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Mondo, mistica e città. Intervista a Vanni Santoni

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di Marco Zonch

[Spoiler Alert – lo scambio che segue contiene informazioni sulla trama di alcuni dei romanzi dell’autore, tra cui Terra ignota 1 e 2, L’impero del sogno e La stanza profonda]

Questa intervista si colloca all’interno di un più ampio progetto di ricerca che ha per oggetto la produzione letteraria italiana, in prosa, del periodo che va dalla metà degli anni Novanta del secolo scorso a oggi. Il tentativo è quello di affrontare i problemi connessi al cosiddetto “ritorno alla realtà” e, più in generale, le trasformazioni avvenute in questi vent’anni da una prospettiva ontologica e non, come è stato spesso proposto, attraverso l’impiego di categorie epistemologiche.

In questo senso, centrale appare essere la questione della spiritualità, pensata all’incrocio tra la riflessione di Michel Foucault e i risultati della riflessione sociologica contemporanea a proposito delle trasformazioni del panorama religioso occidentale. L’impressione, che questa intervista sembra supportare, è che molti dei più noti scrittori oggi attivi non si pongano problemi nell’ordine della possibile (o impossibile) corrispondenza tra parole e cose, tra mondo scritto e mondo non scritto, ma al contrario riflettano sulla possibilità di entrare in possesso di una verità di ordine spirituale.

Nelle risposte alle domande che, qui di seguito, l’autore mi ha cortesemente concesso, sembra inoltre possibile individuare una qualche forma di relazione tra “impegno” e spiritualità.[1]

Vanni Santoni (1978), esordisce con Personaggi precari nel 2007. Ha poi pubblicato, Gli interessi in comune (2008), Se fossi fuoco arderei Firenze (2011) Terra ignota e Terra ignota 2 (Mondadori 2013 e 2014), Muro di casse (2015), La stanza profonda (2017), finalista al Premio Strega e L’impero del sogno (2018). Scrive per il “Corriere della Sera” e dirige la collana narrativa di Tunué.

L’intervista si è svolta attraverso uno scambio di mail che ha avuto luogo tra il 30 ottobre e il 5 novembre del 2018. L’autore non è stato messo a parte della prospettiva di lavoro nella quale l’intervista si sarebbe inserita al fine di evitare l’influenza di questa sulle sue risposte. Ho tuttavia premesso che l’oggetto del mio interesse sarebbe stato di natura ontologica, e avrebbe avuto l’obbiettivo di chiarire alcuni punti problematici del lavoro che sto svolgendo.

Glossario:

RPG: Role Playing Game (gioco di ruolo), gioco “da tavolo” o videogioco in cui il singolo partecipante interpreta un personaggio, di sua invenzione o scelto tra quelli proposti dal gioco stesso. L’esempio più noto di gioco di ruolo è forse quello di Dungeons&Dragons.

Nelle versioni classiche di questi giochi i personaggi vengono abitualmente creati a partire da fattori quali: razza (umano, elfo, nano…), classe (mago, guerriero…), livello (il grado di forza del personaggio, che aumenta sconfiggendo mostri o completando specifiche missioni), allineamento (buono, caotico, malvagio, neutrale…) e da statistiche, espresse in valore numerico, quali: intelligenza, forza, destrezza ecc..

Il risultato delle interazioni tra personaggi, scontri ecc. è, in molti giochi di questo tipo, determinato dal lancio di dadi, all’incrocio con le scelte del giocatore e con le caratteristiche del personaggio interpretato.

MMORPG: acronimo di Massive Multiplayer Online Role Playing Game. Videogiochi come, ad esempio, World of Warcraft, in cui il giocatore guida le azioni di un singolo personaggio collaborando o scontrandosi con altri giocatori al fine di raggiungere alcuni obbiettivi proposti dal gioco stesso. Anche in questo caso, le caratteristiche del personaggio sono abitualmente espresse numericamente. Per esempio, un personaggio, prima di essere sconfitto, deve subire un ammontare di danni uguale o superiore ai propri punti vita.

Cyberpunk [Cyberpunk, Cyberpunk 2020]: gioco di ruolo di ambientazione distopica.

Vorrei partire da una cosa di cui, nei tuoi lavori, si parla sempre o quasi: le sostanze psicotrope. Indipendentemente dal genere testuale, che il mondo sia d’invenzione o no, mi pare tu attribuisca ad esse un medesimo ruolo assiale. Le droghe sono cioè asse, a un tempo, della narrazione e del mondo (nel senso che rimandano alla sua vera essenza). Per essere concreti, intendo dire che più di una volta l’assunzione di soma, in Terra ignota, mette in moto gli eventi e accade lo stesso, anche se certo con delle differenze, nell’Impero del sogno. Se questo è possibile, è perché i tuoi personaggi usano queste sostanze come mezzo – necessario? – a cui ricorrere per entrare in relazione con qualcosa che esiste ma che non è altrimenti percepibile, a cui non si può altrimenti avere accesso?

In Terra ignota è senz’altro vero quanto affermi, a patto che si stia parlando di psichedelici, e non di “droghe” in generale, categoria alla quale sarebbe peraltro una forzatura ascriverli. La protagonista Ailis ottiene uno stato superiore di coscienza – e anche un grado superiore di capacità magica – attraverso l’assunzione di una pozione che ricorda il soma dei Veda, e ne porta del resto il nome. Si noterà anche che il Cerchio d’Acciaio, l’ordine deviato di cavalieri che nel primo volume ha il ruolo di antagonista, sta cercando di eradicarne l’uso dal mondo, onde riservarlo a una sola casta di eletti.

Questa mia scelta deriva da una semplice aderenza storico-antropologica, sia pure virata in chiave fantasy: il soma vedico era con ogni probabilità una sostanza psicotropa – si dibatte sul suo essere stato la canapa, l’amanita muscaria, la psilocibina o un qualche decotto delle molte piante contenenti DMT – e anche nelle altre maggiori tradizioni mistiche, all’origine della comunione con gli dei (o col mondo spirituale) c’è l’incontro più o meno deliberato con qualche molecola di questo tipo. Senza arrivare alla “stoned ape theory”, che vuole l’intera spiritualità umana discendere dall’incontro degli ominidi con i funghi psichedelici, o alle teorie sul loro uso da parte dei paleocristiani, è noto che le due colonne intorno a cui si è sviluppato il nostro pensiero – quella greca e quella ebraico-cristiana – hanno avuto, nella loro componente più squisitamente spirituale, influenze di questo tipo: il ciceone dei misteri eleusini (che segnavano il massimo momento iniziatico per i cittadini) conteneva ergot, claviceps purpurea, la muffa da cui si estrae l’LSD, mentre secondo diversi antropologi il “cespuglio in fiamme” e in generale i primi contatti col divino raccontati nell’Antico Testamento avevano avuto come tramite fattuale piante quali la syrian rue, contenente DMT. Non c’è da stupirsi di tutto questo: basta guardare alla riscoperta della spiritualità avuta negli anni ’60 dalla materialista società occidentale in seguito alla diffusione di massa dell’acido lisergico. Allo stesso modo, non c’è da stupirsi del fatto che le religioni, una volta strutturate, tendano ad abbandonare il “fatto noetico” delle origini: nel momento in cui la religione è organizzata e amministra un potere anche politico, la possibilità dell’esperienza mistica non solo diventa inutile, ma addirittura pericolosa, dato che l’esposizione dei semplici fedeli al sapere iniziatico apre alla messa in discussione del ruolo di mediatore tra umano e divino assunto dal sacerdote.

Essendo Terra ignota una saga che si basa da un lato sull’intertestualità rispetto al canone fantastico e dall’altro sulla nostra tradizione mistica ed esoterica, è venuto logico inserire tali dispositivi, specie considerando che, nelle civiltà che hanno utilizzato o utilizzano psichedelici nei loro riti, questi in genere svolgono anche una funzione di iniziazione all’età adulta, che è poi ciò che capita alla protagonista Ailis con gli eventi del primo volume.

Per quanto riguarda invece L’impero del sogno, non è così. I soli agenti psicoattivi assunti dal protagonista Melani sono sonniferi e narcotici – quando realizza che per continuare il sogno che fa da “portale” per il mondo fantastico in cui è chiamato ad agire, deve dormire più ore possibile.

Si capisce dunque che tali sostanze non hanno in alcun modo la funzione di catalizzatori (non ne hanno del resto la possibilità chimica) ma sono utilizzate semplicemente per la loro funzione meccanica: far addormentare prima e più a lungo.

Nell’Impero del sogno la porta per l’altro mondo è appunto il sogno, e non si tratta di un percorso di accesso spirituale a dimensioni più elevate dell’essere, bensì di un vero e proprio passaggio, secondo una tradizione più popolare e “bassa” del fantastico. Il sogno di Melani non è in questo diverso dall’armadio delle Cronache di Narnia, serve solo ad “andare dall’altra parte”, ed ha del resto luogo anche quando il protagonista non è costretto dagli eventi a sedarsi.

Per quanto perseguita con mezzi meccanici, la volontà di sapere che cosa ci sia oltre “l’armadio”, che cosa sia il sogno, viene alla fine ripagata con un’esperienza che è, esplicitamente, descritta facendo ricorso al vocabolario della mistica (p. 102, Impero). Messo da parte l’armamentario psicoanalitico con il quale il protagonista tenta di spiegarsi, inizialmente, la natura del proprio sogno, e che nella nota conclusiva sembra assumere il ruolo dello strumento per dare ragione dell’intertestualità, la vera natura del percorso compiuto dal Mella sembra essere quella del viaggio iniziatico (p. 14, 111). Al centro, un’esperienza mistica. Mi riferisco al volto della bambina che incontra nel sogno per la cui descrizione, appunto, «Servono emblemi da mistico » (p. 102).

Una cosa è quanto accade nel romanzo, un’alta il modo in cui è descritto, e i dispositivi a cui si ricorre per farlo in modo efficace. Che L’impero del sogno abbia anche una chiave lettura esoterica, non c’è dubbio. Detto questo, è necessario considerare che la teofania di Melani non avviene a fine romanzo, come culmine e risoluzione di un percorso, ma a metà di esso, come inizio di un percorso invece nuovo e differente. Allo stesso modo, il lettore per così dire “introdotto” noterà che un percorso iniziatico completo avviene già nei prodromi del suo sogno, quella parte che non viene neanche narrata direttamente, ma raccontata da Melani all’amico studente di psicologia Iacopo Gori.

Quel dialogo iniziale ha pertanto una doppia funzione: da un lato permette, appunto, di archiviare le letture psicanalitiche per lasciare campo libero al fantastico; dall’altro suggerisce che già l’arrivo in quello spazio che Melani vede come un palacongressi è il compimento di un primo, e completo,  percorso iniziatico. La teofania giunge poco dopo, e non è “guadagnata sul campo” – né pienamente compresa: non c’è infatti integrazione, per dirla con Jung. Per quanto il suo voto al congresso, e quindi la sua assunzione di responsabilità, risulti in ultima istanza decisivo, Federico Melani si vedrà assegnata la bimba-dea per via di una sorta di complotto: alcune delle delegazioni scelgono lui per evitare di farla finire nelle mani di altri dai quali sarebbe più difficile poi strapparla. Ne consegue che la visione delle pp.102-104 non è tanto portatrice di un valore simbolico quanto, paradossalmente, di uno realistico: siamo di fronte a un ragazzo che per la prima volta guarda in faccia una dea. Come descrivere ciò che esperisce? Servono, appunto, “emblemi da mistico”, e dunque per rappresentarla in modo efficace ho attinto al mio bagaglio conoscitivo ed esperienziale in quest’ambito. Lo scopo finale del viaggio di Melani – che di fatto comincia lì – è del resto di altro registro: dopo aver compreso che gli immaginarî che ha frequentato possono aiutarlo a sopravvivere nella sua inattesa avventura, successivamente capirà anche che per diventare “davvero adulto” dovrà anche smantellarli, anzi distruggerli uno per uno, come ben mostrava Pintarelli in questa recensione uscita su Esquire. Per questo, credo, L’impero del sogno è stato visto da alcuni anche come la storia di un ritorno alla realtà.

Aiutami quindi a capire: se l’intertestualità, che va da Berserker di Kentaro Miura ai manuali di Cyberpunk, viene spiegata come “accidentale”, come riuso di figure per la costruzione del sogno, al contrario l’esperienza mistica (o spirituale) è qualcosa a cui l’essere umano può avere accesso; sia attraverso l’aiuto di psichedelici sia senza. Come dire, se i mondi che racconti sono d’invenzione, non esistono davvero, l’esperienza mistica al contrario esiste, è reale ed è inoltre portatrice di una certa carica anti-istituzionale.

Sono contento che all’Impero del sogno venga riconosciuta questa natura intertestuale, del resto qui molto visibile (non ve ne è tuttavia meno, ancorché più nascosta, in altri miei lavori di altro tenore, come Muro di casse o La stanza profonda: è una modalità che mi interessa sia perché qualunque espressione testuale è in ultima istanza intertestuale, sia perché il crollo ormai definitivo delle barriere tra generi (per non parlare di quelle tra le forme) apre nuove possibilità e pone nuove questioni in tal senso. La natura intertestuale di questo romanzo nasce però da esigenze del tutto pratiche, che poco hanno a che fare con l’omaggio a immaginarî che pure ho amato. Come è noto, per quanto evolutosi in modo autonomo, e per quanto accostato da molti, per il modo in cui affronta il nostro rapporto con gli immaginarî, a due miei romanzi realistici quali appunto Muro di casse e La stanza profonda, L’impero del sogno nasce come prequel dei due Terra ignota, romanzi fantasy usciti per Mondadori nel 2013 e 2014. Quella saga era invece pensata proprio come un omaggio al fantasy che avevo praticato, da lettore di romanzi e fumetti, spettatore di film, cartoni animati e serie, videogiocatore e giocatore di ruolo: mi interessava in particolare ripercorrere tutte le suggestioni di quelle opere, ritrovando però un collegamento forte – che mai era svanito, ma che molti facevano finta non esistesse, per via di un diffuso, e oggi in via di dissipazione, pregiudizio nei confronti del fantastico – con il canone fantastico “alto”, dal mito arturiano all’Ariosto, fino al Calvino delle Città invisibili. Tutto questo, che bene esplicita lo storico del fantasy Edoardo Rialti in questi due pezzi, è stato apprezzato e dibattuto, ma mi lasciava con un problema di ordine ontologico: perché quel mondo, il mondo di Terra ignota era così? Dal punto di vista del lettore – della nostra realtà se vogliamo –, la risposta era pacifica: perché l’autore di quei libri aveva letto determinati romanzi e fumetti, aveva guardato determinati film, serie e cartoni, aveva giocato a determinati giochi; ma da dentro, la domanda restava senza risposta. Ho lavorato allora alla costruzione delle premesse cosmologiche di quel mondo: il suo seme, l’Imperatrice che emana il mondo di Terra ignota sognandolo, altri non è che la bimba dell’Impero del sogno, che sogna quel mondo là (e non un altro) perché, nel periodo passato “presso di noi”, quando Federico Melani e Livia Bressan – ecco una sorta di sacra famiglia postmoderna, come ha notato di nuovo Rialti – dovevano difenderla dagli assalti delle varie delegazioni, ha avuto accesso alle “cose da nerd” di Melani e ai libri di esoterismo, storia e filosofia di Bressan.

