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Sale del ricordo

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di Luca Baldoni

Mi prendesti da parte una sera per propormi
un’avventura. I ragazzi di sopra avevano quell’acido che
ci avrebbero fraternamente regalato. Io non l’avevo ancora
mai provato, ma me lo chiedesti con timore soprattutto
perché volevi farne un rituale, un’impresa comune di coscienza che

sconfinasse nell’umano.
 Accettai e iniziarono i preparativi.

Perché decidemmo di lasciar perdere i locali e di allestire
un’epifania in casa ad uso del sesso e dell’amore, inventando
insieme l’attesa per l’apertura di orizzonti dentro
ai nostri cuori. Devo ammettere che ormai non ricordo quasi
niente se non che la notte grazie al cielo sembrava non volere
più finire, e le parole sgorgavano dalle nostre bocche senza
esitazione, e ai primi bagliori grigi dell’alba sulle pietre della strada
mi dicesti che ti stava venendo freddo e io andai su di sopra a
prenderti la coperta verde da mettere sulle spalle.
E se non ricostruisco gli atti, le parole, la sequenza, ricordo che intenso
piacere era guardare, toccare, ascoltare, raccontare,
vederti di fronte a me per ore, scopare, confessare, annusare come se
tutto nella vita potesse veramente essere eccezionale, e allora
non potevi che desiderarne il prolungamento, che non avesse mai

fine, che la luce non scacciasse più la luce
e il giorno e la notte potessero incontrarsi.

***

VII.

Sotto cielo e vigore hai imparato a giocare con corpi e traiettorie, girando gli astri dentro al culo del tuo amore. Svagato tripudio inviso al tempo, offesa cercata e non voluta da trip evanescente azzardato tra isole mitiche e natanti. Senza ormeggi in dotazione, né una palma alla cui ombra partorire.

Taci dell’invocazione al figlio del delfino. Della forza della pinna che batte contro l’onda, del fianco che s’impenna e vola, del dorso levigato che inanella miglia dopo miglia, da sponda a sponda. Astri e delfini in un gioco da bambini, svagata diversione riversata sul mondo come pace, forza, affermazione.

Hai fuso gli elementi in un fiotto di bagliore, sciolto i corpi dalle loro vessazioni – per una breve stagione senza cuore. Tu stesso ne hai consacrato i rituali, le danze sfrenate sotto il sole.

A te, maestro-principiante, la lezione.

***

Christian mi portò a passare
il fine settimana in riva a un lago,
dove lui e amici possedevano
un terreno con alcune semplici
casette di legno.
Ricordo la sera, noi abbracciati
con altri uomini seduti intorno al fuoco;
quasi mi addormento, il tedesco diventa
imponderabile, guardo in alto le fronde
il vento che le scuote
l’oscurità illuminata dalle stelle.

Forse mi addormento… ma c’è un risveglio
in mezzo ad un racconto:
da uno dei più anziani una crepa nella voce
parole e pause in successione, un gesto:
scoprirsi l’avambraccio, battere la mano
sul tatuaggio.

Un brivido così forte –
un ricciolo rosa sfugge dalle braci,
rovinosamente

viene risucchiato verso l’alto.

***

Secondo movimento: Culmine

L’ultima notte del millennio eravamo a Londra. Se l’avessi
saputo quando ero adolescente – e mi immaginavo adulto
cosa avrei fatto dove sarei stato con chi proprio in quel
frangente – mi sarebbe sembrato eccezionale. Mentre di
quella sera non ricordo quasi niente perché troppa era
la stanchezza, l’umiliazione, ricadute su entrambi armati
l’uno contro l’altro per dar fuoco alle nostre frustrazioni.
So che eravamo con amici tra la folla vicino al ponte
in ferro di Hammersmith, e allo scadere della mezzanotte
guardammo tutti verso est per veder partire
dall’altro capo del Tamigi una scia di fuoco che
doveva solcare il cielo come un arco teso.
Ci fu qualcosa… che tra le urla della gente mi sembrò lontano,
inconcludente, come visto in un cannocchiale
rovesciato. Il giorno dopo si seppe dai giornali
che c’era stato un errore colossale:
i fuochi erano scoppiati solo in parte, il serpente
luminoso dopo un volo sregolato
si era spento vicino al Parlamento.

Avevo già chinato la testa
al passaggio del tempo, pestato la polvere
su un altare spento.

***

VIII.

L’insegnamento può solo essere
sottratto al nemico ridacchiante
e messo rapidamente in saccoccia
come un dono inaspettato.
Tuo malgrado mi hai dimostrato che
la poesia è come l’arte dell’arciere:

mira al cuore, sfonda il tuo piacere.

**********

dalla prefazione di Pierre Lepori

La poesia di Luca Baldoni – per addentellati biografici ma anche interessi di studioso (che lo hanno portato a firmare una corposa antologia della poesia omosessuale italiana del Novecento) – si ricollega chiaramente alla grande tradizione dell’autobiografia in versi, del romanzo intimo che esplora senza peli sulla lingua l’omoerotismo. Ma non deve per questo essere limitata a un puro esercizio militante, tali e tante sono le stratificazioni  e le inflessioni di questo nuovo volume di versi.

Nella breve nota iniziale, l’autore sembra quasi scusarsi della lontananza temporale da cui ritornano queste poesie (parte di una trilogia conclusa da anni) – e rivela una battaglia editoriale tanto più assurda giacché il libro, diciamolo subito, è splendido. Parla di queste poesie come di Juvenilia, ma varrà subito la pena di relativizzare l’excusatio non petita: se questo può essere valido (forse) per la primissima sezione, la gioventù non è qui una questione di stile, ma di emozione. L’emozione acerba di questi versi è percorsa dal sudore giovanile, dal rimpianto che inizia già prima di essere pensato; dalla nostalgia con cui le parole inevitabilmente toccano il tempo.

Questa prima parte (Riverrun) è in realtà d’una bellezza stregante, per panorami, libertà delle emozioni, per voluttà timbrica. Vi si coglie una voce intatta e forte, capace di denuncia e di rivendicazione, ma anche di sublimare una tradizione culturale poco italiana (l’autore è anglista e traduttore) che va da Auden a Dylan (torna alla mente la voce calda di Under Milk Wood, nell’ultima di queste poesie irlandesi, nonostante la realtà cittadina che descrive); certi affondi più scabrosi possono far pensare a Ferlinghetti o Ginsberg, sia per tematiche, sia per la forza liquida della lingua. Questa prima sezione riesce a farci percepire la nitidezza del tempo e al contempo il luccichio sfasato del reale; oscilla continuamente tra autobiografia e flusso disperato delle immagini, nella città straniera. Ritroviamo l’autore dimenticato dall’amante, febbricitante in una stanza; romanticamente abbracciato su una spiaggia; ma anche capace dell’emozione delle battaglie, della gioia di una vita coraggiosa e disinibita. È una poesia che racconta il singolo e la sua epoca, una poesia che è città, nebbia, confusione di voci, pedinamento del reale (per rubare una citazione a Zavattini).

Per chi ha vissuto quella temperie e quelle lotte, l’immedesimazione è possibile (anzi quasi auspicata); ma non è indispensabile, perché la versificazione tersa e metricamente generosa permette a ognuno di metterci del suo: il lettore vi leggerà le sue notti, la sua gioventù, la sensazione che il tempo – perduto e ritrovato – ha una consistenza materiale. È questo il “sale del ricordo”, che ci prende alle spalle e resta come un’infinita adolescenza negli occhi.

Il secondo capitolo prende il largo, sull’isola di Mikonos (classica destinazione turistica gay), e il tono si fa penniano nel suo “lasciarsi possedere dal sole”, nel suo “paradiso altissimo e confuso”: il rischio del cliché mediterraneo e gaudente è superato con impeto, grazie a un linguaggio di corpi e vento. In queste vacanze erotiche tutto è caldo, melanconico, magari dolcemente ironico: come la scena in cui il ragazzo “di vita”, ritrovato l’estate seguente, rimbrotta il poeta che torna (“Sei proprio innamorato, anche tu hai preso a ritornare”). E poi cielo, mare, corpi, traiettorie; e poi le intermittenze del cuore, dell’attimo bello ma già perso, del Kairos. Senza temere il ridicolo, questa sezione porta quasi il titolo di canzone cantata a squarciagola: Summers of Love, come se, per contrappasso epocale, la pop melensa dei Frankie Goes to Hollywood fosse la quintessenza della poesia: è il suono magico e avvolgente di viandanti gatti amanti. Sole e adorazione.

La sezione seguente ci porta a Berlino, che dopo la caduta del muro divenne quasi un luogo di pellegrinaggio (in particolare nei quartieri di Schöneberg e  Kreuzberg); e dove l’autore non riconosce – come molti altri prima di lui – la mitica Alexanderplatz di Döblin e Fassbinder; è la Berlino della libertà scabra (anche omosessuale), in cui risuonano gli echi della storia, nella Kaiser-Wilhelm-Gedächtniskirche o nel portale della Anhalterbanhof, susù fino agli amori tumultuosi di Erika e Klaus Mann, ai Cabaret di Weimar, all’Istituto di sessuologia di Hirschfeld. Baldoni si commuove visitando un approssimativo museo di storia omosessuale (lo Schwules Museum sulla Lützowstrasse), ben diverso dagli altari con madonnine dell’Italia meridionale. La città diventa uno specchio utopico, ma anche un vortice, in cui l’individuo viene risucchiato dalla storia: come in una serata di chiacchiere dolci sulle rive del Wannsee, in cui il ricordo dei campi di concentramento fa capolino come una coltellata; o più semplicemente, come un “ricciolo di brace rosa” (riferimento ai triangoli rosa della Germania nazista).

Quello che ci aspetta, tuttavia, nell’Anno Duemila (il capitolo seguente) è un disinganno crudele, senza scampo. Come uno sberleffo all’utopia, nemmeno i fuochi d’artificio di Londra mantengono le loro promesse, sono pétards mouillés; e il disincanto di un’epoca crassa e iperliberista sgretola i furori dell’utopia. La prosodia si distende, tende quasi alla prosa, e le immagini sono vivide e sarcastiche. Fino al culmine tremendo, la scena in cui un giovane padre già completamente conquistato dal marketing cerca di convincere l’autore della necessità di passare ad altro, di metter su pancia, moralmente parlando. Parole vuote di un’epoca vuota, che sono però un muro di gomma contro cui l’intimità ferita dell’io-poetante non può che rimbalzare. Con il dandismo di un Wilde frastornato, Baldoni sceglie la sua strada di vagabondaggio senza tante storie, coi ginocchi bagnati di nostalgia. Ma, per l’appunto, in questo la prima parte è essenziale per capire la caduta: non era una gioventù fine a se stessa, ma una cifra di fedeltà…

La conclusione è elegante e laconica, disperata e dolce. I versi si asciugano, le mani si cercano in vano, la fuga su un’isola di foscoliana memoria sembra l’unico orizzonte pagano ancora possibile. Occorre lasciare alle spalle ogni esibizione di cultura e censo, ogni appartenenza e identità, ma restare fedeli e continuare a correre “col cuore stretto nel palmo della mano”. Un cuore strappato con un gesto violento e necessario. Anche se sono ormai così lontani, quella gioventù, quegli ideali spingono a un nuovo viaggio. Sembra di sentire, sornione, dietro le spalle, il buon vecchio Penna sussurrare “felice chi è diverso / essendo egli diverso / Ma guai a chi è diverso / essendo egli comune”… Il percorso di questa raccolta, tutt’altro che giovanile, si conclude così, con la promessa di una fedeltà, con la consapevolezza che la poesia può ancora salvare il mondo (come afferma Jean-Pierre Siméon), ma soprattutto il mondo interiore. L’unico che abbiamo.

da Luca Baldoni: Sale del ricordo (Lietocolle, 2018)

Da “Trasparenza”

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di Maria Borio

[Presentiamo alcuni testi da Trasparenza, volume in uscita nella collana “Lyra giovani” a cura di Franco Buffoni, Novara, Interlinea].

 

Settima scena

Stendevamo le mani contando
i bordi di pelle incrinati.
…………Questa è una scena visibile
dietro una parte di me che indietreggia,
si sorregge la luce insieme
la carta e il digitale, ti sorreggi
consegnato alla portafinestra
e mi apri uscendo sopra il gelo.

Lettere dall’assenza #3

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di Mariasole Ariot

Caro J,
qui il cielo è una sommossa, l’uovo del mondo si è strappato : nascono gli oggetti che mi hai lasciato.
Ti scrivo ed è ancora buio, filtrano lampi di pulviscolo dalla finestra, la grana del mondo si frammenta e io distendo le righe di una lettera che non arriverà mai.
Abbiamo montato una tenda, raccolto le bacche e i ramoscelli per fuggire nella piena del bosco, hai radunato i corpi e li hai abbracciati ad angolo retto appena prima di partire, gli zaini pesanti, la pesantezza dell’esistenza, gli occhi spalancati in una sinfonia autunnale.

Ricordo ancora i passi, i piccoli avvenimenti delle giornate fredde, la foglia circondata dai sassi, il sasso che portavi al collo – e mentre ti scrivo apro la mano e raccolgo il mutaforma del suo resto, la scheggia rimasta.
Ne ho una piantata sul fianco, me l’hai infilata come s’infilano i ricordi. E’ questa memoria che non rimuove, dove tutto il già detto e già passato si presentifica come un appena nato ogni nuovo giorno, un embrione che continua la sua nascita milioni di volte, si prolunga nei millenni.
Ho visto una lepre correre sul petto, aggirarsi sulla pelle e saltare ai limiti sbordati di questo organo inquieto: quando l’hai mandata? Era ancora festa? Erano ancora i fiori?
La mancanza si fa presenza, non demorde, mi morde le labbra e le piccole viscere. Ho molti anni e non ne ho nessuno, come quando ci siamo scambiati le bocche per parlare la lingua dell’altro.
Nella tua c’era un serpente, i miei denti come chicchi di riso ridevano sulla tua: è forse questo diventarsi?

Ho una culla dentro la bara e un cimitero nella soffitta, lo visito a giorni alterni portando narcisi e piccole pietre scavate dall’oceano (hai visto l’oceano, mi hai vista tuffarmi con la testa degli annegati?) – e mentre le rocce del muro si sfaldano, io mi aggiro votiva per accogliere un liquido stanco che cerca di portare nutrimento all’abitazione del cervello.

Ancora, qui, di fronte allo sguardo c’è la tua immagine annebbiata che fisso per ore dal giorno in cui ti hanno portato a forza nel tombale dei tuoi sacrifici, la camicia di forza contenuta in una pillola bianca, il pungiglione conficcato nella gamba. Non ho pianto, ho solo premuto forte l’indice al centro della fronte, dove stanno le connessioni uno a uno, io a tu, tu e l’altro. Ascolto canti nordici nella lingua del Von, i prati aperti dell’Islanda, le strade che dovevamo calpestare, e con una corda ho legato la tua gabbia alla mia, permango nell’attesa dello snodo, il lento disorientarsi delle cose.

Una chioccia
una scarpa
un mantello
la mantide
le tue braccia
il mio ventre
la tua testa
le mie dita
la tua gente
la mia città
la tua perdita
la mia scomparsa

Vivo ancora senza nome, all’anagrafe dicono: un errore negli spazi. A volte, J, il bianco prevale.
Eppure non mi pesa, libera le dichiarazioni, libera i riconoscimenti dalle paure, apre le porte all’impensato, dove tu spingi con le dita attraversando le maglie della tua reclusione e io mi rannicchio nel fondale per una fine annunciata il giorno degli inizi. Ti hanno preso appena fuori dal bosco, quando appesi alle liane dei tronchi ci siamo gettati nella strada dei passaggi. Era inevitabile: i giorni di luce vengono rinchiusi se non portano le vesti adatte, e noi eravamo nudi nella nostra grande mattina calda. Il segno marchiato a fuoco sulla schiena è rimasto, tu rimani nella bocca e sulla pelle, cerco di grattare la superficie ma la superficie resta. E’ forse la tua maledizione?

Le madri sono nel sacco, ho provveduto io, non aver paura. Le ho attirate come si fa coi roditori quando hanno mangiato troppo: e loro avevano mangiato troppo.

Puntellati nel posto in cui ci siamo detti addio abbiamo optato per la resistenza, una lettera come un capotasto per racchiudere le note successive : siamo nello spazio vuoto degli innati, ci compensiamo mentre io stringo le gambe e tu trattieni gli eccessi.

Poi, a volte, si accende un lumino: urlano le gatte in calore, urlano corvi e grondaie, urlano gli oggetti, urlano le mandrie impazzite del ventre, urlano le mani, urlano i lampi estivi, e mentre tutto grida la parola si distende. Una lingua strappata e depositata nella teca dei passati.
J, quando accade tu non cadi, ti ritrovo nell’angolo remoto per passare la punta delle dita ancora una volta tra la radura della tua testa : hai un parco e un giardino nel petto. Pianto un seme di giacinto e lo innaffio ad ogni ora. Se questo amore morto, se questo amore giallo, se questo sole bianco si fonde con l’opposto, se questo nero è nero.

Puoi sentirmi? Ti attraversa la corrente?

Il tuo grillo parlante sono io, quando decido di restare.

