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Poeti e democrazia

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di Daniele Ventre

Polesía, il nuovo numero di Trivio, il quarto dalla nascita della rivista, patrocinata dalla casa editrice Oèdipus di Francesco Forte e curata dal poeta Ferdinando Tricarico, si presenta eccezionalmente come un volume monotematico sulla “democrazia”, volume che coinvolge un ampio numero di poeti. La scelta nasce dalla considerazione del direttore scientifico Antonio Pietropaoli (si veda la sua breve Premessa al volume, a p. 5), secondo cui se una rivista culturale deve “da un lato godere della più ampia libertà di movimento” deve anche, “dall’altro, … lasciarsi incalzare dagli eventi della realtà esterna”: una realtà di profondo degrado politico, nella quale “non solo il sistema democratico mostra evidenti crepe, ma il concetto stesso di democrazia viene revocato in dubbio, è entrato in crisi … ultimo effetto perverso della globalizzazione, che ha inoculato in tanti, in troppi, la convinzione che la democrazia fosse solo quella degli integrati, degli inclusi, degli (ad) agiati, e si fosse dunque trasformata in odiosa oligarchia”.

In relazione oppositiva a questa realtà, “nell’epoca della perdita dell’utopia”, per riprendere le parole di Francesco Muzzioli (nella sua introduzione Per una poesia democratica a p. 9), la paralisi dell’immaginazione politica attua un vero e proprio rovesciamento del principio speranza di blochiana memoria in un fine della disperazione, di contemplazione della catastrofe, il che “chiama in causa proprio quelle facoltà tradizionalmente connesse alla letteratura”, come sede elettiva della contemplazione di futuri possibili, o quanto meno di demistificazione dei fondamenti assurdi, deteriori e deterioranti, dell’impossibile presente. Tale è lo scopo ultimo di questa antologia tematica, con cui, al di là delle differenze di poetica e di orientamento, si cerca di lanciare, come apertis verbis dichiara il curatore Ferdinando Tricarico “il sasso nello stagno della disillusione politica”, attuando, pur fra mille incertezze e ripensamenti, questa crasi fra Polis e Poesia -e si tratta, ovviamente, di una crasi paradossale, visto che al presente si realizza, forse per la prima volta nella storia, il caso di una forma di organizzazione del potere che non ha bisogno di sanzione estetica o culturale.

Le esperienze poetiche raccolte in Polesía, alla quale anche chi scrive è stato chiamato a fornire il suo modesto (e per quanto possibile onesto) contributo, sono assai eterogenee, potendovisi riconoscere un panorama abbastanza ampio e sfaccettato, benché per forza di cose non completo, dei vari linguaggi della poesia italiana attuale. Nella visione di insieme fornita da Francesco Muzzioli, si possono ravvisare qui in vario modo tre elementi tradizionalmente specifici di quei testi che si concepiscono, e si percepiscono, come politicamente orientati, o fortemente impegnati verso la comunità: 1) l’invettiva, come vis polemica d’attacco; 2) la satira, come prassi dissacratoria; 3) l’ironia, come habitus mentale e stilistico di entrambe. Più che di tipologie atte a classificare il materiale antologizzato, questa terna di connotati tipici fornisce un quadro generale della sua ἰαμβικὴ ἰδέα, vale a dire, del suo tono di fondo, che è aggressione linguistica, stilistica, immaginativa, cognitiva ed etica al problema, oltre che agli obbiettivi comuni dei testi raccolti: la globalizzazione selvaggia, il modello di governance tecnocratica senza controllo della finanza, la sindrome cinese dell’ingegneria sociale neo-liberista estrema, che coniuga dittatura militar-burocratica e far west economico, ma anche il contraltare glocalistico, xenofobo, neo-conservatore, populista, francamente neofascista, rappresentato da forze ademocratiche solo in apparenza ribelli al sistema, ma in realtà perfettamente organiche alle sue reti di comando liquide, o spesso semplicemente liquefatte.

Così, in una carrellata cursoria, ma si spera non troppo superficiale, si susseguono in ordine di apparizione: lo stile franto, misto fra allusione storica e intimismo, dei versi liberi di Luca Ariano; la riflessione lucida di Mariano Bàino, articolata in due tempi pentastici, che sembrano riecheggiare una sorta di trompe-l’oreille esametroide e decostruiscono con ironia sottile e corrosiva le parole chiave del gergo dei tecnocrati, e la loro filosofia da platonismo aziendale raffazzonato, fra i week-end plebiscitari dei politicanti della domenica, i fludi talk-show delle narrazione liquide, entrambi indifferenti al black out definitivo della biosfera e dei suoi abitanti; la tecnica versolibera di Domenico Brancale, per cui prende invece vita una sorta di spontaneismo dell’etica del viandante, del diverso, dell’altro; il linguaggio compassato e nitido, da university wit, di Franco Buffoni, che consegna al lettore un finissimo e stringato scavo poetico dell’archaiología della costituzione come base della democrazia in quanto spazio in cui tendere, nelle parole del diritto, all’utopia possibile; il messaggio di Enzo Campi,che si dipana invece in una estrema frammentazione dei nessi tonali elementari dei sintagmi, arrivando all’enjambement in piena elisione, all’episinalefe, e trasformando in balbettio disintegrato la rottamazione dell’umano derivante dalla disgregazione neoliberista dell’istituzione democratica; la lunga catena di lasse atonali tratte dall’inedito di Purgatorius, di Guido Caserza, che è portatore di un forte messaggio di demistificazione dei tic politici comuni al tempo attuale e riesuma in un nuovo contesto elementi e tratti stilistici propri dei novissimi, che a volte sembrano riprendere, ora in oppositione ora in consonanza, i toni di Laborintus, o dei passaggi apertamente politici della produzione di Pagliarani; seguono i lunghissimi stichi di prosa di Nadia Cavalera, che attutiscono il classico impatto che ci si aspetterebbe dall’esercizio della funzione poetica, diluendolo in una catena discorsiva semi-colloquiale; con spazi ritmico visuali più compatti si dipana il discorso poetico, pur esso fondato sul verso atonale, di Domenico Cipriano, nel cui testo si riflette l’implosione dell’individuo a pulsioni sociali e affettive primarie, di fronte al crollo dell’ideologia come progetto e orizzonte condiviso; la parodia della democratura come fiaba dell’orrore, fra parole magiche di tono anglizzante, ambiguità e volgarismo televisivo ironizzato, connotano la monostrofa monologica di Floriana Coppola; il blocco di prosa, degré zéro della forma di fronte alla deformazione e all’informe del mondo pubblico, caratterizzano il testo, anch’esso parodico, di Vera d’Atri, che (de-)costruisce un discorso politico, frantumando il senso delle sillabe nella gragnuola dei tecnicismi politologici affastellati; da prima decisamente virato sul nonsensical, sul gingle, poi sulla Betrachtung prosastica con giochi fonetici immersi in una sintassi frammentata, l’irruzione linguistica di Chiara Daino nel càosmo della democrazia in delirio di impotenza; sempre sul piano del ludus verbale, organizzato però in una sorta di psico-dramma a soggetto (de-soggettivato), il testo di Carmine De Falco, orchestrato sulla mimica del silenzio e del basso profilo in tempi di controlli totalizzanti e onnipervasivi; estremamente concentrata la tempra stilistica di Francesco Filia, il cui dettato, con la sua assoluta immediatezza, richiama l’idea di una dimensione politica in cui l’uomo sia presente nella sua pienezza, al di là di ogni finzionismo e di ogni costruzione artificiale del nemico di turno; altrettanto immediato, ma di tono contestativo, con andamento da filastrocca e da slogan, da corteo, il breve sistema di quattro strofe di Claudio Finelli, il cui tono da marcia traccia il perimetro del diritto ad esercitare il dissenso dalle fila di una minoranza, che si trasforma a questo punto in una sorta di anti-élite; una complessa alternanza fra prosa ritmica e verso atonale nel testo di Giovanna Frene, determina una sorta di dialettica fra discours razionalizzato, storicizzato, e un recit versale dal tono gnomico, universalizzato; una riflessione sul potere politico che si struttura come forma della divisione/distinzione/discriminazione, e di una antropologia dell’opposizione amici-nemici, si definisce nelle quattro strofe versolibere di Vincenzo Frungillo; la parodia e l’altergiunzione dominano la prosa ritmica intervallata di stichi atonali di Francesca Genti, che con il suo poemetto-novella surreale/iperreale in prosa/verso delinea la società attuale, avviata a diventare postdemocratica, come un collage di tribù insulari e isolate più o meno conformiste al loro interno; toni quasi neo-oracolari, al limite del messianico, si rinvengono nelle due brevi lasse versolibere di Federica Giordano; una raffinata ironizzazione dei tradizionali simboli della modernità (uno fra tutti, l’albero della libertà, di giovanil-hegeliana memoria) si legge nel demo di Marco Giovenale, che già nel titolo allude alla forma di una struttura tecnicamente ancora in prova, imperfetta, inconclusa, sub iudice, da esperimento ancora da consegnarsi al pubblico, e che demistifica, con la sua sintassi franta, tramata di omissioni, rimandi intratestuali sbozzati, pseudo-reticenze e pseudo-preterizioni i toni e il linguaggio ordinario, da imbonitore propagandistico, dell’opinionista maggioritario tipo, e della sua orchestrazione di insignificanze condivise e tic sintattici da pubblicità-regresso; un linguaggio molto più tradizionale, tramato dall’evocazione dell’albero d’ulivo come proto-albero della libertà (e di fatto totem della democrazia attica, incunabolo improprio di tutte le democrazie) si rinviene nei versi di Mimmo Grasso; la prosa in prosa di Andrea Inglese fa da integrazione antifonale e risposta a distanza al testo di Giovenale, in una distesa e tecnicizzante ironizzazione della trama comunicativa e mediale delle democrazie, che decostruiscono dall’interno il loro pluralismo attraverso un discorso ridotto a sloganistico “messaggio”, di fatto unilaterale, che genera malinteso più che intesa e non-sensi più che razionali dissensi e consensi argomentati, finendo in sostanza per essere, in modo strisciante, totalitario, e sfuggente rispetto ai suoi stessi destinatari annidati in una post-ideologica massa parcellizzata; diverso ancora il senso allusivo dei versi di Maria Grazia Insigna, connotati, nell’esordio, da una sorta di contemplazione delle macerie, e dell’assenza degli uomini, in uno spazio (tanto esistenziale, quanto politico) nullificato e annebbiato da una chenosi non mistica; tutt’altra forma assume la lassa di prosa ritmica di Costanzo Ioni, che come da sua cifra stilistica inconfondibile, crea uno spazio nuovo, intrecciato di dialetto, latino, anglismi deformi e difformi, facendo aderire al cafarnao sociale generalizzato delle comunità disgregate su un pianeta abbandonato alla deriva economica e climatica, il suo personale cafarnao linguistico, sermo impossibile che si configura come l’unico possibile codice di decifrazione del caos; i versi lunghi, quasi versi neo-narrativi, di Carmine Lubrano tessono il referto autoptico di una non-narrazione, centrata sui giochi allitterativi e paronomasici che fanno della democrazia degratata la figlia impropria della demenza e del demerito; centrati lato sensu sulla forma della Pace, gli endecasillabi sciolti, neo-leopardiani in più di un’accezione, di Eugenio Lucrezi, per converso tramano con il loro andamento discorsivo, quotidiano, una sorta di giambo attutito, in cui i richiami a una certa tradizione lirica si dissimulano e si fondono con la colloquialità spontanea che descrive il business as usual no matter what nel tempo della crisi definitiva; per converso, estremamente concentrati appaiono i versi di Franca Mancinelli, a evocare per speculum et enigmate, in modo decisamente neo-ermetico, una trama della memoria come fondazione (ossimorica) di una ucronia concreta della società civile; il tono sloganistico, quasi da refrain contestativo, da striscione, ritorna a gola spiegata nei versi liberi a cadenza più o meno ternaria, anapestica, tramata di rime facili, di Anna Marchitelli; di altra natura il tono contestativo di Giovanna Marmo, che impronta alla negazione il suo discorso poetico sulla polis degradata a piccola patria particolaristica, dominata dalla massificazione e dalla disintegrazione in automatico, tramite una medialità inquinata e degenere, della parola e della voce ragionante; lucido e feroce, nella sua revulsione dei sintagmi, il messaggio di Renata Morresi, in cui i topoi e i cliché del pensiero progressista-democratico andati a male dopo la fallita fine della storia, franano progessivamente verso la singolarità di una adesione esitante; una nicchia a sé occupa, in questo ambiente variegato, Lamassu, la prosa di Paola Nasti, surreale dialogo lucianeo con un totem mesopotamico, quasi una operetta morale, o un conte philosophique drammatizzato, sull’intraducibilità (e sulla necessità di tradursi) della democrazia nell’umano, essendo questa effettivamente realizzabile, come da rousseauiana citazione, solo in un utopico popolo di dèi; nei versi di Lucio Pacifico si presenta invece all’occhio, in apparente focalizzazione esterna, un paesaggio deragliato di esperienze standardizzate dall’ingranaggio produzione-consumo, in cui di fatto nessuna parola ideologicamente marcabile e nessun concetto specificamente politico trovano più luogo e cittadinanza; la maniera breve, neolirica, di Melania Panico si articola in due momenti ritmici, fra il prima e il dopo l’instaurazione della democrazia, con riduzione degli individui a elementi mansueti di un gregge, come a suggerire per allusione la natura intimamente gregaristica, non partecipativa, delle democrazie industriali; nei suoi versi serpeggianti nel vuoto dello spazio bianco come spago da ricucire cicatrici, Marisa Papa Ruggiero definisce lo stato di nomadismo esistenziale dell’uomo contemporaneo, lanciato verso una quest non eroica, una cerca, senza definizione dell’oggetto; più personale e intimistica la riflessione di Maria Concetta Petrollo, che evoca la dimensione incerta della democrazia come dinamica di organizzazione sociopolitica debole, perché non radicata nella longue durée (nell’urna elettorale,”prima di me/ passò/ solo mia madre”); una struttura narrativa, da virulento e spietato racconto allegorico, ha invece il poemetto di cronaca nera di Antonio Pietropaoli, i cui versi liberi cadenzati, quasi pavesiani, fra l’endecasillabo dattilico e l’esametroide, fanno da colonna sonora in sordina alla brutale dinamica di uno stupro con delitto in due tempi, in un testo che può essere letto a più livelli come immagine del disordine costituito; la forma poematica, stavolta per lasse di endecasillabi e settenari, a volte regolari, a volte segnati da anacrusi che li rendono ipermetri o ipometri, connota con altre dinamiche anche la scelta stilistica ed espressiva di Ugo Piscopo, che riprende, ironizzandola, la forma del contrasto e della cobla di canzone; richiami evidenti, ricontestualizzati e risemantizzati, ai novissimi, in particolare a stilemi sanguinetiani (“…le grandi idee …saranno messe/ in prigione…”), nel trittico di lasse di versi atonali il selfie è uguale per tutti, di Gilda Policastro, che delinea lo scenario disgregato di una medio-crazia dell’autoscatto, dominio del narcisismo mediale dei mediocri nel tempo della banalità del mare; centrato sull’immagine incipitaria del “fiero pasto universale” che costituisce il mutuo sbranamento assicurato della lavorazione della storia è invece il tessuto ritmico implicito delle lasse in cui si articola il discorso poetico di Lidia Riviello, nel cui verso/prosa ritorna, insistito, il tema harrisiano (da cannibali e re) della sicurezza/insicurezza alimentare come trama pulsionale profonda della politica; la forma della democrazia neo-imperiale, in transizione verso forme più o meno ambigue di principatus e dominatio, o democratura, si accampa nei versi di Gianluca Rizzo, il cui trilinguismo (latino, italiano, inglese) è finalizzato a ricreare le tensioni del campo semantico dell’egemonia nei suoi slittamenti epocali; una sorta di teologia negativa della democrazia (“demo… che?”) si ritrova nelle strofe tristiche versolibere di Anna Santoro, il cui tono graffiante si stende sul quadro desolato di un mondo “bastonato da dittature amiche”; decomposizione e ricomposizione del linguaggio politico mediale della dittatura tecnocratica cinese, modello improprio del capitalismo occidentale in cerca di nuovi erramenti ed orrori, nei lunghi stichi atonali di Ivan Schiavone, il cui tema centrale è la possibilità di una guerra commerciale che è per definizione senza vincitori né vinti, così che le parole di XI JinPing, il capo di tale dittatura, finisce per offrire una sorta di lezione storica indiretta al capo della più grande democrazia occidentale, il Trump creatore di barriere doganali e sbarramenti; quasi eracliteo il correlativo oggettivo costituito dall’immagine del cercatore d’oro nei versi di Giulia Scuro, nei cui versi la ricerca dell’Eldorado dell’utopia, nascosta dietro la forma astratta della democrazia, viene adombrata in un tessuto iconico che è al limite dell’orfismo; nei versi a prevalente cadenza anapestico-ternaria (decasillabi, novenari, settenari con battuta di terza, trisillabi, quaternari), l’acquaforte di Ada Sirente procede a tratti con il ductus ritmico di un embaterion, mimando nell’inceppamento del ritmo finale, l’inceppamento dell’ideale; nella poesia di Rossella Tempesta si tratteggia il deragliamento del rapporto fra istituzione e bisogni, nel luogo dove maggiormente esso si avverte, su quella frontiera del palazzo che l’ente locale rappresenta, quella membrana permeabile e invalicabile fuori dalla cui immunitas sono respinte le aspirazioni comuni degli individui comuni; peculiare, e fondata su una riflessione metapoetica che incrocia potere (guerra) e poesia, è invece il breve esquisse di Christian Tito, in cui l’onnipervasività della potestas devota al bellum, trova un muro nel poeta devoto in qualche modo al “bello”, e travestito da dipendente della potestas, in un duello verbale ed esistenziale esplicito in cui è il poeta, in definitiva, a fornire il suggello (“non importa se non leggete le poesie/ sarà la poesia a leggervi tutti”); sul filo della memoria storica e della mancata fine della storia (come la storia è finita, per i personaggi che la subiscono, e non è mai, fukuyamamente parlando, finita), è la qinah in morte e in vita di Falcone e Borsellino, di Anna Toscano; una struttura da monologo tucidideo di Pericle satanicamente rovesciato, l’immaginario discorso di Trump sullo stato dell’Unione, nelle lasse di stichi atonali di Ferdinando Tricarico, che si presenta come ghost writer dipendente ribelle del sistema e destinato al firing (termine che può indicare tanto il licenziamento quanto l’eliminazione fisica a cura di un plotone di esecuzione), e si configura come l’autore di un logos votato a disvelare e demistificare, dall’interno, lo stesso inganno semantico latente nel termine democrazia; per blocchi semantici ripetuti all’interno di nodi paralogici, o paraetimologici, o demistificatori di pseudo-logiche, procede, come suo uso, la lunga sezione/session poematica di Silvia Tripodi, che illustra l’insensatezza di una macchina perfettamente oliata per alimentare in modo automatico la propria autoreferenziale gestione e governance, così che di fatto la dimensione della democrazia in senso moderno viene essenzialmente esclusa, messa in parentesi; struttura poematica ha anche la lassa di versi lunghi (di un endecasillabo e un settenario accostati, à la Bernardino Baldi) che il sottoscritto, Daniele Ventre, penultimo tra cotanto senno (così sono costretto, con riluttanza estrema, ad autonominarmi e autoclassificarmi, come da completo referto), ha incentrato sull’immagine della Statua della Libertà, parodiando in negativo (piaccia o meno) Emma Lazarus e il suo New colossus, con i suoi proclami politici svuotati di credibilità da decenni di occidentale, euro-americana e democratica non accoglienza classista e razzista del viandante; rapido ed essenziale, epigrammatico, il madrigale muto di Lello Voce, il quale, nella sua brevitas, condensa il nodo della crisi della democrazia nell’insensatezza del suo linguaggio quotidiano, balbettio di politici sgrammaticati, di pubblicità e di vuoti d’anima, sprigionati come sminuzzamenti del senso dal tritacarne del pensiero unico, che riversa sul mondo frammenti di suono, voci chiocce, suole usurate, mani vuote, cielo senza stelle, a restituire all’uomo tardo-moderno l’immagine dell’assemblea pluralistica dominata dalle armi e dal mercato alla fine della decadenza.

Un panorama così apparentemente variegato ed eterogeneo permette, di primo acchito, di delineare, sia pur con qualche approssimazione, un quadro generale di questo spaccato, per forza provvisorio, di una nuova poesia politica possibile. Alcune esperienze e dinamiche sembrano, in tale orizzonte, più centrali (nel senso linguistico, chomskyano, del termine), centrate come sono sul nodo della vita associata in una società complessa, vale a dire il linguaggio come nucleo primario della medialità. In tal senso si muovono, a vario titolo e da differenti approcci e poetiche (ma sono indicazioni di massima, ampiamente rivedibili e gravide forse di eccesso di semplificazione), sia forme espressive, tipiche ad esempio di Marco Giovenale, di Andrea Inglese, Renata Morresi o di Silvia Tripodi, in apparenza lontane dalla forma tradizionale del plurilinguismo comico-realistico dissacratorio, sia la lingua artificiale di Costanzo Ioni, che questo plurilinguismo conduce alle estreme conseguenze. Altri esperimenti, altrettanto centrali, conducono verso la destrutturazione delle dinamiche effettive della comunicazione frontale/mediatica del politico (come individuo storico e come categoria) rispetto alla massa interlocutrice passiva: è il caso, ad esempio, del monologo di Pericle rovesciato di Ferdinando Tricarico, e in responsione inversa, del discorso di Xi JinPing reinventato da Ivan Schiavone, o per altri aspetti del Purgatorius di Guido Caserza; un tono peculiare hanno quei poeti che hanno in varia maniera impresso ai loro versi uno stile contestativo, da corteo apparente, da Claudio Finelli, ad Anna Marchitelli, a Giovanna Marmo; uno statuto particolare va riconosciuto a testi, come quelli di Franco Buffoni, Francesco Filia, Antonio Pietropaoli, Lidia Riviello, Rossella Tempesta o Lello Voce, che aggrediscono da vari punti di vista le metacondizioni sociali e le soluzioni al contorno del discorso della democrazia, tematica di fondo a cui si accostano anche le prese di posizione dei due testi espressamente neometrici presenti nella raccolta, quello di Eugenio Lucrezi e il mio modesto contributo. Una linea a parte è rappresentata dai testi di tempra apertamente neo-lirica, come accade in ordine sparso per Melania Panico, Ada Sirente e Giulia Scuro, le quali affrontano il problema con il loro codice espressivo volutamente decentrato, battendo una via che stigmatizza il degrado del linguaggio della comunità annegandolo nel silenzio, nella non nominazione, più che riecheggiandone la vuota stereotipia. Come si può notare, si tratta di classificazioni che prescindono del tutto dalle diverse poetiche e dalle appartenenze dei vari autori, puntando più che altro a mettere in evidenza gli effetti concreti delle diverse soluzioni espressive adottate.