Circa la carica anti-istituzionale dell’esperienza mistica,  premesso che non liquiderei come “inesistenti” i mondi creati dalla letteratura, da altri medium o anche soltanto dall’immaginazione – Plotino, Śaṅkara e Schopenhauer possono dirci qualcosa in tal senso – parlerei più di una sua extra-istituzionalità o sovra-istituzionalià: nel momento in cui la questione si sposta fuori dall’esperienza sensibile comune e la trascende verso un senso ulteriore, è inevitabile che gli affari degli uomini – o, peggio, le catene e. i gioghi che incessantemente creano e affibbiano a se stessi e a i loro simili – appaiano risibili.

Visto quello che mi dici, più che di un ritorno alla realtà parlerei di un ritorno alla città: nel senso che l’accesso al vero, l’esperienza di iniziazione, è ciò che in qualche modo premette la presa in carico di compiti che sono, in senso ampio, politici. Il percorso di Melani, dopo la sua “vittoria” ai voti e dopo aver visto il volto della dea-bambina, è un percorso di lotta. Combatte contro coloro che vorrebbero impadronirsi della bambina e usarne il potere per i propri scopi. Melani non sceglie, però, una delle parti e, anzi, alla fine si trova a combattere con la società stessa (p. 270, Impero).

È vero quello che dici, ed è altrettanto vero che Melani – spero che questa intervista abbia dei doverosi “spoiler alert”! – alla fine trova nell’Uomo in camicia, capo di quella che si rivela essere la delegazione più insidiosa, un possibile specchio del sé futuro. Una incarnazione, o se vogliamo allegoria, del minimo di compromessi necessario ad avere una qualche posizione nella società. E Melani, nello sconfiggerlo, sì, ma con un seppuku, esprime un rifiuto anche rispetto a questo, e non solo ad aspetti della società più facilmente condannabili, rappresentati dagli altri delegati. Anche per questa ragione non volevo che quello di Federico Melani fosse un tradizionale percorso di illuminazione: il suo è un percorso di rifiuto assolutamente radicale. Non etichettabile, anzi, come nichilista, solo in virtù del fatto che  a partire da tale sacrificio, Gemma potrà generare un mondo. Che questo derivi dall’appartenenza di Melani a una generazione a cui è stata negata qualunque possibilità rivoluzionaria? È possibile. Daniele Giglioli ha scritto che Muro di casse e La stanza profonda raccontano le nicchie dove è andato a nascondersi il desiderio utopico contemporaneo, altrove bandito: dato allora che, come si è detto, per i suoi temi (e, credo, anche per ragioni puramente cronologiche, da cui l’autore non riesce mai a prescindere del tutto) L’impero del sogno finisce per costituire una involontaria trilogia con questi due romanzi, più che con quelli a cui è narrativamente legato, non escluderei questa lettura.

Vorrei fare un passo indietro e ritornare alla questione dell’intertestualità, del worldbuilding. Se, da un lato, i mondi di Terra ignota e dell’impero del sogno, assomigliano a quella degli isekai – un genere nipponico in cui uno o più personaggi si ritrovano ad abitare il mondo di un videogioco, un mondo fantastico ecc. fattosi in qualche modo reale ma che spesso ha regole “fisiche” e sociali da mmorpg https://en.wikipedia.org/wiki/Isekai – dall’altro tu accosti a questa “giocosità ontologica” (B. McHale) tutta una serie di problemi, anche questi ontologici, nient’affatto playful. Faccio riferimento a una cosa che hai detto prima, sull’impossibilità di liquidare come inesistenti i mondi dell’immaginazione. Ma anche ad una certa idea che si ritrova nella Stanza profonda, di parallelismo tra dungeon, tra stanza profonda, appunto, e inconscio, al gioco come rito (p. 108, 109 stanza): qual è il rapporto tra il fantastico e il nostro quotidiano? In che rapporto stanno, tra loro, i mondi creati dalla letteratura, i mondi del gioco ecc. e le esperienze spirituali che racconti?

In Terra ignota sono presenti elementi che possono ricordare un videogioco o un gioco di ruolo anzitutto per ragioni di influenze transmediali, che nel fantasy si fanno anche più pressanti. È chiaro che quando si portano elementi da un altro medium, sia esso ludico, video o di altro tipo, in un testo scritto, si tratta, sempre, di un lavoro di “traduzione”, non di semplice riporto. Questo è quello che ho cercato di fare in quei due romanzi, dove la gamma delle influenze è davvero molto ampia: c’è Ariosto come Dragon ball, c’è il Mahabarata come il cinema di Milius e Boorman, e appunto videogiochi come Ultima o Zelda. Tale lavoro di traduzione richiede un’azione su tutti gli elementi, tale che possano stare assieme in modo armonico: per questo, ad esempio, Ailis, Brigid e le altre figlie del rito a volte appaiono tridimensionali, vive, altre più simili a personaggi di un manga che a persone vere, altre “larger than life”, come eroine del mito, e altre ancora più – diciamo così – “pixelate”, come fossero sprite di Final fantasy IV o Chrono trigger: hanno questa capacità di fluttuazione proprio per poter reggere una parallela varianza delle modalità operative e di rappresentazione del mondo in cui si muovono.

Nell’Impero del sogno, più specificamente nella seconda metà (ma non dimenticherei che, nella prima, il sogno di Melani, pur rifacendosi a tutt’altri immaginarî, ha caratteristiche strutturali simili a quelle di un MMORPG), l’influenza videoludica è più netta e deliberata: anche per questa sua centralità non volevo che fossero semplici omaggi, così ho rifuggito il citazionismo, per provare, piuttosto, a creare scene che assomigliassero a un videogioco anzitutto nella loro impostazione strutturale.

È vero che nella Stanza profonda e in Muro di casse si mette l’accento sulla dimensione rituale insita in fenomeni apparentemente molto diversi quali i giochi di ruolo e i rave party: per quanto in entrambi i casi si tratti di espressioni di liberà, anzi di vere e proprie epitomi della libertà, non si può non notare come alla base ci sia comunque un sistema codificato di regole e apparati rituali, che vengono liberamente scelte e accettate dai partecipanti, non imposte, ma che comunque organizzano l’entropia della “pura” libera espressione del sé entro forme simbolicamente coerenti, innalzando così la portata esplorativa, introspettiva e sperimentale dell’esperienza, e portandola dal semplice intrattenimento verso altri e più significativi ambiti dell’esperire umano.

Credo che sulla funzione salvifica dell’immaginazione, e sul modo in cui determinati medium e determinate esperienze possono attivarla, dica molto, e in modo molto acuto, questo pezzo di Antonella Francini scritto per Alfabeta2 proprio a partire dalla Stanza profonda e dall’opera intertestuale per antonomasia, La terra desolata di T.S. Eliot.

L’immaginazione, indipendentemente dalla forma – romanzo, film, videogioco ecc. –, ha insomma qualcosa a che fare con la salvezza, personale, prima, e collettiva poi?

Quello del potere salvifico dell’immaginazione è un tema classico della narrativa fantastica e non solo. Come detto, rimando all’articolo linkato poco sopra chi volesse approfondire questo aspetto dei miei lavori. Vale la pena però dire che quando si passa a una dimensione collettiva, non tutti gli immaginarî – e, soprattutto, non tutte le modalità di produzione di immaginario – sono uguali: nel momento in cui non si è soli con la nostra mente (o la nostra anima), ma sono in ballo interazioni con altri, risulta più significativo ciò che, come i giochi di ruolo o i free party, aiuta a disegnare nuove modalità di relazione umana attraverso logiche cooperative e inclusive, piuttosto che competitive e divisive.

È questo uno degli obbiettivi della tua scrittura? Intendo dire: pensi alla scrittura come a un modo per produrre comunità, o per offrire esempi di modi di essere alternativi a quelli della competizione?

È fondamentale per me sottolineare come queste considerazioni siano tutte fatte a posteriori, e in buona parte derivanti da riflessioni che altri hanno fatto sui miei libri. Non credo che l’arte debba avere obiettivi programmatici. Cerco di scrivere quello che voglio, nel modo che voglio, a partire da temi che mi interessano, esperienze che ho vissuto e altri libri che ho letto, e di farlo nel miglior modo possibile, secondo le mie capacità e le esigenze della vicenda. Al massimo, in alcuni casi, come quelli di Muro di casse e della Stanza profonda c’è la volontà di storicizzare un certo fenomeno e rifletterci sopra. Solo quando il libro è finito, è opportuno – e a dire il vero neanche necessario – che l’autore rifletta sui significati che quello cela: nelle arti, pensare prima a possibili obiettivi o messaggi da far pervenire, peggio che mai se politici (anche se positivi e/o in buona fede), è dannoso.

[1] Ho pubblicato alcuni dei risultati di questa ricerca, a cui mi permetto di rimandare, qui: M. Zonch, Il testimone di fede: verità e spiritualità nella narrativa di Saviano, in «Incontri. Rivista europea di studi italiani», 32(1), 2017. DOI: https://doi.org/10.18352/incontri.10206

Tempi bui per la storia

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di Giorgio Mascitelli

Tra i frutti che la sua luminosa vita ci offre il deciso impegno di Liliana Segre per evitare il ridimensionamento dello studio della storia nella scuola non mi sembra certo il meno importante. Non deve ingannare l’apparente minuzia dell’oggetto del suo intervento, ossia l’eliminazione del tema storico dalle prove per l’esame di maturità, perché Segre ha colto perfettamente che esso non è che la spia di un progressivo ridimensionamento dell’insegnamento della storia nell’ambito di una riduzione di tutte le materie ‘inutili’ alla formazione del perfetto lavoratore e del perfetto consumatore.

Sarebbe bello poter affermare che questo provvedimento è opera esclusiva del ministro dell’istruzione Bussetti e dell’attuale governo, ma la verità è che questo disegno viene da lontano ed è connesso all’idea di una scuola retta dalla pseudo razionalità economica promossa dall’Unione europea, dall’OCSE e dalle politiche bipartisan di tutti i governi precedenti, in particolare dalla riforma della Buona scuola. In questa prospettiva la scuola deve fornire solo competenze utili al mercato del lavoro e, in questo contesto, lo studio della storia è fatica sprecata. Coloro che ora denunciano da Bruxelles la diffusione dell’antisemitismo e di altre forme di odio razziale sono spesso quelli che hanno lavorato per creare una scuola totalmente incapace di difendere la memoria storica, magari pensando e perfino affermando esplicitamente che oggi per informarsi su questo genere di cose basta andare su internet.

In una società democratica lo studio della storia è fondamentale innanzi tutto perché la conoscenza di alcuni eventi, specie del passato recente, è essenziale per esercitare consapevolmente i propri diritti di cittadinanza; inoltre è altrettanto significativo mantenere la memoria dei conflitti che hanno attraversato una determinata società non perché essa offra risposte ai problemi odierni, ma perché ricorda che la democrazia non è un dono del Cielo o un dato di natura, ma è storicamente nata per rispondere in una maniera più avanzata ai conflitti del passato. E’ lecito avere il sospetto che in una società in cui la scuola è pensata unicamente come una variabile della competizione economica questo genere di preoccupazioni non esista nemmeno nei governanti.

Lo statuto della storia nella nostra società è quanto mai pericolante, in quanto il suo studio non è riducibile a metodologie quantitative, alle quali si sono riconvertite numerose scienze sociali nel tentativo di assomigliare il più possibile alle scienze naturali assecondando i criteri epistemologici di origine neopositivista oggi dominanti,  e non è nemmeno utile come disciplina da smerciare sul mercato. La scuola postmoderna, la scuola che è considerata di qualità secondo gli indicatori creati dagli economisti, la buona scuola in una parola, si adegua a questa visione dominante della statuto della storia e ne riduce il peso o addirittura la elimina. Dunque l’unica possibilità per la storia è quella di una scuola che dia importanza all’educazione ai valori di cittadinanza, ma una delle questioni del nostro tempo è se le classi dirigenti italiane ed europee siano poi molto interessate a formare dei cittadini.

Naturalmente una caratteristica saliente del nostro tempo quale il ritorno del razzismo, non in senso antropologico, perché questo vi è sempre stato, bensì come dato politico, non è certo connessa con i destini della storia come materia scolastica, ma il quadro ideologico entro cui questo ritorno del razzismo politico è stato possibile è sicuramente legato a questa marginalizzazione della storia. Liliana Segre, nella sua intervista a Repubblica del 26 febbraio scorso, ricordava che è concreto il rischio che, tra un po’ di anni, molte persone scambino il Colosseo per un’opera pubblica di quarant’anni fa non completata: oserei dire che quello che per la senatrice è un rischio da evitare, per molti è un obiettivo da raggiungere. Infatti chi non è in grado guardare nella sua giusta prospettiva storica il Colosseo, probabilmente non è in grado di guardarvi molte altre cose e questo potrebbe rivelarsi un buon affare per chi guarda il mondo dalla prospettiva di una business school di prestigio.

 

 

 

 

Il retro tace: l’Enciclopedia Asemica di Marco Giovenale

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[ Pubblichiamo alcune partiture asemiche tratte dalla nuova opera di Marco Giovenale, “Enciclopedia Asemica”, insieme ad un frammento di un’intervista all’autore presente tra i contributi testuali. Nell’introdurre il volume, Giuseppe Garrera scrive:« Si tratta di essere e di continuare a stare nella parte sbagliata: di essere nel retro, come non si è stancato di ripetere Corrado Costa: il retro della poesia, il retro del discorso, e continuare a sbagliare, a essere (« testoni e cocciuti ») nella parte sbagliata (il retro tace, non dice niente del discorso, è il retro).» ]

 

Marco Giovenale: «[…] Ciò detto, mi azzardo a pensare – sperando di non cadere nell’improvvisazione paleoantropologica – che una qualche forma di ‘tendenza asemica’ possa forse essere individuata e collocata già addirittura alle origini prime della specie (umana), come modalità e modulazione della tendenza a incidere linee e segni astratti / distratti; a operare senza scopo; a lasciare tracce che vadano oltre qualsiasi significato fisso. Molto prima che qualunque codice scritto (e forse parlato) compaia all’orizzonte. Le tracce quasi ‘urgono’, premono per venire impresse dentro la creta oggettuale. Prima ancora che si possa anche solo inconsciamente sospettare che un atto di produzione di significato sia all’orizzonte, esse già in qualche modo attendono una mano che le scriva. La (non) categoria o area ‘scrittura asemica’ (asemic writing) -in quanto ombra sfocata dall’inclinazione umana verso il mero atto materiale di produrre segni e glifi liberi – ha un’età indeterminabile, antichissima. Ovviamente, il lignaggio in grado di incarnare / trasmettere più di altri i valori di una ur-tendenza come questa è stato quello delle madri. Tale linea ha avuto successo in questo, grazie cioè alla propria differenza rispetto all’ossessione del linguaggio, della pienezza del significato, dei sacri poteri della Parola: ossessione governata da maschi.»

Maggiori informazioni sull’opera  possono  essere trovate a questo link.

