di foglie marce. Io pensavo che, in quanto insetti, non potevano far altro. Proprio come noi.

Osservo adesso fuori dalla finestra il viale in questa notte d’autunno, intasato dal traffico di macchine e persone, dalla tramvia che transita rullando sul ponte sempre illuminato, dal centro commerciale e dai cinema, dai cantieri per costruire nuove infrastrutture, a ciclo continuo. Perché è naturale accelerare questo ciclo di vita e distruzione, questo perpetuo e incessante rodere la polpa del legno. Vanità sarebbe pensare di opporsi con futili pretesti all’opera di distruzione dell’ecosistema. Cosa avrei imparato quindi dall’entomologia? Dapprima la genuina meraviglia verso le forme e i colori, i mutamenti e le mutazioni, gli stratagemmi mimetici e gli stili di vita. Poi un distacco, una nausea consapevole derivante da una quasi totale identificazione.

Spiegatemi vi prego, prima della fine, perché tanta ostinazione nel tramandare un codice genetico che cambia nel tempo e il caso assembla per spezzoni… Sto per spengere la luce quando mi scopro piegato su me stesso in posizione fetale, mentre prego con tutte le forze di non reincarnarmi più in niente, di essere libero, di non partecipare più a quest’insensata girandola animata dalla volontà del desiderio.

Rhagium

RHAGIUM INQUISITOR

Tra libro e cambio in fogli di volume
Rodono abeti con mascelle forti
Leggeri coribanti, astruse piume.
Le antenne in testa son due fili corti
Attratti a notte dal mio fioco lume
Se per caso li sfioro fanno i morti.
S’accoppiano volanti in mille schiocchi
Raspano al buio e facendo rumore
Si palesa nei loro vispi occhi
Il raggio di uno sguardo inquisitore.

 

LA DRYPTA BLU

Fuggo dal budello di asfalto e cemento di questo quartiere. Dopo cinque chilometri mi lascio alle spalle il groviglio grigio, roboante, segnato da semafori e incroci. Tiro oltre certi tristi giardini condominiali, sterili parchi di quartiere. Il nebbione mattutino del pieno inverno preannuncia comunque una giornata di sole, oltre i tralicci dell’alta tensione. C’è ancora un limite piuttosto evidente, nonostante l’antropizzazione abbia ormai connesso città e borghi in un reticolo ottuso, là dove l’ultimo condominio s’affaccia sui campi e poi, oltre, sull’incolto. Da qui cambia l’aria, varia la temperatura e muta l’umidità.

Non ho ancora ben chiaro verso cosa andrò incontro. Non so se sia una frontiera o piuttosto una sacca residuale, tuttavia mi fermo in una zona paludosa recintata che il Comune rubrica come Parco faunistico (ciò che scampa allo sterminio viene collocato in una riserva). Parcheggio e, spento il motore, cala il silenzio. Con circospezione perlustro l’ecosistema in cerca di qualche Carabo, che tale è lo scopo di questa divagazione mattutina dagli affari di lavoro. Salgo in precario equilibrio su passerelle di tronchi marci caduti nella palude, attento a non scivolare in acqua. Sono vestito in vista del successivo business meeting aziendale in un asettico hotel di dodici piani. So che calpesterò le soffici moquettes con le scarpe lorde di fango. Stringerò mani vergognandomi un poco per le mie unghie nere. Per ora scorteccio facendo leva con la chiave di casa, gratto con i polpastrelli la superficie della legna marcia, tarlata, senza trovare niente. L’azione di scavo provoca cricchi e schiocchi. Pongo la massima attenzione in ogni gesto, ma l’ansia dell’inseguimento è già salita e sta diventando un sottile panico. Prendo di mira quest’insetto, mentre sono inseguito da tempo che scorre, dagli impegni incalzanti. Il tempo scorre nella clessidra e col tempo il denaro.