Ne risulta, fra quelli involti nel caos dell’agorà e quelli che si sono consegnati al romitaggio, una sorta di anti-epos collettivo del declino della communitas ad opera degli immunes, in cui le varie forme in campo definiscono non tanto soluzioni -impossibili e incredibili da parte di chi non detiene alcun potere concreto- quanto ipotesi di lotta per un popolo che manca, sia al momento di aggregazione politica e difesa dei propri diritti, sia al momento di costruzione estetica della propria narrazione come identità dialogante.

 

 

 

 

 

 

 

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I poeti appartati: Silvio Talamo

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Silvio Talamo, poeta che ho avuto la fortuna di conoscere una decina di anni fa, ha appena pubblicato un libro, Poesie/Gedichte, in una elegante edizione bilingue curata dalla casa editrice ProMosaik. Milena Rampoldi le ha tradotte in tedesco. Ho chiesto a Silvio di pubblicarne qui su NI una selezione che spero troverà altre letture entusiaste oltre alla mia.

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Prendi la mia immagine

Su, prendi la mia immagine, è un dono;

puoi farne quel che vuoi.

Accettala.

Puoi prenderla per mano,

piazzarla su di un trono,

attaccarla su di un muro, copiarla,

come un poster in cornice

puoi strapparla, picchiarla o sottometterla,

animale ingabbiato o liberato.

 

Puoi farci un buco con la sigaretta,

inciderne con la lametta l’angolo

o farne un idolo

– buon pasto per il pubblico,

lasciarla navigare sulla carne

dei tuoi sogni per farti trasportare

anche quando appare eretica.

 

Poi, sarà un aquilone

che scorrazza per la casa.

Lei crede bene d’essere il mio corpo

e vorrebbe, magari, farsi specchio,

essere vita che palpita, reale

così come certo è.

 

Solo, ti prego, fa attenzione. Quando,

nel trionfo del tuo assolo

ne avrai mangiato il frutto,

il clamore rifluito,

ricorda, per favore,

sta attento che non scappi…

 

Nimm mein Bild

Nimm mein Bild, ich schenke es dir;

Mach daraus, was du willst.

Nimm es.

Reich ihm die Hand

Setz es auf einen Thron

Häng es an die Wand, mach dir eine Kopie

Wie ein umrahmtes Poster

Dann zerreiß es, schlag es oder unterdrück es

Wie ein Tier im Käfig oder in Freiheit.

 

Du kannst es mit einer Zigarette durchlöchern,

Ihm mit der Rasierklinge in den Winkel ritzen

Oder es in ein Idol verwandeln

Und der Öffentlichkeit zum Fraß vorwerfen,

Lass es auf dem Fleisch deiner Träume segeln

Lass dich von ihm führen

So ketzerisch es auch erscheinen mag.

 

Es wird dann zu einem Papierdrachen

Der durch das Haus schwingt.

Das Bild hält sich für meinen Körper

Möchte wahrscheinlich zu seinem Spiegel werden

Ein flatterndes Leben sein

So wahr wie gewiss.

 

Möchte dich um Vorsicht bitten.

Wenn du dann,

Im Triumph deines Alleingangs,

Die Frucht verspeist haben wirst,

Und der Ruhm verebbt,

Achte darauf, dass dir das Bild nicht entflieht…

*

Precedente agli dei

Precedente agli dei, il tuo guardare,

lì dove ora la storia è nuda e scopre,

sulla terra che brucia, ti sei alzato

antico, in un istante aperto come

una porta sul tempo, una chiatta

sul flusso senza vele, a luce tenue,

quando solo il divino, nel silenzio

percepito – al riparo dallo specchio –

esiste e non le chiese, non i libri

e a parlare era il canto, a cantare

il corpo, a cibarsi ogni pianeta

attraverso la bocca tua affamata,

osservasti la forma, comprendendo

il suo mutare in altro, mentre uguale

la casa dove giochi, non svanisce,

si imperla nell’incenso, proteggendo

nel suo profumo i semi, ti nutristi

hai fame, il dono è questo,

un fiume senza foce è sempre mare,

lo sapevi, lo sai perché il tuo sguardo

è un canto, il tuo passo una risposta,

il tuo torace il tempio, uguale al vento

debole, come il chicco piccolo sei

(che dentro ha tutto il resto), mentre l’ombra

ti ascolta e gli elementi, appena complici

suoi, si intrecciano dentro torri, troni

e regge sconosciute all’architetto,

lo vedi e sei futuro, la radice

non vuole alcun martirio, alcuna croce,

muore il despota e tutta la sua corte

cola ora (in quel momento)

oro dal tuo naso,

vino dal costato

e guardi passo passo il tuo destino

che non comanda, esegue la scrittura

del tuo viaggio, che solo andando dice

 

ed ora certo sai,

ormai hai capito

da quale luogo vieni

e che come una radice è la presenza.

 

Vor den Göttern

Vor den Göttern, dein Blick,

An der Stelle der nun entblößten Geschichte und auf Entdeckungsreise,

Auf der glühenden Erde, bist du aufgestanden

In deiner Altertümlichkeit, einem offenen Augenblick

Wie ein Tor auf die Zeit, ein Lastkahn

Auf dem Fluss ohne Schleier, in einem schwachen Licht,

Wenn nur das Göttliche in der Stille

Wahrgenommen wird – geschützt vom Spiegel –

Und es existiert, ganz ohne Kirchen und Bücher

Es sprach der Gesang, er sang

Den Körper, er sollte sich von jedem Planeten ernähren

Durch deinen hungrigen Mund,

Du beobachtetest die Form und erfasstest

Ihre Metamorphose, unverändert

Das Haus, in dem du spielst, es verweilt,

Es benetzt sich mit Weihrauch, schützt

In seinem Duft die Samen, du spendest die Nahrung

Du hast Hunger, das ist das Geschenk

Ein Fluss ohne Mündung ist ein immerwährendes Meer,

Du weißt, warum dein Blick

Gesang ist, dein Schritt eine Antwort,

Dein Brustkorb wie ein Tempel im schwachen Wind,

Du bist wie ein kleiner (allumfassender) Mittelpunkt, während der Schatten

Dich erhört und sich die Elemente als seine Komplizen

in den Türmen, Thronen

Und dem Architekten unbekannten Palästen verflechten

Du siehst es und bist Zukunft, die Wurzel

Will kein Martyrium, kein Kreuz,

Es stirbt der Despot mit seinem Hof

Gold rinnt (in jenem Augenblick)

Aus deiner Nase,

Wein fließt aus dem Gerippe

Und du durchläufst mit deinem Blick die Etappen deines Schicksals

Das nicht befiehlt, sondern nur die Schrift

Deiner Reise ausführt, die während des Verlaufs spricht

 

Und nun hast du die Gewissheit

Nun hast du sie begriffen

Deine Herkunft

Und dein Dasein, das einer Wurzel gleicht.

*

Tra le carcasse non ci sono fiori

Tra le carcasse non ci sono fiori,
quando nel corpo restano solo ossa
immuni alla vita e gli sguardi trovano,
senza presenza, i volti, l’occhio che
guarda, se non altrove,
lungo la solitudine dei giorni.
Le rughe ostentate come armi.
È inutile cercare ancora lì,
dove tu sai che non ne troverai.

Ci hanno lasciato a custodire i ruderi
di un mondo che è caduto
e chi si è accontentato,
riesce a godere del proprio giardino
credendo di ingrassare,
tracotante di paura,
fra gli steccati che sono orizzonti.
C’è chi muore così come ha vissuto …

Accettarne la morte, prima ancora
di nascere, era il rito del cammino.
Non più ora, ed il mio passo resta
avulso dalle regole del clan:
non c’è tribù ma solo appartenenza.

Resto sui bordi al buio e tasto gli sgorbi
che sporgono dal muro,
cercando la fessura.
Arriverà il mattino,
lavorerò su quei fili di luce.

Zwischen den Schlachtkörpern keine Blumen

Zwischen den Schlachtkörpern keine Blumen,
wenn im Körper nur noch die Knochen bleiben
immun gegen das Leben, die Blicke finden
abwesende Gesichter, das Auge sieht
nur noch der Einsamkeit der Tage entlang.
Die Falten vorgezeigt wie Waffen.
Vergebens, dort weiterzusuchen,
wo du weißt, dass du sie nicht finden wirst.

Sie haben uns zurückgelassen, um die Ruinen
einer gefallenen Welt zu hüten
die sich mit sich selbst zufrieden gegeben hat,
sie genießt ihren Garten
und denkt, sie würde zunehmen,
überheblich vor Angst
zwischen den Zäunen, die Horizonte sind.
Es gibt Menschen, die sterben wie sie lebten…

Ihren Tod anzunehmen, bevor sie
geboren wurden, war der Ritus des Weges.
Nun nicht mehr; mein Schritt ist
losgerissen von den Regeln des Stamms:
Es gibt keinen Stamm, sondern nur Zugehörigkeit.

Ich bleibe an den Rändern im Dunkeln und fühle die Schmierereien, die aus der Mauer ragen
auf der Suche nach einem Spalt.
Der Morgen naht und
ich werde an diesen Lichtfäden arbeiten.

 

Il Dioniso Trasparente

La birra è rovesciata sul bancone

un velo appiccicoso

il legno acceso

che beve

esploso in spillatrici – fiotto di schiuma

dischiusa

sotto a volte di fumo

i manici stretti (boccali) spugnati

in leggere trasparenze

di vetro riflesso

è il gioco

risucchiato in bicchieri

gonfi di particelle

e gas abbagliante

in vortici

di dita stringendo

sigarette incoscienti

che le bocche

scia lo smalto viola

da labbra imburrate

in penombre fluorescenti

le luci rosso pallido

nostro intelletto nel rhum               le donne

-fianchi zebrati

investite da lingue blu (metallo) che graffiano sui

[pullover

e boccate di tenue lilla                  la gente raccolta

intorno al bar

in un successo di whisky e dispersione

che si urla lanciando

brevi segnali

strillati nelle orecchie il senso

è solo accennato il suo silenzio

tenera eco assordante

che filtra dal tweeter

fonde

e i ragazzi di luce storditi

per tutta la santa notte

dentro ai vicoli

due milioni di bar

la legge prende il caos

il caos scolora …

 

e torna      che vi faccia o no piacere

dio sconvolto                          prodotto

il carro ebbro di Dioniso                planando

le sue vesti illibate               stracciate dal catrame

sull’immateriale intrico di città

curva  incroci (l’intera specie operata)

che sbafa (rimpinzata)  smascherata

una danza incantata nell’immobile

stagno – il tempo senza memoria o materia

l’intero suo corteggio

di satiri pompati

che si danno

– le unghie sporche

e sudati

sui marciapiedi

e lo sguardo sbranato

lungo golfi di neon

e saliva incrostata all’angolo dei musi

quaranta milioni di segnali

al banchetto serale di noia e corse

in cui tutti immersi

sbattendo i piedi

in un bagno di clacson

cembali piume-vetrina                       colori

lungo mura-cartello (depilazione laser)

su corpi lisci evanescente obliati

 

ma è un Dioniso ferito

le membra trasparenti

ridotto incatenato quasi esangue…

<< Bisogna ciclicamente

dimenticare la propria esistenza>>

Questo era il suo annuncio

forse l’immagine non è così vuota

ma questo non ci è detto…

 

la realtà ha i tacchi alti…   passa per i tavoli

ciglio aguzzo e sfuggente le due mani

sulla gonna e balla in tondo

inebria percepita ammalia

(la panca piena di cappotti e sciarpe)

ma anche uccide

sempre ridendo                  nel nudo si colora

si svela a poco a poco

e torna a mutare

il suo passo confonde

il frammento e la sua festa

e come obbliga al ricordo

ne segui il vero

e la bugia

si fugge il lato       il più silente

della stessa superficie

fedele al suo amarsi     lei

quanto al tradirsi

 

Der durchsichtige Dionysos

Das Bier auf der Theke verschüttet

Ein klebriger Schleier

Das aufnehmende

Trinkende Holz

Geplatzt in Heftmaschinen – offene

Schaumwogen

Unter den Rauchgewölben

Die engen Griffe, die geschäumten (Bierkrüge)

In leichten Transparenzen

Des gespiegelten Glases

Das Spiel

Aufgesaugt in Gläser

Aufgebläht von Partikeln

Und trügerischem Gas

Im Taumeln

Der Finger, die bewusstlos

Ihre Zigaretten festhalten

Die Münder

Im Kielwasser des violetten Lacks

Gebutterter Lippen

Im leuchtenden Zwielicht

Die Lichter rot und schwach

Unser Verstand im Rum                           Frauen

-Mit Zebrahüften

Von blauen (Metall) zungen überfahren, die auf ihren Pullovern kratzen

Und Schlucke in einem hellen Lila                                 Die Menschen

Rund um die Theke

In einem Erfolg aus Whisky und Zerstreuung

Den man schreit, indem man

Kurze Signale sendet

In die Ohren geschrien, der Sinn

Wird nur angedeutet, sein Schweigen

Ein sanfter, ohrenbetäubender Widerhall

Vom Tweeter gefiltert

Schweißt zusammen

Und die Jungs, verwirrt von den Lichtern

Die ganze heilige Nacht

In den Gassen

Zwei Millionen Pubs

Das Gesetz fängt das Chaos ein

Das Chaos entfärbt sich …

 

Und kehrt zurück … Ob es euch passt oder nicht

Ein erschütterter Gott                           ein Produkt

Der trunkene Wagen von Dionysos                geleitet

Seine unbescholtenen Gewänder               zerrissen vom Teer

Auf dem immateriellen Knäuel der Stadt

Kurve, Kreuzungen (die gesamte Spezies operiert)

Sabbert (übersättigt) entpuppt

Ein verzauberter Tanz im unbeweglichen

Teich – die Zeit ohne Gedächtnis und ohne Materie

Mit dem gesamten Gefolge

Der hochgespielten Satyrn

Die sich offenbaren

– mit ihren schmutzigen Nägeln

Und verschwitzt

Auf den Bürgersteigen

Mit einem aufgefressenen Blick

Den neonbeleuchteten Golfen entlang

Ihr Speichel verkrustet an den Winkeln ihrer Mäuler

Vierzig Millionen Signale

Beim abendlichen Festmahl der Langweile und der Rennen

Vollkommen eingetaucht

Die Füße schlagend

In einem Bad von Hupen

Cembali Federn-Schaufenster                       Farben

Den Werbeplakaten an den Mauern entlang (Laserenthaarung)

Auf glatten Körpern, dahinschwindend und in Vergessenheit geraten

 

Aber es ist ein verwundeter Dionysos

Mit durchsichtigen Gliedern

Angekettet und beinahe empfindungslos…

<< Man muss zyklisch

Die eigene Existenz vergessen >>

So lautete seine Ankündigung

Vielleicht ist das Bild gar nicht so leer

Aber das erfahren wir wohl nie …

Die Wirklichkeit trägt hohe Stöckelschuhe … Geht durch die Tische

Eine scharfe Augenwimper, die den beiden Händen

Auf dem Rock entflieht und im Kreis tanzt

Berauscht, wahrgenommen, betört

(Der Bauch voller Mäntel und Schale)

Sie tötet aber auch

Immer lachend, entfärbt sich in der Entblößung

Entschleiert sich Schritt für Schritt

In ihrer Metamorphose

Der Schritt verwirrt

Das Fragment und sein Fest

Es erzwingt die Erinnerung

Du folgst seiner Wahrheit

Und seiner Lüge

 

Man flieht von der stillen Seite

Derselben Fläche

Treu zur Eigenliebe, so steht sie

Zum Betrug

 

 

 

Lettere dall’assenza #01

5

di Mariasole Ariot

Caro F,

ti scrivo dall’angolo nero della stanza, ho un soffitto pieno di crepe, un corpo attorcigliato ricoperto da un unguento verde, l’affaccio alla finestra è sbarrato.

Il tempo è cristallizzato nel suo opposto, mi vedo rispecchiata sul vetro: un volto bruciato dall’interno, le ossa zigomatiche spingono verso l’esterno, l’occhio s’infittisce, la lingua geografica è consumata dalle parole.

Mi chiedo se nella tua terra siete riusciti a sopportare la sepoltura, il lavaggio del corpo: ti ho sentito e avevi la voce rotta. Ho un lago sotto le radici e vorrei poterci innaffiare i fiori del cimitero di S.

A volte mi distendo calma sule cose, addomestico i silenzi e la giostra del vuoto, indosso la pelle che mi hai regalato nella nostra città di montagna, quando le mura erano alte e tu tentavi la fuga – mi chiamavi Holy Mary. Il maniacale ti afferrava alle caviglie, sei entrato nella mia stanza danzando.

Non danzo più da tempo, F. Le mani si muovono sulla cima del crinale per definire il contorno del burrone in cui sono caduta – dicono faglia beante, e non dicono niente : non c’è beatitudine in questa faglia, non c’è faglia, c’è una separazione.

Perché io, F. sono separata.

Ascolto Cissoko, l’Africa entra dalle intercapedini e cerca di sconvolgere gli avvenimenti. A volte guardo le montagne e vedo solo sassi muti dove prima osservavo marmotte distese sul ciglio dei laghi ad alta quota a prendere il sole, a volte osservo una pozzanghera e non vedo che pioggia: come se il mondo si fosse spento, come se io fossi caduta al di fuori, dove tutto l’impossibile continua a divorare ossicini e non smette nemmeno quando sono consumati.

Ecco, F., è il consumato, il continuo consumarsi delle cose. La tua voce era calma anche quando parlavi di lui, il precipitato (ne ho un ricordo vivo, un abbraccio folle nei corridoi dell’ospedale, una disperazione dolce, una risata aperta: lui, il dottore arrivato da Londra. Lui e il secondogenito con il volto angelico. Gli scrissi lunghe lettere parlandogli di Giuliano Mesa e fotografando oggetti muti nello spazio circostante).

La vita è sempre quest’attesa di contingenze, ma noi siamo nell’assoluto, F., siamo caduti dall’alto dei cimiteri per riposare i rami accanto alle bare, ci rialziamo per comporre una notte.

Ricordi quando abbiamo festeggiato nel giardino paterno? Quando con la dolce M. ci siamo viziati di vino e crepe sul viso? Ricordi il ricordo della città innominabile? Tua madre che girava lo specchio per evitare di vedermi, tuo padre con la papalina islamica chiedeva un matrimonio.

Mi sono spostata, resto appesa al traliccio della casa, e la casa è una consolazione per gli interni. Questa casa da cui cadono parole in forma di pietra, persone come parole, parole come cose, come fatti, come oggetti. Ho visto una goccia appesa al soffitto e ho pensato: è una lacrima, devo gettarmi dalla finestra.

Dicono sia un mancato passaggio al simbolico, una presa dura sul reale dell’esistenza, dicono sia la cosa morta che mi ombreggia il capo e mi accompagna nelle passeggiate mattutine che faccio quando il mondo è ancora nascosto come l’astro potente. Dalle strade vedo piano le luci illuminarsi, le finestre trasformarsi in riquadri gialli e arancio, un quadro atmosferico rimaneggiato per consolazione.

Qualcuno, forse, ha i corpi ancora incastrati, nei dentro dei dentro degli interni.

Mi chiedo dove stia il coraggio dell’uscita – lo chiedo a te, sempre così integro nel mondo, mi arrampico con le mie zampe al tuo braccio in miniatura, ascolto Jordi Savall, una danza di corte, mancano i cavalli, mancano le carrozze, non mancano le nostre parole liquide.

Hai detto: hanno lavato il corpo. È una sonata per violino solo. Hai detto è stato straziante, ma ho cercato la tua lingua solo dopo la telefonata. Cercavo solo di consolarti dicendoti: I’m always here, always with you.

È caduto nella bellezza, hai ripetuto tre volte – o forse l’abbiamo detto insieme. Cadere nell’atto più bello, precipitare nella propria passione, come un musicista che muore d’infarto dopo la Nona di Beethoven, nell’apice del desiderio, sulla cima più alta dei mondi. Era Scozia ed era tutto.

Ancora, come sempre, mi chino sulla superficie liscia dell’animale, divento la bestia ammutinata che si alza lenta per raggiungere il piano delle medicine. Le scarto una a una, le ingoio una a una, e vorrei sputare tutto questo veleno, ma se non lo facessi : rischierei la camicia di forza, i camici della forza, e allora mi faccio compromesso in una vita che non è più vita.

Eppure, F. , quando vedo le stelle ho il ricordo delle tende d’agosto, dell’immensa stellata caduta dal cielo sul prato dei colli Berici, ricordo quella notte come una nascita.

Ho partorito piccoli pianeti dalla bocca, ti ho detto I miss you, hai risposto : sono il tuo uomo d’arancio.

 

Tua,
S.