 

 

 

Quando ho bevuto una Tennent’s alle due di pomeriggio

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di Yari Riccardi

(situazione)

Mezza giornata. L’unica ditta che il 29 giugno a Roma decideva bellamente di trascurare i reverendi santi Pietro e Paolo e di restare aperta, seppur fino alle 14, era la mia. Quel giorno le attività nell’agenzia di onoranze funebri dove lavoravo, dopo le esequie del mattino, si erano improvvisamente fermate.

Così, borsa a tracolla, dopo aver preso nota dell’ultimo necrologio degno di interesse, esco dal mio ufficio con vista Ospedale San Giovanni. Vengo travolto dal sole di Via dell’Amba Aradam. Giacca nera poggiata su una spalla, occhiali da sole e sigaretta in bocca, mi dirigo verso Villa Celimontana. Lì avrei aspettato le 20, quando sarebbe arrivata Irene.

Mi piace lì. Mi piace perché non è caotica come Villa Borghese, non è radical chic e piena di punkabbestia come Villa Ada e non è snob come Villa Torlonia. Ci trovi i romani. Così prendo un fiore per Irene da Rosario – nomen omen – e una Tennent’s da Amin, da bere a digiuno e sotto il sole per sottolineare la mia ancora giovane età.

Entro nel parco, scorgo una panchina e a passo lento mi ci dirigo. Ingollando un altro, terribile, sorso di birra, crollo, non prima di aver tirato fuori il libro che avevo in borsa.

Passano le ore, che a me sembrano minuti, e mi ritrovo con il libro in faccia e la giacca sporca. Mi alzo, non senza fatica. Mi accendo una sigaretta. Mi riprendo la borsa a tracolla, il libro caduto per terra e vado verso il banco dei libri vicino al bagno. La birra e la prostata a una certa età non vanno d’accordo, così sento di dover accelerare il passo. Sono le 16 e 30, Irene arriverà tra tre ore abbondanti, e non la posso neanche chiamare, sta in consiglio comunale. Lei assessore alla felicità, io becchino. Siamo ovviamente fatti l’uno per l’altra.

Rivolgo la mia attenzione al banco dei libri. Apro, guardo, leggo, metto da una parte, ributto nel mucchio. A un certo punto una sensazione strana. Due occhi mi puntano, mi scrutano, mi osservano. “Sono il solito paranoico del cazzo”. Tiro fuori una sigaretta dalla tasca, la metto in bocca e faccio per accenderla. Una fiamma davanti a me. Non è il mio accendino.

(complicazione)

Un uomo di mezza età, baffi e capelli brizzolati. “Lei – prosegue lo sconosciuto – è Saviano, vero?”.

Ora, in effetti una certa somiglianza c’è. La barba, la testa pelata, l’occhio un po’ a mandorla. ”No, evidentemente no!”: sorrido cortese e me ne vado.

Sudo e me ne vado verso la mia panchina. Deciso a immergermi nella lettura, apro il libro che avevo portato – L’Ombra del Vento, di Zafon – e mi riprometto di non alzarmi fino all’arrivo di Irene. Mi corrono incontro due ragazzi. “Robè, ma ‘ca ‘ce faj’ ‘a Roma ? ‘A scort’ ?”. Basito, non trovo la forza di rispondere. Fanno la foto, mi abbracciano e se ne vanno. Tutto molto strano.

Apro Facebook dal cellulare. “Che ci fa Saviano vestito da Iena a Roma?”: la foto sulla pagina di Libero, quello sono io mentre esco dal bagno della Villa.

Mi serviva la prova del 9. “Il buonista Saviano fa il punkabbestia” (Matteo Salvini)

Cazzo. Sono Saviano”.

Comincio a camminare, in preda all’ansia e alla Tennent’s. “A merda, hai finito di campà a spese nostre?”, me lo dice un giovanottone con una croce uncinata sulla guancia. E’ un seguirsi di incoraggiamenti, insulti, pacche sulle spalle e sguardi torvi. Dovrebbero essere le 19 e 30, sembra mezzanotte. Mi fermo per riprendere fiato. Mi appoggio all’obelisco. Sento qualcosa di freddo sulla tempia.

Mo t’accir’”. Davanti a me una faccia vista solo su Fox Crime, nei tg, sui giornali. Davanti a me c’era Francesco Schiavone. Sandokan, i Casalesi. Gomorra. Mi colpisce sulle gambe, sono costretto a inginocchiarmi. Mi punta la pistola alla nuca. Immagino già i titoli dei giornali.

Un raggio di luce distrae il boss. Attendo una manifestazione dell’Onnipotente – anni di onorato servizio come chierichetto a qualcosa dovranno pur essere serviti – e mi preparo a una vita di redenzione in convento. Intorno il vento si mette a cantare “Che coss’è l’amor” di Vinicio Capossela. Dal raggio emergono 10 persone incappucciate. Quello davanti si rivela. “Francè, mo’ ‘a rutt’ o’ cazz’. Ce l’amma juocà ‘a pallon’ . Si vincimm’ tu te ne vaj’ a’ fancul’, assiem’ ‘e cumpagn’ tuoj’”. A parlare adesso è Saviano, quello vero. Mi abbraccia. Schiavone manda un messaggio dal cellulare. “V’accir’ ‘a tutt’ e’ doj’, sti fetient’!”. Escono 10 persone da non si sa dove. Ci sta uno uguale a me, solo con i capelli, muscoloso e magro. Mi guarda con aria di sdegno. Con lui ci stanno i cattivi per definizione. Erode, Hitler, Voldemort, Gargamella, Sauron, Darth Vader (senza respiratore), Totò Riina, il sergente Hartman e Ivan Drago. Ma Saviano non sta a guardare. Ecco che tutti si tolgono i cappucci. Gesù (che è uguale a Batistuta, come ho sempre sognato), Bob Geldof, Beppe Bigazzi, il subcomandante Marcos, Mario Magnotta, Fabrizio Frizzi, Gianni Morandi, Papa Francesco e il bidello Bruno (mi dava le sigarette a ricreazione). Sarà Buoni contro Cattivi.

Dal prato dietro l’obelisco spuntano fuori due porte. L’arbitro è un turista tedesco assoldato da Schiavone con la minaccia di legarlo sotto le Vele con il cartello Odio Napoli. I Cattivi partono forte. Il mio alter ego è ovviamente un funambolo. Il direttore di gara finge di non vedere i continui falli che subiamo. Solo io, Saviano e il Santo Padre tentiamo di ragionare, ma all’intervallo il punteggio è di uno a zero per loro. Torniamo in campo, mancano dieci minuti al termine. A un certo punto Bigazzi rilancia verso l’area avversaria, Roberto viene messo a terra ma si rialza e allarga verso Marcos, cross per Morandi, sponda di Gesù e rete di Magnotta. I due si abbracciano, sancendo finalmente la pace. Siamo pari. Sappiamo di potercela fare adesso. Bruno ruba palla a Erode, la allunga a Gesù che con un doppio passo si lascia dietro mezza squadra avversaria, palla a Roberto. Tunnel a Schiavone – ”Schifus’”, grida il boss, visibilmente affaticato – e cross verso di me. Stoppo di petto, guardo la porta. Ci sono io tra i pali. Io con i capelli. La palla tocca terra. Guardo il me stesso a venti metri. “O’ Sandokàn, ma vaffancul’!”, grido, in preda all’influenza del vicino Saviano. La palla si infuoca ed entra in porta, i Cattivi spariscono e il campo viene circondato dalla Digos, che si è venuta a riprendere Schiavone.

(risoluzione)

Irene mi trova mentre corro nel prato dietro la panchina dove ero crollato causa Tennent’s. Corro come Tardelli nel 1982. Mi guarda divertita e rassegnata. “Quante volte ti ho detto che non devi bere questa birra a digiuno, che sei anziano e certe cose non le puoi più fare?”. Io le racconto tutto, di Saviano, della partita, di Schiavone. Di Magnotta che ha finalmente avuto il perdono di Gesù. Ma lei niente, non mi crede. Mi prende per un braccio e torniamo verso il banco dei libri. Mentre lei guarda i volumi, io tento di riprendermi. Guardo in basso. C’è Gomorra. Il Saviano stampato sul retro mi fa l’occhiolino. Un pallone mi rotola vicino il piede. Lo prendo in mano. C’è una scritta. “Sii felice d’essere tu, così come sei”. Lo rilancio ai ragazzi che ci stavano giocando. C’è uno pelato che mi sorride. E’ vicino a uno con i capelli che mi somiglia. Torno da Irene. “Yà però basta Tennent’s. Soprattutto alle due di pomeriggio”.

 

 

Carles Riba – Elegies de Bierville – Elegia III

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trad. isometra di Daniele Ventre

A Joan ed Elizabeth

Era così triste amore all’ombrata riva motosa
degli assopiti ricordi, e solo all’oscurità
degli usignoli -oh realtà soavissima, certa, certa,
canto assoluto, oltre l’alba a lacerarti- così
pallido tra la corona profonda dei tigli -cristallo
di primavera, però, solo in altezza -che offrì
mare, a ossessione, che fosse la stella più pura, se c’era,
e ci premesse anche il Tempo, ed il pensiero, che va
alto su schiuma errabonda, inventasse innumeri uccelli,
gai cavalieri che al suo vento lo seguitino
candidi! Finché oltre le isole un’isola verde ci ha presi,
verde così come quanto impeto in terra si dà
dolce e ostinato di farsi oltre l’ombra luce con luce,
dentro lo spazio indeciso onda per onda laggiù
si coronasse -negli occhi, nell’anima. Come più forte
oltre un più occulto occidente era la sua soavità;
lirico canto che innalza all’estremo abrupto del sogno,
sull’inumano orlo mondo e voce terminano!
Di nuovo ha me il vecchio parco: come un prigionero destino
le acque monotone in là dai versi scivolano,
non la ricordo di vista, ma più come la prevedevo,
più pura e ricca che gioia del mare, la novità,
l’ultimo fiotto smeraldo alla rotta notturna. Ma ancora
con più innocenza così tante parvenze, e così
tanto impensabile senno mi sono innovati e racchiusi
dentro il fervore dei due amanti di gioventù,
che nel bel cuore dell’ampia fumosa città ci hanno aperto
un paradiso di piume e rischio e di voluttà.
Dolce mi è intendere che tra i felici sono graditi
alle deità quelli che vollero come deità
sotto il giaciglio amoroso l’instabile flutto e nel berne
risa, quei venti che il gran mare delimitano.

io non sono LIBERATO – un estratto

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ph. Gianni Valentino
ph. Gianni Valentino

[Nel 2018 è uscito per Arcana edizioni io non sono LIBERATO di Gianni Valentino. Pubblico l’inizio del terzo capitolo, dal titolo “CODICE neomelodico-neomelò”.
© Lit edizioni Srl 2018. Per gentile concessione]