L’archivio scomparso di Luigi Maria Personè

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di Dino Baldi

Questa è una storia di disastri bancari, di archivi scomparsi, di eminenze da prima Repubblica e di silenzi. Non credo in molti ricordino Luigi Maria Personè. Era nato nel 1902 a Nardò, in Puglia: la famiglia di antica nobiltà, e in particolare il monaldiano padre, vengono descritti nel racconto autobiografico Rosso di mattina (1982). Studiò a Bologna e poi a Firenze, dove si laureò nel 1923 all’Istituto di Studi Superiori (ancora non era università); e da Firenze, l’“Atene d’Italia” come era chiamata al tempo in cui contava qualcosa, non se ne andò più: per trent’anni insegnò al conservatorio Cherubini, e prima ancora al liceo Dante e al Cicognini di Prato. Fu un conferenziere apprezzato, anche all’estero, e poi un critico letterario (Lo spirito di Antonio Fogazzaro, 1961; Scrittori italiani moderni e contemporanei, 1968), d’arte (Pittori toscani del Novecento, 1952), di teatro (Il teatro italiano della Belle Epoque, 1972), nonché narratore nel genere di quella che oggi viene chiamata non-fiction (Il demonio muto, 1993). Ma soprattutto fu un prolifico ed eclettico giornalista da terza pagina. Non c’è quasi quotidiano su cui non abbia scritto: il “Popolo d’Italia”, “La Stampa”, il “Corriere della Sera”, “La Nazione”, “Il Resto del Carlino”, il “Mattino”, il “Piccolo”, e fino a pochi giorni prima di morire, a ben 102 anni, “L’Osservatore Romano” (perché fu cattolico osservante, e vicino ai potenti). La sua vena migliore è quella del memorialista. Aveva una vera e propria frenesia di conoscere (“collezionare”, è stato detto) i personaggi più notevoli della sua epoca, scrittori, politici, uomini e donne di teatro, senza fare troppo conto delle qualità assolute e delle idee relative, ma badando solo a che fossero famosi e che avessero, come diceva, una “scintilla”: riusciva immancabilmente a farsi accogliere nei loro salotti o a incontrarli in qualche modo, e da queste frequentazioni distillava elzeviri brillanti, in una lingua che in cent’anni sembra non cambi mai, piacevole perché nitida e leggera, con poca retorica, soprattutto per la media degli anni in cui si era formato. Gli piaceva l’aneddoto signorile, mai volgare, raccontato con la sprezzatura e il disincanto di chi osserva e descrive fatti e vicende umane un po’ dall’alto, ma con simpatia umana, senza giudicare. Il suo sguardo è quello del mondano aristocratico: amante del teatro, considerava, si può dire, la vita stessa uno spettacolo al quale voleva assistere dalle prime file, accontentandosi della superficie, come se alla fine contasse solo quella (ed era del resto equanime: anche di sé stesso, alla pari degli altri, faceva un oggetto di osservazione curiosa e distaccata). La sua produzione è tutta nel segno della frammentarietà; però alla fine, da questa messe di articoli (vantava di averne scritti cinquemila) si ricompone una fenomenologia della borghesia intellettuale specialmente italiana non disprezzabile, e qualcosa rimane. Iniziò la sua frequentazione di grandi uomini fin da ragazzo, con Benedetto Croce, che scambiava lettere con questo giovane quattordicenne da pari a pari, ignorandone l’età. Matilde Serao, della quale lascia un ritratto strepitoso, da Anna Magnani della letteratura (ne I signori del quarto potere, 1973), lo volle come collaboratore del “Giorno”; poi vennero Arnaldo Mussolini, Malaparte, Prezzolini, Missiroli, Borelli, Ojetti, Montanelli, Scalfari: nella sua lunga carriera incrociò oltre sessanta direttori. Ebbe la simpatia del Papini post-conversione, e lo frequentò regolarmente: il primo articolo, nel 1926, lo scrisse proprio sulla sua scrivania. Conobbe Proust tre mesi prima che morisse (attraverso Lucio D’Ambra), e poi Kafka, Bernard Shaw, Mann, France, Camus, Rilke, Churchill, De Gaulle, Isadora Duncan. Degli italiani non manca praticamente nessuno: D’Annunzio, Deledda, Pirandello, Montale, Palazzeschi, Bontempelli, Soffici, Cecchi, Buzzati, Bassani, Marino Moretti, ma anche i più bei nomi del fascismo, da Mussolini in giù, e Marconi, Salvemini, Nello Rosselli, Enrico Malatesta, Eleonora Duse, il futuro papa Luciani e tanti altri dalla fama ormai spenta o ridotta a un lumicino.

In casi simili, per uomini cioè con questa indole e queste qualità, le carte private sono spesso più notevoli dei prodotti editoriali veri e propri: si capisce allora bene quale interesse potrebbe avere, per chi si occupa della storia culturale e sociale più recente, esplorare il laboratorio di un uomo che ha attraversato, da una posizione tanto privilegiata, tutto il Novecento. La gran fortuna è che queste carte esistono, o perlomeno c’è chi può testimoniare di averle viste. L’Archivio storico diocesano di Prato conserva, ben catalogati, 13.000 volumi di Personè (un migliaio dei più preziosi andarono in eredità al suo fedelissimo segretario); ma ancora più notevole è un fondo che, oltre ai materiali di lavoro e a molte fotografie, contiene circa 7.000 lettere: quasi un secolo di corrispondenze, scambi e relazioni, molte delle quali rispecchiate da carteggi di notevole consistenza. Anche queste carte secondo la Soprintendenza archivistica della Toscana si trovano all’Archivio pratese (cf. https://bit.ly/2Pf1aaj); ma se si telefona per saperne di più, la risposta è schietta e desolante: il fondo era lì, è vero, ma adesso non c’è più, non si sa dove sia, né se tornerà. Il fondo Personè è di fatto disperso (non per colpa della Diocesi, va detto subito), e qui il racconto, se non s’interrompe, deve prendere un’altra direzione.

I fatti pressappoco si possono raccontare in questo modo. Nel 1986 Personè decise di vendere il suo patrimonio di libri e scritture private, che non senza ragione reputava di qualche interesse. Si rivolse a un potente amico romano, Giulio Andreotti, il quale non ebbe difficoltà a trovare un acquirente: la Cassa di Risparmio di Prato, allora guidata da due suoi fedelissimi, Silvano Bambagioni e Arturo Prospero, che comprarono (per una cifra consistente) la biblioteca e le carte, insieme a qualche mobile e quadro, con l’impegno di affidarli in custodia perpetua all’Archivio diocesano (non solo le carte fino all’86, ma anche quelle che sarebbero state prodotte in seguito). Poco dopo, nel 1988, la “mamma” di Prato, che ne aveva sostenuto fin dal 1830 lo sviluppo economico, collassò sotto il peso di 1.500 miliardi di debiti, e il tandem andreottiano fu costretto a cedere la mano. La banca fu acquisita dal Monte dei Paschi di Siena, e dopo alterne vicende passò nel 2002 alla Banca Popolare di Vicenza. Il suo presidente Gianni Zonin si distinse ben presto per ambizioni e maniere da Napoleone: la quadreria di Palazzo degli Alberti, storica e antichissima sede della banca, venne trasferita senza troppe cerimonie a Vicenza: una sessantina di opere fra cui Caravaggio, Bellini, Filippo Lippi, Santi di Tito, Lorenzo Bartolini. Con meno rumore presero la via del Veneto anche le carte Personè. Al principio del 2014 Zonin incaricò un monsignore che aveva già inventariato il fondo della banca vicentina e delle banche aggregate di prelevare le 63 casse che contenevano tutte le carte private di Personè. Era, si disse all’epoca, un trasferimento temporaneo, e anzi un “regalo ai Pratesi”: si sarebbe provveduto a riordinare l’archivio, due o tre mesi di lavoro al massimo, per poi restituirlo insieme all’inventario. Pare che nei diversi passaggi di mano queste banche si siano scambiate tra loro anche la vocazione al dissesto finanziario: nel 2017 il governo Gentiloni sottopone il Banco Popolare di Vicenza e Veneto banca, tecnicamente fallite, a liquidazione coatta amministrativa, e Zonin viene rinviato a giudizio. Le due banche, compresa la CariPrato, vengono acquisite da Intesa Sanpaolo a un prezzo simbolico (mentre per il Monte dei Paschi arriva il salvataggio dello Stato, che ne rileva le quote di maggioranza). Delle carte di Personè, sepolte nel gran crollo, si erano intanto perse le tracce: l’ultimo avvistamento risale al 2015, dentro un caveau di una delle sedi della banca vicentina, in viale Battaglione Framarin.

Nella situazione attuale, qualcosa di buono forse c’è. Banca Intesa con la sua fondazione ha mostrato negli ultimi mesi una sensibilità maggiore rispetto a chi l’ha preceduta nei confronti del patrimonio della CariPrato: undici opere della collezione d’arte sono già tornate nella sede originaria, e Banca Intesa ha promesso che entro il 2019 aprirà al pubblico la Galleria degli Alberti. L’archivio Personè invece rimane ancora in un limbo dal quale non trapela luce. È vero che nel 2016 la Soprintendenza, su istanza di don Renzo Fantappiè, direttore della biblioteca dell’Archivio diocesano, lo ha protetto con un vincolo pertinenziale che lo lega alla prima sede e che dovrebbe scongiurare vendite per “fare cassa”. Ma è comunque singolare e preoccupante che non se ne sappia nulla, e che le numerose sollecitazioni di don Fantappiè, formali e informali, siano fino a oggi cadute nel più assoluto silenzio. È lecito augurarsi che Intesa Sanpaolo dimostri, per queste carte, lo stesso interesse e la stessa buona volontà di cui sta dando prova per la collezione d’arte. Le tolga quanto prima da quel caveau (sperando che siano ancora lì), e le restituisca al luogo nel quale lo stesso Personè voleva che fossero conservate insieme alla sua biblioteca, e dove, finalmente, potranno essere messe a disposizione di chi le voglia studiare. Si tratta, ripetiamolo ancora una volta, di uno degli archivi privati più interessanti, per consistenza e completezza, del Novecento italiano.

 

Per le vicende del fondo (eccettuati gli eventuali errori e imprecisioni) sono debitore alla cortesia e disponibilità di don Renzo Fantappiè. Un ringraziamento particolare va inoltre a Irene Sanesi e a Silvia Bacci.

Nell’immagine: Ritratto di Luigi Maria Personè, di Primo Conti (1953, collezione CariPrato)

 

Come non diventare se stessi

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di Eugenio Maria Russo

Un estratto da Me non più (in uscita a maggio per Italic e Pequod) e una conversazione con l’autore, Massimiliano Costa.

 

Partiamo dal titolo: chi è “me” e “non più” cosa?

Me non più” è una frase che ripete tra sé e sé Jaco, il protagonista del romanzo: un consulente aziendale (potrebbe lavorare in McKinsey o Bain o Deloitte, ad esempio) che arriva a un punto della sua pure breve vita in cui ripensa a come è finito a fare quel tipo lavoro, alle scelte che lo hanno portato fino a lì. La storia si snoda attraverso due piani temporali, uno in cui Jaco è un giovane consulente rampante e l’altro in cui è un rampollo della buona borghesia provinciale italiana alla fine delle scuole superiori. Nonostante parta da una posizione privilegiata (ha talento per la musica, va bene a scuola senza sforzo, ha tanti amici, una ragazza comprensiva e una famiglia solida alle spalle) si trova in un momento di grande insicurezza, smarrito, incapace di decidere.

Erano due racconti staccati che poi hai unito?

No, il romanzo è partito da una visione e da un sentire. Mentre lavoravo in consulenza ho avuto la visione di un’alba bellissima alla fine di una lunga giornata di lavoro e ho sentito una profonda stanchezza, nonostante fossi ancora molto giovane. Per esprimere questa sensazione ho creduto di dover raccontare un personaggio complesso. Dovevo raccontare anche le radici di quella visione e di quel sentire, che affondano negli anni giovanili. Da lì la struttura dei due piani temporali. Poi ho cercato di lavorare sul non detto, tanta parte importante della vita di Jaco non viene raccontata.

Quali sono esattamente i termini della scelta che Jaco diciottenne deve compiere?

Seguire la sua passione per la musica classica oppure provare una via più standard, cercando di entrare in una università prestigiosa. La difficoltà della carriera artistica che Jaco potrebbe intraprendere è rappresentata soprattutto dall’incertezza sul proprio talento: ho abbastanza talento e passione per fare il violinista tutta la vita? Oppure dovrei ascoltare tutti quelli che mi consigliano di andare a Oxford e lasciar perdere la musica? Questo si chiede in sostanza Jaco, ma senza avere gli strumenti necessari per trovare una risposta. Allora cerca di non diventare se stesso, sforzandosi piuttosto di adattarsi a un modello dettato da una pressione sociale ma che non gli appartiene davvero.

La lingua del libro è molto particolare: si passa dal dialetto piemontese all’italiano inglesizzato dei consulenti, che però lascia spazio talvolta a una lingua più lirica. Come hai creato questo impasto linguistico?

La mia terra, le Langhe, ha sempre esercitato un influsso poetico su di me e la poesia è stata la prima forma letteraria che ho praticato: nel romanzo ne sono rimaste alcune tracce. La lingua più brutalizzata e anglicizzata è, invece, quella che effettivamente si ritrova non solo in consulenza ma anche in molti contesti aziendali: termini come “fittare”, “weakness”, “deliverare” sono parte della vita parlata e scritta (mail e whatsapp) di un consulente. Di dialetto in realtà ce n’è pochissimo ma ho avuto bisogno di usarlo per esprimere meglio certe sensazioni. Lo sperimentalismo linguistico vuole rifarsi a Fenoglio, albese come me, che della commistione ha fatto una cifra stilistica. Anche se per Fenoglio l’inglese è lingua letteraria mentre nel mio libro è la lingua colloquiale della consulenza.

A proposito di Fenoglio, ho ravvisato una certa somiglianza tra il finale del tuo romanzo (che non anticipiamo) e quello di “Una questione privata”. È stata una cosa casuale?

Assolutamente un caso, forse un rimosso, “Una questione privata” è stato uno dei miei libri preferiti ai tempi del liceo ma da allora non l’avevo più ripreso e il finale l’avevo completamente dimenticato. O è un rimosso o un caso, non è una citazione voluta.

Le figure femminili sono poco presenti nel tuo romanzo, come mai?

Il mondo della consulenza è e rimane prettamente maschile, nonostante tutti i tentativi più o meno di facciata fatti per cercare di renderlo più bilanciato ed equo da un punto di vista di genere. Di donne ce ne sono molto poche perché non è un mondo fatto per chi debba o voglia prendersi cura di una famiglia.

Quale è stata la motivazione principale che ti ha spinto a raccontare questa storia?

Io vorrei con questo romanzo porre la questione dell’importanza di alcune scelte, in particolar modo delle prime che ci troviamo a fare da giovani. Io sono convinto che la scuola, la famiglia e la società in generale dovrebbero aiutare di più i ragazzi a orientarsi nella scelta su cosa fare da grandi. I giovani hanno bisogno di essere guidati su base individuale, non di rifugiarsi in percorsi che vanno bene un po’ per tutti (l’università blasonata, la facoltà spendibile sul mercato del lavoro, la professione ben pagate). Poi volevo dare un’immagine da insider del mondo della consulenza, dandone un ritratto basato sulla mia esperienza diretta. Ma non voglio scoraggiare i giovani dall’entrare in questo mondo, quanto piuttosto usarlo come allegoria.

Il tuo esordio è molto vicino alla tua vicenda autobiografica. Che esperienza hai accumulato dopo aver lasciato The Boston Consulting Group e cosa è lecito aspettarsi come tuo prossimo lavoro?

Dopo la consulenza sono entrato nel mondo delle start up: un mondo affascinante che potrebbe finire in un prossimo romanzo, oppure in dei racconti. Ma non c’è ancora niente di concreto. Vorrei anche mettere ordine e pubblicare le poesie che ho scritto prima di dedicarmi alla narrativa con “Me non più”.

Estratto

Fuck.”

Rantolò. Spense la sveglia e buttò l’iPhone sul comodino. Si lasciò cadere supino, il debole corpo schiantato dalla forza di gravità. Le braccia aperte, il busto scoperto, gli occhi sbarrati sul soffitto. Immobile, sentiva svanire dalla pelle il tepore del sonno e dalla testa i sogni di quella notte interrotta.

“Dai dai dai dai” si incitò con un filo di voce.

Aveva già posticipato la sveglia due volte e non poteva concedersi il lusso di altri cinque minuti. I piedi, buttati fuori dalle coperte per primi, caddero sul pavimento di marmo ghiacciato con l’inaccuratezza di un quarto di manzo inerte. Un brivido freddo risalì rapido lungo la schiena prima di posarsi alla base del collo. Di colpo fu in lui sveglia la coscienza di un nuovo giorno in cui andare.

Riprese di soprassalto il cellulare.

Ma come cazzo è possibile?” disse ad alta voce guardando lo schermo che elencava ventitré mail non lette.

Con movimenti inesorabili inforcò le ciabatte e, sollevatosi finalmente dal letto, si trascinò nudo verso il bagno. La testa pesava e dolevano gli occhi. La luce del mattino rendeva il candore dei muri insostenibile. Richiudendo gli occhi, si sedette sulla tavoletta e portò le mani alla testa, sentendola pulsare insistente e regolare. La mente cadde inconsciamente sul fragore animale del suo getto: tanto rumoroso da sopportare che dovette deviarne la traiettoria verso più discreti anfratti.

Scorse lo schermo rapidamente per verificare che non ci fossero mail importanti. Sembravano tutte innocue. Tutte, tranne una, che aveva le tre peggiori caratteristiche: la parola “URGENTE” come oggetto, il partner come mittente, unico destinatario diretto: lui stesso. Ora di invio 6:47. Bestemmiò ma, invece di sbloccare il telefono per leggere il contenuto della missiva, lo lanciò sprezzante sul pianale del lavandino distante oltre un metro, per ribadire a se stesso che di quell’oggetto, costoso sì ma aziendale, non gli importava nulla. Poi decise di scrostarsi il sonno di dosso con una veloce sciacquata e di conservare le turbe della mail per la colazione con gli altri.

Si avviò ciondolando verso la doccia, pregustando il caldo effetto massaggiante, ma si fermò, abboccato all’impressione di aver visto qualcosa di strano passando davanti allo specchio. Si girò lentamente per dare tempo a quel fantasma discolorato e curvo di nascondersi ma, ritrovandoselo ancora davanti, decise di studiarne lo sguardo.

