Home Blog Pagina 110

Shelter in place (l’Italia in una stanza)

9

di Sara Marinelli

Nove ore di fuso non sono niente.
Se dormo di giorno e sto sveglia di notte, sono in sincronia perfetta. Con lei. Con l’Italia, dove non vivo più da 13 anni, e che ora vive dentro la mia stanza.
Nelle settimane di distanziamento sociale, nel confino del mio appartamento, la città fuori — San Francisco — si dissolve, se ne sta sospesa dietro la porta di casa. E se la città fuori per molti giorni non esiste e non mi staglia davanti le sue strade, le sue insegne, e la sua gente, ricordandomi dove sono, la geografia pure scompare, e nel tempo capovolto, posso vivermi il sogno e l’incubo di essere in Italia, adesso, nei giorni della pandemia e del dolore. La mia stanza non ha più pareti, ma non ha alberi infiniti come dice la canzone — di quelli ne abbiamo più che mai bisogno — piuttosto squarci di vicoli e strade, piazze e balconi, chiese e gradini, sanpietrini e mare, che si aprono nitidi e chiari davanti a me in ogni dormiveglia, in ogni visione, quasi da poterli odorare.

Mots-clés__S.P.Q.R.

0
ITALY. Rome. 2005.

S.P.Q.R.
di Luigi Di Cicco

This Heat, S.P.Q.R. -> play

___

ph. Martin Parr, dalla serie “Tutta Roma”, 2005

___

James Joyce – Lettera al fratello Stanislaus
(25 settembre 1906. Da Lettere, a cura di G. Melchiori, Mondadori, 1974)

Caro Stannie, […] ieri sono andato a vedere il Foro. Mi sono seduto su una panca di pietra con una veduta delle rovine. C’era il sole e faceva caldo. Carrozze cariche di turisti, venditori di cartoline, venditori di medagliette, venditori di fotografie. Ero così commosso che mi sono quasi addormentato e mi sono dovuto riscuotere bruscamente. Ho osservato con desiderio la panca di pietra ma era troppo dura e l’erbetta vicino al Colosseo era troppo lontana. Così me ne sono tornato tristemente a casa. Roma mi fa pensare a un uomo che si mantenga col mostrare ai viaggiatori il cadavere di sua nonna.

___

[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. Ogni prima domenica del mese, Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]

E fu sera e fu mattina

2

di Maria Luisa Venuta

Questa notte ho sognato. Sono ad un incrocio qui vicino a casa a parlare insieme con Marta, un’amica di Lucca. È sera, racconta di un tipo che si è trasferito qui e abita in un appartamento talmente umido da averlo soprannominato “la laguna”. E dice “vado in laguna” invece che dire “vado a baita” come fanno i bresciani. E ridendo mi guardo in giro, siamo in tanti e parliamo e beviamo birra e bicchieri di pirlo e di vino e mi dico che è una sensazione strana, che forse c’è qualcosa di strano e una voce sussurra “ma è un assembramento e siamo tutti senza mascherine”.

Mi sveglio di colpo, pensando a dove diavolo si sia infilato il covid19 nel mio inconscio. Ecco, sogno di notte di uscire e che tutto sia finito e di tornare a dire cazzate in mezzo alla gente del quartiere del Carmine in centro a Brescia.

Noi stiamo bene. Due settimane fa avrei scritto che l’aria è pulita, si sentono gli uccellini al mattino ed è piacevole questa sospensione del tempo e che con Jacopo facciamo qualche compito e il resto è un po’ inventato, mentre Youssef continua a lavorare dalle 8 alle 16 in un’agenzia bancaria e esce con mascherina, guanti e rientra un po’ silenzioso, lava tutto in lavatrice e la tensione c’è, ma si stempera via.

Poi qualcosa è cambiato.

Per amor di parabola. Appunti su Marcello Barlocco

0

                   

di Andrea Balietti

 

 

Altezza



Un uomo si ritrova in uno spiazzo a picco sul mare, prende un sasso e lo lancia giù dal dirupo. L’immagine della parabola tracciata dal volo gli appare così seducente da persistere nella sua mente come un’ossessione, trasformando quel suo gesto in un bisogno, in una fame che sarà saziata soltanto gettando il padre e, infine, se stesso.

La spontanea appetenza che si impossessa del protagonista di questa storia, e che troppo facilmente definiremmo sadica, sembra battere con estrema esattezza e rigore il ritmo crescente di questo breve racconto dal titolo “L’amante di parabole”, ma si direbbe essere altresì la forza che agita la narrazione stessa, il motore che fomenta la vorace scrittura di Marcello Barlocco.

Proprio come nella vicenda della parabola, anche in altri racconti di questo autore qualcosa viene ucciso, ferito o, quantomeno, perduto: potrà trattarsi di un occhio o di un piede, di un cucuruomo o di un urugallo, di denaro, della vita o della sanità mentale, ma assisteremo pur sempre a un sacrificio.

Negli antichi riti pagani esseri e beni venivano immolati per attivare riconnessioni con la dimensione del sacro; negli scritti di Barlocco, da considerarsi anch’essi veri e propri riti, si sacrifica per amor di una parabola, intesa come mero e limpido luogo geometrico. Ebbene: non c’è alcuna differenza. In entrambi i casi ciò che viene a determinarsi è una “dimensione altra di separazione, dimensione dell’eterogeneo che si sottrae a quella dell’ordinario, al mondo del calcolo e dell’equivalenza, a quel mondo dell’omogeneo che il soggetto ordina per la propria conservazione e per il proprio utile.” (M.Mauss)

È inoltre inevitabile notare come l’accezione di episodio biblico della parola “parabola” salta in mente non appena constatiamo la presenza di un padre, un figlio e un’altura in cui il primo attenta alla vita dell’altro; sia ben chiaro però che qui non è Abramo a uccidere Isacco ma viceversa, e non perché un dio lo ha chiesto, bensì per puro piacere. Così, una volta ammirato il povero padre trasformarsi in “meravigliosa parabola diafana, canuta, zoppa, vibrante di terrore”, ci troviamo davanti alla più poetica delle chiusure che il protagonista (Barlocco) poteva regalarci: “Subito dopo al colmo dell’eccitazione mi lanciai anch’io, felice ed insieme maledetta parabola di me stesso, andai a schiacciarmi nel tubo di una fogna a pelo sotto il mare”. È nello schianto che l’orgasmo culmina per svelarci che la sete di morte altro non era che esigenza estrema di vita e che, “in questa rivelazione, il volgersi ostinato della brama della vita verso la morte (così come essa si dà in ogni forma di gioco e di sogno) non appare più come un bisogno di annientamento, ma come una pura brama di essere io, poiché la morte, ovvero il vuoto, non è che il terreno sul quale si innalza infinitamente – nel suo stesso venir meno – un dominio dell’io che è da rappresentarsi come una vertigine” (G.Bataille). La stessa vertigine che ci assale nel corso del racconto e ci accompagna per tutto il libro, senza mai riconsegnarci, però, allo spazio fertile e indefinito del mare aperto, sempre condannandoci, piuttosto, al definitivo, abortifero incastro di una fogna in superficie.

                                           

     
     Superficie

 

 

“Il consenso assoluto a cui è costretto il sognatore gli impedisce di riconoscere il sogno come sogno se non nell’istante in cui si desta. Mentre sogna, lo considera necessariamente realtà. Questa situazione definisce, così mi sembra, l’essenza del problema. La coscienza ingenua non se lo pone, perché crede del tutto naturale e legittimo considerare i sogni dal punto di vista della veglia” (R.Caillois)

Roger Caillois, nel suo “L’incertezza dei sogni”, sosteneva che in letteratura il solo in grado di rappresentare un sogno da una prospettiva interna al sogno fosse Franz Kafka: è in questa capacità che trovo l’unico punto di incontro con Barlocco.

Non definiremmo mai i racconti dei due propriamente onirici, sognanti o fantastici, perché nonostante tutte le anomalie e i prodigi messi in scena, attingono pienamente dagli umori del reale -che in nulla differisce da un sogno quando si sogna-. La narrazione assume i toni banali di ciò che può aver luogo nel quotidiano, e racconti come “L’amante di parabole” iniziano con la sconcertante semplicità di “Un giorno mi trovai…”. In Barlocco tutto avviene in superficie, nella lucida dimensione del visibile, sotto una luce tagliente che tutto spiega e nulla nasconde. Folli pensieri, creature ibride, bio-mutazioni e “fatti inquietanti” sono le sue invenzioni letterarie fatte di carne vera, composte in laboratorio con la perizia di un chimico ed ordinatamente esibite in questa “mostra delle atrocità”, come fece Canterel nel “Locus Solus” di Raymond Roussell (o viceversa).

Come in cima a quella rupe, fatale punto di partenza di ogni parabola, nelle descrizioni di Barlocco “tutto è luminoso […]. Ma niente ci parla del giorno: non vi è né ora né ombra […]. Si ha l’impressione che tutto sia detto, ma che al fondo di questo linguaggio qualcosa taccia. I volti, i movimenti, i gesti, fino ai pensieri, alle abitudini segrete, alle inclinazioni del cuore, sono dati come segni muti su un fondo notturno” (M.Foucault).

 

 

 

Profondità

 


Dalla profonda notte di angoscia che riposa invisibile sotto l’accecante, sporco manto di chiarezza della scrittura, qualcosa emerge costantemente per ferirci in modo multiplo e instancabile.

Risparmiandomi la dolce pena di riaprire quel flagello chiamato “Maldoror” ed evitando di elencare tutte le sottili crudeltà presentate nei racconti di Barlocco, vi dico che solo che in quest’ultimo e in Lautreamont ho trovato tanta inaudita violenza, tanta abnorme ironia, tanta rivolta verso la natura. Sulla base di ciò posso affermare che, nonostante tutta la distanza che indubbiamente separa i due su più fronti, riconosco in Isidore Ducasse l’anima più affine allo scrittore in questione. Una forza sinistra brilla tenace nelle pagine di Marcello Barlocco, come sostanza e segno di una mente inquieta e di una penna mostruosa; ma non è la sola: lo spiazzo in cui nascerà l’amore per le parabole ci viene descritto come “un posto meraviglioso cosparso di strani fiori rossi e azzurri”. Allo stesso modo anche gli altri racconti si misurano con questa componente di fulgore che, senza alcuno scrupolo, voglio definire lisergica.

Tenendo conto di tutti i caratteri più tipici dell’arte e della letteratura psichedelica di sempre, non si farà troppa difficoltà a rintracciare in certe immagini che vengo ad elencare le esperienze allucinogene vissute da Barlocco durante le sue esplorazioni nel mondo psicotropo: un mare di scintille tremolanti, l’iniezione di liquidi, il fiorire di garofani rossi, il piangere di piacere nell’assumere la minestra, la somiglianza tra una gola insaponata e insanguinata e la panna condita con sciroppo di lampone, l’amico tramutato in un essere sostanzialmente elettrico e quello apparso con la testa da cane, la luce emessa dai vermi in punto di morte e il pesce con la coda viola, due teste e quattro occhietti infiammati… tutti frutti di uno stesso grappolo isotopico.  Come dei condimenti di cui non può fare a meno, lo scrittore li inserisce anche dove non dovrebbero stare, come addobbi, luci colorate che balenano dentro ma, di tanto in tanto, escono a tingere lo spazio narrativo -anche il più nero- con lo splendore di un’eruzione stellare.

Le opere che stiamo analizzando sono un sintetico composto di incubo, sangue e ferite,  ma proprio per questo pregne di vita, palpitanti entro un tessuto a un tempo letterario e organico, in cui riconosciamo nitidamente la pelle, il respiro, l’esistenza dell’autore. Pagina dopo pagina troviamo gli indizi per ricomporre il quadro di una vita giocata tra laboratori farmaceutici, nave, manicomio, traffici criminali, nomadismo suburbano e mondo bohème. Negli stessi anni in cui venivano scritti I “Racconti del babbuino” (oggi ripubblicati parzialmente nel libro “Un negro voleva Iole” insieme a straordinari aforismi inediti), un gruppo di scrittori americani componeva i primi meccanismi di quell’ordigno senza precedenti che sarebbe poi esploso con il nome di Beat. Prescindendo dallo stile letterario e da certe distanze che, generalmente, intercorrono inevitabili tra autori americani ed europei, mi ritrovo a fiutare, fra mappe biografiche e comuni dedizioni, una certa somiglianza tra Marcello Barlocco e William Burroughs, lo scrittore con cui Massimo Ferretti (altro caro all’indomabile casa editrice Giometti & Antonello di Macerata) apriva “Il Gazzarra”, romanzo dissennato a sua volta vicinissimo ad almeno un paio di racconti tra questi fin qui trattati.

 

                                                        

Fine

 

Questa breve conclusione consiste nello scampare all’apertura di un altro capitolo che, peraltro, non saprei come intitolare. Lontano dall’idea di aver recensito un libro o aver acclamato un grande scrittore appena riscoperto, preferisco sentirmi colpevolmente coinvolto nell’innesco di un’analisi: l’analisi di come una scrittura possa farsi “felice ed insieme maledetta parabola” di se stessa.

 

 

Citazioni in ordine:

“Saggio sul sacrificio”, M.Mauss
“Sacrifici”, G.Bataille
“L’incertezza dei sogni”, R.Caillois
“Raymond Roussell”, M.Foucault

 

 

Pandemia: Angelo Vannini

0

La possibilità di provare ciò che non è possibile provare. Una riflessione sulla situazione presente

 

di Angelo Vannini

 

 

Il quotidiano Il manifesto ha pubblicato ieri (29 marzo 2020) una riflessione di Donatella Di Cesare intitolata Il rischio adesso è la pandemia della mente. L’autrice fa riferimento a un’altra emergenza che dovremo presto affrontare, e di cui ancora si parla poco, ovvero le conseguenze mentali prodotte dall’isolamento: una «epidemia psichica» di proporzioni imponderabili. A concludere l’intervento è una frase che si distanzia dal registro diagnostico delle parole che la precedono: «Per i neosegregati sarà forse questa la chance per riflettere sulla condizione dei detenuti nelle carceri». A nutrire questo auspicio è la consapevolezza della fenditura che si è prodotta nelle nostre vite, proiettandoci in un’altra area di esistenza, esperienzialmente più vicina a quella della detenzione, sia essa carceraria o domiciliare. Dico «più vicina» perché le due esperienze, l’isolamento sanitario e la pena detentiva, non sono sovrapponibili e non devono essere confuse. Vorrei aggiungere, rispetto a quanto espresso dalla filosofa italiana, che questa potrebbe essere un’opportunità per i cittadini europei di riflettere sulla condizione non solo dei detenuti nelle nostre carceri, ma anche della maggior parte degli abitanti di questo pianeta.

Quello che è cambiato in questi giorni è che i cittadini europei si sono visti catapultare nella polarità opposta rispetto a quella in cui sono abitualmente situati. Mi riferisco alle due polarità secondo cui è governata la circolazione degli esseri umani a livello globale. Il governo della mobilità è operato secondo un modello segregazionista, il quale fa sì che io, cittadino italiano, possa circolare per la maggior parte dei paesi del mondo senza neanche il bisogno di chiedere un visto, mentre ai miei amici e amiche dell’Africa subsahariana questo non è possibile – non solo non è possibile, ma neanche rientra nell’orizzonte di ciò che è immaginabile. Da una parte vi è il diritto pressoché incondizionato di circolazione, riservato solo ad alcuni, e dall’altra l’esclusione da questo privilegio, cui sono condannati gli altri. Questi «altri» sono sottoposti a complesse procedure di immobilizzazione, realizzate attraverso tecniche ora militari e poliziesche ora di tipo burocratico e amministrativo. È lo stesso apparato di tecniche, anche se secondo modalità e finalità diverse, ad essere stato mobilitato per attuare quello che Donatella Di Cesare giustamente chiama arresti domiciliari di massa. Si tratta di procedure che dal punto di vista psichico producono, a vario grado, dissuasione, scoraggiamento e intimidazione.

Servono qui due precisazioni. La prima è che quello che sto dicendo sulla circolazione va inteso non soltanto a livello della mobilità interstatale, ma anche per quanto riguarda l’investimento degli spazi urbani. Magari in questi giorni ci sarà capitato, in uno dei nostri tragitti per andare a fare la spesa o portando fuori il cane, di trovarci in presenza delle forze dell’ordine e di provare un certo malessere. Dubbi del tipo chissà come gli gira se mi controllano. Chissà se ho riempito per bene l’autocertificazione, o stampato la versione giusta. Ebbene questa angoscia non è che un millesimo (e qui posso solo provare a immaginare) di quella che potrebbe avvertire, al passare di una volante, un ragazzo di colore se passeggia nella banlieue di una capitale occidentale.

La seconda precisazione riguarda l’opposizione che ho tratteggiato tra «alcuni» e gli «altri». Come la circolazione cui faccio riferimento non è solo quella internazionale, così gli «altri» non sono semplicemente o soltanto i non-europei. Il dispositivo escludente è molto più articolato: nel mondo in cui abitiamo la possibilità di un pieno sviluppo delle capacità umane è condizionata, e sappiamo bene per quali categorie passa la sfaldatura (classe, sesso, genere, razza, religione, ricchezza, origine, età, lingua, abilità, condizioni di salute, ecc.).

Sto scrivendo queste righe comodamente seduto alla mia scrivania, in un meublé nel ventesimo arrondissement di Parigi. Alcuni amici in questi giorni mi hanno fatto riflettere sull’eventualità di tornare nelle Marche, dove vive la mia famiglia. È dell’altro ieri (28 marzo) un’ordinanza che definisce le nuove modalità del rientro in Italia. Tra queste, è necessaria un’autocertificazione da consegnare al vettore – che si tratti di trasporto aereo, marittimo, ferroviario o terrestre – la quale specifichi il motivo del viaggio, l’indirizzo dell’abitazione in cui verrà effettuato l’isolamento assoluto per un periodo di 14 giorni, il recapito telefonico. I vettori acquisiscono la documentazione e misurano la temperatura dei passeggeri, cui è vietato l’imbarco se sono in stato febbrile. Chiunque faccia ingresso in Italia, anche se asintomatico, è poi sottoposto all’isolamento e alla sorveglianza sanitaria. A questo proposito, è significativo il comma 4 dell’ordinanza, che qui riporto quasi integralmente:

ove dal luogo di sbarco del mezzo di trasporto di linea utilizzato per fare ingresso in Italia non sia possibile per una o più persone raggiungere effettivamente l’abitazione o la dimora indicata alla partenza come luogo di effettuazione del periodo di sorveglianza sanitaria e di isolamento fiduciario, fermo restando l’accertamento da parte dell’Autorità giudiziaria sull’eventuale falsità della dichiarazione resa all’atto dell’imbarco, ai sensi della citata lettera b) del comma 1, l’Autorità sanitaria competente per territorio informa immediatamente la Protezione Civile Regionale che, in coordinamento con il Dipartimento della Protezione civile della Presidenza del Consiglio dei Ministri, determina le modalità e il luogo dove svolgere la sorveglianza sanitaria e l’isolamento fiduciario, con spese a carico esclusivo delle persone sottoposte alla predetta misura.

Se volessi tornare a casa, non esistendo un volo diretto da Parigi ad Ancona, dovrei probabilmente passare per Roma. Che cosa significa non poter raggiungere effettivamente l’abitazione indicata come luogo di isolamento? Di quale fattualità è qui questione? Non riuscire a trovare un taxi che da Fiumicino mi porti a Termini? Il treno da Roma ad Ancona è soppresso? La carta di credito non mi funziona e non ho di che comprare il biglietto? Quali sono gli eventi che possono essere giudicati (e da chi?) come sufficienti a produrre un’impossibilità di fatto di raggiungere (ed entro quanto tempo?) l’abitazione indicata?

È chiaro come opera questo dispositivo: se da una parte produce, come ho già detto, scoraggiamento e intimidazione, dall’altra crea uno spazio di indeterminazione giuridica che permette all’arbitrio degli organi polizieschi di punire individui, che oramai non somigliano più a cittadini ma a sospettati. Detto questo, io so benissimo che rischierei poco o nulla a voler tornare in Italia: perché europeo, perché italiano e perché bianco. Diversamente andrebbe se il mio cognome non suonasse d’origine toscana, ma africana o asiatica, o se il mio viso avesse un pigmento più scuro, o se la copertina del mio passaporto fosse di un altro colore. Ancora una volta, la mia esperienza di immobilizzazione non è neanche lontanamente comparabile a quella che vivono persone in fuga – o che vorrebbero fuggire – da fame, guerra e povertà; ma le procedure che la mettono in atto da un lato afferiscono, pur secondo modalità e finalità diverse, alle stesse tecniche di controllo, e dall’altro producono effetti psichici che, per quanto incomparabili, possono aiutarmi a riflettere sui miei privilegi e a metterli in questione. Aiutarmi cioè ad aprire la possibilità di provare ciò che comunque non mi è possibile provare.

La condizione di disagio che alcuni stanno vivendo è tale soltanto rispetto ai privilegi di cui godevano prima. Sottolineo «alcuni» perché l’impatto del virus sulla nostra società mi sembra essere duplice. Se da un lato le popolazioni europee si trovano ad esperire una condizione cui il loro privilegio le aveva finora mantenute estranee, d’altro lato le misure di emergenza adottate per la gestione della crisi esasperano le ineguaglianze che sono alla base della nostra società.

L’esperienza cui siamo confrontati – e in particolare quella dell’immobilizzazione – può allora diventare un’opportunità per riflettere sulle dinamiche che, contrariamente a ogni idea di giustizia, regolano le condizioni dell’esistenza umana a livello tanto locale quanto planetario. Si parla spesso di Europa in questi giorni. C’è o non c’è? Sopravvivrà oppure no a tutto questo? Non dobbiamo però dimenticare che se c’è un’Europa, quale che essa sia, è soltanto perché ci siamo noi. Se c’è una cosa che questo virus insegna, è che il destino dell’umanità si gioca ormai a livello planetario, in un orizzonte relazionale che va dalla sfera umana a quella ben più ampia del vivente. Se la parola democrazia ha ancora un senso, ogni abitante d’Europa dovrà assumersi la responsabilità, non del proprio giardino come si è fatto finora, ma del proprio posto e ruolo nel mondo in relazione al posto e ruolo di altri. Questo significa che ogni abitante d’Europa si trova di fronte a un bivio, e dovrà scegliere se continuare a collaborare con quelle forze che hanno finora dominato il mondo come lo hanno dominato, oppure se esigere che un altro ordine, fondato su altre basi, venga finalmente, e per davvero, negoziato.

 

Parigi, 30 marzo 2020

 

 

 

 

Polifonia dell’esserci: Bruno di Pietro, Colpa del mare e altri poemetti

0

Di Giuseppe Martella

I.

Colpa del mare di Bruno di Pietro (Oèdipus, 2018), è una composizione in dieci quadri, per cinque voci narranti, su due linee melodiche che spesso si intersecano o talora si corrispondono a distanza per antifone. Fuori dalla metafora musicale, in essa si realizza una continua dialettica di epica, lirica e dramma, in cui domina talora la dimensione speculativa, talaltra quella storico-narrativa o infine quella erotico-elegiaca. Dividerò questa disamina in tre parti e nella prima mi limiterò all’esame delle prime tre sezioni, che costituiscono la cornice ontologica dei percorsi storici e biografici delle sezioni seguenti.

L’elusivo inizio delle cose e delle parole rimane sempre sospeso tra differenza e ripetizione, tra caso e necessità. E’ in questa epoca (epoché) trascendentale che si annidano la colpa e la sua coscienza, la mancanza e la sua ombra, il prolungamento dell’esserci nel mare dell’inconscio (individuale e storico) nel fondo indistinto di tutte le figure. Questa è la colpa originaria: la colpa allo stato fluido, inerente all’inafferrabile principium individuationis. Questo è il peccato d’origine, impeccabilmente enunciato nella prima sezione “Eleatiche”, di Colpa del mare. E insieme all’oggetto del discorso, si profila in questa prima sezione il suo margine di gioco: il teatro dell’azione, nello spazio del testo. Perché è qui, credo, fra l’evocazione di un orizzonte archetipico e la misura formulare o epigrammatica che lo traccia, che sta la cifra del dire (Dichtung) di Bruno Di Pietro, cioè l’orientamento caratteristico della sua ontologia poetica: fra l’ipotesi dell’“indisciplina degli eventi” e la constatazione che “non c’è altra via che del ritorno” (I), cioè fra il presentimento e la definizione di uno stato di cose o per dirla con Hegel fra la Stimmung naturale e la Bestimmung filosofica, dove si svolge l’intera storia dello spirito (Geistgeschichte), qui contratta in uno stile e in una firma, e così sottratta alla volubilità del mare e risolta nelle sue tracce saline: le sapide e abrasive figure della poesia di Bruno di Pietro.

Poiché in questo esordio chiarissimo, in questo perimetro esatto del campo di gioco o theatrum mundi, si manifestano insieme l’intenzione artistica e il rilievo (ritmico, semantico e figurativo) della sua versificazione, val la pena citare per intero: “forse l’indisciplina degli eventi/forse l’incerto dire inesistenti/l’identico la trama la ragione/concedono alle volte un’occasione/ ma com’è disadorno il divenire:/gettati alle correnti senz’appiglio/nei rumori dell’acqua sempre al ciglio/dell’essere del dire del non dire/ cosa accadrebbe poi se il maestrale/venisse a dirti al termine del giorno/che il sentiero in fondo è sempre uguale/e non c’è altra via che del ritorno”. (I) La prima lirica dunque fissa già il prospetto dell’opera, ne costituisce l’abbozzo e il messaggio, la sua fondazione e donazione di senso (Stiftung) nel primo inconfondibile tratto di penna (Stift), se vogliamo trastullarci con un minimo di de-costruzione del testo. Perché qui, nella poesia prismatica di Di Pietro, l’esercizio ora un po’ desueto del close reading risulta proficuo se non indispensabile, per la poesia di Di Pietro che è intrinsecamente esatta e luminosa anche quando evoca l’incertezza dei fatti o il buio dell’anima, poiché riflette la luce intensa di un cielo mediterraneo dove il manifestarsi del reale agli esordi della filosofia aveva le connotazioni di quello stupore e terrore (thaumastòn) che ci consegna all’alterità del mondo. Questa è il concetto greco della verità, in quanto rivelazione abbagliante (alétheia), piuttosto che quello suggerito dalla Licthung di Heidegger, il gioco fatuo di luce ed ombra, il chiaroscuro occiduo di una radura nella foresta nera, l’incanto nibelungico così già perfettamente reso peraltro dalla snervante modulazione wagneriana. E’ proprio questa abbacinante luce mediterranea che attraversa le figure poetiche di Di Pietro, traendole a forza alla superficie, nel momento stesso in rischiano di sprofondare nella nostalgia del non esserci, nella dimensione del ricordo o dell’attesa. Tutto ciò si ritrova nel suo discorso “eleatico”, pieno di paradossi quanto si vuole ma tendente alla luce, alla chiarezza del dire, alla definizione della forma e del gesto – come nella felice congiunzione di sguardo e voce dell’antico rapsodo che, nel suo asciutto stile formulare, sa come prendere e darsi il tempo giusto per trarre gesta e parole dalla memoria, catturare l’attenzione degli astanti e mantenerla viva con la sua sapienza mimica prima ancora che mimetica, con la smorfia istrionesca di chi è pronto a far “bruciare lo stoppino della propria vita alla fiamma misurata del suo racconto” (Benjamin). In questo spazio arcaico, in cui la narrazione in versi precede e fonda la storia, si colloca la poesia di Bruno di Pietro: poesia dell’origine e della luce, eleatica certo, dove forma e contenuto, dettaglio e disegno, segreto e rivelazione si integrano perfettamente nel rauco, andante ostinato di una voce inconfondibile.

Così spianato e misurato il terreno, non sarà poi difficile scorgere le forme del dire e dell’abitare che già vi si profilano. E così infatti nella seconda eleatica il dramma metafisco di cui qui si tratta, prende corpo gradatamente nel passaggio dall’essenza ai fenomeni, in una sorta di apprensione esistenziale che domina anche le cose inanimate: “inclinano all’esistere anche i sassi/…. fra mormorio e silenzio nella cura” (II) Come se da questo conato primordiale, piuttosto che dall’uno di Parmenide, emanasse la intrattabile molteplicità fenomenica, le sue diverse angolazioni e incipienti spigolosità che solo attendono di incarnarsi nel vissuto e di divenire spine nella coscienza, in quel divario sempre aperto come una ferita che è lo spazio tensorio fra sentimento e forma. E quasi si può cogliere con mano, miracolo della poesia, questo clinamen atomico, squisitamente epicureo, per cui sui mattoni della materia già spira un vento primordiale e acosmico che li torce, li svia dalla ortodossia del padre, dall’essere che è uno, dalla visione statica è perfetta di Parmenide, facendoli collidere l’un l’altro, gettandoli nel dramma del divenire e nella corrente della storia, che sarà poi il teatro delle successive sezioni di Colpa del mare. Ma l’incipit qui decide di tutto, apre un mondo possibile con i suoi profili in attesa di riempimento, come in una epoché trascendentale che attenda nel giro dello sguardo il manifestarsi delle cose stesse, sottratte all’abitudine e al pregiudizio.

Si avverte così il trapasso dall’inerte al movimento, dalla pietra all’animale e all’umano: un presentimento drammaticamente vissuto nella materia, perché di un dramma infraumano qui si tratta, squisitamente minimalista, appunto, dove la forma breve e il tema atomico si sposano perfettamente. Nell’attesa della luce del primo mattino, il “chiaro arancio negli ori” e poi i “canti del risveglio responsori” con cui il regno animale dà il suo benvenuto ai cicli cosmici, inserendovisi come primo innocente testimone. Siamo di fronte a un oracolo senza bocca o parola, a un buon auspicio che viene dalle cose, rese da sé stesse effabili, prese, per dirla ancora con Heidegger, nella quadratura di mondo e terra, dei divini e dei mortali, o più sobriamente nello spazio misurato dell’artificio poetico, nella cura delle consonanze e degli stacchi, delle pause e degli accenti, dei ritmi e delle figure, che assorbono il passaggio delle ere nella misura dei versi. Ancora una volta la lettura dell’intera strofa può venirci in aiuto: “inclinano all’esistere anche i sassi/lucidi per il tempo per i passi/che sono consueti sostenere/ inclinano all’esistere le sere/d’estate e il fresco spandersi del timo/c’è un conato di vita nel primo/ mattino nel chiaro arancio negli ori/nei canti del risveglio responsori/fra mormorio e silenzio nella cura/ dell’albero a sfogliarsi per paura/(cospirano le cose a un solo scopo/dirti che non sei aquila ma topo)” (II). Non potremo fermarci certo in seguito sui dettagli come abbiamo fatto finora, ma era importante definire il campo di gioco, le misure del dire, i tagli prospettici di questa genesi miniata e mirabilmente pagana: eleatica appunto.