di Gianni Valentino

Si teorizza che nel suo avventuroso carnevale su lidi pop, dub, electro, soul, LIBERATO abbia saputo plasmare anche dosi di musica neomelodica, rendendola cool. Da munnezza a tendenza, da trash a gorgeous. Nelle sei tracce le capriole narrative dell’artista vanno a braccetto con l’altalena ritmica, scavalcando generi e suggestioni, amarcord e revival. Il regista dei suoi videoclip, Francesco Lettieri, afferma che nella musica del munaciello non c’è niente, niente di niente, che sappia di neomelodico. Eppure sono proprio alcuni dei fan più infervorati e caparbi a sostenere che tale componente c’è. Eccome se c’è. Lo dichiarano a ripetizione parecchi intervistati – autori, musicisti, cantanti, producer, rapper, di differenti background e generazioni – senza peraltro farlo con violenza o rimprovero, né astio né cattiveria. È un dato di fatto, pacifico. Allarma, per certi aspetti, la negazione che il regista esclama ogni qualvolta riviene a galla questa ipotesi. Chissà se per il timore o per l’ignoranza del tema.
Sul piano teorico può valere un assunto: sono canzoni neomelodiche le canzoni che adoperano lo spudorato linguaggio del popolo. Canzoni che non hanno la propria sorgente nelle evoluzioni della tradizione orale (Raffaele Viviani, prezioso cantastorie, compositore, drammaturgo sebbene analfabeta e non dotto del pentagramma) e/o rurale e che, al contrario, sono in qualche modo figlie bastarde del linguaggio metropolitano della sceneggiata. Canzoni accompagnate da testi e musica superficiale, approssimata, o enfatica/patetica; strutturata su plateali melismi mediterranei. Slabbrate nell’interpretazione. Allora potrebbero essere valide una serie di considerazioni consequenziali. Prima, però, sono obbligatori un paio di flashback. Lettieri afferma che LIBERATO adopera e dosa una lingua napoletana che è stata trascurata. Così dice – 8 giugno 2017 – alla giornalista Laura Aronica che lo intervista per la testata francese «Clique.tv»: «A partire dalla citazione alla Tammurriata nera, LIBERATO canta in napoletano proprio quando questa lingua è stata abbandonata. Parla un dialetto molto classico, molto tradizionale». Per rinvigorire la sua posizione val la pena sommare la risposta fornita da Lettieri alla giornalista Valeria Montebello del sito web «Linkiesta.it». All’interrogativo «Cioè: napoletano/neomelodico ma con suoni ipercontemporanei e parole tipo ‘visualizz’?». Lettieri precisa quasi offeso: «No neomelodico please. Tu t’e scurdat’ ’e me è una canzone in dialetto napoletano. Il neomelodico è un’altra cosa e io non ci trovo niente di simile a Liberato se non la lingua. Al limite ci trovo qualcosa della musica melodica napoletana».
E be’, se davvero la lingua di LIBERATO fosse tradizionale e rigorosa, e/o arcaica, non fermerebbe su carta grumi di locuzioni-slogan-slang ultra popolari qual è “Stong’ tutt’ I love you” (a indicare una fase di sbandamento, eccitazione, cupezza). O, altrimenti, “ma che so’ ’sti tarantelle?” (perché provochi sempre litigi?). E non sbaglierebbe certo l’accento/l’apertura delle vocali nel riproporre in napoletano cardini geografici come Mergellina. Del resto conta, sopra ogni altra congettura o tesi, la frequentazione e l’interiorizzazione che ciascuno di noi fa della propria lingua-madre, ufficiale o storpiata, assimilata in ore casalinghe e ore di strada; viaggi, bar, cortei, camminate nei tanti quartieri e esperienze trasversali tra i ceti sociali. E allora Mergellina deve diventare Margellin’ in napoletano così come il pronome tue – associato a le parole tue – si traduce toje, non tuoje. L’inciampo e l’assenso tra il cantante e il regista collima nel fatto che Lettieri concorda con LIBERATO che tue possa essere interpretato con tuoje. E allora l’indovinello è risolto. La frequentazione e l’alfabeto dell’artista invisibile con la lingua napoletana è parziale, accidentata. È vero che ciò accade ai più, a coloro che pur senza possederne i segreti desiderano esprimersi nella lingua della propria terra. Ma buonsenso vorrebbe che i fondamentali (per usare un termine calcistico caro a LIBERATO) non manchino. Sennò il gioco muore presto.
C’è altro da tenere a bada. L’emozionalità esasperata dei testi in rima, le modalità di pronunciare i suoni delle consonanti, l’intonazione e le doppie, l’approccio al tenore delle storie che racconta. LIBERATO possiede un concentrato altamente melodrammatico, ipersentimentale. Neomelodico, ça va sans dire. A questo punto bisognerebbe chiedersi: cos’è neomelodico e cosa non lo è?
Nino D’Angelo è conosciuto da chiunque abbia un briciolo di familiarità con l’universo musicale da almeno trent’anni. Ebbene lui proclama che il suo primissimo e reale grande successo discografico, Nu jeans e ’na maglietta, compendi la genesi della presunta neomelodia: espressione delle classi subalterne e non colte. Nu jeans e ’na maglietta trattasi di canzone melodica e pop composta in lingua napoletana del popolo che canta fatti e sentimenti amorosi. Facili facili, sbrigativi. Appartiene a una categoria che si racconta, deflagra, insiste nella sua enfasi e la grida verace. Fino a inghiottire le reazioni altrui. È così concreto, autoctono eppure inafferrabile, il fenomeno neomelodico, che certi addetti ai lavori del panorama musicale – non napoletani: ma qui s’aprirebbe una voragine ed è bene chiuderla subito – definiscono totalmente|seriamente neomelodico addirittura Enzo Savastano. L’interprete di Reggae neomelodico e Una canzone indie, per capirci. Senza nemmeno riflettere al fatto che Savastano – che altri non è che il personaggio creato ad hoc da Antonio De Luca e Valerio Vestoso, quest’ultimo regista del documentario Essere Gigione – è la parodia gentile di quel segmento. E da quel segmento dilata la sua parodia/satira sino alla galassia indie-pop e indie-reggae italiana (nel testo di Una canzone indie convivono Tommy Riccio, Calcutta e Brunori Sas). Persino i registi romani Manetti Bros., dovendo preparare la sceneggiatura del lungometraggio Song’ ’e Napule chiesero al fu Fausto Mesolella e a Peppe Servillo (componenti degli audaci Avion Travel, autori di una sofisticata chanson pop-ambient-prog) di imbastire canzoni neomelodiche appositamente per il loro film, da affidare poi all’ugola del protagonista Lollo Love interpretato dall’attore Giampaolo Morelli. Ma anche in questa circostanza si ragiona per coscienza. Si sa di voler creare una tipologia di canzone/sonorità/ricezione che nel tempo è stata cristallizzata (vilipesa? confusa?) come tale e si procede liberi in questa carreggiata. Sennò anche uno come Speranza – Givova, Chiavt a mammt, Sparalo, Spall a sott; Spall a sott 2 e Spall a sott 3 – in arrivo da Caserta andrebbe incluso in questo scompartimento. Lontano da Napoli, comprendono la differenza? La comprendono, a Napoli? È sempre e ovunque musica napoletana tout court? È musica napoletana classica, pop, alternative, neomelodica?
È tutto autoctono o è roba esotica?
Chi riesce a distinguere cosa è neomelodico e cosa no? Come si fa?
In parole povere, cosa è canzone napoletana che seduce, racconta, riassume e rimane testamento e cosa è canzone irrilevante, misera e dozzinale e da dimenticare? Lo storico delle mafie e saggista Isaia Sales, nel libro Le strade della violenza analizza quale musica neomelodica quella prodotta «per affermare l’identità di una minoranza sociale urbana che cerca, attraverso le canzoni, un sostegno culturale al proprio modo di essere». Sarà così, ma vogliamo contestare il fatto che ciascun territorio sviluppi un linguaggio autonomo, che con questo linguaggio si nutre e che in questo linguaggio si autorappresenta? Sia Napoli, Istanbul, Medellín, Mosca? Se il trend neomelodico si riproduce e concepisce fenomeni specialmente nei rioni più popolari e meno abbienti, estesi e popolosi, dove l’alfabetizzazione è sempre più latitante e insufficiente, dove la capacità di immaginazione è contemporaneamente mediocre e illimitata, vuol dire che probabilmente in queste aree cittadine e dell’hinterland quel linguaggio è concreto. È un fatto tangibile. Incontestabile. È un linguaggio intimo. Non un’idea estemporanea.
L’Italia intera, nel 2010, rise per il video del provino a X Factor del 21enne Marco Marfè. Rise/derise, non so dire bene. Accade che il giovane frizzantino in looktotalrosso, residente in zona Arpino alla suburbia che sfiora la pista dell’aeroporto di Capodichino, propone una sua versione pop-dance (testuale) di Gelato al cioccolato di Pupo. Simona Ventura gli dice “No”, lo boccia senza riserve, gli dice addio definendolo simpatico. E quando il voglioso interprete si accomoda in camerino per smaltire la tristezza, la conduttrice commenta fra sé e sé: “Non ci si crede”. Come a sintetizzare: che razza di esemplare s’è presentato qui stamattina e da quale razza è sbucato fuori? E via con la slavina di commenti virali violentissimi contro il ragazzo.
Forse quella roba da non credere era pronta e servita a tutti già anni luce prima dell’arrivo di Young Signorino e dei suoi stupidi tranelli. Ma non era di tendenza. Perché non aveva né il look né il mood né il sound né l’hype né la consapevolezza né una comunicazione sufficientemente accattivante. E – mistero – chissà perché non affascinò abbastanza la soubrette/giornalista/conduttrice che in un’altra occasione gemella s’era gasata ai massimi livelli con questa roba da non credere. Con lei, tutto il pubblico presente negli studi di Rai 2. È gennaio 2009. Ventura invita a Quelli che… il calcio, in due settimane consecutive, prima Gigione (’A campagnola, Trapanarella, Padre Pio), poi Alberto Selly. Tutt’e due poiché ci fu una ruvida diatriba fra le due star, all’epoca, sulla paternità dell’hit. In diretta, tutti allegri e tutti desiderosi di scuotersi e ridere nel benessere delle note pacchiane di ’O ballo d’ ’o cavallo. Per cui: cosa è neomelodico e cosa no? Cosa, del panorama neomelodico, ha un valore a prescindere, e cosa non lo ha? […]

Memoria di uno scoglio

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disegni e didascalie (e testo a margine) di Elena Tognoli

Lo scoglio ci mette molto tempo a muoversi e molto poco a consumarsi.

Il passo della morte – Enzo Barnabà

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Incipit del nuovo libro di Enzo Barnabà

 

Sul finire del giugno 2018, mentre attraverso la frontiera di ponte San Luigi, mi capita di assistere a una scena che lascia con il fiato sospeso le decine di persone che, assieme ai pompieri giunti da Ventimiglia, cercano di scorgere, tra i magri cespugli dei quali è cosparsa la parete rocciosa prospiciente, un migrante scivolato dal beà de Bedin, il minuscolo canale che porta acqua in Francia e che funge da sentiero ai migranti più disperati. Non siamo molto lontani dal tratto della canaletta in cui, durante la guerra, la stessa cosa era avvenuta alla signora Mione e, molto prima, alla giovane grimaldese che portava il figlioletto sulla testa; due episodi di cui presto parleremo.

In questo punto, lo strapiombo è di parecchie decine di metri. La morte sarebbe stata certa se una provvidenziale rete non avesse bloccato la caduta. Adesso, il migrante è “incrodato”, come dicono gli alpinisti; bloccato, cioè, sulla parete, incapace di risalirla o di muoversi verso il basso. Resta fermo accanto a un cespuglio, senza dare segni di vita. Un pompiere italiano riesce a spingersi sul beà, arrivando proprio sopra di lui. Non può, però, fare nulla se non cercare di rassicurarlo.

Lo stallo viene sbloccato da un elicottero francese sotto il quale pendola un pompiere sospeso a una fune. Con gran strepito, il veicolo si insinua tra le due pareti del vallone e prende a scendere con molta lentezza, ravvicinando l’uomo alla persona caduta. Seguo il movimento con un misto di apprensione e di ammirazione. In pochi minuti, il migrante viene imbracato e trasportato sul ponte. Mi avvicino. E un ragazzone di colore (ciadiano, verrò a sapere) che sembra uscito da una squadra di rugby. Dirigendosi verso gli uffici della polizia francese, cammina zoppicando, ma sprizza gioia da tutti i pori.

La vallata rocciosa, vista dal mare, ai viaggiatori di una volta appariva come “dantesca”. Così parla del beà il medico inglese Henry Bennet in un libro che risale al 1861: “Il canale, largo pochi centimetri, viene spesso utilizzato come sentiero dai contadini. Bisogna avere la testa e i piedi ben saldi per praticarlo poiché si snoda a strapiombo sul burrone: basta mettere un piede in fallo per rimetterci irrimediabilmente la vita”. La narrazione prosegue evocando una tragedia avvenuta anni prima e della quale la popolazione conservava viva memoria: “Una ragazza di Grimaldi, che soleva percorrere quella specie di sentiero, si sposò ed ebbe un figlio. Le donne del posto hanno la consuetudine di portare sulla testa la culla dei neonati. Un giorno la poveretta imboccò la strada abituale con in capo la culla col bimbo dentro, ma dimenticò che a un certo punto la roccia si abbassa e lascia pochi centimetri sulla testa di chi passa. La culla andò a sbattere contro la rupe e la madre precipitò nell’abisso assieme al figlioletto!”.

Al fine di impedire l’accesso in Francia tramite il canale, fu posto, all’altezza della frontiera, un cancelletto del quale pochi possedevano la chiave. Durante la guerra, ci fu chi dovette far ricorso a questi particolari passeur. Ho avuto la possibilità di conoscere in Veneto Scilla Mione che è stata una di quelle persone. Ecco i suoi ricordi: “Avevo poco più di vent’anni, mio papa Augusto, impegnato nella Resistenza nelle montagne del Bellunese, era braccato dalla Wehrmacht che minacciava rappresaglie contro i familiari e in particolare contro mia mamma e me. Per proteggerci, decise di portarci in Francia, dove aveva vissuto alcuni anni prima.

Partimmo nel febbraio del 1944. Scendemmo dal treno a Bordighera dove, in una chiesa, incontrammo alcuni frati che ci presentarono una ragazza che ci avrebbe fatto da guida. Ci recammo a piedi a Ventimiglia. Faceva molto freddo. Attraversata la città, giungemmo a Grimaldi verso le otto di sera, dopo aver salutato con molta faccia tosta le sentinelle tedesche che si trovavano all’inizio del paese. Alla fine dell’abitato, invece, c’erano due ostacoli pericolosi: i doganieri e i carabinieri. La ragazza ci fece nascondere in un fossato e si mise alla ricerca di un ragazzino che avrebbe sorvegliato le due caserme. Il buio si era fatto fittissimo. Dopo un’ora di attesa snervante, la nostra guida ritornò, ma senza il ragazzino. Si erano fatte le dieci, prendemmo la decisione che, se fossimo stati scoperti, io e mia mamma ci saremmo consegnate, mentre papà avrebbe cercato di mettersi in salvo. Ci togliemmo le scarpe e riprendemmo la marcia. Dopo essere passati con estrema prudenza davanti alle due caserme, vedemmo le luci di Mentone e non riuscimmo a contenere la gioia. La nostra terra promessa era ormai a due passi! Avevamo purtroppo fatto i conti senza l’oste poiché le nostre traversie erano tutt’altro che finite. La ragazza ci avvertì che il cammino si faceva pericoloso. In effetti, dovemmo marciare in fila indiana, prima su un sentiero strettissimo a fianco di una roccia ripida e poi su una canaletta larga quaranta centimetri, dove scorreva un sottile filo d’acqua. Nel fondo del precipizio c’era un corpo di guardia francese, sopra ce n’era uno tedesco e

dietro di noi c’erano i carabinieri. A un tratto, la mamma mise un piede in fallo e precipitò per una ventina di metri. Tremando dal terrore, ci mettemmo a chiamarla con voci sorde e smorzate. Finalmente rispose e i nostri cuori, dalla gioia, presero a battere all’impazzata. Diceva di lasciarla lì e di proseguire, ma ovviamente non le demmo retta. Improvvisammo una sorta di corda attaccando cinture e fazzoletti, la ragazza si spogliò dei suoi vestiti per rendere i movimenti liberi e scese giù alla ricerca della mamma. Io mi inginocchiai e cominciai a pregare. Dopo una buona mezz’ora di faticosi tentativi, la nostra guida risalì con mia madre che per fortuna era caduta su un mucchio di foglie e se l’era cavata relativamente a buon mercato.

La marcia continuò per un’altra ora. Il burrone era alto duecento metri e mamma continuava a zoppicare. Finalmente arrivammo davanti a un cancello di ferro del quale la ragazza possedeva la chiave. Fummo lasciati soli per un buon quarto d’ora in quanto era necessario verificare che in vista non ci fossero poliziotti o SS. Ci sembrò un secolo, ma finalmente la nostra guida tornò e passò prima con la mamma, poi con me e infine con papà. Arrivammo a Mentone che era già l’alba”. Augusto Mione continuerà la Resistenza in Francia e, dopo la guerra, costituirà un’impresa edilizia che diventerà molto importante. Sarà il costruttore di fiducia di Le Corbusier.

Dopo il salvataggio del ragazzone di colore, mentre mi avvio verso casa, mi viene fatto di pensare che anche la letteratura si è occupata di quella canaletta. Uno dei personaggi del primo romanzo di Francesco Biamonti è infatti una donna che non riesce a dimenticare il beà, sbarrato da un cancello con aculei anche laterali, dove anni prima aveva perso il marito. “Una guida li aveva abbandonati una notte sul cornicione. Bisognava appendersi agli aculei per passare, e suo marito era stato trascinato giù dalla valigia”.

 

 

Enzo Barnabà, scrittore di saggi storici e romanzi, è nato a Valguarnera nel 1944, ha studiato lingua e letteratura francese a Napoli e a Montpellier, e storia a Venezia e Genova. È l’autore del primo libro pubblicato in Italia e in Francia sul massacro xenofobo avvenuto nel 1893 ad Aigues-Mortes. Tra i suoi saggi ricordiamo: I Fasci siciliani a Valguarnera (Teti, 1981), Morte agli italiani! (Infinito, 2008). Tra le opere di narrativa ricordiamo: Sortilegi, scritto con Serge Latouche (Bollati Boringhieri, 2008), Il Ventre del Pitone (EMI, 2010), Il Partigiano di Piazza dei Martiri (Infinito, 2013), Il Sogno dell’eterna giovinezza. Vita e misteri di Serge Voronoff (Infinito, 2014). Alcuni suoi libri sono stati direttamente scritti in francese. Vive a Grimaldi di Ventimiglia dove la Riviera italiana e quella francese si uniscono.

5 poesie

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di Fabrizio Bajec

Questi inediti fanno parte di una serie intitolata Stati di emergenza, successiva ma sulla stessa linea de La collaborazione (Marcos y Marcos 2018). Si inseriscono nel contesto delle manifestazioni di protesta che scuotono la Francia da due mesi, pur ispirandosi ad altri scontri sopraggiunti sotto le ordinanze del governo Macron, nei primi tempi della sua elezione. Traducono un aumento esponenziale di violenza poliziesca che dall’approvazione della riforma del lavoro (2016) ha conosciuto la risposta di vasti strati della popolazione, fino alla nascita dei più organizzati gilet gialli, espressione ideologicamente eterogenea e decentrata di una rivolta contro l’ingiustizia sociale. Se tale movimento insurrezionale si è dimostrato all’altezza dei toni sprezzanti del presidente, questi ha dovuto moderare il suo discorso di fine anno, pur non sembrando voler cambiare rotta.             