Qui sorgeva un bosco di piante finché non hanno scavato con ruspe e benne per estrarre la sabbia che è servita per costruire la città. Poi, più o meno quando ero un bambino, decisero di colmare la voragine d’immondizia, inaugurando una discarica. Vent’anni fa infine il luogo è stato ripulito e piantumato un finto bosco planiziale che però, col tempo, sta diventando autentico. Mi aggiro in questo biotopo tra l’artefatto e lo spontaneo, con lo stagno popolato di nutrie e tartarughe, specie alloctone e infestanti. Oche e anatre starnazzano vedendomi tra le ripe. M’aggiro furtivo. Ecco accendersi, sui riflessi torbidi della palude, il demone della caccia, l’alternanza di “catturare” e “nascondere”. Il vertiginoso gioco tra desiderante e desiderato, tra Eros e Nomos, si manifesta in quest’istante, mentre rovisto tra i frammenti di legno.

Salta fuori qualche scolopendra, una miriade di onischi, ma nessun coleottero. Proprio quando, osservando l’orologio, stabilisco che la mia ora è venuta e che devo rientrare nel sistema degli impegni produttivi, ecco che qualcosa splende nell’uniforme grigiore del marcio. La posta in gioco si alza in un piacere assoluto.

Rilancio, come un giocatore incallito e continuo a zappettare ancora un poco, rovistando – stavolta con delle più appropriate pinze – in mezzo all’humus. Affino lo sguardo e come per magia appare una vibrante visione. Sembra tremolare l’aria fattasi improvvisamente più tiepida: è la Drypta blu, o meglio Drypta dentata (Rossi, 1790) che lo scrittore ed entomologo tedesco Ernst Jünger trovò durante la seconda guerra mondiale gettandosi in un terrapieno per sottrarsi ad un mitragliamento aereo. Me lo immagino, con la sua uniforme della Wehrmacht stazzonata, il volto schiacciato nel fango mentre le pallottole del caccia inglese rigano la campagna e il suo occhio spalancato dal terrore che, nel fango, vede apparire la Drypta… Così m’immedesimo e sono io adesso a mettermi carponi in quel fosso a bordo della strada che da Sissonne portava a Parigi, nel 1944. Ogni esperienza è sempre un ritorno.

È un listello verde dorato lungo circa un centimetro, con le zampette rufe. Secondo i cataloghi entomologici il genere Drypta sarebbe ancora piuttosto comune in Italia, tuttavia io non ne vedo una da molti anni. L’afferro tra il pollice e l’indice, attento a non stringere troppo ma con la paura di perderla (una vita senza mancanza, priva di nostalgia per una forma, non ha davvero alcun senso). Riponendola in un piccolo contenitore con i frammenti di terra e legno prelevati in situ, la studierò a casa, da viva, nutrendola con bucce di mela e piccoli pezzi di carne. Immagino che nella stessa zona, sotto le stesse cortecce, riposino colonie di Brachynus, legioni di Lebia, Lamprias, Licinus. Rimetto tutto a posto in questo parco fin troppo ordinato, relitto della grande piana fluviale.

La “mobilitazione totale” della tecnica e della tecnologia avanza, unificando e desertificando il mondo. Non mi vergogno nel dire che ho uno struggimento malinconico, avverto nel petto “una malattia di doloroso bramare”. Vorrei riprodurla infinite volte, questa Drypta, conservare di lei sempre in me la memoria della forma rimpolpando le radici del rigoglio naturale. Scatto foto al luogo dove l’ho trovata, farò un disegno, scriverò un racconto – questo stesso che tu, lettore, stai leggendo – per immortalarla e dargli gloria. Ricordo che la ha scoperta Pietro Rossi, medico e zoologo fiorentino nato nel 1738, amico di Lazzaro Spallanzani, descrivendola nel suo splendido libro Fauna etrusca corredato di tavole a colori. Il paratipo – l’esemplare su cui è stata descritta la specie – si trova ancora oggi al Museo di Scienze Naturali di Milano, in qualche teca custodita in un angusto corridoio occasionalmente illuminato da fredde luci al neon. Cercherò forse un altro esemplare per farli accoppiare, osservare uova e larve (nel web troverò di certo qualcuno che le ha fotografate prima di me: eccole, arrampicarsi sui fili d’erba, simili a stafilini, con due sottili urogonfi come appendici caudali, i margini del ventre colorate d’arancio) ma non ora, non adesso che la legge del dovere mi chiama tra feroci persone dabbene.