Una struttura ontologica che si disegna passo a passo, come si diceva, con una progressiva determinazione assai di rado riscontrabile in poesia quanto piuttosto in filosofia: nel procedere misurato di un logos che eracliteamente si consuma producendo un mondo nella molteplicità di spunti, nei meandri della foné che esso stesso genera e che ne costituiscono insieme i vincoli e le opportunità. Calibrato, certo, ma con i suoi scarti strategici e i suoi grumi, le aporie e i nodi, le smagliature e ricuciture di un tessuto fitto, di una rapsodia sempre in fieri. Ci sono qui degli snodi, infatti, che in qualche modo riassumono e rilanciano l’intero sviluppo tematico, fungendo da cornici interne, miniature, firme e paraffi, dell’intero quadro. Come per esempio la mirabile eleatica VIII, dove, “la semplice struttura del reale” ci illude talvolta di essere vicini allo “sciogliersi del nodo”, rivelandosi infine però come ciò che, per gli stessi vincoli del dis/amore cosmico, richiede di rimanere segreto: “il reale si ama se è segreto”. Così le classiche aporie del tempo causticamente si risolvono nella scandalosa clausola della IX: “il passato non passa ma è indecente/che qui non passi nemmeno il presente”. Oppure, nella sapida quartina finale della X e ultima eleatica, dove il tema del fondamento mobile della rappresentazione e la sua metafora marina si incontrano lasciando orme saline nel terreno poroso e infido tra percezione e concetto: “forse infine il nulla è il mare aperto/di cui non sarai mai del tutto esperto/(la via dell’essere è acquitrinosa/al posto del nulla c’è sempre qualcosa).”

Così, evocando l’irrisolvibile complementarità tra l’essere di Parmenide e il divenire di Eraclito, si chiude il disegno nitido delle dieci Eleatiche. Un’esplorazione a cielo aperto delle aporie del reale tenute in forma dalle pieghe del verso, in un rimando continuo, deliberato e puntuale fra parole e cose, in uno scandaglio ritmico preciso delle figure variabili dell’esperienza che affondano nel mare primordiale dell’inconscio, della violenza ottusa dei gesti e delle passioni elementari, dove non si distingue fra agire e patire, dove l’apprendere non è mai disgiunto dal senso di colpa e il sapere è intriso del sapore del primo morso proibito – sia esso alla mela o forse anche alla mano del fratello rivale. Non foss’altro che per questa misura e chiarezza, cioè per il rigore della ricerca poetico-esistenziale qui condotta, mi pare che Eleatiche meriti maggiore attenzione di quanta forse ne abbia ricevuta. Questo testo, nella sua brevità, è infatti mirabilmente conchiuso in sé stesso, benché costituisca nel contempo il vestibolo della più ampia raccolta in cui è venuto a confluire: Colpa del mare e altri poemetti.

Nella seconda sezione, Colpa del mare, il carattere storico gradualmente emerge dalla voce impersonale. Quanto a dire che l’io poetico si incarna in una maschera, che qui è quella del pitagorico Ippaso, annegato per aver rivelato il segreto della scoperta dell’irrazionale nel cuore della matematica, trasgredendo così al divieto del maestro. Con questa rivelazione la mistica dell’esattezza cede il passo alla pratica dell’approssimazione infinitesima, con cui la matematica diverrà nei secoli davvero la cifratura dell’universo. Il dogma della calcolabilità di ogni rapporto fu sconfessato dalla scoperta della incommensurabilità fra l’ipotenusa e il lato del triangolo rettangolo isoscele, sicché l’eretico Ippaso (morto per acqua) appare come uno dei grandi martiri della verità nella storia. Ippaso annega, la verità affiora: nel movimento orizzontale fra dentro e fuori, vicino e lontano, di Eleatiche, si inserisce ora quello verticale di superficie e fondo, e con il delinearsi del primo ritratto parlante, l’ontologia fa luogo alla fenomenologia della storia. Ippaso è qui il tipo del ricercatore universale (matematico, fisico, astronomo, storico), lo scettico e il testimone del vero a rischio della vita: la sua voce si annuncia in questo canto ma già in contrappunto con una voce anonima, di tenore erotico-elegiaco. Si rivela così anche il pattern dialogico che reggerà l’intero poema: fra il tenore storico dominante e quello biografico sotteso. A questo punto possiamo già comprendere che la de-costruzione eretica della civiltà che il poeta ci consegna, non sarà affidata ad un unico ethos, ma quanto meno a un antifonale costante, che presiederà alla composizione dei singoli mottetti in un vero e proprio oratorio, affidato al succedersi dei cinque eteronimi, portavoce del poeta. In questi termini nel contempo il quadro si precisa e si allarga, tanto da poter contenere tutte le varianti dell’antitesi fra inchiesta e confessione che caratterizzeranno i successivi episodi.

Vediamo dunque qualche esempio di questo contrappunto strutturale, a partire dalla VIII stanza, che giustifica il titolo dell’intero poemetto, mettendo a tema esattamente proprio la tensione tra inquisizione e confessione, tra scienza ed eros, tra forma e vita: “Colpa del mare/del pendolare dubbioso/tra il frutteto in rigoglio/e l’orgoglio della scienza.” Ma si consideri anche, a questo proposito, lo squisito aforisma della X: “Ma quale infida ragnatela d’oro/convince api ubriache di dolcezza/a farsi poi partecipi del coro/di unanime condanna dell’ebbrezza.” E infine, il caustico giro di vite autobiografico della XII: “Contro di me ti ho detto/quanto di me sapevo./In tanto scrivo/ bevo.”

Se Eleatiche ha costituito una sorta di prologo in cielo dell’intera quest metastorica, questa seconda sezione eponima del poema, costituisce il primo tempo del suo svolgimento: la storicizzazione dell’ontologia greca antica. Essa segna dunque il passaggio dall’essenza alla manifestazione, dalla metafisica alla fenomenologia e dall’inconscio alla coscienza culturale dell’occidente mediterraneo, mare nostrum, aperto e misurato tra Efeso ed Elea, fra l’Egeo e lo Ionio. Esplorato, vissuto, frequentato e trasfigurato dagli eteronimi dell’io poetico, tutti sempre a rischio di naufragio. Ma ora che nel teatro metafisico fa ingresso la storia, il metro, la rima e le strofe si fanno più irregolari rispetto a Eleatiche, come a volere adeguarsi all’intrattabile varietà degli eventi che sempre eccedono gli schemi precostituiti, riuscendo invariabilmente a sorprenderci. Pare insomma che i versi vogliano mimare ritmicamente la prepotenza delle res gestae che non si lasciano mai ridurre a un’unica versione della historia rerum gestarum, lasciando così aperta l’alternativa poetica. E sull’asse ideale già tracciato, tra Elea ed Efeso, ora appare, quasi per inciso, una svolta verso Eleusi, nell’Attica, luogo di culto di Demetra, la madre terra che custodisce il segreto del rapporto fra essere e divenire, uno e molteplice, e perciò anche il rischio perenne di ogni episteme di risolversi nel misticismo o nel dogma. In questa prospettiva si può allora comprendere il senso oracolare dell’inciso: “Penso Demetra conservi eterno/il dono chiesto prima che la mente/volgesse sguardo e legno a occidente.” (III) Liside, protagonista della terza parte, è anch’egli un pitagorico, (ma di epoca più tarda, il terzo secolo a.c.) che dopo la sconfitta della sua fazione a Crotone, decide di lasciare la scienza e la politica, migrando a Tebe, dove viene iniziato ai misteri di Demetra, in una sorta di contromovimento dall’essoterico all’esoterico e dalla rivelazione al segreto. In questo senso egli costituisce l’inverso speculare di Ippaso, incarnando il ripiegamento della matematica sulla mistica, del pubblico sul privato e della politica sull’etica. Convinto com’è dell’insanabile aporia fra parole e fatti: “Anche il silenzio/fa troppo chiasso./Vi sarà pure un passo/un sasso nel lago/la cruna di un ago (II), e dell’inutilità del martirio perché la storia in fondo è “il racconto del fumo” nelle cui volute la verità si dissolve. Comunque anche questa maschera parlante declina il controcanto tra storia e biografia e tra inchiesta e confessione: “Ho molti peccati…/Ho peccato d’orgoglio…/Ho peccato di superbia/…Ho peccato perché ho creduto/speciale l’uguale/a se stesso sempre uguale.” (III) Qui dunque in particolare si tratta dell’abiura alla propria vocazione matematica, basata sulla fede che ogni fenomeno possa essere rappresentato da funzioni numeriche, perché convinto ora che il confine fra l’opinione e la scienza, “quella ruga che divide/dalla sapienza i molti”, (VI) non possa essere tracciato con certezza. Questo Canto di Liside è una sezione che possiamo definire già “metapoetica”, perché qui la messa a fuoco si sposta decisamente dalla cosa alla persona, cioè alla maschera parlante che disegna l’intreccio degli eventi: un possibile, controfattuale svolgimento della vicenda, nelle sue svariate declinazioni fra autobiografia e storia ideale eterna. Dentro questa polarità, la storia si profila infatti ora come “racconto/del fumo” a partire dalla domanda “dimmi ieri/dov’eri/maestro” che nella finzione dialogica risulta come una eco del “dove sono”. E qui tocca rimarcare il punto di attacco in levare, primo indizio di quella pervasività dell’anacrusi che va dalla anomia del singolo verso, alla ricucitura eccentrica di strofe e poemetti, caratterizzando così l’intero poema. Dove la progressiva varietà della versificazione, rispetto al rigoroso schema iniziale di tre quartine in Eleatiche, pare ripetere lo sviluppo della musica moderna, con l’assorbimento graduale del mottetto nella polifonia dall’ars antiqua alla ars nova, e fin quasi al barocco, tra sacro e profano, tra oratorio e madrigale, in quel modo minore, liminale e obliquo che coinvolge il dettato di Di Pietro e i suoi correlativi oggettivi: cioè l’intera onto-logia del suo verso.

Dopo la quadratura terrestre di Eleatiche e l’anamorfosi marina di Colpa del mare, ora l’orientamento del discorso poetico pare definirsi in una sorta di Aufhebung fenomenologica, dove la requisitoria e la sentenza si eludono a vicenda come il soggetto e la maschera, come il pieno della parola e il cavo della sua risonanza, dando luogo a una implicita dichiarazione di poetica, a uno spaesamento storico esistenziale, geometricamente trattenuto nella minima dismisura dei versi e nel leggero tremito della voce. Cioè nella peculiarità timbrica di componimenti che, in fin dei conti, si possono definire essenzialmente manieristi, nel senso che ricapitolano e rilanciano (fuori tempo e luogo) la tradizione della poesia in versi e rima, così come per esempio Ravel o Stravinskj hanno fatto con la grande musica tonale dell’Ottocento. Se riconsideriamo per esempio la II strofa dal punto di vista formale, possiamo constatare come l’anacrusi si esercita a livello di un intero mottetto: “anche il silenzio/fa troppo chiasso./Vi sarà pure un passo/un sasso nel lago/la cruna di un ago.” (II) Dove l’anomalia metrica del primo verso rafforza l’ossimoro del silenzio chiassoso, mentre l’alternarsi dei pieni e dei vuoti annuncia quell’accumulo di tessere a mosaico che all’improvviso rivelano una nuova figura di questa micro-fenomenologia della storia in versi. Ossimori, aporie, sottili modulazioni e slittamenti (di prospettiva, distanza e voce) fanno di questa sezione una vera e propria messa in scena della poetica dell’autore, rivelando così la sua idea della storia e l’impianto generale della sua indagine, in quello che possiamo chiamare dialogo fra comprimari o dialettica marginale.

II.

La costruzione procede per accumulo di quadri in una serie virtualmente aperta ma inserita in una cornice onto/logica esattamente delineata nelle prime tre sezioni ed eseguita con una versificazione in cui la pervasività dell’anacrusi, cioè delle sillabe fuori battuta a inizio verso, dà all’intero dettato una vocazione “eretica” che ne annuncia i contenuti, prefigurando insieme lo sviluppo dell’intreccio, dei caratteri e delle figure del discorso. Insomma l’eresia si può considerare come l’isotopia portante dell’intero poema: non è un caso infatti che il primo e l’ultimo portavoce dell’autore siano entrambi degli eretici. Se per eresia si intende la messa in questione di una dottrina a partire dai suoi assiomi o dogmi, il matematico greco Ippaso, scopritore e divulgatore dello scandalo dei numeri irrazionali, fu infatti altrettanto eretico nei confronti della dottrina pitagorica (per cui tutto è numero, ossia tutto è esattamente calcolabile), quanto il fiorentino Francesco Pucci, libero pensatore, mercante fattosi letterato e teologo, con la sua negazione del dogma del peccato originale e la sua difesa a oltranza del libero arbitrio, lo fu nei confronti della dottrina della chiesa cattolica. Per la loro eterodossia, Ippaso venne annegato in mare di fronte a Crotone intorno all’inizio del V secolo a.c. e Francesco Pucci venne giustiziato e messo al rogo da morto, in un mercato di Firenze verso la fine del Cinquecento. Le loro due vicende costituiscono pertanto non solo la cornice temporale ma anche la polarità tematico-strutturale di fondo tra scienza e fede, nel loro ripiegarsi reciprocamente a specchio, nella loro convergenza nell’atto della speculazione. Quest’ultima è una delle due sirene che abitano il mediterraneo di Bruno di Pietro, l’altra essendo il richiamo erotico, ed entrambe costituiscono due irresistibili poli di attrazione per l’io poetico, i nuclei fervidi della sua invenzione ma anche i gorghi per il possibile naufragio della sua testimonianza. Essi sono i suoi Scilla e Cariddi e il poeta deve navigarvi in mezzo, perché nel suo imaginario storico-metafisico assumono il valore ideale di limiti e soglie dell’odissea del sapere occidentale, nell’orizzonte del suo possibile naufragio. Il ben noto topos del naufragio con spettatore può costituire infatti un ottimo strumento per leggere questa esplorazione zigzagante nel labirinto marino, nello spazio e nel tempo, da oriente a occidente e viceversa, dall’urbe all’esilio, con vari sprofondamenti e affioramenti più o meno letterali o metaforici. Ma non possiamo addentraci qui in un’analisi di semiotica culturale che richiederebbe un saggio a sé stante. Val la pena soltanto evidenziare alcuni nodi salienti della tessitura globale, rimarcando anzitutto che la figura di Ippaso non è a pieno titolo un portavoce dell’autore, poiché non risulta chiaro se e quando egli sia il soggetto o solo un personaggio della evocazione poetica della seconda sezione, “Colpa del mare”, che si caratterizza fra l’altro proprio per questa sua ambiguità nell’enunciazione. La colpa del mare infatti si può leggere in molti modi, ma in generale è certo che l’arcisema della liquidità è quello che assorbe e contiene in partenza tutte le figure liminali disseminate per l’intero poema, a partire dai vari portavoce di cui ho detto all’inizio.

Si giustifica così il rilievo eminente concesso dall’autore alla seconda sezione, nel dare il titolo all’intero poema. Nel mare sprofonda Ippaso ma il suo sacrificio fa sì che affiori la verità. Nell’episodio seguente, Il canto di Liside, il protagonista eponimo, un tardo pitagorico la cui fazione è reduce da una sconfitta, sceglie invece di abbandonare la propria professione e l’agone politico, migrando verso oriente, a Tebe, dove diviene un seguace dei misteri di Demetra. Quanto a dire che salva la vita al prezzo dell’abbandono della scienza per la mistica, in una sorta di contro movimento, rispetto alla vicenda di Ippaso, nella dialettica del sapere. Questo è solo un esempio della tessitura intricata e della densità feconda e perigliosa di questo labirinto marino. Col canto di Liside si chiude la prima terna di episodi, di argomento prevalentemente speculativo, di cui ho discusso altrove per esteso . Ad essa fa da contraltare l’ultima terna, di argomento prevalentemente storiografico, affidata alle tre maschere, rispettivamente di Massiminiano Etrusco, poeta latino del tardo impero, Ovidio, ben noto poeta augusteo e Francesco Pucci teologo del tardo rinascimento. In questa sequenza si nota l’unica inversione nell’ordine dell’intreccio rispetto a quello temporale, dal momento che la vicenda di un poeta del VI secolo viene anteposta a quella di un poeta del I. Per il resto l’ordine di apparizione e quello storico coincidono nell’intero poema.
Dell’ultima terna e dei suoi tre portavoce, discuterò in seguito. Ora voglio soffermarmi sulle quattro sezioni centrali del testo, in cui l’io poetico parla in prima persona e che (a parte Amari fiori), nel complesso riflettono su qualche genere o forma di poesia, costituendo così un ponte metapoetico fra la terna iniziale di argomento ontologico e quella finale di argomento storiografico. L’architettura generale del poema dovrebbe a questo punto risultare sufficientemente chiara. Possiamo dunque passare ad occuparci di Amari fiori che ha un posto speciale nella raccolta, dal momento che ne costituisce, insieme ad Eleatiche, il nucleo più antico, fungendo, rispetto a quelle, da antifonale erotico-confessionale a distanza e introducendo nell’intero spartito quella che chiamo la chiave minore, la vox organalis, che si insinuerà poi in tutte le sezioni, facendo da contrasto al cantus firmus di tenore speculativo o storiografico. Vale a dire che l’intero poema si sviluppa fra i poli complementari della inchiesta (istorìa) e della confessione. Uno schema che non dovrebbe sorprendere più di tanto se solo si rammenta l’esercizio dell’avvocatura da parte del suo autore. Lo schema retorico comunque rinvia costantemente a quello musicale, a riprova della complessità degli interessi e della vocazione di Di Pietro.

In Avari fiori, come si diceva, il soggetto del discorso è direttamente l’io poetico, che si rivolge a un tu generico che poi assume diversi nomi femminili, in uno schema allocutorio ampiamente collaudato nella tradizione dell’elegia d’amore europea. Che viene declinata però ora in chiave ironico-meditativa sull’esempio del Canto d’amore di J.F. Prufrock, di T.S. Eliot. Così dunque come in Eleatiche gli spettri muti dei grandi presocratici orientavano il discorso poetico, qui la voce del giovane Eliot costituisce come un basso continuo, conferendo all’elegia una lieve intonazione parodistica. Già la prima terzina del testo infatti esprime la nostalgia e il rimpianto per l’assenza dell’amata come Stimmung fondamentale del dettato poetico, contenendo il programma cifrato dell’intera sezione. Ma il tono elegiaco-risentito è però subito temperato di bonario umorismo: “il tuo leggero gemito in amore/le labbra appena aperte nel sorriso/avari fiori, come l’elicriso” (I) – “ma te li immagini i sofisti antichi/gravi pensosi sgranocchiare chele/senza quest’uva dolce questi fichi/traboccanti di resina, di miele” (ii) Certo qui si tratta di una disposizione d’animo e di un umore opposti e complementari rispetto alla spassionata inchiesta di Eleatiche. Alla indagine epistemica di quelle ora corrisponde quella emotiva, ovviamente più instabile, di Avari Fiori, che risulta mirabilmente condensata nell’apparizione di una silhouette di donna seduta sulla riva, spalle al mare, baciata con gli occhi, riflessa nel cristallo di un bicchiere, in una delle più belle stanze del poema: “distesa sulla riva spalle al mare/l’attesa di qualcuno dissolvevi/dietro le frange dei capelli neri:/quante volte con gli occhi t’ho baciata/riflessa nel cristallo del bicchiere/(traghettava l’estate il battelliere) (III)
L’esperienza d’amore pare costituire dunque una interferenza e un intermezzo nella ricerca, come un “tempo bevuto d’un fiato al pensiero” e una pausa nel respiro diegetico del macrotesto: una “estrema esitazione in questo viaggio/di gesti mai compiuti e fughe”. (V) La donna come si diceva poi assume tanti nomi, si diversifica come in una epifania ricorrente, con echi della reticenza montaliana a scandire l’eterno ritardo del pensiero sull’essere: “non possiamo Nietta che spremere/poco succo dai limoni rari…/strade deserte polverosi cardi/(il pensiero arriva sempre tardi)”. (IX) Nel tono ironico-riflessivo del Prufrock eliotiano: “errare fra volere e non volere…/ma quale arcano sbaglio mi costringe/solo a sognarti quando il giorno è breve” (XII), mentre “segnano il tempo, stanche meridiane/filari di occasioni e di rimpianti (XVI). Una anamnesi in sottotono dunque, accorata e fragile fra le pieghe della luce: “cercarmi, cercarti nei segni labili/fra le pieghe instabili della luce/che mi nasconde e a nasconderti induce (XX), con le svolte del verso che tentano ostinatamente di catturare le innumerevoli ed elusive pieghe fra il vissuto e l’idea, tra la vita e la forma. Così Avari Fiori fin dall’inizio introduce e custodisce la voce alternativa, il contrappunto confessionale alla inchiesta epistemica, nella poesia di Bruno di Pietro.
Avari fiori, s’è detto, costituisce una sorta di antifona a distanza rispetto ad Eleatiche, come il rovescio esistenziale di una inchiesta ontologica. Ma questa tonalità minore del poema è stata già introdotta nella breve sezione precedente, Velieri in Bottiglia che è la prima delle quattro centrali che ho definito metapoetiche, poiché trattano della tradizione della lirica europea dai latini ai giorni nostri. Qui il genere di riferimento è ancora l’elegia e la voce di fondo è sempre quella del Prufrock eliotiano, in cui l’inerzia psichica si coniuga col disagio sociale e il cui tagliente disincanto domina l’intera sezione fino a meritare una esplicito omaggio: “non è per niente questo/non è per niente questo che volevo dire” (IV) Finitudine dell’esserci e sfinimento del senso del dire si compenetrano dunque nella deriva sul posto di questi velieri in bottiglia, veicoli e tenori della metafora, messaggi e messaggeri insieme dei “tempi incalcolabili di cura”, in “un gioco di rimbalzo senza fine” che ti “affossa al confine” con le sue “ombre spesse/dove c’è il filo ma non c’è chi tesse”. (II)
Non è necessario soffermarsi in dettaglio sulla seguente, brevissima sezione “Iscrizioni” che, come recita lo stesso titolo, mette in scena una meditata fenomenologia dell’epigramma e del mottetto, in quanto mattoni basilari della composizione a incastri di Colpa del Mare.
Piccola suite accenna invece alle possibili trasposizioni e complicazioni musicali del mottetto nello sviluppo del contrappunto e della polifonia nella musica europea dal Gregoriano al Barocco. La sezione qui è infatti opportunamente scandita da indicazioni agogiche: (Largo) “tu conduci al fondo delle cose/al nome inaugurale, al suono/al silenzio che segue il tuono/”, aggiungendo un ulteriore saggio della ricerca, in quell’andare a fondo congiunto di parole e cose che coincide col gioco di suono e pausa nel verso, e con la virtuale versione musicale del mottetto. Poi ci sorprende però, la sinestesia improvvisa e fugace, l’odore pungente nell’apparizione della donna, e il logos brucia nell’immagine, il senso annega nei sensi. Basta infatti il profilarsi della figura femminile per incrinare la cornice epistemica: (Allegro) “ti passa a volte accanto, ti sfiora/una ragazza col suo odore intenso/la brezza adolescente ti divora/brucia in un niente la ragione il senso”. La ricerca verbale ora non sembra più bastare a sé stessa e perciò si appoggia alla analogia musicale, spinta ai limiti della dissonanza: (Andante) “le parole non trovano la strada/per dire quest’esilio, lontananza /dalla luce che subito digrada/come evolve il suono in dissonanza”. E infine, prepotente, trionfa la nota erotica, la firma in calce della “mano sensuale” e “nervosa” che scompiglia lo schema metrico, nel tempo dello scherzo, in una sestina squilibrata, dove il verso sembra precipitare sull’aggettivazione finale che ne riassume tutto il senso. Una sestina eccentrica, atonale, eppure assolutamente efficace, che racchiude il classicismo elaborato e raschiato dall’interno, la maschera cava della versificazione tradizionale, l’intero sapiente manierismo di Bruno Di Pietro: (Scherzo) “io ti direi invernale/mano sensuale che riscalda/mano nervosa che rinsalda/il serto di mimosa tra i capelli/impazienti/ribelli”. A parte Avari Fiori, il cui tono è espressamente elegiaco, le sezioni centrali di Colpa del Mare, in cui l’io poetico si esprime in presa diretta (IV, VI, VII), sono tutte brevi e metapoetiche: la IV verte sull’elegia, la VI sul mottetto e la VII sulle sue trasposizioni musicali. Il ponte di raccordo fra la prima terna speculativa e l’ultima storiografica è stato così elegantemente costruito.

III.

Per la costruzione dell’intreccio, mi sembra utile individuare due grandi modelli di riferimento: anzitutto le Metamorfosi di Ovidio, che fra l’altro è uno dei portavoce del nostro e che si caratterizza anch’egli per essere un autore dalla duplice vena: epica ed elegiaca, per quanto ritagli figure ed eventi mitici piuttosto che storici. Il secondo modello rilevante è quello dei Racconti di Canterbury di Geoffrey Chaucer, che invece, sulle orme del Boccaccio, ci offre un vivace e ironico spaccato storico-sociale dell’Inghilterra della seconda metà del Quattrocento. Fra questi due poli opposti, può collocarsi l’inchiesta storico-biografica di Bruno Di Pietro.
In tale prospettiva vengono anche in luce due questioni importanti, sollevate dalla sua poesia: in primo luogo l’ambivalenza costitutiva del concetto di storia, in quanto intreccio inseparabile di azioni (res gestae) e di narrazioni (historia rerum gestarum); e, in secondo luogo, poiché le versioni dei fatti possono risultare radicalmente diverse tra di loro, anche la questione del rapporto fra storia e fiction. Di Pietro insomma interroga lo statuto del documento, sia come inscrizione che come traccia dell’evento, ponendo in evidenza la riscrittura poetica della storia come mezzo di rinnovamento dei costumi e in fin dei conti nell’ottica di un’utopia politica. D’altra parte, dal punto di vista strutturale, Colpa del Mare drammatizza il processo di composizione di forme brevi (dal verso, alla strofa, al singolo poemetto) per accumulo e montaggio, nell’alternanza di schemi ritmici e di portavoci marginali che realizzano una figura a mosaico. E poiché gli eteronimi del poeta spesso riflettono sui propri sentimenti e azioni, si può definire da un lato una rapsodia elegiaca e dall’altro una meta-finzione storiografica che attraversa e ricompone in controcanto i generi lirico, epico e drammatico, sfruttando la marginalità delle maschere storiche rispetto agli eventi evocati. Noteremo che questa eccentricità si estende dalla costruzione del carattere a quella dell’intreccio, e deforma l’usuale circolarità dell’interpretazione imprimendole un moto d’ellisse o di spirale. Infatti a mio avviso qui si tratta di un’opera aperta e polifonica che, piuttosto che un ritorno alla tonica, prevede una trasposizione seriale di temi e accordi, reggendosi su un contrappunto costante fra il tenore storiografico dominante e la vox organalis erotico-elegiaca.

Colpa del Mare ci trasporta a zig-zag nello spazio e nel tempo, attraversando il mediterraneo da oriente a occidente e la storia dai presocratici al tardo rinascimento italiano, mettendone in scena tangenzialmente alcuni snodi e figure. Tutte le personae evocate, da Ippaso a Francesco Pucci, risultano infatti funzionali a questa decostruzione obliqua della ortodossia storica. Dunque, per comprendere adeguatamente l’impianto del testo, conviene anzitutto considerare l’intera area semantica del termine “persona”, dall’uso comune a quelli teatrale, giuridico, teologico e filosofico in generale. Così facendo si farà per-sonare la maschera storica, restituendo questo strumento teatrale alla funzione originaria di amplificazione e deformazione della voce che aveva nel dramma greco antico e latino. Funzione che fa il paio con quella di celare il volto dell’attore, spersonalizzandolo e facendone un tipo psichico e sociale o addirittura un archetipo, cioè proiettandolo su una fabula più universale e metastorica. La maschera (hypòstasis) nel teatro greco antico costituisce infatti una sorta di introiezione del coro dentro il carattere e dentro l’azione. Il coro è la comunione collettiva di danza e voce che segna i limiti mobili dell’interazione, la pellicola trasparente che divide attori e spettatori, nell’ambiguità fra agire e patire, costituendo come la trasposizione scenica dell’inconscio collettivo della polis. Il coro avvolge l’azione come la sua aura e oscuramente presagisce il destino della comunità; la maschera, che ri/vela l’éthos individuale sollevandolo al livello del typos, ne risulta invece avvolta e circoscritta, costituendo così il rovesciarsi dell’inconscio collettivo nella coscienza e nella voce singolari. Se nel pensiero greco, carattere e destino sono come due facce della stessa medaglia, la maschera teatrale segna il luogo del loro interfacciarsi, lo spazio ambiguo della rivelazione. La maschera è d’altronde uno strumento sinestesico: essa dal lato esterno copre il volto dell’attore e da quello interno ne amplifica la voce e perciò modifica sia la visione che l’ascolto dello spettatore. Essa è lo spazio cavo dove la visione interdetta si rovescia nella parola articolata, divenendo logos, espressione di esperienze condivisibili. La maschera è dunque lo strumento in cui il destino di un popolo si traspone in un carattere e in un intreccio, divenendo la sua storia. Queste considerazioni risultano rilevanti per comprendere l’uso che Antonio di Pietro fa delle sue personae loquentes come altrettanti strumenti per scavare nelle pieghe della storia ereditata, decostruirla per punti e dai margini, facendo così passare il dato di fatto al vaglio della finzione e restituendo l’érgon storico alla sua énergeia poetica.

Veniamo ora alle personae effettivamente messe in scena dal nostro autore nello spazio trans-storico dei flussi della parola rigenerata (logos égeneto), con le sue connotazioni filosofiche e teologiche. Si tratta di uno spazio perimetrato dall’inizio (nei primi tre episodi) dal gioco dei tre grandi archetipi presocratici, Parmenide, Eraclito e Pitagora: l’essere, il divenire e la loro co-funzione; l’uno, il molteplice e il numero. In ordine di apparizione, che coincide grosso modo con l’ordine storico, la prima persona loquens è Ippaso: illustre ricercatore, traditore e martire pitagorico, affogato in mare per aver scoperto e divulgato, contravvenendo al divieto del maestro, lo scandalo dei numeri irrazionali. Scoperta inaccettabile per quella che è stata forse l’unica mistica basata interamente sulla ragione (ratio, logos, “rapporto”) cioè sul principio di commensurabilità fra grandezze qualsiasi, per cui ogni fenomeno fisico risulta spiegabile attraverso la matematica. Proprio questo significa il “tutto è numero” di Pitagora: quando si scoprì che nel rapporto tra le parti di figure geometriche semplici (come il triangolo, il cerchio, il quadrato) si annidava l’irrazionale (cioè l’approssimazione tuttavia calcolabile), fu come scoprire l’anima o il respiro (psyché, anémos) nascosto dell’esattezza: allora morì la mistica e nacque la matematica. Ippaso è il traditore dell’ortodossia pitagorica, con i suoi dogmi e i suoi divieti: dunque la prima maschera del theatrum mundi di Di Pietro è quella di un eretico, esattamente come quella di Francesco Pucci che, alla fine del poema, mette in questione un dogma fondante della chiesa cattolica, quello del peccato originale, insistendo sul libero arbitrio e, implicitamente, liberando il Figlio dal dover fare il volere del Padre per la salvezza del genere umano. Si può già sospettare perciò che l’eresia costituisca il filo conduttore di questa messa in scena drammatica della storia, sbirciata da maschere periferiche, nascoste dietro le quinte del teatrus mundi di Antonio di Pietro. In questa prospettiva si possono per esempio interpretare i versi della strofa VII di Colpa del Mare, sia che li si voglia attribuire ad Ippaso o piuttosto all’io poetico stesso: “Io rifiuto la questione trita/per cui una cosa deve avere inizio./Ti aspetto sul ciglio della vita/…Ti aspetto ai margini nell’interstizio/nel vento inquieto della via d’uscita/dalla paura di cui sei l’indizio.”