Appoggiò le mani sul marmo bianco venato di verde e si piegò sulla propria immagine nel grosso specchio appeso sopra il lavandino. Le occhiaie parevano l’opera di un artista gotico. Una tinta rossa sottostava al blu dominante, dandogli un aspetto violaceo che diventava intenso sulle palpebre. Dall’angolo esterno degli occhi si dipartivano almeno quattro rughe, sottili ma nette, sotto le quali si malcelava una macchiolina marrone, non più lunga di un centimetro e larga ancora meno: una piacevole addizione dell’ultimo mese. Stirò un sorriso esagerato per meglio scovare il percorso di quelle rughe e delle altre che sarebbero a breve spuntate. Passò poi la mano destra aperta tra i capelli, dissotterrandone a decine bianchi sulle tempie. Sparute tracce di bianco si trovavano ormai ovunque, piccoli parassiti irreprensibili che stavano colonizzando capello dopo capello anche la parte più alta della testa. Torcendo poi il collo al massimo da entrambi i lati, notò un primo accenno di doppio mento, visibile misura della rilassatezza non solo della pelle del collo, ma di ogni turgida giovinezza del corpo. Molle il torace, largo il ventre, flaccido il membro.

“Schifo”, disse con una smorfia e uscì dallo specchio.

Un nome in meno

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di Giorgio Mascitelli

Un nome in meno ( Ensemble, Roma, 2019, euro 15) è l’esordio nella narrativa del poeta Vincenzo Frungillo,  autore anche di testi drammaturgici.  Il romanzo è imperniato sul ritrovamento di una vertebra umana nel mare nei pressi di Monte di Procida nel napoletano da parte di una ragazzina quindicenne, Sofia: dapprincipio appare però incerto se ascrivere il senso del ritrovamento a un ordine criminale o archeologico dei fatti. Siamo nell’estate del 1993 e intorno all’evento si dipanano le vicende, perlopiù private ma dotate di un significato collettivo, di vari personaggi tra i quali il padre di Sofia, Pietro, in piena crisi matrimoniale da mezza età, Julia la prostituta ucraina di cui il detto Pietro s’invaghisce e Renata giornalista precaria incaricata dal giornale locale di seguire le notizie relative al ritrovamento, free lancer, verrebbe da dire, tanto nella vita professionale quanto in quella sentimentale.  Così la narrazione, come in molte opere contemporanee, non vede un protagonista singolo ma un gruppo di personaggi, tuttavia i loro percorsi esistenziali ruotano o per meglio dire conducono all’evento iniziale e centrale e finale del libro. Questa economia della trama rende convincente il romanzo, a dispetto di qualche didascalismo, rivelandosi un’istanza di sobrietà essenziale per non cadere nei rischi di modelli narrativi  in cui la pluralità dei personaggi diventa occasione di una proliferazione del tutto arbitraria di storie ed eventi, che è poi una tipica forma del romanzesco nella fase postmoderna.  E’ sempre in virtù di questa economia narrativa che si può parlare per Un nome in meno di plurivocità anziché di somma di monologhi.

E’ un romanzo in cui i personaggi tendono al loro fine con slancio, ma anche con quei limiti ed errori che caratterizzano le persone in carne e ossa: esempio più evidente ne è il tardivo ( in tutti i sensi) amore di Pietro per la bella Julia, che fatalmente per realizzarsi deve percorrere l’itinerario della salvazione della ragazza perduta ( la conquista della fiducia, i progetti, le  esitazioni, i rischi) dall’organizzazione criminale, che peraltro esprime una logica sociale di tipo generale. Proprio a questo livello si situa il primo nucleo tematico del romanzo che rimanda alla questione del rapporto sesso/potere, non solo nel senso di strumento di dominazione e di esibizione di quest’ultima, ma anche di sesso come succedaneo del denaro in quanto merce che esprime il valore di tutte le altre merci. E’ chiaro che qui Frungillo si muove in un ambito che richiama Doppio sogno, ma se in Schnitzler , in fondo,  questo tema è machiavellicamente un attributo della configurazione del potere che non può essere esplicitata a livello sociale,  esattamente come il desiderio sessuale sregolato è un elemento non dicibile nella vita cosciente e diurna di entrambi i protagonisti, qui nella periferia dell’impero esso è se non esibito, contenuto entro i limiti di una normale riservatezza e al contempo tangibilissimo orpello di chi detiene il potere.

Un punto cruciale del testo si ha nel secondo capitolo della seconda parte interamente occupato da una conversazione tra Renata e Cosimo, un collega di redazione esperto di questioni archeologiche, al quale la donna si rivolge sia per consigli nel suo lavoro sia per un’inclinazione sentimentale.  Cosimo, nel riferire gli esiti di scavi lungo il Tevere che hanno scoperto una necropoli occupata esclusivamente da bambini appena nati e da feti risalente al terzo o quarto secolo dopo Cristo,  presenta la sua interpretazione ritenendo un fatto altamente simbolico che “una società cristianizzata, che ha fatto dell’avvento di un fanciullo il segno della sua predestinazione alla grandezza, ricordi Virgilio?, i versi della quarta ecloga delle Bucoliche che studiavamo al liceo?, […] ebbene questa stessa società inizi la sua decadenza con la morte di giovani vite o addirittura di aborti” ( p.84). E la scoperta che la vertebra proviene da una buca presso l’antica spiaggia romana in cui si trovano resti ben più recenti resti di neonati  illumina retrospettivamente le parole di Cosimo.  Sembra insomma che ci si trovi di fronte a qualcosa che con buona approssimazione si potrebbe chiamare con De Martino apocalisse culturale; ma se una delle caratteristiche essenziali dell’esperienza apocalittica per il soggetto è la perdita di significato,  con una conseguente insicurezza anche negli atti più ovvi del quotidiano, del rapporto con la realtà, tratti di questo sentimento si ritrovano nella spesso debole ontologia dei personaggi del romanzo. La fine del mondo, o meglio di un mondo a cui è  sempre connessa l’apocalisse culturale, non è però quella del mondo contadino, ma del progetto emancipativo della modernità. Siamo nel 1993, scandito dalle notizie delle guerre di Jugoslavia e di Somalia, le guerre di allora cioè dell’epoca dell’annunciata fine della storia, e si delinea agli occhi del lettore un paesaggio di rovine architettoniche, umani e sociali fatte degli scheletri di una fallita industrializzazione, della ripresa dell’antica strada della migrazione e dei rivoli secondari del crollo dell’impero sovietico. Insomma quel tempo che appariva alle schiere degli entusiasti del presente come l’alba di un nuovo mondo perfetto viene restituito in poche mosse da Frungillo alla sua più verosimile natura storica  di crollo di una civiltà.

Al personaggio di Renata tocca in sorte il ruolo apparentemente più positivo, in realtà il più ingrato: è lei che arriva a scoprire la buca, o meglio è a lei che viene segnalata da Sofia e pertanto ha mediaticamente la maternità della scoperta, e a intuire gli oscuri legami tra il filone sessuale e quello archeologico sacrificale della vicenda;  con questo ritrovamento giunge per lei anche la lungamente attesa occasione professionale con il passaggio dalle pagine locali all’edizione nazionale del giornale.  Eppure nel momento stesso in cui raggiunge i suoi obiettivi professionali si accorge di dover rinunciare alla scrittura di una verità complessa in nome dell’adeguamento alle regole della comunicazione giornalistica che le impongono di “costruire una semplice mappa dell’orrore, di annotare la superficie” (p.191). Renata appare un personaggio dai forti tratti allegorici volta a rappresentare la condizione storica di un vasto ceto intellettuale irreggimentato dietro le trasparenti ma spesse sbarre di una gabbia, quello del mercato dell’informazione e della cultura,  costruita da una società in cui l’appello alla libertà è diventato il principale strumento retorico della dominazione. E così sul Miseno cantato dai poeti augustei finisce con il regnare una verità monca, parziale perché tutto ciò che non rientra nell’ideologia dominante, allora come oggi, non è dicibile.

Della stessa sostanza del figlio – L’eretico Francesco Pucci nei versi di Bruno di Pietro

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di Daniele Ventre

Una dimensione liminare, sulla soglia della morte, connota, nell’opera di Bruno di Pietro la figura di Francesco Pucci, l’eretico fiorentino, non ancora pronto a “vedersi passare”. Fra i nomi simbolo che, per dichiarazione dell’autore stesso, connotano il suo lavoro in versi, il riformatore religioso è la figura estrema per eccellenza: uomo di confine in un’epoca di divisioni sempre più profonde, su tale confine opera, investendo nella speranza di una “republica Catholica” che sia veramente universale, al di là di tutte le “fidanze” particulari.
Nel poemetto, connotato da massima sintesi, il tema della dialettica di confine detona in un dramma interiore, con tutte le sue contraddizioni apparenti e le sue ricomposizioni nascoste. Inoltre, lo statuto di liminarità, che connota il personaggio/maschera/eteronimo, si apre sugli spazi di una dimensione metafisica, teologica, e l’eresia di cui il protagonista è portatore sano, anticorpo civile e intellettuale contro un magistero malato, si fa punto di vista e paradigma interpretativo dell’esistenza, o meglio dell’essere/non essere che è suo margine e condizione.
Nella sua dimensione storica, Pucci è un eretico molto sui generis. Come altre personalità di eretici nello scenario storico fra riforma e controriforma in Italia, la sua figura è connotata da aspetti messianici e profetici, quasi sciamanici. La visione mistica, il presunto contatto diretto con lo Spirito Santo, costituiscono in tale prospettiva un volto quasi arcaico del personaggio Pucci, che certo, scrive in latino ed è sostenitore di una concezione utopistica, ma di fatto sembra assumere i tratti di una rivissuta rivelazione diretta, da roveto ardente, da abbacinamento mistico, fra accecamento e comprensione fra annientamento e salvezza. In tal senso va interpretata la prima stazione della via crucis intellectualis dell’eretico, nella coboletta d’esordio:

Luglio romano
è abbaglio di fontane
fra poche ore
Signore
saprò se sei uno o trino
prima mi toglieranno
l’ingombro del pensiero
e dopo aver detto e disdetto
di una cosa vorrei essere sicuro:
che domani sarò a te vicino
sia tu uno o trino
io Francesco Pucci fiorentino

Si tratta di una poesia in cui una scansione ternaria di periodi ritmici è implicitamente suggerita dallo stacco dei due punti che precede i tre versi in clausula, con la loro rima insistita. L’etnonimo fiorentino evoca peraltro un florentinus natione non moribus di trecentesca memoria, così che sin dall’inizio la raccolta si definisce come una sorta di rossiniana piccola messa solenne, sul piano dell’impostazione timbrica, e di poesis theologica nella maniera breve, dal punto di vista dell’orientazione poetica. La nota di fondo di questa tensione storico-lirica (una contradictio in adiecto deliberata che è nel testo e si impone a chi si pone il compito di interrogarlo) è vibrata fin nel dettaglio; una struttura semiologica ricorrente della forma poetica dell’eteronimo storico allusivo per come Bruno Di Pietro reinventa, è il distico, o al massimo il tristico, in parentesi. In questa formula espressiva, la parentetica in conclusione suggerisce un segreto a voce sommessa, sussurrato nel retroscena, spesso, ma non solo, in tono irridente. In questo caso la parentetica è sostituita dai due punti, unico grafema e graffio interpuntivo nel testo, a marcare un netto stacco esplicativo, a gola spiegata, a scena aperta. Ancora una volta ad attivarsi è sempre la liminarità al margine del silenzio, un silenzio paradossale, perché è quello definitivo del condannato. Nell’exordium dell’eretico si condensano dunque, a più livelli, temi esistenziali, connotati da poeta theologus riferiti a un riformatore messianico-sciamanico (e perciò, della stessa sostanza del Figlio), ed espressioni metapoetiche subliminali. E sin dall’inizio questa poesia come creazione in limine, in una dimensione liminare e limitanea, si definisce come contemplazione fra abbacinamento e buio del limite ultimo, fra abbaglio e barbaglio dell’acqua e troncamento dell’ingombro del pensiero –ovvio riferimento alla concreta fine di Pucci, decapitato e poi arso in morte.
Quanto dantesca e teologica la prima stazione della via crucis pucciana, a questo punto mutata in via lucis, tanto venata di ipogrammi faustiani la seconda tappa del procedere di Pucci verso il silenzio dell’ultimo spazio bianco. L’incipit della seconda micro-lassa di versi è però venato di sottile ironia, con la figura etymologica della radice di mercare: «bruciato in un mercato/io mercante/avessi esercitato mercatura/avrei vita futura/ma ho studiato teologia…». La terna “mercato/mercante/mercatura” definisce tutto il sistema di derivati che da un verbo possa dedursi, dal nomen rei al nomen actionis passando per il nomen agentis, e si dipana da essa un modalismo triplice della sostanza una della merce, che identifica una sorda trinità materiale –in sé anticristica – che a Pucci avrebbe assicurato il perdurare, per lo meno fisico, e che paradossalmente il Pucci stesso nega in vivo, alludendo al suo impegno in materia di teologia condotto con grande e doloroso amore e studio –e la demistificazione storico-materialistica delle questioni teologiche emerge così viva e scottante. Tale sottesa rete di implicazioni e riflessioni a più livelli si traduce nel modo in cui l’ironia del fortunati mercatores oraziano, qui con evidenza orecchiato, viene a contatto contrastivo e stridente con il goethiano Habe nun, ach! Philosophie, Juristerei und Medizin, Und leider auch Theologie Durchaus studiert, mit heißem Bemühn. Da Di Pietro, che per sé si dichiara, in prima persona (sotterraneamente nell’opera ed esplicitamente in praesentia) un ‘credente non credibile’, Pucci viene così tratteggiato, con l’intersezione di due campi semiologici lontanissimi, affiorati da materia semi-conscia, come un anti-Faust con ironia oraziana, che nega la trinità teologica per speculum et enigmate, per irriverenza e dissacrazione, suggerendo un’evidente concomitanza fra l’articolazione dell’economia in terra e l’articolazione delle ipostasi divine in cielo. La trama storica di Francesco Pucci appartiene del resto all’epoca in cui la leggenda di Faust si era stratificata, fra diceria popolare e university wits, al contesto in cui Michele Serveto viene bruciato sul rogo nella Ginevra dominata dalla teologia bancaria e mercantile di Calvino per analoghi dissidi in tema di trinità, al torno di tempo in cui agirono l’ironia di Erasmo, il tentativo di mediazione di Melàntone e l’umanesimo, contro l’estremismo neo-medievale di Lutero e dei suoi seguaci, il dissidio fra servo e libero arbitrio, un tema, quest’ultimo, rispetto a cui l’eresia presunta di Pucci («in che consista/la mia eresia/nessuno sa/nessuno dice») costituisce, paradossalmente, una ipercorrezione filosofica pelagiana, nelle complicate isoglosse teologiche e morali dei tanti dialetti in cui i cristiani hanno declinato nei secoli il loro oscillare fra la predicazione dell’amore universale e la fede feroce dell’intolleranza.
Da queste due stazioni, nette e lente nella riflessione e nella struttura, a esordio della piccola suite teologica del cammino di Pucci/eteronimo, si passa, a partire dal terzo quadro, a un ritmo lirico-narrativo veloce. Questa celerità, in accelerazione progressiva, si articola per due tipologie testuali: una narratio distesa, fatta di lasse più lunghe, ma paratattiche, di episodi che scorrono in sequenza veloce, come di ricordi in fase di pre-morte (III «ho visto massacrare gli ugonotti»; V «quegli occhi che furono feroci»), culminanti nell’immagine della «mosca sul vetro» che «desidera l’aria/come quegli occhi/la cui ultima volta resta/indecisa se chiedere o esser chiesta»; componimenti di maniera ultra-breve, quasi impopolari nella loro stringatezza neo-ungarettiana, come quelli posti a epilogus, di natura scespiriana, anti-amletica («dormire/senza sognare/senza invecchiare/senza morire»).
Si tratta senz’altro di una poesia che, rispetto al contesto attuale, segue una forma e un indirizzo di controtendenza. Peraltro, non mancano sotterranee consonanze con echi che rimontano all’Emilio Villa de Le mura di Tebe e al suo Edipo non-Edipo, che mangia indifferente un gelato mentre i Tebani-itagliani, μεσημβριάζοντες, si dànno ad altrettanto indifferenti e sorde sieste meridiane:

fontane volte al grigio della scala
riflettono cappucci medievali
contrito il corteo sacro
saturnali
celebra in tanto
il borghese romano

(mentre il sole cala)

Questa poesia, tramata di endecasillabi che vengono spezzandosi man mano che il procedere verso il nulla si scandisce al crescendo del silenzio, sembra in maniera semi-conscia replicare al quadro anti-edipico di Villa, in un dialogo improbabile fra forme e formule di poetica inconciliabili eppure compossibili nello stesso spazio letterario, a distanza di poco più di un ventennio (Le mura di Tebe rimontando al 1996 e la prima edizione dell’eretico risalendo al 2008). Il componimento, fra fontane oscurate dai manti neri del confortorio e sole che cala, è l’ideale télos, il compimento circolare della brevissima silloge. L’indifferenza dei saturnali borghesi circonda l’immolazione dell’eretico, un rito di morte che è feroce parodia blasfema dell’immolazione di un re sacro, in una Roma-Italia che è un’anti-Ginevra, tanto quanto Pucci, col suo pelagianesimo, con la sua idea di potere auto-salvifico dell’uomo, è nel contesto dei riformatori religiosi tardo-rinascimentali un anti-Calvino. Per quanto meridiani e indifferenti, nei loro saturnali di mercato, possano essere i borghesi italici, l’assassinio viene comunque perpetrato, in nome di una trinità che è emblema di una ricchezza di modernità mercantilistica a cui l’Italia, da quattro secoli in qua, aspira come a un’ideale trascendente –così che questa poesia, nella sua area marginale e defilata, finisce per consegnare all’anti-Edipo un messaggio esplicito, cioè che la struttura sociale gerarchizzata per i troni e le dominazioni dell’economia sanzionatrice e santificata, finisce per schiacciare lo stesso l’eroe (nel senso antropologico, e greco) di turno, anche se ha rinnegato la sua sostanza di eroe.
Ora, se quest’ultima poesia, la VI, è il télos, quanto viene dopo, per forza di cose in forma ultra-breve, è collocato in una dimensione che non sappiamo più se collocare in vita o in morte dell’eretico Pucci, in un termine di confine fra commendatio mortis e contemplatio sub specie aeternitatis. Sul confine ultimo della serie testuale delle stationes, l’eretico lascia la scena, dopo la breve coboletta scespiriana anti-amletica, con una triplice, trinitaria abiura («Signore non voglio, Signore non voglio, Signore non ti voglio») che richiama implicitamente il contesto biblico del martirio di Pietro («andare dove non vuoi»), ma ancora una volta in nome della negazione dell’ortodossia imperante, materiata di economia e indifferenza. Così si chiude il messaggio, in gran parte inascoltato, dell’eretico fiorentino, questo anti-Amleto tardo-moderno che nella stesso campo di forze livellatrici su cui la frazione anti-edipica della modernità riflette, all’anti-Edipo risponde con una presa di posizione nitida e originale, consegnando all’età contemporanea, alle sue orecchie porose, il proprio duro peso di senso.