Mots-clés__Polvere

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Sophie Ristelhueber, À cause de l’élevage de poussière (Because of the Dust Breeding), 1991–2007 © Sophie Ristelhueber/BONO, Oslo 2015. Black and white photograph, pigment print on paper mounted on aluminium and framed under plexiglas.

 

Polvere
di Chiara De Caprio

Mazzy Star, Into Dust –> play

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Sophie Ristelhueber, À cause de l’élevage de poussière (Because of the Dust Breeding), 1991–2007 © Sophie Ristelhueber/BONO, Oslo 2015. Black and white photograph, pigment print on paper mounted on aluminium and framed under plexiglas.

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da Don DeLillo, Underworld, trad. it. Delfina Vezzoli, Torino, Einaudi, 1999

E come si fa a sapere se l’immagine esisteva prima che fosse inventata la bomba? Potrebbe esserci stato un mondo sotterraneo di immagini note soltanto a sacerdoti tribali, medium tra la realtà visibile e il mondo dello spirito che mangiavano funghi magici e vedevano una nube infuocata che anticipava l’immagine del film per reclute dell’esercito statunitense.
Osservata a distanza di sicurezza, dice il narratore, questa esplosione è uno degli spettacoli più belli mai visti dall’uomo.
Persino allora era nel Pocket, in un certo senso, ma non seguiva il percorso dei sistemi fino alla conclusione del suo tedioso lavoro. Le bombe da mezza tonnellata che cadevano a grappoli dagli sportelli del B-52 come pallottole di escrementi pinnati, riempiendo di crateri il sentiero nella giungla.
Ma si trattava del nemico, quindi chi se ne frega.
Ed è ancora il nemico, o c’è sempre un nemico, e Matt aprì gli occhi e vide il cielo farsi di uno strano grigio vecchietta.
Le idee un tempo venivano dal basso. Adesso sono dappertutto sopra di noi, a collegare universalmente cose e griglie.
Le combinazioni binarie bianco-nero sì-no zero-uno eroe-vinto.
E i due uomini di fianco al presidente nella foto appesa alla parete della baracca. Quello alto e bello, e l’immigrato dalle sopracciglia cespugliose. Avrebbe benissimo potuto essere una foto di Oppenheimer e Teller con il corpo unto di olio solare che citano vicendevolmente brani di scritture indù.
Om non fa rima con bomb. È solo un’impressione.
Morte e magia, ecco cos’è il fungo. O morte e vita immortale. La psilocibina è un composto ottenuto da un fungo messicano che può trasformare l’anima in materia da fissione, secondo gli studiosi del fenomeno.
Loro sono dappertutto allo stesso tempo, collegati all’infinito, e si finisce col semicredere alle cose più improbabili perché sarebbe stupido non farlo.
Tutta la tecnologia fa riferimento alla bomba.
Seduto nella polvere con gli occhi aperti, Matt si rese conto che il sole stava sorgendo dietro di lui e si chiese cosa volesse dire.
Voleva dire che per tutto quel tempo era stato girato dalla parte sbagliata.

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[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. Ogni prima domenica del mese, Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]

 

In tutte le direzioni, purché non nella falsa coscienza

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di Lorenzo Mari

 

A tre anni di distanza da Epica dello spreco (Dot.com, 2015), è uscito, alcuni mesi fa, il secondo libro di poesia di Laura Di Corcia, intitolato In tutte le direzioni (Lietocolle, collana gialla, 2018) e già finalista al Premio Rimini 2017 con il titolo Traduzioni e microsismi. La genealogia del libro, però, non si esaurisce qui: come ha dichiarato la stessa autrice in questo interessante e intenso dialogo con Davide Castiglione, almeno una sezione, la “Parte Prima” (pp. 13-31), era stata approntata ancora prima della pubblicazione di Epica dello spreco.

Diaconia dell’Immaginario. Una comunità di artisti

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di Bianca Battilocchi

 

«Intendiamo fondare un ORDINE che definiamo della ‘diaconia dell’immaginario’ per la realizzazione di nuovi compiti e impegni di pensiero e di immaginazione, e, analogamente, di attuazione di una innovante visione del mondo e dei rapporti tra il mondo e le arti.»

Così si avvia il testo di un progetto di Emilio Villa, stilato agli inizi degli anni settanta e pubblicato senza commento nel catalogo Emilio Villa, poeta e scrittore, da Mazzotta nel 2008. Questo contiene in sé differenti spunti di riflessione per quanto riguarda la ricerca sperimentale artistica del secondo Novecento e la possibilità di un’azione collettiva, al di fuori di trend o correnti definite.

L’ultimo testo pubblicato di Villa.

Il progetto lascia talora intravedere un dialogo già avvenuto con alcuni dei possibili partecipanti all’ordine e non esclude uno spazio alle necessarie aggiunte e modifiche da decidersi una volta formato il primo nucleo di ‘confratelli’. I campi di studio includono tutte le espressioni artistiche della parola, del suono; del moto, del pensiero, della produzione, riproduzione, coproduzione; della interpretazione, valutazione pensosa … del rito.

Aperta a diverse decine di artisti, selezionati per vocazione e integrità, senza preferenza di genere, età o nazionalità, la vita in comunità si sarebbe strutturata in momenti di ‘meditazione, percezione, creazione, ricreazione, ripensamento, in nome delle ‘strutture libere dell’immaginario’; quello profondo dell’uomo, non quello imposto dai settori della cultura istituzionale. Se è piuttosto evidente il modello monastico e il lessico ecclesiale a cui Villa attinge, tuttavia, come già osservò Tagliaferri nel “Clandestino”, il poeta intreccia a questa concezione del tempo quotidiano la presenza dell’eterno nell’arte.

È questo un tipico appello villiano alla libertà, contro il servilismo del consumo, del gusto, delle ideologie, degli scatoloni preconfezionati, del già visto, di un tempo considerato minore. L’ ‘Indagine immaginaria allo stato puro’ si pone come rottura con tale sistema e si mette a servizio di un immaginario definito ‘rivelante’ e ‘illimite depositario dell’inimmaginabile’. Villa dal canto suo scavalcava le mura delle singole discipline – poesia (visiva, sonora e oggetti poetici), filologia semitica, traduzione, studi e scritti sull’arte primitiva e su quella aniconica coeva – portandole avanti parallelamente e intrecciandole come strumenti finalizzati a una comune ricerca sulle origini dell’arte e del linguaggio. Si dà voce così all’enigma, all’eternità, aspirando a risacralizzare l’arte e ‘fare leva sulle dimensioni più profonde della soggettività, sulla sfera degli impulsi e sull’esperienza della singolarità’ (A. Tagliaferri, Emilio Villa e la riscoperta dell’America da Rothko a Duchamp). Gli artisti con cui collaborava o sui quali scriveva venivano infatti eletti per una stessa vocazione artistica, che sposava la prospettiva duchampiana, di andare oltre all’arte retinale per portare a galla i prodotti della materia grigia. Si può menzionare ad esempio Trous, un’opera nata dalla collaborazione con l’artista Enrico Castellani che realizzò una serie di opere da affiancare ai testi del poeta sul leit motiv dei ‘fori’: simbolo della mancanza come condizione tragica umana.

Enrico Castellani, 5 chalcographies for Trous, with poems by Emilio Villa, 115 copies,
Proposte d’Arte Colophon, Belluno, 1996.

La vita dell’ordine mirava a creare le condizioni ideali per questa indagine, parallelamente individuale e collettiva, lasciando la libertà ai singoli di condurre la propria ricerca per condividerne successivamente i risultati (anche con l’esterno). Si fa appello a un principio di accoglienza che non prevede nessun direttore né insegnante ma una equa distribuzione di servizi per ciascun membro: ognuno proporrà se stesso come alunno dell’immaginario e come esempio; ognuno guarderà agli esempi che si proporranno; ognuno opererà producendo il massimo sforzo spirituale e morale, geniale e responsabile, e per l’adempimento delle finalità dell’ordine.

Il silenzio che resta

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di Francesco Borrasso

Le luci artificiali della ruota panoramica brillavano a poca distanza da un cielo livido di fine febbraio, un contrasto rosso e blu e giallo. Marta se ne stava seduta sopra una panchina, la sciarpa avvolta intorno al collo, una sigaretta lunga tra le dita. Un uomo con il viso colorato di bianco restava immobile, a due passi da lei, le persone di passaggio, a volte, gettavano una monetina in un cappello consumato vicino ai suoi piedi. Poco distante c’era il carretto dello zucchero filato e Marta continuava a guardare una delle cabine della grande ruota panoramica che girava lentamente. C’era un’aria fredda e lei sapeva che la doveva smettere di pensare al fatto che siamo tutti minuscoli e fragili e mortali; smetterla di dirsi che ci sono forze che ci sovrastano e che non siamo in grado di controllare.

Devono essere state quelle forze, pensò, deve essere stato per colpa loro.

La ruota panoramica si fermò, Gianmarco scese dalla sua cabina e correndo si avvicinò a Marta, aveva il viso arrossato per il freddo e forse per l’eccitazione.

«Com’è andata?», chiese Marta.

«Bene, ma ho avuto paura».

«Hai avuto paura?».

«Sì, lì in alto la cabina si è fermata e ho avuto paura che non ripartisse più».

«Saresti rimasto lì sopra per sempre?», chiese la madre, alzandosi dalla panchina.

Gianmarco non rispose, cercò la mano di Marta e la strinse.

Passarono vicino al tiro a segno, c’erano ragazzini in piedi che imbracciavano piccoli fucili e sparavano contro lattine di metallo, una musica allegra veniva via dagli altoparlanti del parco giochi, c’erano delle casse affisse ai pali della luce. Marta comprò per lei e per il figlio delle noccioline caramellate, aprì la bustina con i denti.

«Ti sta divertendo?».

Gianmarco non rispose, incantato a guardare una giostra a forma di piovra; aveva delle braccia meccaniche che simulavano i tentacoli, e su ogni tentacolo c’erano dei sediolini per prendere posto.

«Posso fare un giro lì?», chiese.

Quanto tempo era passato da quel giorno? Oggi Marta proprio non riusciva a ricordarlo, due mesi? Tre mesi? C’era qualcosa tra quelle giostre che le condizionava il ricordo.

«Vuoi fare un giro sulla piovra?».

«Sì, se vuoi vieni anche tu».

«Io?».

Pagarono il biglietto e si posizionarono uno dietro all’altro. Quando un uomo magro e molto alto azionò il pulsante di avvio, la piovra incominciò a girare su sé stessa, muovendo prima piano e poi sempre più veloce le braccia meccaniche. Il vento che la colpiva sulla faccia sembrava ghiaccio, Marta chiuse gli occhi e ricordò di quando Antonio l’aveva portata per la prima volta sulla neve, ricordò la sensazione di gelo sulle mani nonostante i guanti, il modo in cui sorrideva, rivide la sua faccia la volta che gli disse di essere incinta. Gianmarco, appena qualche metro davanti a lei, tentava di tenere gli occhi aperti, quando le braccia meccaniche si spostavano verso l’alto in lui prendeva vita l’illusione di poter toccare quasi il cielo, e allora gli veniva forte la voglia di staccare le mani dalla sbarra di ferro e allungare le braccia verso l’alto, ma non lo faceva. I giri della piovra aumentavano di intensità man mano che il tempo passava, Marta sentì delle gocce schizzare via dagli occhi, scorrere lungo le guance appena un po’ e poi le senti spinte indietro dal vento. Si accorse che stava piangendo quando aprì le palpebre e tutto quello che vide sembrò essere sommerso dall’acqua. Perché non aveva lasciato scritto niente? Almeno a lei avrebbe potuto dire qual era il motivo. E invece no, continuava a pensare, invece no, mi hai trattata come hai trattato tutti gli altri.

Scesero dalla giostra, Gianmarco sentiva il cuore pulsargli dentro le orecchie, i suoni del parco giochi si univano al tonfo dei suoi battiti cardiaci e tutto quel chiasso gli fece quasi mancare il respiro.

«Mamma ma perché stai piangendo?».

«Chi piange? È stato il vento… chi piange».

Il bambino abbassò la testa e si guardò la punta delle scarpe, prese il sacchetto di noccioline dalla tasca del cappotto e ne masticò tre, in contemporanea; sentiva che erano dolci, molto dolci e poi verso la fine un pizzico di sale lo sorprendeva ai lati della lingua.

Fiancheggiarono La casa stregata e poi, andando leggermente verso sinistra, si trovarono davanti al Labirinto degli specchi. Tutto il buio che li circondava veniva smorzato dalle lucine colorate delle attrazioni elettriche, e i suoni e i tonfi delle giostre arrivavano alle orecchie di Marta come un’eco; si sentiva svenire, aveva continuamente la sensazione di svenire, ma poi non succedeva mai.

«Andiamo nel labirinto?», chiese il figlio.

Ci sarebbe dovuto essere anche papà, pensò; poi si ricordò di quando, qualche anno prima, lui e il padre erano andati insieme sulle montagne russe, ricordò che quella giornata avevano riso molto, e che erano stati bene.

«D’accordo, ma tra un po’ dobbiamo andare via».

«Mi manca papà», disse Gianmarco.

Quelle parole gli uscirono dalla bocca da sole, sapeva che non avrebbe dovuto dirle, perché ogni volta che le diceva, la madre faceva una strana espressione del viso e cambiava umore e delle volte lui l’aveva vista anche piangere, dopo quella frase.

Iniziarono a camminare più veloci, fecero il biglietto ed entrarono.

«A te non manca?», chiese il figlio.

«Lo sai che mi manca».

«Non ne parliamo mai».

Videro le loro figure storpiate da uno specchio che li allungava, proseguendo si videro ingrassati e poi ancora, molto bassi.

«Quale strada si prende per uscire?», chiese Marta.

«Mamma ma sei una schiappa».

«Come sarebbe a dire?».

«Vienimi dietro».

«Ma non lasciarmi la mano», fece lei.

L’aria, all’interno di quel labirinto, era strana, sembrava artificiale, di plastica. Le luci bianche appiattivano tutte le prospettive e dopo qualche minuto in cui continuavano a girare a vuoto Marta dovette fermarsi perché le girava la testa.

«Si respira male, qui dentro», disse.

Come aveva respirato quel giorno? Si ricordava solamente che quando lo aveva visto aveva sentito le gambe diventare molli e poi si era ritrovata seduta sul pavimento e non sapeva come era successo. Una pressione forte contro il petto e sulla gola, le prime volte che aveva tentato di ingoiare la saliva, quasi stava per rimanere strozzata. Poi vomitò, sulle mattonelle bianche, vomitò quasi di fianco ad Antonio.

Furono fuori e Marta raccolse l’aria fredda a grossi bocconi, aprendo il torace, sentendo il gelo dentro la bocca, sulla lingua, fino allo stomaco. Si era alzato un vento forte che le spostò i capelli all’indietro, Gianmarco aveva lo sguardo fisso per terra, sentiva che qualcosa, dentro quel Labirinto degli specchi, non era andato come sarebbe dovuto andare. Lasciò la mano della mamma ed andò a sedere sopra una panchina, alzò il cappuccio sulla testa e mise le mani dentro le tasche del capotto.