Il misterioso alfabeto della malinconia di Magliani

1

di Giacomo Sartori

In Prima che te lo dicano gli altri di Marino Magliani (uscito da poco per Chiarelettere) un protagonista di un’età non facilmente precisabile, scopriamo poi che ha cinquant’anni, vive in un piccolo paese di una valle della Liguria. Acquista all’asta un rudere, perché lì ha vissuto moltissimi anni prima l’argentino che proprio in quella casa, e per una estate, gli ha dato ripetizioni e si è occupato un po’ di lui, che non aveva un padre. Ora parte alla ricerca di quell’uomo ripartito molti anni prima per l’Argentina, e dato da tutti per morto.
L’uomo, solitario e un po’ spostato, vive principalmente nel passato, all’insegna della malinconia, vale a dire in compagnia della madre e delle altre persone della sua infanzia, che sono in maggioranza morte. Come è morto il carruggio (molti non liguri, come me, lo hanno imparato leggendo Magliani, cos’è un carruggio), nucleo vitale della frazione, sventrato per fare passare le macchine. E vive anche nel presente, ma come aggirandosi sulle macerie lasciate dalla malinconia, in un paesaggio anch’esso disastrato, al meglio riciclato per finalità edonistiche dagli stranieri (“La Liguria invasa dai tedeschi e dai rovi.”). Esegue azioni molto concrete, vivide, quali comprare olive e incontrare un avvocato, ma prive di un senso esplicito e di una necessità, e quindi per certi versi astratte. E poi vive anche nel futuro, nell’aspirazione di incontrare quell’uomo con il quale ha avuto un rapporto effimero ma bello, alla ricerca del quale partirà per l’Argentina. E lo troverà, perché non fa parte dei desaparecidos, come si diceva. Ricevendo conferma che è suo padre.
Quello che non si capisce è cosa lo muova, questo personaggio. E pare intuire che forse nemmeno lui lo sa più di tanto. O meglio, sa quello che vuole fare nelle sue giornate, sono i perché profondi, e le spiegazioni che dà a se stesso, che rimangono misteriosi. Certo per incapacità sua (“I ragionamenti che non riusciva mai a formularsi bene del tutto, per la poca abitudine a lasciare che le idee parlassero, ora popolavano il buio”), ma non solo. Anche il padre ritrovato, che pure è un uomo di studi e di cervello, è così.
Quello che li lega, scopre, è la malinconia (“Pensò che solo in quel momento poteva vedere per la prima volta cosa aveva preso da suo padre. Forse la malinconia”). E’ lì che i due si ritrovano (“Era l’alfabeto della malinconia. Forse l’unica cosa che aveva ereditato in egual misura da un padre e una madre e dall’aria del carruggio.”), non certo nella gioia o nell’emozione. Forse proprio per incapacità di scardinarla, la malinconia, parlano di cose di ordine pratico, di quello che è successo nella valle nei cinquant’anni che sono trascorsi, non di cose intime, di loro stessi. Con il risultato che quello che non è detto risulta essere più importante di quello che è detto (“Come se il buio e il silenzio e gli odori di quella camera contenessero i cinquant’anni trascorsi, ripensava alla quantità di cose che s’erano confessati e a quelle di cui non erano riusciti a parlare. In confronto, le seconde erano molte e molte di più, e allora avrebbe voluto rimediare, invece di star lì, in quel letto, in attesa che fosse mattina e l’uomo che dormiva nella stanza accanto si svegliasse.”)
Magliani evacua anche questa volta la falsa credenza, che regge le nostre vite, che le nostre giornate e i nostri anni abbiano un senso, o almeno una direzione, una logica voluta. O forse il senso c’è, ci suggerisce con questa storia che è legata alla Storia della Liguria e dell’Argentina, ma gli interessati non ne sono consapevoli. Quello a cui sono confrontati sono le azioni quotidiane, e le sensazioni, e i ricordi, soprattutto i ricordi, soprattutto quelli dell’infanzia, perché noi viviamo di ricordi dell’infanzia, che sono per noi più vividi e struggenti del presente (“«Uno è il posto dove si nasce» disse. «Poi ti innestano.»”). E i pensieri elementari che a questi stimoli del passato e del presente sono collegati. Ma anche se questi fossero più elaborati non cambierebbero nulla, non sarebbero un supporto. Forse un tempo il padre li aveva, dei pensieri più ambiziosi (come anche i protagonisti dei due recenti romanzi autobiografici di Magliani ambientati in Olanda, Il canale Bracco e L’esilio dei moscerini danzanti giapponesi), caratteristici delle persone colte o che fanno dei ragionamenti una professione, ma ora sembra essersi arreso anche lui al mistero.
In questo magma senza direttive e senza spiegazioni convincenti di passato, presente e futuro, tipico di Magliani, e con la sua solita lingua bellissima e imprevedibile, questa volta ha un posto centrale anche la violenza. Che prende la mano del protagonista, che è cacciatore e bracconiere, da un momento all’altro senza essere annunciata e misteriosa per le sue origini e le sue finalità, come qualcosa di inevitabile e non bello, questo lo vede anche lui stesso. Non sappiamo, e non lo sa lui, cosa lo spinge a commettere in Argentina una lenta turpitudine ai limiti del sopportabile, applicando all’uomo i suoi gesti di bracconiere. Potrebbe essere una vendetta, e con una sua solida giustificazione morale, ma risulta che lo non è, perché la vittima, pur sempre macchiata di infami delitti, non si rivela essere colpevole nei confronti dell’uomo che cerca. Ma dove c’è Storia c’è anche violenza, sembra dirci Magliani, in Liguria (la lotta partigiana, e i suoi strascichi, che abita molte sue storie), come altrove. E anche quella è incomprensibile, come tutto il resto.

Carla Lonzi. Scacchi ragionati ma non troppo

2

di Jamila Mascat

***

Compleanno […]

Eppure è duro accettare

che il tempo batta per secondi

che il cammino si faccia

un passo dietro l’altro,

che la gioventù sia solo

il ribollente serbatoio

della maturità ragionevole.

(Roma, 9 marzo 1958)

*****

Scacco ragionato, una raccolta di testi poetici scritti da Carla Lonzi tra il 1958 e il 1963 e pubblicati postumi, prende il titolo dall’omonima serie di poesie, sei in tutto, contenute nel volume in questione e ordinate dall’autrice secondo una progressione numerica. Ermetico, il titolo è perfino controintuitivo, dal momento che lo scacco è « matto » per antonomasia, mentre Lonzi lo vuole insolitamente « ragionato »:  non necessariamente razionale né ragionevole, ma quantomeno meditato e soprattuto veritativo. Scrive Lonzi: « La parte poetica era sì ragionata ma nel senso che voleva la verità della mia identità », identità mancante e strutturata precisamente intorno ad una lacuna, che le appare, per questo carattere irresolubile, il tratto più proprio della sua condizione.

Per Lonzi lo scacco non sta ad indicare l’evento fatale di una disfatta né la mossa vincente che determina la fine della partita. Piuttosto denota un accadimento seriale, individuato e appunto reiterato, o meglio un’andatura, prescelta – « l’andatura / innocente di chi si tiene /equidistante dal nulla » scrive Lonzi in Migrazione – e che culmina in una linea di condotta.

Dalla raccolta di poesie Scacco Ragionato 1958-1963, Rivolta femminile, 1985

 

Scacco ragionato

Così quando in allarme

sempre più in allarme

a un’occhiata scopri

quantità di situazioni

interrogative e non c’è

oggetto o immagine o suono

o niente di niente

che non sembri messo lì

un istante in atteggiamento

ermetico e provocatorio

come chi non lascerà

la posa se non hai sciolto

l’enigma della neutrale

familiarità di sempre

e l’asciugamano l’albero

la ringhiera con fissità

inamovibile sotto sguardi

pazienti e scetticamente

ragionevoli sbarrano

ogni centimetro in cui

distendere l’indiscussa

superiorità, scatta

lo sportello segreto,

l’antica impotenza

di chiocciola germogliante

nel buio, all’aggressione

che pretende spargere

oscuro disfattismo

nel corso dei tuoi pensieri

e anzi a uno a uno

metterli in scacco

con voce di pura cosa

dopo lunga attesa

staccata dal silenzio.

(Roma, 10 luglio 1958)

***

Ascolta: non può essere

perduta questa parola

come non può essere

perduta la mia anima

in un angolo del creato.

… Tu mi dici invece

che tutto può andar

perduto e dimenticato.

(Firenze, ottobre 1953)

***

La tartaruga

Di giornate interminabili ti chiedi

se siano trascorse e se a infiniti

passi nel vuoto siano corrisposti

infiniti secondi nel tempo e inquieta

senza pulsazioni aggiri te stessa

con occhi scorrenti su un mondo

di ostinate sciarade, occhi di tartaruga

bionda allibita senza suono e senza

la posizione verticale; che qualcuno

abbia dolcezza per il tuo esposto mistero

e cautamente lo cerchi accostando un dito

all’ingresso dell’infrangibile guscio.

(Milano, 28 ottobre 1959)

***

Anniversario

Anniversario

di anni versarii

di versamenti dall’inguine multiplo

nell’era consubstanziale

sostanziali benefici del versare

in vasi comunicanti

i liquidi della comunicazione

indotto dallo splendore

dell’atto genitale

genitori sconfitti nell’alveo

dei clan e le mense

del mangiare.

(Milano, dicembre 1963 / gennaio 1964)

*****

Le poesie, scrive Lonzi nel diario « erano la mia immagine » – nonché « l’unico aggancio a cui tener fede ». Aggiunge: « Nella parte poetica riconoscevo me stessa, nella parte concettuale mi affermavo verso l’esterno ». La poesia è quindi l’inizio di una ricerca, il cominciamento di un percorso, ma anche e soprattutto un’anticipazione, che precorre l’itinerario destinato a sbocciare con la scoperta del femminismo. Lonzi esplicita questo pensiero in un’intervista a Michèle Causse del giugno 1976 dove ricorda: « Anch’io ho scritto delle poesie quindici anni fa, che sono il diretto antecedente di quello che poi mi ha orientato nel femminismo, ma non ho mai cercato di pubblicarle, perché non vedevo una, una sola persona che avrebbe potuto ‘leggerle’ ». Alle sue poesie Lonzi riconosce il portato quasi profetico di un presagio d’esperienza: « le ho rivissute nel presente e erano giuste, tutte giuste e autentiche », annota il 23 ottobre 1972. L’autenticità affiora dunque nei versi ben prima che cominci l’avventura di Rivolta femminile e che la pratica dell’autocoscienza diventi un esercizio collettivo. « Il mio bisogno era autentico » – nota Lonzi, sempre nel diario – a proposito di quel suo primo germoglio di scrittura, e altrove confida in una lettera a Gabriella Kristeller: « Mi sono salvata scrivendo poesie, una pratica di autenticità allucinante in cui tentavo di salvare tutti i fallimenti sul piano personale in chiave di autocoscienza ».

 

Da Taci, anzi parla. Diario di una femminista, Rivolta femminile, 1978

Mi si presenta
la sensazione di qualcosa
irreparabile – la vita stessa.

Mai mi sono sentita
con le spalle al muro
come adesso – mai più calma

Capire – far parte
capire di far parte
non c’è altro
io – la mia porzione di cecità
io – la mia porzione di luce.

Quando ti accorgi
di avere “sbagliato”
pur essendo nel “giusto”
(che era prevedibile
ma proprio quello
ti eri distratta
dall’aver previsto)

capisci tutto – anzi
ricordi che lo capivi
prima – poi l’ipotesi
comune ti aveva tentata.

***

Io correvo
le nuvole correvano
non raggiungevo mai
le nuvole
Adesso cammino
col mio passo
e guardo
le nuvole che corrono

***

La mia vita vacilla
vedo in lui un altro uomo
i suoi occhi sono ottusi
si rifiuta di capire.
Siamo alla fase in cui non si dà
ma si tiene stretto
quello che siamo.
Tutto ciò che era ovvio
ritorna enigmatico sospetto
si ricomincia tutto da principio
lui mostra di non aver capito
né accettato.
Allora cos’era prima?
Perché non ci succede
di scioglierci
come prima?
Perché ci guardiamo
negli occhi per cercare
nell’altro il proprio dubbio?

***

Sto mettendo i cavalli
al mio carro
sto facendo i preparativi
per partire –
no, non è ancora
avvenuto –
il mio carro
la mia strada.
Lascio tutti
ma non sono triste
più strano ancora
non ho paura
non ho altra scelta
e dipende solo da me.
Il cavallo grigio
ha nome Noncuranza
quello rosso Follia.

Cineventura

0

 

 

di Roberto Coaloa

 

In un sondaggio del 1987 fu chiesto ai francesi chi fosse il loro attore preferito. Sorprendentemente, non vinse né Alain Delon né Jean-Paul Belmondo, ma un immigrato italiano: Lino Ventura. È un nome che in Italia si sente poco. Come la sua voce – quella erre un po’ roulé addolcita da un lieve accento parmigiano, alla Bernardo Bertolucci – inspiegabilmente doppiata in quasi tutti i suoi film apparsi in Italia. Eppure, ovunque tranne che in patria, Lino Ventura è l’attore italiano per eccellenza.

Nel 2019 cadrà il centenario della nascita di Lino Ventura, nato a Parma il 14 luglio 1919, morto a Parigi il 22 ottobre 1987. L’attore, in trentaquattro anni di attività, ha girato 74 film. A Parigi, nel nono arrondissement, un decennio dopo la sua morte, è stata dedicata a Lino un’intera piazza. Ventura ha girato film importanti: Touchez pas au grisbi (Grisbì) di Jacques Becker (1953), Ascenseur pour l’échafaud (Ascensore per l’inferno) di Louis Malle (1957), Classe tous risques (Asfalto che scotta) di Claude Sautet (1959), L’armée des ombres (L’armata degli eroi) di Jean-Pierre Melville (1969), Le clan des siciliens (Il clan dei siciliani) di Henri Verneuil, La bonne année (Una donna e una canaglia) di Claude Lelouch (1973), Cadaveri eccellenti di Francesco Rosi (1976), Garde à vue (Guardato a vista) di Claude Miller (1981), Cento giorni a Palermo di Giuseppe Ferrara (1984).

La vicenda umana di Lino Ventura è interessante non solo per la carriera d’attore. È esemplare anche della storia dell’emigrazione italiana del Novecento.

Lino, all’anagrafe «Angiolino, Giuseppe, Pasquale», è figlio di Giovanni e di Luisa Borrini. Il 7 giugno 1926, Luisa e il piccolo Lino, abbandonati da Giovanni, arrivano a Parigi. La vita del piccolo migrante è difficile, umiliante, penosa. Il riscatto avviene con lo sport, dopo aver partecipato in Francia alla Resistenza. Nel 1953, «per caso», Ventura è scelto dal regista Jacques Becker (allievo di Renoir) per una parte importante da contrapporre al mitico Jean Gabin. Nasce una nuova stella del cinema: Lino Ventura conquista spettatori e critici al suo primo film, Touchez pas au grisbi (Grisbì). I francesi sono incantati da questo atletico italiano, che ha rischiato di morire fucilato durante la Seconda guerra mondiale, per aver disertato l’esercito di Mussolini e aver fatto parte – con il soprannome di «L’Italien» – alla guerra partigiana sotto l’occupazione tedesca. Benché impegnato gloriosamente nella Resistenza, Ventura non mancò di allacciare una sincera amicizia, difesa sempre a spada tratta, con José Giovanni, accusato viceversa di collaborazionismo, in losche vicende marsigliesi, nei più neri fra tutti i giorni della storia francese. Con Giovanni l’attore farà i film più riusciti: Le rapace (Il rapace) del 1968, Dernier domicile connu (Ultimo domicilio conosciuto) del 1969, Le ruffian (Una cascata tutta d’oro) del 1983.

È strano notare come la figura di Ventura, una star del cinema mondiale, sia stata sinora completamente snobbata in Italia! Proprio lui che ci tenne a conservare la cittadinanza italiana, rifiutando le onorificenze francesi e accettando quelle italiane. Per un’incredibile bizzarria, infatti, solo nel Bel Paese, Ventura è considerato «un attore francese», mentre per il resto del mondo Lino è l’attore italiano per eccellenza. Forse perché i film italiani di Ventura, con registi come Rosi e Ferrara, erano troppo “moderni” o “politici” per la critica cinematografica italiana, attenta in quegli anni più ai registi e alle loro scelte letterarie e stilistiche che agli attori, alle sceneggiature e al cinema tout court.

Lino Ventura, oggi, ci manca tantissimo. Chi scrive vorrebbe poter ammirare lo sguardo penetrante di quegli occhi scuri, la voce calda, i movimenti lenti del corpo… Amo il cinema e Lino ci manca non solo come attore, ma come uomo: perché c’era tanto altro in lui. C’era il fascino naturale della persona intelligente, unica con una vita dura e straordinaria alle spalle.

Di lui ci restano scene memorabili dai suoi film. Da La Bonne Année, le riflessioni con la bellissima Françoise Fabian: «Il matrimonio che cosa è? È un contratto, e i contratti di solito sono fatti per chi ha paura. Per me il matrimonio, è la paura della solitudine, della libertà! Perché la vera libertà porta sempre alla solitudine! È la paura di trovarsi una sera solo con due uova al tegamino, senza la tv, senza la pensione… O se lo preferisce è la paura di trovarsi soli senza un altro che in fondo ha più paura di te, ecco! È la prigione? Oh no, è peggio, in prigione ci sono i compagni!».

Di lui ci restano memorabili interpretazioni. Lino Ventura appare l’attore giusto per interpretare protagonisti letterari come Jean Valjean di Hugo o il commissario Rogas di Sciascia. Il film I miserabili di Robert Hossein è impensabile senza Ventura.

Quando il cinema affronta la letteratura si espone a grossi pericoli, ma se la combinazione è condotta con intelligenza i due “valori” possono sommarsi e favorirsi reciprocamente. Così funziona il film Cadaveri eccellenti di Francesco Rosi. Charles Vanel che all’inizio del film passeggia tra le mummie di Palermo, e soprattutto il serrato dialogo tra Max von Sydow e Lino Ventura, sono un importante rilancio di suggestione rispetto alla pura parola. In questo caso la connessione funziona, in assenza cioè di introspezione. Infine, la forza comunicativa e il sex appeal del divo Lino Ventura non devono essere considerati valori tolti al romanzo, ma valori aggiunti.

Sposato a Odette, padre di quattro figli, Ventura, a partire dagli anni Sessanta ha aiutato i bambini diversamente abili e le loro famiglie con i suoi soldi, cercando fondi con manifestazioni pubbliche. Ha creato istituti di ricerca medica e l’associazione umanitaria «Perce-Neige», che sopravvive, dopo la sua morte, come Fondazione. L’associazione nacque nel 1966 dopo un appello di Ventura alla televisione francese: «C’è dunque questo problema fondamentale che tormenta le notti insonni di tutti i genitori: quando noi moriremo, che ne sarà di loro?». «Loro» sono i bambini portatori di handicap mentale. Ventura, in Francia, anticipava di cinquant’anni la legge sul dopo di noi, approvata in Italia solo nel 2016.

Augusto Agabiti: un intellettuale del primo novecento

5

di Nicola Fanizza

Non so quanti ricordino Augusto Agabiti, una singolare figura di intellettuale marchigiano; e quanti – meno ancora, immagino – conoscano le sue avventure editoriali. Eppure la rivista «Ultra», di cui fu animatore e poi direttore dal 1907 al 1918, occupa un posto di rilievo nel panorama culturale del primo Novecento.

Agabiti era nato a Pesaro il 7 gennaio 1879, figlio di Francesco (garibaldino che combatté a Bezzecca e Mentana) e Vincenza Barugi. Sua sorella Celestina divenne madre del critico letterario Walter Binni.

Dopo aver frequentato il liceo, si trasferì nel 1897 a Roma, dove frequentò la facoltà di giurisprudenza laureandosi nel 1901. Qui si trovò davanti una città culturalmente più ricca e variegata di quanto probabilmente si aspettasse. Le riviste della capitale avevano dato vasta risonanza alla polemica contro il positivismo, ospitando articoli in cui si dava conto delle diverse declinazioni dell’idealismo (mistico e razionalista). Agabiti si schierò con i mistici – quelli che poi sarebbero stati dimenticati –: ossia con letterati mossi da istanze spiritualistiche (pur con tracce dello scientismo positivistico), e nel 1904 divenne membro attivo della Società Teosofica1 di Annie Besant.

Negli anni successivi sfruttò al meglio le sue competenze storico-giuridiche per promuovere – attraverso deputati e ministri, che frequentava per il suo impiego alla Camera dei Deputati come vice-bibliotecario – diverse leggi di carattere «igienico-sociale», legate allo sviluppo delle sue idee teosofiche e umanitarie: la legge sui limiti della vivisezione degli animali, la legge sull’alcolismo, e altre per lui personalmente importanti e corrispondenti a problemi assai vivi, e spesso assai avanzati, in quegli anni di primo Novecento.

In tutti i suoi saggi, conferenze e articoli, Agabiti si adopera per ricomporre la scissione, prodotta dalla filosofia positivista, fra scienza e religione: la via da seguire era già stata indicata dagli antichi teosofi greci e orientali, i quali avevano sostenuto che la verità risiede soprattutto dentro di noi, nei principi intellettuali e nella vita spirituale dell’anima. Il contenuto di questa verità stava a fondamento di tutte le religioni. Ed era possibile coglierlo attraverso la sapienza profonda, la dottrina segreta, l’azione occulta dei grandi iniziati, profeti, riformatori che quelle stesse religioni avevano creato, sostenuto, diffuso.

Un approccio che troviamo nella sua opera più nota, Ipazia, la prima martire della libertà di pensiero. Qui la tragica vicenda della scienziata e filosofa, uccisa nel 415 ad Alessandria d’Egitto da monaci fanatici istigati dal vescovo Cirillo, diventa l’occasione per denunciare le derive esiziali di tutti i fondamentalismi.

Strettamente connesso al suo spiritualismo teosofico è la sua attività di riformatore umanitario. Anzi si può dire che la cifra della sua opera sta proprio nella battaglia che egli ingaggia per rinnovare lo spazio sociale, per promuovere le relazioni degne.

Così con Il problema della vivisezione del 1911, e ancor di più con L’umanità in solitudine del 1914, l’Agabiti auspicava l’alleanza degli uomini con la natura e con gli altri esseri viventi, soprattutto gli altri animali.

Così in Tortura sepolcrale, il nostro pericolo più spaventoso, del 1913, Agabiti rifletteva sulla morte apparente, ponendo all’attenzione del lettore una questione troppo spesso dimenticata: la tafofobia, ossia la paura di essere sepolti vivi, una paura che in seguito ha angosciato anche lo scrittore Leonardo Sciascia2.

Come evitare la «Tortura sepolcrale»? O spostando nel tempo la tumulazione dell’estinto oppure costruendo uno strumento capace di segnalare il suo risveglio. Tale strumento fu effettivamente costruito e fu messo in commercio col nome di «Karnice»3: si applicava sulla tomba ed era in comunicazione con il defunto per mezzo di un tubo terminante in una palla di vetro sospesa sullo sterno. Verificandosi un movimento all’interno della cassa, una potente suoneria echeggiava nel cimitero mentre aria fresca entrava velocemente dal tubo e gli accorsi, applicando l’orecchio potevano ascoltare le richieste di soccorso. Il Karnice fu in voga nei migliori cimiteri (in Italia costava 300 lire).