Le foglie scricchiano sotto le suole delle scarpe di cuoio. Per un attimo vorrei sparire nel folto, farmi Drypta, albero, fango, pietra, polvere. Forse edificheranno nuovamente anche questa zona, reputata improduttiva, per farci un termovalorizzatore, un aeroporto o un centro commerciale. O forse resterà una riserva recintata, una specie di santuario nel quale nessun umano potrà più entrare. Ma sono sicuro che c’è un altro luogo dove le regole dell’utile e dell’economia non dettano legge, la linea dove mi è dato resistere, ed è la mia interiorità, la parte profonda della mia coscienza. Il posto di questa Drypta è lì, situata nel ricordo, dove la memoria si deposita e si conserva, il posto dove i sentieri, che in superficie sono interrotti, possono ricomporsi. Dove lo spirito resta integro e può rigenerarsi.

 

DORCUS PARALLELEPIPEDUS

Lo ho aperto in due. Senza volere, giuro. Trasversalmente. Ho troncato le elitre e il corpo poco sotto il pronoto, all’attaccatura delle elitre, con un colpo netto di zappa. Anzi, di piccozza. Una vecchia piccozza dal manico corto di legno, reso lucido dall’uso nel secolo scorso. Chissà a chi è appartenuta, in passato. Comunque. Prestavo la massima attenzione, picchiettando nel legno marcio, a non ferire, a non rompere, a non uccidere. E invece è bastata poca pressione. Le elitre nere recise di netto. E dentro un liquido bianco e lattiginoso. Denso. Si chiama emolinfa. È finito così, troncato in due, e disperso in mezzo ai trucioli e alla rosura del vecchio tronco marcio quel Dorcus che dormiva d’inverno chiuso nella celletta di svernamento, in un bosco spoglio. Forse, se non avessi avuto la vista da entomologo non lo avrei neppure riconosciuto, legno nel legno, confuso tra materia viva e essenza morta in un inestricabile groviglio. Dove finisce la sua forma irredimibile mi domando, adesso irrimediabilmente spezzata? Appare chiaro come fosse un individuo anche lui, seppure uno dei moltissimi, comuni Dorcus parallelepipedus presenti nel bosco.

Adesso siedo, mi son lasciato cadere su un sasso e osservo una radice contorta di castagno alla stessa maniera in cui la deve aver osservata Roquentin nella Nausea di Sartre. Il morto dovrebbe fornire una giustificazione al vivente. Provo disgusto per aver sparso questa emolinfa biancastra, per aver infranto la forma perfetta di tale splendido Lucanide. Uno dei milioni, forse, uno dei tanti che vengono quotidianamente mangiati dai picchi, dagli uccelli, che periscono al primo passare di una ruspa o di un decespugliatore. Uno di quelli che insomma non vengono neppure visti, che per i più non hanno neppure un nome. Ma per me lo ha avuto, un nome, nell’esatto istante in cui ho visto, ho percepito la sua forma, prima integra, unitaria, poi scissa da quel colpo di zappa, anzi di piccozza. Una piccozza da muratore o giardiniere, appartenuta forse al mio bisnonno. Il tronco acefalo di questo lucanide è l’esistenza stessa che si rivela. Le elitre rotte e quel liquido denso e bianco, lattiginoso, colare sulle muffe e le spore, nel legno marcio del quale la larva si era fino a pochi giorni prima alacremente nutrita.