La seconda persona del poema, Liside, è invece un pitagorico minore del IV secolo a.c., scampato a Crotone a un incendio provocato da una fazione politica avversa alla sua, in seguito al quale molti pitagorici smisero di occuparsi di affari pubblici, delusi dall’inerzia del popolo che mancò di punire gli autori di tale misfatto. Liside stesso decise allora di rifugiarsi a Tebe, dove venne infine iniziato ai misteri di Demetra. Egli rappresenta dunque una figura speculare rispetto a quella di Ippaso, incarnando una sorta di ripiegamento della matematica sulla mistica, del pubblico sul privato e della politica sull’etica. La maschera di Liside introduce dunque un nuovo filo conduttore e un nuovo movimento nella minuta fenomenologia dello spirito del nostro autore: quello dell’espropriazione reciproca tra ethos e polis. Ovvero anche di quella progressiva scoperta della loro incommensurabilità, che sarebbe in seguito divenuta oggetto della dottrina cristiana e parte integrante della civiltà occidentale. I versi della IV strofa riassumono il dramma della scelta fra pensiero e azione, e fra etica e politica: “Amici morti per il fuoco/se l’acqua è inizio/ora interrogate il dopo/conoscete lo scopo/del pensare./La cenere ha confuso il mare/deluso il cielo./Il nostro era un viaggio terreno/e questa è terra di ulivi/di tramonto/terra di sale/da Elea a Metaponto.” Quella di Liside è comunque una voce prevalentemente confessionale ed elegiaca che esprime il ritrarsi del pensiero per amore della vita.

Il Massimiano Etrusco della sezione Acque-dotti, (490 circa – 560 circa d.c.) è un poeta latino, tardo epigono dei grandi poeti elegiaci augustei, che ci ha lasciato sei elegie sulla vecchiezza. Nella III di queste dichiara di avere incontrato il filosofo Boezio cui, alle prese con un dilemma amoroso, chiede consiglio: Boezio gli suggerisce di seguire l’istinto passionale. Poi, per intercessione dello stesso filosofo, Massimiano ottiene il consenso dei genitori della ragazza, ma l’uscita dalla clandestinità toglie al poeta ogni entusiasmo sicché egli perde l’occasione buona che rimpiangerà poi per il resto dei suoi giorni. Non è neanche del tutto certo però che il Boezio citato sia il celebre filosofo o semplicemente un omonimo, né se quest’incontro sia avvenuto realmente o se piuttosto si tratti di una finzione letteraria. Massimiano Etrusco insomma, essendo un poeta che mescola le carte fra storia, autobiografia e invenzione, risulta un perfetto alter ego del nostro autore, anch’egli peraltro costantemente dedito al culto e alla “consolazione della filosofia”. Attraverso questa figura, vengono pertanto al proscenio altri due motivi importanti nella composizione di Bruno di Pietro: quello della condizione di epigoni e perciò anche della quasi inevitabile parodia dei modelli classici che tocca ai poeti odierni, e quello della interferenza di storia e finzione che abbiamo visto essere un’asse portante dell’opera del nostro. Inoltre, e soprattutto, Massimiano canta prevalentemente nella voce minore, quella erotico-elegiaca, che abbiamo già individuato e che costituisce a detta dello stesso autore come il basso continuo della voce dominante che è quella speculativo-storiografica. Seguendo l’analogia musicale, ho preferito però identificare questa seconda voce con la vox organalis che nel canto gregoriano talvolta accompagna il cantus firmus, costituendo così il primo rudimento di contrappunto all’origine della musica europea moderna. L’identificazione di questa seconda voce consente la lettura polifonica della composizione di Antonio Di Pietro, che è quella che mi pare più consona al temperamento e all’intenzione dell’autore. La messa in rilievo della seconda voce, erotico-elegiaca, consente inoltre di trasportare l’eccentricità delle maschere nel cuore stesso dell’intreccio, sdoppiandone così la messa a fuoco e orientando l’ascolto sul contrappunto patetico-confessionale che decostruisce e complica dall’interno lo sviluppo del cantus firmus, cioè del tenore storico-epistemico della ricerca.

Massiminiano è un poeta di fine impero, un uomo “al colmo di una ruota che non gira” è dunque il testimone di una fase terminale della civiltà che ha diverse analogie con la nostra attuale. Egli infatti, già nella prima stanza della sezione, esprime l’amarezza di chi sa di essere all’inizio di una transizione epocale di cui non vedrà la fine: “massimiano. poeta./alba del secolo sesto./anticipo la storia/senza saperne il resto” (I) Le sue sei elegie, riguardando perciò anche e soprattutto la vecchiezza dei tempi, e devono essere lette sul doppio registro storico/confessionale che sempre più si precisa nell’oratorio di Di Pietro. La seconda stanza del resto chiarisce e riassume perfettamente la Stimmung storico-esistenziale dell’intera sezione: “all’improvviso il passato non parla/vento di mare che cala al tramonto/e a farla breve non mi sento pronto/ad affrontare questa transizione/sopravvivo oramai per distrazione/alla pioggia che ogni sedimento tarla/nell’incerto il futuro non respira/gettato come sono a dare il conto/al colmo di una ruota che non gira”. (II)

L’Ovidio, che incontriamo nella sezione seguente, Il fiore del Danubio, è quello oramai caduto in disgrazia e relegato da Augusto a Tomi sul Mar Nero, a causa dei suoi versi libertini e per un non meglio precisato “errore” nei confronti dell’élite imperiale. L’Ovidio che a Tomi scrive le Tristia, ultime elegie che mescolano rimpianto ed ironia, incarna dunque il tipo del poeta antagonista al potere senza volerlo. Tuttavia egli è pur sempre il grande maestro della poesia erotica, nonché il cantore del mito come matrice della morfologia e delle metamorfosi di una civiltà. La sua ars amatoria, costituendo inoltre una sapiente mescolanza dei generi epico, elegiaco e precettistico, rappresenta uno spaccato sociale del suo tempo. Nelle Metamorfosi si ritrova poi tutta la storia mitica del mondo, riorganizzata dal poeta in una sequenza alquanto arbitraria e artificiosa di episodi dove i personaggi “narrati” si trasformano spesso in personae “narranti”, esattamente come accade nell’opera di Bruno di Pietro. Le analogie non possono sfuggire, dal momento che diversi aspetti della carriera di Ovidio risultano utili a farne un portavoce del nostro autore. L’evocazione di Ovidio, pone inoltre nel complesso la più grande questione che ci assilla (dai tempi di Platone in avanti) sulla funzione e il valore della poesia, sempre in bilico fra finzione e testimonianza, rispetto alla comunità in cui opera. Chi conosce i Dialoghi piuttosto che la vulgata, sa bene che Platone ha impeccabilmente posto tale questione e che, quando bandisce i poeti dalla città, lo fa per amore della vera poesia, che era l’epica orale, quando i poeti fungevano da veicoli e i custodi della memoria culturale e dell’ethos greco. Con la diffusione della scrittura questa funzione basilare venne meno e i poeti scrittori si trasformarono per lo più in sofisti: ecco perché Platone li espelle dalla città. Ad ogni passaggio tecnologico epocale, alla poesia tocca infatti una sempre nuova rifunzionalizzazione, e proprio questo può essere un messaggio implicito nella messa in scena delle maschere parlanti di Massimiano Etrusco e di Ovidio. Per il primo, ci basta ricordare il mottetto conclusivo della sezione a lui dedicata, Acque-dotti: “in crepuscoli di stile senza brezza/faccio versi in elogio di vecchiezza/così tutti mi ricorderanno vecchio/e nessuno dirà di Massimiano Etrusco/che della storia avea compreso il salto/brusco”. (XXI) Dove l’anomalia metrica dell’ultimo verso connota perfettamente la perentorietà del salto epocale evocato. Per Ovidio, basta riportare la prima strofa de Il fiore del Danubio, che caratterizza epigrammaticamente la sua posizione, storica e ideale, di poeta non solo antagonista al potere ma disfunzionale all’intera economia della polis: “maestro Nasone/morì relegato /forse per la poesia/forse per la politica/forse per peccato” (I) Anche ovviamente se dal suo punto di vista privato, l’esilio appare come il risultato di un errore occasionale, cioè di una contingenza piuttosto che di una necessità storica: “passerò alla storia/come il primo poeta antagonista:/sarà stata certo una svista/un evidente errore/(mi occupavo soltanto d’amore)” (II). Il rapporto fra caso e necessità, viene qui perciò in sottotraccia a costituire parte della questione storiografica e dell’intreccio rapsodico che la rappresenta.
Benché questo poemetto non sia forse fra i più noti dell’autore, traspare qui, nel consueto tono caustico, un dolore profondo, universale, che attraversa i topoi e i generi del discorso, come quella coloritura emotiva di fondo che sottende l’intero suo orizzonte poetico, venendo squisitamente riassunta nel mottetto conclusivo di questa sezione: “tanta era/la sua sopportazione del dolore/che il dolore un giorno/si stancò di lui/(lo consegnò pertanto/al dolore altrui) (XXIV)
L’ultima persona loquens del poema è quella di Francesco Pucci, mercante fiorentino, fattosi politico e teologo, giustiziato e messo al rogo dall’Inquisizione il 5 di luglio del 1597, dopo aver peregrinato per mezza Europa per diffondere, anche con vari scritti, la propria versione libertaria e cosmopolita della confessione di fede cattolica. Nella sezione a lui dedicata, “Della stessa sostanza del figlio” , egli appare come un inquisitore-inquisito, un intellettuale-pellegrino e un eterodosso per vocazione. Nella sua persona dunque convergono i temi della peregrinazione e dell’attraversamento di confini (geografici, disciplinari, ideologici), nonché della distinzione e ibridazione dei generi della scrittura sacra e profana, e insomma implode l’intero dramma ontologico e storiografico messo in scena da Di Pietro nell’intera sua opera. Sicché nell’eresia di Pucci si può intravvedere il nucleo portante dell’intreccio di Colpa del Mare, di quel contrappunto costitutivo fra inchiesta e confessione, nella serialità aperta delle scene e nella distribuzione calibrata tra prospettive e voci liminali della nostra storia culturale. Di quel mondo alla rovescia, cioè, che è il riflesso della violenza delle azioni nella ricostruzione ideologica delle storie. Nella confessione di Pucci si cala infatti la denuncia del nostro autore e si distilla la sua testimonianza poetica: “ho visto massacrare gli ugonotti/ho visto l’inverno in agosto/il biancospino fuori stagione /fuori posto/fiorire nel cimitero degli innocenti” (III) L’ultima ripetuta ribellione al volere del Padre, pronunciata dal mercante fiorentino in punto di morte, costituisce poi un inno all’eresia come principio etico e poetico, cioè come diritto-dovere della scelta e come obbligo di sopportarne le conseguenze: “l’alba è sensuale/l’eresia la vita/il pensiero l’orgoglio/Signore non voglio/Signore non voglio /Signore non ti voglio”. E con questa apostasia si ribadisce anche la dimensione filiale della poesia, in quanto parola essenzialmente antitetica, avveniente, rigenerata nella storia, logos égeneto, principio del rinnovamento del linguaggio e perno su cui lo stesso dato di fatto può puntare verso una sua utopica alternativa.
Francesco Pucci è nel contempo un martire-testimone, con connotati cristologici, della storia reale, e un poeta di quella possibile: è parte maledetta, capro espiatorio, sguardo e voce eretici, ultima comprensiva maschera dell’io poetico: pietra angolare, su cui si regge l’intera de-costruzione della storia cui abbiamo assistito in Colpa del mare.

Come stai? La cura ai tempi del coronavirus

0

di Eleonora Cugini

 

Come stai? La cura ai tempi del coronavirus

In questa situazione di emergenza da contagio da coronavirus covid-19 sto vivendo molte esperienze e sensazioni simili a quando ci fu il terremoto, quattro anni fa, nel Centro Italia. Le reazioni di condanna reciproca, i moralismi, le soluzioni semplici e veloci, i si sarebbe potuto o dovuto, la corsa all’accaparramento, la richiesta di misure di sostegno economico, le riflessioni sul sistema economico politico sociale, sui tagli, sugli investimenti, i “non sono, ma…”, i “non disprezzo nessuno, ma…”, la richiesta di regole rigide e dell’uomo forte, la ricerca del colpevole, l’isolamento, l’ironia, la derisione, la chiamata responsabile alla serietà del momento, le dietrologie, le cospirazioni, le zone rosse, la richiesta di documenti per circolare per strada a piedi o in auto, i lutti e la loro conta, il panico, le citazioni, l’automotivazione al coraggio, al darsi da fare, la spontaneità della solidarietà, la razionalizzazione, l’esposizione dirompente dell’emotività, la ricerca del colpevole, le teorie scientifiche.

Mi pare tutto uguale identico ad allora ma oggi, nel contesto dell’emergenza dovuta al contagio da coronavirus, si aggiunge la distanza fisica tra le persone e l’allargamento dell’emergenza a tutte e tutti nessuno escluso, non limitato cioè a un territorio o un settore circoscritto.

E come allora vedo di nuovo la preoccupante assenza di informazione sul trauma.

Non mi riferisco solo a un’adeguata informazione sulle misure di sostegno psicologico e psichiatrico che già esistono o che verranno – mi auguro – prese o implementate. Mi riferisco proprio a un’adeguata informazione e riflessione sul trauma stesso, perché questo che stiamo vivendo sembra averne tutte le sembianze.

Lo dico non da un punto di vista psicologico o psichiatrico, che non mi compete di certo in quanto non sono una professionista di questi settori.

  1. a) Lo dico partendo da una riflessione filosofica sul trauma e quindi da un punto di vista umano, sociale, politico. Lo dico dal punto di vista che mi compete, cioè quello di una scienza che si interroga fin dai suoi albori attorno alla domanda più vessata e dimenticata (in favore delle risposte semplici) e che suona all’incirca così: “chi o cosa siamo noi esseri umani?” e sugli innumerevoli piani che questa domanda implica e spalanca.
  2. b) Ma lo dico anche purtroppo, o per fortuna, lo dico anche da chi ha vissuto un evento traumatico, quello del terremoto del 2016 del Centro Italia.

Purtroppo – perché chiaramente non avrei voluto vivere il terremoto e chiaramente vorrei che nessuno lo viva o l’abbia vissuto mai.

Per fortuna – lo dico perché posso parlare in prima persona di qualcosa che conosco e che mi sono sforzata di conoscere e capire con i principali strumenti che ho a disposizione: la riflessione filosofica e l’aiuto di persone che amo e che mi amano.

Due elementi questi che per me hanno una connotazione che vorrei definire politica. Con ‘politico’ intendo tutte quelle categorie in grado di non limitarsi alla manifestazione contingente e privata della dimensione presente ma capaci di cogliere e incidere sulla struttura di questa contingenza, cioè tutto quel nesso di relazioni che la fanno essere quello che è.

Questa struttura spesso i filosofi la chiamano anche “universale”. ‘Universale’ è una parola scivolosa fuori dalle aule accademiche (ma anche dentro).

Preferisco quindi qui chiamarla “struttura” per evitare il più possibile il fraintendimento con qualcosa che non può cambiare, che non è molteplice, che non è fatto di relazioni e che sia in un al di là da raggiungere.

Il trauma

Ecco perché penso che quello che stiamo vivendo abbia tutte le sembianze del trauma.

Il trauma è una cosa che ti colpisce e che una volta che lo ha fatto continua a lavorarti dentro – ma anche fuori – insistentemente e inesorabilmente, lasciandoti con un disturbo noto come “disturbo da stress post-traumatico”. Non è necessario che sia tu la vittima dell’evento: il trauma colpisce anche chi assiste o è testimone di quell’evento.

 

Su Wikipedia è definito così:«Il disturbo da stress post-traumatico (PTSD, post-traumatic stress disorder), in psicologia e psichiatria è l’insieme delle forti sofferenze psicologiche che conseguono ad un evento traumatico, catastrofico o violento […] Questo disturbo rappresenta dunque la possibile risposta di un soggetto ad un evento critico abnorme (terremoti, incendi, nubifragi, incidenti stradali, abusi sessuali, atti di violenza subiti o di cui si è stati testimoni, attentati, azioni belliche, etc.)».

 

Nell’elenco riportato non si trova il contagio o l’isolamento ma per le loro caratteristiche sembrerebbe possibile aggiungerli alla lista che termina con etc.

Sembrerebbe che il trauma che ha come risultato il disturbo da stress post-traumatico sia un evento abnorme (= anormale) che ha messo in pericolo la vita o l’integrità fisica tua o di altri.

La situazione che stiamo vivendo sembrerebbe quindi rientrarci a pieno titolo: è abnorme, cioè anormale, eccezionale e mette in pericolo la vita o l’integrità fisica tua o degli altri.

Più che sull’eccezionalità o sulla ‘normalità’, vorrei richiamare l’attenzione sul significato di ‘prevenzione’: se si può prevenire il contagio mettendo in pratica comportamenti responsabili e misure contenitive tuttavia ciò non sembra significare che queste forme di prevenzione siano anche sufficienti a evitare o prevenire il trauma della situazione eccezionale o abnorme che stiamo vivendo.

È proprio qui, a questo livello della domanda sulla prevenzione dell’evento traumatico o sulla comprensione delle sue motivazioni, che emergono il problema e la questione su cui vorrei riflettere e che vorrei mettere in luce.

 

Dal momento che il testo è lungo anticipo l’ipotesi che vorrei avanzare: penso che sia possibile prendersi cura del trauma – vissuto o se e quando lo vivremo – se riflettiamo sulla vita, se ci domandiamo chi siamo rimescolando le carte delle risposte semplici, se siamo sempre pronti a rimettere in discussione l’abitudine delle norme sociali e comunicative in cui viviamo e abbiamo sempre vissuto. Se continuiamo a interrogarci sulla vulnerabilità e non solo nei momenti della sua emergenza.

 

Nell’elenco degli eventi che provocano un trauma troviamo eventi collettivi, cioè non esclusivi di un vissuto privato e personale ma eventi che sono sottoposti a comprensione e giudizio collettivi, che sono pubblici, che hanno implicazioni sociali, politiche ed economiche. La lista quindi è potenzialmente infinita, considerando come le nostre vite sono sempre più pubbliche e esposte sui social network.

Dagli stupri ai terremoti – eventi traumatici – assistiamo per lo più a giudizi, condanne, riflessioni e lotte su ciò che li ha provocati: da come si veste una donna, a come sono costruite le case, agli investimenti sui centri anti-violenza, agli investimenti sulla messa in sicurezza degli edifici, alle misure di assistenza e supporto economico e/o di inserimento nel mondo del lavoro e così via.

Da una parte ci si chiede come prevenire o evitare che altre persone vivano quell’evento e dall’altra ci si domanda e si riflette sul perché è avvenuto quell’evento.

È un po’ imbarazzante assistere a come due traumi così diversi tra loro – uno stupro e un terremoto ma se ne possono aggiungere altri – possano essere accomunati da effetti e reazioni simili nella società e come, in entrambi i casi, la riflessione sul trauma della perdita della vita o di lesioni irreparabili sia del tutto assente o rara.

Una simile riflessione sul trauma stesso sembra essere quasi sempre afona e incapace di richiamare l’attenzione su di sé di cui sono in grado invece le riflessioni e le opinioni su come poteva essere evitato o sul perché sia successo quell’evento.

Dico che è imbarazzante perché è imbarazzante per me scriverlo.

La sensazione che provo è quella di stabilire cinicamente un paragone senza curarmi del vissuto delle vittime e questo mi mette a disagio.

Purtroppo è quello che sto facendo: sto mettendo sullo stesso piano gli eventi traumatici per farne emergere la struttura e le sue patologie non però per appiattirli e sminuirli. Anzi.

Quello che voglio portare in luce è che riflettere sull’evento che ha provocato il trauma spesso si separa dalla riflessione sul trauma stesso. Così la riflessione finisce per concentrarsi sulla società, sulla politica, sull’economia, sulla morale e la religione, dimenticandosi che quell’evento ha provocato un trauma e che non è ‘solo’ un evento abnorme, eccezionale ma soprattutto un evento traumatico.

La cura del trauma finisce così per essere un percorso individuale di terapia psicologica o psichiatrica: se l’evento che lo ha provocato è collettivo e pubblico, il suo percorso di cura diviene ‘solo’ privato e individuale. (E meno male che si può fare e che si può curare il trauma con questi percorsi).

Perché avviene questa spaccatura e questa fuga dalla domanda e dalla riflessione collettiva sul trauma?

Riflettere sul trauma e prendersi cura del trauma in fondo sembra voler dire recuperare la domanda “chi siamo?” e farlo a partire da un evento eccezionale che ha messo, cioè, in pericolo la nostra vita o di cui siamo stati testimoni. Il trauma sembra ridurre tutto me stesso alla mia vita nel momento in cui scopro che posso perderla. L’eccezionalità sembra stare tutta in questo.

La vita

Ecco, scrivere della vita per me è complicato perché la mia tesi di dottorato parla di questo, della vita (e del rapporto tra vita e libertà). Quindi è complicato come è complicato ogni volta per quasi chiunque riassumere brevemente e in modo comprensibile per qualcun altro un argomento che ha approfondito in verticale in ogni suo pezzettino e su cui ha gettato una visione d’insieme potenzialmente inesauribile (fatta di tante domande e sempre troppo poche risposte).

Ci provo. Sento che ci devo provare.

Ci ho provato mentre cercavo di capire il terremoto. Non posso non provarci adesso che il terremoto è di tutti.

In questi giorni si leggono riferimenti a Giorgio Agamben, un filosofo contemporaneo che ha scritto della ‘nuda vita’ (riprendendo questa nozione da un altro filosofo, Walter Benjamin, vissuto nella prima metà del 1900). Si leggono anche riferimenti al biopotere e alla biopolitica, nozioni che soprattutto a partire da Michel Foucault, un filosofo della fine del 1900, si sono fatte strada nella riflessione filosofica fino a oggi.

Provo a sintetizzare di seguito il profilo di questi concetti inesauribili.

La nuda vita indica lo spazio di separazione tra due nozioni di vita, la vita biologica e la vita socio-politica. La nuda vita non sarebbe quindi né la vita biologica né la vita sociale.

Il biopotere consisterebbe in quel potere non tanto o non solo che mantiene la separazione tra vita biologica e socio-politica ma soprattutto che mantiene quello spazio, quella zona d’ombra della nuda vita che è né l’una né l’altra. In ciò sta la violenza del biopotere.

Il biopotere si distingue dalla biopolitica, la quale oggi nel dibattito viene invece recuperata come quell’insieme di prassi volte non a tenere scisse le due dimensioni della vita biologica e della vita socio-politica ma anzi a metterne in evidenza l’inscindibilità. C’è quindi un recupero ‘positivo’ di questa nozione contro la valenza ‘negativa’ che viene data alla nozione di ‘biopotere’. (Fosse così facile identificare cosa è positivo e negativo!).

Anche Hegel è stato un grande filosofo della vita, con una certa malcelata circospezione per l’utilizzo di questa parola (ma non così tanto come invece Kant) perché il rischio di parlare della vita, soprattutto nel 1800, era quello di farti finire nel circolo dei vitalisti o degli ilozoisti o degli animisti.

Oggi questo rischio c’è ancora e si aggiungono anche la cerchia dei buonisti e dei Pro-life.

Complicatissimo insomma.

Domandarsi della vita è come domandarsi dell’essere umano: le due cose coincidono.

E esattamente come avviene per il trauma il nocciolo della domanda viene fuggito e sommerso dalla polpa che gli sta intorno: domande morali, giudizi, pratiche istituzionali, lotte e condanne.

Come per il trauma anche la domanda sulla vita, in quanto domanda su chi è l’essere umano, ruota attorno alla morte.

La morte è la fine. Ma questa fine è soprattutto ciò che permette di chiamare vita la vita: senza la morte non c’è la vita.

Sia che intendiamo la vita come due aspetti separati, quella naturale e quella socio-politica, sia che la intendiamo come l’unità inseparabile di questi due aspetti, sia che la consideriamo come quell’interstizio che non è né l’uno né l’altro aspetto, sembra che la vita non sia separabile dalla morte, dalla dimensione della sua finitezza, che la fa essere ciò che è.

Quindi anche la morte è una cosa che riguarda tutta la problematica tra biologico e socio-politico, la loro separazione, inscindibilità o interstizio.

Le cose si complicano.

La vulnerabilità

Sempre in questi giorni si sente parlare di vulnerabilità, di fragilità, di immunodepressione. Questa sfera ha condotto a un derby tra giovani e anziani ma anche all’identificazione con categorie più deboli economicamente (genitori con figli, lavoratrici e lavoratori autonomi o al nero, persone che si occupano della cura della casa senza stipendio) o più emarginate, come i senza tetto o le persone private della libertà (i detenuti nelle carceri).

L’emergere di queste debolezze espone in modo lampante le contraddizioni del sistema socio-economico in cui viviamo e che in molte e molti subiamo.

L’isolamento in casa ha anche messo in luce come per molte donne la casa sia un luogo di violenza e non certo un focolare.

La vulnerabilità dell’isolamento in casa fa emergere in questi giorni come le persone anziane o le persone disabili siano private non solo della socialità ma anche dei mezzi primari per vivere come il cibo o le cure di assistenza domestica.

La vulnerabilità è tutto questo e molto altro.

Se non ci fermiamo all’elenco della casistica e osserviamo come ognuno di noi in questo momento si sente vulnerabile o invulnerabile, sembra la vulnerabilità sia ciò che esibisce la dimensione di finitezza e il bisogno di relazioni degli esseri umani.

Da cui il mito dell’invincibilità – ancora più potente rispetto a quello dell’immortalità in cui si radica (e da cui forse le critiche ai ‘giovani’ o le critiche a chi ‘esce lo stesso di casa’ incurante del contagio per sé e per gli altri).

Parlare di vulnerabilità quindi non sembra soltanto avere a che fare con la determinazione di categorie sociali più deboli rispetto ad altre, sebbene spesso venga trattata in questo modo, cioè come inadeguatezza rispetto a un modello di completezza e perfezione, di salute e normalità.

Parlare di vulnerabilità, insomma, ha a che fare con la morte o con il pericolo di morte. E proprio per questo ha a che fare con la finitezza e quindi con la vita. Non riguarda alcuni, riguarda tutti.

Non siamo vulnerabili perché moriamo, siamo vulnerabili perché viviamo.

E che cambia? Cambia.

Gli altri (ovvero L’amore)

Gli altri sei tu. Sì, sei tu. Non c’è un Io e un Tu. Le relazioni sono tali perché non vanno in una direzione sola e questo significa che tu sei il tu di qualcun altro.

Potrebbe suonare un po’ arzigogolato ma basta pensare a una discussione tipo “Tu come stai?” “Bene, e tu?”: siamo due tu che parliamo l’uno all’altro.

Oppure potrebbe suonare a prima vista un po’ come “non volere che sia fatto agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te” o come un “porgi l’altra guancia” o anche “cerca di essere il cambiamento che vorresti nel mondo”.

Invece anche qui quello che vorrei proporre è l’elaborazione di una domanda, di un problema e non l’offerta benefica di una soluzione più o meno valida per vivere bene e serenamente con se stessi e con gli altri.

Il punto di questa breve riflessione sull’amore è la consapevolezza e non l’indulgenza (che implica colpa).

La consapevolezza per come la penso può arrabbiarsi tantissimo: quindi non intendo trattarla neppure come una pratica meditativa.

Vorrei mettere in luce come l’amore nel senso comune sia stato svuotato spesso di complessità o ridotto al dolore ma soprattutto come sia stato svuotato del suo significato politico per essere ridotto a un non ben identificato sentimento di dedizione incondizionata più o meno da sognatori più o meno da eroi o più o meno da succubi.

L’amore è la consapevolezza, non la paura, che la vita è questa gigantesca contraddizione di avere a che fare inesorabilmente con la morte per essere vita.

Questa contraddizione è insostenibile per il pensiero che per capire le cose tende a separarle e tassonomizzarle e identificarle. E poi rimetterle insieme.

L’amore invece è il processo che prende consapevolezza della contraddizione insostenibile della vita, che tiene due cose che sembra impossibile da tenere insieme, e della capacità di sostenerla.

Non separare la vita dalla morte infatti non significa svegliarsi tutti i giorni pensando che moriremo – quello più o meno è il trauma – ma significa prima di tutto non separare la propria vita dalla vita degli altri o non incolpare qualcun altro del proprio essere esposti alla morte.

Infatti essere consapevoli della propria vita passa principalmente dalla consapevolezza della morte dell’altro (visto che della propria non se ne può essere consapevoli). E quindi della vita dell’altro.

L’amore è la consapevolezza che siamo tutti ‘tu’ senza nessun ‘io’.

Il trauma, l’eccezione, fanno emergere la patologia dell’identità dell’io contro il tu, della separazione tra una dimensione naturale e una socio-politica, e questa patologia – che è la patologia della società in cui viviamo – prende il sopravvento sul suo mostrarsi come patologia.

Il trauma esibisce la vita. Lo fa spietatamente. L’amore è la consapevolezza che questa spietatezza è solo la contraddizione della vita.

E quindi?

Quindi stiamo attenti al trauma. Prendiamocene cura.

La vita ridotta a mero processo biologico è un inganno del pensiero: anche la vita biologica, quella che non sa di sé, muore ma è comunque vita.

La vita che sa di sé, l’essere umano, si inventa mille stratagemmi per sfuggire alla sua consapevolezza fingendo addirittura di potersi ridurre a ‘mera vita biologica’, a ‘natura’, per evitare di sostenere la contraddizione della contraddizione di sapere che sei vivo perché muori. Mi gira la testa.

‘È naturale’ lo usiamo al posto di ‘è giusto’ mentre diciamo che siamo diversi dagli animali e ci appelliamo a linee biologiche per stabilire cosa, appunto, è giusto per esempio mangiare o chi amare, in quanto naturale, ma siamo diversi dagli animali.

E quindi?

E quindi non la vita è un trauma, non lo è la sua consapevolezza. Il trauma è fare di tutto per dimenticarsi che tu sei quella consapevolezza. Il trauma è pensare che non morirai mai, che a te non succede e che succede solo agli altri. O che succede solo a te.

Il trauma ce l’hai quando la tua vita è in pericolo e viene preservata nel tentativo di non esporla alla morte, al fallimento, al giudizio, all’isolamento.

Il trauma ce l’hai quando la tua vita diventa la morte che vivi ogni giorno mentre gli altri ti sembrano così vivi e così sicuri che non moriranno mai. Il trauma ce l’hai quando pensi che non morirai mai. Che non finirà mai e invece finisce.

O cambia. È anormale, eccezionale.

Ma rispetto a cosa?