Il postino di Mozzi

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brani di Guglielmo Fernando Castanar (in corsivo) e Arianna Destito

Cominciai questo lavoro di raccolta dopo il terzo o il quarto mese da impiegato delle Poste. Il materiale arrivava alle Centrali di Padova, prelevavo direttamente dagli scaffali di mia competenza, e i primi tempi facevo un setaccio veloce e mi mettevo sotto la giacca uno o due plichi destinati a lei e li andavo a nascondere nell’armadietto personale dove tengo l’impermeabile della divisa e lo zaino con la colazione. Poi temetti di dare nell’occhio o che, anche se dicevano di no, che ci fossero videocamere, il fatto è che si sentiva sempre di indagini tra i dipendenti, di crimini postali, e avevo paura. Così decisi di lavorare diversamente, individuavo e sistemavo i plichi da sottrarle nelle borse della bici, ma li mettevo in disparte in modo, in seguito, da trovarli subito, poi uscivo per la giornata di consegna. Non andavo subito nella mia zona di competenza, ma prendevo via Cavallotti, oppure una delle vie dell’area in espansione, verso Padova est, e là cercavo un cantiere, mi fermavo un istante, controllavo che non ci fossero testimoni, ometti col cagnolino o tossici (a un postino non si fa caso), e infilavo i due o tre plichi tra i pancali, sperando non piovesse. Poi mi dedicavo alla regolare consegna e magari, non di rado, giunto a casa sua, le mettevo nella buca una lettera dell’Accademia, una rivista, o le consegnavo la raccomandata di un istituto che le mandava il programma del nuovo corso di scrittura narrativa. Portandole una raccomandata provavo a sfruttare l’occasione, lei mi salutava, ma non parlavamo mai, solo un giorno che dopo averle strappato un giudizio sul tempo le chiesi come vanno i libri e lei (non mi permise mai di darle del tu) mi rispose: «mah, le dirò che mi dà più soddisfazione, almeno in questo momento, fare i libri degli altri che i miei».                                                                
Non so se in quel periodo curasse già la collana di narrativa per Sironi, ma leggevo che molti editori si fidavano del suo giudizio, e gli autori, gli aspiranti, e pure gente affermata (anche se solitamente questi usavano altri canali) le mandavano cose da leggere, inedite o già pubblicate.
Poi, alla fine del giro ripassavo nell’area di espansione a prelevare il corpo. Bisogna dire che l’intenzione era sempre quella di sottrargliene addirittura tre o quattro per non essere costretto ogni giorno alla trafila del passaggio in cantiere. Purtroppo, a volte, accadevano degli imprevisti e, terminato il lavoro, tiravo dritto verso casa perché nel frattempo si era messo a piovere e allora il corpo si sarebbe rammollito, pagine incollate una all’altra, illeggibili ormai, oppure che ne so, passavo al cantiere, che a mio dire doveva essere deserto, e invece ci trovavo una coppietta e per non disturbare me ne andavo a casa senza corpi. Il vero guaio era quando riandando sul luogo a prelevare, sui corpi ci trovavo montagne di sabbia e cemento, betoniere e una squadra di manovali al lavoro.
Quanto a lei, lo sa, ho sempre fatto in modo che non si accorgesse mai di nulla. Ma a volte basta l’eccesso di zelo? Si parlava di una crescente sfiducia nelle poste, sebbene con me lei non si sia mai lamentato, quando sentiva i lamenti degli autori, strasicuri di aver mandato e rimandato. Ma permetta che glielo chieda: perché, Mozzi, lei che è scrittore e dotato di fantasia, del postino non sospettò mai?
Se di molti autori provvedevo a sottrarre anche le lettere accompagnatorie – soprattutto le seconde, quelle che seguivano l’invio, lettere di protesta, in primis, dapprima calme, poi, non di rado, piene di insulti, e alcune le strappavo dopo averle lette, e ad altre rispondevo con una lettera prestampata come quella usata dagli editori, oppure una lettera che andava dritta al merito: il romanzo in questione. «Gentile signore o signora, il suo romanzo è parecchio brutto. g», o la firma per intero, la sua, che tante volte le avevo visto fare sul bollettino delle raccomandate. Giulio Mozzi –, in somma, se le sottraevo tre o quattro corpi in una settimana, ma mai di più, con altrettante lettere, poi stavo un mese senza sottrarle altro. Certi periodi invernali non operavo proprio, specie da quando i corpi in casa cominciavano ad ingombrare la stanza, e leggerli tutti diventava impossibile. (Da un paio d’anni ho affittato il magazzino qui sotto casa: le cose della pesca, lo strano odore di alghe, due bici, due casse di vino che mi regalate voi clienti, e la quantità orrenda di corpi che stringe già anche le pareti del magazzino). Bene, ora che sono in pensione smaltirò i corpi accampati e man mano me ne libererò.
Tanta è letteratura scadente. Ma lo sa. All’inizio, agli autori poco bravi rispondevo che erano storie bellissime e li pregavo di mandare ad altra gente, amici suoi, scrittori, editori, e addetti ai lavori, suggerendo di farlo senz’altro a suo nome.

Ora voglio inserire un altro brandello di corpo. Sa, una voce femminile, dopo tante maschili, non guasta. Si ricorda di Arianna Destito? Forse sì, forse no… dipende da cosa è giunta tra le sue mani. Insomma, anzi, in somma, non ricordo perfettamente cosa ho sottratto o meno. Ma questo che segue, sicuramente, non l’ha mai letto.

Corpo 10

Arianna Destito

Il Maresciallo in pensione Adalgiso Maffeo trascorreva le giornate nel suo vecchio quartiere di Nervi a Genova. Un quartiere per modo di dire, nessuno lo chiamava così. Nervi era un paese, anzi, Nervi era semplicemente Nervi. Un posto che brillava di luce propria. Dove le palme svettavano, il sole era prepotente e l’aria frizzante del mare solleticava le narici come un bicchiere di champagne. Fu proprio lì che per molto tempo il Maresciallo Adalgiso Maffeo aveva vissuto e lavorato. Ora non gli restava che prendere il gelato da Giumin e passare di tanto in tanto dal vecchio commissariato a salutare i nuovi agenti. L’irreprensibile maresciallo era ben voluto da tutti. Per molto tempo si era distinto per il suo fiuto investigativo e qualche volta era anche finito sui quotidiani locali. Aveva partecipato alla cattura del famoso ladro della Costa Azzurra. Quello che ispirò il film Caccia al ladro con Cary Grant, per intenderci. Si diceva persino che in tempo di guerra avesse nascosto una famiglia ebrea nel suo ufficio sotto il naso degli ufficiali nazisti. A molti dava fastidio il suo modo di condurre gli interrogatori, con il piglio e la gentilezza delle buone maniere, in pratica faceva cantare i delinquenti, offrendogli il caffè e un sostanzioso pasto. Il risultato era quasi sempre garantito. Al Maresciallo Maffeo non la si faceva.
Una mattina aveva deciso di portare ai Parchi di Nervi la nipotina Irene, di sette anni. Una bambina strana, pensava. Non ride mai. E guarda con certi occhi glaciali. Quando lo fissava lui si sentiva a disagio. Il Maresciallo osservava Irene giocare, sembrava che la bambina vivesse in un mondo tutto suo. Spesso evitava gli altri bambini, sembrava annoiarsi con loro. In compenso giocava con la terra, le foglie, i rametti, in un angolo che sembrava una casetta ricavata tra alberi e ponticelli di legno. Era davvero strana. Sia chiaro, il Maresciallo adorava Irene, ma qualcosa gli sfuggiva. L’istinto del poliziotto non lo abbandonava neppure in pensione. Soprattutto vedeva pericoli ovunque. E cercava di mettere in guardia la piccola nipote.
“Irene, li vedi quei ragazzi lì? Sono dei drogati”, le sussurrò un giorno all’orecchio, indicando un gruppo di giovani euforici ai bordi del prato.
“Ballano, nonno”.
“E certo, sono sotto l’effetto della droga”. Non aggiunse altro. Fino a che, tra un pensiero e l’altro, quel giorno successe l’imprevedibile. Lui uscì dal vespasiano accanto al cancello dei Parchi e sua nipote non c’era più. In un attimo gli successe quello che non avrebbe mai immaginato. …

Giulio, sa che quando ho aperto il bustone e  ho letto la storia di Rocco mi sono pentito d’averglielo sottratto, non perché mi fosse sembrato così bello (è bello, ma lo è quanto altri scritti per cui non mi sono sentito in colpa) ma perché è necessario, lo è sì, far conoscere un partigiano del Sud che ha fatto la Russia, che ha fatto l’amore per togliersi il freddo, e sottrarre le parole al suo destino… Ma ci pensa, uno come me che non scambia una parola durante il giorno e la sera legge di un umano che ha fatto l’amore per togliersi il freddo per salvarsi… Come potrò io sciogliere il ghiaccio di questa esistenza?

 

NdR: questi brani sono tratti dall’anomalissimo “Il postino di Mozzi”, uscito da poco con Arkadia Editore (Cagliari). Guglielmo Fernando Castanar, l’autore della lettera a Giulio Mozzi riportata nel libro, è un postino in pensione, che intramezza alla sua lunga missiva un festival di frammenti, un mostruario sottratto in venticinque anni di lavoro: tutte lettere allo stesso Mozzi che lui non ha mai consegnato, e che si è tenuto. Le parti in corsivo sono tratte dal suo testo, mentre i frammenti delle missive non consegnate sono di Arianna Destito (quello riportato), Adrian N. Bravi, Alessandro Gianetti, Alessandro Zaccuri, Beppe Sebaste, Carlo Grande, Claudio Morandini, Amilia Marasco, Fernando Guglielmo Castanar, Francesco Forlani, Franco Arminio, Franz Krauspenhaar, Giacomo Sartori, Giorgio Vasta, Giovanni Agnoloni, Marco Candida, Marco Drago, Mario Bianchi, Marino Maglian, Matteo Galiazzo, Mauro Baldrati, Nunzio Festa, Paolo Morelli, Riccardo De Gennaro, Riccardo Ferrazzi, Sergio Garufi, Stefano Zangrando, Valentina Di Cesare e Walter Binaghi.

 

Discorrere di case

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di Gianni Biondillo

La prima volta che andrò a San Francisco so già che passerò un’intera giornata a perdermi fra i corridoi e gli scaffali della William Stout Architectural Books, alla ricerca di libri introvabili, di tavole misteriose, di scoperte inattese: architettura e libri in un solo luogo, per me praticamente il nirvana. Testi critici, disegni, corrispondenza, tutto il pensiero e l’immaginario dell’architettura mondiale, con la malcelata speranza di trovarci persino uno dei miei libelli, mai tradotti in inglese. O magari ce lo porterò io per poi abbandonarlo su qualche pigna di tomi, per il puro piacere di sapere d’essere in buona compagnia.

E invece so che anche quest’anno, come al solito, alla Biennale di architettura di Venezia non ci andrò, nonostante sia a poche ore da casa. Ogni volta accampo scuse implausibili, ogni volta trovo una ragione per non passare. Ciò fa di me un pessimo architetto, lo so. La Biennale è come una tassa, inderogabile, anche solo per avere argomenti di discussione se si incontra qualche collega. La mia fortuna è che, per quanto ancora iscritto all’Ordine, nei fatti sono visto e riconosciuto come scrittore. Posso permettermelo, insomma, di non andarci. Ma io alla Biennale non ci andavo neppure quando per lavoro disegnavo, discutevo con i tecnici comunali o m’infangavo le scarpe nei cantieri. Se poi penso alla particolarità di quest’anno, due donne che curano la mostra e, fra gli altri, una cara amica, Laura Peretti, che espone il suo lavoro di rigenerazione del Corviale, so che mi sto perdendo qualcosa di interessante. È un problema mio, ben inteso, non della Biennale. Quelle poche volte che mi ritrovo dentro una mostra d’architettura – che sia a Milano, Londra, New York – non ostante sia argomento che mi appassiona e che reputo fondamentale per tutti noi, quando ne esco, quasi vergognandomene mi tocca ammettere a me stesso, rosso in volto, che le mostre di architettura in definitiva, diciamocelo, mi annoiano.

Perché, inutile negarlo, quello che andiamo a vedere non è l’architettura ma un suo vago simulacro. Manca l’esperienza sensoriale dello spazio, del percorso, dei materiali, dello scambio simbolico. È come una mostra d’arte che al posto delle opere espone le recensioni dei critici o una retrospettiva cinematografica che esibisce le sceneggiature e qualche rara fotografia del set al posto di proiettare i film. Una noia mortale. Ci si sente truffati, in un certo senso.

Non è mica colpa dei curatori, ben inteso, il difetto sta nel manico e non c’è soluzione. Ogni mostra di architettura è obbligata ad appoggiarsi ad altre discipline per raccontarsi – cinema, fotografia, allestimento, etc. -, e l’architettura diventa l’intangibile buco della ciambella, la grande assente. Delle rare Biennali veneziane che ho visitato, a ripensarci, ricordo con emozione il padiglione del Venezuela di Carlo Scarpa, chiuso e abbandonato, piuttosto che le declinazioni del tema voluto dai curatori del caso e realizzate dagli architetti invitati, che sembrano più vicine all’arte contemporanea che alla architettura stessa.

C’è una frase, attribuita di volta in volta a qualcuno di diverso (fra questi Frank Zappa) che dice: “Scrivere di musica è come ballare di architettura”. Non ha senso. Se non si fa esperienza della musica non la si può capire per davvero. Le emozioni che fa scaturire sono possibili solo ascoltandola. Altrettanto è con l’architettura. Fu Bruno Zevi, nel suo imprescindibile Saper vedere l’architettura, a spiegarci che l’essenza dell’architettura sta nel suo essere spazio attraversabile, percepibile con tutti i sensi. Fregi, modanature, simmetrie, disegno, ordini, facciate, sono tutte cose che vengono dopo. L’architettura è innanzitutto spazio. E non ci sarà mai fotografia che potrà restituirmi l’esperienza emotiva che posso vivere attraversando un’opera di Hans Scharoun o di Luis Barragan. L’elemento fondamentale che definisce l’architettura è proprio quello che nessuna mostra potrà mai restituirci: il rapporto di scala fra l’essere vivente e lo spazio.

Lo spazio architettonico è quello che permette a un vuoto di diventare luogo. Di renderlo, cioè abitabile. Le parole, per uno scrittore, sono importanti. “Abitare” viene da Habere, avere consuetudine in un (e di un) luogo. Abitare è un’abitudine. Ma, attenzione, anche “Abito” ha la stessa origine etimologica: Habere, avere con noi, portarci dietro, come una disposizione dell’animo. In pratica l’abitazione dovrebbe essere come l’abito di una persona, fatta su misura.

Non a caso si raccontano spesso aneddoti feroci sul rapporto fra architetti e committenti. Rapporto conflittuale, quando le sensibilità degli uni e degli altri non riescono ad incontrarsi a metà strada. Quella serpe di Adolf Loos, per dire, raccontava con ferocia che Henry Van De Velde non solo disegnava le case ma obbligava i suoi ricchi commitenti a vestirsi in modo confacente al suo progetto. Ciabatte comprese. La famosa casa sulla cascata di Frank Lloyd Wright, capolavoro del XX secolo, veniva chiamata con malcelato disprezzo dal ricco proprietario Edgard Kauffmann “la casa dai sette secchi”, date le continue infiltrazioni d’acqua. E che dire del psicodramma sorto attorno alla costruzione di Farnsworth house? Ludwig Mies van de Rohe aveva progettato un platonico cristallo minimalista sospeso su candidi pilastri d’acciaio. La dottoressa Edith Farnsworth, la proprietaria, viveva con imbarazzo l’idea di girare in una casa dove tutti da fuori potevano osservarla. Il braccio di ferro fra i due si risolse con la progettazione di tendaggi oscuranti, fatture non pagate, cause, processi, maschiliste maldicenze sulla dottoressa invaghita e tradita dal “genio”.