 

TENEBRIO MOLITOR

Era una scatola trasparente di plastica che aveva contenuto cioccolatini e che riempimmo quasi per gioco, io e mio padre, d’un pastone composto da pane raffermo e briciole. Nel giro breve di pochi giorni le farine iniziarono a sgretolarsi, coprendosi di fragranti muffe leggere. Emanava, tale scatola che tenevamo sullo scaffale del suo studio (a quell’epoca ancora prevalentemente di pittura) un odore di molino di campagna, uno stantio quanto arcaico profumo compatto e polveroso di cantina che andava a mescolarsi con quello dei colori e delle vernici, dell’essenza volatile di trementina e dell’olio di lino. L’ambiente era comunque secco, la temperatura costante intorno ai 23 gradi, sebbene di certo fosse inverno. V’introducemmo alcune larve di Tenebrio molitor Linnaeus 1758, lunghe forse poco più di un centimetro – che non ricordo assolutamente da dove provenissero, se da un negozio di caccia e pesca o piuttosto da uno di cibo per animali – il “bacherozzo panettiere”, lo scarafaggio del pane, nei secoli scorsi flagello delle madie e delle dispense. Proliferarono in breve tempo fino a saturare ogni spazio, quelle larve rigide e filiformi, di color ambrato via via sempre più scure, muta dopo muta, sempre più paffute, trasformandosi in pupe e poi in adulti ben presto accoppiati in furibondi coiti forieri di subite uova precipitosamente schiuse in nuove esili larve chiare, tra le carcasse nere o brune degli adulti già morti. Che venivano a loro volta divorati. Ne iniziarono a nascere poi alcuni orrendamente fallati, con le elitre rabberciate e contorte, segno forse che anche la genetica si stava ribellando a quell’insensato allevamento massivo. Rimpolpammo le provviste con farine, pasta e biscotti scaduti, rigenerando forsennatamente i cicli riproduttivi. Il pane bianco ingialliva, come pure le larve, ingiallivano. Proliferando muta dopo muta fu così che il divertissement iniziò a pesare… Stasera sono venuto a sapere, documentandomi qua e là in rete, che oltre ad alimento per gli umani – tritate in farine per snack energetici super proteici – queste larve vengono usate come cavie per cavarne fuori un qualche nuovo carburante. Ma allora tali tenebrionidi, sporcaccioni e in malafede, stavano mostrando ai miei occhi di bambino, con ogni evidenza, solo tutta la loro volgare, spregevole e reiterata necessità di esistere al mondo.

Da un giorno all’altro la scatola e il suo contenuto, letteralmente, scomparvero.

 

LICENIDI O DELLA GRAZIA

Sono rimasto ammaliato dalla grazia minuta dei Licenidi fin dall’infanzia. Proprio come un amante geloso della propria ninfa ancora oggi posso dire che queste farfalle mi vivono dentro, che sono mie. Solo mie. Sono loro che battono le ali tra il cuore e lo stomaco ogni volta che mi emoziono, che aprono e chiudono le mie palpebre. Mi rifiuto di credere che chiunque sulla faccia della terra possa aver provato la mia stessa emozione e lo stesso amore vivo, palpitante, verso la Licena rossa, la stupefacente Lycaena phlaeas Linneo, 1761. Si tratta di un amore esclusivo. Ammettere che anche altri possano aver visto queste forme con la stessa intensità con cui lo ho fatto io, se non maggiore, mina il fondamento della mia soggettività. Di ogni soggettività. Che infatti è in fin dei conti arbitraria. Eppure, a differenza di altri entomologi che hanno elevato questo attaccamento al rango di professione socialmente riconosciuta, non ho dedicato la mia esistenza a inseguirne le specie e a decifrarne i misteri.  Questo è per me talvolta ancora oggi un cruccio, un amaro rammarico. Ma quale è il fascino delle farfalle, se non la loro imponderabile evanescenza? Se le avessi trattate con ottuso attaccamento, perseguendone nel tempo le identità come se si trattasse di meri oggetti, materia vile, non avrei compiuto un gesto ancora più assurdo del disinteressarmene, apparentemente, per lunghi periodi? Osservo i riflessi scuri come stoviglie etrusche sui bordi alari che s’accendono d’un rosso vibrante più della lacca al centro dell’ala, con dei bottoni scuri, macule di piccoli occhi bordati di giallo Napoli chiaro su superfici seppiate nella parte inferiore, bordata da una peluria sottile e pettinata come di un tappeto persiano.