 

 

Lisa

1

di Barbara Lisci

I fili sono invisibili. Non sapresti neanche definirne la consistenza, il diametro, la forza di tensione prima della rottura. E il preciso istante? No, non ricordi neppure quello.
E allora cosa? Per Dio: cosa?
Il guizzo dei suoi occhi metallici. Quelle minuscole mani, veloci e timide che si attaccano come dendriti al tuo cervello. Le sue parole, che rotolano bianchissime dai suoi sorrisi.
E ancora?
La sua aria da signora, che sta precariamente in bilico tra l’essere madre e ancora figlia. I suoi passi nervosi che indovini sempre dietro agli scaffali. Quella distesa trama lunare ch’è la sua pelle.
E dentro questo involucro: i preparativi per un grande dolore, la forza di un ruggito assordante, la pugnalata del dubbio di aver perso qualcosa, per strada, per sempre.
Questa è Lisa, per te.
La sveglia aveva suonato, come ogni santo giorno. Ore 7.05. L’imperfezione le piaceva, se stava dentro ai piccoli particolari. Per il resto, cercava, per quanto possibile, di non affondare dentro le sabbie mobili dell’ordinarietà. Si era lavata con cura, la faccia, le orecchie, il collo. Quel che lo specchio rimandava, era un’immagine irregolare e sfuocata, la stessa di ogni mattina. Miope fin da bambina, aveva avuto il privilegio di scrutarsi solo se aveva voglia di mettere gli occhiali. Poteva decidere anche di estraniarsi dal mondo, bastava il gesto veloce di una mano e tutto appariva approssimato, opaco e confuso. Il caffè, uscendo dalla moka, aveva imbrattato lo smalto della cucina a gas. Lisa aveva bofonchiato un’imprecazione: merda! Aveva bevuto il caffè, a sorsi leggeri, scottandosi le labbra. Con l’indice, aveva infilato una scarpa, tenendo l’equilibrio su una sola gamba. Si stava facendo davvero tardi. Da vent’anni ormai era entrata a far parte della folta schiera dei timbratori, di quei milioni di italiani che vivono in simbiosi con un rettangolino di plastica e che, mattina e sera, avvicinano ad un mostro elettronico. Da quell’amplesso fugace e meccanico, l’orgasmo era sempre lo stesso: bip!
Lisa era corsa in garage, col cappotto infilato per metà, la sciarpa verde sulle spalle e la borsetta, ormai logora, trattenuta in un pugno. Cristo: le 7.57!
La vecchia Peugeot, non partiva mai al primo giro di chiave e questo la mandava ulteriormente in bestia. Stamattina poi, non poteva permettersi affatto ulteriori intoppi. Finalmente il tubo di scappamento aveva tossito una nuvola grigiastra e la macchina era partita in retromarcia.
Il cielo di novembre era plumbeo, l’autunno non era certo la sua stagione preferita, pensava immettendosi sulla statale. Alle 8.20 stava ancora inglobata dal traffico e come se non bastasse era cominciato a piovere fino fino. Lisa sentiva l’ansia salire dalle viscere fino al torace e da lì, diramarsi negli arti. La gamba sinistra tremava, non riusciva a controllare il piede, appollaiato come un gufo sul pedale della frizione.
La macchina che le stava davanti era ripartita, ma si proseguiva a passo d’uomo. L’ansia era diventata nervosismo, dallo stereo esalava Heaven di Elisa. Ma di paradiso, dentro quell’utilitaria, non v’era neppure l’ombra. Nei successivi cinque minuti, aveva percorso solamente un chilometro. Le 8.25. Il mostro inorganico stava per terminare il suo valzer di orgasmi: bip, bip, bip.
Timbrare in ritardo, significava entrare dritta dritta nella stanza del direttore, così borghese e insulsa, sedersi sulla poltrona di pelle consumata dai fondoschiena dei soliti colleghi e giustificarsi. Lei detestava soltanto l’ombra di questo pensiero. Aveva la sensazione di mettersi a nudo, mostrare la sua carne al mercato. Era l’ultima cosa che avrebbe desiderato, di buon mattino. Eppure sembrava inevitabile: l’orologio segnava le 8.28.
Doveva ancora raggiungere il caseggiato giallo paglierino, superare l’incrocio, svoltare a sinistra, entrare nel parcheggio. E poi ancora: spegnere la macchina, acciuffare la borsa, inforcare l’entrata e salendo due rampe di scale, raggiungere l’aggeggio infernale. Bip! Stavolta una salvezza.
Fuori pioveva forte, ma bastavano anche solo due gocce, che la città sembrava avvolgersi d’uno strano incantesimo: nessuno era più capace di guidare in modo sciolto e corretto. Un concerto di clacson assordante copriva la voce dello speaker. Lisa era ormai livida dalla rabbia.
All’automobilista che stava dietro, doveva senza dubbio apparire come un fantoccio muto, che si agitava smanioso e dinoccolato. Ma muta Lisa non ci sapeva stare: se avesse aperto il finestrino, la ferocia delle sue imprecazioni sarebbe salita fin su al primo piano, nella stanza della remissione. Quando uno spiraglio si aprì fra due autovetture, la Peugeot fece sgommare le ruote anteriori e partì come un razzo.
Lisa sentì solo il tonfo sordo di qualcosa che rimbalzò nell’asfalto. Ma non vide nulla. La rabbia aveva eretto una patina schifosa dietro le lenti degli occhiali. Frenò solo d’istinto, ma già la ruota stava sopra una massa molle.
Subito si formò un crocicchio. Qualcuno aveva urlato scendendo svelto dalla macchina, altri correvano dirigendosi da quella parte. Lisa ebbe la sensazione di aver ingoiato il cielo. Bocconi di piombo liquido scivolavano giù per la gola. Intorno alla sua auto, le persone si erano moltiplicate, alcuni davano pugni al finestrino, intimandole di scendere.
Tutto era ovattato, la testa girava vorticosamente e lei fluttuava densa e melliflua, mentre immobile fissava il nulla.
Il cuore, del bambino sotto la macchina, da due minuti aveva smesso di battere. L’orologio sul cruscotto segnava le 8.33.

A un’amica (lettera da Shanghai) # 2

3

[La prima puntata di questa cronaca fotografica di Shanghai durante la quarantena è qui. La seconda città più popolosa del pianeta, con più di 24 milioni di abitanti, come non è mai apparsa a occhio d’uomo.]

di Matthias Schäfer

(Traduzione dal francese di Andrea Inglese)

Messaggio del 04/02/20 15:52 à « Dove sono finiti i milioni di persone?! »

Bione di Flossa di Smirne – Epitafio di Adone

0

trad. di Daniele Ventre

Ahi per Adone io grido: “È morto lo splendido Adone”.
“Morto lo splendido Adone”, riecheggiano il grido gli Amori.
Cipride sopra lenzuola di porpora non riposare:
svegliati, misera te, con la nera veste e sul petto
battiti e dillo fra tutti: “È morto lo splendido Adone”.
Ahi per Adone io grido, riecheggiano il grido gli Amori.
Giace lo splendido Adone sui monti ferito da zanna,
candida zanna nel fianco suo candido e affligge anche Cipri,
tanto sottile ha il respiro: il suo nero sangue gli scorre
sopra le carni di neve e sotto le ciglia i suoi occhi
cedono, dalle sue labbra la rosa svanisce e su quelle
viene morendo anche il bacio, che no, non avrà mai più Cipri.
Anche se non è più vivo, a Cipride piace quel bacio,
e però Adone non sa che lei lo baciò nella morte.
Ahi per Adone io grido, riecheggiano il grido gli Amori.
Una terribile piaga, terribile, Adone ha nel fianco,
ma nel suo cuore la dea di Citera ha piaga più grande.
Si lamentavano intorno al giovane i cani fedeli,
anche le ninfe montane lo piangono: intanto Afrodite,
lei che le trecce s’è sciolta, in mezzo ai cespugli s’aggira,
lugubre, chiome neglette e scalza e frattanto i roveti,
mentre cammina, la graffiano e spillano il sacro suo sangue;
con un acuto lamento per gole profonde si inoltra,
grida per lui, per lo sposo di Siria, e lo chiama il suo bimbo.
Livido sangue però gli scorreva sull’ombelico,
fin dalle cosce era rosso il petto, di porpora rosso
era anche il petto di Adone, già candido come la neve.
“Ahi per la dea di Citerea”, riecheggiano il grido gli Amori.
Morto lo splendido sposo, è morta la forma divina.
Chiara bellezza ebbe Cipri, fin tanto che Adone era vivo:
Ma con Adone morì la bellezza. “Ahi ahi, dea di Cipro!”
Dicono tutte le vette e le querce, “Ahimè per Adone!”
E di Afrodite i dolori li piangono i fiumi, anche loro,
lacrimano per Adone perfino le polle sui monti,
per il dolore anche i fiori si arrossano; lei, Citerea,
leva lamento per tutte le balze e per tutte le forre,
ahi per la dea di Citera, è morto lo splendido Adone.
Eco in risposta gridò: “È morto lo splendido Adone”.
Chi col suo “ahi ahi” non compianse il feroce amore di Cipri?
Come intuì, come vide la piaga insanata di Adone,
come guardò rosso il sangue colargli alla coscia ferita,
se lo cullò fra le braccia e gridò: “Ah, Adone, rimani!
Misero Adone, rimani, che l’ultima volta io ti prenda,
e nel mio abbraccio io ti tenga e unisca alle labbra le labbra!
Svegliati, Adone, un istante, e donami l’ultimo bacio,
baciami per un momento, per quanto può vivere un bacio,
fino a che fra le mie labbra tu spiri e fin dentro il mio cuore
il tuo respiro discenda, io succhi il tuo filtro soave,
beva l’amore da te, che lo serbi io questo tuo bacio,
come te stesso, te, Adone, poiché tu, infelice, vai via,
tu te ne vai via lontano e discendi nell’Acheronte,
presso un sovrano spietato, terribile, mentre io, l’afflitta,
resto qui a vivere e sono una dea e non posso seguirti!
Tu mi rapisci lo sposo, Persèfone: già, tu lo sei,
molto più forte di me, ogni cosa bella a te corre:
io sono misera in tutto e soffro infinito tormento,
piango così per Adone che è morto e di te io ho paura.
Muori, o tre volte bramato, la brama è su me come un sogno,
vedova è ormai Citerea, sono soli in casa gli Amori.
Muore il mio cinto con te. Perché vai a caccia, tu, audace?
Tu che sei tanto gentile, hai osato affrontare una belva?”
Cipri gemeva così: riecheggiano il grido gli Amori.
Ahi per la dea di Citera, è morto lo splendido Adone!
Tante ne versa la Pafia di lacrime, quanto il suo Adone
versa di sangue e le gocce in terra diventano fiori:
rosa da sangue e così da lacrime anemone nasce.
Ahi per Adone io grido, è morto lo splendido Adone.
No, fra i cespugli lo sposo non devi più piangerlo, Cipri.
No, non è degno di Adone un solingo letto di foglie:
Dea di Citera, anche adesso che è morto, abbia Adone il tuo letto!
Bello è perfino da morto, un bel morto, quasi che dorma.
Stendilo sulle lenzuola tue morbide, dove dormiva,
dove con te nella notte in un sacro sonno giaceva,
sopra quel talamo d’oro: desidera Adone anche spento.
Gettagli intorno corone di fiori: e sia tutto con lui,
ora che lui è finito, con lui tutti muoiano i fiori.
Versagli sopra gli unguenti siriaci, versa profumi:
muoiano tutti i profumi, è morto il profumo tuo Adone.
Giace disteso su teli di porpora il tenero Adone
e lo lamentano e in pianto si effondono intorno gli Amori
e per Adone la chioma recidono: chi le sue frecce
getta su lui, chi il suo arco, chi l’ala e chi poi la faretra;
e chi poi libera Adone dei sandali, chi nel lebete
d’oro gli viene portando dell’acqua e chi lava il suo fianco,
chi nel frattempo con l’ala alle spalle ventila Adone.
“Ahi per la dea di Citera”, riecheggiano il grido gli Amori.
Presso gli stipiti tutte le fiaccole ha spente Imeneo,
via ha gettato anche il serto nuziale e non più, non “Imene”,
no, non “Imene”, il suo canto più modula, no, ma ricanta
“Ahi, ahi, ahimè”, e “oh, Adone”, più ancora che non “Imeneo”.
E per il figlio di Cinira effondono pianto le Grazie,
“Morto lo splendido Adone”, si dicono l’una con l’altra.
“Ahi”, esse gridano acuto, più ancora che non “o Peana”!
E per Adone perfino le Moire cantavano: “Adone”,
e riecheggiavano il canto: ed egli però non le sente;
non che non voglia, non già, ma è Kore che non lo rilascia.
Dea di Citera, oggi smettili i gemiti, frena i lamenti:
legge è che ancora tu pianga, che lacrimi ancora un altr’anno.

Taccuino di una quarantena

0

di Giuseppe Acconcia

1.

È il primo giorno di quarantena nella mia regione rossa e, senza che lo volessi, questo prolungato tempo in isolamento mi ha restituito la voglia di scrivere. E poi ho da poco acquistato un nuovo computer portatile e dismesso in uno scatolone il mio vecchio aggeggio i cui tasti erano quasi tutti saltati e che aveva quasi dieci anni. Quindi mi è più facile scrivere.

Mi è capitato di vivere una condizione simile soltanto una volta nella mia vita. Era il 2011, nei 18 giorni di occupazione di piazza Tahrir in Egitto, e nelle settimane seguenti. Fummo costretti, con altri due amici, a rimanere bloccati nella nostra casa per ore e ore nei pressi del cinema Odeon e a due passi da via Talaat Harb. Potevamo muoverci solo all’interno del nostro quartiere e per poche ore durante il giorno per fare acquisti essenziali. Sopra di noi volavano gli aerei dell’aviazione egiziana che controllavano i manifestanti in piazza e, di notte, si sentivano gli uomini dei comitati popolari organizzarsi per dare un po’ di sicurezza a quartieri che l’avevano persa a causa dell’assenza della polizia. Anche allora i detenuti protestavano nelle carceri, fuggendo quando possibile. Vivevamo uno stato di eccezione del tutto paragonabile a questo.

L’isolamento nella mia Wuhan è molto diverso. Prima di tutto sono solo in casa e questo cambia moltissimo la percezione del tempo e delle cose. Ho molto meno scambi di allora, tralasciando le poche conversazioni online con amici e famiglia che non mi danno lo stesso effetto dei miei coinquilini italiani al Cairo. Poi sono a Padova, una città di provincia del Nord Italia, raccolta tra belle piazze e antichissimi palazzi, dedita soprattutto al benessere degli studenti. Ieri sono uscito per l’ultima volta per comprare qualcosa e, camminando per strada, ho visto un veicolo dell’esercito e un’auto-ambulanza correre a sirene spiegate.

Da domenica siamo bloccati qui. Non possiamo prendere treni se non per motivi straordinari. Insomma, il principio è restare in casa. Certo è una permanenza in casa meno politica di un coprifuoco perché non ci sono ragioni politiche primarie che la motivano ma soprattutto necessità di buon senso e di salute pubblica. Non ci sono gli echi degli slogan delle proteste di piazza e le cariche della polizia. Eppure questa condizione mi ricorda il mio coprifuoco egiziano, una vita parallela rispetto al quotidiano e ordinario andamento dei giorni. Un’occasione per tornare a scrivere, per rimettere in ordine i pensieri, chiudere lavori che erano rimasti in sospeso.

E così continuerà un racconto dalla mia Wuhan se vorrete leggerlo. Potrebbe durare molto di più se la nostra quarantena dovesse andare avanti ma anche molto di meno, se il virus dovesse colpire l’intero palazzo. È vero che una forma di noia prevale nel vivere queste ore, e lo stesso è stato quasi dieci anni fa. Però ricordando quei momenti ora, la noia lascia spazio all’essenzialità della vita, e lo stesso, penso, farà ora per noi tutti.

2.

I giorni della quarantena trascorrono. La zona rossa è stata allargata a tutta Italia e questo rende la mia permanenza a casa un male comune da condividere con altri milioni di persone. Sono uscito per la prima volta a fare la spesa. Un minuscolo supermercato di solito vuoto raccoglieva molte più persone del solito. Da dove venivano? Un ragazzo parlava al telefono con gli auricolari e portava guanti in lattice mentre era intento a scegliere la carne tenendo aperto il frigorifero. Un signore molto alto e più che settantenne si aggirava tra gli scaffali con una mascherina molto spessa. È strano da spiegare ma questa indicazione del distanziamento sociale spinge a fare acquisti molto veloci e a dirigersi il più presto possibile verso le casse. Lì una signora mi ha porto un carrello ma ho preferito tenere le mie arance e la mia insalata tra le mani. La distanza di sicurezza tra i clienti risulta alquanto inusuale per un posto così piccolo e forma delle file anche in assenza di tante persone. Insomma una volta pagato è subito tempo di rientrare.

Dai balconi delle case che circondano la mia sento persone parlare al telefono oppure le vedo sostare. Ma quello che ha attirato più di ogni altra cosa la mia attenzione è stato il rumore di una sanificazione in corso che arrivava proprio vicino al mio appartamento, sul mio stesso piano. Ho chiesto al mio dirimpettaio cosa fosse: la sola interazione reale che ho avuto per giorni. Mi ha spiegato che si trattava di pulizie, niente di più. Nei giorni precedenti avevo sentito colpi di tosse e soffi di naso provenire proprio dagli appartamenti vicini. Mi era anche sembrato che un medico facesse visita al mio vicino ma non posso esserne certo dal rumore dei suoi passi o dalle poche frasi che si sono scambiati. In mattinata una ragazza piangeva e singhiozzava. Spero proprio che non si tratti dei primi morti che lentamente si avvicinano alla porta della mia casa. Spero di aver completamente frainteso o che si tratti soltanto di un paziente trasferito altrove, magari in ospedale.

Con il passare dei giorni fare acquisti diventa sempre più complesso. Ma questa volta ho tentato di essere più organizzato. Prima di tutto ho portato con me delle borse di stoffa per poter raccogliere i prodotti da acquistare. Inoltre, ho una maglietta di stoffa blu che mi alzo su bocca e naso in assenza di una vera mascherina. Per giorni la questione del virus è stata sottovalutata qui, o si diceva che avrebbe dovuto portare la mascherina soltanto chi fosse già malato. Il primo avviso che sarebbe stato necessario un certo distanziamento sociale l’ho avuto quando, incontrato un mio vecchio coinquilino, di ritorno dall’Algeria, mi ha detto che avremmo dovuto salutarci a un metro di distanza secondo le linee guida contro il coronavirus. Non è un modo in cui uso comportarmi, sempre pronto ad abbracciare e baciare quasi tutti.

Questa volta mi sono sentito più preparato per gli acquisti e, buttata via l’immondizia, mi sono diretto verso un supermercato più grande di quello precedente. Le strade erano completamente vuote, sembrava 2001 Odissea nello Spazio con le persone muoversi come in scafandri, come astronauti, tra gli scaffali. Una pattuglia dei carabinieri controllava che tutti rispettassero il decreto “Io resto a casa”, rimanendo a casa appunto se non per motivi di stretta necessità, come proprio acquistare dei prodotti alimentari o medicine. Pochissime persone facevano i loro acquisti. Gli addetti per la prima volta portavano la mascherina tranne qualcuno più spavaldo. Dovevo approvvigionarmi proprio delle cose essenziali dal sale alla pasta ma il momento più incredibile è arrivato dopo aver raccolto le bottiglie di acqua minerale. Una signora dal frigorifero, scafandrata, mi ha chiesto di fermarmi. Probabilmente se mi fossi avvicinato non avrei rispettato le distanze di sicurezza. Oppure la signora era una malata asintomatica del virus e non avrebbe voluto infettarmi. Fatto sta che questo distanziamento sociale sta iniziando ad avere i suoi effetti tra le persone. Alla cassa, un coreano mi guardava mentre in fretta cercavo di concludere il pagamento e affrettarmi a rientrare verso casa.

3.

Alle 18 è imperdibile il bollettino quotidiano sui contagi e le vittime del virus. Diventa un appuntamento sempre più inquietante però perché in Italia le morti si moltiplicano e i contagi salgono in gran fretta. E poi automaticamente passo al controllo delle mappe che riportano contagi e morti per regione e per provincia. L’unica consolazione è che il numero dei morti è molto basso tra i giovani mentre sale sempre di più a mano a mano che sale l’età. E così la quarantena è giustificata specialmente per chi ha più di 70 anni. Mi posso permettere un respiro di sollievo.

Se voglio distogliere lo sguardo da morti e bollettini, non resta che affidarmi al web. È diventato in pochi giorni una fucina di meme, video e audio davvero notevoli sul tema dell’isolamento di massa in casa. Tutti vogliono condividere la loro quarantena. All’inizio uno schiaffo tra Batman e Robin esilarante invitava tutti a rimanere a casa. Poi, dopo l’annuncio della chiusura di palestre e piscine, un meme sui quintali che verranno raggiunti nell’estate 2020 da ognuno mostra un gruppo di amici obesi che si divertono al mare.

Un fantasioso m’isolo mi ha fatto tornare ai sette nani in tempo di quarantena mentre una ragazza, vestita di tutto punto, si mette del profumo solo per andare in cucina e la madre le chiede dove vada conciata in quel modo. Le persone sembrano quasi impazzite a restare chiuse in casa. Alcuni vanno avanti e indietro sui loro balconi, altri cantano a squarciagola canzoni neomelodiche. Circolano anche auto-certificazioni strampalate sui motivi per rompere l’isolamento forzato. Un uomo si giustifica dicendo che deve dar da mangiare ai suoi maiali. Degli orientali improvvisano danze mentre uno di loro si fa male tentando di appendere un chiodo, dei ciclisti vanno in giro con la bici in casa.

Una famiglia fa la conta per chi deve andare a gettare la spazzatura: sembra essere l’unico svago della giornata. Una bambina spiega di non poter uscire per il “coravirus”, un uomo balla, come in una discoteca, attaccato al suo fornello. Alcuni comici si mettono nei panni dei più anziani finalmente liberi dei loro nipoti per timore del contagio. Tra tutti una mappa di un’Italia tutta rossa, sia per il virus sia come se fosse per la prima volta comunista, diventa virale. Alcuni vanno in giro per le strade con peluche finti per giustificarsi agli occhi dei carabinieri, altri si scattano foto in famiglia costruendo scenette come se stessero al mare.

Le conversazioni online con famiglia e amici si fanno più frequenti e diventano l’unico momento in cui condividere timori e in cui spiegare i motivi per cui è importante non uscire di casa forse neppure per fare la spesa, almeno per i più grandi. Aiutano molto anche le condivisioni dei contatti, per esempio i suggerimenti di film girati da donne di Chiara mi ha permesso di scoprire Tutto a posto e Niente in ordine di Lina Wertmuller e le Meraviglie tra una notizia e l’altra sui contagi. Anche la riscoperta di Fuori orario, un tempo pane quotidiano, mi ha tenuto incollato tra i bei the Image Book di Godard e il film filippino the Woman who left, facendomi riscoprire una vecchia abitudine di vedere film di notte che avevo ormai perso.

Non sono mancate le minacce di arresto dei governatori di alcune regioni italiane rivolte a chi continua ad aggirarsi per le strade o gli strafalcioni di vari sindaci che non sanno nemmeno pronunciare una parola in inglese. Di notte infine sono arrivati gli audio degli alcolizzati che restano in giro da soli in città fino all’alba.

4.

In realtà non è solo l’Italia a rischio. Si tratta di una pandemia ma che arriva in momenti diversi in aree geografiche diverse. Quando arrivavano le immagini del mercato di Wuhan in Europa sembrava che il virus fosse lontanissimo, che non sarebbe mai arrivato. Pensare poi che i cinesi in Italia fossero un problema appariva come al solito un discorso razzista e insensato.

A preoccuparmi più di ogni altro paese è l’Iran, sottoposto a sanzioni da parte degli Stati Uniti e in gravi difficoltà dopo l’assassinio del capo delle milizie al-Quds. Le immagini che circolano sulla stampa internazionale parlano di fosse comuni, di migliaia di morti, molti di più delle cifre riportate dalle fonti ufficiali. Tanti politici sono stati colpiti, l’ayatollah Khamenei si è mostrato sorridente alle telecamere mentre con i guanti piantava un albero in giardino. Eppure i cadaveri negli ospedali, i medici senza mezzi sufficienti impegnati in danze disperate nelle corsie non rincuorano. Sorush, un mio amico di Rasht, mi aggiorna sulla mancanza di rispetto delle regole del distanziamento sociale nella sua fattoria. I morti sarebbero decine e decine solo in questa città del Nord del paese. Continuo a ripetergli di trincerarsi in casa e soprattutto di non far uscire i suoi genitori, di evitare che salutino con baci e abbracci le persone che incontrano. Anche per gli operai della sua azienda dovrebbero essere previste delle regole rigide per evitare il contagio. E lui mi assicura che lavorano alternativamente.

Dall’Egitto non arrivano di certo notizie più incoraggianti. Hanno chiuso le scuole, è difficile stabilire se ci sia completa trasparenza sui numeri del contagio. Un’imbarcazione piena di turisti è stata fermata sul Nilo con a bordo presunti contagiati. Il mio amico Galal mi ha inviato un video che mostra il primo morto prelevato al Cairo da una squadra di medici nell’ilarità generale. Non sembra per niente che si rispettino norme di distanziamento sociale e potrebbe essere a breve una fucina di nuovi contagi. Dicono che al sole e con il caldo il virus si indebolisca, ma anche i numeri dell’Algeria non sono meno preoccupanti. Sono pochi i morti ma tanti i contagiati. Hanno chiuso le scuole e proibito le manifestazioni del movimento Hirak. Molti credono che il virus sia un pretesto per impedire gli assembramenti. L’Algeria in questo momento mi sta particolarmente a cuore perché sarei potuto essere là, sono rientrato da Algeri facendo scalo a Barcellona appena 14 giorni fa. Sarebbe stato probabilmente più piacevole passare lì questi giorni e questo mi avrebbe evitato la quarantena, forse.

Proprio la Spagna è il paese con il numero di contagi e di morti che più si avvicina all’Italia. Anche lì hanno bloccato tutto e si canta dai balconi. Mentre in Germania i provvedimenti sono partiti a rilento, i morti sono inferiori. Un mio amico di Hannover fatica a capire la differenza tra questo virus e una semplice influenza e neppure comprende le preoccupazioni del fratello che vorrebbe preservare i genitori. E se Macron ci tiene molto a tenere gli ultra settantenni in casa che non devono uscire neppure per fare la spesa, il premier inglese Johnson è sembrato davvero agghiacciante. Il suo discorso è che è meglio andare avanti e far ammalare il più alto numero possibile di inglesi, forse il 50%. Bisogna abituarsi a perdere “i propri cari”, secondo lui. Lo stesso discorso di Trump in qualche maniera. Il sistema sanitario pubblico non serve a niente, chi ha i mezzi si faccia curare e gli altri possono morire. Se muoiono centinaia di migliaia di persone sarà un dispendio minore per le casse dello stato. Pessimi.

Di sicuro dobbiamo tornare ai cinesi, solo loro possono dare una mano per porre freno ai contagi, indicando la strada migliore per evitare che la curva delle vittime cresca, donando il plasma con gli anticorpi, spiegando le strategie di contrasto alla diffusione per filo e per segno, indicando i metodi usati che vengono dalla medicina tradizionale cinese. Una terapia, sperimentata dai medici di Napoli, è usare un farmaco che blocchi l’infiammazione prodotta dal corpo e che è presente tra i pazienti più gravi.

L’idea del distanziamento sociale è proprio quella di ridurre al minimo le occasioni per trasmettere il virus. Baciandosi, abbracciandosi si viene in stretto contatto e saliva o goccioline dalle mani possono passare agli occhi o alla bocca e questo causa il contagio. In casi più rari il virus si può prendere toccando delle superfici contaminate. Di sicuro non fa bene stare in luoghi chiusi dove ci sono molte persone, basterebbe un infettato per passare la malattia a tanti altri. E così la soluzione migliore è stare lontano, aspettare il picco dei contagi per i comportamenti sbagliati che ci sono stati fino a pochi giorni prima. E che gradualmente i numeri scendano. Ma tutto questo potrebbe durare mesi. E la quarantena si allungherebbe.

5.

Le mie giornate di quarantena trascorrono in maniera davvero ripetitiva. La mattina cerco di svegliarmi il più tardi possibile, tra le dieci e le undici. Passo la notte tra la camera da letto e il soggiorno/cucina. A volte dormo vestito e senza coperte, altre dormo in maglietta e coperto da un piumone. Appena sveglio, apro le imposte di legno delle mie finestre per far entrare una luce spesso intensa di giornate soleggiate di fine inverno. Preparo il mio solito caffè e mangio alcuni datteri algerini. Avevo comprato tre confezioni che volevo regalare e invece di giorno in giorno le sto consumando.

In mattinata leggo gli articoli arretrati. Poiché sono un ipocondriaco cronico, già da giorni avverto strani sintomi. Ho una tosse con muco, un raffreddore persistente, ora avverto una febbre che va e viene. A volte sento un dolore fortissimo al mio fianco sinistro e più in alto verso l’ascella. Cerco di non pensarci. Penso di dover avere sintomi più marcati per chiamare un medico. Mi hanno detto di usare paracetamolo ed evitare ibuprofene e altre medicine simili. Ho con me una scatola di voltaren che ho preso per una storta che mi è occorsa l’ultimo giorno che eravamo in Algeria.

La mia casa è molto piccola ma dopo tutti questi giorni di reclusione mi sembra di essermi allargato. Sicuramente è così perché è impossibile svolgere qualsiasi attività ma sento anche che la mia percezione degli oggetti e delle pareti è cambiata. L’unica voce che ho sentito è quella di alcuni canti che vengono dai balconi vicini o dagli appartamenti dei vicini di casa. In alcuni momenti della giornata una vettura con altoparlanti che invita a rimanere a casa passa tra le strette strade del centro storico.

Mi preparo il pranzo con i pochi viveri che mi rimangono e prendo il mio caffè prima di ascoltare le notizie. Nel pomeriggio proseguo con le mie letture svogliatamente, guardando spesso i messaggi di amici e conoscenti che inviano video o condividono la loro quarantena, provenienti lentamente da tutto il mondo.

Alle 18 aspetto il bollettino e poi confronto i dati resi noti con gli articoli aggiornati che vengono diffusi dai media online. Alle 19 ascolto di nuovo le notizie che spesso sono dense di tristezza. E confronto i media italiani con i siti internazionali dal Guardian alla Bbc, da Le monde a El Pais. Chiacchiero con la mia famiglia in video. Raccontiamo la nostra giornata ma si tratta soprattutto di momenti in cui ribadire a chi è in là con gli anni di rimanere a casa. Non è facile, pochi giorni prima della quarantena in tutta Italia, i miei genitori, in un’età a rischio, sono usciti a fare la spesa e a mettere benzina. Il giorno seguente sono andati a fare dei prelievi. Insomma non hanno ben chiaro che dovranno rimanere in isolamento forse per mesi.