Non è un problema di stile. Non è perché le case del Movimento Moderno, pensate come macchine da abitare (a detta di Le Corbusier), non sappiano essere emozionanti. Lo si capisce quando il progettista e il committente si incontrano nella stessa persona. Come nel caso più unico che raro di Casa Cattaneo a Cernobbio. L’edificio fu progettato nelle migliori delle condizioni di libertà creativa per il giovane progettista. Cesare Cattaneo, appena laureato, aveva ricevuto in regalo il terreno dove poter edificare senza alcun vincolo quello che più desiderava. La casa fu pensata fin nei suoi più intimi particolari, con una meticolosità fanatica. Una sorta di modello in scala 1:1, un enorme prototipo che doveva dimostrare la forza poetica del linguaggio moderno, la sua realizzabilità (siamo negli anni trenta del secolo scorso), la sua intrinseca qualità. Nulla fu lasciato al caso, ogni tema sviscerato: il negozio a doppia altezza al piano terra, quello che si apre sulla città, gli appartamenti ai piani superiori, la terrazza all’ultimo piano affacciata sul panorama lacustre. Progetto libero da condizionamenti perché non tenuto, come ebbe a dire Cattaneo stesso, a “soggiacere alla volontà tirannica dei clienti”. Un capolavoro che purtroppo non ha avuto seguito essendo Cattaneo morto giovanissimo. (Mi sono accorto che gli architetti o muoiono molto giovani, vedi Sant’Elia o Terragni, oppure vecchissimi, come il quasi centenario Giovanni Michelucci o l’ultracentenario Oscar Niemeyer. Avendo io superato da bel po’ la giovinezza mi auguro sempre più convintamente di appartenere alla seconda categoria).

Ogni casa, insomma, porta con sé una storia, un mondo. Spesso mi accorgo quanto un appartamento mi dica molte cose di chi lo vive. Gli oggetti quotidiani, gli arredi, i quadri o le fotografie ai muri, ci vestono, ci rappresentano, esattamente come quando indossiamo un abito. Perché ogni casa, dal ricco maniero al monolocale in affitto, assomiglia alla persona che la abita. Anche qui il gioco delle etimologie può tornare utile. “Persona” deriva da Per Sonar, la maschera in legno che serviva a rafforzare il suono della voce nel teatro antico. La casa è innanzitutto la creazione di un ambiente ideale. Ma “ambiente” viene da Ambire, cioè andare attorno come l’aria, o come le persone attorno alle quali si vive. Quindi quando si abita una casa si indossa una maschera che dà un’idea di sé a se stessi e al mondo circostante. Oggi, in un mondo di risorse scarse, abitare significa stare in una casa sostenibile, ecologica. Inevitabilmente, mi viene da chiosare, dato che “Ecologia” deriva dal greco Oikos logos, “discorso sulla casa”: lo studio delle relazioni fra l’umano e il mondo vivente.

Abitare un ambiente ecologico, traducendo, significa fare un discorso sulla casa che sappia mettersi in relazione l’intorno: le nostre consuetudini ricadono sulla città. Luca Molinari nel suo agile Le case che siamo racconta come il telelavoro abbia annullato la differenza fra casa e ufficio, al punto che ogni luogo può diventare quello della produzione, e come la reazione a un lavoro domestico sempre più solitario e alienante fa sì che molti colletti bianchi colonizzino bar e locali pubblici con i loro computer, lavorando e allo stesso tempo non perdendo il contatto con la gente, con la realtà.

Stiamo domesticizzando lo spazio pubblico. Alcuni oggetti di culto della casa moderna, novecentesca e borghese, sono perfettamente inutili per le nuove generazioni. Fate un test (io l’ho fatto con le mie figlie): fra televisore e computer vince il computer. Fra computer e smartphone vince lo smartphone. Tutto si miniaturizza, diventa etereo. Oggi l’infrastruttura necessaria, indispensabile, in ogni casa, in ogni città anzi, è il Wi-Fi.

Questo significa che non avremo più mobili in casa? Ovviamente no. L’abito lo indossiamo noi, abbiamo un limite antropologico: il nostro corpo. Ce lo insegna l’erogonomia. Entrare in relazione con le tecnogie significa renderle usabili. Personalizzarle. Oggi si dice customizzare (parola che odio). Credo sia questo il compito del design del futuro: far interagire corpo e tecnologie in modo personale. Non dobbiamo avere 10, 20, 50 tipi standard di prodotti che ognuno di noi poi sceglie da un catalogo. Dobbiamo progettare processi produttivi che possano adattarsi alle esigenze di ogni singolo. Ognuno avrà la sua sedia, il suo letto, la sua parete attrezzata. “Customizzata”. Già si può fare. È quella che oggi si chiama l’industria 4.0. È il futuro della produzione manifatturiera che riallaccia i rapporti con l’artigianato. Ad ogni persona il suo abito. Ad ognuno la sua abitazione. Il futuro dell’abitare non sarà uguale per tutti, ognuno deciderà come abitare. Su misura.

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(precedentemente pubblicato in una versione leggermente differente su Lampoon n°15, novembre 2018)

I am the Revolution

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di Giuseppe Acconcia

Abbiamo assistito al Cinema Rex di Padova alla proiezione di “I am the Revolution”, documentario di Benedetta Argentieri, realizzato da Possibile Film. La regista che aveva realizzato “Our War”, insieme a Bruno Chiaravalloti e Claudio Jampaglia, raccontando le storie degli internazionalisti che si sono uniti ai combattenti del Rojava, Joshua Bell, Karim Franceschi e Rafael Kardari, torna sul tema dei movimenti curdi. “Ho voluto scardinare il racconto mainstream sulla lotta delle donne curde rappresentando la loro vera quotidianità”, ha spiegato Benedetta.

Questo documentario racconta la storia di tre donne rivoluzionarie in Siria, Iraq e Afghanistan: Yanar Mohamed che organizza, attraverso rifugi per donne in fuga dalla tratta, da violenze familiari e dalla prostituzione, un piccolo esercito pronto a combattere per i diritti delle donne; Rojda Felat, comandante delle Forze siriane democratiche (Fds), che raggruppa combattenti curdi e gruppi arabi, sostenuti dagli Stati Uniti, nella lotta contro lo Stato islamico (Isis) in Siria, arrivato alle sue fasi finali con la liberazione di Bhaguz; e Selay Ghaffar, portavoce del partito della Solidarietà (Hambastagi) in Afghanistan, unico partito laico e progressista del Paese e l’unico con una leader donna.

Le tre protagoniste del film hanno dedicato la loro vita a rendere consapevoli le donne dei loro diritti, delle loro possibilità, a combattere le regole patriarcali dei tre Paesi in cui vivono. Per esempio Selay ha passato la sua vita a educare le donne e lottare per la loro indipendenza e ora cerca di trasferire questa esperienza ovunque, di villaggio in villaggio. Da parte sua, Rojda guida 60mila uomini e donne dell’Sdf nel nome della parità di ruoli tra uomini e donne delle Unità di protezione maschili e femminili (Ypg-Ypj).

Il racconto è arricchito dalla testimonianza di una giovane combattente araba che si unisce ai curdi nella lotta di liberazione del Rojava. L’esclusivismo rispetto ad altre minoranze è una delle accuse principali che viene mossa ai combattenti curdi nel Nord della Siria, impegnati a mettere in pratica gli ideali di Abdullah Ocalan di uguaglianza tra uomini e donne, ecologia e autonomia democratica. Questi temi sono trattati con grande spessore nei film “A flag without a country” di Bahman Ghobadi e “Filles du feu” di Stéphan Breton.

Eppure il tentativo delle curde del Rojava è davvero rivoluzionario, come ci aveva spiegato la comandante Ypj Rojin in un’intervista realizzata a Kobane nel 2015. “L’amore è essen­ziale, parte dell’istinto di ognuno. La filo­so­fia della morte è un modo di vivere. Nel pas­sato tutti sape­vano che a breve sareb­bero morti ora non è così e que­sto ci discon­nette dalla natura e non ci fa accet­tare l’idea di morte. La reli­gione sfrutta la morte: se sei mar­tire vai in para­diso. Per noi amore e morte sono in con­trad­di­zione: quando ne discu­tiamo è per cer­care una nuova vita mili­tare, comu­ni­ta­ria, quo­ti­diana. La donna non è fatta solo per avere figli. Vogliamo rifor­mare, rin­no­vare la comu­nità”, ci aveva spiegato Rojin.

Il documentario riporta la vita di tutti i giorni di queste attiviste e combattenti, nei loro dialoghi con gli uomini, nelle ore passate a discutere con le donne avvolte nei loro burqa, nelle ore trascorse a pranzare sedute in terra, nelle difficoltà quotidiane che si vivono in un contesto di guerra. Eppure la guerra è suggerita e richiamata ma non appare con il suo volto più scontato della prima linea e delle macerie ma nel piangere le martiri dei combattimenti in un cimitero o nelle dichiarazioni ufficiali di Rojda dopo la battaglia. Questo rende l’opera matura e interessante, confermando l’impegno di “giornalista di guerra” dell’autrice che non vuole indulgere in facili autocelebrazioni.

Il documentario suggerisce che le riprese sono terminate nei mesi in cui la roccaforte di Isis, Raqqa, è stata liberata da Isis, nell’ottobre del 2017. Da allora i combattenti curdi hanno subito l’occupazione del cantone di Afrin da parte dell’esercito turco nell’ambito della sciagurata operazione “Ramoscello di Ulivo”, l’annuncio del possibile ritiro unilaterale delle forze Usa presenti nella regione e la liberazione di Baghuz. La liberazione di Kobane per la prima volta nella storia curda ha reso le diaspore curde non più vittime di un oppressore, come è stato per esempio al tempo di Hussein in Iraq, ma in prima linea per difendere la libertà e i diritti delle donne. Cosa succederà ora a questo esperimento così innovativo in una regione così pervasa da spinte conservatrice e islamiste radicali?

 

Mots-clés__Turismo

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Duane Hanson, Tourists I, 1970, Polyester resin and fibreglass, painted in oil, and mixed media

Turismo
di Ornella Tajani

Kraftwerk, Autobahn -> play

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Duane Hanson, Tourists I, 1970, Polyester resin and fibreglass, painted in oil, and mixed media

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da Walter Siti, Troppi paradisi, Einaudi, 2008, p. 157.

Il turismo è l’altro grande marchingegno inventato dall’Occidente per de-realizzare il mondo. Andava ancora bene quando il turista partiva per luoghi avventurosi, dove non l’aspettavano; era una conoscenza superficiale, ma pur sempre di qualcosa che si poteva definire realtà. Pian piano il turista ha cominciato a frequentare luoghi preparati per lui: ogni punto bello del mondo è diventato un set. Quello è il modello di realtà che riportiamo indietro, e che a sua volta fornisce l’immagine mentale dei nostri interventi “reali” nel Terzo Mondo.
Ogni de-realizzazione è frutto di un avanti-e-indietro. Indimenticabile, a Dubai, la pista da sci: con la neve vera e un tratteggio di vette nel serpentone di cemento, isolato alla temperatura fissa di due gradi sotto zero, come nei frigoriferi lo scomparto dei surgelati. E gli arabi danarosi che si tolgono le loro belle vestaglie bianche e indossano i maglioni e le giacche a vento per farsi cinquecento metri in discesa, aspettando lo skilift che li riporti in su; mentre all’ingresso brilla l’insegna Saint Moritz. «Io mi diverto con quel che ho preparato per te, ma tu per favore trasforma in divertimento quel che io sono». Quei ragazzi al mattino sul viale Bourguiba, sotto un’enorme parabolica, con la nebbia che si taglia col coltello, sembrano molto poco convenzionali, così poco convenzionali che ti vien voglia di scattare una foto – ma così facendo li hai già catturati nel tuo mondo fittizio, pittoresco e non reale – della loro vita, oltre i limiti della foto, non te ne importa più niente. Alfredo veniva nel Terzo Mondo per cercare il soddisfacimento dei propri fantasmi, ma in fondo anche noi: ogni turismo è turismo sessuale.

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[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. Ogni prima domenica del mese, Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]

Tre poesie di Rudian Zekthi

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(traduzione di Julian Zhara)

Mangiare le uova

Ho scoperto che posso mangiare le uova.
Come cervello di pioppo mi trascino sul muro mentre
Il dorso delle farfalle attorno alla luce, cerca di toccarmi con la lingua.
Si trascinano su questo bordo, sotto l’arsura del sole
Le persone e il loro sudore. La notte. Cerchi di mercurio
Siccome illuminano l’inferno significa che l’inferno esiste. Il cuore
Si posiziona in modo che se lo osservi orizzontalmente
Sotto l’unghia, si differenzia il cuore dal petrolio quanto la barba.
Dall’uovo sgorga grasso uguale alle falene da ingrasso
Il mare si ingrossa per merito loro.
Appena l’uovo si è spaccato, la stanza si è abbellita bisogna
Mangiare fuori. Ma la stanza non si mangia,
Dentro c’è un campo di grano
E i cerchi di mercurio che si alzano, abbassano, dal rumore
In verità solo dentro. Come seconda cosa vediamo nuvole scoperte
È più chiara la metà che la parte intera. Ho scoperto che la stanza
Non si mangia ma cresce ritmicamente in punti diversi
Dell’uovo. La notte. Notte come buco di petrolio sul camino della terra.
Nella forma di mezzo uovo ogni dito dell’uomo
Circondato dalla finestra dentale della barba. L’uovo
Come una freccia, fissa il mio cervello dove ingiallisce.
In questo cielo meccanicizzato dagli spiriti
Escluso il singhiozzo degli esseri a me simili.

 

 

Ngrënia e vezëve

Zbulova që mund të ha vezë.
Si tru plepash zvarritem në mure duke më prekur
Mua me gjuhë pllaja e fluturave përreth dritës.
Zvarriten në këtë pllajë nën zhuritjen e diellit
Njerëzit dhe djersa e tyre. Natën. Rrathë merkuri meqë
E ndriçojnë ferrin do të thotë se ka ferr. Zemra
Vendoset në atë pozicion që duke e parë horizontalisht
Poshtë thoit ta shquash zemrën si naftë sa mjekra.
Nga veza rrjedh yndyrë e barabartë me majmërinë
E fluturave të natës deti trashet prej tyre.
Sa u ça veza dhoma u zbukurua dhe jashtë
Saj duhet ngrënë. Por dhoma nuk hahet
Një arë me luledielli ka brenda saj
Dhe rrathë merkuri që ulen ngrihen përgjatë zhurmës
Së faktit brenda. Për së dyti shohim re të pambuluara
Nga qartësia më e madhe e gjysmës se e së tërës. Zbulova që Dhoma
Nuk hahet por po rritet ritmikisht në pika të ndryshme
Të vezës. Natën. Nata vrimë nafte në oxhakun e dheut.
Në formë gjysmëveze çdo gisht i njeriut
Rrethuar nga dritarja dhëmbore e mjekrës. Veza
Si shigjetë e ngul trurin tim aty ku zverdhet.
Nën këtë qiell të mekanizuar nga shpirtrat
Veç nga rrënqethja e qenieve të ngjashme me mua

 

 

 

Orizzontalmente

Mentre mi toglievo le mutande ho visto
Negli abeti azzurri strati grandi di
Gemiti. Gli asini saltavano come molle
Perché non puoi guardare
Asini saltare come molle e non venirti
In mente che la rivoltella si poteva
Inventare quando volevi
Dal principio. Gemiti freddi
Come ferri che tocchi in ritardo
Contro-risposta del sole alle nuvole
Dove un po’ prima c’era la polvere.

 

 

Horizontalisht

Duke hequr brekët pashë
Në bredhat e kaltër shtresa të gjera
Gjëmimesh. Gomerët hidheshin si susta
Sepse nuk mund të shohësh
Gomerë që hidhen si susta e t’mos të shkojë
Ndërmend që revolen mund ta kishe
Shpikur kur të doje
Nga e para. Gjëmime të ftohta
Si hekura që i prek me vonesë
Kundërpërgjigje ndaj reve
Ku pak më parë s’kishte pluhur.

 

 

 

La sparizione della contentezza

Era passata un’ora che vivevo lontano dai miei vestiti
Quando hanno iniziato a perdere sangue. Uno strappo
Di questo tipo, per sentirsi disprezzati
Non lo puoi affrontare –
Questa possibilità di mischiare il sangue con l’olio scivoloso.
Sulle mie ossa la primavera si sentiva vuota
Fin quando sono cadute le foglie così presto
Sono finiti i vestiti da togliere ma la carne
L’ho data in pegno all’omicidio da una canzone
Con una superficie intoccabile. Ora solo il mio sangue
È visibile invece percepisco un disprezzo
Non affrontabile nel finire della canzone.

 

 

Zhdukja e kënaqësisë

Kisha një orë që jetoja larg rrobave të mia
Kur nga ato filloi të rridhte gjak. Një grishje
Të tillë për ta ndjerë veten të përbuzur
Nuk mund ta përballosh –
Këtë mundësi të përzierjes së gjakut me vajin e rrëshqitshëm.
Në kockat e mia pranvera e ndjente veten bosh
Gjerkur kaq shpejt ranë gjethet
U mbaruan rrobat e zhveshura kurse mishin
Ia dhashë hua vrasjes nga një këngë
Me sipërfaqe të paprekshme. Tani i dukshëm
Është vetëm gjaku im teksa ndjej një përbuzje
Të papërballueshme për mbarimin e këngës.

 

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Rudian Zekthi (1970) è stato degli autori di punta e dei più grandi innovatori della Nuova Poesia Albanese postcomunista, assieme a Ervin Hatibi, Agron Tufa e Virion Graçi. Molto attivo a inizio anni Novanta, si distacca dalla creazione poetica per un decennio, dedicandosi agli studi letterari e filosofici. Ritorna nel 2011 con la raccolta di tutte le sue poesie “Panair” [Fiera]. Insegna Teoria della Letteratura e Filosofia dell’Arte all’Università di Elbasan.