Nessun valore può essere barattato per quello, apparentemente gratuito, che mostra la Callophyris rubi (Linneo, 1758) sulla superficie ventrale quando ogni anno in primavera la scorgo sugli steli d’erba a margine dei roveti muovendo le ali posteriori, strusciandole circolarmente in un invito trepidante, mentre mostra all’universo mondo il verde acceso con delle lievi corrosioni di un bianco matto condensate in due minuscoli puntini. La sua larva matura verde e paffuta, la pupa ovoidale e pelosetta, di un bel colore terra di Siena bruciata. Altri Licenidi sono azzurrati del colore del cielo, coi bordi bianchi candidi più delle nuvole e leggeri come l’odore del vento. In nome di cosa affannarsi quotidianamente se è sufficiente osservarli posarsi in prossimità degli scopeti nei giorni di sole, stagliarsi sullo sfondo delle mosse colline toscane? Se anche a qualcun altro è capitato tutto ciò, non è come a me, non con la stessa intensità. Non con queste parole. Vige un tacito accordo tra noi, tra me e i Licenidi, per cui io non sono più io ma sono loro, in una immedesimazione totale, una trasmigrazione, una transustanziazione di me in loro per oscura metempsicosi della psiche.

 

ANTHAXIA PASSERINII

Con forti colpi d’ascia apro il tronco di un cipresso morto, vicino a casa. Dentro vi trovo svariati stupendi e sfavillanti esemplari di Anthaxia passerinii, buprestide di medie dimensioni, circa 8 millimetri, descritto dall’entomologo Pecchioli nel 1837 su individui raccolti a Firenze. Sono incastonati nell’alburno duro e chiaro, incapsulati nelle cellette di muta. L’operazione estrattiva, in assenza di pinze, richiede una pazienza arcaica, quasi ancestrale. Uso quindi delle schegge, aguzzando la vista. Mi par d’essere un picchio verde, o meglio un bonobo, circonfuso dall’aroma pepato dell’essenza di questo legno. Una volta sgusciati fuori, come semi metallici, rimango letteralmente abbagliato dalla loro smagliante livrea verde, blu e rossa.

Disegni di Tommaso Lisa.

Storia con cane

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di Andrea Inglese

Entrano distruggendo cose e, sul più bello, tra la nevrastenia di tutti, vittime sdraiate e carnefici in piedi sugli sgabelli, alla fine anche il cane prende la parola, comincia il suo discorso con un tossicchiare assorto, passa in rassegna alcuni slogan introduttivi, quello dei limoni-giallo-oro commuove anche gli imprenditori edili,

Do you remember Sanremo?

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Il fantastico queer di Achille Lauro: uno sguardo sul pubblico

di

Olga Campofreda

 

La sera della finale di Sanremo ho riunito un mucchio di amici con la scusa del mio compleanno e ho sistemato il mio laptop ben visibile davanti al divano e alle sedie. La verità è che adoro da matti guardare il festival da quando sono a Londra, con persone che non conoscono la cultura italiana o che la conoscono dall’esterno, con più o meno stereotipi, ma sempre con uno sguardo nuovo, che solletica la mia italianità più scontata. Senza neanche troppe discussioni siamo stati tutti d’accordo, alla fine, sul fatto che ad Achille Lauro andasse conferito il premio come miglior performer: quello che avrebbe meglio rappresentato l’Italia all’Eurovision, spettacolare come Renato Zero o David Bowie, provocatore come Madonna, istrionico come Lady Gaga o Beyoncé, perfino. Certamente non un’avanguardia mondiale, ci siamo detti, ma quantomeno Lauro ha aperto la finestra della sua stanza e ha respirato un po’ i tempi che corrono. Sì, ma dove?

È stato solo dopo qualche giorno dalla chiusura del festival che mi sono resa conto che esiste ancora un posto dove un artista come Lauro – nonostate tutti i precedenti – possa essere non capito, violentemente criticato e deriso. Quel posto purtroppo è l’Italia.