Iniziano ad ammalarsi in tanti, inclusi attori e politici, forse proprio chi è più a contatto con la gente da Sepulveda a Zingaretti, da Hanks a Giuliana De Sio fino a vari calciatori colpevoli di aver giocato nonostante la diffusione aumentasse. Di sicuro questo contribuisce a rendere il virus più affascinante ma non meno grave.

Le serate passano veramente nel tedio tra un episodio di Shameless e l’altro. Ieri ho scoperto che era possibile vedere Capri Revolution di Martone che racconta la vita di una comune a Capri e le reazioni tradizionaliste di una famiglia locale quando la loro unica figlia decide di unirsi a loro. E poi chiudo battenti e porte, prima di stendermi nel cuore della notte.

6.

Insieme al virus, è tornata aria di crisi. Era dal 2008 che non si respirava un clima del genere. Nelle carceri italiane per giorni si sono svolte le proteste dei detenuti per gli spazi angusti che potrebbero favorire la diffusione del virus e per la decisione di sospendere le visite dei familiari. Nelle fabbriche sono state numerose le proteste dei lavoratori per la continuità nell’attività produttiva nonostante il distanziamento sociale. Non solo, negozi e ristoranti chiusi, l’assenza di turisti, qualsiasi evento pubblico cancellato, i confini chiusi non fanno certo pensare in un futuro prospero.

Di sicuro questo virus mostra le fragilità del sistema capitalistico. Le borse che calano a picco, lo spread che aumenta inesorabilmente, l’incapacità dell’Unione europea di gestire la crisi puntando come sempre sulla penalizzazione degli anelli deboli, come confermato dai discorsi di Lagarde, a guida della Bce.

Come se non bastasse, si aggiunge una certa incertezza nella gestione del virus. Da una parte sulla gravità della malattia. Fino a pochi giorni prima dell’inizio della quarantena si parlava di poco più di un’influenza. Poi nella difficoltà di svolgere tamponi che certifichino chi ha il virus, capita che chi è guarito torna ad essere positivo. Incertezza che si riflette nelle cure: alcuni sconsigliano di somministrare cortisone e ibuprofene; altri propongono cure che richiamano i medicinali usati per l’artrite reumatoide. Non si sa neppure quante persone siano davvero contagiate, potrebbero essere moltissimi gli asintomatici o chi non viene mai testato. Non si sa quanti davvero potrebbero morire perché le percentuali in Europa sembrano più alte della Cina. Non è possibile prevenire il virus perché non esiste al momento un vaccino. Non è possibile stabilire chi già ha avuto il virus e poi è guarito perché non esiste un metodo per verificare la presenza di anticorpi nel sangue consolidato. Per esempio una persona potrebbe essere stata già in contatto con il virus nei mesi passati ed essere quindi immune ormai.

Potrei aver già contratto il virus e averlo passato alla mia famiglia. Il 23 dicembre, in una cena con amici, eravamo tutti malconci. Tra i commensali c’era una mia amica che lavora con la Cina, molto influenzata. Pochi giorni dopo suo nonno è mancato per un collasso del sistema respiratorio. Potrebbe aver passato all’anziano nonno e a tutti noi il virus senza saperlo!

Non esiste un vaccino per evitare che la malattia si presenti. La corsa al vaccino va avanti, gli Stati Uniti di Trump sono in testa e vorrebbero sfruttare a loro solo vantaggio gli studi fatti fin qui da olandesi e tedeschi.

Di certo la quarantena di milioni di persone fa bene all’ambiente. L’inquinamento è calato proprio nelle zone più produttive dove i morti, guarda caso, sono di più. In altre parole si muore di più dove i polmoni sono già provati dall’inquinamento dovuto all’alta attività industriale. Paradossalmente però lo stop alle attività potrebbe provocare meno morti per inquinamento. Questo numero sarebbe davvero maggiore rispetto ai morti per il virus.

Poi esistono i teorici delle curve epidemiologiche. Da una parte, alcuni studiosi inglesi vorrebbero perseguire un’ “immunità di gregge” che provocherebbe centinaia di migliaia di morti con il semplice obiettivo di tenere in piedi l’attività produttiva, secondo i peggiori dettami neoliberisti. Altri invece, difendono il distanziamento sociale, come unico mezzo per appiattire la curva del contagio.

La contemporaneità del contagio in tutt’Europa poi e per la prima volta, permette di confrontare in maniera sistematica le reazioni politiche dei politici degli stati membri in una maniera chiarissima. Se Spagna e Francia hanno bloccato tutto seguendo il modello italiano, Gran Bretagna e Germania sembrano voler arrivare allo stesso punto gradualmente. Ma la cosa più interessante è analizzare le contromisure economiche prese dai singoli stati. Con i confini europei chiusi, solo Macron ha potuto annunciare lo stop alle tasse e agli affitti mentre i provvedimenti italiani sono sembrati, come al solito, molto meno diffusi e ancora parziali, minimi sono i sostegni a chi perde il lavoro. Ancora una volta, la crisi c’è per tutti ma di nuovo le fasce più deboli e marginalizzate la sentiranno di più e i paesi più a rischio ne sentiranno amplificati gli effetti sia a livello sanitario sia economico. E così raccontare questi giorni e romanticizzarli ed esorcizzarli, come faccio in queste righe, è già un privilegio di classe.

7.

Sono ormai passati quasi venti giorni di quarantena. Solitudine e tristezza la fanno da padrone. La solitudine non è per me una novità né mi spaventa: mi permette di riflettere, di scrivere, di ragionare. Però non bastano più i contatti online, le spese veloci, le voci dei vicini per alleviare questo stato d’animo. L’uso di guanti e mascherine, la distanza dalle persone, il timore che anche le superfici raccolgano il virus, la continua sanificazione del pianerottolo e delle scale, la discesa delle scale per evitare l’uso dell’ascensore, il tenere lontani gli abiti che si usano per uscire rendono le giornate estremamente pesanti. L’igienismo non è mai stato il mio forte e lo è ancora di meno ora. Pensare soltanto che usciremo fuori da questa quarantena con più misure sanitarie, con il distanziamento nei ristoranti, nei bar, i contingentamenti all’entrata, le app per controllare gli spostamenti dei malati, la temperatura misurata a ogni lavoratore che abbia toccato il cibo che compriamo al supermercato o in salumeria è un vero incubo per me.

Forse è meglio stare in quarantena. Eppure le giornate si fanno insopportabili. Centinaia e centinaia, tra 600 e 700, sono i morti che ogni giorno vengono seppelliti senza funerale nelle città che mi circondano. L’esercito accompagna le bare lontano dalla città di Bergamo. Sono scene che mai avrei pensato di vivere. E i numeri non accennano a scendere nonostante il distanziamento sociale, mentre scrivo abbiamo superato di gran lunga gli 8mila morti.

Sono vietati matrimoni e funerali: l’intera società è sospesa. Tutti sperano in un giorno in cui sia possibile tornare a camminare e correre per le strade. E se anche qui le cose dovessero andare meglio, bisognerà sempre aspettare che migliorino in Francia, Spagna, Germania, Gran Bretagna e dovunque nel mondo, altrimenti si diffonderanno contagi di ritorno. Si ricomincerebbe tutto d’accapo. Ormai tutti in Europa e anche in Africa hanno chiuso i battenti. E se in Italia si fanno file per approvvigionarsi a supermercati e salumerie, in Francia molti si accalcano a comprare vibratori, in Olanda a fare rifornimenti di erba, negli Stati Uniti di armi, ognuno seguendo l’istinto principale che sente più importante.

Per la prima volta dalla seconda guerra mondiale sono stati cancellati i giochi olimpici che si sarebbero dovuti svolgere in Giappone. Non avrei mai creduto di vivere una situazione del genere: il mondo intero fermo, bloccato forse per un anno, migliaia di morti dovunque e l’impossibilità di programmare o fare qualsiasi cosa. Finalmente i termini “vecchio” e “giovane” hanno riconquistato i loro significati. Chi ha più di 60 anni è ritenuto più a rischio e chi ne ha meno di 50 meno. Tuttavia, non mancano le eccezioni di 90enni che escono indenni dopo aver contratto il virus e ventenni che muoiono. In questo senso la quotidianità riacquista significato dando valore all’età. Non si è giovani per sempre e non si può vivere un’anzianità infinita: sembrano cose chiare, palesi ma queste idee si erano perse in una società che ha badato sempre e solo a procrastinare.

Ieri sera in bagno ho sputato del sangue. Per un momento ho pensato che fosse dovuto alla polmonite interstiziale che è causata dal virus ed è mortale. Sono stato certo di stare per morire. Poi mi sono accorto che era semplicemente un minuscolo taglio che mi ero procurato alle gengive. La mia ipocondria è senza freni. Credo di poter avere tutte le malattie se mi si descrivono nei particolari i sintomi. Per esempio, da quando parlano di perdita dell’olfatto, sento le mie papille gustative fluttuare e la mia bocca avvertire sapori variegati o la loro assenza. E non so dirvi quanto mi inquieti il continuo via vai delle ambulanze e le loro sirene mentre si dirigono verso l’ospedale.

All’una arriva come ogni notte il bollettino dei contagi nella città dove sono nato. I giornalisti locali descrivono caso per caso ogni contagio, in ogni paese, in base alla residenza presente sul documento di identità. Quindi c’è l’anziano di Molina morto, contagiato dalla figlia milanese, il santone che ha svolto il ritiro neocatecumenale, l’anziana di Casalpusterlengo che ha contagiato l’intera famiglia, l’insegnate morto a San Valentino, il 48enne e la donna ricoverata al Moscati, il parlamentare contagiato a Pagani e con lui altri dieci, la biologa e l’estetista del Cilento. Non mancano i contagi attribuiti alla provincia ma provenienti da località esterne. Buonanotte.

 

Da Antartide

3

di Bruno Clocchiatti

1.

 

“Qui, fino a una trentina d’anni fa, pioveva sempre. Oggi la nebbia ha preso il posto della pioggia, e solo ora constato come si tratti di una nebbia tanto fitta ed impenetrabile che perfino un cittadino del DE (nel cosiddetto “caseggiato vecchio”) faticherebbe ad immaginarla, benché in fondo io riconosca a priori nella mia regione un luogo del tutto sfavorevole ed inospitale per lo spirito, e ciò senza nemmeno considerare catastrofiche condizioni atmosferiche complessive le quali, a mio avviso, incidono appena marginalmente sull’umore delle popolazioni indigene, tutte alla stessa maniera già gravate da un’indole per così dire malinconica, e infine tetra se non addirittura distruttiva, al punto che da tempo mi identifico con difficoltà nei costumi di tali genti o, più in generale, nell’atmosfera di un luogo il quale, secondo alcuni mentecatti, è vittima di un imprecisato genius loci in tutto e per tutto funesto: questo è il genere di idiozie che di recente mi ha reso quasi insonne, per notti e notti, in attesa di cambiare aria, come si usa dire, o di mutare radicalmente il paesaggio che mi sovrasta e che mi schiaccia, opprimendomi fino alla nausea e portandomi ogni volta ad un passo dalla nevrosi. Mai, come mi ripeto, ho lasciato che questa malattia, che questo pessimismo cosiddetto ambientale potesse prevalere sulla mia natura, una natura senz’altro schiva e diffidente ma non priva di slanci – come a volte addirittura tuo padre si è azzardato a riconoscere –, fino ad un punto tale in cui la mia indole (forse mansueta?, annoto) è giunta a prestare il fianco alle tue tipiche stravaganze dovute, tu stessa lo hai ribadito, ad una certa sindrome meteoropatica, o meglio ancora ad un imprecisato malanno del luogo, una definizione tanto arbitraria da farmi dubitare dell’esistenza stessa della patologia da te descritta, finché la suddetta nebbia, simile alla ghigliottina che incomba sul collo di un innocente querulo, è calata tanto fitta ed impenetrabile da giustificare i tuoi turbamenti e addirittura i tuoi accessi di rabbia; ecco allora che la malattia nervosa è divenuta in prima istanza una malattia del luogo, e in seguito anche un tratto saliente dei nostri tortuosi paesaggi, quasi una convenzione da dare in pasto al visitatore più disilluso per, in buona sostanza, foraggiare il suo disincanto. Non dubito, oramai, che sarei persino in grado di decantare ed infine di vendere al primo sprovveduto – mi dico – ciò che il paesaggio circostante ci presenta in forma di autentico prodigio della ripugnanza, simile ad una superficie pustolosa capace di produrre, nottetempo, dei funghi immangiabili o delle muffe non-curative (mi riferisco alla mia stanza attuale?), e via discorrendo potrei magnificare tutta questa teoria di miasmi e di estesa corruzione, un’accozzaglia di prodotti caseari stipati nel frigorifero e poi lì dimenticati a marcire, come se il padrone dei nostri paesi fosse partito per un viaggio inderogabile, dimenticandosi infine tanto della propria casa quanto dei propri affetti più cari. E il padrone al quale faccio riferimento, in questo caso specifico, è la nostra coscienza pregressa, un oggetto ormai tanto consunto ed irrancidito da ripugnare perfino gli stomaci di sasso dei nostri vicini, le stesse persone che hanno oltremodo rafforzato la mia decisione di isolarmi e di tacere, come già ti riferivo, cara Ornella, finché il rapporto di vicinanza – e la stessa considerazione si può estendere alla nostra relazione – si è tramutato in effetti in un rapporto di lontananza, invero dei più intransigenti, alla stessa maniera in cui la nebbia ha accentuato la separazione tra l’essere e l’oggetto, come mi dico ora, forzandomi in una certa misura a scrivere ciò che sto tentando di scrivere, nella mia stanza gelata, versando in un’apparente condizione di sconforto e di perdurante stasi. Ultimamente le passeggiate col mio cane, sempre più frequenti e sempre meno consapevoli, hanno assunto i connotati di un’autentica sfida ai banchi di nebbia; non di rado il mio cane ha perfino abbaiato ai banchi più fitti, ottenendone in cambio un’eco ovattata che ora pare rallentare il nostro passo, o addirittura arrestarlo, quasi a dar ragione a Parmenide o a convincermi che mai e poi mai riuscirò a percorrere l’infinità di punti che mi separa – così mi esprimo – dall’incoscienza strutturale, vale a dire da quella condizione di torpore e di abbandono che permette al pensiero di cambiare letteralmente sostanza, mi dico, senza assumere tuttavia una forma immediatamente comprensibile, al punto che le stesse parole che ho impresso sulla carta mi paiono ora un espediente propedeutico verso altri scopi, ancora non chiariti e che dovrò scoprire a tentoni, considerata la cecità della ragione, che solo adesso riconosco, nella quale la stesura della missiva mi ha finora precipitato. Riflettendoci a posteriori, ti espongo in breve la mia condizione presente: immagina me ed il mio cane smarriti nella nebbia, con in mente solo pensieri occasionali su ciò che non vediamo, e tali pensieri hanno brevissima durata e poi ripiombano nell’oblio. Ebbene, il nostro percorso insieme, cara Ornella, è stato simile all’immagine che ho appena descritto, con brusche deviazioni verso la nuda e specchiante realtà che ci ha danneggiato, come ora ravviso, più della costante suggestione nella quale i nostri animi abitualmente oziavano, naturalmente a nostro svantaggio e detrimento. E’ tuttavia evidente – e con ciò riprendo il ragionamento sospeso – come nessuno dei due, né tu né tantomeno io, abbia mai sognato alcunché durante i nostri anni insieme, semmai la nostra forzosa contiguità somigliava all’incubo dell’individuo che ha mangiato troppo e che si corica con la digestione in subbuglio, sperando in un sonno ristoratore che al contrario lo getta nel delirio, come se ogni dolore della pancia si tramutasse in un crampo dell’inconscio, o meglio del preconscio, rispondendo così ad un male fisico con un male essenzialmente psichico; ho l’impressione che, in noi due, tale malattia abbia valicato il confine del riposo e si sia insinuata nella veglia, simile ad un crampo della ragione, lasciandoci fiacchi ed indifferenti senza purtroppo, come mi dico ora, distendere i nostri nervi e di conseguenza portarci a quell’incoscienza strutturale (o, come la chiamo adesso, incoscienza costruttiva) alla quale, in un certo senso, il mio isolamento e il mio imposto silenzio aspirano sin dal principio della nostra separazione. Eppure sono perfettamente vigile e le fitte al collo non accennano a diminuire, rendendo di conseguenza ogni pensiero rancoroso, involuto e sterile, al punto che ciascuna riflessione mi appare come un passo indietro verso la nostra vita insieme, benché la scrivania e la carta da lettera macchiata siano testimoni della mia presenza, hic et nunc, nella stanza gelida, tra l’intonaco a chiazze, con in mano la stilografica che mi pare difettosa, che pare non voler scrivere altro se non ingiurie e lamenti in fondo solamente patetici. E in effetti – mi chiedo ora –, ti sto parlando o ti sto, di fatto, scrivendo? E’ un quesito ragionevole, e il dubbio permane: ricordo d’aver steso una decina di frasi, ma ora la mia testa è reclinata all’indietro e le braccia non possono raggiungere i fogli. Non ho tuttavia intenzione di muovermi, se non attraverso il ricordo di gesti precedenti, come le passeggiate col mio cane, tra la nebbia del paesaggio che è divenuta una nebbia del pensiero e infine una nebbia della memoria, al punto che potrei facilmente distorcere la sostanza dei nostri anni insieme, Ornella, confondendola col presente, ovvero con il nulla pressoché totale che il mio presente per forza di cose comporta, considerato come in fondo il mio nulla sia sempre stato foriero di miraggi e di atroci recriminazioni le quali, per numero ed intensità, hanno spesso sopravanzato la nuda realtà e i cosiddetti fatti, ammesso che tra noi due sia mai accaduto qualcosa di concreto. A volte ho perfino l’impressione di non averti mai toccata, simile al rivale che il mio cane sfida nella nebbia senza mai raggiungerlo, senza che il rivale appaia mai tra la caligine pur essendo il rivale un’entità presente, non certo una chimera o un vaneggiamento; ebbene, mi pare di non averti mai toccata e di stringere tra le mani solo la consistenza del mio pensiero, consistenza che va affievolendosi, e questa sciocca penna, che scrive inesattezze su tutto ciò che richiederebbe chiarezza, non mi è certo di aiuto. Vedo, simile al mio cane nella nebbia, un mucchio di persone assenti e di attimi rimossi ai quali, ad ogni passo nella foschia, si sostituiscono altre persone ed altri momenti, in una sequenza inafferrabile e priva d’ordine – se non addirittura priva di senso – alla quale rifiuto di dare retta, alla quale in sostanza non voglio soggiacere. E’ possibile che la mia lettera non significhi niente, per te come per tutti gli altri, eppure devo continuare a scrivere per liberarmi da questo crampo, in grado di paralizzare il pensiero e di pregiudicare la mia salute, fino a che i nervi mi daranno finalmente tregua. Ora sono troppo nervoso, e ci vedo poco, benché nei miei ricordi il cane stia tirando il guinzaglio, con una forza inusitata, verso tutte le direzioni sbagliate, verso tutti i sentieri interrotti che un tempo ho tanto amato e che adesso mi ripugnano; ho cercato di abolire ogni direzione finché l’assenza di direzioni mi ha esasperato: non mi sento ancora a casa (eppure devo trovare casa) e tuttavia, una volta che la mia testa si sarà rasserenata, non escludo di voler di nuovo scompaginare le mie carte per perdermi in recenti e più proficue speculazioni, senza una meta precisa o un rifugio sicuro, in un eterno ritorno simile alle nostre passeggiate nella nebbia, col cane o in tua compagnia, cara Ornella, finché ogni percorso sarà cancellato per sempre dal percorso seguente. E’ possibile, in ultima analisi, che questa mia lettera rappresenti la sola possibilità concreta di lasciare una traccia e, pertanto, di risvegliare una memoria che si è fatta via via sempre più lacunosa. Prenderò appunti su questi pensieri i quali, al momento, risultano simili ad un delirio strutturato, e non escludo che da qui in avanti tale delirio perda proprio la suddetta struttura, e si infittisca come la nebbia, spingendomi ad abbaiare nella tua direzione, senza tuttavia sapere dove tu sia. Considera queste mie riflessioni come un primo passo verso un’oscurità più densa, che difficilmente riuscirai a penetrare”.

 

Attendiamo il dopoguerra

8

di Alessandra Spallarossa

Forse complice la memoria che sbiadisce dopo una certa età, forse anche il processo di rimozione dei ricordi dolorosi per salvaguardare la propria salute mentale, mia nonna al telefono mi spiega che la guerra fu meno pesante per loro rispetto a questa reclusione forzata e a questo dramma epidemiologico.
La sua dichiarazione arriva in risposta al pensiero che ho condiviso con lei pochi secondi prima: “certo è dura ma per voi la guerra dev’esser stata molto peggio”. “No”, mi dice, lasciandomi sorpresa.

La radice dell’inchiostro. Dialoghi sulla poesia (seconda parte)

6

 

NOTA INTRODUTTIVA

 

Vincenzo Accame, Récit
(La Nuova Foglio, Macerata 1976)

 

«Forse non spetta a te di portare a termine il compito, ma non sei libero di rinunciare.»

(Avot 2,21)

 

Un questionario, come luogo di una sollecitazione: «È ancora legittima la radice dell’inchiostro?». Non solo il come si scrive, ma lo scrivere stesso, malgrado le storture. Lo scrivere che si porta avanti per decifrare la qualità del proprio silenzio o del proprio arretramento.

Una nota appuntata altrove scompiglia ulteriormente il ciglio dell’interrogazione: «Come dimenticare la fine -della storia, della poesia-? Non soltanto la fine che è già stata decretata, ma anche quella sempre sul punto di venire, di tramutarsi in eschaton rovesciato, in buona novella liberale: “la fine della storia ad opera di Dio è diventato il progresso storico dell’umanità” (Sergio Quinzio, La Croce e il Nulla, 1984).»

Oggi la scrittura non sarebbe altro che uno stornare la necessità di una risposta a tali quesiti, e insieme un esserne già in partenza incomodati, chiamati a dire prima ancora di sapere. Citati in giudizio. Forse per questo i poeti italiani somigliano sempre più a glossatori dell’affaccendamento, come se l’andirivieni tra le cose quotidiane fosse un modo per incenerire con uno stesso rogo i sintomi del presente e l’eredità del secolo passato. Qualcosa continua a battere sulla pagina, e allora ne riporto una traccia…

Adriano Spatola, da Poesia Apoesia e Poesia Totale (1969): «Il poeta sa che la poesia è qualcosa che lo riguarda sempre meno. […] “Per il poeta, la fine della poesia come poesia è un fatto accertato”». Corrado Costa, da Alzare la gru ad alta voce (1972): «Che nome è che gridano / alle gru spaventate dal loro nome / volano via inseguite dal nome che le insegue / che vola via sta insieme con le gru / senza sapere che nome è». Emilio Villa, da quell’abiura in forma di annotazione che segnerà il suo congedo definitivo dalla letteratura (1985): «Ma, volevo dire: non si sente che io non credo alla “poesia”, che ritengo una baldracca del baldraccone che è il linguaggio … Io mi sono duramente dissociato della “poesia”, quindi perdonami, e non mi chiedere più niente».

Nulla più che righe inferme, potrebbe obbiettare qualcuno. Se non altro, questo breve attraversamento aiuterà a scamuffare le tresche dell’oblio programmato, e così a comprendere qual è il fantasma con il quale ci dobbiamo confrontare. Ogni nostra parola vigila il suo personale dirupo: sta a noi scrivere come se già custodissimo un anticipo della caduta.

Il vero lavoro del glossatore, conviene ripeterlo con Heller-Roazen, è quello di rinnovare l’incompletezza, poichè sempre precaria dovrà essere l’interpretazione del libro-mondo (e insieme sempre cercata). Proprio a partire da ciò, ho chiesto ad alcuni poeti e critici letterari di farsi alleati a una riserva di bianco. Di raccogliere gli interrogativi da posizioni divergenti, cioè di strincerarsi, e di usare questo spazio come un modo per tornare a domandare un qualche assenso alle cose nominate…

Giorgiomaria Cornelio,

dicembre 2019

 

SOGLIA

 

«As for exiting from language, we really can’t escape it;

it’s no use pretending not to make signs since we are

on foreign soil, we never manage to be anything but

shams, rather as one says “false witnesses”. But

what can be said about a false witness?»

 

Fernand Deligny, The Arachnean and Other Texts

 

 

«La morte sta nell’eliminazione di ogni suono e residuo linguistico.

Di conseguenza non sarebbero praticabili incontri con

ombre, dèi, fate, cioè alcuna consolazione da scribi.

Attraverso questa porta senza referenti si può dimenticare

o essere dimenticati, non possedere né essere posseduti.

Addio storia, addio natura.»

 

Remo Pagnanelli, Preparativi per la villeggiatura

 

 

«Chi scrive? A chi? E per inviare, destinare, spedire cosa?

A quale indirizzo? Senz’alcun desiderio di sorprendere,

e quindi di catturare l’attenzione a forza di oscurità, devo,

per l’onestà che mi rimane, dire che, alla fine, non lo so.»

 

Jacques Derrida, La carte postale

 

 

«Non dimenticare mai che sei

il nucleo di una frattura.»

 

Edmond Jabès, Il libro delle interrogazioni

 

 

 

 

TAVOLA DEGLI INTERVENTI

 

PRIMA PARTE

(uscita il 14 marzo)

 

Aldo Tagliaferri / Giulia Martini / Davide Brullo / Polisemie (Mattia Caponi, Costantino Turchi) / Francesco Iannone / Carlo Selan /  Marco Giovenale / Mattia Tarantino / Giovanna Frene / Carlo Ragliani /  Marilina Ciaco / Sergio Rotino

 

SECONDA PARTE

Matteo Meschiari / Andrea Inglese / Davide NotaRenata Morresi / Riccardo CanalettiBianca Battilocchi  / Anterem (Flavio Ermini, Ranieri Teti) / Mariangela Guatteri  / Mario Famularo / Fabio Orecchini / Giovanni Prosperi

 

 

TERZA PARTE

(uscita il 31 maggio)

 

 

MATTEO MESCHIARI 

L’albero misuratore

 

In Seamus Heaney ci sono bussole mentali ovunque ma, per me, le più potenti di tutte sono in Door into the Dark, North e Station Island. Il mio rapporto con la poesia contemporanea inizia appunto con l’ultimo. Era il 1992 quando uscì la traduzione italiana di Gabriella Morisco e Anthony Oldcorn, inchiostrata malissimo. Appena tre anni dopo sarebbe arrivato il Nobel. Ricordo di aver corteggiato il libro che adesso ho qui davanti entrando almeno una decina di volte in una storica libreria modenese, sfogliando, uscendo, non decidendomi mai. Alla fine l’ho comprato, e il mio modo di leggere e di scrivere poesia è cambiato. Venivo da uno strano apprendistato fatto solo di epica norrena, finnica, antico-francese. Ovviamente c’era stata la poesia a scuola e all’università, sul Contini, a lezione da Pasquini e Raimondi, in una Bologna estinta con un cuore enorme. L’unica eccezione al mio letargo nell’epica, nella fiaba, in Tolkien, erano stati i Canti Orfici, ascoltati per la prima volta, ragazzino, in un teatro semivuoto, con lì davanti, ad appena due metri, uno stanchissimo Carmelo Bene. Poi Heaney, e la comprensione che la poesia era in grado di traghettare adesso qui proprio quel mondo in cui, come scrivente, ero cresciuto tra i quattordici e i ventiquattro anni. Un apprendistato che mi ha salvato dal filologismo, dall’antiquariato, dall’escapismo erudito, ma che mi ha anche tenuto lontano dall’ungarettismo, dal montalismo, dall’epigramma emotivo e da un’idea riparatoria o taumaturgica della poesia. In quegli anni l’ho capito leggendo questi versi:

Le strade regali erano sentieri per mucche.

La regina madre stava accovacciata su uno sgabello

e faceva vibrare le corde d’arpa del latte

dentro un secchio di legno.

Con bastoni stagionati la nobiltà

signoreggiava sui quarti posteriori del bestiame.

Era un’intera ars poetica che non solo mi spiegava il come, ma che legittimava un enorme lavoro di reviviscenza, il traghettare l’epos arcaico nel nostro mondo e nel modo stesso di fare poesia, oggi. Per un ragazzo, per me che amavo i lampi e non i lampioni, era un modo per capire che nei lampioni ci sono ancora i lampi, se sai dirlo nel modo giusto. Station Island però mi aveva dato molto di più, cioè la sospensione dal senso di colpa, quella di non rassegnarmi alla lirica. Volevo leggere e scrivere poesia narrativa, e in Italia non ne trovavo che davvero mi piacesse, tranne forse Bertolucci, forse qualcosa di Conte, certamente il Mussapi di Antartide. Un imprinting invalidante, nei cenacoli e nei salotti, un problema grosso, se avessi pensato di farmi vedere nelle riviste. Ma Heaney diceva:

Non me la sono mai presa calda per loro.

Se eccellevano erano petulanti

e spinosi come l’agrifoglio

che trasformavano in poltiglia per far l’inchiostro.

E se non mi hanno mai accolto come uno di loro,

non mi potevano neppure negare il mio posto.

È Sweeney re dell’Ulster che parla, e ovviamente è Heaney che ritrae gli “scribi” suoi contemporanei.

Nella quiete dello scrittorio

una perla nera si stava concretando in loro

come la vecchia poltiglia secca nei loro calamai.

A me poteva bastare. Il loro bolo non era il mio. Il mio inchiostro non era il loro. Il mio veniva da palinsesti così vecchi che solo la lampada di Wood poteva evocarli come ectoplasmi. O almeno così pensavo, nel romanticismo di un’età che non è più la mia da venticinque anni. E oggi? Nella Voluspá c’è una strofa:

Ricordo i giganti
nati in principio,
quelli che un tempo
mi generarono.
Nove mondi ricordo
nove sostegni
e l’albero misuratore, eccelso,
che penetra la terra.

Oggi non mi sono spostato dall’albero misuratore. Non credo di dare al progetto generale un contributo visibile, ma per me anche oggi, soprattutto oggi, la poesia deve essere cosmologica, epica, narrativa. I poeti-guida ci sono: Kenneth White con Atlantica, Juan Liscano con Nuevo mundo Orinoco e Fundaciones, Lorand Gaspar con Sol absolu, Derek Walcott con Omeros, e poi Niger Mundus di Villa e ovviamente Seamus Heaney, magari con le sue traduzioni del Beowulf e dall’Eneide. Cosmologica, epica, narrativa. Non perché si debba tornare alle radici, agli archetipi, alla mitopoiesi originaria, ma perché il collasso ambientale, economico, sociale sta modificando radicalmente la percezione stessa della poesia, del suo ruolo, dei modi e dei fini. Magari dalla torre non si vede, ma la marea sale. E allora non ci serve una poesia dell’Antropocene, ma una poesia nell’Antropocene è inevitabile. Le radici dell’inchiostro che verrà sono qui adesso, in questo momento.