 

La misura della schiettezza. Michele Mari, «Dalla cripta»

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28 ottobre 1984, derby di andata Milan-Inter: Mark Hateley supera Fulvio Collovati e segna di testa il gol del 2-1 che consegna la vittoria al Milan

di Antonella Falco

Immaginate un derby Milan-Inter raccontato come fosse un’epica e cruenta battaglia, considerate i calciatori delle due squadre alla stregua di valorosi antichi guerrieri e al posto della solita telecronaca figuratevi un novello aedo che in endecasillabi sciolti canti le gesta di questi eroi del pallone e avrete un’idea dell’Atleide, il poema lungo 1148 versi (e lasciato incompiuto) che Michele Mari ha dedicato a Mark Hateley, attaccante inglese in forza al Milan, squadra del cuore dello scrittore, a metà degli anni Ottanta. L’Atleide è certamente il fiore all’occhiello di Dalla cripta, la raccolta poetica di recente pubblicata da Einaudi nella quale Michele Mari raccoglie componimenti di vario metro, composti in un arco di tempo che va dal 1973 al 2017. Niente a che vedere con Cento poesie d’amore a Ladyhawke, il canzoniere amoroso dato alle stampe nel 2007, Dalla cripta è un’antologia che raccoglie esperimenti poetici fra i più vari: esercizi di stile, versi d’occasione, componimenti osceni, divertimenti e scherzi di un autore incline più al dialogo con la tradizione letteraria (Dante, Petrarca, Foscolo, Leopardi…) che con i propri coetanei. Nella prima sezione, Rime amorose, accanto ai sonetti di chiara ispirazione stilnovistica, spiccano due sestine, composte a ventisette anni di distanza l’una dall’altra, la prima nel 1982, la seconda nel 2009. Non sorprende che Mari abbia voluto cimentarsi con questo metro così particolare, da sempre sinonimo di virtuosismo per via della sua stessa struttura metrica che vede la presenza di sei stanze – di sei versi ciascuna – caratterizzate da sei parole-rima disposte secondo lo schema della retrogradatio cruciata, per poi ripresentarsi, due per verso, nei tre versi finali del congedo. A ben vedere proprio per la sua artificiosità e per l’estrema complessità tecnica, la sestina risulta un metro congeniale a Mari e alla sua nota volontà di gareggiare con le forme, i modi, gli stili, la lingua della tradizione letteraria. Il fatto poi che la rigida struttura del componimento porti inevitabilmente ad una prevalenza dell’aspetto formale su quello contenutistico e che pertanto spetti alla bravura del poeta l’ardua impresa di sviluppare un pensiero coerente all’interno di uno schema tanto rigoroso e cristallizzato deve essere parsa senz’altro una ghiotta sfida agli occhi di Mari, tanto più poi se «nella sua geometrica strutturazione, regolata da leggi matematiche ispirate a presupposti numerologici (il ‘sei’ è uno dei numeri perfetti della tradizione esegetica biblica), la sestina si presenta come una sorta di metafora del pensiero umano che organizza l’apparente caos dell’universo fenomenico: lo sforzo del poeta mira infatti ad instaurare, potremmo dire a ‘ritrovare’ precisi quanto sottili e reconditi rapporti tra entità ‘vuote’ ed autonome (le parole-rima) ricomponendole in un superiore e tutto intellettuale ordine» (Francesco Bausi, Mario Martelli, La metrica italiana. Teoria e storia, Le Lettere, Firenze, 1998). Inoltre una tanto ferrea strutturazione formale significa anche – le nove sestine, di cui una addirittura doppia, dei Rerum vulgarium fragmenta petrarcheschi ce lo hanno ampiamente dimostrato – farne un metro adatto ad esprimere l’ossessione, nella fattispecie quella amorosa. Ad ogni modo, l’ossessione, di qualsiasi natura essa sia, è uno dei temi narrativi cari a Mari, come ben sanno i suoi lettori più affezionati.

Nella sezione Altre rime il primo sonetto, datato 1983, attraverso il ricordo della cameretta del poeta (« O cameretta, che già fosti un porto/ al corso di mia chiusa giovinezza,/ intima pace e solida fortezza, / rifugio di penombra e mio conforto, / […] O cameretta, dolce mia prigione/ che mi avvolgesti morbida e sicura/ come la buona terra avvolge il seme») ci restituisce la figura dell’autore negli anni dell’infanzia e dell’adolescenza: ragazzino di indole precocemente incline alla solitudine e al ripiegamento interiore, riflessivo e aristocratico, da sempre avulso a confondersi con la massa e con una spiccata propensione alla lettura più che alla vita estroversa. Si nota in questa sezione la ghirlanda formata da sei sonetti e un componimento in ottonari, quest’ultimo in lingua francese. Composta nel 2016, essa è incentrata sul tema del tempo, altra grande ossessione dell’autore, per il quale esso viene coniugato per lo più al passato: «perché il passato è tutto, e siamo suoi», come recita uno dei versi più emblematici di questa ghirlanda, come dell’intera raccolta. «Ci sono persone per le quali il passato è la sola dimensione del reale. Per queste persone vivere significa essenzialmente aggiornare il proprio passato; di tale aggiornamento esse hanno coscienza discontinua, apparendo loro talvolta come conservazione, talvolta invece come perdita. È in simili momenti di lutto che queste persone, inorridite dal dilapidante cangiare della vita, chiedono soccorso alla letteratura». Così scriveva Michele Mari dando inizio al suo diario militare, Filologia dell’anfibio, a conferma del fatto che il passato rappresenta per lui la sola dimensione temporale capace di inverare il tempo presente e di dare un senso agli eventi futuri. Lo stesso passato, fatto stavolta di reperti poetici, ai quali Mari attinge per comporre questa raccolta alla quale non poteva dare titolo più paradigmatico: la “cripta” in questione è infatti un ideale sacrario della letteratura, luogo deputato a custodire reliquie preziose, dunque scrigno e insieme tempio destinato alla conservazione e al culto dell’unica religione che abbia mai infiammato l’animo di Mari: quella della Parola letteraria. La sezione si chiude con La canzone della montagna, nella quale i versi «ma sol che m’avvicini, ma sol ch’io vi salga/ risento la carezza che dava la mia mamma», richiamano alla mente la figura di Iela Mari, madre dell’autore, straordinaria illustratrice e autrice di libri per l’infanzia ma anche abilissima scalatrice come ricorda il figlio in alcune pagine di Leggenda privata che documentano, anche fotograficamente, la sua passione per l’alpinismo a cui si dedicò da ragazza in compagnia di due illustri amici: Walter Bonatti e Dino Buzzati.

28 ottobre 1984, derby di andata Milan-Inter: Mark Hateley supera Fulvio Collovati e segna di testa il gol del 2-1 che consegna la vittoria al Milan

Nella sezione intitolata Esercitazioni comiche, oltre a quattro sonetti di tipo comico-realistico di argomento osceno, e a testi che prendono simpaticamente di mira tic e manie di amici o conoscenti dell’autore, confluisce anche un sonetto, Fuggo dal giorno et ho a fastidio ‘l mondo, scritto nel 2010, già pubblicato in Fantasmagonianel racconto dedicato a Cecco Angiolieri dal titolo Cecco mette a punto il suo furore (nello stesso racconto era presente anche il sonetto È duro a sostener lo grave pondo, ora inserito nelle Rime amorose). Mentre nella sezione successiva, Scherzi, trovano collocazione gli sciolti del Lamento di Gianciotto Malatesta, anch’essi risalenti al 2010 e contenuti in un racconto di FantasmagoniaLo zoppo, in cui Mari riscrive la celebre storia di Paolo e Francesca, narrandola dal punto di vista del marito tradito, mai amato e spesso dileggiato dalla sposa a causa della menomazione fisica che lo affliggeva fin dall’infanzia: «Fu solo un colpo quel che li divise/ ancor congiunti carnalmente in nodo/ bestial cotanto che ‘l tacerne è bello./ Così violenza fu giustizia in terra,/ e messer Dante scriva quel ch’ei vuole». Sempre nella medesima sezione si collocano gli endecasillabi sciolti che Mari dedica al suo loden (Sciolti al Loden). Il componimento è databile al 1982, Mari aveva 27 anni e usava quel soprabito praticamente da quando era adolescente; spinto dalle rampogne dell’intero parentado, a malincuore decide di sostituirlo, inscenando però, in questi versi, una vera e propria cerimonia funebre per congedarsi da esso. Ad un episodio accaduto a Bormio, nella casa di montagna dell’amico Guido De Monticelli, sono invece ispirati gli sciolti Al balturino, caldaia Baltur che cessa di funzionare suggerendo questi versi di stampo leopardiano. Molto più recenti – sono del 2017 – i settenari della filastrocca dedicata alla cicoria, che chiudono gli Scherzi. La parte successiva si compone di Versi d’occasione, fra i quali spicca un’anacreontica composta nel 1986 per le nozze degli amici Paola Melo e Fabio Danelon. Sono versi di ispirazione neoclassica nei quali, in una immaginaria Arcadia, lei è una ninfa e lui un satiro. Immancabile, data la venerazione di Mari nei confronti di Foscolo, un riferimento alle Grazie. Alla nascita delle figlie della coppia, Costanza ed Emma, sono dedicati altri due sonetti presenti in questa parte della raccolta, composti rispettivamente nel 1990 e nel 1998, in uno di essi, il secondo, emerge lo sprezzo, tipico di Mari, per la massa: «poiché la massa è solo noia e ambascia».

La parte finale della raccolta è occupata dal lungo poema di argomento calcistico, di cui si è già detto ad inizio articolo, e dalla traduzione, sempre in endecasillabi sciolti, del XXIV canto dell’Iliade. La figura di Achille, l’eroe greco intorno al quale ruota l’intero canto in questione, era già stata protagonista di un testo di Mari: un racconto, contenuto in Fantasmagonia e intitolato Lamento del guerriero che raccoglie le dolenti riflessioni di un Achille conscio del proprio destino di gloria e insieme di morte, l’una inseparabile dall’altra, un Achille che ha parole di ammirazione per il coraggio e la virtù di Ettore, per la lealtà con la quale ha scelto di battersi con lui pur nella consapevolezza di una lotta impari. Il racconto, non privo della confessione da parte del Pelide del desiderio che a volte lo assale di far ritorno in patria per condurvi una vita oscura ma quieta e serena, e del rammarico di sapere che a inviarlo «alle case silenziose dell’Ade» sarà Paride Alessandro, «drudo imbelle e vanesio», lascia trasparire l’immagine di un guerriero tormentato, angustiato dalla vulnerabilità del proprio tallone, che reca impresso il suo fato come uno stigma, ma anche angosciato dalle proprie stesse azioni, dall’aver «lasciato morire centinaia di Achei per puntiglio»; dal fatto che «le donne troiane hanno pianto [Ettore] ricordandone la dolcezza e la forza» mentre di lui «si loderà in eterno soltanto la forza»; e dall’aver infierito sul cadavere di Ettore forandogli i talloni e agganciandolo al proprio carro per trascinarlo attorno alle mura di Troia: tre giri completi, ogni giorno all’alba, per dieci giorni, mentre il cadavere sul quale il suo furore si accaniva era preservato e custodito intatto dagli dèi. E anche la restituzione della salma al vecchio padre, l’aver mescolato le proprie lacrime con quelle di Priamo, anche quello non fu un atto davvero magnanimo: accettò dei doni, e che doni!, perché il riscatto del corpo avesse luogo, e inoltre la sua non fu neanche vera pietà ma solo un piegarsi alla volontà degli dèi. Né lui, il grande Achille, potrà mai vantarsi di aver combattuto assieme a dei congiunti, mentre per Ettore deve essere stato bello gettarsi nella battaglia circondato da fratelli, cugini, cognati, «come se la città intera pugnasse con lui». Achille al contrario deve guardarsi «dai capi achei come dai peggiori nemici», poiché costoro, invidiosi, aspettano solo la sua morte per disputarsi le sue armi «come cani randagi su un osso». Il racconto si conclude in modo visionario, con i sogni «torbidi e impuri» dell’eroe che in realtà fungono da vaticinio alla funzione eternatrice della poesia, attraverso parole e immagini che adombrano le figure di Omero e Foscolo: i quali con i loro versi consegneranno gli antichi guerrieri e le loro gesta a imperitura memoria.

Dalla cripta oltre a costituire un’altra testimonianza della (auto)biografia letteraria di Mari, è anche l’ennesima dimostrazione della capacità mimetica di questo autore che sa mirabilmente aderire agli stili, al lessico e alle forme della lingua letteraria dei secoli passati, si tratti del Sette-Ottocento come del Trecento. Il mimetismo linguistico di Mari, già ampiamente evidente in Io venia pien d’angoscia a rimirarti ma in realtà presente un po’ dappertutto nella sua produzione, non è solo mero esercizio stilistico né puro virtuosismo fine a sé stesso, rispondendo in verità a una ben più intima e urgente esigenza di comunicazione: da sempre l’autenticità della scrittura di Michele Mari passa attraverso un’altissima formalizzazione stilistica e non di freddezza si tratta, bensì di un modo come un altro – certo quello più congeniale a questo autore – di essere sincero fino al midollo. Dunque l’urgenza espressiva, il bisogno di dire cose in qualche modo “forti”, forse anche imbarazzanti, la visceralità della confessione letteraria in Mari non possono prescindere dal bisogno, classicisticamente inteso, di cristallizzare in punta di penna, mediante il ricorso a un registro formale alto, la propria interiorità, lieta o dolente che sia. Ed è probabilmente questo il lascito più puro, più genuino e schietto, di Mari che, a chi sa leggere attraverso ed oltre gli artifici e i mascheramenti del bello scrivere, ha sempre parlato con il cuore in mano.

Il falco Cyrano

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di Paolo Morelli

Noi felchi ci vediemo benissimo, lo senno tutti, tutto vediemo dell’elto, e l’eltro giorno esco di roccie al tremonto, svolezzo per un po’ e ti vedo uno sdreieto sull’erbe con delle cherte in meno e le guerdeve, le guerdeve, e le guerdeve dicevo, e dentro questo rettengolo di cherte bienche ci steveno dei segni piccolissimi che però io li vedevo, chespite se li vedevo, e li chepivo!, chespite se li chepivo, solo che dentro quei segni piccolissimi che io li chepivo, c’ereno delle cose che io le chepivo e delle cose che io non le chepivo.
C’ere su quel rettengolo di cherte bienche: Presi del midollo di bue, e bue lo chepivo, con cui mi spelmei tutto il corpo lo chepivo, e, dopo essermi tireto su con une bottigliette di cordiele, non lo chepivo, tornei fuori elle ricerce delle mecchine, che io non le chepivo per niente.
Poi c’ere, sempre su quel rettengolo di cherte bienche: Ci evevo eppene messo i piedi sopre, che io non li chepivo, che mi trovei innelzeto sulle nubi, che io le chepivo essei bene.
Le fiemme evendo fetto bruciere le prime file di rezzi, c’ere in quei segni su quel rettengolo, s’incendieve un eltro stedio, poi un eltro encore, che io non ci chepivo per niente.
E poi c’ere: E quendo ormei pensevo di perdere le mie teste su quelle di une montegne, che io le chepivo più di tutti, sentii che le mie escensione continueve, e enche questo io le chepivo più che bene.
Le Lune le chepivo, essendo in fese decrescente le chepivo, ed essendo solite in quelle fese succhiere il midollo degli enimeli, che io li chepivo un po’, espireve quello di cui m’ero cosperso, c’ere su quel triengolo di cherte bianche, e io che lo chepivo ebbestenze.
Poi c’ere enche, in quei segni su quel rettengolo di cherte bienche: Quendo ebbi supereto molto più dei tre querti, del percorso che sepere le Terre delle Lune, lo chepivo eppene un po’, ell’improvviso mi eccorsi di chedere con i piedi in elto, chepito, e dopo esser precipiteto per lungo tempo non l’ho chepito, mi trovei sotto un elbero, chepito, contro cui ero endeto e sbettere nelle mie chedute, chepito, e con il viso impiestriccieto del succo di une mele che mi si ere spieccicete contro, chepito.
Quelle volte m’è successe di chepire quei segni sulle cherte bianche. Certe cose però io proprio non le chepisco, incomprensibili, me che serenno mei?

 

(questo racconto animalesco di Paolo Morelli abiterà nella raccolta “Animali non addomesticabili”, con testi animaleschi [e non addomesticabili] dello stesso Morelli, di Marino Magliani, e di Giacomo Sartori, con una coda animalesca finale di Paolo Albani, opera quindi animalesca [e non addomesticabile] a sei mani, quasi otto, in uscita nella collana Quisiscrivemale di Exorma)

 

 

(l’immagine in alto: Takayuki Ayama, “Leopardo, ghepardo e bebé leopardo”, 2016, particolare, opera fotografata alla mostra “Art brut japonais”, Halle St. Pierre, Parigi, 2018 )

Elogio bellico di Richard Millet – appunti francesi

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di Edoardo Pisani

Ogni anima è da sola una società segreta.

Marcel Jouhandeau

Il ventiquattro agosto del 2012 Anders Breivik viene condannato a ventun anni di carcere per gli attentati terroristici da lui ideati e commessi in Norvegia l’anno precedente, l’autobomba nel centro di Oslo e l’eccidio sull’isola di Utøya, per un totale di settantasette morti e oltre trecento feriti, perlopiù ragazzi. Qualche giorno dopo, in Francia, con un tempismo forse non incolpevole quanto i suoi scritti, l’editor e scrittore Richard Millet pubblica l’ormai conosciuto (ma non troppo letto) Elogio letterario di Anders Breivik, che dà addito a violente polemiche nel mondo letterario francese, fra liste di scrittori pro e contro Millet e articoli, accuse, insulti, rotture. È il caso letterario, o meglio editoriale, dell’anno, l’affaire Richard Millet, che il tredici settembre lo costringerà alle dimissioni dal comitato di lettura di Gallimard, come racconta in Lettera ai Norvegesi sulla letteratura e le vittime, pubblicato due anni dopo; e da Gallimard per il momento Richard Millet non pubblicherà altre opere, né romanzi né saggi né libri di appunti né diari, come i primi volumi del suo Journal, ora editi per i tipi di Léo Scheer, dal 1971 al 1994 e dal 1995 al 1999, comprendenti gli anni della guerra in Libano già narrati ne La confessione negativa, seguito romanzesco de La mia vita fra le ombre, con il suo alter ego Pascal Bugeaud che si unisce ai falangisti cristiani per combattere palestinesi e musulmani sunniti e sciiti, in piena guerra civile, nel 1975, come l’autore stesso – che scrive: “Ho dovuto uccidere degli uomini, tempo fa, e delle donne, dei vecchi, forse dei bambini. E poi sono invecchiato. Siamo invecchiati prima degli altri. Abbiamo visto ciò che nessuno può guardare fissamente: il sole, la sofferenza, la morte…” Questo è l’incipit del romanzo.