«Che ti succede?», chiese Marta, affiancandolo sulla panchina.

Aveva la sensazione che la pelle le andasse troppo stretta. Pensò alla sua adolescenza, a come fosse scivolata via, a come l’età adulta era arrivata veloce a spazzare via tutto e a ricoprire ogni cosa di dolore. Si guardò intorno, seppe con la lucidità con cui si sa in che modo respirare, che tutto quello su cui posava lo sguardo era in decadenza, ogni cosa stava andando via, lei per prima.

«A volte penso che è stata colpa mia», disse Gianmarco.

«Non pensarla mai una cosa del genere, mai!», disse con voce alta, la madre.

«Perché l’ha fatto? Io gli volevo bene».

Iniziò a piangere, un pianto dolce, leggero, i lacrimoni gli si affollavano dentro lo sguardo e poi cadevano via. Marta lo circondò con un braccio e lo strinse a sé, ma il suo movimento mancava di convinzione.

«A volte gli adulti fanno delle cose stupide».

Lui alzò la testa e iniziò a guardare qualcosa in lontananza.

«Cosa guardi?».

«C’è un palloncino».

«Dove?».

«Lì», disse Gianmarco, allungano un braccio e indicando con il dito un piccolo puntino colorato che saliva nella notte.

«Ecco, lo vedo», disse Marta e sorrise e pensò a tutto il sangue sul pavimento, al modo giusto in cui avrebbe dovuto dare la notizia a suo figlio. Come glielo avrebbe spiegato? Tra non molto me ne andrò anche io? Si chiese. Potrei morire, tutti potremmo morire.

Si girò in testa questa parola: morire. Somigliava ai cieli di neve. Poi tornò a guardare il palloncino e tolse il braccio dalle spalle di Gianmarco.

«Andiamo a casa?», chiese.

«Ok».

«Pizza?».

«Pizza».

Erano quasi fuori dal parco quando Gianmarco si fermò.

«Ehi, perché non cammini?».

«Stavo pensando».

«A cosa?».

«Secondo te, quel palloncino, che fine ha fatto?».

Marta restò qualche secondo in silenzio, da lontano si sentivano le automobili al di là del parcheggio, si sentiva il fruscio del vento tra i rami degli alberi e stormi di uccelli si alzarono in volo all’unisono, facendo strane traiettorie, mischiandosi.

Aveva telefonato alla madre di Antonio, e glielo aveva detto per telefono, aveva detto: mio marito, aveva detto mio marito e la donna all’inizio non capiva.

«Non lo so», aveva risposto Marta continuando a guardare il figlio.

«Secondo me va da qualche parte che non possiamo vedere», disse Gianmarco.

«Dici?».

«Magari come papà».

Gli si avvicinò e gli prese nuovamente la mano, la pelle fredda e secca della sua faccia quasi le faceva male.

«Magari sì», disse Marta.

Amici per paura

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  di Gianni Biondillo

Ferruccio Parazzoli, Amici per paura, SEM, 2017, 219 pagine

Francesco è un bambino di otto anni. Per lui la guerra è una cosa di soldatini di carta da ritagliare sul tavolo della cucina, un’avventura fiabesca, un gioco di eroi immaginari, dove, in fondo, nessuno muore mai. Poi il 19 luglio del 1943 la guerra, con tutta la sua brutalità, arriva anche a Roma. I bombardamenti devastano interi quartieri della capitale. Alla famiglia di Francesco non resta che sfollare nelle Marche. Una nuova avventura per Francesco, che di pagina in pagina crescerà e muterà le sue idee nei confronti degli “eroici” fascisti e dei temibili “alleati”. Nelle Marche conoscerà storie magiche, nuove amicizie, preti comunisti, appigliato alla incrollabile certezza infantile che in guerra i bambini non muoiono mai. È roba da grandi.

Ferruccio Parazzoli scrive con la grazia del miglior novecento italiano senza averne la pedanteria. Una scrittura già classica eppure perfettamente contemporanea. Non conosco la biografia dell’autore, ma le poche note nella bandella mi fanno pensare che Amici per paura più che un romanzo storico sia piuttosto un memoire autobiografico: non una ricostruzione filologica, ma un flusso di ricordi, spesso minori, a lato della Grande Storia, ma proprio per questi più veri, più vividi.

Fra il fronte alleato che non sfonda a Cassino, il padre del protagonista che raggiunge la famiglia nottetempo travestito da prete, zii con la camicia nera e vicini di casa partigiani, fra sospetti reciproci e nuove compagnie di ventura, fra fughe e ritorni in città, Amici per paura sembra quasi non abbia un filo narrativo forte, ma sia composto da episodi all’apparenza slegati, lampi di luce sul passato, dove un bambino, nel giro di due anni (e duecento pagine) conoscerà la durezza e la violenza della fame e della guerra, riuscendo comunque a non perdere mai la propria innocenza.

(precedentemente pubblicato su Cooperazione, numero 18, del 2 maggio 2017)

Il bambino sulla spiaggia

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di Antonio Sparzani

È il titolo del libro scritto da Fatima (abbreviato in Tima) Kurdi, con il contributo di suo fratello Abdullah, edito da Piemme Voci (gennaio 2019, € 18,50), tradotto dall’originale inglese The Boy on the Beach da Annalisa Carena; originalmente pubblicato in Canada da Simon & Schuster. L’ho letto in questi giorni d’un fiato perché ne ho sentito parlare a radio3 in maniera assai attraente.
Io non son bravo a fare recensioni, perché mi verrebbe da dire “correte in libreria, compratelo e leggetelo”, almeno se vi interessano i problemi di quelle innumerevoli persone che oggi vanno sotto il nome di rifugiati, o profughi o molti altri termini più o meno sinonimi. La verità è che, malgrado tutte le notizie ascoltate alla radio o alla televisione, o lette in rete dai vari giornali, non mi ero mai abbastanza informato sulla drammatica situazione dei profughi siriani. E del resto oggi di drammatiche situazioni non c’è che l’imbarazzo della scelta, purtroppo; però, dato che mi è capitato di sentire quella trasmissione radio, mi sono concentrato su quella, e ho scoperto un mondo che sostanzialmente ignoravo.

Il libro (di quello voglio parlare e non delle variopinte polemiche che sono sorte a proposito di un caso così enfatizzato) è principalmente la storia di una famiglia, raccontata in prima persona da una donna, Fatima Kurdi, secondogenita dei figli (quattro femmine e due maschi) di Ghalib e Radiya Kurdi; ognuno di questi figli si è sposato e ha avuto a sua volta dei figli, maschi e femmine, per un totale di 24 nipoti di Ghalib e Radiya.
L’occasione del racconto è quella vicenda che un paio d’anni fa ha commosso tutto il mondo: la foto, che vedete qui all’inizio, di un ragazzino morto sulla spiaggia turca vicino a Bodrum, di fronte all’isola greca di Kos, distante “appena” 4 chilometri dalla costa. Le virgolette su appena derivano dal fatto che gli scafisti, nel libro chiamati trafficanti, usano, anche lì, come ben sappiamo da quel che avviene sulla rotta Libia Italia, gommoni poco affidabili e poco adatti a tenere il mare. Va aggiunto che usano questi gommoni se uno non può pagare grosse cifre: una famiglia di due genitori e due figli piccoli deve prendere il gommone, insieme con altre, sempre troppe, persone, se può pagare “solo” 4000 dollari. Avendo ancora più soldi si può venire imbarcati (sempre comunque stivati) su pescherecci o battelli più affidabili.
L’occasione del libro è quel bambino sulla spiaggia, figlio di uno dei due fratelli maschi di Fatima, Abdullah, che in verità perde nel naufragio del gommone, dovuto all’ingrossarsi del mare, frequente in quella zona, non solo il piccolo Alan, quello della fotografia, ma anche l’altro figlio Ghalib e la moglie Rehanna, rimanendo così privato di una famiglia amatissima. Il dolore di Abdullah è indicibile. Nel libro si narra tra l’altro dei molti sforzi fatti dalla sorella Fatima, che vive, perché emigrata prima dei fatti che cominciarono a sconvolgere la Siria nel 2011, a Vancouver, British Columbia, Canada, sforzi finanziari e di relazioni con politici locali e non, per riuscire a far emigrare anche Abdullah, oltre al fratello maggiore Mohammad che già era riuscito fortunosamente a raggiungere la Germania.
Nel libro – circa 270 pagine – si narra con grande dettaglio l’intricata storia di tutti i disperati tentativi di fuggire dalla violenza della guerra civile (se così si può, un po’ ossimoricamente, chiamare) di tutti i membri della famiglia; famiglia che inizialmente viveva unita e felice a Damasco (la “città dei gelsomini”, capitale della Siria) e che poi un po’ alla volta è costretta a disperdersi, dapprima in Siria (per esempio a Kobane, città assai vicina al confine turco, dove l’orrore dell’ISIS arriva più tardi) e poi in Turchia e, dopo infinite vicissitudini, burocratiche e non, in vari paesi europei, soprattutto Germania.
Ma quello che mi ha colpito del libro, scritto – lo si sente in ogni pagina – con una partecipazione così accorata, dolorosa e straziante da strappare davvero il cuore, è il quadro d’insieme di tutta la faccenda. All’interno di un paese con milioni di abitanti scoppia a un certo punto (2011) una protesta contro il regime certamente assai illiberale di Baššār Ḥāfiẓ al-Asad, detto da noi comunemente Assad, e in questa protesta, duramente repressa dalle forze governative, intervengono un po’ alla volta molti altri fattori, nazionali e internazionali, che mi guardo bene dall’analizzare qui, che non ne sarei certo capace, ma che fanno della Siria, negli anni successivi al 2011, un posto pericoloso per chiunque e mediamente invivibile.
I rifugiati sono ormai milioni.
E qui, dalla mia privilegiata posizione di cittadino di una nazione che, per quanto afflitta da molti mali, consente ancora una vita più che dignitosa, mi chiedo come sia possibile arrivare agli atti di terribile barbarie (di cui vi risparmio qui la descrizione, che anche nel libro è presente solo in alcuni punti, ma questi bastano, ve lo garantisco) perpetrati da homo sapiens su homo sapiens; ma di quale sapiens parliamo? Di quale? Queste persone che nella loro follia decapitano e torturano a sangue freddo e sistematicamente uomini, donne e bambini, cos’hanno imparato da piccoli, cosa è stato loro ficcato nella testa, che ricompensa è stata loro promessa?
Il libro si chiude con l’indicazione di una Kurdi Foundation, nella quale lavorano tra gli altri Tima e Abdullah, il cui fine è quello di aiutare i bambini rifugiati dovunque e comunque. Per concludere eccovi un estratto dalla parte finale del libro:

La scrittura di questo libro è stata una gigantesca sfida per Abdullah. Nell’ultimo anno l’ho tormentato ogni settimana e a volte ogni giorno chiedendogli dei particolari della sua vita prima della tragedia.
“Sei stato tu a piantare il seme – gli ho ricordato – hai detto che dovevamo scrivere questo libro”
“La mia storia non è più importante di quella di chiunque altro”
“Ma la gente vuole conoscere la storia della nostra famiglia. Vogliono sapere di Rehanna, di Ghalib, di Alan. E noi vogliamo tenere vive le loro voci. Vogliamo riempire il silenzio lasciato da troppe morti assurde. Vogliamo fare il possibile per fermare la guerra”
“Ma Fatima, noi eravamo come milioni di altri profughi”
“Sì, lo eravate. Lo sei. Ma se parli della tragedia che ti è capitata, questo potrebbe impedire che altra gente anneghi in quel mare”
“Okay, sorella. Quel che ho imparato è che non importa se sei senza soldi e se vivi in un tugurio mangiando lenticchie. L’unica cosa che conta è che tu abbia la tua famiglia con te, che tu abbia l’amore. L’amore ci dà la forza e il potere di dimenticare il dolore e la sofferenza, Dillo alla gente. Dì loro che non c’è nient’altro che conti”.

Gli interventi economici cinesi e italiani in Africa

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di Marta Tufariello

Stupisce che l’opinione pubblica occidentale ignori quasi totalmente che nell’ultimo decennio molti stati o regioni del continente africano hanno sperimentato un importante processo di stabilizzazione politica e di crescita economica. L’Africa si sta ritagliando un ruolo di crescente rilevanza nel sistema economico mondiale ed è diventata fonte di interesse per tutti i principali attori internazionali. In un mondo dove la popolazione è in costante aumento, ma le riserve di risorse naturali sono in progressivo esaurimento, l’Africa rappresenta una importante fonte di materie prime. La scarsità di materie prime è una delle principali sfide che gli uomini dovranno affrontare, probabilmente in un futuro non troppo lontano. A differenza di quanto sia largamente creduto negli stati occidentali, tale sfida non riguarda solamente i paesi meno sviluppati economicamente, le cui popolazioni sono afflitte da alti livelli di povertà e malnutrizione. Oltre alla forte limitazione della crescita economica mondiale e all’aumento dell’instabilità politica a livello globale, è in gioco anche il mantenimento degli alti standard di vita e dei consumi delle popolazioni dei paesi più ricchi. Di conseguenza, il continente africano ha acquistato sempre più rilevanza nel panorama internazionale, soprattutto dopo l’arrivo all’inizio del ventunesimo secolo di nuovi importanti attori economici come la Repubblica Popolare Cinese (RPC). Inoltre, le vicende interne degli stati africani riguardano in misura sempre maggiore la comunità internazionale, basti considerare l’emergenza causata dalle attività terroristiche negli stati europei e statunitensi e le difficoltà nella gestione delle ondate migratorie.

Africa: una breve panoramica storica

A partire dalla metà dell’Ottocento il continente africano si trova a dover affrontare numerose trasformazioni e continui stravolgimenti politici ed economici. Il processo di conquista delle terre africane da parte delle potenze europee, iniziato nella seconda metà del diciannovesimo secolo, segna un profondo cambiamento nell’assetto politico-territoriale dell’Africa e inserisce il continente nel sistema dell’economia mondiale in una posizione di totale sudditanza economica. Con la fine della prima guerra mondiale termina l’epoca dell’imperialismo coloniale e si assiste alla nascita del movimento nazionalista africano. Dopo la seconda guerra mondiale ha inizio la storica fase della decolonizzazione: tra gli anni cinquanta e sessanta quasi tutti gli stati africani conquistano l’indipendenza e vengono (almeno formalmente) riconosciuti come stati sovrani. Tuttavia, il riconoscimento formale dell’indipendenza non si traduce nella cessazione del controllo europeo sui possedimenti africani un tempo appartenenti agli imperi coloniali: ha inizio la successiva fase del neocolonialismo, nella quale gli stati occidentali continuano a esercitare una forte influenza politica ed economica nella vita del continente africano. Gli stati africani sono deboli e limitati da una forte instabilità politica ed economica. Di conseguenza, prevale l’assetto dello stato autoritario e repressivo e si verifica una militarizzazione del potere. La politica degli aiuti allo sviluppo promossa dai donatori occidentali e dalle istituzioni del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale non ha gli effetti sperati: nonostante vengano inviati centinaia di milioni di dollari agli stati africani, non si riescono a raggiungere gli obiettivi di crescita economica e di riduzione della povertà. Al contrario, la dipendenza dagli aiuti condanna gli stati africani a un circolo vizioso di corruzione, indebolimento delle istituzioni, conflitti armati, inflazione, riduzione degli investimenti e infine scoraggiamento della crescita economica.[ii] È solo durante gli ultimi anni del Novecento che si possono osservare i primi segnali di ripresa economica e di riforma politica.