Nel 1914 di fronte allo scoppio della prima guerra mondiale, Agabiti assunse l’atteggiamento tipico degli interventisti democratici. Riteneva che la guerra contro l’Austria fosse la prosecuzione del Risorgimento.

Partecipò al conflitto come ufficiale del genio con un iniziale entusiasmo, testimoniato anche dalla larga attività esercitata al fronte come propagandista4.

Ma a un certo punto egli provò di fronte alla guerra una reazione, che revocava in causa anche le sue prospettive politiche.

L’indicibile sofferenza che egli provava di fronte alle vite spezzate e le umiliazioni a cui gli ufficiali sottoponevano i soldati – per lo più contadini o appartenenti alle plebi urbane – lo spinsero a schierarsi dalla parte delle classi subalterne. Si avvicina pertanto ai partiti socialisti e radicali. Ma ciò che è davvero rilevante è il fatto che Agabiti, nella lettera inviata alla sorella Margherita, in data 24 maggio 1917 – in largo anticipo rispetto alla Rivoluzione di Ottobre e della successiva pubblicazione dei Quattordici punti di Wilson –, si schieri contro la diplomazia segreta e auspichi la nascita degli Stati Uniti d’Europa e, insieme, degli Stati Uniti del mondo5.

Evidenti segnali del suo cambiamento sono percepibili anche nella lettera – inedita – che Agabiti invia, in data 1 febbraio 1918, a Piero Delfino Pesce – direttore della casa editrice Humanitas –:

«Finalmente, dopo averle scritto dieci lettere almeno, e venticinque cartoline, oggi ho ricevuto una sua cartolina. Ella mi chiede il mio indirizzo ed io subito glielo comunico. Raccomando la lettera per timore vada smarrita pure essa.

Mai dovetti rivolgere all’amico Cervesato per pregarlo di scriverle a mio nome.

Ora io sono molto cambiato, politicamente parlando.

Da trenta mesi sto in zona delle operazioni ed ho seguito lo svolgersi degli avvenimenti da cima in fondo. Ho un grande desiderio di sapere qualcosa dei miei lavori e specialmente del manoscritto del romanzo.

Attendo suoi scritti. Qui si lotta e spera.

In guerra, usando del pochissimo tempo disponibile, ho scritto un lungo lavoro sulla Società delle Nazioni.

Saluti. Quanto desidero parlarle di politica!»6.

Ma un mese prima della fine del guerra, durante una breve licenza a Roma, Agabiti fu colpito dalla spagnola e morì il 5 ottobre.

Concludendo queste note sulla sua vicenda biografica, mi viene da dire che è vero che la sua vita è stata breve, ma anche intensa e illuminata.

 

 

 

 

NOTE

 

1) Nel 1910 Augusto Agabiti si staccò dalla Società Teosofica. La Besant aveva sostenuto che Jiddu Krishnamurti – un ragazzo indiano di rara bellezza e intelligenza – fosse il nuovo Maestro del Mondo. Agabiti, però – pur credendo nella metempsicosi –, non era disposto a seguirla su questo piano. Aderisce pertanto alla Lega Teosofica Indipendente, e costituisce subito dopo un gruppo a sé con spiccate tendenze per la ricerca mistica.

2) Per scongiurare la possibilità di svegliarsi nella sua bara, Leonardo Sciascia diede precise disposizioni in riferimento al suo funerale: la tumulazione non doveva avvenire il giorno successivo alla sua morte, bensì a tempo debito!

3) Augusto Agabiti affidò la prefazione del suo libro Tortura sepolcrale al conte Michel di Karnice-Karnicky, Ciambellano dell’Imperatore di Russia e ricco filantropo, che dedicò la sua vita alla morte (apparente), fabbricando da sé i modelli del suo apparecchio, che avrebbe consentito di comunicare all’esterno il risveglio del «defunto». Da qui il nome di Karnice che venne dato all’apparecchio costruito nelle officine meccaniche Lindner di Berlino.

4) Le conferenze tenute da Augusto Agabiti a favore della guerra furono raccolte in volume e pubblicate dopo la sua morte, Sulla fronte giulia: note di taccuino 1915-1917, 1919.

5) La lettera inviata da Augusto Agabiti, in data 24 maggio 1917, a sua sorella Margherita, è rinvenibile sul sito Web ttps://www.fondowalterbinni.it/primo_piano/augusto.htm.

6) La lettera inviata da Augusto Agabiti, in data 1 febbraio 1918, a Piero Delfino Pesce è custodita nel Fondo Piero Delfino Pesce, depositato presso la Biblioteca Santa Teresa dei Maschi–De Gemmis, Bari, Corrispondenza, b. 24, f. 4, n. 27. Augusto Agabiti era entrato in contatto con Pesce già nel 1913, grazie alla mediazione del loro comune amico Arnaldo Cervesato. Da questa lettera si evince che Agabiti aveva scritto un romanzo nonché un saggio incentrato sulla Società delle Nazioni. Si tratta di due lavori di cui non conosciamo nemmeno i titoli e che probabilmente sono andati perduti. Da una precedente lettera inedita inviata dall’erudito pescarese in data 21 dicembre 1913 al direttore dell’editrice Humanitas, apprendiamo che Agabiti si sarebbe dedicato nel gennaio successivo alla «sistemazione del Trattato di Teosofia o Filosofia religiosa liberale». (La lettera appartiene alla collezione privata del cultore di storia locale Giovanni Santo). Infine, dalla lista dei libri della casa editrice Humanitas si evince che Pesce si era già impegnato a pubblicare un altro lavoro di Agabiti, intitolato Mistero tomba. Nondimeno di questi ultimi scritti conosciamo solo i titoli e probabilmente sono andati anch’essi perduti.

I tetti e le scale

2

di Monica Pezzella

Due giorni dopo la nascita dei pulcini, la città si riempì di uomini che, con spazzole e secchi di colla, attaccavano i manifesti dei giochi. Tappezzarono il parapetto sul canale e la muratura dei palazzi vecchi. Tagliarono persino l’edera che ricadeva nodosa e fitta dalla cinta dietro la chiesa, per appiccicarli anche lì. Arrivarono nel buio del mattino, incuranti della notte tempestosa e del piovischio che l’acquazzone si era lasciato dietro. Sulla strada si abbassava la nebbia. Al riparo del gocciolatoio, con le unghie serrate su un angolo del cornicione, la Grigia e altri sei sette piccioni allungavano il collo e guardavano l’uomo che immergeva lo spazzolone nel secchio e stendeva sul muro il manifesto umido. Per due settimane, fino all’arrivo dei giochi, gli strati di cartoncino avrebbero continuato ad accumularsi uno sopra l’altro e già l’odore della colla, colata in rivoli sui marciapiedi, si mischiava con il sentore ferroso del temporale.

Allo spuntare del primo chiarore oltre i tetti, la Grigia volò sulle sagome indorate di spioventi e torrette fino al nido nella città vecchia, un buco irregolare sopra il collo ricurvo di una grondaia e, sul fondo, due stalattiti levigate come molari. Tutto ciò che lei e lo Stroppio erano riusciti a procurarsi per l’inverno, in vista della nidiata nuova.

Quando lo Stroppio la vide arrivare, uscì dal nido e saltò sulla grondaia per darle il cambio nella cova e farle posto dentro il buco scalcinato. Per due giorni e due notti, da quando i pulcini erano nati, la Grigia se li era tenuti nascosti sotto il caldo piumino del ventre. Si era alzata solo per sgranchirsi le ali e spingersi a becchettare qualcosa vicino ai bidoni sul retro della palazzina. Da quella mattina erano cominciati i turni di cova con lo Stroppio e adesso, mentre lui arruffava le piume e stendeva la coda in un ventaglio di sfumature nere e verdognole, come quelle che ha il petrolio sull’acqua, la Grigia gli guardò il collo sporco, il gozzo diradato e attaccaticcio, il moncherino della zampa gonfio e ritorto come un tubero. E le palpebre plumbee, pesanti. Lo Stroppio era stanco, ma i pulcini dormivano sazi sul cuscino di piumetta e ramoscelli. I corpi somigliavano a grossi datteri, dalle testoline ricoperte di peluria si allungavano becchi enormi e slabbrati. Il piccino che cresceva male dormiva pure lui. Non era giallo come gli altri. Sulla schiena e sulla testa gli spuntava una peluria grigiastra e la pelle, tutta raggrinzita sullo sterno sporgente, era violacea e secca e lo faceva somigliare a una prugna. Nascondeva la testolina implume sotto le ali dei fratelli, le palpebre traslucide strette nel sonno. Nei primi giorni era più facile nutrire i piccoli. Il gozzo dei genitori produceva una specie di latte caldo e mieloso, il becco dei pulcini era morbido e pulito e il mondo di fuori non aveva né motivi né forme per infilarsi nel nido e contaminarlo.

Quando i pulcini compirono cinque giorni, il latte finì. La Grigia e lo Stroppio tornarono ai luoghi dove il cibo era buono e abbondante. C’erano volte, soprattutto in estate, in cui bisognava mangiare le pietre per darsi l’impressione di avere il gozzo pieno e non soffrire la fame. Allora si beccava la strada vuota, le scagliette d’asfalto, il ghiaietto nei cortili, il terreno umido intorno alle radici. Adesso, con i pulcini, non lo si poteva più fare. Niente asfalto, niente ghiaietto, niente terreno. Il cibo doveva essere buono.

Gli uomini mettevano grano e pane sopra i balconi. Non usavano le trappole perché volevano che i piccioni mangiassero il franto avvelenato e andassero a morire da qualche altra parte. E se non morivano in tempo, i genitori intossicavano anche la nidiata. Non si poteva neppure razzolare sotto i tavolini dei bar all’aperto, perché là, quando nessuno guardava, i camerieri sparavano agli uccelli con le pistole ad aria. Allora, tutto ciò che restava era la strada. La Grigia e lo Stroppio dovevano contendersi i tozzi di pane con gli storni e le cornacchie. Il cibo nutriente però non mancava, soprattutto adesso che per i giochi nel quartiere si erano messi i carretti con i dolci di sesamo e i pentoloni di olio bollente per la friggitoria. Nelle contrade di periferia c’erano i pollai, con le mangiatoie di granturco e i pastoni di crusca e ceci macinati, ma erano lontani dalla città vecchia e bisognava allontanarsi dal nido per raggiungerli. Erano quasi tutti prefabbricati perché dalla pineta arrivavano i corvi e le cornacchie grigie a mangiarsi i pulcini. Nel raggio battuto dalla Grigia, di pollai aperti ce n’erano solo due. Il primo era un pezzo di terra oblungo, poggiato contro un muro e cinto su tre lati da un’alta rete per galline a cielo aperto. I posatoi e le cassette della cova erano ombreggiati da un glicine che ricadeva da una lamiera ondulata. Quando le galline mangiavano, se si faceva in tempo, si poteva recuperare il pastone che cadeva dal retro delle mangiatoie. Il secondo pollaio era un po’ più vicino alla città vecchia, ma c’era un molosso a fargli la guardia. Gli uomini buttavano il pane e il franto direttamente nel terreno e usavano un secchio basso, tagliato in due, per metterci l’acqua. Il molosso era tenuto a una catena corta e dormiva in un bidone rovesciato, inferocito da molti anni di noia. La Grigia ci andava lo stesso perché, quando le galline avevano i pulcini, il pastone era fatto con uova e ricotta.

Con il gozzo pieno di questa minestra sostanziosa, la Grigia tornò al nido nel pomeriggio. I pulcini pigolavano forte. Solo il piccino fuligginoso dormiva e, mentre gli altri già sbattevano le ali per farsi avanti, lui stava in disparte sotto la stalattite di muratura. Aveva il muco al naso e gli occhi non si erano aperti ancora. Nel nido si diffuse l’odore di grano e ricotta, ma il piccino non si mosse. Quando il sole calò tornò il temporale. Tutta la notte la Grigia covò il corpicino freddo, rimase sveglia a guardare le gocce di pioggia scivolare sul moncherino dello Stroppio che riposava fuori sulla grondaia, perché nel nido non c’era posto per tutti e due. E ascoltò il rantolo catarroso tramutarsi ogni tanto in un ronzio stanco. Era il suo pulcino che faticava a respirare.

Al mattino il temporale si allontanò. La Grigia volò sopra i tetti incatramati verso la chiesa e il palazzone spigoloso della banca. Una polvere rossa riempiva il vento. Aveva lasciato allo Stroppio il nido umido e pigolante. Il piccino malato si era svegliato con le caruncole molli e rosse, incrostate di muco e saliva. Una giornata tiepida gli avrebbe dato speranza ma, allo spuntare del sole, il vento cadde e ricominciò a piovere. Durante la notte il gelo aveva ghiacciato le grondaie e ora una lastra spessa e scivolosa ricopriva i vetri delle finestre a tetto e sigillava gli infissi. Schegge di ghiaccio galleggiavano sulle pozzanghere. Nello spettrale silenzio della strada, i piccioni si lavavano tuffando il collo arruffato nelle pozze, l’acqua tanto fredda che sembrava dura. Le luci della piazza erano tutte accese. Lo striscione dei giochi si tendeva da parte a parte all’imbocco della via principale e, al riparo sotto il porticato della chiesa, un venditore sistemava sui ripiani di una vetrina ambulante le ciambelle di mais con semi di sesamo e i bastoncini di pastella.

La Grigia planò su un lampione. La lampada ronzava sotto gli artigli e gettava sul selciato un cerchio di luce che si intersecava con le circonferenze proiettate tutto intorno dagli altri lampioni. Poche figure umane si spostavano veloci nell’ombra aguzza della banca. Da lì sotto, non potevano vedere le simmetrie di luci e i coni di pulviscolo che cadevano come tendoni a tagliare la nebbia. Intorno alla calda testa del lampione aleggiava una nube di vapore e, attraverso l’aria tremula, la Grigia scorse un fagotto scuro sui gradini dell’entrata laterale della chiesa. Guardando meglio distinse il profilo di una cornacchia che, con il capo dritto e le ali cadenti sulla pietra, tendeva e gonfiava il collo come un mantice. Dal gozzo rotto, sporco di polvere e sangue, veniva fuori solo un soffio strozzato. In pochi minuti la piazza si riempì di gente. Nessuno guardava la cornacchia. Arrivarono i bambini a comprare le ciambelle di sesamo. Mentre il venditore era impegnato ad abbassare la tenda sulla vetrina ambulante, la Grigia planò a beccare i semi e le briciole.

Nel nido portò gli odori della festa, zucchero tostato e frittura, e per la prima volta l’arrivo dei giochi in città sembrò una cosa buona per tutti. Solo il piccino malato era lontano dalla felicità, stretto in un sonno che non lo lasciava uscire. A sera la Grigia tornò in piazza, volando nel vento contrario. Il banchetto ambulante non c’era più. L’aria si era irrigidita. Uno strato di ghiaccio copriva il corpo della cornacchia e il collo ferito ricadeva molle da un gradino. Morto, l’uccello non era che un cumulo di neve sporca. L’indomani sarebbero passati gli spazzini a portarlo via. L’acqua piovana aveva ripulito il selciato e la Grigia tornò al nido stanca e con il gozzo vuoto, ma col piumaggio impregnato degli aromi della festa che aleggiavano sopra la città. I pulcini le si accalcarono intorno, spintonando il corpicino malato giù in fondo, impiastricciandogli il becco dischiuso con una colla di escrementi e piume. La Grigia non lo covò. Non gli si avvicinò neppure. Sarebbe morto nella notte, presto, come la cornacchia. Restò ad ascoltare il suo respiro ansante e ininterrotto da lontano, ferma sulla grondaia su di una zampa sola, la testa incassata nel collo gonfio per scaldare le orecchie. Il vento, che per tutto il giorno era andato e venuto, portava fin lassù il fumo delle carbonelle dai balconi più sotto. A ogni minuto, alla Grigia sembrava che il piccino fosse finito, ma poi di nuovo il fischio catarroso si levava stremato nella notte senza rumori. Fuori e dentro al nido, il mondo era proprio ciò che era sempre stato, un insensato guazzabuglio di quiete e fatica.

Al mattino il sole emerse dalla lunga notte e rischiarò il cielo. Anche se non poteva vederlo, la Grigia sapeva che il piccino era vivo. Non si sentiva più lo stridio di vetri rotti che gli aveva scosso il corpo raggrinzo. Un raggio caldo, pieno di polvere vorticante, trafiggeva il nido e scaldava i pulcini. Tutti dormivano, tranne lui che la guardava con occhi neri e immobili, le ali piccole e storte attaccate al corpo come i germogli su un fagiolo. Le narici tumefatte, sotto due grosse rughe che gli pinzavano la fronte in mezzo agli occhi, gli conferivano un’espressione imbronciata e severa. Dal collo storto della grondaia, la Grigia osservava la linea frastagliata dei tetti. Lo Stroppio era uscito presto per beccare il selciato della piazza prima che gli uomini lo ripulissero degli scarti della notte. Ai piedi del palazzo, una figura curva procedeva a piccoli passi sul marciapiede trascinandosi dietro una scopa di ramoscelli e un secchio su due ruote. Ce n’era un’altra sulla parte opposta, vestita con gli stessi colori smorti. A quell’ora del mattino le strade erano attraversate dal sommesso frusciare e trotterellare degli spazzini che ramazzavano i rifiuti delle bancarelle, raccoglievano i manifesti sfaldati e strappati, scrostavano gli escrementi ammonticchiati sotto i palazzi, in corrispondenza dei cornicioni su cui i piccioni riposavano uno accanto all’altro in una fila compatta.

Lo Stroppio planò sull’orlo sbreccato del nido. Il sole gli accendeva sfumature di verde e carminio sul collo nero. Pieno di colori nella luce calda, girò due volte su se stesso, sfregando le ali sul groppone bianco e tubando per svegliare i pulcini. Subito fu attorniato da un frenetico battere d’ali e fu sopraffatto dai becchi spalancati e tesi sulle zampe malferme. La Grigia ascoltò i fischi dei piccoli che si sovrapponevano ai richiami provenienti dagli altri buchi nei muri lungo la strada e seguì con gli occhi i piccioni che volavano da una palazzina all’altra nella luce bassa, trotterellavano di soppiatto sui balconi a rubare l’acqua dai sottovasi e si corteggiavano sulle ringhiere arrugginite. Più in alto, nel cielo profondo, il volo stazionario dei gabbiani. Adesso, nella città che si risvegliava, c’era anche il suo piccino, ignaro della battaglia che aveva combattuto durante la notte. Si trascinava su una zampa sola, l’altra abbandonata sotto la carena sporgente, e concentrava tutte le forze in un grido affamato. La sua volontà disperata e forte si dimenava nel corpo ancora troppo debole per gareggiare con i fratelli. Lo Stroppio nutrì gli altri pulcini che, una volta sazi, crollarono a uno a uno nel sonno. Poi si chinò sul piccino che pareva essersi ormai rassegnato, il grido ridotto a un pigolio sfinito. Con la punta arrotondata del becco, lo Stroppio dischiuse la bocca del piccolo e gli rigurgitò nel gozzo la minestra semidigerita. Il piccino incespicava nelle zampe e stentava a ingoiare, ma lo Stroppio lo seguì nei suoi movimenti affannati piegando il collo e abbassandosi sulle ginocchia, finché anche lui si addormentò, col gozzo pieno e caldo.

Alla bella giornata ne seguirono altre. Il sole stemperava il clima rigido e scioglieva i cristalli di brina che il continuo soffiare dei venti notturni scolpiva sui tronchi degli alberi e sui pali della luce. Nelle prime ore del mattino la città riluceva sotto un sottile strato d’acqua. Sul tetto immerso nella luce bianca e nel silenzio, i pulcini si esercitavano battendo le ali per non scivolare sul catrame sdrucciolevole. Incapaci di volare, si avvicendavano in saltelli goffi e pesanti nel tentativo di raggiungere il cappuccio piatto dei comignoli. Attraverso le canne fumarie si udivano i suoni e i passi nelle case, le voci degli uomini appena svegli. Dal nido non era difficile salire sul terrazzo.

Bastava saltare sulla grondaia e da lì infilarsi tra le bande di una ringhiera cadente e arrugginita. Il piccino malato non era ancora in grado di sollevarsi sulle zampe e spiccare in voli brevissimi. Si doveva accontentare di battere le ali all’interno del nido, che quando i fratelli non c’erano aveva tutto per sé. La voglia di guardare il mondo fuori, di tanto in tanto, lo spingeva ad avvicinarsi al bordo e allungare il collo verso il punto da cui provenivano i pigolii dei fratelli e il loro entusiastico frullare d’ali. La Grigia, dall’alto della balaustra, vedeva spuntare la testolina umida, le piume rade sui nervi tesi tra la nuca e l’attaccatura delle ali. Pian piano, gli occhi arancioni roteavano e la intercettavano, attraversati da un guizzo di impazienza cui seguiva, puntuale, un richiamo disperato. Quando le strade si animavano, i pulcini rientravano nel nido e la Grigia lisciava loro le piume ricoperte di fuliggine. Ben presto i piccoli sarebbero saltati sulla ringhiera rossa e storta e, anziché piombare giù sul tetto incatramato, si sarebbero levati in volo fino alla palazzina di fronte e da quella sui rami più bassi dei pini. Quando al suo piccino fossero cresciute lunghe e forti le remiganti delle ali, anche lui avrebbe spiccato il volo in cerca di un altro buco in un altro muro della città.

La città, dal canto suo, diventò ben presto pulitissima. Un giorno, di primo mattino, la Grigia planò sulla solita lampada e vide che non c’erano più gli escrementi degli uccelli a rigare i marciapiedi e persino i cornicioni sembravano più puliti. I cassonetti dell’immondizia erano vuoti e quelli vecchi o ammaccati erano stati sostituiti. Le finestre che affacciavano sulla piazza esponevano gli stendardi dei giochi che si gonfiavano baldanzosi nel vento. Fuori dai portoni non c’erano i sacchetti dei rifiuti e sulla strada non rotolavano cartocci e buste vuote. I lampioni erano ancora accessi quando si udì il mugugnare di un motore e un camioncino con un corto rimorchio coperto da un telone svoltò l’angolo e si addentrò nei vicoli del centro procedendo a stento. Poi il rombo del motore si allontanò fino a dileguarsi e i piccioni planarono sui tetti in gruppi di tre o quattro, attirati da un forte odore di grano e pane, per poi zampettare circospetti alla vista di un intruso che non si aspettavano di trovare.