 

 

ANDREA INGLESE

Verifica degli usi

 

 

Caro Giorgiomaria,

C’è del buono in quello che fai, sollecitare assieme autori diversi, invitarli a strincerarsi. Lo fai con un tono, forse inevitabilmente, trincerato, e quindi per me un po’ troppo solenne, ma d’altra parte anche noi, dicentesi poeti o simili, dovremo per un attimo prenderci sul serio. Anche se, un poeta che si prende sul serio, oggi è sempre sull’orlo del ridicolo, non di un ridicolo sociale, ma un ridicolo storico-culturale. (Appena mi chiamano in giudizio come poeta, ho subito voglia di mettermi una parrucca, ne ho sempre due o tre a casa. È un modo di mettere le mani avanti: se c’è ancora qualcosa di serio in quello che faccio sarà al massimo nei miei testi, anzi nella loro forma; da me non trarrete nulla di oracolare, né alcun omelia sull’autenticità del pane fatto in casa.

 

 

E d’altra parte, spero che le parrucche siano vietate nei poetry slam, non ho certo intenzione di apparentarmi agli slammisti, sono troppo vetero-avanguardista per farlo. Io posso far ridere, ma mica tanto i miei testi.) Ma è anche questo di cui tu parli, quindi va bene. Della legittimità di scrivere. Legittimo vuol dire in grado di non provocare risatine. E poi mostri subito che sai leggere, che sai cosa leggere, che ti sei educato (in gran solitudine, per lo più) a leggere (Costa, Spatola, Villa, ecc.). E già qui c’è un grande mistero e la sorpresa delle generazioni entranti. C’è un nuovo arrivato, ci sono sempre dei nuovi arrivati, che vogliono ricominciare a parlare, a discutere, a citare, a leggere, a scrivere. Com’è successo? È stata l’università? La maledizione privilegiata di fare un dottorato? Di aver seguito qualche corso di letteratura dopo il liceo? Ci sono prove in tal senso. Penso a Marilina Ciaco, che ha scritto anche per il tuo “questionario”. Anche lei legge, riflette criticamente, scrive testi poetici. Sta facendo un dottorato. Ben vengano le università, i corsi di letteratura, i dottorati, tutte le trappole più o meno dolci, più o meno velenose, della formazione umanistica. Ma voi siete giunti qui in modo inatteso, imprevisto, nessuno vi ha davvero preparato a questa scrittura, a infilarvi in questo ruolo, che nessuno sa più come indossare. Lo fate perché avete fatto un sogno vostro, molto personale, molto ingiustificabile socialmente. Un elemento di questo sogno, che prima o poi abbiamo fatto tutti, noi della poesia, noi della trincea, noi delle letture accanite e gratuite, è molto banale. Si tocca qui lo zoccolo storico-sociologico della poesia. Avete, abbiamo fatto, un sogno di distinzione. Secondo me l’ha fatto anche Marilina Ciaco, che si prende la briga esplicitamente di rinnegarlo, con sana e giusta lucidità, quando scrive: “Non ci guarirà, non ci renderà persone migliori, non ci indicherà la via della salvezza. Non serve.”

Mi piacerebbe scrivere un dramma teatrale sulla vocazione del poeta moderno, quello che dal Romanticismo rotola fino a noi. Anche il più grande poeta (o anti-poeta) è passato per un attimo attraverso questa fregola tipicamente piccolo borghese. Lui o lei è reclusa nella sua stanza, con tanti libri da leggere, a lume di candela, mentre dalla finestra salgono schiamazzi di movida, o chitarrate allegre. Ecco che si alza, con le mani tremanti d’energia trattenuta, con lo sguardo invelenito contro l’ottusità della folla, si avvicina al margine della scena, guarda con sguardo rapito verso il pubblico e dice: “Non voglio che le mie parole siano come quelle di tutti gli altri. Io voglio parlare diversamente. La mia voce, le mie frasi, debbono immediatamente distinguersi da tutte le altre, imporre il silenzio nel salone, nel bar, nella discoteca zeppa di gente schiamazzante. E per fare questo metterò la mia voce, le mie frasi, le mie parole dentro quell’abito di parata, di cerimonia, che è il metro, ereditato o rimaneggiato.”

 

 

Kant e Freud ci hanno insegnato che delle basse pulsioni, o delle pulsioni meschine, possono nutrire gesti generosi e coraggiosi, gesti intelligenti e degni di umana considerazione. Questo sogno banale è stato uno dei motori della migliore poesia novecentesca e lo è probabilmente ancora per la poesia dopo gli anni Zero.

Tutto questo era solo per dire quanto non sia ovvio che ci si continui a interrogare con una certa puntualità generazionale sulla pratica della poesia, dal momento che, come qualcuno ha già ricordato, senza l’interrogazione neppure la pratica.

La spina maggiore, quella più dolorosa, viene però adesso. Come questa pratica è in grado di possedere un certo grado di autoriflessività? Mi chiedo, cioè, come oggi le diverse scritture individuali riescano a produrre intorno a sé uno spazio di ascolto, un tessuto dialogico, e quindi anche polemico, in grado di fornire una sorta di attrito della ricezione, dell’elaborazione, dell’uso e del riuso.

La domanda secondo me più infida oggi non è allora se sia legittimo scrivere, per quale sconquasso psico-caratteriale, socio-neuronale, fisiologico-epocale si perseveri ancora con la poesia e simili, ma piuttosto come sia possibile ancora leggerne, e farne qualcosa. Potrebbe essere accaduto che noi si scriva per inerzia, e che anche le generazioni entranti lo facciano, come guidate da un automatismo che non si spegne. E poi ognuno troverà un modo elegante di giustificarsi. Ma perché si legge? E non è domanda da fare a dei fantomatici lettori di poesia, ma da rivolgere subito e direttamente a quelli che non possono non essere lettori di poesia, ovvero i poeti. Perché i poeti leggono ancora poesia? E che succede quando lo fanno? E leggono solo i morti o anche i vivi? Riescono a bucare il tempo? A bucare il muro del presente? Schivano l’ingozzamento nauseante di attualità? Marilina Ciaco ha ragione: la poesia non rende migliore chi la scrive, non lo salva, NON lo distingue, in definitiva. Ma non possiamo rinunciare spensierati al quesito relativo al suo uso. Cosa e come scrivere è decisione che può essere esclusivamente individuale, ma come e cosa leggere è faccenda che si verifica collettivamente.

Quando parlo di autoriflessività della pratica intendo parlare di consapevolezza storica e formale di quello che si legge e scrive, ma questa consapevolezza né l’autore singolo né le famiglie più o meno discordanti di poeti & simili l’hanno per condizione innata o subitanea pioggia dello spirito santo. La consapevolezza storica e formale è di ordine necessariamente dialogico; essa sorge nell’intreccio delle letture, del lavoro critico, del conflitto di poetiche e valori, delle traduzioni mirate, dei tentativi di divulgazione. Le riviste, accademiche o militanti, ecumeniche o settarie, così come i gruppi o le comunità, così come i blog, i festival, le tavole rotonde, ecc., tutto ciò ovviamente ha un ruolo più o meno importante nel suscitare l’autoriflessività. Essa, quindi, non è prerogativa esclusivamente del critico, e neppure dell’autore-lettore. Anche un semplice lettore-lettore, per raro che sia, può accedere a un grado maggiore o minore di consapevolezza storica e formale.

Oggi non è che non ci siano più buoni poeti, o poeti & simili consapevoli, sia storicamente che formalmente, non è che non ci siano più libri rilevanti di poesia & simili, o riviste importanti e aggiornate criticamente e teoricamente, ma tutto rischia di scivolare senza attrito nel flusso generale. Un tessuto dialogico non si costituisce attraverso un giustapporsi di monologhi. Il problema non è la quantità, più o meno inedita dal punto di vista storico, di brutta poesia, di poesia ingenua, di poesia inutile, ma la difficoltà di creare campi d’interesse e d’attenzione intorno alle iniziative, ai libri, ai gesti critici e teorici rilevanti.

In tempi recenti mi sono ritrovato spesso a parlare di poesia in termini descrittivi, con un taglio sociologico, o sociologico-antropologico, come anche in questa occasione. È che non sono granché motivato né a esibire polemicamente una poetica né a indugiare sulla mia specifica pratica della poesia. Come tanti (tutti?), da molto giovane ho fatto il sogno piccolo-borghese dell’enunciato in grado di distinguermi. Ho voluto, come tanti, distinguermi almeno attraverso le parole, non potendo o non riuscendo a farlo con gli atti o con le idee. Dopo molti anni trascorsi, e dopo aver nel frattempo anche ripudiato quel sogno, trovo me e molti miei amici, autori non più giovani, in una condizione triste. Le nostre aspirazioni più banali sono state accolte, ma con conseguenze ben diverse da quelle che ci eravamo immaginati. Siamo condannati alla solitudine della forma. Una qualche forma c’è, ed è anche singolare, ma è difficile da decifrare interamente anche per noi stessi, perché non c’è occhio che la percepisce, che si sofferma su di essa, e che reagisce in qualche maniera significativa, esplicita, magari attraverso un conato, un gesto di stizza, un’incomprensione esibita.

Il problema allora non è: a che serve?, ma a chi serve? Chi in qualche modo riuscirà o proverà a servirsene. A farne un qualche uso.

Quindi considererei questo dossier, anche indirettamente, come un’occasione non solo di misurare le intenzioni poetiche, ma anche i possibili usi. Una verifica degli usi, ossia delle letture. Delle nostre letture di scritture altrui.

Nonostante il grande flusso, e il grande ingozzamento, esiste una sana mobilitazione divulgativa nei confronti della poesia. Si fanno salti mortali perché la poesia esca dalle trincee, e vada, in modo friendly, senza creare spavento e scompiglio, verso l’ampio serbatoio dei lettori possibili, che in genere sono i frequentatori di festival e saghe letterarie, ma anche di tanto in tanto telespettatori di programmi culturali, e più in generale consumatori di libri. Tutto ciò è importante che si faccia, evitando possibilmente il grottesco inconsapevole, l’ombelicale piagnone, il sacrale da sottoscala. Però è altrettanto importante che la verifica degli usi si faccia innanzitutto per famiglie di scritture, e nel modo più allegro e serio possibile, in modo agguerrito ed equipaggiato, ruvidamente sincero e amichevolmente scanzonato. Va insomma fatto non in modo esclusivamente fatico, come spesso invece accade in ogni famiglia poetica, per manate sulle spalle, buffetti di riconoscimento, indulgenza un po’ omertosa. È bello trovarsi non solo per dirsi che facciamo parte della stessa famiglia, che tra noi, i nostri testi, li capiamo. Cerchiamo di produrre l’attrito della lettura, dell’incomprensione, della stizza, dell’analisi anche acuminata, smanazziamo non le nostre spalle, ma i nostri testi, infiliamoli sotto i denti, per saggiarne la consistenza. Si dirà che son riti di confraternita, di conventicola. Ma è necessario che almeno tra pochi questo lavoro si faccia, in modo che si abbia poi qualcosa da divulgare, ma non alla cieca, non nel modo un po’ fatalista e disperato del lanciatore di dadi, o di monetina. In ogni caso, che le divulgazioni funzionino o meno domani, se la poesia abbia un suo possibile uso oggi, non puramente privato, di sfogo o autoterapia, lo si potrà comprendere e verificare in questi dialoghi di gruppo ristretto*. E poi in incontri allargati**, dove più visioni e concezioni del poetico possono essere messe a confronto. E in questo daffare, i questionari ovviamente, come questo tuo Giorgiomaria, hanno una loro importanza.

* Sono state diverse le occasioni dialogo a gruppo ristretto che, nel corso della mia esperienza, ho trovato importanti e utili, e non solo per me, ma per un certo gruppo di persone. Come in ogni occasione di dialogo, si potrebbe fare l’inventario dei progressi e dei malintesi, delle ingenuità e delle energie ben spese, dei fallimenti e dei successi. Ma qui mi limito a citare: Per una critica futura, la casa editrice La Camera Verde di Roma, il gruppo GAMMM, gli incontri di EX.IT, l’iniziativa “Prove d’ascolto” di Simona Menicocci e Fabio Teti, il festival Partes Extra Partes 2019 a cura di Roberto Cagnoli, Alessandra Greco, Agnese Leo, Simona Menicocci e Iacopo Ninni, il recente lavoro della rivista Container diretta da Daniele Poletti e Luigi Severi.

** Tra le occasioni di dialogo più allargato, cito innanzitutto Ákusma, lo scambia di lettere, l’incontro e il libro, la rivista telematica L’Ulisse, incontri di carattere internazionale come “poesiaeuropa” curato da Maria Borio.

 

 

DAVIDE NOTA

La solcatura

 

Il sogno è la dimora del soggetto senza volto che non siamo in grado di essere. Si dorme per riprendere fiato. Le pareti narcotizzate dalla clausura dei linguaggi domestici chiedono di respirare. Le pareti neuronali di questo soggetto in cattività che chiamano “carattere”. Propria del risveglio è lʼestasi in cui tutti i sensi sono riattivati. Ma lʼestasi è un ricordo che viene alla luce da un tempo molto lontano. Questo tempo è il futuro. Si ricorda sempre ciò che deve ancora esistere mentre quanto accadde è solo una congettura.

Compongo a mano le prime parole perché ho bisogno di macchie per individuare gli oggetti perduti sotto i rovi della grafia. La radice dellʼinchiostro è il sangue, che gocciando a terra mi mostrò, alcuni anni fa, una figura. Ai tempi non avevo ancora un nome ma in punto di morte trovai questo segnale a terra da decifrare. Mi inginocchiai dunque, ferito a sangue, e da allora prego così. Poi fu la notte e la grotta divenne lʼappartamento da cui vi scrivo. Lasciare che lʼinchiostro si ramifichi verso diramazioni sconosciute. Cogliere le parole che maturano allʼombra delle cancellature. Non dire ma osservare. Non so se questo significhi qualcosa. In ogni caso è un atto di liberazione di energie involontarie che necessitano della danza per emergere. La danza della mano nello spazio e il canto simultaneo del suo pronunciamento. “Il ritmo è un rito di auto-ipnosi attraverso cui emergono gli oggetti assassinati. Ma volevo dire altro, no, voleva… Lʼho dimenticato.” (Lilith). Le trascrivo, infine. A volte a macchina, molto più spesso al computer. Traduco le parole da un formato allʼaltro per poterle osservare di nuovo come una prima volta. Uscire dalla maledizione dellʼabitudine. Le stampo. Tornano di nuovo una superficie rupestre. Qui le continuo a scalfire seguendo necessità musicali che ne alterano il senso. Ora diventano di nuovo estranee. Delle sconosciute. Infine avviene il montaggio. La postproduzione. Primo lettore di me stesso, adesso cerco di capire che vogliono dire.

 

In foto: Un quaderno di Lilith

 

Da Lilith. Un mosaico (Frammento 73)

 

Brenda era un ragazzo timido, si chiamava Alexander. Lo vedo aggirarsi in bici tra il minimarket e le cabine del telefono fare le prime prove con lo skate cadere girare una canna nel campetto assolato sul piedistallo era arrivato nel ʼ96 dalla Romania, da Pitești dice sulle rive del fiume Argeș. Amava disegnare, amava scrivere, teneva un diario su uno storyboard, un taccuino no, uno sketchbook, ecco come si dice. Era il 2003, quando faceva lʼistituto dʼarte. Le pagine più belle erano quelle cancellate, allora era davvero un poeta perché non potendo più leggerle ci vedevi tutto. E non cʼè nulla di più importante che un quaderno illeggibile di pagine devastate in graffi e geroglifici mutanti io lʼho conosciuto davvero Alexander, ci credereste? In altra forma, era vestito da receptionist (stava scendendo le scalette della metro). Potevi sfiorarne con i polpastrelli la solcatura.

 

 

 

RENATA MORRESI

Una lettura

 

“We may argue about how and what we read, but it is nonetheless axiomatic: no reading, no language.”

John Cayley

 

 

 

Secondo i primi modelli cognitivi della scrittura, della compitazione scritta, dello scrivere,

del far di grafi, sillabare, rendere visivamente unità grafiche con o senza contenuto semantico,

 

del trattenere quel corpo costretto, ricevuto, inventato, copiato, trasmesso, su un variabile

supporto, secondo quei primi modelli, quella volta, sono passati molti anni, più di quaranta,

 

secondo quel tempo – quanta nostalgia, colleghi! quell’avventura verso una linea d’orizzonte

congruente, chi s’affidava allo sciamano del semiotico, chi alla beata nudità del geroglifico! –

 

allora, secondo quelli, le rappresentazioni delle parole ortografiche erano lineari, ordinate, nòtule,

liste di sequenze di identità astratte di lettere, i grafemi, le grafie minime, le miche o meglio

 

le mòrule, riproducenti i suoni (i teneri suoni sorgivi!), archivi attivati dalla parola che significa,

la frase che comunica, il morfema che esprime, la cosa che indica, che esclama a, descrive e

 

eccetera. Erano i primi modelli: erano troppo intuitivi? ingenui? superbi? poveri, poveri uomini.

Quanto disastro, quel frantumarsi verso una linea, sfare (fuggivano, esplodevano, passavano

 

un secolo o tre micron nel blu delle montagne, a compilare pagine/pareti dall’oltremare al ciano).

Alcuni, insomma, proponevano che l’attivazione delle informazioni fonologiche fosse una fase

 

necessaria del processo ortografico. Negli ultimi quasi cinquant’anni, gli studi sulla disgrafia

hanno mostrato che le rappresentazioni ortografiche sono autonome dalle rappresentazioni

 

fonologiche e, proprio come queste ultime, attivate ​​direttamente dalla semantica, anche liev

issima, anche utopistica, anche fidente e ottimista, poverella e bellissima, anche parvente o appena

 

Accadeva negli anni della nostra vita, capite lo scarto, la coincidenza, l’inganno, il perverso

effetto di strati di secoli di errori spaventevoli, coperti da sudari e svelamenti, la nostra fonica

 

euforia, lo sgramma cognitivo, la prodezza di stracredere al motore gorgogliante dentro l’ugola?

ora ci diciamo, e senza più sgomento, o con una sorta di sollievo liberante, come guardando

 

i cavalli liberi sull’altopiano, presente lo sfondo di un paese sul picco, il suo scempio di paese razziato,

presente la pretesa sfumata sia del determinato che dell’indeterminare, comunque la pretesa di noi

 

ghermitori di aperture, ora ci diciamo: la selezione di una forma ortografica per la resa si basa

sulla convergenza dell’attivazione delle informazioni lessicali-semantiche da un lato

 

e delle procedure sublessicali di conversione fonema-grafema dall’altro. Non dovevamo sempre

saperlo che l’origine del gioco è nel giocato? Inoltre, è sempre più chiaro che le rappresentazioni

 

grafiche sono oggetti multidimensionali, dove le parti si intrecciano, la struttura e la grana,

l’identità e i rapporti vocali-consonanti, il repertorio ereditato, un erotico residuo, il piano

 

delle aspettative, la quantità di ciascun graf. Nello scrivere, la struttura della conoscenza

e i meccanismi coinvolti nell’elaborazione dell’ordine seriale interagiscono e impongono

 

un limite all’intera prestazione. O è il limite la vera prestazione? Ricerche necessarie:

dobbiamo definire più dettagliatamente i meccanismi che si innescano in quella interazione,

 

dobbiamo esplorare cosa aspetta queste parole quando saranno scritte con un word processor

e quindi pubblicate in rete, ovvero convertite in una serie di dati e metadati e taggate,

 

cosa le aspetta lì, quando saranno disponibili e staccate dalla sottoscritta, pre-testo processato

da un umano o da un bot, che ne leggerà il fronte e il retro, e crittando e decrittando le parlerà,

 

attraverso Siri, Cortana, Alexa, rimandandole come domanda, come risposta, a un interlocutore

futuro o a un’altra entità che ancora non esiste, certo diversa da me, seduta a questo microfono.

 

 

 

RICCARDO CANALETTI

 

Ringrazio Giorgiomaria Cornelio per l’invito a riflettere sul significato attuale della poesia, inteso come campo da gioco del linguaggio nella sua funzione creativa e, sembra, non comunicativa. Quali siano le prospettive future per il genere poesia (P1) spetta agli addetti ai lavori stabilirlo; ma parlare dell’oggetto poesia (P2) è questione che interessa non solo l’estetica, ma anche l’epistemologia e la filosofia del linguaggio. Dire se sia o no importante scrivere, il fatto stesso di scrivere e la specifica variante della scrittura che abbia come «radice l’inchiostro», è il tema che verrà trattato. Lo faremo, vincolati dall’imperativo della “sollecitazione” e non – almeno in questo caso – della persuasione, affrontando tre temi:

(a) La poesia è qualcosa di altro/alternativo rispetto agli altri modi di esprimersi con il linguaggio ordinario?

(b) La poesia è eminentemente oggetto (P2) o genere (P1)?

(c) Da (b) segue che …

Infine le conclusioni, le risposta alla domanda “riformata” che è l’input di questa interrogazione:

– Da quale punto di vista è legittimata la poesia?

Il procedimento, che ripone fiducia nel sinolo, opterà per una dimostrazione geometrica, tentando di dar prova, con questa riflessione, di star facendo poesia, anche se in modo diverso.

a

Ciò che la poesia può dirci di se stessa è, primariamente, la sua non traducibilità.

 

a.1

La sua non traducibilità deriva non dalla pluralità di significati di un segno scritto, quanto dall’aderenza totale al contesto.

a.1.1

La pluralità di significati contraddice il principio di innocenza semantica.

a.1.1.1

Il principio di innocenza semantica stabilisce che una parola debba avere un unico significato qualunque sia il contesto in cui si applica.

a.1.2

L’aderenza al contesto impedisce a un termine di essere sostituito da sinonimi (per es. nella citazione, nella canzone, negli slogan, etc.).

a.1.2.1

L’aderenza al contesto non è solo una forma di fedeltà semantica ma anche una forma pragmatica di economia del significato.

a.1.2.1.1

Economia del significato significa che non è il senso a cambiare ma il contesto d’uso.

a.1.2.1.1.1

I contesti d’uso sono: I) contesto poetico II) contesto ordinario

a.2

Ciò che caratterizza la poesia è, dunque, la variazione delle unità di forma e contenuto, mentre le singole operazioni rimango semanticamente innocenti.

1

Non esiste un linguaggio poetico diverso dal linguaggio ordinario.

2

A cambiare sono I e II. Se I allora abbiamo la sensazione di avere di fronte un processo di ipertrofia del significato. Se II ci manteniamo su un primo livello interpretativo, quello quotidiano.

b

La poesia è sia genere (P1) che oggetto (P2).

 

b.1

P1 è soggetto allo studio da parte della critica letteraria e della filosofia dell’arte.

b.1.1

P1 è un oggetto di gusto, comunicativo e sociale.

b.1.1.1

Un oggetto di gusto è limitato dalla sola plausibilità.

b.1.1.1.1

Un oggetto di gusto è plausibile quando incontra i gusti del pubblico.

b.1.1.2

P1 è un oggetto comunicativo in quanto esprime un dato insieme di informazioni relative all’autore, all’ambiente e a un corpus teorico (poetica, filosofia, atteggiamento esistenziale nei confronti di qualcosa, etc).

b.1.1.2.1

L’autore è l’unico ente che è possibile studiare attraverso P1.

b.1.1.2.2

L’ambiente si esprime solo funzionalmente rispetto all’attività di comprensione delle volontà dell’autore.

b.1.1.2.2.1

Quindi non esiste propriamente ambiente, ma un insieme di possibilità per comprendere l’autore.

b.1.1.2.3

In P1 si esprime l’opinione dell’autore.

b.2

P2 non è P1.

b.2.1

P2 rispetta a (e in particolare a.1.2.1.1)

 

3

Quindi P1 è un caso particolare di P2, cioè: P2 può essere un genere letterario.

b.3

Dato 3, allora P2 è più grande di P1

4

La poesia è eminentemente P2 (oggetto).

c

Da b segue che, dato 4, la poesia non costituisce una particolarità tra i modi di uso del linguaggio.

c.1

Il modo specifico di utilizzare il linguaggio in P2 è solo meno frequentato perché P2 riguarda I e non II.

 

 

Conclusione

Dati 1 e 2, scrivere potrebbe significare aumentare la capacità interpretativa dei lettori, grazie a una massiccia frequentazione di I.

Dati 3 e 4, scrivere poesia non significa esclusivamente produrre P1, ma ogni caso in cui il linguaggio ordinario si presenta nella sua eccezionalità per via di I o di altri contesti similmente particolari (musicale, drammaturgico, mediatico, etc) può essere definito poesia. Quindi scrivere coincide (anche se non ne esaurisce il significato) con esprimersi.

Ciò che si è scelto di fare è di tagliar corto su qualunque possibile discussione di tipo estetico-esistenziale (dal momento che questi due momenti del pensiero stanno andando sempre di più a coincidere). Ciò che si è scelto di fare è piuttosto un tentativo, sì in prosa poetica (e ora si può capire quale sia l’analogia tra la dimostrazione more geometrico e la poesia; analogia in P2 e in a.1), di trattare il discorso in generale, cioè provando, al di là dello stupro degli addetti ai lavori, dei sacerdoti, di parlare di poesia come di qualunque altra categoria e umana e linguistica. La poesia, sia genere che oggetto, evento del pensiero che si esprime nei linguaggi rigidi dell’economia, della letteratura, della musica, della citazione, etc., non necessita di motivazione. Non esiste un perché dello scrivere, quanto il fatto di scrivere in sé, che è auto-esplicantesi. La poesia, in questo senso, non accetta altro che non sia la sua propria capacità di articolare il proprio significato. Legittima la scrittura il fatto di esistere, quasi in una forma di affidabilismo epistemologico.

La poesia, è il caso di dirlo, fuori di metafora, è così simile a Dio da bastarsi, per far sì di esistere. Quindi la vera domanda non è tanto: quanto resta della vocazione di scrivere? quanto piuttosto: questa vocazione è vera e dunque, come vocazione, obbedisce al proprio destino?

 

 

BIANCA BATTILOCCHI

Accusato di andarsene senza sapere dove

 

Scrivere poesia oggi comporta un atto di fede ancora più significativo rispetto alle generazioni che ci precedono. Fede in un faticoso ‘esilio’, dove poter fare esperienza di nuovi linguaggi – dialoghi – che aprano la porta, anche di pochi centimetri, all’Altro, lo Sconosciuto-Inconoscibile. Che cos’è la poesia se non ricerca profondamente antropologica, investigazione degli spazi disponibili all’uomo, soprattutto quelli esplorati ad occhi chiusi?

Per navigare fluidamente queste possibilità sembra quanto mai necessario fuggire dalla clausura dell’eredità passata, che non significa negarla o dimenticarla, ma partire da essa per esplorare le zone ancora in ombra. Perché questo ‘silenzio’ parli, bisogna coltivare la creazione dell’esilio, allontanarsi dalla tentazione della contingenza, fidandosi invece degli inviti-irruzioni del logos sotterraneo.

Così come gli è naturale, lo spazio poetico tenderà a scavalcare confini e questo suo dilatarsi ab libitum va incoraggiato. Ma le distrazioni non mancano naturalmente, soprattutto nella ragnatela che l’uomo contemporaneo tende a tessere ogni giorno e in cui rischia di rimanere impigliato. Ecco perché il poeta, (come il mistico) deve farsi orfano del mondo – diventare lo ‘sradicato’ – per fare conoscenza dell’infinità del tempo o della sua stessa inesistenza, e incarnarsi in una prospettiva nuova e sempre mutevole.

Per una testimonianza che possa avvicinarsi all’Inaudito e suggerire una nuova direzione del nostro peregrinare, non si dovrà lasciarsi intimorire dal proprio bisogno di radicalità. Emilio Villa scriveva della necessità di “slogarsi per logarsi”, distruggere per generare, come un alchimista. La vulnerabilità sarà quindi offerta nel laboratorio poetico come materia prima da manipolare.

Così procedendo, allenando il proprio digiuno al quotidiano, credo ci si possa ancora aspettare gesta inconsuete di guerrieri della parola, strali che possano forare il fitto tessuto del conosciuto e magari ispirare magici incantamenti.

“L’esperienza poetica è un pieno e un vuoto di insufficienza. La poesia non è mai sufficiente, quant’anche passi i limiti. E di qui il patire, il patire il tempo e la parola, la sua ansia insieme di annichilimento e di splendore.” (Marìa Zambrano, I Beati)

 

 

 

ANTEREM

(RANIERI TETI, FLAVIO ERMINI)

  

quando tutto ritorna nel pensiero, nel silenzio in cui ci destinano le ore quando si attardano a dismisura intorno a qualcosa che è solo marmo, cenotafio attorno a pietre che sono solo una neutralità di oggetti, solo una tonalità di grigio, solo un freddo odore chino sugli sfiorire, solo un armistizio tra le cose, solo un sottobraccio che diventa un malcelato vorrei, l’idea di un cammino invernale, un kursaal di cose scomparse, un senso che si chiami placamento, con la grazia impensata dei gesti nell’attimo del loro supremo mentire, solo con lo sguardo in sottofondo dell’avvertire lontano, avvertire vicino il tempo dell’averti avuta a portata di occhi e pelle, a durata di ossa, a portata di braccia, cercando di vivere ancora la penombra scoscesa dei bordi, a portata di voce per dire e per udire quando è terra la prova del volo

Ranieri Teti, da Suite postuma

 

Il dire poetico è la casa ospitale in cui nominazione e indicibile possono sostare, in un tenersi insieme dei differenti: nel loro contraddirsi e nel loro opporsi. Il dire poetico è il frammezzo che porta il non-nominabile a nominarsi come originaria contra-dizione.

Lavorando al buio, chi scrive cerca la chiarezza. Solo un dire che non nasconde il proprio non-detto, ma incessantemente lo riprende, può pretendere di farsi prossimo all’inaccessibile. Per avvicinarsi alla sostanza ultima del mondo, il dire poetico deve andare al di là del mondo, deve rendersi insensato, fuor-viarsi, dissestare il principio di non contraddizione.

Flavio Ermini, citazione dall’editoriale del numero 83 di Anterem, dicembre 2011

 

 

MARIANGELA GUATTERI

Testi da «NUOVO SOGGETTARIO»

 

 

NUOVO SOGGETTARIO
A.1.1 Entità individuali non indicate con un nome proprio 

Un assedio alle caselle, al casellario, ai posti. La conquista dello spazio; processi di delocalizzazione (prima protesi, poi non umani, poi anche protesi) hanno spaesato [lo spazio si tende a misurarlo, si assottiglia]. Va fuori da sé poi anche di sé. Deviatori di segnali.
Il cervello del XXI secolo, L’identità della follia, Buchi e altre superficialità, Le forme dell’oblio scavano delle tane ma – i più efficienti – dei bunker con molte molte cose dentro, comprese le magliette da sera, da uscita, da feritoia, da cosa attillata, da cornice con luci, binary blob che si sgonfiano, presto esauriti. Rivendicano esigui umani. Una ricerca – che ha poca precisione – della felicità immediata. Un bunker portatile, le tendenze, le ultime, lo danno da indossare; le precedenti probabilmente da regalare: un presente importante, un’occasione speciale. Ora è tutto indispensabile. 

[…]

CONTROLLO DEL VOCABOLARIO
[e la solita luce al neon nel tubo scarico che fornisce il fastidio dell’intermittenza della morte] 

–  Espliciti le sue relazioni.