Il continente africano inizia il ventunesimo secolo registrando una incoraggiante crescita economica e una maggiore stabilità politica, alle quali si aggiungono importanti progressi sul fronte sanitario e dell’istruzione. L’Africa è riuscita a ritagliarsi un nuovo ruolo di preminenza a livello internazionale ed è diventata principale terreno di competizione per l’acquisizione delle risorse globali. Inoltre, tra il 2000 e il 2017 il continente africano è stato il principale destinatario di Investimenti Diretti Esteri (IDE) tra le regioni meno sviluppate del mondo.[iii]

La Repubblica Popolare Cinese emerge tra i principali attori internazionali presenti nel continente africano: in pochi anni è diventata primo partner commerciale dell’Africa e può vantare una solida presenza economica e politica nel continente grazie all’istituzione del Forum on China Africa Cooperation (FOCAC), alla presenza di ambasciate in quasi tutti gli stati africani e allo sviluppo della nuova iniziativa One Belt One Road (OBOR).

Nel 2000 viene inaugurato il primo Forum on China Africa Cooperation (FOCAC), di cui fanno parte cinquanta stati africani e che si pone l’obiettivo di istituzionalizzare le relazioni tra Cina e Africa e favorire un percorso di sviluppo comune basato sul dialogo paritario, sulla comprensione e sulla cooperazione. Tenutosi ogni tre anni, alternativamente in Cina e in uno stato africano, il FOCAC ha segnato un cambiamento delle relazioni sino-africane, che cessano di essere prevalentemente diplomatiche e riflettono invece i nuovi interessi commerciali e politici cinesi: verso la fine del Novecento gli interessi della Cina in Africa abbandonano l’ambito ideologico, focalizzandosi sull’acquisizione di risorse naturali e sul supporto politico che i cinquanta stati africani possono garantire alla Cina all’interno delle organizzazioni internazionali. Il FOCAC rappresenta dunque una piattaforma per coordinare e potenziare queste relazioni, creando un’alternativa alle istituzioni occidentali. Ogni forum approva un piano per i due anni seguenti che prevede lo sviluppo di diverse forme di cooperazione economica e finanziaria, come l’erogazione di prestiti e di aiuti allo sviluppo, che interessano diversi settori (infrastrutture, agricoltura, sviluppo tecnologico, progetti sociali). Nel corso di questi forum il governo cinese ha annunciato la cancellazione del debito contratto dagli stati africani per un valore superiore a 2 miliardi di dollari e lo stanziamento di notevoli prestiti (10 miliardi di dollari nel 2006, 20 miliardi di dollari nel 2010 destinati allo sviluppo delle infrastrutture, dell’agricoltura, della manifattura e delle piccole e medie imprese).[iv] Il 3 e 4 settembre 2018 Pechino ha ospitato la settima edizione del Forum, al quale hanno preso parte oltre 50 capi di stato e di governo africani e attori internazionali. Il presidente della RPC Xi Jinping ha annunciato lo stanziamento di altri 60 miliardi di dollari per l’Africa in forma di prestiti, linee di credito, fondi speciali, sgravi fiscali e progetti infrastrutturali, stessa cifra di aiuti stanziata nei tre anni precedenti. Questo impressionante flusso di investimenti deve essere considerato nell’ambito del nuovo grande progetto lanciato dalla RPC nel Forum del 2013: la One Belt One Road (OBOR), definita anche Belt and Road Initiative o Nuova Via della Seta. L’OBOR è un piano commerciale e infrastrutturale di ammodernamento transcontinentale, che prevede la costruzione di una cintura di trasporti e servizi, terrestri e marittimi, al fine di collegare la Cina all’Africa, all’Asia e all’Europa, e di consolidare la sua egemonia mondiale. Nel caso specifico dell’Africa è prevista la costruzione di una rotta via mare e di investimenti per lo sviluppo logistico del continente, in particolare di determinati paesi strategici, con la costruzione di nuove linee ferroviarie e l’ammodernamento di porti come Gibuti, Tripoli, Port Said e Lagos.[v] L’Unione Africana ha riconosciuto l’OBOR come progetto complementare agli obiettivi di Agenda 2063, un piano di sviluppo infrastrutturale che mira alla trasformazione socio-economica del continente africano, e ha deciso di aprire una sua sede a Pechino, come segno della volontà di rivestire un ruolo attivo nei processi decisionali della Nuova Via della Seta.[vi]

L’impegno cinese in Africa viene guidato dal concetto della win-win cooperation, che consiste nell’instaurare relazioni economiche da cui possono trarre vantaggio sia la RPC che gli stati africani. La strategia della RPC mostra sostanziali differenze rispetto al modello occidentale, in quanto basata sul principio di non interferenza e sulle nozioni di eguaglianza politica, di indipendenza e di autodeterminazione degli stati africani. I paesi del continente africano possono dunque avere accesso a prestiti agevolati svincolati da qualsiasi criterio di condizionalità economica e politica.

Sebbene l’intervento cinese in Africa presenti numerosi aspetti positivi, emergono anche diverse criticità. L’arrivo della RPC in Africa è riuscito a ridare al continente un valore reale, risvegliando l’interesse della comunità internazionale per le terre africane, a lungo dimenticate e sottovalutate. Inoltre, la diffusione di prodotti a basso costo e la costruzione di importanti infrastrutture hanno permesso un miglioramento delle condizioni di vita della popolazione africana e una consistente diminuzione della disoccupazione. Tuttavia, non sono da sottovalutare il forte danno ambientale e i pericolosi effetti competitivi per alcuni settori dell’economia locale, generati dalla massiccia importazione di prodotti cinesi a basso costo. Risultano ancora problematiche le condizioni di lavoro degli operai africani nelle società cinesi: in Zambia gli operai sono costretti a lavorare senza sosta in zone a rischio, con insufficienti dispositivi di protezione e perennemente sotto minaccia di licenziamento. Infine, la RPC sostiene militarmente regimi dittatoriali responsabili di gravi violazioni dei diritti umani. Analogamente alle potenze occidentali, la Cina infatti sfrutta le situazioni di conflitto per avere accesso alle risorse e far circolare le proprie armi in Africa.

 

La Repubblica Italiana in Africa

La presenza italiana in Africa invece rimane estremamente limitata e inferiore al potenziale per tutto il corso del Novecento: il continente africano si è limitato infatti a rivestire un ruolo marginale nella politica estera della penisola, che ne ha fortemente sottovalutato l’importanza e le potenzialità.

Da tale quadro di scarsa presenza economica ed esigua influenza politica si distacca solamente l’Eni, multinazionale italiana dell’energia che è attiva in Africa fin dagli anni cinquanta ed è riuscita a imporsi come principale operatore petrolifero mondiale nel continente africano. Proprio grazie ai cospicui investimenti di Eni è stato possibile porre le basi per una riscoperta di interesse da parte dell’Italia per gli stati africani. Negli ultimi anni si è assistito infatti a un improvviso e consistente aumento degli investimenti diretti esteri italiani verso il continente e in poco tempo l’Italia è tornata in cima alla classifica degli investitori in Africa, collocandosi come terzo investitore mondiale.

A differenza dell’approccio sistematico e organizzato del governo della Repubblica Popolare Cinese, l’intervento italiano in Africa non è guidato da una chiara strategia statale. Tuttavia, vi sono iniziative di singoli enti o imprese italiane che meritano di essere prese in considerazione. Uno degli attori pubblici più rilevanti presenti in Africa è l’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo, che sebbene sia nata da pochi anni è già operativa nel continente africano con diversi progetti orientati allo sviluppo rurale, al supporto delle imprese e del settore pubblico africani e all’intervento umanitario. Di grande rilievo sono anche le numerose Organizzazioni Non Governative, come il Centro Laici Italiani per le Missioni (CeLIM), che ha contribuito a migliorare sensibilmente le possibilità lavorative di molti giovani in Zambia grazie alla creazione dello Youth Community Training Centre.

Tra le imprese italiane presenti in Africa emergono per importanza Eni, Salini Impregilo e il Gruppo Trevi. L’impegno del gruppo Salini Impregilo in Africa risale agli anni cinquanta e ha permesso la realizzazione di progetti in 40 stati africani in tutti i settori delle grandi infrastrutture, tra i quali si distinguono GIBE III e GERD in Etiopia (le più grandi dighe in Africa). La costruzione di tali impianti idroelettrici ha consentito la creazione di migliaia di posti di lavoro e ha costituito un impulso alla crescita economica dello stato africano. Inoltre, la popolazione ha beneficiato di corsi di formazione professionale e della costruzione di scuole e di strutture sanitarie.

Tuttavia, gli interventi delle aziende italiane nei settori dell’estrazione petrolifera e della costruzione delle infrastrutture hanno presentato numerosi aspetti problematici. L’attività di estrazione petrolifera di Eni in Congo ha causato ingenti danni ambientali: l’acidificazione del terreno, l’inquinamento delle falde acquifere e dell’aria hanno reso impossibile praticare la pesca e l’allevamento e hanno provocato un consistente peggioramento delle condizioni di vita della popolazione locale. Analoghe problematiche sono state osservate in Etiopia a causa della costruzione delle dighe da parte di Salini Impregilo: i danni ambientali minacciano la sicurezza alimentare di centinaia di migliaia di indigeni, che sono costretti a subire violenze e trasferimenti forzati.

 

Le due strategie a confronto

Emerge chiaramente che esiste una profonda differenza tra l’approccio perseguito dalla RPC e quello italiano in Africa. Il continente africano riveste un ruolo molto rilevante nella strategia del governo cinese, che negli ultimi venti anni ha impegnato ingenti risorse per acquisire il controllo delle materie prime localizzate in Africa (e in altre regioni del mondo), di cui ha fortemente bisogno per sostenere la propria straordinaria crescita economica e per soddisfare la domanda interna. Inoltre, il continente nero rappresenta una delle destinazioni della diaspora cinese, favorita dal governo per alleviare la pressione demografica in Cina, creare occupazione e gestire l’incremento del consumo di beni e servizi, prodotto dal miglioramento degli standard di vita sperimentato dalla popolazione cinese. Di conseguenza, il governo cinese, che riveste un ruolo centrale nelle attività economiche e commerciali dello stato, spinge tutti i soggetti economici ad aderire ai suoi obiettivi di investimento in Africa e favorisce il consolidamento della presenza cinese nel continente. Le aziende cinesi infatti possono contare sul completo appoggio dello stato in termini di finanziamenti, di prestiti agevolati e dell’accesso privilegiato a contatti governativi esteri. Tali vantaggi consentono alle compagnie cinesi di vincere la concorrenza e di assicurarsi la maggior parte delle gare d’appalto.

Al contrario, nella strategia del governo italiano gli stati africani rivestono solamente un ruolo marginale e l’impegno italiano nel continente rimane limitato a iniziative improvvisate e altalenanti orientate sul breve termine. Sebbene le aziende italiane abbiano enormi potenzialità in Africa date dai prodotti di alta qualità del made in Italy e dalle competenze nel settore dello sviluppo sostenibile, la loro presenza nel continente rimane molto limitata. Il principale fattore alla base del mancato sviluppo della presenza italiana in Africa è la totale assenza di sostegno del sistema bancario-creditizio e delle istituzioni di supporto pubblico nazionali. A differenza delle aziende cinesi, le imprese italiane non possono contare su finanziamenti statali dedicati e di conseguenza non possono competere con la concorrenza cinese. Il mancato sostegno statale e la forte discontinuità nella politica estera italiana costituiscono due fattori estremamente penalizzanti per le aziende italiane, come testimonia Paolo Porcelli, amministratore delegato della Cooperativa Muratori e Cementisti di Ravenna (Cmc), che opera in Mozambico da trent’anni.[1] Porcelli afferma che sebbene vi siano enormi possibilità per le imprese italiane in Africa, si soffre l’assenza del sistema bancario italiano e, mancando il necessario supporto finanziario, risulta impossibile competere con i cinesi che finanziano intere grandi opere grazie alle risorse statali.

Ulteriori fattori che incidono negativamente sulle possibilità di espansione delle società italiane in Africa sono la comunicazione mediatica pervasa di stereotipi tradizionali, che rallenta la percezione collettiva delle opportunità offerte dalle economie africane in crescita, l’assenza di coordinamento tra le aziende e l’insufficiente organizzazione per affrontare i mercati internazionali.  Il personale delle imprese italiane infatti non dispone spesso di sufficienti conoscenze linguistiche e manca la conoscenza della struttura geografica ed economica del continente e delle dinamiche di sviluppo locali.

 

Per concludere

Da quanto emerso dalle mie ricerche posso affermare che gli investimenti della RPC abbiano un impatto più positivo sul benessere delle popolazioni africane rispetto a quelli italiani. L’arrivo della Cina in Africa ha permesso di spezzare il controllo che gli stati occidentali detenevano sul campo delle risorse naturali africane e ha consentito al continente africano di abbandonare il ruolo marginale a cui era stato condannato dalle potenze occidentali per iniziare a essere considerato come importante destinazione di investimenti.[vii] Inoltre, l’aumento degli scambi commerciali tra Cina e Africa riapre delle possibilità per il commercio africano che le misure protezioniste occidentali avevano negato. La RPC si è impegnata nello stringere relazioni economiche con gli stati africani basate su mutui benefici e su un rapporto di parità, a differenza del tradizionale approccio “paternalista” occidentale. Grazie alla costruzione di scuole, strade, ferrovie e di ospedali la RPC ha contribuito a un reale miglioramento della vita locale. Diverse indagini mostrano infatti che la presenza cinese gode di un consenso diffuso in numerose regioni dell’Africa, venendo spesso preferita rispetto all’intervento occidentale. Tuttavia, la Cina deve impegnarsi per migliorare le condizioni di vita dei lavoratori africani, soprattutto nel settore dell’estrazione mineraria. Gli stati africani spesso condividono parte della responsabilità per le pessime condizioni di lavoro che gli operai locali devono sopportare. Risulta quindi fondamentale per i diversi governi africani dotarsi di nuove e chiare regolamentazioni ambientali, politiche e lavorative. Inoltre, in numerosi paesi emerge la necessità di incrementare i fondi e il personale a disposizione del governo, al fine di garantire il rispetto delle leggi da parte degli investitori stranieri e di assicurare una maggiore tutela ai propri cittadini lavoratori.