La Grigia volò sul parapetto di un ampio terrazzo, già assediato da un nugolo di uccelli accalcati intorno a una breve scia di franto. La traccia conduceva a un’enorme gabbia in filo di ferro di forma ottagonale. Nonostante la porta fosse spalancata, nessuno si azzardava a entrare. Anche sul palazzo di fronte i piccioni affollavano la balaustra con il collo allungato a scrutare il lastrico. La Grigia saltò giù dal parapetto e becchettò il grano sparpagliato per terra. Ma la gabbia faceva paura, con il vento che soffiava tra le maglie e i piccioni che le svolazzavano intorno in un continuo avvicinarsi e ritrarsi, incoraggiati dalla fame e insospettiti dall’imponente rete di ferro. Il grano sparso sul catrame si esaurì in pochi minuti. Il primo a oltrepassare la soglia e addentrarsi sul fondo di alluminio cosparso di chicchi e croste di pane fu un grosso maschio grigio scuro che, girando su se stesso e tubando con fare spavaldo, finì nella gabbia quasi per caso. Subito gli altri vinsero l’esitazione e lo imitarono.

La Grigia aveva il gozzo mezzo pieno e, insieme ai piccioni arrivati per primi e già sazi, fuggì nell’udire il rombo del camioncino che tornava a percorrere su e giù le strade del quartiere. Planò sul cappuccio piatto di una canna fumaria sopra il tetto di un palazzo in ristrutturazione. Sotto, la rete di protezione si tendeva e sbatacchiava tra i tubolari dei ponteggi. Il nido si trovava oltre due file di palazzine più basse. Da lì la Grigia poteva vedere i tozzi comignoli di rame su cui i pulcini si erano esercitati e un angolo della grondaia che girava intorno all’edificio. Il nido era nascosto da un’enorme scala. Alcuni gradini erano rossi di ruggine e in cima c’era una piattaforma circondata da ringhiere. Il vento diffondeva il brontolio del motore accesso e il cigolio degli ingranaggi che si assestavano affinché la piattaforma si posizionasse in corrispondenza del buco sopra la grondaia. La scala, una tetra struttura di segmenti estensibili in acciaio, si alzava dal rimorchio di un camion del tutto simile a quello che poco prima la Grigia e gli altri piccioni avevano intravisto mentre perlustrava, con metodo oscuro, i vicoli della città. Avvicinandosi, la Grigia si accorse che i tronchi degli alberi lungo il marciapiede erano uniti da un nastro a bande rosse e bianche. La scala si arrampicava lungo il muro nel suo grigiore metallico e glaciale, tagliava l’ombra delle chiome ed emergeva dalla foschia bassa. Un uomo in tuta e stivali saliva lentamente reggendo una cassetta di alluminio con il coperchio che si sollevava in due metà separate. Raggiunta la piattaforma, l’uomo avvicinò la scatola al nido, allungò un braccio e si sporse di lato, tenendo il coperchio semiaperto all’altezza del buco. Cercò di infilare dentro una mano inguainata, ma fu subito assalito da un frenetico battere d’ali e da un’esplosione di piume nere. Lo Stroppio svolazzò intorno alle braccia dell’uomo che, piegato in due, si aggrappò alla ringhiera con la mano libera. Quando l’uccello si posò sulla grondaia, tubando minaccioso, alzando e abbassando la testa a fendere l’aria con il becco, l’uomo lo scacciò agitandogli contro la cassetta di alluminio. Un pulcino allungò il collo a guardare fuori. Dall’alto piombò un guanto verde e ruvido che, per quattro volte, si spostò rapidamente dal nido alla scatola. Tre pulcini li prese subito. L’ultimo, invece, si era rifugiato giù in fondo, sotto una protuberanza del muro. Per raggiungerlo l’uomo fu costretto a infilare dentro il braccio fin quasi alla spalla. Con la testa girata di lato e la guancia accostata all’intonaco, rimestò la poltiglia di escrementi e lanugine finché le dita gommate non incontrarono il corpicino schiacciato contro il muro. Quando tirò fuori il braccio, l’uomo si accorse che la camicia gli si era tutta striata di escrementi verdognoli dal polso in su.

«Che porcheria» imprecò, scagliando l’ultimo pulcino nella scatola. «Quanto mi fanno schifo». Si udì un tonfo violento, poi il coperchio si chiuse. L’uomo si allungò sulle punte dei piedi per controllare che dentro non ci fosse più niente, quindi ridiscese, tenendo il contenitore poggiato su un fianco. Arrivato a terra, si rivolse a una seconda figura che sedeva nell’abitacolo del camioncino.

«Questi mettili nell’ultima camera a gas» disse. «In quell’altra non c’è più spazio». Gettò la scatola sul rimorchio e montò a bordo.

La scala si richiuse su se stessa e andò via, rumorosa e indifferente.

Il mattino portò una pioggia affilata e pungente e sembrò quasi che l’inverno dovesse tornare a sigillare la città. Il nido non era che un buco vuoto e freddo in un muro. Il temporale sorprese gli uomini durante la parata di apertura dei giochi. I fagotti e i tamburi avevano appena varcato la soglia coronata dallo striscione ed erano entrati nella strada principale, mentre la folla assisteva schiacciata contro i muri sotto gli stendardi, quando il cielo si era fatto scuro e il vento era cessato. La Grigia, dall’alto di una torretta, vide gli ombrelli aprirsi a uno a uno e la strada che si trasformava in un lungo tetto di campane nere e lucenti. La musica proveniva da là sotto, attutita e interrotta a tratti, come da una sala di pietra coperta da un’immensa cupola. Nel buio del temporale si accesero le luci a illuminare la facciata della banca.

La città era bella, e immobile.

Non si può arrestare l’umanità

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di Michele Monina

Riace è un messaggio pericoloso perché dimostra che l’accoglienza è possibile”. Questo diceva poche settimane fa Domenico Lucano, sindaco della cittadina calabrese, balzato agli onori delle cronache come modello vincente di integrazione.

Da questa mattina Riace non è più pericolosa. Alle prime luci dell’alba, infatti, per Lucano sono scattati gli arresti domiciliari, con una accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e fraudolento affidamento diretto del servizio di raccolta dei rifiuti. Cadono invece le più pesanti accuse di concussione, malversazione e truffa ai danni dello Stato.

La notizia è presto rimbalzata sui social, complice l’ennesimo infelice tweet del Ministro dell’Interno Salvini che nel deridere il sindaco di Riace ha approfittato ancora una volta per attaccare i “buonisti”. L’indagine che ha portato all’arresto è stata coordinata dalla Procura di Locri e ha per oggetto la gestione dei finanziamenti erogati proprio dal ministero dell’interno, oltre che dal Comune di Riace e dalla Prefettura di Reggio Calabria, finanziamenti destinati ai richiedenti asilo e si rifugiati.

Stando all’accusa, Lucano e la moglie Tesfahun Lemlem, cui è stato disposto il divieto di dimora con Lucano, avrebbe messo in piedi un vero e proprio sistema illegale atto a accogliere cittadini clandestini, attraverso espedienti criminosi quali matrimoni di comodo tra cittadini e immigrate.

Negli atti della procura di Locri Lucano viene descritto come “spregiudicato”, anche se lo stesso Gip Luigi D’Alessio sottolinea come la gestione sia stata disordinata, ma in assenza di illeciti e senza che nessuno abbia intascato un euro.

Questi i fatti.

In sostanza il sindaco di Riace e la moglie vengono accusati di aver organizzato uno o più matrimoni di comodo tra cittadini italiani e ragazze straniere al fine di far prendere loro la cittadinanza italiana e di poter quindi rimanere in Italia. L’indagine era partita in tutt’altra maniera, e verteva inizialmente sull’uso non idoneo degli strumenti quali i bonus e le borse lavoro, laddove si ipotizzava che venissero usati per ovviare ai ritardi nell’erogazione dei fondi, ma questa ipotesi è presto caduta, lasciando però in evidenza alcune incongruenze che hanno portato a un’altra accusa, quella attuale.

Ma questo non è un semplice arresto di un amministratore, come ahinoi negli ultimi decenni se ne sono visti tanti.

Lucano ha dato vita, nel corso degli anni, a un modello di integrazione funzionante, una eccellenza si direbbe, che non a caso prende il nome proprio dal comune che per anni ha guidato, il modello Riace. E il suo tempestivo arresto, con annesso giubilo da parte di Salvini, sembra una sorta di matteottizzazione in chiave non violenta (sempre che arrestare qualcuno non sia di per sé atto violento). A Riace, infatti, cittadina che nel corso degli ultimi anni è rinata anche e soprattutto per una integrazione virtuosa tra la cittadinanza autoctona e i migranti, si è instaurata una filiera funzionante, che dimostra come sia possibile una idea di integrazione, idea decisamente lontana da quella espressa da Salvini e dalla Lega. Qui i migranti hanno in comodato d’uso gratuito le case sfitte dei riacesi. I soldi destinati agli affitti vengono girati a cooperative di cui fanno parte sia i locali che i migranti, dove vengono insegnati lavori a questi ultimi, con la possibilità di avere un piccolo stipendio da rimettere in circolo nella comunità.

I Bonus vengono invece utilizzati per gli acquisti di prima necessità e le spese inerenti alla gestione quotidiana, il tutto in un circolo virtuoso che evidentemente è stato visto e indicato a lungo come una crepa nel quadro di guerra tra poveri dipinto da chi ci governa.

Questa cosa dell’azzittire l’opposizione, minacciare Saviano di togliergli la scorta, minacciare i giornalisti di chiudere l’albo, più in generale fare la voce grossa, al limite dell’abuso di potere è una china dalla quale sembra sia difficile uscire. Avere per nemici chi in venti anni ha fatto rifiorire una zona morta, dimostrando come la convivenza e l’integrazione non solo sia possibile, ma porti grandi benefici sia agli italiani che ai migranti, dimostra solo come si stia provando, purtroppo con successo, a dividere per comandare, usando metodi non troppo diversi da quelli che un tempo portavano all’eliminazione fisica dei propri avversari, Giacomo Matteotti evocato poco fa ne è esempio fulgido.

Di fronte a tutto questo, credo, non ci si può limitare a alzare le spalle rassegnati, né a lasciarsi andare a desolanti lamentazioni nei social.

Il modello Riace, studiato e ripreso anche all’estero come nostra eccellenza, non deve essere lasciato naufragare, Domenico Lucano non può essere lasciato solo. L’umanità, intesa come capacità di empatizzare con l’altro, di accoglierlo, di cercare e trovare una soluzione di convivenza possibile non è arrestabile, fisicamente e metaforicamente.


(pubblicato ieri su Notizie.it)

Armand Robin, il poeta che sfidò la propaganda

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di Leonardo Recanatini Satriano

C’è qualcosa di ferocemente romanzesco nella biografia di Armand Robin, nella parabola che lo condusse dagli Champs Élysées della Bretagna rurale di inizio secolo, atavica e analfabeta, attraverso l’incubo espressionista dei kolchoz russi, sino al palcoscenico della Repubblica di Vichy. La vita contadina, le perversioni dello stalinismo, l’odore ammuffito della Francia di Petain, gli ammiccamenti alla Résistance e al fronte anarchico: nella vita di Robin sono visibili in controluce tutte le stigmati del Novecento europeo, tutte le sfaccettature tragicamente necessarie di quell’enorme rito di passaggio che ha traghettato il continente dalla Belle Époque all’età dell’algoritmo. Una biografia, dunque, scandita da tempi e luoghi precisi, insostituibili, in cui Robin era coscientemente immerso, e che permeano fino in fondo la materia porosa dei suoi testi, recentemente pubblicati dalla Giometti&Antonello di Macerata nel volume L’indesiderabile. La falsa parola e altri scritti.

Tutte le sfumature della vita di Robin vengono rispecchiate dai suoi lavori, a cominciare dalle due principali attività che l’autore svolse nel corso della sua vita, un duplice centro di gravità intorno al quale ruota tutta la sua opera: l’attività di traduttore e quella di radioascoltatore dei bollettini di guerra esteri, ufficialmente per il Ministero degli Interni del governo collaborazionista ma, da antifascista dichiarato (celebri le sue lettere al vetriolo inviate alla Gestapo), anche per gli oppositori del regime in clandestinità.

Una parte cospicua dei suoi scritti è dedicata ad una critica letteraria sui generis, in cui la trattazione di autori specifici maschera una riflessione universale sul significato del linguaggio, della traduzione, della poesia, facendosi essa stessa letteratura: Joyce, “outlaw of Time and Space” che “per amore d’un introvabile assoluto, finì per considerare relativo ogni assoluto già conquistato”; Mallarmè, che sognava del Libro Unico “senza lettori tranne forse qualche dio bianco come il marmo o il margine del foglio” e che incarnò “il momento in cui la civiltà occidentale avrebbe potuto diventare una sorta di civiltà cinese”; e poi Pasternak, Valery, Majakovskji, fulgide stelle del firmamento letterario in cui Robin volle dissolversi.

“Fuggendo l’inferno, andando di era in era, lottando contro me stesso ad ogni passo, mi feci ogni grande poeta di ogni Paese in ogni lingua. Raggiunsi un Eden anteriore alla torre di Babele; laggiù tutti parlavano un’oltre-lingua; vomere allegro la mia anima inciampava di ceppo in ceppo per tutta la lunghezza della parola incorrotta.” In Robin, la traduzione sembra perdere ogni connotazione di passività e di subordinazione rispetto all’opera originale, per tramutarsi in un atto iper-creativo, in una sorta di sciamanesimo poetico, in una fuga forsennata dalle parole e soprattuto dall’Io; l’unica via che conduce alla salvezza consiste nell’esiliarsi da sé stessi sino a smarrirsi nel pleroma della Langue: “Senza parola, io sono ogni parola; senza lingua, sono ogni lingua. Ondate di voci incessanti ora possono affiorare in me […] Mi distendo in una spiaggia docilissima e immensa dove dei vasti esseri collettivi, nervosi e tumultuosi, approdano in un gemito elementare. Da tutti i linguaggi confusi insieme sento comporsi una sorta di non-linguaggio indicibilmente rumoroso; è il non-linguaggio che ascolto nei suoi sforzi supremi mentre tenta di atterrare.”

Complementare ai testi di carattere letterario, troviamo una peculiare saggistica di stampo politico-sociologico, esemplificata dallo scritto che dà il titolo alla raccolta. La falsa parola può essere descritto come un trattato sulla propaganda, frutto del sopracitato mestiere dell’autore: dall’ascolto notturno delle radio di tutto il mondo nelle lingue più disparate scaturisce una particolare teoria dei mezzi di comunicazione di massa, delle loro tecniche e del loro linguaggio specifico. Concentrandosi in particolare sulle trasmissioni delle radio staliniane, Robin individua nella propaganda il principale nemico della coscienza individuale: spietata, martellante, incessantemente all’opera, essa ha come unico obiettivo quello di svuotare gli uomini dal pensiero e di lasciarli in uno stato di “morte in vita”.

Ora, è possibile, anzi probabile, che tali questioni al giorno d’oggi suonino acclarate; ciò che tuttavia rende La fausse parole un testo unico nel suo genere è lo stile con cui la tematica della “critica della comunicazione” viene affrontata, lontanissimo da qualsivoglia approccio scientifico o sobriamente accademico alla materia. Attraverso una prosa convulsiva e febbricitante, lo scontro tra Pensiero e Propaganda assume una portata cosmologica, si fa eterno, si muta in una battaglia tra potenze fantasmatiche combattuta nell’Etere della coscienza: “Nel corso del mio tête-à-tête con le radio del mondo, mi capita di provare la sensazione, come per via medianica, di un contatto con i temibili esseri psichici che assediano il pianeta, ossessionano l’umanità, cercano interi popoli di menti da soggiogare, divorare, saharizzare. In tali momenti, l’insieme della propaganda riversata simultaneamente su ogni Paese, di giorno e di notte senza mai un momento di interruzione, mi sembra che si trasformi in uno stormo di uccelli rapaci impazienti di piombare sopra milioni e milioni di cervelli. Al di là delle parole, percepisco le grida dei carnivori della mente in cerca del pasto”.

Le parole della propaganda si svincolano dal loro ruolo originario, quale che sia, sfuggono dal controllo di chi le ha evocate, divengono entità tanto mortifere quanto incorporee: “Gli esseri che sostanziano la propaganda vivono come arcangeli duri e insostituibili, impietosi nei riguardi degli stregoni scientifici che li hanno originati; in breve tempo essi riducono i pavlovizzatori a dei riflessi condizionati […] La parola staliniana non ha più bisogno di Stalin, e si beffa di lui.” Quella contro il “Verbo assassino” è una lotta biblica e lovecraftiana, dove la principale minaccia proviene da quegli “assassini delle anime [che] sognano di instaurare sull’intero secolo la dittatura della psicofagia”. Gli unici in grado di opporsi a tutto ciò non saranno né gli intellettuali, né i borghesi, ma gli “uomini molto semplici”, “irriducibilmente consustanziali alle loro parole”, individui vagamente messianici dotati di “una purezza di qualità metafisica”, che “si rifugiano nella propria, più pura interiorità.”: dall’opera degli “spiritualisti negativi del Politburo” sorge, inaspettato, un “insostituibile aiuto per la formazione di una spiritualità positiva”.

È innegabile che Robin abbia svolto gran parte delle sue attività in solitudine, che si trattasse di trascrivere i bollettini di guerra britannici o di tradurre Omar Khayyám; eppure, quella in cui egli si rinchiuse fu una torre d’avorio estremamente affollata, strabordante di voci e immagini, popolata da poeti, dittatori e contadini, un non-luogo dove egli combattè la sua battaglia solitaria e decisiva contro gli “sparvieri del pensiero”. Robin impiegò ogni istante della sua vita alla ricerca della suprema forma di liberazione dal linguaggio colonizzatore, approdando ad una scrittura che è mistica laica; intuì le meccaniche del suo tempo – “Mi appare chiaro il vero carattere della guerra di questo secolo: guerra nel cervello, guerra contro il cervello” – e fu profetico nel tratteggiare il secolo che andava formandosi come battaglia tra il “qualitativo” e il “quantitativo”, embrioni di ciò che oggi chiameremmo dimensione umana e big data: “Se vuole riposarsi, un mondo simile ha bisogno di vari secoli d’assoluta vacanza, ha bisogno di vacare per un millennio nell’assoluto. Spinti da quest’estrema rovina, invano degli scienziati preparano vicino a noi regni dai quali, a partire da un’esistenza desensibilizzata, algebrizzata, mutata in relazioni numeriche, sorgeranno svaghi di secondo grado”. Correva l’anno 1953.

 

*

 

[Articolo apparso con il titolo “Chi è Armand Robin, il poeta-giornalista che odiava la propaganda” su  “Il dubbio” del 7 settembre 2018]

 

I poeti appartati: Alida Airaghi

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da Consacrazione dell’istante

di

Alida Airaghi

 

For most of us, there is only the unattended

Moment, the moment in and out of time

Eliot, The Dry Salvages V, 206-207

 

 

 

 

È qui, presente; o forse sta per nascere.

Segreta ancora, ancora immaginata

solamente. Non certa, non decisa;

potrebbe ripensarci, fuggire,

rinunciare, preferire l’assenza.

O non esistenza, scegli – ti prego –

di esserci. Appari come sei:

chiara, evidente.

 

*

 

Prova a pesare un pugno di sabbia,

e poi mezzo pugno, così leggero.

Tieni tra le dita solo qualche granello,

e il resto lascialo scorrere, mia mano clessidra.

Non lo fermi, il tempo, e quello che è successo

non puoi fare che non sia accaduto;

ma misura l’istante, la sua sfida

all’eterno. Il solo granello rimasto

fermo tra pelle e unghia:

l’adesso che dura e non si è perduto.

 

*

 

Impaziente di essere, diventa vero

e arde e si consuma; improvviso

bagliore, inaspettato pensiero

folgorante (o voce, o battito

di ciglia, o corpo esploso;

corpo in frantumi, incendio).

Abisso dell’ignoto, stella cometa,

lancinante traccia nel buio, nome

appena suggerito:

rivelazione, ascesa, intuito.

Baratro e infinito.

 

*

 

L’occupazione dei santi: tendere

(attendere) al punto in cui il tempo

incontra il non tempo, e si perde,

si annulla, conduce all’istante

bloccato nel nero del nulla.
L’aspirazione dei santi: scoprire

nel buio feroce, crudele, severo,

la sua negazione. La luce.

 

 

*

 

Ma quando tutto è immobile,

e non succede niente: l’aria è ferma,

il caldo sopportabile, e un tale silenzio

mi impressiona come fossi morta

senza essermene accorta. Quando nemmeno

il moscerino sull’orlo del piatto si muove,

né l’albero in giardino scuote

le sue foglie. E il cielo è azzurro tutto,

sgombro, terso; il lago liscio,

non c’è bava di vento che lo sfiori.

Allora penso, come una tentazione,

di essere un incidente nel creato,

inessenziale e assurdo; e supplico

un evento qualsiasi, una dimostrazione

della mia esistenza reale.

Ed ecco, accade. Qualcosa accade,

fuori di me e dentro. Un urlo,

un tremito, il merlo che gracchia

tra i rami, e vola via.

 

*

 

Affronta l’eterno, vi affonda,

scompare: così inessenziale

e minuto, così puntiforme

e casuale.

Ma in lui, nell’istante,

c’è uno spazio

concreto.

Pensiero, sospiro, offesa, carezza.

Più vero, vivo e reale

di ogni assoluto.

 

*

 

Improvviso, l’istante di pace.

Di ordine e tranquillità,

nel sole che scompare al di là

di un muro indefinito di nebbia,

e sospesa la luce non ci offende.

Allora dico no alle parole,

e ripeto no all’istinto

rapace che vorrebbe assorbire

ogni fuori esistente.

Sta buono, mio udito. Mia vista,

abbassati. Lasciate che sia

solo suo, ciò che appare

e attende una resa clemente.