Sull’elemento dello spettacolare in Lauro già si è detto molto e piuttosto bene nell’articolo di Daniele Cassandro su Internazionale, che ha parlato di un artista abile a non lasciarsi usare dalla televisione, usando lo schermo per mostrare “lo spettro delle possibilità”, della fluidità di genere, della queerness. La bellezza di questa performance, aiutata certamente dai costumi di scena di un genio della moda quale Alessandro Michele, ha tuttavia fatto sì che la nostra attenzione, catturata dal palco, non badasse più di tanto alle reazioni di chi, con noi, stava a guardare.

Sanremo non è stato tanto rappresentativo dell’Italia di oggi negli artisti che ha presentato alla kermesse, quanto nel pubblico che quella kermesse ha commentato sui social e nei bar. Quelli che “Lauro ha anticipato il carnevale”, quelli che “capisco la performance, ma la vita privata tienila per te”, quelli che “è il festival della musica e non dovrebbe esserci altro”. Inizialmente pensavo fosse una questione generazionale, e sarebbe stato forse ancora (benché poco) giustificabile. Mi ero perfino stupita di come, proprio la generazione dei sessantenni, già esposta al linguaggio di Bowie, del glam rock, di Madonna, etc, avesse ancora tale candore da riuscire a scandalizzarsi per i quattro minuti sul palco dell’Ariston. Tuttavia non si tratta della solita messinscena dei boomer contro millennials o gen z. Mi sono trovata a discutere sull’argomento via facebook anche con miei coetanei che ugualmente attaccavano l’ex trapper come artista e relativa simbologia della performance.

Il discorso su Lauro mi ha aperto gli occhi su quanto il gesto di questo artista abbia avuto senso nell’Italia di oggi. L’Italia dell’eteronormatività che attacca quando si sente attaccata dall’altro da sé, ovvero quando altri modi di stare al mondo in quanto individuo si rendono palesi e semplicemente dicono “io esisto”. L’Italia che viene costretta a farsi delle domande su questioni che si erano date per scontate, quali le strutture piccoloborghesi nelle quali le nostre vite sono inserite e dalle quali sono regolate (trovati un lavoro, sposati, fai una famiglia, fai figli anche se non te li puoi permettere che tanto Dio ci pensa, dunque vai in chiesa). Vedo una similarità incredibile tra le dinamiche innescate dal queer e la definizione di fantastico data da Todorov in letteratura. Il fantastico, dice il narratologo, dura poco più di un’esitazione: quando non riesci a spiegarti un fenomeno ma poi arrivi a collegarlo a leggi razionali (strano) o a forze soprannaturali (meraviglioso). Il queer suscita scandalo perché dura molto più che un’esitazione; genera frustrazione in chi lo guarda, non lo capisce e si sente oltraggiato dalla sfacciataggine di queste identità che non aspirano affatto ad essere incluse, accettate o giustificate. La cultura eteronormativa non sa e non può spiegarsi il concetto di binarismo di genere con il proprio linguaggio familiare e strutturato, con il proprio senso finalistico votato al culto del bambino. La frustrazione genera rigetto, rifiuto. Incomunicabilità ben rappresentata dai fischi: il rumore di chi dissente ma non sa argomentare.

Più che per la sua performance Lauro va ricordato per le reazioni che ha suscitato nel pubblico italiano, per averci mostrato che c’è ancora molto lavoro da fare culturalmente e umanamente, nel mondo dello spettacolo e fuori. È in questo contesto allora che la sua performance a Sanremo si trasforma in un’affermazione politica, in un gesto impegnato: “Me ne frego” significa anche che cercare l’integrazione è l’ultimo degli obiettivi, perché integrato significa sempre di più omologato e suscitare scandalo pubblicamente e con gioia, proprio come nei migliori Pride, potrà forse servire a far cadere qualcuno dalla poltrona mostrandogli quanto grande e differente appaia la stanza dal pavimento.

Internauti – day four day five day six (the end?)

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di Francesco Forlani & Andrea Inglese

[Forse è finita bene, la quarantena, sani e salvi, e – speriamo! – pagati anche per i giorni di assenza imposti. Un ultimo bollettino sulla nostra condizione mentale, quindi.]