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Spazi, suoni e lingue nel romanzo “di Napoli”

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da “Il segreto” di Cyop & Kaf

[Con minime modifiche e aggiornamenti, il pezzo che segue è tratto da La stato della città (a cura di Luca Rossomando, Monitor edizioni, 2016), un volume che traccia un profilo dell’area metropolitana di Napoli abbracciandone tutti gli ambiti, dall’urbanistica all’ambiente, dall’economia al lavoro, dalle politiche sociali e sanitarie fino alla produzione culturale. Un libro collettivo – firmato da 68 autori – che si propone come supporto per una discussione sulla città di Napoli].

di Chiara De Caprio

A mo’ di premessa. Estate del 2015. Giurie e lettori discutono se si possa premiare una scrittrice senza volto: il suo nome è Elena Ferrante, e sta vendendo un sacco di copie negli Stati Uniti con una quadrilogia di Neapolitan novels. A sponsorizzarla allo Strega è, tra gli altri, Roberto Saviano, che con Gomorra (Mondadori, 2006) ha venduto milioni di copie, vinto premi, fatto balzare sulle copertine dei giornali le periferie napoletane e il sistema della camorra.
Al di là delle differenze, con Ferrante e Saviano la letteratura, incrociando le sue strade con quelle del cinema e della televisione, diviene fenomeno di massa e occupa uno spazio assai più ampio di quello che le ritagliano l’industria del libro e il mercato editoriale. E tuttavia, se anche non considerassimo Ferrante e Saviano, la produzione di romanzi e narrazioni “di” e “su” Napoli non rimarrebbe affatto sguarnita. Anzi, ce n’è per tutti i gusti, come rivela anche solo un mero ordinamento cronologico di alcuni romanzi, narrazioni e raccolte di racconti editi tra il 2000 e il 2015.
Tra il 2000 e il 2001 Antonio Franchini fa i conti con la memoria personale e collettiva nel suo L’abusivo (Marsilio), Domenico Starnone racconta la fiumana di oscenità, intemperanze, bugie che il ferroviere Federì riversa su moglie e figli nel romanzo con cui si aggiudica il Premio Strega (Via Gemito, Feltrinelli). Nel 2002, dopo Mistero Napoletano, Ermanno Rea narra in La dismissione la storia amara dell’Ilva di Bagnoli, cui seguirà l’ultima parte della trilogia sulla città, Napoli Ferrovia (Mondadori, 2007). Tra il 2002 e il 2006, edizioni e/o pubblica I giorni dell’abbandono e La figlia oscura con cui, dopo L’amore molesto (1992), Elena Ferrante chiude una trilogia di romanzi dedicati al rapporto con la maternità di figure femminili chiamate anche a interrogarsi sul loro allontanamento da Napoli.
Negli stessi anni Nel corpo di Napoli (Mondadori, 1999), A capofitto (seconda edizione rivista, Mondadori, 2001), Di questa vita menzognera (Feltrinelli, 2003) e la raccolta di racconti Magic People (Feltrinelli, 2005) danno corpo alla vocazione di romanziere e narratore di Giuseppe Montesano. Nel 2015, mentre il grande pubblico si appassiona alla quadrilogia “napoletana” che Elena Ferrante dedica all’Amica geniale (2011-2014), esce per Neri Pozza Il genio dell’abbandono, romanzo in cui Wanda Marasco narra la parabola esistenziale e artistica di Vincenzo Gemito servendosi di una lingua che sembra essa stessa voler incarnare la guizzante potenza visiva delle sculture di Gemito.
Questa la superficie, fatta di titoli, autori, case editrici, date. Restano, sul fondo, le domande più importanti: in quale Napoli sono ambientate queste storie? Che cosa accade ai personaggi una volta immessi in uno specifico spazio urbano, quello napoletano, saturo di storie e narrazioni?