 

*

 

Il momento prevale. L’evento.

L’adesso, il qui.

Presente-riassunto del prima, del poi

(degli altri, di noi).

E non te ne andare,

minuto-secondo-istante

del tutto: sii punto.

 

*

 

I miliardi di persone che non siamo

– il vecchio cinese curvo sulla ciotola

di riso, la ragazza brasiliana

che cammina sulla spiaggia.

Un bambino londinese, la donnina

messicana al mercato.

Non ci siamo riusciti, a essere

altro, o altri: ma solo la piccola

cosa che viviamo. Qui, e qui;

magari altrove, a volte. Sempre

con le nostre mani, il nostro fiato;

i minimi trionfi del passato,

e un domani previsto e prevedibile.

Gonfi di abitudine,

delusi da tante viltà

che non perdoneremo.

Forse un istante,

uno solo, verrà – in ritardo,

a salvarci.

“Esisto”, diremo,

tagliando un traguardo insperato,

da non condividere.

 

*

 

Dall’assenza, da ciò che prima non c’era:

semplicemente, il niente.

Da lì veniamo,

dalla non esistenza. E in essa torniamo,

incoscienti, nemmeno spaventati.

Muti, stupiti del silenzio che ci aspetta,

del moto che rallenta e poi si ferma.

Noi che eravamo presenti

– ad occhi spalancati, a mani tese.

In un istante, assenti.

 

*

 

Avvicinarsi,

stringere il cerchio.

Puntare dritto al bersaglio,

sforzando la vista.

In prossimità della meta,

del dichiarato impenetrabile:

sia buio respingente

o intollerabile luce.

Verità intravista appena,

il niente che acquieta.

 

 

*

 

Ci apparirà, come dicono,

tutta la vita che abbiamo

vissuto, e sprecato,

nell’istante finale, oscuro;

nel necessario momento

dell’unico giudizio,

del solo tribunale.

Perché

da soli ci condanneremo

o ci perdoneremo,

quando il futuro intero

svanirà nel passato.

 

*

 

Furtivamente arriva,

quasi ladro,

approfittando di un’assenza,

di difese esitanti.

Gli basta una fessura, e penetra

nel tempo, nel silenzio; tacito irrompe

luminoso, violento. Schiarisce

l’angolo più buio della stanza,

della mente: impone la sua folle

danza in un istante.

Imploso

dentro un colpo di vento,

poi sparisce.

 

*

 

Intercettare dio,

il dio della pazienza e del conforto,

il dio che aspetta, e sa, e non ha fretta;

fermo nella potenza,

a sé risorto; visibile

in una chiara, arresa

trasparenza. Così arpionarlo,

con dita scorticate

tremanti, innamorate:

pretesa indifferibile

dopo una vita avara.

 

*

 

Qualsiasi momento si ribella;

anche il più insignificante è sovversivo,

dichiara guerra al nulla

e al sempre, è vivo,

arrogante e fiero

della sua unicità:

pronto a sparire,

ma attento a sé,

presente.

L’istante, il vero.

 

Quel diablo di Baldrati

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di Mauro Baldrati

L’inglese camminava veloce, col suo passo regolare.
Marcia sostenuta, livello 3, uno-due, uno-due, braccia sincronizzate con gambe e respiro. Mani semichiuse. Zaino bilanciato.
Percorreva il vialetto che costeggia il canale tagliando un parco lungo e stretto, immerso nel bosco delimitato da case e da una strada molto trafficata. Quell’itinerario, che partiva dal campo abusivo nella periferia nord di Bologna e arrivava fino alla cittadina di Casalecchio di Reno, era lungo una dozzina di chilometri. L’inglese col suo allenamento lo percorreva in circa 90 minuti. Aveva alle spalle migliaia di chilometri di marcia, su strade di città, lungo fiumi fangosi, su terreni incolti, sulle sabbie roventi di deserti sferzati da venti crudeli.

Succede a Macao

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di Giorgio Mascitelli

Macao è un centro milanese indipendente per le arti, la cultura e la ricerca che da cinque anni in qua ha dato luogo a una delle più interessanti esperienze culturali del nostro paese; Macao ha infatti organizzato  e ospitato in questi anni sia iniziative di base ( corsi, concerti, proiezioni, spettacoli, rassegne, riunioni di comitati cittadini) sia seminari ed eventi dove si elaborano riflessioni e ricerche sul senso della condizione culturale contemporanea. Appartiene dunque al novero di quelli che potremmo chiamare i laboratori della contemporaneità.  Del resto basta entrare anche solo per poco tempo a Macao per rendersi conto che ci si trova in un luogo diverso rispetto a tempi, logiche e dinamiche degli stili di vita dominanti, nel quale la cultura segue vie diverse dalle forme istituzionali o industriali solite.

Oggi Macao è in pericolo: infatti la sua sede, che si trova in una tanto elegante quanto abbandonata e fatiscente prima dell’autogestione palazzina in stile liberty nella semiperiferia milanese, è stata messa in vendita dal comune di Milano, che la possiede tramite una sua società. Insomma Macao sta per essere cacciato da Macao e invece sarebbe meglio per tutti, giunta comunale di Milano compresa, che Macao restasse a Macao.

In questi anni il sindaco di Milano e la sua giunta hanno lodevolmente cercato di promuovere un’idea di città accogliente, internazionale, aperta, colta e creativa, un luogo dove si elaborano esperienze sociali e culturali inedite. Il rischio è quello che si tratti solo di una bella cartolina che serve a coprire una politica piuttosto tradizionale, funzionale alle logiche del mercato immobiliare e all’immagine turistica della città. Difendere Macao dalle bieche logiche del mercato immobiliare significherebbe invece realizzare concretamente quest’idea di città. Luoghi come Macao sono infatti fondamentali per sviluppare una pratica collettiva e diffusa di ricerca e creatività e rendono Milano effettivamente vicina a quelle città europee considerate a parole idealmente prossime.

Se Macao restasse a Macao, il tessuto culturale e sociale di Milano si arricchirebbe : oggi lo sviluppo di una città non dipende  soltanto da quanti quattrini rende ogni singolo metro cubo costruito ma dalla circolazione delle idee. I quattrini oggi si spostano secondo logiche che non sono governabili ( o forse che non si vuole governare), le idee che si traducono in nuove forme di vita e in nuovi linguaggi sociali sono un patrimonio immateriale che resta nella disponibilità degli abitanti. Il mondo attuale, in cui la vera iperconnessione è quella dei soldi, ha reso problematico un uso pertinente della parola ‘lungimiranza’, eppure, se ha un senso usarla, è a proposito di quelle iniziative e di quelle politiche che favoriscono la circolazione delle idee, come fa Macao. I tempi sono bui e c’è bisogno di lungimiranza.

Se Macao non resterà a Macao, saremo tutti un po’ più poveri e sarà più facile, per rubare le parole al poeta, che l’azzurro s’incancrenisca. .

 

 

Sistema #2

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di Antonio Sparzani

Dunque la nozione di sistema rigorosamente isolato è del tutto inutile per qualsiasi ragionamento fisico, dato che l’unico tale sistema è l’intero universo. E questo accade, in fisica, beninteso, pressoché tutte le volte che si introduce quell’avverbio “rigorosamente”: mentre nella matematica la nozione di rigore è ovunque necessaria e fondamentale, in fisica non è così: mai nulla soddisfa a questa esigenza che probabilmente ci proviene dalla matematica. Pensate anche soltanto ad una misura di lunghezza, la distanza tra due oggetti. Voi fate una misura e la esprimete così: 2,46 m ; vogliamo dire che è una misura esatta? Ma se io uso uno strumento più raffinato, trovo 2,461 m, un millimetro in più, e poi? Oggi si fanno misure di lunghezza col laser che arrivano a una precisione molto al di sotto del millimetro, si arriva al milionesimo di millimetro (nm, nanometro), sì, ma poi? Ci sono numeri che differiscono solo per la centesima cifra decimale, o per la millesima – differenza che ovviamente sfugge a qualsiasi tecnica di misura – e dunque la conclusione è che se per rigore si intende la precisione fino a trovare “il” numero, quell’unico che esprime la distanza (così come qualsiasi altra grandezza esprimibile con un numero), non si arriva da nessuna parte. In altre parole: l’insieme dei numeri, detti – ironia della terminologia – reali, è eccessivo, ridondante per gli scopi della fisica, sono troppi; ne basterebbero molto meno, anche se su questo discorso ci sarebbe molto da specificare e non ci voglio neppure entrare.
Allora la parola sistema, lasciando perdere quel rigore dell’isolamento, può essere usata più allegramente? Certamente sì, non perdendo però il buon senso. E allora vediamo qualche altro contesto che può servire da esempio.
Non c’è che l’imbarazzo della scelta: c’è il sistema di pensiero del filosofo X, c’è il sistema del giocatore d’azzardo che appunto ha un suo speciale sistema per vincere, e c’è il sistema di licitazione nel bridge, che varia a seconda degli accordi tra giocatori: sistema naturale piuttosto che quinta nobile e parecchi altri. Ma c’è anche il sistema periodico degli elementi, quella tabella che porta il nome di Mendeleev e Moseley nella quale sono organizzati con certe regole tutti gli elementi studiati dalla chimica. Bene, se ci pensate un attimo, vedete che in ognuna di queste possibili accezioni della parola non vi è quella esigenza estrema di rigore di cui dicevamo. Perfino il sistema periodico degli elementi viene continuamente aggiornato e i sistemi dei giocatori sono sempre soggetti a piccole variazioni dettate dal buon senso.
Per non parlare poi di una delle accezioni più terribili della parola, quella che designa, come spiegò in Gomorra Roberto Saviano nel 2006, la camorra nel suo complesso, il Sistema, la sua rete di relazioni pericolose, il funzionamento di un insieme di persone e associazioni, anche qui dai contorni sfumati, che inquinano la vita civile di vaste zone del nostro paese, e non solo del nostro.
Ma c’è un verbo, nella nostra lingua, che è abbastanza rivelatore di che cosa racchiude, nella nostra testa, la parola sistema, ed è il verbo sistemare. Verbo che sta a significare tipicamente aggiustare, rendere razionale e utile qualcosa che sembrava possedere qualche difetto di funzionamento. Ed è questo che allora ci mostra che dietro tanti usi di questa parola c’è un senso preciso: vari elementi che stanno insieme non in modo casuale, cioè non semplicemente giustapposti, ma in modo da avere un ruolo ciascuno in un funzionamento complessivo.

chi ne parla ai bambini

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di Giacomo Sartori

Duemila e cinquecento anni fa i nostri eminenti filosofi hanno deciso che gli animali non hanno cervello, o insomma non lo sanno usare, e noi ce ne siamo subito convinti, mettendo a tacere i pochi, per esempio Plutarco e più tardi

I poeti appartati: Biagio Marin

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Nota

di

Alida Airaghi

a Biagio Marin, Poesie.

 

 

Il volume che Garzanti ha dedicato a Biagio Marin raccoglie un’ampia scelta delle sue poesie, e una serie di contributi critici dei maggiori letterati italiani del ’900: Carlo Bo, Pier Paolo Pasolini, Andrea Zanzotto, Pier Vincenzo Mengaldo, Massimo Cacciari, e dei curatori Edda Serra e Claudio Magris. Secondo quest’ultimo “Il canzoniere di Marin ha la continuità del diario e il respiro dell’eternità: pervaso da un umanissimo senso del sacro e da un’illuminante percezione del cosmo, tocca con limpida e serena naturalezza apici di profondità metafisica”.

Biagio Marin (Grado 1891-1985), figlio di un oste, presto orfano di madre, fu allevato dalla nonna paterna. Studiò a Gorizia nel ginnasio di lingua tedesca, quindi alle Scuole Reali Superiori a Pisino (Istria), allora sotto l’Impero Asburgico. Ventenne si trasferì a Firenze, frequentando l’ambiente letterario della “Voce” di Prezzolini, tra scrittori giuliani come lui (Slataper, Stuparich, Saba, Giotti), e altri importanti intellettuali dell’epoca. Approfondì gli studi filosofici e artistici a Vienna, quindi rientrato a Firenze si sposò con Pina Marini, da cui ebbe quattro figli. Al termine della guerra, che lo aveva visto arruolarsi nonostante fosse malato di tubercolosi, si laureò a Roma in filosofia, e in seguito ottenne vari incarichi scolastici e amministrativi in tutto il Friuli Venezia Giulia. Nel 1968 si stabilì nuovamente a Grado, dove rimase fino alla morte. Dal 1912 pubblicò diverse raccolte di versi, quasi tutte in dialetto gradese: i suoi libri più noti furono Elegie istriane (1963), El mar de l’eterno (1967), I canti de l’isola (1970), La vita xe fiama (1972), In memoria (1978), Nel silenzio più teso (1980), La vose de la sera (1985).

Della poesia di Marin tutti i commentatori hanno sottolineato come prima dote la purezza, una sorta di illuminazione disincarnata, che la rende semplice, umanissima e naturale, costantemente uguale a sé stessa dagli anni giovanili alla vecchiaia. Pasolini scrisse che “le poesie di Biagio Marin sono in definitiva la stessa poesia più o meno vicina alla fonte luminosa (accecante) in cui si forma”.

L’accusa di monotonia che alcuni hanno rivolto ai suoi versi dipende forse dal fatto che in essi non esistono narrazioni vivaci di eventi, e non c’è traccia di dramma: i personaggi descritti sono poco più che comparse sullo sfondo di una modalità poetica che si nutre esclusivamente di una pulitissima e inalterabile musicalità (“solo musica fasso: in ela vivo”). Eppure l’uomo aveva conosciuto tribolazioni, miseria e tragedie, come la morte dell’unico figlio maschio in guerra, e il suicidio di un nipote molto amato: ma era nella dedizione quotidiana alla scrittura, nel “diario sterminato” (C. Bo) in cui ogni giorno appuntava i suoi versi che aveva saputo trovare un’ancora di salvezza: “Màseno versi in ogni ora / comò che fa ’l mulin co’l gran”. Non era, la sua, una produzione a-storica, indifferente al rumore del mondo e alle sue sofferenze e ingiustizie, e non era nemmeno un ricorso consolatorio all’idillio: se fedi e ideologie gli rimanevano sostanzialmente estranee, l’unica voce che riteneva doveroso ascoltare era proprio quella, empatica e meravigliata, dell’ispirazione poetica.

“Quanto più moro / presenza / al mondo intermitente / e luse che se spenze, de ponente / tanto più de la vita m’inamoro. / E del sol rîe che fa fiurî l’avril / e del miel che l’ha in boca, / la prima neve che za fioca / sia pur lenta e zentil”.

Priva di varianti e novità, iterativa in una sua finitezza innocente, anteriore addirittura alla creazione del mondo, la poesia di Marin tende a un continuo slancio verso un altrove, verso un infinito che può essere sia la distesa equorea sia il cielo: tutto azzurro o bianco, tutto limpido, silenziosa e rasserenante promessa di felicità. Utilizzando in maniera reiterata un lessico limitato, sfruttando ossessivamente le rime, fa del microcosmo gradese un universo privo di confini spazio-temporali. E la sua Grado si identifica completamente con il mare, prima fonte di ispirazione e di nutrimento, quasi metafora di madre accogliente e protettiva. Nel 1980, in una sorta di confessione letteraria, affermava: “Il mare è stato per me la più pura parola dell’Alterità e la più immediata incarnazione della Divinità. Il cielo, e soprattutto il firmamento, certo, era anche lui parola divina, ma il mare era qualcosa di più. È come l’aria che permette il respiro. Il mare lo vedevo e non solo lo vedevo, ma in esso mi tuffavo, conoscevo i suoi capricci, le sue bellezze le ore meravigliose di “soio” e le ore di tempesta, alla sua vita partecipavo… Proprio lì, dentro il mio mare ho avuto la prima, più semplice rivelazione della presenza di Dio”.

“Mar queto mar calmo / no’ vogie no’ brame / respiro de salmo / tra dossi e tra lame”; “La breve riva / spalanca el mar grando: / de quando in quando / ariva un’ola più viva, co’ ‘nbriva”; “E ‘ndéveno cussì le vele al vento / lassando drìo de noltri una gran ssia, / co’ l’ánema in t’i vogi e ‘l cuor contento / sensa pinsieri de manincunia”; “El vento za se placa / e la risaca / ariva in saca / ma lenta e straca. // El can del cuor nol bagia / e la passion la tase / el mar stesso nol ragia: / dal siel cala la pase. // Pase me vogio granda / via dei travagi de la tera, / lontan da la bufera / che a pico el bastimento manda”.

L’ingenuità espressiva di Marin, lontana da ogni sperimentalismo e intellettualismo, non è affettata; deriva da una “adesione dal basso all’ambiente” (A. Zanzotto): “No son sapiente / e sé poche parole: / le sole / che adopera la zente”; “Trasparensa e durata: / questa la gno ilusion, / questa l’aspirassion / che nel cuor se dilata”.

Così aveva tentato di spiegare la propria vocazione letteraria: “Dove, quando, come queste liriche si formino, non lo so. Io solo le trascrivo e a volte rapidissimamente, e di rado mi avviene di dover apportare modifiche… La poesia non è costruzione intellettuale, fatto di volontà e di disciplina. Io, molte volte tra la veglia e il sonno, vedo in me molte poesie che poi lascio andare perché mi secca svegliarmi, ma altre volte in due minuti fisso nella carta la poesia che ho già trovato in me“.

Poesia sorgiva, quindi, mai adulterata da intenzioni o tentazioni extra-testuali, e via via nel tempo sempre depurata da ogni materialità, tesa a un’astrazione capace di far coincidere “trasparenza assoluta e brama di vivere” (C. Magris), come esemplificano questi versi:Me son contento d’êsse nato / de longo tenpo d’êsse su la tera, / dopo tanto dolor e tanta guera / son incora beato. // Tanto hè godúo la luse, el sol; / le musiche dei vinti in duti i sieli, / el cantusâ su l’alba dei noveli / e perfin el tramonto che me duol”.

Tale ribadita estraneità a mode e corruttivi attualismi viene attribuita dai due curatori del volume, Edda Serra e Claudio Magris, all’uso particolarissimo che Marin fa del dialetto: lingua di una tradizione reinventata, che non dà voce a un localismo pittoresco, ma dilata e fluidifica il vocabolario italiano in una musicalità morbida e armoniosa, appoggiata al prevalere delle vocali e alla facilità delle rime, in un ritmo cadenzato che volutamente sembra riecheggiare il moto ondoso del mare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’appartamento

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«… devo riprendere dall’inizio? Quale inizio? Quando ho lasciato l’appartamento? È vero, se non avessi deciso di andarmene non sarei qui. Sembrava così semplice, cambiare casa, cambiare vita, semplice, vendere l’appartamento e via, d’un colpo tutto dietro le spalle. Ho deciso quest’inverno, un mattino, su due piedi. Faceva molto freddo, me lo ricordo perché avevo tirato fuori dalla canfora il pellicciotto, l’odore mi aveva dato nausea e ho pensato che mi sarei dovuta comprare un cappotto nuovo. Era un lunedì. Sono sicura. Perché era il giorno dopo, cioè il giorno prima era successa la cosa di Mathias. La data esatta? Non la sa? Una domenica d’inverno. Io, il lunedì mattina, quando mi sono guardata attorno, sono tornata indietro negli anni, quando siamo arrivate, la mamma e io, avevamo improvvisato una festicciola, sul terrazzo, noi due, in mezzo agli scatoloni, c’era un bel sole, le bibite si scaldavano e la crema delle pastine si scioglieva, ma le ho mangiate tutte, e ho bevuto l’aranciata, avevo sette anni e la mamma sembrava allegra. I gerani c’erano già, rosa e rossi, piantati in vasi di terracotta a bassorilievi, lungo due lati; le aiuole le ho fatte molti anni dopo, quando ne ho avuto bisogno. Glielo racconto poi, mi ascolti ora, è importante, quel lunedì mattina, quando ho deciso che non potevo più restare. Non pensavo al pericolo, non pensavo a niente, non volevo né nascondere né svelare, volevo solo andare via, per sempre. Facevo colazione in veranda e guardavo Mimì, dietro la vetrata, giocare con i gerani, grattare la terra. Frugava con le zampe e con il muso nelle ultime piantine, un ossicino è spuntato e un rigurgito di caffelatte mi ha dato un gusto acido in bocca: era ora di andarmene. Trentacinque anni in quell’appartamento, trentacinque anni in quel terrazzo, quindici anni da sola. Ho messo il pellicciotto che sapeva di canfora e sono scesa a comprare il giornale, però il giornalaio sotto casa era ancora chiuso per lutto, il figlio era morto la settimana prima, no, io non c’entro, un incidente stradale. Sono andata in piazza e non avevo i guanti né il cappello. Un dettaglio insignificante? No. Tutto quello che racconto ha un senso, almeno per me. Camminavo con le guance sferzate dal vento glaciale, con le mani livide sprofondate nelle tasche e sorridevo, sì, mi rallegravo del fatto che con quelle temperature avrei potuto rimandare il lavoro di giardinaggio. D’estate invece bisogna sbrigarsi, quando fa troppo caldo è dura. Estate come inverno comunque è un’operazione lunga che richiede applicazione. E una grande calma. La prima volta sporcai dappertutto, non pensavo che un corpo potesse contenere tanto sangue. E tanta carne, e viscere, budella, ossa, muscoli. Ci misi due giorni per tagliare, spezzare, triturare, bollire, gettare, sotterrare. La testa, la volli lasciare intera, tutta intera sotto un albero. Il terzo pino sulla destra, prima del ponte. Non c’è più? È passato tanto tempo! Forse era il quarto pino, forse dopo il ponte. Quella prima volta, fu una fatica, zoppa come sono, si immagini trascinare un bauletto. Il peggio è stato scavare. Dopo un’ora la cavità era ancora piccola e già avevo le mani coperte di piaghe e di vesciche, non ce la facevo più a tenere la pala, allora ficcai dentro le mani nude. Il buco a poco a poco si fece più profondo, abbastanza profondo. All’ospedale mi fecero tante domande. Piangevo, ma non per il dolore alle mani. Mio padre, mio amore, mio adorato, mio tutto, mio troppo, troppo amore, il primo uomo che ho amato, pazzamente, e non era bello, era vecchio ed era stanco. Appoggiavo la faccia sulla sua pancia rotonda, accarezzavo il pelo grigio del petto, e il mondo si esauriva in un’estasi infinita. Aveva la forza e l’ingegno di un animale selvatico, un odore aspro inebriante, le labbra tumide, le mani calde. Mi prendeva senza una parola, senza un bacio, il desiderio era il suo modo di amarmi. Forse. Avrei voluto essere piccola piccola e vivere dentro di lui. Mi mancava, sempre, crudelmente, anche quando c’era. Troppo amore, e lui aveva una moglie e due figli già grandi, e un lavoro importante, e sessant’anni, e io avevo lui, il gatto, i gerani e non ancora trent’anni. Quel lunedì mattina, mentre andavo in piazza a cercare il giornale, ho ripensato a Giovanni e ho pianto. Dovevo ucciderlo per non soffrire. Lei è una donna, mi capisce, vero? Ho pianto, ripensando al cuscino che lo soffocava nella letargia del sonnifero, poi mi sono calmata e mi è venuto in mente che dopo, quando sono riuscita a sistemare tutto, un po’ nei vasi un po’ altrove, a ripulire, a far tornare le cose e la casa nell’ordine che avevano avuto nei vent’anni passati con mamma, dopo, con le mani fasciate e la morte nel cuore, sono andata in un negozio specializzato e mi sono fatta spiegare come piantare le grandi aiuole lungo i bordi del terrazzo… »