 

NOTE

[i] Gian Paolo CALCHI NOVATI, Pierluigi VALSECCHI, Africa: la storia ritrovata, Roma, Carocci, 2016, p. 46

[ii] Moyo DAMBISA, Dead Aid: Why Aid Is Not Working and How There Is Another Way for Africa, Allen Lane, Penguin Books, Londra, 2009, pp. 48-67

[iii] Maddalena PROCOPIO, Investimenti: chi gioca la partita in Africa, in ISPI, ottobre 2018, https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/investimenti-chi-gioca-la-partita-africa-21298, consultato il 7.11.18

[iv] Giovanni CARBONE, Gianpaolo BRUNO, Gian Paolo CALCHI NOVATI, Marta MONTANINI, La politica dell’Italia in Africa, ISPI, 2013, p. 54

[v] Paola BOSSO, “I nuovi enormi investimenti della Cina in Africa”, in Il Post, 4 settembre 2018, https://www.ilpost.it/2018/09/04/i-nuovi-enormi-investimenti-della-cina-in-africa/, consultato il 15.09.18

[vi] Maddalena PROCOPIO, “Forum Cina-Africa: cosa è cambiato in 18anni?”, cit., https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/forum-cina-africa-cosa-e-cambiato-18-anni-21173, consultato il 15.09.18

[vii] Moyo DAMBISA, Winner take all “China: Race for Resources and What it Means for Us, cit., p. 89

 

 

Riferimenti bibliografici

Gian Paolo CALCHI NOVATI, Pierluigi VALSECCHI, Africa: la storia ritrovata, Roma, Carocci, 2016

Giovanni CARBONE, Gianpaolo BRUNO, Gian Paolo CALCHI NOVATI, Marta MONTANINI, La politica dell’Italia in Africa, ISPI, 2013

Moyo DAMBISA, Dead Aid: Why Aid Is Not Working and How There Is Another Way for Africa, Allen Lane, Londra, Penguin Books, 2009

Moyo DAMBISA, Winner take all “China: Race for Resources and What it Means for Us, New York, Basic Books, 2012

Torturarli a casa loro? Io sto con Samed

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di Andrea Inglese

Certo che vorrei essere un rappresentante della classe media durante le sue due settimane ufficiali di vacanza da passare in modo spensierato e certo che vorrei mantenere lo spirito anarchico che non vuole né patria né padroni, ma le notizie che inevitabilmente leggo sulle nuove strategie messe in opera dallo Stato italiano con il solidale sostegno dell’Unione Europea per risolvere il problema del flusso di migranti dalla Libia all’Italia mi procurano un voltastomaco ben superiore rispetto a tutti i disagi della canicola epocale.

Mio padre e le sue mogli

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di Ruska Jorjoliani

Non mi ha mai detto che aveva già avuto una moglie, prima di mia madre. Ne sono venuta a sapere per caso, giusto qualche anno fa, e ho cercato in modo ossessivo di saperne di più. “Erano molto giovani e ingenui” mi ha detto la zia. “Che t’importa?” si è meravigliato lo zio. Solo una loro cugina è stata disposta a dirmi di più: “Lei era molto bella, lui è andato a fare il militare in un paese baltico, c’è rimasto per più di un anno e quando è tornato era come se si fosse guastato qualcosa, come se non si riconoscessero più”.
Volevo capire mio padre, quest’uomo taciturno facile

Andare a scuole

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Guido Canella, centro civico e scuole a Pieve Emanuele
Guido Canella, centro civico e scuole a Pieve Emanuele

di Gianni Biondillo

Da giovani studenti del Politecnico si andava in giro per architetture. Non solo monumenti insigni del passato, molto più spesso si visitavano edifici contemporanei. Non era raro vederci davanti a palazzi, sedi comunali, collegi o scuole, intrufolarci dentro, fotografare di rapina. Prima a Milano, poi, allargando il raggio, nella prima cintura milanese, fino a puntate in macchina verso il varesotto o nel pavese. Cercavamo lavori di professori della nostra facoltà, volevamo capire come un progetto, quella cosa che imparavamo a fare sulla carta, diventasse materia, spazio, architettura. Mi ricordo discussioni accese su chi preferiva l’intransigenza brutalista di Canella, l’eleganza di Caccia Dominioni, il postmodernismo di Aldo Rossi. C’era chi puntava sulla tradizione modernista di Gentili Tedeschi, chi sulla “misura lombarda” di Zanuso.

Probabilmente sembravamo curiosi come turisti, forse un po’ fanatici, come un qualunque appassionato è, in fondo. A ben vedere andavamo a studiare edifici che furono costruiti proprio per noi, per quella generazione di baby boomer nata con la crescita economica degli anni sessanta. Tutto era possibile in quegli anni, il futuro, il progresso sembravano fuori discussione. I bambini di quel mondo, qualunque fosse la loro estrazione sociale, avevano il diritto a strutture adeguate alla loro istruzione, alla loro crescita come cittadini. Quando divenni studente d’architettura quell’ideologia novecentesca stava già tramontando. Crisi petrolifere, economiche, demografiche. Ma in noi c’era ancora la voglia di imparare dalla buona architettura.

Aldo Rossi, atrio della scuola di Broni

Mi chiedo se oggi i giovani studenti del mio Politecnico si organizzino ancora per queste curiose gite fuori porta. Quello che per me era sostanzialmente contemporaneo sarebbe, per loro, Storia. D’altronde è nella lunga durata che una architettura dimostra la sua capacità di diventare significativa, necessaria. Time is on my side, cantavano i Rolling Stones. I tempi dell’architettura scavalcano le generazioni. E chi la abita, chi la usa, se ne appropria facendone un po’ quello che vuole. Oggi che il culto su Aldo Rossi si è un po’ appannato, rivedere la sua scuola a Broni, uno degli edifici all’epoca più pubblicati al mondo, con gli intonaci sbollati, le pensiline arrugginite, dimostra quanto il fascino di Rossi stesse più nei suoi splendidi disegni che nella sua capacità di costruttore. Così come vedere oggi la simmetria monumentale dell’atrio con la fontana triangolare, smorzata da cose banali, della vita quotidiana, una bacheca, un paio di armadietti, alcune piante, la rende più umana. Sono bambini, sono insegnati, bidelli, che vivono questi spazi, solo la capacità di essere flessibili, adattabili, li fa ancora vivi, emozionanti.

Scuola Enaip di Enrico Castiglioni a Busto Arsizio

Consiglierei davvero, all’ipotetico gruppo di giovani studenti, di andare a fare visita a queste architetture. Scoprirebbero l’esistenza di un progetto collettivo di architettura sociale che, coinvolgendo le migliori firme all’epoca in circolazione, ha saputo nobilitare i paesi e le periferie della più grande area produttiva del Paese. Spesso sperimentando forme che forse sembravano astruse, azzardate ma che oggi riempiono di tenerezza chi le osserva. Ammirare l’opera del meno famoso Enrico Castiglioni, architetto bustocco capace di immaginare scuole sospese su ponti in cemento armato, con uno sguardo che alcuni teorici oggi chiamano “retrofuturista”. Cioè quell’idea di nostalgia per i futuri passati che non abbiamo vissuto. Quel periodo visionario che ci fa associare gli autogrill di quegli anni alle astronavi, le stazioni agli astroporti. Quando essere architetti non era una cosa che aveva a che fare semplicemente col gusto personale, l’effimero, il capriccio, ma significava sentirsi investiti da un ruolo, un dovere sociale irrinunciabile.

(precedentemente pubblicato su Casa Vogue, ottobre 2018)

Dietro la maschera del sonno il cervello piange

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di Mariasole Ariot
 
Una copertura: dietro la maschera del sonno il cervello piange. Il mutismo dei lineamenti, l’inflessione straniera, appena piegata sul bordo: non dicono niente.
Questa apparente nuova cera è un frutto chimico, composizione di elementi. La lingua non batte, e voi cosa vedete? Quando uno sguardo perfora e si acceca trafitto da se stesso, e vede il retro senza aver mai notato la fronte.
E cosa vedete voi – di questa mascherata silenzosa, che ha perso i denti nella muta, di questa cosa che credete sia passato e invece resta. Tutto l’inchiostro delle mani è ora rappreso nella zona cava dell’interno, dove tace, mentre si dice: è solo un momento.
Il bianco che ho ingoiato per secoli ha seccato la lingua.

***

Crolla il rovescio dei mondi sulla tua faccia d’animale, e cade tra intenti e milioni di corpuscoli conficcati nella lingua.
Ricordi i ricordi della prima nascita? Ricordi la tragedia?
Quando le foglie dicevano la stagione secca, e tu scricchiolavi sulla mia schiena costole e polmoni. Il volto che mi hai creato addosso non mi appartiene: una mandria infuriata
di ossicine.

***

La notte poi dilata le ferite, questa lingua nera degli sconosciuti, i passati che si muovono nei sotterranei dei presenti dove tu affili gli strumenti a perforare le tane che mi hai scavato negli occhi. Escono bulbi dalle finestre come linci impazzite, uomini con la testa separata, membra putrefatte – e in questo buio crepano le cose, si angosciano contenuti e contenitori, uno sguardo fisso che dice colpevolezza, che infrange il tempo sicuro della gestazione.
La protezione non è mai abbastanza, l’ombra che mi hai infilato nella bocca parla e dice: un reato d’esistenza.

***

Siamo formati da lividi e da richiami di parole d’antenati, ci sediamo calmi nell’attesa prossima di vedere aprire una porta, far entrare il sonno nella stanza, aprire le bocche e infilarcelo dentro a forza fino a quando raggiunge le parti più alte, il principio di ogni cosa. Così decidiamo per la caduta: stenderci immobili ad est, raccogliere le piante morte del giorno e darci vita nella massa scura del notturno – hai ascoltato, madre, questo canto di sirena, l’hai seguito? Hai ancora la coda lucida e le mani fasciate, ti sono caduta dalle braccia.
Il giorno non arriva se non per tranciare i tempi, dividere gli spazi, mentre gruppi di ragazzine ballano sulla collina degli accigliati, quando le serpi entrano sottopelle e si muovono premendo verso l’esterno per urlare il loro gioco preferito. Nascondersi, non farsi mai più trovare, la paura della luce.

***

Quando dire – allora? : è finito

Jonas Mekas. Anti-100 Years of Cinema Manifesto

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[Pubblichiamo qui la traduzione del manifesto che Jonas Mekas scrisse in occasione del centenario della nascita del cinema. Il testo fu  presentato all’American Center di Parigi l’11 febbraio 1996, e ci pare ancora di particolare rilevanza: al di là delle misure agiografiche, è lo studio dei materiali che ci deve sopratutto interessare, e per questo bisognerebbe incominciare a proporre e a tradurre quei testi e quei film momentaneamente sequestrati negli impedimenti della lingua. ]

 

Anti-100 Years of Cinema Manifesto

Come sapete bene è stato Dio a creare     questa Terra e ogni cosa sopra di essa. E pensava che tutto fosse grandioso. Tutti i pittori, i poeti e i musicisti cantavano e celebravano insieme la creazione […]. Ma mancava ancora qualcosa. Così, grossomodo 100 anni fa, Dio decise di creare la cinepresa. E fece proprio così. Creò poi un regista, e gli disse: “Qui c’è uno strumento chiamato cinepresa. Vai a filmare e a celebrare la bellezza della creazione e i sogni dello spirito umano, e fai tutto divertendoti”. Ma al diavolo ciò non stava bene. Quindi mise un borsone di soldi davanti alla telecamera e disse ai registi: “Perché volete celebrare la bellezza e lo spirito del mondo quando potreste guadagnare con questo stesso strumento?”

Credeteci o no, tutti i cineasti si gettarono sul sacco dei soldi. Così il Signore si rese conto di aver fatto un errore. Quindi, circa 25 anni dopo, per correggere questo suo stesso errore, egli creò i cineasti d’avanguardia, e gli disse: “Ecco la cinepresa. Prendetela e andate nel mondo e cantate la bellezza di tutta la creazione, e fate tutto divertendovi. Ma sappiate che farete fatica a farlo, e non guadagnerete mai nulla con questo strumento.”

Così parlò il Signore a Eggeling, a Germaine Dulac, a Jean Epstein, a Fernand Leger, a Dmitri Kirsanoff, a Marcel Duchamp, a Hans Richter, a Luis Bunuel, a Man Ray, a Cavalcanti, a Jean Cocteau, e a Maya Deren, e a Sidney Peterson, e a Kenneth Anger, a Gregory Markopoulos, a Stan Brakhage, a Marie Menken, a  Bruce Baillie, a Francis Lee, a Harry Smith e  a Jack Smith e a Ken Jacobs, a Ernie Gehr, a Ron Rice, a Michael Snow, a  Joseph Cornell, a Peter Kubelka, a Hollis Frampton e a Barbara Rubin, a Paul Sharits, a Robert Beavers, a Christopher McLaine, e a Kurt Kren, a Robert Breer, a Dore O, a Isidore Isou, a Antonio De Bernardi, a Maurice Lemaitre, e a Bruce Conner, e a Klaus Wyborny, a Boris Lehman, a Bruce Elder, a Taka Iimura, a Abigail Child, a Andrew Noren, e a  molti altri, molti altri attorno al mondo.

Presero allora le loro Bolex e le loro piccole telecamere da 8mm e Super 8 e iniziarono a filmare la bellezza di questo mondo e le complesse avventure dello spirito umano, e gli stessi cineasti si stanno ancora divertendo molto nel farlo. E i film non portano soldi e non servono a ciò che è chiamato “l’utile”. E nel mentre, i musei di tutto il mondo festeggiano il centesimo anniversario del cinema, e tutto gira ancora attorno alla loro amata Hollywood. E non si fa menzione alcuna delle avanguardie o dei registi indipendenti del nostro cinema. Ho visto le brochure, i programmi dei musei, degli archivi e delle “cinematheques” di tutto il mondo. Ma questi dicono: “non ci interessa il vostro cinema”.

Nei tempi del gigantismo, degli spettacoli, delle produzioni cinematografiche da cento milioni di dollari, voglio parlare per i più piccoli e invisibili atti dello spirito umano: così sottili e così piccoli che muoiono quando vengono portati fuori sotto i riflettori. Voglio celebrare le piccole forme del cinema: la forma lirica, il poema, l’acquerello, l’etude, lo schizzo, il ritratto, l’arabesco, le bagatelle e le piccole canzoni da 8 mm. Nel tempo in cui tutti vogliono avere successo e avere qualcosa da vendere, voglio celebrare coloro che abbracciano il fallimento sociale e anche quello quotidiano  pur di inseguire  l’invisibile e  le cose personali che non portano né denaro né pane e non fanno la storia contemporanea, ma neppure la storia dell’arte o qualsiasi altra storia. Io voglio sostenere l’arte che si fa l’uno per l’altro, tra amici.

Sono in mezzo alla folle autostrada dell’informazione e sto ridendo perché una farfalla su di un fiorellino da qualche parte in Cina ha appena battuto le ali, e so che l’intera storia e l’intera cultura cambieranno drasticamente a causa di quello svolazzare. Una cinepresa Super 8 ha creato un piccolo ronzio da qualche parte […] e il mondo non sarà mai più lo stesso.

La vera storia del cinema è una storia invisibile: la storia di amici che s’incontrano, che fanno le cose che amano. Per noi il cinema incomincia ad ogni nuova vibrazione del proiettore, ad ogni nuovo ronzio delle nostre cineprese. E ad ogni nuova vibrazione e ad ogni nuovo ronzio, i nostri cuori fanno un balzo in avanti, cari amici!

in collaborazione con il progetto
di ricerca cinematografica ⇨ La Camera Ardente