Le opere di Richard Millet, il suo percorso letterario e umano, valgono più delle polemiche che hanno suscitato due o tre suoi testi in fondo minori, che pure lo hanno fatto conoscere in Europa e pubblicare in Italia, seguitando a far discutere, contrapponendolo al milieu letterario parigino e ai vari cultori del multietnicismo e antirazzismo europei, che Millet avversa in ogni scritto, non sempre a ragione. Le sue opere più ambiziose, il ciclo di Corrèze, sono tuttora poco lette, anche in Francia, dove l’autore dice di essere ostracizzato, combattuto, isolato dal potere editoriale e librario e non solo, non più un editor di Gallimard malgrado due premi Goncourt da lui scoperti e editati, Le benevole di Jonathan Littell e L’arte francese della guerra di Alexis Jenni.

Elogio letterario di Anders Breivik è un pamphlet fascista che disonora la letteratura” ha dichiarato perentoriamente Annie Ernaux su Le monde, qualche anno fa, e in parecchi hanno sottoscritto il suo articolo, le sue parole, autori importanti quali Amélie Nothomb o Céline Minard o Tahar Ben Jelloun o Le Clézio, mentre altri hanno o taciuto o criticato la stessa Ernaux, come Patrick Besson e Gabriel Matzneff, che ne ha scritto nel proprio diario, dolendosene, perché “quando uno scrittore firma una petizione deve essere per difendere qualcuno, per tirarlo fuori dai guai, per aiutarlo, non per mandarlo a fondo…” Invece da qualche anno nel mondo culturale francese c’è un clima da guerra civile, delatorio, del tutti contro tutti, fra scrittori integrati o apocalittici o ribelli o isolati, come Millet, che pure si è fatto isolato, si è voluto isolare, stilisticamente e biograficamente, per continuare a scrivere – o per vendere di più, forse? Questo suggerisce Bernard Henri Lévy, alias BHL, sorpreso dal clamore eccessivo suscitato da “tre libelli traboccanti di pensieri insulsi e di odio”, come ha dichiarato a Le point, soggiungendo che Millet in passato aveva già cercato altri casi, altre provocazioni, arrivando a lodare Osama Bin Laden e a difendere Bashar al-Assad, ne L’obbrobrio, perché “se non hai il tuo Grande Scandalo a sessant’anni sei un fallito”, chiosa Lévy – sbagliando, ignorando completamente tanto le opere di Millet quanto i suoi abissi, le sue battaglie e il suo grido di allarme nei confronti non soltanto della Francia ma dell’Europa intera, allarme sia linguistico che filosofico e umano e quindi culturale, allarme letterario.

“La parola Dio è scomparsa con la parola pidocchio. Dio è morto insieme al pidocchio e per la stessa causa: uno spruzzo d’insetticida. Per questa Morte del Pidocchio l’umanità sprofonda nell’igiene e nella rovina.” Così scrive Guido Ceronetti in Pensieri del Tè, e Richard Millet lo pone in epigrafe a L’Oriente deserto, libro di viaggio e di nostalgia che dedica ai cristiani di Oriente e che ravviva l’idea e il bisogno di Dio in letteratura, la sua ricerca e la sua preghiera, talora la sua verità. “Misero cattolico, certo” scrive Millet, “ma cristiano fino al midollo: non passa un solo giorno senza che pensi a Dio, alla mia religione che è ormai la cosa più infangata in Europa, disprezzata, sfottuta, al punto che nei giorni difficili finisco per dirmi che forse hanno ragione loro, che bisogna prediligere una modernità risolutamente agnostica, materialista, edonista, buttando al fiume ciò che non sarebbe altro che un insieme di superstizioni, di illusioni, di pulsioni sublimi, di errori in passato sanguinosi…” È una delle lotte più difficili di Millet, di certo votata alla sconfitta, la difesa del classicismo e dell’elitismo della cultura europea contro il chiasso assordante della modernità, lo stilismo francese contro l’anglismo imperante dei media e gli ateismi fin troppo diffusi nella cultura stessa e nel mondo, contro l’ignoranza e per la sacralità della parola, per la sacralità della vera arte. Ne L’obbrobrio scrive: “Sono gli stessi censori che, denunciando l’oscurantismo papale e l’Inquisizione e facendosi portatori del razionalismo degli Illuministi, mi odiano per dirmi cattolico e vanno in visibilio per Tom Cruise, John Travolta e Nicole Kidman, adepti della chiesa di Scientology. È questa setta di mangiatori di ali che mi rimprovera ciò che dovrebbe essere la sua unica virtù: la ricerca della verità.”

La ricerca della verità, dunque, sacra o scandalosa che sia, orrida o sublime o inaccettabile, e il confronto non è soltanto letterario e umano, cioè linguistico: è filosofico. “Sta venendo il mattino” dice l’Oracolo di Duma nel libro del profeta Isaia, nel passo 21:12, la sentinella di guardia, detta del Silenzio, “ma la notte durerà ancora, tornate e ridomandate, venite ancora, insistete…” Insistete e cercate; nel caso nascondetevi e aspettate la vera alba, la vera luce, la parola che si alimenta di deserto e che nel deserto si ravviva, come suggerisce Guido Ceronetti ne L’occhio del barbagianni, perché “la sfida della scienza alla filosofia è questa: ‘Fatti mia serva se vuoi sopravvivere’” – quindi per restare libera e non doversi umiliare “la filosofia si ritira nell’ombra e aspetta che tornino come proprio futuro i pensatori presocratici.”

La sfida della scienza alla filosofia si traspone anche nel narrare, nel romanzo e contro il romanzo, è un monito alla letteratura stessa (e all’arte: “Il mio eroe è il fisico Werner Heisenberg” diceva Dalí) e una sfida allo scrivere più autentico, vissuto, con centinaia e centinaia di romanzetti o di libri teorici che applicano le più semplici tecniche della narrazione alla scienza divulgativa, per esempio, sempre in voga, leggibile, esportabile, tradotta dall’angloamericano o anglicizzata dai nostri stessi autori, che perdono in stile e indeboliscono la propria lingua, inchinandosi al Dio anglofono della Scienza o al Dio della chiarezza e dell’amenità, come direbbe Roberto Bolaño, procacciando uno stilismo annacquato che tradisce il vero senso dello scrivere e il silenzio che ne deriva, l’imperfetto e sofferto silenzio che crea ogni autentica opera letteraria – e ogni ricerca.

Un altro autore che ha preso spunto da Anders Breivik e dalla strage di Oslo e Utøya, come Richard Millet, è l’italiano Giuseppe Genna, ne La vita umana sul pianeta terra, uscito nel 2014, seguito ideale del suo Hitler, opera che indaga sul male e sulle sue infinite sfaccettature umane, disumane, storiche, orrifiche. Il suo Breivik è un libro di tenebre, che alle tenebre si rivolge e alle cui tenebre risponde, trae voce e visione, struttura e storia. “Di cosa si ha paura?” chiede a un certo punto il narratore, interrogandosi su Breivik e sulla sua insensatezza, sulla sua immane perfezione. “Di avere paura e di finire di avere paura, morendo. Verso cosa stanno transitando tutti? Possiamo qui azzardare l’ipotesi che molto velocemente stiamo osservando lo sviluppo, la crescita e la raggiunta età adulta della vittoria postuma di Hitler…” La vittoria postuma di Hitler, dice Genna, rifacendosi a Emil Fackenheim e al suo stesso Hitler, pubblicato sei anni prima, non una biografia o un libro storico ma una visione/opera che indaga sulle radici della follia nazista, che vera follia non è, del Male eletto a simbolo umano e dello sterminio mutuato in normalità, perché “la normalità non è indifferente al genio: lo aggredisce, sogna il suo martirio” – così Genna a proposito di Hitler, a Vienna, nel 1908, rifiutato dall’Accademia di Belle Arti, uno studente frustrato che ignora o disprezza Klimt e Kokoschka, una non-persona e un non-artista che prescinde dal tempo e dagli altri e che metterà a fuoco e conquisterà l’Europa e che infine, nell’apocalisse ultima, si ucciderà. “Ancora arde ciò che fu il corpo del Fürher” scrive Genna.

Anders Breivik, a differenza di Hitler, non si ammazza, arrendendosi dopo il massacro, sessantanove morti innocenti sull’isola di Utøya. E di Europa e tenebre anche Richard Millet scrive, trascendendo Hitler e difendendo in qualche maniera la “visione postuma” di Utøya, di Breivik, il suo eccidio gridato, orrido perché perfetto, perfetto perché disumano. “Lontano dall’essere un angelo sterminatore o una bestia dell’Apocalisse” afferma Millet, “Breivik è al tempo stesso vittima e carnefice, sintomo del male e suo impossibile rimedio.” Sintomo del male, certo – ma quale male? E quale impossibile rimedio, soprattutto? Elogio letterario di Anders Breivik di fatto viene letto più in chiave nazionalista che culturale, più politica che letteraria o artistica, benché l’autore condanni più volte Breivik e i suoi atti, il suo orrore – che pure sono europei, che pure lo rendono un creatore a tutti gli effetti, un écrivain par défaut, scrive Millet, come peraltro definisce se stesso ne L’obbrobrio, écrivain par défaut, scrittore per difetto, per errore, Anders Breivik, simile al protagonista di Fuoco fatuo di Pierre Drieu La Rochelle, sebbene, a differenza di Hitler o dello stesso Drieu La Rochelle, non morto suicida, imprigionato nel carcere di Skien.

La guerra, come la solitudine e la morte, pervadono tutta l’opera di Richard Millet, i suoi silenzi e la sua tragedia, compreso il primo volume del suo diario, invero un semplice libro di appunti, dal 1971 al 1994, con riflessioni filosofiche e teoriche e romanzesche, in fondo non dissimile dal già tradotto L’inferno del romanzo, una raccolta di paragrafi numerati alla maniera di Cioran o di Ceronetti, scritti “tra le rovine della letteratura francese, specchio in frantumi della fine del romanzo…” – cioè nel trionfo del romanzo non europeo, per consumatori più che per lettori, internazionale, vendibile, tanto riproducibile quanto inutile. Difatti molti autori europei, specie in Francia, si rifugiano ormai nei taccuini, nei saggi o nei diari, come lo stesso Richard Millet, tralasciando il romanzare, la narrazione pura, o cercando nuove vie narrative, non sempre romanzesche, perdendosi spesso nei modelli d’oltreoceano, più venduti e vendibili e quindi più richiesti dagli editori, più riscritti; mentre altri cercano di restare a galla soppiantando il silenzio della scrittura con il caos degli “spazi prostituzionali online”, come ripete spesso Millet, blog e siti e social network – e “il making of di un romanzo diviene non un bonus ma una sorta di dovere più importante del libro stesso…” E le opere, la letteratura, ne risentono, e così gli autori. Ma poco importa, purché il libro venda, no? Perché si tratta soltanto di sopravvivere editorialmente e di esistere e resistere in quanto scrittori e artisti, in quanto creatori – o no? “Il mestiere di scrivere è popolato di canaglie, questo lo intuiscono più o meno tutti” diceva Roberto Bolaño. “Ma è anche popolato di stupidi che non si rendono conto dell’immensa fragilità dello scrivere, di quanto scrivere sia effimero. Voglio dire, posso stare con venti scrittori della mia generazione e sono tutti convinti di essere bravissimi e di poter durare. Questo è di un’ignoranza, oltre che di una superbia, mostruosa…”

Superbia e ignoranza dello scrivere, quindi. E riprendiamo ancora Millet e il suo grido di allarme nei confronti della lingua e del romanzo, dell’inferno del romanzo e della narrazione, perfino della poesia, inferno che riguarda innanzitutto lui stesso, sia in veste di ex editor che di scrittore, partecipe della sua stessa fine e del suo ultimo canto (o pianto) del cigno. Quanti autori infatti cascano nelle lusinghe e nei chiacchiericcii dei social network o nella trappola del caso forzato, del personaggio forzato e della vendibilità costretta, sperando nel chiasso proprio o altrui per vendere qualche copia in più o qualche copia e basta, per esserci, per restare, per non disilludersi e scrivere ancora o per rivolgersi al proprio sordo pubblico ma non per scrivere meglio, non per isolarsi e romanzare – quanti scrittori confabulano e tramano inutilmente?

E così lo stesso Millet si autoproclama le dernier écrivain, solennemente, l’ultimo scrittore prima del tramonto culturale europeo, mentre Bernard Henri Lévy gli rimprovera di cercare l’affaire a forza, il caso, lo scandalo, il suo quarto d’ora di celebrità warholiana, lucrando sui giovani morti di Utøya – e sulla letteratura. (Ma Lévy non lucra a sua volta sul non letto, come già lucrava sul non visto stroncando a priori Underground di Kusturica, dieci anni prima, pur avendo scritto un libro quale La pureté dangereuse, nel 1994, La purezza pericolosa, che anticipa e in qualche modo crea Breivik – salvo poi ravvedersi e raffrontare proprio Underground alle opere di Céline, al suo viaggio delirante nell’Europa in guerra?) E chissà se nei diari non ancora editi, dal 1999 a oggi, Millet risponde alle accuse di Lévy, che nel momento più difficile lo attacca pubblicamente, dandogli del geloso dei successi altrui, del cacciatore di scandali, mentre nel mondo letterario è tutto un rincorrersi di pose e cifre, di chi vende di più o strappa i migliori anticipi o ha più clic online o smuove più copie o fiuta il colpaccio, l’affaire, il premio, la chiacchiera, e la condanna, o la salvezza, è forse la solitudine e l’oblio, forse il silenzio della scrittura totale.

“Dividere i giusti, moltiplicare i malvagi” scriveva Richard Millet a Philippe Sollers su L’infini, nel 2011, prima di Lingua Fantasma, “ecco a cosa lavorano i nostri nemici, moltiplicando le pietre al posto del pane e rimproverandoci, a me e a lei, di pubblicare troppo, cioè di esistere.” Ma pubblica davvero troppo, Richard Millet, il cui testo più discusso, Elogio letterario di Anders Breivik, è in fondo incolpevole e assai meno importante di altre sue opere, dai romanzi di Corrèze ai diari appena usciti a libri di appunti quali L’inferno del romanzo o L’obbrobrio o Solitudine del testimone – pubblica troppo, scrive troppo, dice troppo? O è/era troppo l’affaire Millet, con Annie Ernaux che gli dà del fascista e Tahar Ben Jelloun che lo accusa di narcisismo destrorso e Patrick Besson che lo difende e rinfaccia a Jelloun il suo silenzio nei confronti di Hassan II e dei suoi “giardini segreti”, mentre molti firmano la lista Ernaux senza nemmeno leggere Langue Fantôme, Mathias Enard, Amélie Nothomb, Céline Minard (alias la papessa Maidalchini, da Olimpia, suo splendido monologo), e Gabriel Matzneff se ne dispiace e Le Clézio parla di sindrome Céline in Francia e si chiede se ormai basti essere più o meno scandalosi per sembrare “geniali” – e Richard Millet, che geniale non sembra, che scrittore rimane, si vede costretto a firmare una lettera di dimissioni dal comitato di lettura di Gallimard, senza resistere alla tentazione di migliorarla stilisticamente, come racconta nella Lettera ai Norvegesi, perché lo stile letterario oggi non è più di moda, spiega, essendo ogni stilismo considerato “di destra”, “fascista”, per ignoranza o ugualitarismo letterario… (ma Roberto Bolaño e molti altri non sarebbero d’accordo).

Richard Millet lascia dunque il suo ufficio da Gallimard, senza stringere mani, in un clima di guerra culturale, letteraria, lui che la guerra reale l’ha conosciuta e descritta in pagine atroci, combattendo e uccidendo o guardando uccidere e vivendo di ombre e demoni, di solitudine e scrittura. “Continuerò a essere solo” scrive nel Journal. “Poco frequentabile. Niente affatto amabile. Poco desideroso di prostituzioni letterarie o di massonerie.” E a Philippe Sollers, ne L’infini: “Non ho una posa da scrittore: scrivo. La guerra non è una posa ma un atto, come la scrittura. Solo lei mi definisce, o mi condannerà all’oblio. Almeno sarò rimasto fedele alla terribile dolcezza dell’angelo che è in me.”

La scrittura quale stato di guerra perpetua, quindi – e di disperazione. Perché disperate e vive sono le opere di Millet, il suo silenzio e il suo disprezzo trasposti sulla pagina, le sue battaglie culturali e i suoi cicli romanzeschi, le vite degli altri quali specchi scuri in cui vedere se stessi, il proprio io, Richard Millet o Pascal Bugeaud, la sua terribile dolcezza e le sue pose, uno scrittore in guerra salvato dalla purezza della parola e del romanzare, nei sentimenti e nel romanzesco.