«… In piazza ho comprato due riviste di annunci immobiliari, poi sono andata in un bar. Cambiare vita: seduta al tavolino, davanti a un tè gelsomino, me lo ripetevo e il progetto mi sembrava realizzabile, malgrado la brutta faccenda della domenica. Mathias era stato un errore, un’emozione incontrollata, ma l’avrei sistemato in ventiquattro ore e nessuno l’avrebbe cercato, nessuno si sarebbe accorto, era un giovane sbandato, senza patria e senza famiglia. L’avevo ospitato per carità, cominciavo a volergli bene, ma lui chissà cosa si era immaginato. Bevevo il tè al gelsomino, il mio preferito, e mi dicevo che non potevo continuare così, un uomo dopo l’altro. Potevo ancora cambiare vita, non ero vecchia né malata né brutta. Mi sono guardata allo specchio e un ragazzetto con il ciuffo alla moda si è messo a ridere; se voglio, ti ammazzo, ho sussurrato, poi ho ripreso a sorseggiare il tè e a seguire il corso dei miei pensieri. Facevo i conti con la realtà: vendendo il bell’appartamento con terrazza, avrei potuto comprarne uno più modesto in un’altra città e investire il resto. Più la pensione di invalidità, avrei vissuto senza preoccupazioni finanziarie. Ho scelto un’agenzia con uffici nelle due città dove andava eseguita la compravendita. Sono venuti a stimare l’appartamento, mi hanno fatto firmare una serie di carte. L’indomani sono andata nella provincia limitrofa a visitare alcune case. La prima aveva due stanzette più servizi, un balconcino minuscolo, e una cantina. La cantina mi ha fatto esitare. Siamo andati a visitare la seconda, ma c’era una portinaia invadente. Una terza era troppo fuori mano e una quarta era troppo cara. Era ora di pranzo e sono andata in una trattoria, minestra di farro, scaloppina al limone e torta di mele, mi piace mangiare al ristorante, sola, come una donna emancipata. Qualche giorno dopo, il settimo o l’ottavo appartamento, non so più, poteva andare. Due mesi dopo avevo le chiavi. La settimana scorsa. Non ha visto le foto? Ma sì, le foto del soggiorno, con l’impiegato dell’agenzia immobiliare, il corpo… Lo so, non avrei dovuto, ma aveva le mani sudaticce, il collo della camicia unto, lo sguardo bovino e le gambe tozze; mi ha fatto ribrezzo fin dal primo momento, eppure quando mi ha baciato l’ho lasciato fare, e anche quando mi ha toccato, schifoso com’era. Mi sono sottratta all’abbraccio e l’ho invitato a inaugurare l’appartamento. È arrivato in ghingheri, era ancora più ributtante, un sorriso da porco, ho faticato a convincerlo che era meglio mangiare, prima, per avere più forza, poi; ci sono voluti due bicchieri per farlo stramazzare, si è contorto, ha sbavato, non volevo lordare la casa nuova, non volevo ricominciare, era un incidente, un caso da archiviare in fretta, non doveva rovinare la vita nuova. Ma ero troppo sconvolta per procedere con metodo, per la prima volta un corpo esanime mi faceva vacillare. È perché mai avevo agito per odio, e l’amore dà coraggio e pazienza, mentre quel corpo repellente, quegli abiti intrisi di escrementi, il fetore che immediatamente si era propagato nel soggiorno, mi incutevano un tale disgusto dell’umanità in generale e del sesso maschile in particolare che non potevo avvicinarlo. Come procedere? Il lavoro sui corpi è minuzioso, ci vuole dedizione per scuoiare, tagliare, segare, macinare e soprattutto seppellire. Non potevo. L’ho lasciato lì, dove è stato trovato. Sono tornata all’appartamento e mi sono seduta in terrazza… »

«… mio marito è stato il secondo. Il terzo? Vuole includere Marco? Io Marco non lo conto, perché se ne è andato da sé, non l’ho nemmeno toccato, infatti riposa in pace nel cimitero comunale. Sono andata a trovarlo, i primi tempi, gli portavo qualche fiore, gli parlavo, come qualsiasi fidanzata addolorata. Eravamo molto uniti, di un attaccamento forse malsano, Marco mi angosciava, mi stava sempre addosso, però lo amavo, davvero, e mi esaltavo a vederlo eseguire tutte le mie volontà. Tutte, fino all’ultima. Ho smesso di andare al camposanto quando ho conosciuto mio marito. Che uomo! Pieno di qualità: affascinante, intelligente, determinato, brillante. Mi sono chiesta perché mi avesse scelta tra tante donne che gli stavano dietro. Quando è venuto ad abitare da me, ha voluto fare qualche cambiamento, anche se l’appartamento gli piaceva, soprattutto la terrazza, nei mesi caldi era diventata il suo quartier generale. Durante l’inverno aveva sistemato il suo studio in veranda e io avevo trasferito le mie cose giù nello stanzino, e avevo il mio angolino in soggiorno. Salivo a curare i gerani quando Paolo usciva. Dovevo fare attenzione a non toccare niente, se spostavo una penna si infuriava. Abbiamo passato tre anni stupendi: le rare sere che restava a casa, guardavamo insieme la televisione e si addormentava sulla mia spalla. Lo mettevo a letto e lo accarezzavo a lungo, dormiva come un bambino e potevo baciarlo quanto volevo. A proposito, i bambini lo irritavano, infatti quando sono rimasta incinta mi ha detto che non se la sentiva, troppe responsabilità, la carriera eccetera, le solite cose. In fondo lo capivo. L’aborto è stata un’esperienza molto triste; non gliela racconto, non c’entra con questa storia; se vuole, può consultare le cartelle cliniche dell’ospedale, marzo 1983, sì, deve essere stato fine marzo, troverà. Lo sa che non è venuto a trovarmi in ospedale? Anche questo lo capivo. Però non ha dato da mangiare al gatto e nel fondo del mio cuore non gliel’ho perdonato. Perciò un anno dopo l’ho accoltellato nel sonno. Non è corretto, sono d’accordo, ma non ci sarei mai riuscita guardandolo negli occhi, lo amavo troppo. Ho saputo poi, quando c’è stata l’inchiesta per la scomparsa, che aveva diverse amanti, sparse per il mondo, così hanno pensato tutti che fosse scappato con una thailandese, o con una birmana, aveva un debole per le orientali. Qualche anno dopo è arrivato il decreto di morte presunta e sono tornata libera… »

«… le ho detto che non sono stata io, perché insiste? Non avevo nessuna ragione, volevo bene a mio fratello, anche se lo conoscevo poco, aveva quindici anni più di me, e dopo la morte del babbo era andato a vivere in America. Ci siamo incontrati poche volte, funerali, battesimi, feste comandate. Da quando era tornato, ci sentivamo ogni tanto per telefono. Luca era un depresso, ha passato metà della vita tra psicoanalisi, terapie, dottori, veri e ciarlatani, erboristerie e farmacie e ospedali, chieda a sua moglie, no, le assicuro, è stato un suicidio, nessuno l’ha messo in dubbio, aveva già fatto due tentativi. Perché sia venuto a suicidarsi a casa mia non glielo so dire, forse per via della terrazza, avrà pensato che così non avrebbe sporcato i bei tappeti di casa sua, avrebbe evitato di traumatizzare i bambini. Io quella sera non c’ero, ero uscita, la polizia l’ha confermato, quando si è sparato ero al cinema, gli avevo dato le chiavi perché me le aveva chieste, sì, mi aveva stupito, ma era mio fratello e non ho fatto domande, immaginavo un’avventura. L’ho trovato il mattino seguente perché la sera non sono salita in terrazza. C’era materia cerebrale schizzata fin sul muretto del parapetto. Quando hanno portato via il corpo mi ci sono volute ore per pulire, c’erano goccioline di sangue anche sulle foglie dei gerani, le ho lavate e asciugate una a una, ho versato secchi d’acqua per terra, ho strofinato il muretto con una spugna. Il barattolo in cucina? Quale? Non so cosa dirle. Forse qualche residuo, raccolto per la scientifica e poi dimenticato. No, le ripeto, non sono stata io. Per quale motivo dovrei mentire? Mio marito, il mio amante, l’agente immobiliare, Mathias, è tutto. Chi! Giuseppe Lomonaco? Ah, Gigi, l’architetto… »

«… no, oggi non ho voglia di raccontare. Ho già fatto una confessione. Ho fornito prove materiali. Come? No, non è possibile trovare tutto! Ho già spiegato il mio modo di procedere. Per eliminare elementi solidi e ingombranti, facevo bollire la carne, soprattutto le interiora, per l’odore e la consistenza, sa, i curiosi, c’è sempre qualcuno che fruga nelle pattumiere, allora meglio cuocere con un po’ di cavolo, il cavolo è perfetto per confondere i fetori. La carne più tenera era per Mimì, e le ossa andavano come concime per la terra, frantumate o spaccate a pezzetti. Il problema sono le teste, perché dispiace fendere la bocca baciata di un uomo amato. Ho spiegato dove sono sotterrate. Non sono state trovate? Sono state cercate bene? Allora vuol dire che non mi crede! In questo caso, non racconto più niente. Le dico che Gigi l’ho interamente triturato, ci ho messo una settimana ma ne valeva la pena, è stato un lavoro perfetto. Cosa c’entra? Io quel signore africano non l’ho mai conosciuto. L’hanno accoltellato sotto casa mia, e allora? Pensa davvero che potrei sezionare con tanta precisione? Non sono stata io, non è nel mio stile. Io ho eliminato dalla mia vita uomini che amavo perché mi facevano male. Nell’ordine: il mio amante Giovanni, mio marito Paolo, Giuseppe l’architetto, Mathias. Marco e Luca non si contano, e neppure l’agente immobiliare, che è stato un incidente. Non avete trovato le teste? Cercate ancora, cercate meglio, no, io non vi accompagno, non voglio rivedere il bosco, né il giardino, né la terrazza. L’agente immobiliare è vivo? Cosa dice? È impossibile, gli ho versato due dosi di diserbante, l’ho visto rantolare. È una provocazione, lei mi vuole confondere, prima mi accusa di colpe che non ho commesso, ora mi dice che quel porco è vivo. Se lui è vivo, e se l’africano è morto, chi lo ha ucciso? Me lo dica lei, a questo punto per me è lo stesso, l’uno o l’altro, anche nessuno; meglio, nessuno. Mio marito, lo giuro, l’ho ucciso mille volte, con mille pugnalate, e anche a Giovanni ho tolto il respiro, con baci d’amore soffocanti. Guardi le mie mani, le guardi bene, hanno tanto scavato che sono screpolate, grinzose, indurite dai calli, coperte di cicatrici… »

«… devo riprendere dall’inizio? Quale inizio? Quando mi hanno costretta a lasciare l’appartamento? Io stavo in veranda, guardavo Mimì appisolata sul radiatore e sorseggiavo una tazza di tè. Quando tutto ha preso a bruciare, e le fiamme avvolgevano le piante di gerani, ho capito che non potevo restare. Ho preso in braccio Mimì e sono corsa giù per le scale, ho urlato, è venuta gente, mi hanno avvolta in una coperta e messa in un lettino. Volevo solo incenerire le piante; le aiuole erano rigonfie di membra, la terra era putrida di sangue e piena di vermi, i gerani morivano tutti, marci. Mimì non mangiava da una settimana. Faceva molto freddo e mi sono messa il pellicciotto. Era vecchio e sapeva di canfora. Volevo cambiare casa, cambiare vita, vendere, comprare, d’un colpo, tutto dietro le spalle, e via. Sono andata a visitare una casa in affitto, era squallida e buia, l’agente mi indisponeva, parlava e parlava, agitava le braccia, gli puzzava il fiato, la fronte era grassa e imperlata di sudore. Ho vomitato nel corridoio, mi ha fatto una scenata, l’ho ucciso subito e sono tornata nell’appartamento. I muri grondavano sangue, uno strato di polvere d’ossa copriva i mobili, le piante come scheletri impietriti dal gelo scricchiolavano sinistre dietro la porta a vetri della veranda. Mimì miagolava e mi graffiava le gambe. Cosa potevo fare? Cercare i cadaveri, dissotterrare resti di corpi, rendermi alla giustizia degli uomini, smettere di amare oscenamente. Sono uscita, senza guanti e senza cappello, il vento gelido mi sferzava le guance, ridevo, felice come una bambina che fa una marachella, mentre avanzavo zoppicando in mezzo al bosco, il terzo pino era quello di Giovanni, il quarto quello di Paolo, il quinto Mathias, poi gli altri, mi sarebbe bastato ritrovare una testa, disseppellire labbra tumide e poterle baciare, un’ultima volta, farmi perdonare da uno per essere perdonata da tutti, farmi amare da uno per farmi amare da tutti. È scesa la notte e scavavo ancora, la terra era umida e soffice, affondavo le mani tra grovigli di radici, strappavo, estirpavo. Nel giardino di casa, nel silenzio della notte, udivo solo il mio respiro affannoso. Piano piano sono affiorati i capelli, la fronte, gli occhi, sono affiorati i ricordi di un amore disperato. Adesso mi crede. Mi crede perché qualcosa è stato trovato. Voleva una prova tangibile. Ce l’ha. È vero: ho ucciso un uomo, molto tempo fa, e l’ho seppellito sotto un albero di mele…»

 

Prima pubblicazione su Tuttestorie, 6, 2000, pp. 41-46.

Libretto di transito

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di Franca Mancinelli

 

Viaggio senza sapere cosa mi porta a te. So che stai andando oltre i confini del foglio, dei campi coltivati. È il tuo modo di venirmi incontro: come un’acqua in cammino, diramando. Guardando dal finestrino, ti ho letto nel viso finché c’era luce.

*

Le cose che hai scordato di portare con te. Lasciate negli scompartimenti dei treni, scivolate dai sedili degli autobus. A un tratto ti raggiungono premendo l’angolo duro della loro assenza, come attraversando una zona più limpida dello sguardo.

*

Indosso e calzo ogni mattina forzando, come avessi sempre un altro numero, un’altra taglia. Cresco ancora nel buio, come una pianta che beve dal nero della terra. Per vestirsi bisogna perdere i rami allungati nel sonno, le foglie più tenere aperte. Puoi sentirle cadere a un tratto come per un inverno improvviso. Nello stesso istante perdi anche la coda e le ali che avevi. Da qualche parte del corpo lo senti. Non sanguini, è una privazione a cui ti hanno abituato. Non resta che cercare il tuo abito. Scivolare come un raggio, fino al calare della luce.

*

Le frasi non compiute restano ruderi. C’è un intero paese in pericolo di crollo che stai sostenendo in te. Sai il dolore di ogni tegola, di ogni mattone.Un tonfo sordo nella radura del petto. Ci vorrebbe l’amore costante di qualcuno, un lavorare quieto che risuona nelle profondità del bosco. Tu che disfi la valigia, ti scordi di partire.

*

Con il tuo bene continui a tessere questo spazio, a portare dettagli e densità. Il tuo bene è un filo che si rigenera di continuo formando una ragnatela. Io sono avvolta lì, un po’ viva e un po’ morta. Ma se svolgessi il filo e tornassi a vedere, troveresti una croce sormontata da un cerchio. Così sottile e lieve, tracciata sulla polvere. Basterebbe un tuo soffio per liberarmi.

*

Nel tuo petto c’è una piccola faglia. Quando lo stringo o vi poso la testa c’è questo soffio d’aria. Ha l’umidità dei boschi e l’odore della terra. Le montagne vicine con i loro torrenti gelati. Da quando l’ho sentito non posso fare a meno di riconoscerlo. Anche quando, uno dopo l’altro, nella tua voce passano uccelli d’alta quota, segnando una rotta nel cielo limpido.La faglia è in te, si allarga. Un soffio di freddo ti attraversa le costole e ti sta scomponendo. Non hai più un orecchio. Il tuo collo è svanito. Tra una spalla e l’altra si apre un buio popolato di fremiti, di richiami da ramo a ramo, su un pendio scosceso a dirotto, non attraversato da passi umani.

*

Sei stanca. Stai facendo spuntare le gemme. Le scorze si frangono, non resistono più. Con gli occhi chiusi continui a lottare. La terra è una roccia, si sbriciola in ghiaia sottile. È una parete e una porta. Continua a dormire. Le foglie si parlano fraterne. Dal cuore alla cima della chioma, stanno iniziando una frase per te.

 

Franca Mancinelli, Libretto di transito, Amos Edizioni, 2018, pp. 55.

Peccato mortale

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di Edoardo Zambelli

Carlo Lucarelli, Peccato mortale, Einaudi, 2018, 247 pagine

Ad solo un anno di distanza dal malinconico e bellissimo Intrigo italiano, Carlo Lucarelli riporta in libreria il commissario De Luca, e con Peccato mortale scrive il quinto capitolo della serie. Mi preme sottolineare il breve intervallo di tempo tra gli ultimi due, perché invece tra il terzo e il quarto era passato più di un decennio. Nel frattempo Lucarelli ha scritto altro (parlo solo della sua attività di romanziere, lasciando da parte tutto il resto): ha pubblicato un romanzo a sé stante, L’isola dell’angelo caduto; ha portato avanti la serie con protagonista Grazia Negro (Un giorno dopo l’altro, 2000; Il sogno di volare, 2013); e ne ha avviata un’altra, quella del capitano Colaprico (Albergo Italia, 2014; Il tempo delle iene, 2015), che in qualche modo riprende le atmosfere di quello che è, ad oggi, il suo libro più ambizioso, L’ottava vibrazione, uscito nel 2008.

Che volete, non basta cambiare il direttore del “Resto del Carlino” e liberare due antifascisti, la gente fa la coda per il pane, ha paura delle bombe e non vuole più la guerra. Mussolini non c’è più, dice, e allora perché stiamo ancora così, con le zucchine a tre lire al chilo e i mariti e i figli al fronte. E poi ci sono i comunisti con le bandiere rosse, che alzano la testa, non è che per loro finisce tutto con gli spazzini del Comune che ramazzano le cimici e i vetri dei ritratti del duce buttati giù dalle finestre. Badate che questi non sono pensieri miei, riferisco quello che abbiamo raccolto, ma questo paese, De Luca, questa città sono una polveriera pronta ad esplodere.

Ora, tornando a Peccato mortale.

Lucarelli non riprende da dove aveva lasciato nel romanzo precedente (la Bologna degli anni ’50, con un commissario De Luca sfatto, sempre inseguito dalla vergogna di aver servito durante il regime fascista, dalla paura di essere riconosciuto), ma fa un passo indietro. Il romanzo è infatti ambientato nel 1943, in un delicato momento di passaggio della storia italiana, tra la caduta del fascismo e l’arrivo dei tedeschi.

Ad avviare la narrazione è il ritrovamento di un cadavere senza testa, in un casolare di campagna. Un cadavere cui stranamente sembrano subito interessarsi alcuni personaggi in alto, probabilmente perché dietro quell’uccisione (e quel tentativo di rendere irriconoscibile il morto) c’è un segreto sconveniente, qualcosa da nascondere a tutti i costi. E infatti, alcuni testimoni spariscono, ne compaiono altri che rilasciano dichiarazioni che sembrano più sviare che indirizzare, e spunta fuori una testa mozzata, in un canale, che però non corrisponde a quella del cadavere ritrovato.

Nel frattempo, con la caduta improvvisa del fascismo, le strade di Bologna – già incendiate dal caldo e provate dai bombardamenti – sono in tumulto, si respira una rivoluzione imminente, e per De Luca – che alla politica è sempre stato estraneo, interessato solo e unicamente a fare il suo lavoro, e a farlo bene – questo è un ulteriore confondere le acque, oltre che, a ben guardare, un pericolo (è pur sempre un commissario che ha servito il fascismo).

Questa è, a grandi linee, la trama nel suo avvio. Il resto è giusto che lo scopra il lettore.

Lucarelli non ha mai un andamento particolarmente veloce (se non, forse, nei romanzi dedicati all’ispettore Coliandro, e in quel piccolo gioiello che è Guernica), la sua è una narrazione piuttosto lenta, procede per un graduale accumulo di dettagli – la scansione scenica si dilata in dialoghi e momenti di introspezione, la terza persona in indiretto libero spesso entra, per così dire, nella testa di De Luca (in questo caso) e rende conto di dubbi, deduzioni, riflessioni, ma sempre in modo pacato, obliquo, facendo sì che il lettore non perda mai la tensione del racconto.

Tutto questo è fatto con una prosa semplice e allo stesso tempo elegante, ricca, in cui il dettaglio diventa spesso centrale (grande cura Lucarelli la pone nel ritrarre i gesti dei personaggi, tanto da far pensare a primi piani ravvicinatissimi; e altrettanta cura è data alle inflessioni regionali delle varie parlate).