–  1. Relazioni transitive
2. Relazioni di appartenenza
[Restauro degli arazzi del 16° e 17° secolo]
NUCLEO E COMPLEMENTI
come (ancóra) un corredo funebre fino laggiù dove si apre un’anta e una fila di qualche grosso pulsante numerato e un lumino dentro. è il solito forno con: l’ovale del fotoritratto e un sunto delle precedenti puntate. tutto in epigrafe. un’abitudine: così fanno capatine negli uffici adiacenti. si curiosa quella con le calze nuove e i capelli più lisci, si fa finta di cercare qualcuno che non è davanti alla macchinetta con la chiavetta e una ferma decisione sul livello discreto di zucchero: da 1 a 4

–  scelgo amaro

–  e da quando?

–  da oggi.

–  si sono rotti i frangisole della mia parte

–  così sei spiato

poi dopo due giorni lo trovarono disteso sotto la sua scrivania privo di vita. al collo aveva la catenina della chiavetta USB da un giga, la ormai diffusa chiavetta-gioiello. la chiavetta-gioiello non era appesa alla catenina. di lui dicevano – anche quella con le calze nuove – che non gli serviva un pro-memoria. poi però tornava più volte a chiedere sempre le solite scatole; era molto gentile. quando si sa con certezza che si ha dimenticato (…) si aprono arazzi di leggerezza.

–  lui è anche questo

–  ok. come lo valuti?

–  è registrato un calo delle scatole distribuite rispetto alla settimana precedente

–  il virus si affievolisce. va detto

[Gli elementi si vanno ad aggregare secondo modalità in apparenza casuali. relazioni di tipo eterogeneo]
lui lo lega e poi lo slega. si guarda le scarpe e poi annuisce all’immagine della segretaria. c’è anche chi insulta da fuori. coazioni, cani, elementi umani. preferiscono l’asfalto al prato, il pilone al tronco. lei e lei si parlano a distanza: portano il pattume. dietro si giocano scommesse

[una rosa precoce sfiorisce precoce immediata] 

[…]

MEMEX
[…]

sempre in di più sentono il bisogno di acutizzare la memoria. small world e tutto è afferrabile: topologia del controllo anche senza fosforo. in molti cercano di attuare un profilo pubblico. si inizia con le credenziali d’accesso; perciò bisogna acutizzare la memoria, così : cartellino sul petto dentro la plastica (la pinza in prossimità del cuore) e la chiave cucita sul palmo della mano : sistema biometrico integrato, una serie di meandri e ghirigori, sottocortecce umane e : cerca bene, è fregiato direttamente in pelle nel riquadro depilato (fu un laser, una cosa intelligente, che discrimina. sì, si capisce). cadaveri appesi e tre riquadri abbastanza neutri. un cilindro di acciaio per il cotone e i bollini.

[si spostano verso la cattedrale degli elementi in ghisa e fanno fusa al calore e intanto muoiono] 

3.3.3.1 TECNICA DI DISAMBIGUAZIONE
gli omogràfi stanno tutti sullo stesso taglio : umani in polaroid; profili di bagliori; paesaggi d’inverno. mette le etichette in rilievo così – pensa – una maggiore sensibilità e una certa distanza dalla vista. fa ordine e utilizza cassetti da officina : una robusta disposizione d’animo all’ordine; fa catalogazione settimanalmente, mensilmente. semestre e anno solare. (era in grande pena per la ridondanza dei mapping). 

– si qualifichi! 

– <***>
[si trascina addosso due angoli : tengono dritte le spalle : impediscono lussazioni] 

“Quando genericamente ci riferiamo ad «entità astratte» riusciamo a capirci bene.”

Esposti al linguaggio si accoppiano spudoratamente in 28 quadruple critiche. Una croce di fissazione. 

[…]

viene la guerra. (precedenti risultati comportamentali)
fa vetrina col Bottom Line Up Front, va a spasso col cane – anche se bombardano – già comunque con una lingua morta in bocca: un fuscello che fa da stringa di parole. un invito e stuoli di amanti mangiano carne ancora già morta. 

–  mi mostri un documento, per piacere

–  fotografia di fotografia di una ripresa di circa quindici anni fa, sì?

–  proprio un’esatta copia…

–  questa è la bella; la brutta è integrata

[…]

VARIANTI MORFOLOGICHE
Si ustionano per sfregamento di punte d’osso coi gomiti come minorati di una o più cose anche non umane. Hanno le tasche riempite; un freddo. Sono fuori dalle tare condominiali, così si rifanno qui la voce. Dicono che mettono lì la busta per essere sicuri che sia vista, bene intesa, poi restituita col dovuto. Anche se ha cambiato pettinatura, c’è il nome e in anagrafica non ha omonimi. Sono sicuri della propria identità dal momento che i doppi esistenti sono già morti. Assistenza a termine scaduta.
La vetrinetta ricorda che una parte d’osso del cammello può anche diventare una faccetta da esposizione ma comunque non parla. Ha valore, si mostra al pubblico con intenzione poi fanno circolare l’odore della mensa e spacciano dei titoli e delle onoranze.
Sono sempre più numerosi i civili che fanno scorta di antibiotici anche se i comunicati radio del Ministero danno la diffida. 

Lei spaccia la sua santità per buona ma poi, verso il finire – che è il limite della tenuta – la pancia è fuori norma; così l’aggetto oculare; così il grado che segna la lingua (le interruzioni sono il suo grado di salvezza). 

Rileva le piccole abrasioni della cute e le incertezze; vede dei crimini nelle imperfezioni, tentativi. Lei è sicura di far bene a serrare il perimetro: un grado maggiore di ferocia nella circostanza del corpo, del limite imposto dal ferro. 

[…]

4.4.2.1 RUOLI NUCLEARI
dice che lei è il suo doppio il suo triplo il suo: ennesimo. dice per questo, essenzialmente, la ama. non si tratta di egoismo. si tratta di intima necessità.
sono assai spesso insieme, sono inseparabili. anche in una camera silenziosa. con costanza dentro il loro piccolo manicomio: riciclano, classificano,

mettono nelle scatole contrassegnate da cartoline di cultura e arte e balletto rullate a caldo con la plastificatrice. 

nel bagno è plastificato a pezzi componibili l’alfabeto ASCII adesivo e una cartolina con riquadri fotografici – le immagini virate in azzurro tenue – di esempi performativi d’ossessione di corpo – a farsi tagli e buchi e a divaricare le commessure e tutti i bordi d’orifizi in pelle. et altro : copre un buco rettangolare che contiene i fili della luce e dei morsetti grossi verdi. 

è una realtà minuziosa per via delle minime del contesto complesso, le sottilissime tensioni dell’interiore e della calce dei muri.

 

 

MARIO FAMULARO

La parola poetica come linguaggio del tremendo – della formula e del sacro

 

“È ancora legittima la radice dell’inchiostro … il come si scrive … lo scrivere stesso?”: complesso riuscire a prendere posizione in modo chiaro, sintetico ed efficace di fronte a un quesito del genere – si perdonerà pertanto la parzialità del tentativo.

Partirei con una citazione di Mario Ramous, che già è venuta in mio soccorso in una breve nota su alcuni inediti di Vincenzo Frungillo, nel numero 96 di Atelier, proprio aventi a tema la parola – che può aiutare a tracciare delle coordinate di partenza: “tutto sommato la correlazione al vero è una implicazione estranea alla natura e alla struttura del linguaggio … probabilmente la parola è nata piuttosto come necessità di esprimere la menzogna (il ‘negativo’, quindi) che come volontà di partecipare la scoperta, il sospetto di una verità”. Poco dopo si ribadisce la “funzione negativa della parola, il suo porsi come equazione (a più incognite) della menzogna”. E infine: “nulla può indurci a credere reale ciò che ci circonda, malgrado lo sia, terribilmente.” (le citazioni provengono da “Registro 1971”, ora in “Tutte le poesie 1951-1998”, Pendragon, 2017, pagg. 196-202).

Scomoderò anche un concetto che proviene dal buddhismo mahāyāna, ovvero la tathatā, ripreso in particolare dalla filosofia di Nishitani Keiji. In estrema sintesi, il termine si riferisce a un’asserita autentica natura della realtà, diversa da quella percepita attraverso il filtro dei sensi (semplificando – è agevole immaginare che il mondo, così come percepito da un uomo, piuttosto che da qualsiasi creatura altra nella propria individualità fisica e cellulare, sia frutto della sua percezione sensoriale – che agisce da filtro deformante sull’oggetto di tale percezione, restituendone un’immagine falsata, parziale).

Tutto questo per evidenziare un punto che a mio avviso è nodale quando si affronta un tema come quello qui proposto: il discrimine tra verità e realtà. Se, come dice Ramous, la nominazione comporta un’insufficienza genetica di aderire al vero in senso assoluto – rischiando piuttosto di degenerare nel concetto opposto – lo stesso non può dirsi per il suo grado di approssimazione al reale – reale in senso assoluto, ancora, ma prima di tutto reale in quanto frutto dell’esperienza diretta e sensibile dello scrivente, ritrasmessa attraverso la nominazione.

La stessa frase di Ramous può realizzare un ulteriore spunto di riflessione: la capacità della parola di sublimare il reale attraverso la creazione di una sua versione altra, filtrata dalle aspirazioni e dalle tensioni dello scrivente: è, questa, una forma ancora diversa di intendere quella “necessità di esprimere il negativo” della realtà percepita, potremmo dire, per affermarne un’altra, frutto dell’esperienza di vita di chi dirige l’operazione.

Quindi: una prima funzione della nominazione e della parola può essere quella di conchiudere (anche se con inevitabile grado di approssimazione) il reale, e in particolare il reale dell’esperienza umana, restando indifferente alle categorie del vero e del falso (anche la menzogna è reale, altrimenti il termine non avrebbe senso, e non se ne potrebbe scrivere, né si potrebbe usare per ottenere un risultato efficace dal punto di vista della comunicazione); una funzione positiva, in tal senso, e negativa nella misura in cui opera una scelta ablativa di porzioni del reale o della propria esperienza per sostituirle con una realtà alternativa.

Inevitabile corollario di questo primo argomento è che la parola della poesia non può trascurare o ignorare l’uomo e la sua esperienza esistenziale, soggettiva e collettiva.

Da qui è necessario operare un secondo genere di riflessione, concentrandosi nello specifico sulla parola poetica, iniziando a porre delle coordinate che abbiano un minimo sufficiente di specificità per distinguerla dalla parola relativa ad altri ambiti – quello giornalistico, scientifico, filosofico, prosastico, e via dicendo. Per quanto il linguaggio poetico abbia aperto le porte nell’ultimo secolo ad ogni sorta di contaminazione, esso non può perdere di vista delle coordinate di base che ne traccino una identità minima: il rischio è quello della dispersione completa nei linguaggi altri, con una confusione (in senso fisico) che rischia di depotenziare e sfumare quelle che sono state, nel tempo, le funzioni chiave della parola poetica. Nessun malinteso: l’esperienza sopravvive nella contaminazione – ed è anzi assolutamente necessario non trascurare questo aspetto (che può rivelarsi sorprendentemente fruttuoso, persino dirimente) del nostro tempo.

La nota di Giorgiomaria Cornelio cita a ragione “la fine della poesia” e allo stesso tempo pone le sue domande citandone “le radici”: ecco, proviamo a parlare della fine ricordandoci quello che è stato “l’inizio”.

E l’inizio è noto: la parola poetica nasce come formula del sacro e sublimazione mitografica di una realtà (anche storica, ma diventa secondario) trasfigurata, che assume connotati simbolici e interpretativi del reale, assurgendo a codice che forgia la cultura dei valori e l’identità di un popolo, permettendo di ritrasmetterla a terzi in modo orale, prima, e scritto, poi. In ragione dell’elemento sacro e della necessità formulare di rendere la parola poetica memorabile e più agevolmente trasmissibile, sin dalle origini si avvale di un’attenzione specifica al suono e al ritmo, evitando ogni ridondanza e agendo per sottrazione. E così oggi un numero nutrito di esemplari della nostra specie ricorda, per fare l’esempio più banale, l’espressione carpe diem – senza scomodare i testi sacri o i formulari religiosi.

Il secolo appena trascorso è stato quello che più fatalmente ha assistito alla perdita, nella società occidentale, di referenti metafisici – sostituiti in un primo momento con ideologismi ai limiti del delirio o con referenti fisici – costringendo successivamente le coscienze ad affrontare la percezione dell’assurdo e del vuoto che era stato esposto, o di sostituirlo con un nichilismo incosciente e nutrito di materialismo meccanicistico. Non è questa la sede per parlare di questo fenomeno – ma ciò che mi preme qui evidenziare è l’effetto che tale cambiamento ha avuto sulla parola poetica, in una società sostanzialmente deprivata della percezione diffusa del senso del sacro – associato in via privilegiata e limitante all’immagine del culto religioso.

Non ci si riferisce qui al sacro in questa accezione, ma piuttosto a quella etimologica, sviluppatasi in un mondo laico, immanente e naturalistico come quello romano, di avvinto al divino (e ad esso consacrato, da cui l’istituto della sacertà), con una percezione del tremendo e del misterico connaturato al reale – lo stesso senso che trasuda dai versi di Rainer Maria Rilke quando, nella nona elegia, in uno stato non dissimile a quello estatico, scrive: “Terra … non sono più necessarie / le tue primavere a guadagnarmi a te -, una, / ah, una sola è già troppo per il sangue. / Senza nome, da tanto, a te mi sono votato. / Sempre fosti nel giusto, e la tua sacra scoperta / è la familiarità con la morte.”

Approssimazione al reale, o al tathatā, la sua autentica natura – e tale operazione non appariva concepibile a coloro che ci hanno preceduto senza questo senso del sacro – un rispetto reverenziale per la funzione rivelatoria – e allo stesso tempo costitutiva – del reale e del suo mistero immanente.

Con questo non si vuole sostenere, naturalmente, che la parola poetica oggi debba regredire a una funzione sacerdotale o rituale – come potrebbe apparire ad alcuni – ma che la frattura che può apparire consolidata tra il momento della caduta dei referenti metafisici e quello subito successivo non può – non deve – giustificare il distacco assoluto verso quelle che – opportunamente – sono le radici della parola, e soprattutto la sua tradizione identitaria e culturale.

Ciò che viene riconsegnato a chi oggi intende assumersi la responsabilità della parola poetica non può che essere l’intero percorso – culturale, identitario, tecnico, sociale e infine estetico – della poesia. Su ognuna di queste categorie (e ce ne sono certamente altre) ci sarebbe molto da dire, perché attualizzare la tradizione per rappresentare il proprio tempo senza esserne fuori è responsabilità di chi decide di scrivere anche una sola parola usando questo linguaggio.

Tornando alla domanda da cui ha avuto scaturigine questo intervento: “È ancora legittima la radice dell’inchiostro … il come si scrive … lo scrivere stesso?”

Tenterò una risposta, certamente insufficiente: ogni cosa è legittima, proprio perché nihil verum, omnia licita – naturalmente, ma non senza conseguenze per ogni scelta – per questo si è parlato di un’assunzione di responsabilità.

Per evitare una confusione tra ogni genere di inchiostro, è necessario prendere posizione e determinare dei criteri che realizzino una continuità con le citate radici, attualizzando nel nostro tempo le qualità connotative e distintive della specificità della parola poetica in quanto linguaggio del tremendo, della formula e del sacro, conscio della sua tradizione tecnica, umana, espressiva ed estetica.

Alle due sponde di questo auspicabile equilibrio, vi sono la deriva della confusione assoluta, in cui ogni cosa è poesia (nel silenzio di una saturazione completa e priva di criteri orientativi), e una sterile macerazione deformante in un passato (anche prossimo) ideologizzato e contraffatto, altrettanto foriera di un senso piuttosto spiccato di morte della funzione più viscerale della parola poetica.

 

FABIO ORECCHINI

Mal Bianco

 

 

light flows

from fire; desire from agony;

speech from the tongue tied

the Word from the hung mind

moves to Its mouth

R.Duncan, The opening of the field

 

Meri emittenti vocali, emitteri, in dotazione a disposizione a nostra protezione ali cornee, dorate indurite in memoria d’abisso, di parola in cui cadere, lenti, un vuoto orlo di presenza, di presentificazione, questo infinito tendere e tenere gli occhi rivolti al cielo, un cielo interno agli occhi,in, attesa sempre di qualcosa di qualcuno; dentro il cielo dietro l’occhio comprimere uno spazio bianco, larvale nello spazio aereo del volto il volo interdetto, essere pendente, sul punto di cadere nel mondo si lasciano cadere, a mezz’aria

un’ombra a volto scoperto, l’interfaccia non richiesto, la parola un silenzio intravisto non una, destinazione al respiro, distanza intercorsa da a a non    forza d’attrito, virtualizzazione spettrale dell’essere nella parola, afasia, lutto impossibile e vita degli spettri, sfregamenti, faglie, nel crampo della gola

Alcestina: vomito che la morte rigetta sui vivi

 

 

e le compagini accolite e le solite

aragioni, sèdano, danno, nomi

a qualche nome nuovo in mostra

 

darsene

e smettere mai

 

la voce inchiodata all’asse

che a ricacciarla in dentro

nel sodo

 

se  la sotterranea perde il velo

 

nell’hangar  -dato a dodici ampère-

la giovane ferecide si arrampica

è già vecchia

ogni notte candida

 

aspri i giorni immedicati domandali a lei

  

***

 

rigagnoli e salnitri sui muri già bianchi

già perduti e si è, sclerificata ombra od elitra

diffamata alla gola e già lì

nel male dei bianchi, che a stringerli al petto e

splendida sera e giove assente, a rugarsi

 

bluastra colchide, bracciante con ali spente

nerastre che fa nero, di campi aridi

magnetici, che bisogna: atti,  alterazioni

di umido credo, diluenti ife, libagione

di muffe così  – atte – al midollo

 

 

°°°°°°

MAL BIANCO

Alcesti   |  studio per olografie e altri spettri

Mal Bianco, noto anche che oidio, nebbia o albugine, è una malattia trofica delle piante causata da funghi Ascomycota della famiglia delle Erysiphaceae nella fase asessuata del ciclo, in passato identificata con il genere di funghi imperfetti Oidium. Caratteristica comune degli Oidium è quella di produrre ife. La conseguenza macroscopica del comportamento generale delle Erysiphaceae è la formazione di un feltro, di un velo di colore biancastro e di aspetto polverulento, sulla superficie degli organi colpiti, dovuta all’intreccio di ife e all’emissione di un numero elevato di spore. Lento il deperimento della pianta colpita, esito letale.

…………….

Alcuni versi sono variazioni ed appropriazioni da un ritrovamento:

Quadri (Shakespeare&Company,1982), di Guido Savio.

 

 

GIOVANNI PROSPERI

 

Non

raccolgo

più

poesie

.

Le

semino

 

La catastrofe in minore o dello spaesamento: vivere il Covid-19 a Parigi

1

di Marilina Ciaco

Quando a fine febbraio ho deciso di salire sull’aereo che mi avrebbe portato da Malpensa a Charles De Gaulle non avrei mai immaginato, neppure assecondando i miei più foschi deliri distopici, la portata dell’emergenza sanitaria che di lì a poco ci avrebbe coinvolti.

Fui invitato a parlare d’amore

0

di Giacomo Zibardi

Fui invitato a parlare d’amore. Il titolo del convegno era La nuova letteratura di Utopia, frammenti dal verbo. Il convegno era stato organizzato per l’uscita del primo volume antologico che raccoglieva testi di giovani scrittori morti durante la guerra. L’ente promotore era una commissione governativa, qualcosa del genere, o un’associazione legata comunque ad apparati governativi.

Una settimana prima dell’incontro mi spedirono il volume. Diedi una rapida occhiata alle prime pagine: erano per lo più elenchi di strazianti privazioni o cataloghi di morte, non ci trovai molto d’interessante e così piantai lì la lettura, chiedendomi perché fossi stato invitato a parlare d’amore.

Scesi dal pullman che pioveva a dirotto. Non tornavo ad Amauroto da troppi anni. Lo scroscio dell’acqua anestetizzava i suoni della città, i fanali dei veicoli in mezzo alla pasta sottile e verticale della pioggia sembravano scomporsi. Quel quadro urbano così sfumato mi riempì di gioia, vergogna e disperazione. Alla stazione venne una delegazione del convegno, mi accolsero con fare cerimonioso, accompagnandomi nella struttura dove avrei alloggiato: un hotel costruito su una scogliera a picco sul mare.

Passai la sera in stanza, a preparare il mio intervento, cercando parole che non scadessero nel tecnicismo, continuando a domandarmi perché un convegno letterario dovesse affrontare quell’argomento così ostico, freddo e oscuro come l’amore. Quando fui stufo guardai fuori dalla finestra il mare che era stato il mio mare, la mia infanzia, e lo trovai sempre uguale e piatto e nero come la notte più buia del mondo. Più tardi, sdraiato nel letto, cercai di non pensare a niente, fossilizzarmi sull’intonaco bianco del soffitto, la graziosa trama degli stucchi che lo decoravano, ma più credevo di svuotarmi più cominciavo a riempirmi di dubbi e quel soffitto cominciava a sembrarmi troppo sottile per reggere al peso del tetto e pronto a disfarsi per crollarmi in testa.

Le caverne erano un luogo buio e sublime. Stalattiti e stalagmiti componevano scenari fiabeschi, tutto lì dentro era sospeso nella bellezza e quella bellezza mi prendeva per mano, conducendomi sempre più in profondità, dentro le viscere della terra. Sapevo di aver raggiunto il centro esatto delle grotte e lì mi fermavo. Quella grotta era come illuminata dal bagliore pallido di un fuoco invisibile. Un bambino senza volto, vestito di stracci, mi veniva incontro sbucando dalla penombra e invitandomi a seguirlo, vieni, diceva allungando il suo braccino. Lo prendevo per mano pieno di fiducia e stupore. Il bambino mi conduceva dove la luce era più debole, dopo qualche passo eravamo nel buio. Camminavamo nel buio e avevo paura, dove mi stai portando? gli chiedevo, ma lui non rispondeva. Camminavano e avevo sempre più paura, finché un puntino luminoso apparve davanti a me. Trascinavo il bambino verso quel puntino. Quella luce filtrava da un passaggio angusto, io e il bambino senza volto ci infilammo dentro e strisciammo fino a una nuova grotta enorme e bianca, le rocce della grotta brillavano lucide. Al centro della grotta c’era un buco. Il bambino indicava il buco e io mi avvicinavo. Era un buco senza fondo, nero. Sapevo che dovevo tuffarmi dentro, e che dentro quell’oscurità avrei trovato la risposta al sogno, ma in quel momento mi svegliai sudato, con la bocca legata dalla sete.

Avevo ancora un giorno libero prima del convegno. La pioggia era sparita, il sole splendeva alto, così decisi di fare una passeggiata sul lungomare come facevo da ragazzo.

Trovai le solite piastrelle, solo più consumate. Le solite panchine, ma verniciate di un altro colore. Il solito bar, quello immutato. Ripassai mentalmente i miei appunti prima di sedermi ai tavolini del bar. L’amore secondo i più recenti studi è un virus immutabile, non si adatta al corpo estraneo che contamina, non evolve, è peculiarmente atipico, sfugge a qualsiasi letteratura medica. Al momento una cura è lontana, la mappatura genetica non è ancora completa, pare esistano diverse tipologie dello stesso ceppo virale ecc. ecc.; già troppi tecnicismi, pensai.

Quando ero ragazzo, prima dell’esilio, prima della guerra, prima di tutto, il mare mi sembrava un posto adatto per i desideri e per il futuro in generale. Quella mattina mi sembrò solo un paesaggio ingannevole che nascondeva l’abisso.

Tornai in albergo prima che il sole annegasse nell’acqua. Non vidi nessun per tutta la giornata, non parlai con nessuno. Arrivò quindi il tramonto. Incorniciato nel vetro della finestra il mondo era rosso e sembrava preda dell’incendio finale. Fui attraversato da un’idea fulminea e corsi ad annotarla. Decisi di aprire il mio discorso al convegno con questa frase: l’amore è l’incendio finale. Ma a vederla scritta sembrò troppo criptica, così cambiai con: l’amore è un’apocalisse. E fui soddisfatto.

Mi sdraiai a letto sforzandomi di riprendere il sogno della notte precedente, di tornare nelle caverne e conoscere i segreti nascosti dentro il buco nero. Dormii senza sogni, aprendo gli occhi frastornato dal pensiero di statistiche sulla diffusione del contagio, sui metodi di trasmissione del virus, pensando al volto di Alice e al suo sorriso da ragno e al suo corpo, maledicendola e provando allo stesso tempo un irreprensibile desiderio di averla lì di fianco a me sul letto, in quel momento inutile. La malattia si sviluppava rapida. Quanto tempo avevo ancora? Quanti giorni di lucidità? Sapevo di aver contratto il virus da circa un mese, contando un periodo di incubazione di due settimane, non mi rimaneva molto.

Al convegno parlai velocemente temendo di fare una brutta figura o incappare in qualche strafalcione. Invece fu un successo e tutti mi applaudirono. Sul pullman durante il viaggio di ritorno guardai tutto il tempo fuori dal finestrino, la velocità deformava le cose del mondo inclinandole.

Passò poco tempo e ad Anapoli fu trovata una cura. Grazie a un amico medico riuscii a procurarmi il vaccino prima che fosse troppo tardi. L’apocalisse era scongiurata. Nel giro di qualche anno l’amore smise di fare paura e le persone cominciarono ad accettare i malati senza vederli come lebbrosi.

Rividi Alice per caso dentro un bar, ci salutammo e parlammo un po’ del più e del meno. Non avevamo molto da dirci. Lei abbassava spesso lo sguardo. Forse non si era curata, forse ero io paranoico, forse semplicemente non voleva guarire e aveva accettato la sua apocalisse. Non lo so. In ogni caso mi sembrò triste e debole, ma di una debolezza così autentica da sembrarmi coraggiosa.

RIPRENDIAMOCI IL FUTURO (un appello)

11

di Giacomo Sartori

Il nostro modo di vivere non è sostenibile, lo diciamo da anni noi specialisti delle varie discipline della natura e delle risorse, ormai all’unisono, e in fondo ormai ognuno lo sa più che bene. La presente pandemia ci mostra che la non sostenibilità non è un concetto, è una realtà che da un momento all’altro irrompe portando dolore e morte. Nessuno di noi può predire come sarà il mondo alla fine di questa tempesta, le conseguenze economiche, sociali, psicologiche, politiche, geopolitiche.

Baba Jaga

0

di Gaia Giovagnoli

Bilibin, Baba Jaga

Molti dicono che la strega
dei tarli
è bianca di gesso
molti dicono che corre
nel bosco
e ha pelle di tronco

Che si attacca dal ruvido
dei piedi
e beve dalla terra
con un sorso

 

Una novella ritrovata di Camillo Berneri

0

a cura di Nicola Fanizza

Nel 1992, per conto della Famiglia Berneri, furono raccolte in volume le Novelle di Camillo Berneri. Tuttavia ai curatori del libro sfuggì Il primo volo. La novella era apparsa il 1 giugno 1924 sul settimanale «Humanitas» – n. 22/23 –, diretto dal fiero mazziniano Piero Delfino Pesce. (Il merito del suo rinvenimento va attribuito anche al prof. Domenico Cofano).

La pubblicazione di questo inedito offre l’occasione per ritornare a riflettere su una grande e bella figura di anarchico, autore di scritti originali e ancora illuminanti sul socialismo libertario contrapposto a quello autoritario e sovietico, sulla liberazione della donna, sull’Operaiolatria marxista, che svaluta le lotte e la cultura dei contadini, degli artigiani e degli impiegati.

Camillo da Lodi – questo lo pseudonimo che troviamo a volte in calce ai suoi scritti – era nato per l’appunto a Lodi il 20 maggio 1897. In seguito, si trasferì, insieme alla sua famiglia, a Reggio Emilia, dove cominciò a frequentare la Federazione provinciale giovanile socialista, di cui divenne uno dei dirigenti.

Ben presto militò nella frazione rivoluzionaria del Psi. Il suo acceso e intransigente antimilitarismo lo portò però ad avvicinarsi sempre più agli anarchici. Infatti, quando nel 1917 fu chiamato sotto le armi, fu escluso dalla scuola militare e inviato sotto scorta al fronte.

Terminato il conflitto, riprese i suoi studi, laureandosi in filosofia nel 1922 a Firenze, ove fu in rapporto con Gaetano Salvemini, che, con Errico Malatesta, ebbe notevole influenza sulla sua formazione culturale e politica.

Contemporaneamente partecipò all’attività anarchica, collaborando, tra l’altro, a Volontà, Il grido della rivolta, Umanità nova e, dopo l’andata al potere del fascismo, a Fede ! e Pensiero e Volontà. Quanto al taglio di quegli articoli, può valere quanto scritto nel 1952 dal Salvemini: «Aveva il gusto dei fatti precisi. In lui l’immaginazione si associava a una cura meticolosa per i particolari immediati nello studio e nella pratica di ogni giorno. Si interessava di tutto con avidità insaziabile. … lui teneva aperte tutte le finestre».

Nel 1926, per sfuggire alla repressione fascista, Berneri è costretto a riparare in Francia. Qui nei suoi scritti prefigura per l’anarchismo un «ruolo autonomo e di primo piano» nella rivoluzione italiana. Il movimento anarchico, con la rivendicazione del federalismo, avrebbe consentito – asseriva il Berneri – di evitare al suo Paese sia la soluzione comunista «dispotico-centralizzatrice», sia la soluzione «moderata».

Dopo il golpe franchista del luglio 1936, lo troviamo in Spagna a Barcellona, dove contribuisce tutte le sue forze all’organizzazione e alla resistenza del regime repubblicano, sostenendo il punto di vista degli anarchici.

Proprio in quanto anarchico, Berneri fu ucciso dagli stalinisti nelle tragiche giornate del maggio 1937. Il suo assassinio avvenne a Barcellona negli stessi giorni in cui vennero uccisi, insieme agli anarchici, molti militanti del Poum, un partito comunista antistalinista.

Diversi studiosi – Gaetano Salvemini, Pietro Adamo e Goffredo Fofi, ecc. – in tempi e modi diversi hanno sostenuto che tra i maggiori responsabili della morte di Berneri ci furono senz’altro alti dirigenti del Partito comunista italiano.

Ciò che è certo è che, con la morte di Berneri, la distanza fra gli anarchici e i comunisti italiani diventò un abisso.

 

 

Il primo volo  

di Camillo Berneri

Mastro Giovanni si aggira fra i cavalletti. Non può mettere mano al lavoro. Se ne va Carluccio; che lavora così bene che, se restasse con lui, gli lascerebbe la bottega.

Venne smilzo smilzo, con una faccina da fame e le gambine secche secche. Pareva un passerottino ed era imbambolato dalla fame. Ma appena cominciò a lavorare e a guadagnare qualche soldo divenne allegro. Si soffiava sulle dita per poter disegnare, ma anche con le mani intirizzite i disegni erano sicuri e politi. E quando cominciò a maneggiare i colori, che primavera in quello stanzone opaco.

Quando lui sen’era andato, Mastro Giovanni rimaneva estatico a guardar quegli uccelli così veri che pareva dovessero volar via da un momento all’altro, e quei putti così bellini da far venir voglia di prenderseli in braccio.