Che il resto, o questo, da Anders Breivik ai fratelli Kouachi a Brenton Tarrant, sia letteratura? “Ho attraversato talmente tante tenebre” scrive Millet ne L’obbrobrio “che la notte ha per me la dolcezza del giorno; una forza immensa mi sospinge, malgrado l’angoscia e il dubbio, la paura; perché scrivere non è altro che ridere nella notte, poco prima dell’aurora…” – scrivere di veglia, in guardia, come la sentinella del profeta Isaia; scrivere perché “la notte durerà ancora” o perché ogni notte, come ogni alba, come ogni scrittura, dovrà finire: e aspetteremo il giorno.

di Edoardo Pisani

La città dei futuristi

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(È da poco pubblicato Secolo che ci squarti… secolo che ci incanti di Antonio Saccone, raccolta di saggi che attraversano il novecento letterario italiano, da Ungaretti a Luzi. L’autore ci regala un breve estratto che volentieri pubblico. G.B.)

di Antonio Saccone

«I caratteri fondamentali dell’architettura futurista saranno la caducità e la transitorietà. Le case dureranno meno di noi. Ogni generazione dovrà fabbricarsi la sua città»: cosí è proclamato nel manifesto intitolato all’architettura futurista, anno 1914, autore Antonio Sant’Elia. Sono passati cinque anni dall’apparizione del futurismo sulla scena italiana ed europea. Il movimento fondato da Marinetti, inseguendo la tensione totalizzante iscritta, per cosí dire, nel suo codice genetico e, perciò, promulgando il diritto a invadere tutti i settori dell’attività umana, ogni versante culturale o aspetto del costume, ha già dettato le sue prescrizioni alla letteratura, alla pittura, alla scultura, al teatro, alla musica. Ha già avviato il collegamento della sua capillare e proteifore espansione con la ricerca di una comunicazione poliespressiva, nella quale e attraverso la quale far saltare le usuali frontiere tra le singole arti e, piú in generale, tra l’arte e la vita. Il ritardo con cui l’architettura è inserita tra i linguaggi da rivoluzionare sub specie futurista è, tuttavia, solo apparente. L’attenzione per la città come fondale su cui proiettare il dinamismo della vita futurista e intessere le nuove modalità di percezione dello spazio e del tempo è, in realtà, immediata e, sin da subito, tutt’altro che irrilevante. Ancor prima di sancire la nascita del futurismo, Marinetti mostra, nella sua produzione in lingua francese, di nutrire un forte interesse per il tema della città. Nel 1904 una delle tredici sezioni, dedicata al Démon de la vitesse, in cui è suddivisa Destruction, silloge di poèmes lyriques, si traduce in un’esaltazione criptofuturista dell’orizzonte urbano, non priva di favolistica inquietudine. Il culto della città tecnicizzata («la ville gorgée d’ombre et crépitante de lumieres») raccoglie ed esaspera, nei modi di un lirismo debordante, il filone celebrativo della vita contemporanea inaugurato dalle Villes tentaculaires (1895) del poeta belga Émile Verhaeren, precursore di molte idee futuriste, stando alle ammissioni dello stesso Marinetti. Nel 1908 La Ville Charnelle, terza raccolta poetica di Marinetti, dà vita, come già indicato dalla soglia dell’intitolazione, a una città carnale, emblema antropomorfizzato di un’esplosiva sensualità. L’uso abnorme delle immagini, la proliferazione di analogie, la fusione di metafore erotiche e metafore tecnologiche inscenano un paesaggio metropolitano, dischiuso al nomadismo dell’automobile, paradigma di aggressività e di rapidità intuitiva, capace di mettere in atto una liberatoria volontà desiderante, una dionisiaca esorcizzazione di tutto ciò che costituisce impossibilità e morte.

Siamo di fronte a veri e propri cartoni preparatori del manifesto fondativo, prossimo a inscenare la sua novità tematica ed espressiva. Il proclama del 1909 si apre, com’è noto, su un notturno, carezzevole interieur: il suo caldo arredo orientaleggiante («lampade di moschea dalle cupole di ottone traforato», «opulenti tappeti») si accampa come figurazione del retaggio di una neghittosa condizione decadente («la nostra atavica accidia»), dal cui morbido torpore l’insonne compagnonnage futurista è smanioso di emanciparsi. È il salotto della casa milanese di via Senato, definito da Marinetti «attizzatoio di idee» nella sua autobiografia «parolibera aeropoetica», La grande Milano tradizionale e futurista. Il gruppo d’avanguardia è fiero di essere una minoranza impegnata in una titanica gara contro le norme imposte dall’ordine naturale. Unico punto di riferimento alla propria separatezza è la sintonia con l’alacre umanità che lavora e vive febbrilmente nei grandi insediamenti urbani:

Un immenso orgoglio gonfiava i nostri petti, poiché ci sentivamo soli, in quell’ora, ad esser desti e ritti, come fari superbi o come sentinelle avanzate, di fronte all’esercito delle stelle nemiche, occhieggianti dai loro celesti accampamenti. Soli coi fuochisti che s’agitano davanti ai forni infernali delle grandi navi, soli coi neri fantasmi che frugano nelle pance arroventate delle locomotive lanciate a pazza corsa, soli cogli ubriachi annaspanti, con un incerto batter d’ali, lungo i muri della città.

Quella futurista appare sin dal manifesto d’esordio come una prospettiva imprescindibile dalla cultura della megalopoli industriale, del cui inesausto movimento elettrificazione e meccanizzazione scandiscono ritmi e scenari.

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Antonio Saccone è professore ordinario di Letteratura italiana moderna e contemporanea nell’Università di Napoli «Federico II». Ha al suo attivo, oltre a numerosi studi in rivista, alcuni dei quali tradotti in lingua inglese e francese, volumi su Bontempelli, Palazzeschi, Dossi, Marinetti, Ungaretti e altri fondamentali autori e questioni della modernità ottonovecentesca. Ha tenuto lezioni e conferenze in molte università europee e nordamericane. Collabora alla pagina culturale del «Mattino» di Napoli.

Sogni e favole di Emanuele Trevi

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di Marco Renzi

Qualche anno fa, assieme ad alcuni amici, provai a metter su un cineclub, con la speranza di dar spazio a film penalizzati dalla pessima distribuzione nostrana. Già sapevamo, visti i tempi che corrono e la nostra collocazione provinciale, di andare incontro a un fallimento, sebbene alcune persone, quasi tutte intorno alla cinquantina e oltre, apprezzarono l’iniziativa e si fidelizzarono. Superfluo dire che l’esperienza non durò a lungo: si trattava più che altro di riportare in vita, da parte di noi non ancora trentenni, il fantasma di un Novecento vissuto solo con gli occhi dell’infanzia, rapidamente spazzato via dall’iper-connessione di un Terzo millennio che non poteva tener conto di certi residui, di certe romanticherie. Impossibile pretendere che molte persone fossero rimaste attaccate a quel modo di fruire e contemplare le opere d’arte, schiacciate com’erano dalla velocità contemporanea, dal «tutto e subito» imperante del nostro tempo.

Mi ha sorpreso in positivo ritrovare il cineclub nelle prime pagine dell’ultimo libro di Emanuele Trevi, dove lui riflette, tra i tanti temi, sullo scarto tra gli ultimi anni del Novecento e il presente, e lo fa ricorrendo, come già avveniva in Senza verso e Qualcosa di scritto, alla materia autobiografica. Negli anni tra la fine del liceo e l’inizio dell’università, Trevi lavorava in un cineclub dove, al termine di una proiezione di Stalker di Tarkovskij, incontrò Arthur (o Arturo) Patten, fotografo col quale instaurò una profonda amicizia che sarebbe durata fino al 1999, anno della morte di Patten: un legame  fondamentale per la sua educazione umana, sentimentale e, alla luce di un testo così, anche letteraria. Le altre due figure che segnano la vita e il lavoro dello scrittore romano, in quest’ibrido tra romanzo, autobiografia e saggio, sono Cesare Garboli e Amelia Rosselli. Filo conduttore di Sogni e favole è invece Metastasio, o meglio ancora il sonetto a cui il titolo s’ispira, e che vale la pena citare per intero.

Sogni, e favole io fingo; e pure in carte
mentre favole, e sogni orno, e disegno,
in lor, folle ch’io son, prendo tal parte,
che del mal che inventai piango e mi sdegno.

Ma forse, allor che non m’inganna l’arte,
più saggio io sono? È l’agitato ingegno
forse allor più tranquillo? O forse parte
da più salda cagion l’amor, lo sdegno?

Ah che non sol quelle, ch’io canto o scrivo,
favole son; ma quanto temo, o spero,
tutto è menzogna, e delirando io vivo!

Sogno della mia vita è il corso intero.
Deh tu, Signor, quando a destarmi arrivo,
fa ch’io trovi riposo in sen del vero.

L’artista su commissione per eccellenza, il più celebre e pagato autore italiano della sua epoca, visse “felicemente” fino alla veneranda età di ottantaquattro anni, tanto da scatenare in seguito l’indignazione di Alfieri e poi di De Santis per questa sua esistenza tranquilla, per questo io che mai si metteva a nudo ma che, le rare volte in cui lo faceva, come in questa poesia,  si confessava per il «fingitore» che era, per dirlo con le parole di Pessoa citate nel libro.

La sua «abitudine di fingere lo predispone a capire di che stoffa sono fatte tutte le altre cose», scrive Trevi. E sul rapporto tra realtà e finzione, sugli intrecci tra letteratura e vita, si concentra Sogni e favole: in una Roma magica, altra indiscussa protagonista della narrazione, città capace di nascondere ricordi, ispirazioni e brecce di memoria in ogni suo interstizio, si ambienta un non-romanzo che nel sottotitolo Un apprendistato trova la sua ragion d’essere.

Quello di Emanuele è un viaggio all’interno di se stesso: la ricerca di un equilibrio tra il professore universitario che in giovane età aspirava a diventare, tra il critico e lo scrittore che sarebbe poi diventato, e il desperado, parola che meglio di ogni altra esemplifica l’attitudine di questo straordinario narratore, tanto letterato quanto vagabondo, nonché sapiente ritrattista, così come lo erano, in ambiti diversi, Garboli e Patten.

L’amico fotografo, lettore onnivoro ed eclettico, dalle conoscenze trasversali, lo farà incontrare col «grande critico», dal quale riceverà in dono gli Scritti servili e il quesito sul sonetto di Metastasio, poi ricorrente nella loro frequentazione, che andrà ben al di là di quello allievo-maestro. Cesare Garboli, grande conversatore telefonico (telefono fisso, ovvio) come molti della sua generazione, esiliato volontario a Camaiore dopo il delitto Moro, firmò grandi capolavori della critica nonché, appunto, del ritratto: non solo i già citati Scritti servili, ma anche l’Introduzione ai Diari di Antonio Delfini, o l’ancor più celebre Cronologia pascoliana. Il grande critico, le cui righe su un giornale non solo valevano quelle di un abile prosatore, ma potevano stroncare o far decollare la carriera di un autore, è un altro simulacro novecentesco, una figura di cui si sente indubbiamente la mancanza, almeno tra coloro che ancora osano addentrarsi tra i meandri della letteratura. Viene però da chiedersi se oggi un Garboli verrebbe ascoltato come allora. E i poeti, invece, quanto sono presenti nel dibattito pubblico? Un tempo avevano un certo peso, ma oggi non è più così, e non perché ne manchino di bravi; semplicemente, il loro ruolo è divenuto sempre più marginale. All’epoca era ancora possibile creare una cornice come quella di Castelporziano, dove si tenne il Festival Internazionale dei Poeti, nel bene e nel male una pagina importante per la cultura italiana: in molti erano lì per Allen Ginsberg, altri giusto per curiosità. Di sicuro, il quindicenne Emanuele Trevi non era ancora interessato alla poesia, ma vi fu trascinato da un’amica più grande; e lì vide Amelia Rosselli, salita sul palco per leggere alcuni versi: la sua «apparizione […] rappresentò un vero dislivello, il manifestarsi di un piano di realtà totalmente diverso e inconciliabile con le circostanze». La poetessa, da Trevi definita uno dei maggiori «poeti» del Novecento italiano, fu presenza costante nella vita dell’autore: in quanto amica del padre, lo prese in braccio quando aveva soli quattro mesi; poi ci fu Castelporziano, e infine l’incontro con un Emanuele ormai innamorato della poesia e delle lettere, al quale seguirono una visita al suo piccolo appartamento romano di via del Corallo, l’avvicinamento a una donna amabile e intrattabile al tempo stesso. Fu una vita dolorosa, quella di Amelia Rosselli, riversata in un’opera comprendente Storia di una malattia, La libellula e altri testi indimenticabili, celebrata in alcune delle splendide pagine di questo libro, anche in una delle foto in bianco e nero presenti al suo interno, dove la donna è ritratta dallo stesso Arthur Patten, il cui obiettivo rivela la fragilità e la forza del suo sguardo.

«Chi li ha mai letti i poeti del Novecento, a parte un manipolo di disturbati?», si domanda a un certo punto il narratore. Chi leggerà mai i poeti e gli scrittori del nostro tempo?, c’è invece da chiedersi dinanzi alla riprova che è ancora possibile fare alta letteratura, con un racconto che non vuole essere conciliante o banalmente nostalgico. Trevi non si rammarica per un mondo che non c’è più: si limita a constatarne la fine, ripercorre gli ultimi respiri di un’epoca in cui si poteva godere di certi romanzi, poesie, film e arte in genere con un approccio critico oggi forse non più praticabile, o magari riservato solo a pochi eletti.

Oggi è ancora necessario riflettere su un’eredità tanto preziosa: un libro come Sogni e favole, con la sua prosa ricca eppure limpida, perfetta sintesi tra la penna del critico e quella dell’artista, è frutto di quella lezione novecentesca che s’immaginava la letteratura di domani rifacendosi alla tradizione: un insegnamento dal quale non si può prescindere se ancora si vuol parlare di letteratura.

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Emanuele Trevi, Sogni e favole (Ponte alle Grazie, 2019)

Verumtamen in imagine pertransit homo

5

 

 

Firenze, maggio 2018

 

Non lasciare in sé null’altro che una nebulosa di refettori, di coliche e viuzze smunte.  […]

L’afa ci pigia nel fondigliuolo della vita, tra l’asino quasi nolano, frontale allo sbalzo dei secoli, il pavone derviscio e ciascun’altra bestia inventata per noi da Benozzo Gozzoli: labirinto broccato, orificio, di chi ha già bevuto la sua eternità. E sotto gli angeli, nella scarsella, una fumigazione marmorea, un frangimento di colori come frotta di cesti gassosi in cui già fingiamo di calarci dentro la cecità del convento di San Marco, per cui poi siamo venuti, colla stanchezza metafisica di quattro telefonate al polo museale della Toscana, la flebo di benzina, i ravioli imburrati, la cartuccia Super 8 che si può sviluppare solo in Canada, e a costo di non far portare nulla sul bilancino di Michele l’Arcangelo, di non far quadrare niente, neanche il salmo 38 («verumtamen in imagine pertransit homo»), neanche la successiva visita a Santa Trinita per far nuovo l’oblio nelle stive del tempo.

Usciti all’aperto il cielo pare soltanto un arazzo oltraggioso, per giunta oziosamente cavato da una qualche caricatura digitale. Sicché, quando qualcuno ci toglierà la fede nel mondo mostrandocelo davvero una volta per tutte, che ne sarà del mondo stesso, se realtà è stata sino ad ora soltanto la paziente, incompiuta svelatura del suo originario nascondimento?   Comunque è maggio, mese del senso rosaio! Faremo lo sforzo di spingere il carretto sino alle lenzuola della sera. Nessun collirio di splendori liquidi, nessuna sophrosyne da macinare: soltanto la polpa ombrosa del mezzogiorno, i gettoni di liquirizia e l’abbraccio con la sinistra per quando duole lo stomaco in vista di tutte le indigestioni che verranno più avanti, a giugno, salutate -possibilmente- con due melagrane da marcire e calcinare sul volto del Battista nella notte di San Giovanni, come monito per le pupille. Perché -sia detto- dalla farmacia terreste non sgorga più rimedio alcuno, ma solo “l’ecco” dello sguardo, cioè: vedi, bada! È il segreto florifero di Ruusbroec, la cuccia della parola che latita, che manca davvero:

 «Per questo Egli pronunzia in eterno nel segreto del nostro spirito, senza intermediario e incessantemente, una parola profonda come l’abisso, e nulla più. In questa parola egli annunzia se stesso e tutte le cose. Questa non dice altro che: guardate.» Guardate.

Milano, via Mac Mahon

2

di Roberto Antolini

Dei miei genitori mi è rimasto un album fotografico, un album all’antica, oblungo, rilegato in pelle, con le pagine di cartoncino colorato su cui, negli anni, sono state attaccate alla rinfusa molte fotografie della loro vita, da quelle degli anni ’30 di prima che si conoscessero, alla foto del matrimonio a Trento nella chiesa di S. Maria nel 1949, fino a quelle degli anni ’60. Ce n’è una che, guardata con gli occhi giusti, riporta al clima del primissimo boom economico italiano, anzi agli anni immediatamente precedenti, preparatori.

Adesso ne è rimasta una stampa in bianco e nero, ma ricordo di averne vista da giovane una stampa a colori: meraviglia delle meraviglie, colori trasparenti e luminosi, sicuramente una delle prime foto familiari a colori (la quasi totalità delle fotografie dell’album sono in b/n).

Dalla parte di Catilina

1

di Pierluigi Cappello

Ama le biciclette e la polvere degli sterrati, la Repubblica. Magari una solida Bianchi con i freni a bacchetta. D’estate, quando si accendono interminabili veglie, si racconta sotto i bersò, davanti ad un bicchiere di rosso, pane croccante, salame ben stagionato.
La Repubblica preferisce le dozzine più che le unità, le voci a una singola voce, ma, del coro, distingue una voce dall’altra. La si è vista sedere sui gradini di pietra, vicino alle fontanelle, o sulle soglie di casa, fumare trinciato forte e ridere di una risata spessa, abrasiva, un pugno di sabbia che viene su dalla pancia. Però, quando sussurra, è capace di intenerire le teste dei bambini. Se racconta, ha casa nella linea retta, nello sguardo retto e prudente perché sa che la memoria è capace di uccidere come di curare.
Per questo si tiene lontana dalle parate dei reduci, indossa maglioni sformati di lana e tiene nel conto di un gracidare di rane scoppiate ogni forma di celebrazione.