In definitiva, con Peccato mortale, Lucarelli aggiunge un tassello a quella che, vista nel suo complesso, è una delle opere più riuscite e belle nel panorama della scrittura di genere in Italia. Credo, anzi, che sia molto riduttivo parlare di semplici romanzi noir quando ci si riferisce alle sue opere (così come lo è quando si parla di Massimo Cassani, Eraldo Baldini o Antonio Pagliaro, solo per citarne alcuni). Certo, la gabbia della trama è quella – un fatto criminoso, il detective che indaga, gli indizi e poi la risoluzione -, ma la qualità della scrittura, la raffinatezza del raccontare e la profondità di riflessione storica (in Lucarelli come negli altri che ho citato) trascendono il genere per restituire alla fine, molto semplicemente, bella letteratura.

La linguamare. Divagazioni intorno a un libro di Nancy Huston

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Louise Bourgeois - Untitled, 2002
Louise Bourgeois – Untitled, 2002

 

di Ornella Tajani

Prologo

Una sera in albergo ho conosciuto due sorelle sulla sessantina; le ho sentite parlare tra loro in francese, inglese e portoghese. Incuriosita, quando è capitata l’occasione ho chiesto da dove venissero: la risposta si è diluita in due biografie parallele e intercontinentali che mi hanno confuso le idee piuttosto che chiarirmele. Ci ho riprovato il giorno seguente, chiedendo specificamente dove fossero nate: una in Austria, l’altra in Brasile. Al che ho finalmente posto la domanda che mi interessava: “Qual è la vostra lingua madre?”. La prima mi ha risposto immediatamente: “Non ho nessuna lingua madre”; la seconda si è persa nei suoi pensieri. Ho insistito ancora una volta, ormai con un tono simile a quello di Nanni Moretti nella famosa scena delle sigarette in Ecce bombo: “Ma qual è la lingua che parlate senza accento?”. Risposta – prevedibile, a questo punto: “Ho un accento in tutte le lingue”.

Nord perdu 

La questione dell’accento, del carattere d’estraneità che riveste le lingue parlate è affrontata da Nancy Huston in un piccolo libro autobiografico intitolato Nord perdu (Actes Sud, 1999; inedito in italiano). Huston, canadese anglofona trapiantata a Parigi, si interroga sulla sua conduzione di esule; il titolo rinvia esplicitamente all’espressione perdre le nord, cioè essere turbato, disorientato. In un testo strutturato in capitoli brevi, dall’andamento frammentario, l’autrice esplora il sentimento identitario, concentrandosi in modo particolare sul proprio rapporto con le sue due lingue, l’inglese e il francese, e mettendo a fuoco alcune delle insofferenze tanto familiari agli expats (pur seguendo un’altra traiettoria, non sono pochi i punti di contatto con il più recente Buongiorno, mezzanotte. Torno a casa di Lisa Ginzburg, già recensito qui).
A proposito dell’accento e dei suoi ritorni in Canada, Huston scrive:

Torni lì e la gente non crede alle proprie orecchie. Sarebbe questa la tua lingua materna? Ti rendi conto in che condizioni è? Cioè, non è possibile! Hai un accento! Non fai altro che infilare parole francesi in inglese. È ridicolo! […] Parla normalmente! [trad. mie per le sue citaz.]

Ma cosa vuol dire «parlare normalmente», si chiede l’autrice, quale sarebbe il suo inglese? Quello di Calgary, la città dove è cresciuta, quello del Bronx o di New Orleans, dove ha abitato? O magari quello semplificato che ha a lungo insegnato? Constatando l’accento britannico che, quasi senza volerlo, adotta durante le letture pubbliche dei suoi testi, Huston si sente disonesta. «Ma forse riesco a sopportarmi soltanto nelle vesti di “straniera”», conclude, prima di passare dall’analisi dell’inglese parlato a quella del francese in cui scrive.
Dicevo che in questo testo Huston sceglie una prosa composta di frammenti; non stupisce poi tanto, dunque, scoprire che ha studiato e si è laureata con Roland Barthes. L’incipit di Nord perdu ricorda molto da vicino la prosa barthesiana, tanto da rassomigliare a quegli esempi raccolti in Le Roland-Barthes sans peine, il manuale di Burnier e Rambaud (di cui ho già parlato qui) che costituisce di fatto una brillante e spietata collezione di pastiche dell’autore dei Fragments. Ecco le prime righe di Huston, che stavolta lascio in francese per meglio sentirne le sonorità barthesiane:

Se désorienter, c’est perdre l’est.
Perdre le nord, c’est oublier ce que l’on avait l’intention de dire. Ne plus savoir où l’on est. Perdre la tête. Une chose qui ne se fait pas. Une chose qui ne s’évoque qu’au négatif, pour la nier, pour dire qu’on ne l’a pas faite. On dit : «Il ne perd pas le nord, celui-là».
Jamais : «Ça y est. Il l’a perdu, le nord».
Perdre le nord. To be all abroad, propose comme traduction mon excellent dictionnaire français-anglais. […]

L’amore per le etimologie, l’impiego frequente di virgolette e corsivi, il ricorso alle traduzioni di un’espressione in altre lingue: stilemi tipici della prosa barthesiana. Huston lo ammette chiaramente, mentre per inciso lo ringrazia e al contempo lo maledice: in questo suo stile ricco di parentesi, due punti, punti e virgola e frasi un po’ troppo lunghe, «Barthes y est pour beaucoup» (ma lo stesso Barthes è affettuosamente descritto altrove come l’uomo «fin et désabusé» che le ha insegnato a leggere i testi, e a leggere il mondo come testo: «Barthes aveva una grazia e una generosità di pensiero che appartenevano soltanto a lui. Se mai ho avuto un maestro, questi è senz’altro lui, che pure aveva rinunciato a qualsiasi titolo». Si veda Douze France, nello stesso volume).
Di frammento in frammento si arriva alla riflessione sul falso bilinguismo, che l’autrice distingue dal vero in quanto il primo non prevede l’acquisizione contemporanea delle due lingue sin da bambini: il falso bilingue, in cui Huston si identifica, ha un’unica lingua dell’infanzia. Così a lei, trapiantata in terra straniera, capita di ricordare alcune parole solo in una delle due lingue; ha un cassetto speciale nella mente che contiene tutti i numerosi termini francesi che finiscono in «-eau», dunque talvolta tira fuori a caso tableau (quadro) al posto di rideau o di plateau (tenda/sipario – vassoio). Le succede di non trovare alcune parole nel momento del bisogno (come indigent, o empirique), di avere un vuoto davanti a un termine francese pronunciato dai propri figli – loro, sì, realmente bilingui. Cosa vorrà dire perron (scalinata)? Ecco che, in una sfilza interlinguistica di associazioni foniche, le saltano in testa la congiunzione italiana però, il perro spagnolo, Evita Péron.

Con il passare degli anni le cose non migliorano, anzi. E, dal momento che vivo con un transfuga da una lingua che non è l’inglese, ci capita di contemplare terrorizzati la prospettiva di una vecchiaia comune quasi autistica. In un primo momento la lingua francese ci abbandonerà poco a poco e le nostre frasi saranno costellate da buchi di memoria: «Mi prendi un attimo il…? Massì, il coso che sta appeso al… nel…».

Scenetta divertente, soprattutto se si pensa che il marito transfuga in questione era Tzvetan Todorov, con il quale Huston è stata sposata fino al 2014.

(Ci colpisce lo spazio specifico che la nostra memoria riserva ai sostantivi, la prima cosa che perdiamo nella lingua straniera – così come, nella lingua materna, chiunque si accorge che con l’età sfuggono i nomi propri. Il fatto è che la designazione e la predicazione sono due attività distinte, mi spiega giustamente mio marito, che qualche nozione di linguistica ce l’ha. I sostantivi somigliano ad ancore che ci tengono legati al suolo del reale; senza di loro andiamo alla deriva sulla superficie dell’acqua, sballottati dalle onde dei verbi e degli aggettivi). Alla fine del cammino, quando la nostra comune lingua adottiva sarà scomparsa, ce ne staremo seduti fianco a fianco su delle sedie a dondolo, a cianciare da mattina a sera, ognuno nella rispettiva lingua materna.

L’immagine di queste incomprensibili chiacchiere fra anziani richiama alla mente il balbettio neonatale, quella fase del processo di acquisizione del linguaggio che termina con l’imporsi della lingua madre, come ricorda Adrian Bravi, via Daniel Heller-Roazen, nel suo bel libro La gelosia delle lingue (si veda qui). Con questa ironica fantasia Huston sembra disegnare un cerchio: l’avanzare dell’età ricondurrebbe il falso bilingue alla lingua madre, poi al suo progressivo sgretolarsi, per far ritorno infine a una fase pre- (o post) linguistica.

Epilogo

Nel mio lessico familiare c’è una parola dialettale, “’nfrancesiare”, che finora non ho mai trovato altrove: si riferisce al parlare senza farsi capire, bofonchiando. Probabilmente è un uso ironico del termine “infrancesare”, cioè adottare termini o modi francesi. È una parola cui sono molto affezionata, forse perché è proprio dal francese, studiato, vissuto e insegnato come seconda lingua, che spesso muovono le mie riflessioni sulla lingua madre: il francese diventa lo strumento, l’alterità necessaria all’esplorazione dell’identità linguistica.
Nel libro di cui ho parlato la lingua materna è vista dall’autrice come qualcosa di avvolgente, che cattura, che ha del maestoso. Lingua materna, langue maternelle: in francese i termini madre (mère) e mare (mer) sono omofoni; del resto, l’associazione del mare e della maternità attraversa i secoli, dalla mitologia greca fino a Jung. Così mi è venuto in mente: la linguamare. Per chi apprezza i calembours, dentro ce ne sono almeno altri due.

Come pedinare uno sconosciuto

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di Antonio Merola

Questa è una storia senza parole: voglio dire che le parole ci sono, ma non quelle che chiunque tra noi avrebbe sperato di sentire uscire prima o poi dalla bocca di una persona come Agostino Brestolani. Credo che avesse almeno trentacinque anni quando decise di tentare la prima vera rivoluzione in senso stretto della sua vita: seguire una famiglia in un bar e ordinare un caffè, benché fuori il cielo rosa gli ricordasse che tra non molto sarebbe dovuto andare a letto – succedeva tutte le sere alle ventitré in punto. La bambina che affiancava i genitori in una giacca troppo grande per lei e con il cappellino di lana, la sciarpa avvolta velocemente intorno al collo e le guance rosse c’entrava poco: è vero che lungo la strada gli aveva sorriso, ma Agostino Brestolani non era quel tipo di persona. Era stata la famiglia intera che lo aveva portato là dentro, l’uomo e la donna, la tradizione e forse, l’apparenza di una relazione forte.

«Una cioccolata calda, una camomilla e un caffè».

«Voglio anche la panna» aggiunse la bambina al padre, ignorando il vecchio barista che doveva ricordargli in qualche modo l’orrore o la fine della vita. Sono sicuro cioè che si chiedesse silenziosamente come mai gli tremassero le mani e che allo stesso tempo ritenesse ingiusto che potessero davvero tremare le mani a qualcuno.

«Una cioccolata calda con la panna, allora».

«E per lei invece?»

«Un caffè anche per me, grazie» rispose Agostino, ma per non ridicolizzarsi fino a quel punto decise subito di correggere l’ordinazione: «Me lo potrebbe anche macchiare?». Imitare la bambina infatti gli sembrava più saggio che imitare apertamente il padre: si trattava di una forma di imitazione più raffinata, perché riguardava non tanto l’oggetto dell’ordine, quanto una comune volontà di variare le cose, abbellirle, renderle migliori. La bambina allora sospese per un attimo le proprie divagazioni intorno a quella ingiustizia dell’esistenza e si mise a guardare Agostino Brestolani come si guardano le persone buffe o i pazzi – poi si nascose dietro la madre. La coppia sembrava discutere di qualche cosa che doveva avere agitato la donna, perché lei continuava a ripetere al marito che con quelle persone non sarebbe uscita mai più e soltanto quando il vecchio barista porse a tutti la propria tazzina calda, Agostino si accorse di avere parlato precedentemente alle spalle dell’uomo: nel caffè non c’era nemmeno una macchia di latte. Ecco una seconda ingiustizia: l’ingiustizia che ripete sé stessa in una forma nuova, per punire l’ingiustizia precedente.

Tuttavia il motivo per cui Agostino Brestolani aveva seguito proprio quella famiglia nel bar, gli impediva adesso di turbare la stessa scena a cui assisteva volontariamente: un po’ di panna era finita sotto il naso della bambina, accanto la mamma beveva la camomilla in silenzio e pareva essersi calmata, mentre l’uomo giocava con lo zucchero rimasto sul fondo della tazzina; era dopotutto un momento di pace, come pochi se ne trovano in giro – o almeno, di una tale semplicità. Così anche Agostino bevve il suo caffè senza latte, dimenticandosi brevemente di esistere.

Questa pausa ci permette di descrivere meglio il locale: non era grande, appariva anzi come uno stretto corridoio diviso a metà dal bancone, così che i clienti dovevano consumare l’uno accanto all’altro e in piedi. Chiunque entrasse era quindi costretto a unirsi alla fila e sperare di essere raggiunto dal barista che si muoveva sempre di più avanti e indietro, avanti e indietro, finché quando capitava che la sala fosse piena, lo si poteva scambiare facilmente per uno di quegli animali dello zoo o per quei carcerati che si allungano da un estremo all’altro della loro gabbia nella  certezza quotidiana che è impossibile attraversare le sbarre – e che nonostante questo, continuano a muoversi. Era stata la dimensione del luogo che aveva portato quindi Agostino Brestolani e il padre di famiglia faccia a faccia: il secondo aveva già pagato alla cassa in fondo al bancone, quando la mente di Brestolani riprese il proprio possesso sull’uomo e lo spinse strategicamente nella stessa direzione con il portafoglio in mano, mentre si faceva spazio attraverso la minuscola folla composta dalla bambina e da sua madre, che ormai si sarebbero detti un unico corpo o meglio che la piccola, così stretta alla donna, se avesse potuto sarebbe ritornata fin dentro l’utero e avrebbe chiuso la porta agli estranei – ora era sicura: quel tizio doveva essere malato o pazzo. Il padre di famiglia si trovava perciò bloccato contro il muro, perché la postazione della cassa riduceva ulteriormente l’ampiezza permessa alla normale circolazione dei clienti a uno spazietto esiguo, che ora Brestolani occupava per intero. Certo, sarebbe bastato chiedere permesso: ma l’uomo non sembrava interessato a guadagnare tempo e aspettava con una pazienza silenziosa e disinteressata. Agostino Brestolani si accorse solo ora che aveva gli occhi verdi.

«Quant’è?»
«Novanta centesimi».

Tin. Spostiamoci verso l’uscita: ecco la bambina, seguita da sua madre, da Agostino e alla fine dal padre. Ringraziano in coro il vecchio barista. Brestolani si chiede adesso dove mai vada a finire la gente; ma la vera domanda che lo preme è se qualcuno tra quella gente si chieda mai dove vada invece a finire lui. Decide allora di improvvisare questo ultimo gesto patetico: dopo essere uscito dal bar, mantiene aperta la porta di vetro per aiutare l’uomo a tornare dalla sua famiglia.

«Grazie».

Avrei lasciato anche io Agostino Brestolani fuori quel bar, se non fosse successo ancora qualcosa. Se guardate bene tra i posti a sedere sull’ultima fila della linea 23, ci troverete un uomo semplice semplice preso a studiare l’effetto che l’inquinamento luminoso della città ha sul tramonto e quello strano gioco di colore sugli edifici, le strade, gli alberi tra i marciapiedi che scorrono attraverso il grande finestrino sporco. Ma dovete starci davvero molto attenti, altrimenti nessuno di voi si accorgerebbe del completo di seconda mano che porta dentro il corpo di una persona così uguale alle altre – ecco perché non voglio descrivervela nella sua fisicità.

Tuttavia, mentre noi non saremmo potuti intervenire perché siamo qui come dei fantasmi o delle ombre, Agostino avrebbe potuto fare certamente qualcosa quando sentì gridare quella grave minaccia più avanti nella vettura: «Stai zitto o ti tiro uno schiaffo, chiaro?»

Tutti avevano alzato gli occhi verso il vecchietto che era stato preso di mira – alcuni a dire il vero lo avevano già notato con una certa antipatia mentre cercava di farsi spazio tra di loro e a voce alta malediva chiunque si frapponesse tra lui e il proprio posto a sedere -, ma nessuno osava rimproverare anche solo con una occhiata l’altro, il gradasso, la voce prepotente di quel microcosmo a quattro ruote che si muoveva incontro alla notte profonda poco lontana.

Agostino come gli altri si era rivolto dapprima a quella vecchia e incerta figura, poi aveva calcolato minuziosamente le fermate che mancavano a casa sua: una mano si era mossa senza farsi notare e teneva ora chiuse tre dita. C’era abbastanza tempo per fare finta di niente. Bisognava solo agire in modo personale, cercare cioè di rendere quella finzione qualcosa di normale: sarebbe stato impossibile non sentire niente mentre si guardava fuori dal finestrino, a meno che non si fosse immersi in un pensiero così simile alla nebbia da isolare completamente il pensatore o addirittura da pervaderlo, come se arrivasse da chissà dove a cercare proprio lui, lasciandolo con gli occhi confusi e immobili. Quasi tutti i passeggeri dell’autobus però sembravano avere avuto la stessa idea: quattro teste su cinque erano adesso girate a giudicare il traffico che li bloccava in quella posizione. Si riusciva a vedere perfino il collo di una donna rimasta in piedi che si tendeva oltre tutti gli altri colli nella sua stessa condizione per guardare ancora più lontano. C’era poco da fare, doveva trovare subito un’altra soluzione altrimenti il vecchio avrebbe capito – voglio dire che Agostino sentiva che avrebbe capito tutto, perché adesso credeva che il mondo fosse nudo davanti a lui e che ogni cosa gli fosse evidente, ma che insieme quel vecchio fosse anche incapace di perdonare davvero gli uomini. Ma prendere il cellulare gli sembrava stupido: sarebbe stata una finzione troppo assurda per una persona con una rubrica vuota capace di simulare soltanto ciò che conosceva bene. E a dire il vero qualsiasi altro gesto adesso si mostrava del tutto comune, troppo simile all’ordinario e quindi falso, quasi innaturale, come qualsiasi uomo o donna che cercavano di imitare una azione che in una condizione diversa avrebbero compiuto ugualmente con maggiore piattume e sicurezza.

Agostino Brestolani concluse allora che quella doveva essere una punizione per la mancanza di rapidità a cui continuava a piegare sé stesso ogni giorno: chiunque là dentro infatti si era affidato alla propria vigliaccheria chiudendo semplicemente gli occhi così da sospendere qualunque senso di giudizio proprio come ci viene insegnato nelle favole che ci ostiniamo ad ascoltare da bambini, mentre Agostino aveva sentito il dovere morale di domandarle come mai avesse deciso di presenziare al ritorno a casa di tutta quella gente, e aveva preso a girarla e rigirarla senza trovare una risposta precisa se non che adesso (o forse era accaduto già da molto tempo) il vecchio taceva e si lasciava guardare senza battere ciglio. E così Agostino si accorse della precisione con cui la pelle gli scendeva flaccida lungo le braccia, fino a gonfiare in modo innaturale le maniche di una larga giacca a rombi per poi esplodere fuori come una cascata lungo i polsi magri e deboli, e che attraverso il volto rugoso, la mascella giocava a smuovere da una parte all’altra la dentiera; davanti a lui invece delle gambe robuste dentro pantaloni stretti, poco più su una cintura che si chiudeva al quinto o al sesto buco e poi nient’altro, perché era qui che lo sguardo gli si fermava: l’altro uomo rimaneva ancora senza volto.

Agostino Brestolani arrivò così a una seconda conclusione, cioè che il vecchietto dopotutto si era meritato quel rimprovero: era chiaro infatti che nessuno avrebbe mai occupato quel posto per fargli un dispetto o anche solo per sbadataggine. Certo l’autobus era pieno e si faceva senza dubbio fatica a muoversi, ma tutti avevano sentito da subito le imprecazioni del nuovo arrivato e dopo avere giudicato rapidamente la sua età con una occhiata storpia, avevano deciso di rimanere in silenzio e chi si trovava vicino alla seduta libera era rimasto fermo. Perché allora continuare a bestemmiare una volta che era riuscito a sedersi? Erano tutti quanti stanchi, specie (credeva Agostino) l’uomo seduto davanti al vecchio che doveva avere lavorato tutto il giorno. Ecco, non c’era altro da aggiungere: bisognava scendere alla fermata sbagliata, per lasciare che di quella oppressione se ne occupassero gli altri.

Ora Agostino è già in strada da dieci minuti e cammina verso casa, anche se mi sembra che abbia allungato il percorso girando a destra nella traversa sbagliata. La verità è che ha preso a seguire un uomo che aveva ricambiato il suo sguardo – anche se adesso non riesce a ricordare il colore dei suoi occhi. Deve mancargli molto il calore di un corpo maschile, se è disposto a pedinare uno sconosciuto. Ma perché diamine non si volta? Eccoli che girano di nuovo. È importante, mentre continuiamo a seguirli anche noi, che non consideriate la possibilità che quell’uomo abbia paura di Agostino Brestolani: dopotutto, le apparenze contano. E nessuno potrebbe avere davvero paura di lui. La strada è deserta, ci sono i lampioni con le luci basse e qualche stella nel cielo, ma non voglio che vi lasciate ingannare da una atmosfera stereotipata: questa non è una storia degli orrori. Siamo dietro a un uomo semplice semplice che segue un altro uomo perché estremamente attratto da lui, ecco tutto. Peraltro (bisogna dirlo) davvero affascinante.

A questo punto però devo ammettere che mi dispiace: vi avevo promesso una rivoluzione, ma è chiaro che non succederà niente. Agostino si è voltato all’improvviso e sta tornando a casa. Non ha il coraggio di parlare con quell’uomo, nonostante lui abbia ricambiato il suo sguardo. È troppo poco, non basta: gli manca la certezza della riuscita. Eppure non me la sento di giudicare Agostino; adesso è nel bagno a lavarsi i denti, ha già indossato il pigiama. Tiene persino i calzini. Voglio dire che cosa vi aspettavate da una persona del genere? Tra meno di sessanta secondi saranno le ventitré in punto e come ogni sera andrà a dormire.  Ecco perché oggi Agostino chiude gli occhi alle ventitré e zero uno.