E ora se ne va. Perché ha messo le ali e vola sicuro. Ed andrà lontano.

Se ne va, Carluccio. Mastro Giovanni vorrebbe lavorare e scuote la testa e si dice: – Vecchio pazzo, o che credevi di tenertelo al fianco fino alla fossa quel ragazzo che lavora meglio di te e di tutti quanti gli artisti della contrada? –

Ma ogni tanto si passa il dorso della mano sugli occhi, e gira su e giù per la bottega, che gli pare vuota e oscura; tanto che va sulla porta a guardar nella strada, per vedere se viene Carluccio.

 

Mastro Giovanni gli ha detto: – Carluccio tu diventerai grande. Forse diventerai ricco. Ti auguro questo e quello. Ma ricordati che vai fra la gente che veste di velluto e di raso, e che ci sono più serpi e spine sotto i tappeti che qui, dove ci si conosce tutti.

Questo e tante altre cose gli ha detto Mastro Giovanni. E Carluccio ripensa alle parole del vecchio, ma queste gli ricordano il paese, la mamma che piange; e allora si mette a fischiettare e se ne va al passo di marcia, per la via che è tutta infiorata di biancospino.

E’ pesante, il fagotto. Lo ha preparato sua madre. Lui diceva – Basta, basta – ma lei aveva paura che il suo ragazzo rimanesse senza mangiare, e ha tagliato dei pezzi di formaggio e di pane che c’è da sfamarsi per una settimana.

Gli viene un nodo alla gola a pensare alla madre, e intona una canzone del paese; e cerca di rendere ferma e forte la voce che gli trema e sta per mutarsi in singhiozzi. La strada si snoda ed a ogni svolta si vedono cose nuove. Non è mai andato così lontano, e abbassa la voce quando è vicino alle case; dove c’è gente che non conosce. Al paese, quando passa, lo salutano tutti e lo chiamano a nome, ma qui lo guardano appena. Perché non lo conoscono. Ma gli pare che quella gente non sia così buona come quella del paese.

Lo hanno messo a dormire in soffitta e a mangiare sta con la servitù. Ma la soffitta è ben riparata e in cucina si mangia bene. E quando lavora, vien sempre il padrone.

Guarda e mormora: – Bene, bene. Si vede che è contento, e Carluccio se ne compiace e lavora con lena. Ha già affrescata tutta una parete ed è pochi giorni che è al palazzo del Marchese De Prie.

Ma da ieri si sente stanco. La mano gli serve male e i colori non si combinano mai. Sente il bisogno di svagarsi e gironzola per il parco. Quasi di nascosto, perché ha paura che gli diano del fannullone. Le fontane zampillano, con voci ora roche ora argute. Quella grazia compassata delle siepi potate pari pari, dei fini intrichi di rami sottili, delle erbe tosate, lo rattrista. Anche fuori gli pare di essere richiuso. In campagna, al suo paese, poteva correre, fischiare, cantare. Qui, la ghiaia, che scricchiola sotto i passi guardinghi, gli fa soggezione. Si ferma a guardare il castello che biancheggia nella cornice dei grandi alberi, e pensa che deve tornare al lavoro. Ma riprende a gironzolare per i viali. E si ferma a guardare le statue. Fauni dai piedi di capra, e la faccia diavolesca. Ninfe snelle e dee formose. Il maggiordomo sa il nome di tutte le dee. Quante cose sa il maggiordomo!

Non riesce a lavorare, da parecchi giorni. Esce all’alba; ma le nebbioline velanti di biacca azzurrina, il verde cupo del parco non gli danno la pace. Ne gliela danno le sere luminose rispecchiate in acque lisce, sulle quali i flessuosi cigni dondolano la loro candida calma. Ha una spina nel cuore, Carluccio. Una di quelle spine Mastro Giovanni gli aveva detto che avrebbe trovato nelle case dei ricchi.

E’ venuto un pittore, da Parigi. Un pittore che mangia alla tavola del marchese, passeggia con la marchesa e dorme fino a mezzogiorno.

– Un grande artista – dicono in cucina.

Affresca la sala da ballo. Arabeschi, mori, scimmiette, buffoni, scoiattoli guizzanti, pavoni … Quante cose dipinge il pittore venuto da Parigi! Carluccio ne è rimasto avvilito. Tutte quelle cose egli non le consoce. Ma dipingere sa. Guarda le smerlettature di fogliame leggero su azzurri pallidi, su cieli rosa e dorati, e si rincora. Le ha dipinte lui quelle scene che spalancano le pareti! Ma quel pittore venuto da Parigi dipinge mori, scimmie, scoiattoli, pavoni … E lui no!

 

Sono venuti molti signori imbacuccati e tutti alamari e pizzi. E tante signore con le sottane gonfie, i ventagli dipinti,e delle parrucche grandi grandi.

Le finestre sono tutte illuminate, Nell’ombra cupa del parco, Carluccio è cullato dal lento archeggiare dei violini che accompagnano la molle garotte, che egli non conosce.

Mastro Giovanni, la mamma, la bottega, il paese. Ma poi, di nuovo, sempre, il pensiero di Celeste, che il marchese vuole che faccia da modella al pittore venuto da Parigi.

In cucina pigliano gusto a farla piangere, quella figliola. Ma lui ha già rotto un piatto sulla faccia del cocchiere. E se non la finiscono saprà lui metterla a posto, quella canaglia!

Celeste è diventata disinvolta. E quando la punzecchiano, sa rispondere. Ora Carluccio non la guarda. Sente di odiarla. Perché l’ama. Ha sempre qualche cosuccia nuova, Celeste. Ora un nastro, ora un grembiulino, ora un anelluccio. Gli uomini la trattano bene ora, perché lei non ha più vergogna di farsi vedere dal pittore e sperano di godersela anche loro.

Carluccio sta per finire il lavoro. A giorni lascerà il castello, per andare a decorare una chiesa.

La marchesa, ora, viene a vedere di quando in quando i suoi affreschi; e un giorno di pioggia l’ha chiamato nel suo salotto ed ha chiacchierato tanto. Come se fosse il pittore venuto da Parigi. Era così gentile, la signora, che Carluccio si sentiva commosso e le avrebbe baciato la mano, in ginocchio. Se avesse osato.

Ma la signora marchesa è venuta a parlare di Celeste, e nel parlarne sorrideva. E parlava in modo che Carluccio non capiva sempre. Ma ora ha capito.

 

Celeste è stata mandata via. La cuoca l’ha detto il perchè:

– Ha la pancia grossa. La signora, che parla così dolcemente, come ha potuto mandarla via? Ma sorrideva con delle fiammelle negli occhi, mentre diceva le cose che non capiva. Per questo l’ha cacciata come una cagna.

Carluccio non l’anno mandato via. Ed ora sta decorando la camera da letto dei marchesi. Perché il pittore venuto da Parigi se n’è andato, una sera che il marchese ha rotto uno specchio e ha bastonato Giuseppe, che non aveva fatto nulla di male.

La marchesa chiama Carluccio nel suo salotto; quasi ogni sera.

C’è una luce tenue nel salottino. La Marchesa è tanto bella che somiglia alla madonna che è nella chiesetta di Saint-Martin. Ma è più bella, la marchesa. Ha una voce dolce, che fa dimenticare tutto, a Carluccio. Una voce che lo accarezza e gli fa soggezione. Tanto che risponde con sforzo, che tutte le parole che dice gli sembrano troppo brutte per una signora così. Si sente goffo e ne soffre. Ma non vorrebbe mai andar via.

Sulle pareti vi sono gli amorini che danzano.

Li ha dipinti lui, quei putti carnosi e leggeri. Se ci fosse Mastro Giovanni a vederli! A quel chiarore rosa, sembrano ancor più vivi. Li ha dipinti lui, quegli amorini!

La marchesa si incipria. Ha le braccia e le spalle nude, e un’ombra profonda negli occhi e nel seno semiscoperto. Le vorrebbe fare il ritratto, così. Ma non sarebbe capace. Perché è troppo bella, tanto che il guardarla fa quasi male. La guarda, ma non riesce a vederla, Perché è la carne che contempla.

.  .  .  .  .   .  .   .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .   .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .

– Ti piaccio? – Carluccio è inginocchiato e le bacia le mani, le vesti, le stringe le ginocchia, sprofondando nel sogno che gli fa il sangue felice.

 

Da quando è arrivato un signore antipatico, amico del marchese, il salotto del sogno è chiuso, per Carluccio.

Per questo non riesce ad approfondire i cieli e a rendere trasparenti le acque degli affreschi, che lei non viene più a guardare.

Carluccio sogna, nel parco opaco di crepuscolo ed animato solo dai canti delle fontane, schiariti dal silenzio.

Viene la notte, ed annerisce tutto lasciando qualche stocco argentino puntato verso i mille cuori che  palpitano lassù.

Carluccio piange, nella notte. I fiori si inumidiscono di pietà ai suoi singhiozzi.

Una vecchia si agita nel letto, in una vecchia casa di Saint-Martin. Il cuore non la lascia dormire, perché batte forte; e le dice: Carluccio piange, Carluccio piange.

Storia con assemblea condominiale

0

di Andrea Inglese

 

Nessuno sa cosa può accadere durante un’assemblea condominiale.

Goethe

“Ci troviamo in una situazione così così, diciamo pure… gravida… diciamo… Ci siamo capiti. Non voglio accusare nessuno, non voglio insospettire nessuno. Quaggiù in quanti siamo, oggi?”

“Poco consona! Mi presento: Dario Zanotti, ufficio Palestre. Poco consona, la situazione.”

“D’accordo, ci troviamo in una situazione poco consona. E senza ragione apparente siamo costretti a riunirci…”

Il figlio sano

0

di Walter Nardon

Beh, almeno il traffico era sopportabile.
Hermann guidava in seconda corsia, direzione Venezia, cercando un po’ di conforto fra i capannoni industriali e una linea dell’orizzonte, per così dire, inverosimilmente evanescente. Sua moglie Carla, impegnata a spedire messaggi, due giorni prima gli aveva fatto capire che avrebbero dovuto accompagnare il figlio in macchina a Trieste: «Per una volta che non può andare con il pullman della squadra, non possiamo mica lamentarci, no?».
Una rottura di palle, ma che poteva fare? Marco dormiva sul sedile di dietro.
Alle dieci di quella mattina lo avevano dovuto portare dal dentista per prendere le impronte, operazione indispensabile se si voleva che la capsula dell’incisivo superiore raggiungesse la propria sede in tempo per il matrimonio dell’inafferrabile cugina Tessa. Lui di per sé lo avrebbe anche trascurato ma Marco, comprensibilmente, ci teneva. E il dentista gli aveva fatto un favore. Così lo avevano aspettato in macchina nel parcheggio vicino.
Addio piani per il fine settimana. Dopo dieci anni trascorsi a considerare imbecilli tutti quelli che non vedevano l’ora di arrivare al venerdì, negli ultimi tempi si era accorto di essersi pian piano conformato allo stesso scintillante desiderio: anzi, ci stava investendo troppo, nei fine settimana, voleva glorificarli. Una recente spinta interiore lo induceva a farlo. Ad esempio, il lavoro: i giunti fuori misura, le piastrelle dell’ultima partita – sottocosto, ma arrivate dopo mille rassicurazioni del produttore – addirittura convesse. E soprattutto una coppia di amici impegnati a spendere venticinquemila euro per un’auto semestrale che non era neanche granché e a tirare invece sui centesimi per qualcosa che avrebbero dovuto calpestare, o su cui avrebbero dovuto appoggiare il culo per i prossimi vent’anni. A causa di un’inversione di tendenza imprevedibile, ma ormai pressoché definitiva, l’arredo, il vanto della generazione dei suoi genitori, doveva costare una cifra ridicola. Mobili componibili, lampadari in kit di montaggio. Ora, dopo i mobili, i clienti erano passati al resto. Avrebbe potuto sostenere pubblicamente che, perso il rilievo materiale del ricordo, non sapevano più di che vantarsi (la sua laurea in Lettere di tanto in tanto si rifaceva viva).
«A chi scrivi, a Patrizia?» fece, vedendo Carla da troppo tempo in silenzio.
«Sì, a Patrizia. Oggi per fortuna va da sua madre».
Patrizia si era separata otto mesi prima.
«Ma non credi che dovrebbe finirla di occuparsi dei figli e andare a divertirsi?»
«Sì, ma lo dici solo perché sei stufo di sentir parlare della sua situazione, come di quella di altri tuoi amici, peraltro».
In effetti, negli ultimi tempi non sopportava più di dover passare il fine settimana a occuparsi degli altri, anzi neanche tanto di loro – questo avrebbe ancora avuto un senso – ma delle loro manie. Preferiva inventarsi qualcosa, ma quando c’era di mezzo l’amica di sua moglie cercava di sforzarsi un po’ di più: il figlio minore di Patrizia era nato con la sindrome di down.
Si era rivisto più volte in ospedale, accanto a Carla stesa sul lettino mentre il ginecologo faceva la terza ecografia. «Ha sentito il battito? No? Ora lo amplifico». E la cassa aveva trasmesso un battito con una frequenza che conosceva già molto sostenuta, ma che gli era parsa più veloce rispetto a quella che aveva sentito quando si trattava del cuore di Marco. Lo aveva colpito, come già allora, qualcosa che gli era sembrato incomprensibile, un ritmo la cui origine, al di là di tutte le possibili considerazioni razionali, rimaneva ignota. E poi era cominciata la lunga trafila delle analisi con le perifrasi mediche: «Non possiamo del tutto escludere», «Sarete più sereni». E la probabilità era cresciuta; del resto, la percentuale sembrava già spaventosa in partenza: ben oltre il quarantacinque per cento.
Erano cominciati i controlli, poi a tre mesi Carla aveva subito un aborto spontaneo.
Così la domanda era rimasta in sospeso, assieme al rimorso per aver sperato che il figlio fosse sano. Ma non era normale sperarlo? Da quanto questa speranza era diventata inconfessabile?
La nascita di Marco: sei ore di travaglio. L’esultanza interiore – anch’essa nelle sue radici incomprensibile – quando il medico gli aveva detto che era andato tutto bene.
Questo era forse l’unico dettaglio che gli consentiva di mostrarsi ben disposto nei confronti di Patrizia, il cui sistema di preferenze era inquadrato in quella che si poteva definire cultura alternativa, ma che appariva invece perfettamente funzionale alla stagione: falso progressismo, consumismo orientato al bene, permissivismo (ma prova a trovarti in disaccordo con lei su qualcosa, o sui suoi figli). E Mirko cresceva. Poi il secondo dettaglio: Fabio, il marito di Patrizia, se ne era andato di casa con Olivia.
«Sua madre baderà ai bambini?»
«È inutile che ti sforzi. Comunque, sì. Più che altro a Mirko, dopo il gruppo parrocchiale. Carmine è impegnato con il calcio. Tornerà a casa col furgone della squadra».
«Ma senti: lei ha qualcuno? Anche solo un’amicizia?»
«Ma sì, qualche amicizia. Ma poco».
Superò finalmente un camper. Non era poi così grave. Aveva solo bisogno di sfogarsi un po’, ma quando?
«Ma tu lo sapevi che Carmine la settimana scorsa è stato portato come riserva in prima squadra?» chiese Carla.
«No, ma che prometteva bene si capiva».
Sì, il giovane esterno poteva darle qualche soddisfazione.
In prossimità dell’uscita di Vicenza est, Hermann si vide superare da una decapottabile scoperchiata. Una vecchia Alfa 166 spider blu. Un po’ fresco per tirare giù la capote: diciassette gradi. Inquadrata da dietro, ospitava due nuche di mezza età, col berretto da baseball blu, entrambe con la mano destra a ruotare nell’aria. E la radio a tutto volume che sparava ancora Proud Mary.
«Quei due sono veramente assurdi».
«Cosa dici, ci fermiamo a bere un caffè?».

2.
Sceso dalla macchina, dopo aver urlato che non aveva bisogno di niente, Marco si era gettato nell’indistinto per comprare una copia della «Gazzetta». Carla chiese a Hermann un caffè e una brioche per dargliene almeno un pezzo.
Sembrava di essere allo stadio. Ci saranno stati tre pullman di tedeschi. Hermann sentiva crescere un risentimento alle gambe, ma provava soprattutto un disagio generale provocato dalla sensazione dei desideri degli altri, tutti accalcati addosso a lui: troppe voglie, come se senza quel caffè potessero morire. Le comitive sono micidiali, ne incontrava ogni settimana nei suoi viaggi di lavoro. E tutti col loro diritto al caffè, con i pensionati che spingevano facendo finta di niente. Era stufo di rimanere composto, un po’ come quando discuteva con la sorella di Carla, che gli faceva una domanda, attendeva la sua risposta e poi subito replicava pensando di metterlo a tacere. Non lo metteva davvero a tacere: se lui rimaneva in silenzio, infatti, era solo per non mandarla affanculo, ma interiormente la mandava affanculo ogni volta. E la prossima non sarebbe rimasto in silenzio.
«Due caffè, una spremuta e una brioche».
«Vuole la nostra formula menu 1?».
«Sì, scusi, un menu 1 e un caffè».
Nella mischia, intelligentemente, Carla si era appostata sul limite estremo del bancone, vicino alla seconda macchina del caffè. Le passò subito lo scontrino e diede il meglio di sé nell’accuratissima operazione di prendere le tazze da Carla e portarle fino a uno dei tavoli a cui ci si appoggia in piedi. Spostò lentamente con un gomito tazze e piattini abbandonati dai primi tedeschi e vi mise anche spremuta e brioche per il figlio (ora in bagno).
Poi, alzando gli occhi verso il fondo del locale, vide seduti al tavolo nell’angolo due uomini oltre la mezza età, relativamente bassi, che bevevano il caffè uno di fronte all’altro col berretto da baseball in testa e due giacche a vento blu.
«Guarda», fece a Carla «sembrano i due deficienti della decapottabile».
«Ma che dici?».
«Sì, anzi, sai cosa penso? Che siano due fratelli, due ricchi imprenditori del ramo giocattoli che la domenica, non sapendo cosa fare, scorrazzano per le autostrade solo per portare in giro la macchina».
«Ma non è una cosa seria».
«Beh, che portino in giro la decapottabile è una cosa serissima».
I due avevano tirato fuori il cellulare e avevano messo i dispositivi sul tavolo, per confrontare il modo in cui la stessa immagine compariva su entrambi gli schermi.
«No, è sicuro. Sono due deficienti».
Carla sorrise.

3.
E poi era caduto. Non troppo e non miseramente, ma era caduto.
Andiamo con ordine.
Appena arrivato, mentre Marco aveva raggiunto i compagni in spogliatoio e Carla stava telefonando a Patrizia, Hermann si era reso conto dal modo in cui confabulavano a bordo campo che i due col berretto blu erano proprio dirigenti della squadra di casa, uno dei quali avrebbe poi svolto il compito di guardalinee, come d’abitudine (è prassi consueta nei campionati giovanili che la funzione di guardalinee sia svolta da dirigenti o accompagnatori, uno per squadra). La sorpresa non era durata che un istante; del resto, la tuta sotto il giaccone, che aveva scorto all’Autogrill, avrebbe dovuto metterlo rapidamente sulla buona strada. Ma tra le mille società sportive, proprio di questa dovevano essere dirigenti? Quindi, a ripensarci questo dettaglio iniziale avrebbe dovuto illuminarlo sui possibili sviluppi della questione.
Poi, la tribuna: assolata e occupata per metà dai tifosi di casa. Alcuni banchettavano. Un passaggio inatteso di bottiglie di prosecco con inverosimili flute di plastica portati per l’occasione. Un compleanno? A mezzo metro c’era chi mangiava in modo più sobrio e si complicava meravigliosamente la vita stendendo le carte del prosciutto e del formaggio accanto al vaso dei carciofi appena aperto, col tappo appoggiato a fianco in funzione di minivassoio e la moglie a tagliare il pane. Ma non mangiavano a casa? Erano veneti in trasferta? Altri sedevano con maggior compostezza un poco discosti, gratificati da evidenti segni di distinzione fra i quali andavano menzionati: gli occhiali da sole con lenti a specchio azzurre, i calzini blu decorati con piccolissimi pacchi regalo, o ancor più piccoli pesci (per lui) e da grandi occhiali neri e piumini laccati su cui scendevano le punte schiarite dei capelli (per lei). Più alte squillavano poi le voci di due amiche, rispettivamente con giacconi dai colori panna e cipria, intente a discutere delle foto su Instagram di una certa Francesca, appena tornata dal viaggio alle Maldive. Ma in fondo doveva pur chiederselo: si sarebbe potuto aspettare altro? No, e infatti fino lì era andato tutto bene.
Poi, inevitabilmente, era cominciato l’incontro, con la squadra di Marco quasi in forma e quindi un po’ meno gradita ai tifosi. L’andamento era equilibrato, fra i continui capovolgimenti di fronte tipici dei campionati giovanili. Quanto a quelli che, come lui e Carla, potevano passare per tifoseria avversaria, a parte il Presidente, la moglie e altre due coppie accompagnatrici, non c’era nessuno. Così si erano seduti in basso, più vicini alla rete. Un’idea ragionevole, anche se la strategia aveva subito rivelato il suo limite, lasciandoli a soli tre metri dai tifosi avversari, ora passati ai dolci (mignon per tutti, anche per i poveri). E intanto erano arrivati anche i veri spettatori, una decina di persone: quelli che erano lì senza avere i figli in campo.
Uno di questi, distinto, portava un cappotto grigio con sciarpa bordeaux che un tempo, quando ancora giocava, Hermann avrebbe potuto considerare un osservatore federale. A fianco, un tizio di tutt’altra specie, probabilmente un immortale. In apparenza, anche lui un uomo di mezza età, di statura media, con gli occhiali, indossava i jeans e un inverosimile giubbotto di pelle da motociclista, bianco, giallo e nero, con una stella sul dorso; per essere più precisi, anche se nei colori poteva sembrare impossibile, il giubbotto richiamava a Hermann la divisa di un campione di motociclismo Marco Lucchinelli (Lucchinelli aveva vinto il campionato del mondo nel 1981 e ora faceva il commentatore in tv). Inoltre, prevedibilmente, il tizio non stava zitto un istante.
Davanti, a pochi metri da lui e da Carla, il magnifico guardalinee col berretto blu, che prima di cominciare aveva fatto un balletto con inchino alla tifoseria.
«Vai, Marco!» aveva urlato Carla.
«Lucky» (senza offesa per Lucchinelli, che ovviamente non ne ha colpa) insisteva nell’esposizione del suo complicato sistema filosofico all’interlocutore che aveva a fianco, il quale interveniva esprimendo sobriamente qualche cenno di conferma, o più spesso di incertezza, avendo però cura di fare in modo che il relatore non li potesse interpretare come una forma di incoraggiamento. Ecco, questi gesti misurati per Hermann somigliavano a un traguardo di civiltà; ma ben presto gli argini cedettero e l’uomo dal cappotto grigio fu costretto ad andarsene verso gli spogliatoi. Era un osservatore federale? Un commissario tecnico? Nell’aspetto, soprattutto nel taglio dei capelli grigi aveva qualcosa in comune col leggendario commissario tecnico Vittorio Pozzo. Più indietro, finalmente sazi, i padroni di casa si erano rasserenati e seguivano la partita senza commenti. Il relatore invece, orfano di pubblico, fece ciò che questa particolare specie di seccatori fa di solito: si mise a guardare sotto di sé, verso i pochi tifosi ospiti. E in particolare si mise a guardare Hermann:
«Una delle cose che capisco meno dei genitori di oggi è la smania di accompagnare i figli trecento chilometri in trasferta anche quando sono così cresciuti, assistendoli in ogni momento come fossero dei dementi».
Hermann si girò appena per capire chi fosse il nuovo destinatario della lezione. Nessuno: Lucky parlava da solo, a voce alta, come per gettare l’amo in attesa che qualcuno abboccasse. Il fatto è che sembrava sobrio. Da parte dei tifosi di casa non arrivò alcuna replica: aveva parlato agli ospiti e infatti quel quarto di giro che Hermann aveva impresso ai muscoli del collo fu interpretato dal relatore come un gesto di disponibilità.
«Cazzo, sfido io che poi ti crescono coglioni: stai sempre ad assisterli».
Hermann teneva lo sguardo sulla partita.
«Che poi questi genitori alla fine non sono neanche tanti, ma danno il cattivo esempio, no? E infatti vedi in campo, che deficienti. Tipo questo Marco. Si vede benissimo che non sa stare in piedi da solo. Tutta una sorta di ortopedia emotiva del cazzo».
Essere presenti mentre un sistema prendeva forma equivaleva a fare esperienza di un privilegio. Il Presidente e la moglie seguivano l’incontro con una concentrazione che a Hermann pareva inusuale, noncuranti degli aforismi. Carla no; era sicuro che lei li seguisse, ma continuava a leggere sul cellulare e aveva più equilibrio. Aveva sempre avuto più equilibrio.
«Tu, ad esempio», disse, accennando verso Hermann «sei sempre andato in giro in questo modo? Una generazione intera che non ha combinato granché, che vive ancora di aspirazioni culturali inutili – mettetevela via, non ci arriverete mai, ve lo garantisco – e che ora rincoglionisce i figli. Sì. Del resto, quando mancano le premesse, c’è poco da fare».
Hermann si sforzava di guardare verso il campo dove Marco, più o meno mezz’ala destra, faceva il suo dovere; ma in un certo senso aveva quasi cominciato ad apprezzare le affermazioni del motociclista, benché non potesse considerarle di estensione universale.
«Vorrei vederli un solo giorno con me, o anche solo due ore a far calcoli. Cazzo, gli insegnerei io».
Ora tifosi di casa chiamavano a gran voce Federico, Carlo, Khaled, Busso, ma non intervenivano. Il motociclista raccolse un mozzicone di sigaretta e lo tirò addosso a Hermann, colpendolo sul collo.
Questi stava quasi per reagire, ma Carla lo trattenne per un braccio.
«Sì, proprio una generazione di coglioni».
Anche le due amiche che avevano commentato le foto di Francesca cominciarono a mormorare verso il nostro Lucky; ma era lanciato.
Ecco, qui successe qualcosa di inatteso: forse una caduta di tono, ma non è facile darne una definizione perentoria.
D’un tratto Hermann si alzò in piedi e in due passi fu al cospetto di Lucky, che lo guardava con aria interrogativa. Bisogna dire che in certi frangenti in Hermann l’uomo vecchio, ossia il laureato in Lettere e l’uomo nuovo, il venditore di materiali edili, si davano la mano; e in quei casi, come diceva qualcuno, il nostro valeva davvero per due.
Lucky aveva un’espressione preoccupata: non che si sentisse pronto a cambiare, ma a che cosa si sarebbe dovuto sottoporre?
Hermann ebbe questa uscita:
«Cosa c’è? Improvvisamente ti manca il fiato?», chiese.
Lucky, per così dire, era tutto orecchi.
«Vuoi parlarmi della logica in Abelardo?» sibilò Hermann in faccia a Lucky.
L’altro si trovò spiazzato. Tutto si sarebbe potuto aspettare tranne che una domanda così precisa, tale da incrinare le pretese del suo sistema che, in modo ormai evidente a tutti, aveva con troppa fiducia ritenuto solidamente edificato. In altre parole, non sapeva come replicare.
Sotto lo sguardo stupito dei presenti, davanti a Hermann che lo superava in altezza di quasi quindici centimetri, Lucky si mise a sedere in silenzio, turbato forse dalle implicazioni che la posizione di Abelardo sugli universali rovesciava sul suo sistema.
«Vattene. Sono un professore di meccanica», rispose a voce bassa, ma ferma.
Carla rimase in silenzio. Stava quasi per dirsi: «Ecco a cosa serve una formazione umanistica», ma non se la sentì di anteporre queste considerazioni alla realtà dei continui differimenti dei crediti a breve termine nei confronti dei clienti, che rischiavano di mettere l’azienda un po’ in sofferenza; così preferì ripiegare su un: «Da Hermann ci si può sempre aspettare di tutto».
Hermann tornò al suo posto. Gli altri lasciarono correre.
Lucky, seduto, cominciò a borbottare fra sé, forse pensando – ma è difficile fare un’ipotesi – alle posizioni del filosofo inglese George Edward Moore.
A un certo punto fotografò la schiena di Hermann e disse:
«Sapete che faccio? Posto subito la foto. Chissà che qualcuno non li conosca, lui e il suo cazzo di figlio demente».
Qualcuno fra i tifosi di casa stava quasi per spazientirsi, ma in effetti, chi avrebbe potuto fare supposizioni sulla notorietà di Hermann?
Questi, pur seduto di schiena, sentendosi sotto lo sguardo della fotocamera, si mise in testa un berretto di lana.
E fu tutto, anche se la scena, secondo il parere concorde dei presenti, si sviluppò in un clima di tale insondabile equilibrio da indurre ciascuno a rasserenarsi. Lo dico per chi dubita ancora delle ricadute del counseling filosofico.

4.
Ora la strada era pressoché libera.
«Tutto bene?»
«Non proprio», disse Carla leggendo un messaggio, «ma andiamo avanti».
Hermann guidava nel buio. In fondo, come abbiamo appreso nei primi gradi d’istruzione – e come ha poi con maggior competenza ribadito chiunque nell’arco dell’intero percorso formativo – nei casi di intemperanza verbale a difenderti dovrebbe bastare lo stigma sociale, la condanna di tutti i presenti che con l’espressione partecipe ti fanno capire che sei tu quello che è nel giusto e che per questo sei uno di loro, meriti di far parte della comunità perché anche loro, al posto tuo, si sarebbero comportati nello stesso modo. Oddio, proprio nello stesso modo non è detto. Qui secondo Hermann si poneva un problema relativo ai principi che stringevano i presenti in un vincolo comunitario. A dire il vero non si era mosso nessuno. In un caso simile, avrebbero tutti dovuto tirar fuori Abelardo? (Ed Eloisa? Potrebbe a questo punto chiedere il pubblico femminile).
Certo, aveva ceduto per un istante. Agisci in modo che la massima della tua volontà possa servire da norma agli altri. Aveva fatto il suo dovere?
Era un bel problema: ma anche quello dei crediti insoluti lo era.
Dato che la squadra aveva vinto 1-0, Marco aveva chiesto di poter tornare in pullman con i compagni. Un’ottima prestazione, la sua. Bene così.
A centoquaranta chilometri di distanza, Lucky sedeva con Pozzo al bar: parlavano dei campionati giovanili degli anni Ottanta.
Intanto, c’era davvero meno traffico di quanto avessero previsto, e il tempo tornava a scorrere secondo la percezione consueta. Era già ora di pensare ad altro.
Carla guardava le insegne luminose dal finestrino. Pensava alle vetrine colorate di luci rosa e gialle del negozio di dolciumi all’ingrosso «Pedretti e Nosler» che aveva chiuso un mese prima. Per settantacinque anni aveva aperto le sue serrande nel piazzale dietro l’abside della chiesa di S. Luca, che da bambina attraversava ogni giorno di corsa per andare a scuola, scegliendo mentalmente quello che avrebbe voluto assaggiare. Patrizia ne aveva seguito la contabilità fino all’anno precedente.