Lo spazio e la lingua
Senza alcuna pretesa di completezza, alcune immagini si dispongono in sequenza, quasi a suggerire la possibilità di un percorso: una bruma rossastra e ostinata che s’insinua negli angoli più remoti delle case di Bagnoli; la pioggia scrosciante che riporta a galla quanto fogne e sottosuolo avevano inghiottito; l’opacità violacea del mare; lo spazio urbano, saturo di suoni: il tonfo sordo di sprofondamenti e voragini, i clacson nervosi delle auto e dei motorini, il «precipizio di voci» e urla che col loro timbro sembrano rendere diversa la qualità e la consistenza dell’aria: più opaca, più pesante, più aggressiva.
Tratte dal romanzo-inchiesta di Rea e dai romanzi di Montesano e Ferrante, le immagini appena proposte nulla concedono al canone della città “da cartolina”: inondata dal sole, pigramente adagiata su colline da cui, complice l’aria tersa, si scorge la sagoma del Vesuvio o il profilo sinuoso di Capri. Nulla, dunque, di quell’insieme di topoi che hanno contribuito prima a definire e poi rendere riconoscibile una certa “napoletanità” di maniera; semmai, un diverso sistema di immagini che, con la sua compattezza, costituisce una precisa indicazione sui modi in cui i narratori hanno ripensato la relazione tra città reale e raffigurazioni della città, ridefinendo – per continuità o differenza – il loro rapporto con quel ricco patrimonio di rappresentazioni letterarie che di Napoli sono state proposte tra Otto e Novecento.
Non è superfluo richiamare il fatto che l’aggettivo “napoletano” si riferisce in queste pagine a due caratteristiche: ambientazione e veste linguistica. Innanzitutto, per narrativa napoletana s’intendono quelle narrazioni che ambientano le loro storie a Napoli e nel suo hinterland; in seconda battuta, si vuole sottolineare il fatto che, tra queste, alcune esibiscono un impasto linguistico tra i cui ingredienti figurano l’italiano locale e il dialetto: viene così delineato uno spazio che ricrea e rielabora la situazione socio-linguistica della Napoli di oggi o del passato.
Richiamiamo, per ora, alcune modalità di rappresentazione della città. Che di Napoli ce ne siano due, anche nei romanzi, è stato osservato molte volte. E, come per la città reale, anche per le Napoli dei romanzi è stato discusso se queste due metà siano conseguenza della Storia o della Natura; in quest’ultimo caso, la frattura tra due poli viene assunta come un dato, a un tempo, morale e biologico della città: la Napoli bassa, agitata da istinti e sfrenatezza, senza soluzione di continuità e fratture storiche, diviene così il luogo in cui si consuma l’eterna battaglia della fame e del sesso, e dei poveri contro i poveri.
Data la forza interpretativa che questo modello ha avuto (in Domenico Rea e Anna Maria Ortese, per esempio), è utile capire come i romanzi di Napoli degli ultimi anni ci abbiano fatto i conti. Scopriamo così alcune cose. Anche in virtù di una collocazione temporale che parte dagli anni Cinquanta e Sessanta, i romanzi della quadrilogia di Elena Ferrante sono quelli in cui Napoli è rappresentata attraverso un modello nel quale due poli contrapposti nello spazio rimandano a una diversa organizzazione culturale, sociale e linguistica: la risalita di Elena dallo squallore del Rione alla casa inondata di luce di Posillipo trova un correlativo nella sua aspirazione all’italiano e nel suo atteggiamento di rifiuto e rimozione delle voci dialettali; la scelta dell’italiano, quindi, sa sì di emancipazione, ma reca memoria del doloroso e necessario allontanamento, fisico ed emotivo, dalle tane e dai ripostigli bui del dialetto. Questo perché nelle storie della Ferrante le voci dialettali rimandano a un universo dominato dalla violenza e dall’oppressione patriarcale. Nei romanzi L’amore molesto e La figlia oscura il dialetto agisce su madri e figlie come «un frullato di seme, saliva, feci, orina» che, paralizzandone gli organi fonatori, le riduce al silenzio. Narrare la propria storia significa, però, per le protagoniste-narratrici, ascoltare il suono delle parole dialettali, comprendere il modo in cui esse hanno condizionato scelte e movimenti, e fare, infine, i conti col proprio disgusto verso «la cavità cupa del ventre» femminile. Quando, alla fine della Figlia oscura, nel ricevere una telefonata, Leda risponde «commossa» alle figlie che accentuano in modo esagerato la sua cadenza napoletana, capiamo che qualcosa, infine, si è mosso nel suo spazio interiore: il rapporto più flessibile tra dialetto e italiano è spia di una diversa relazione con il suo ruolo di madre e col passato.
Già nell’Amore molesto, del resto, Elena Ferrante faceva di Napoli un luogo in cui si dipana una trama che svela una verità a un tempo personale e universale. E, tuttavia, anche nel primo romanzo la griglia urbana non scolorisce in una rappresentazione convenzionale; anzi, il movimento dei personaggi attraverso uno spazio mai generico contribuisce a produrre l’accerchiamento della protagonista Delia: è la città stessa che la incalza e le toglie l’aria.
Pur partendo talvolta dal modello delle “due Napoli”, le storie situate dopo gli anni Ottanta assumono, invece, come operatori di narratività gli sconvolgimenti nel tessuto urbano verificatisi a partire dagli anni Cinquanta (cioè, gli anni del laurismo, delle speculazioni edilizie, dell’espansione delle periferie). Anche nei romanzi, Napoli diviene centrifuga, si ramifica e si collega alla costellazione di paesi dell’Area Nord che s’incuneano verso la provincia di Caserta. Non solo in Gomorra, quindi, la visione dualistica è problematizzata e soggetta a verifiche. Per esempio, nei romanzi di Montesano le due Napoli, alta e bassa, borghese e plebea, italiana e dialettale, si sgretolano e confondono l’una con l’altra: perché ora al Vomero e Posillipo piove, il mare appare come una lastra grigia e l’aria è irrespirabile; ma anche perché nei due quartieri residenziali e italofoni vivono anche e soprattutto camorristi e nuovi ricchi.
A determinare la messa in crisi del modello delle due Napoli sono, in effetti, alcuni fenomeni che a partire dagli anni Ottanta e Novanta caratterizzano Napoli e il suo hinterland: la moltiplicazione delle periferie; il proliferare di cinture viarie esterne, bretelle e raccordi autostradali; la sostanziale contiguità politica e consumistica tra quartieri “borghesi” e “popolari”; la diffusione dei centri commerciali, che di questa contiguità diventano l’emblema per eccellenza.
Questo allargamento degli spazi non comporta per forza l’oblio di quelli tradizionalmente rappresentati: al contrario, non mancano casi in cui il confronto con la produzione narrativa otto-novecentesca porta a una rilettura attualizzante dell’immaginario topografico tradizionale. Può così accadere che in Magic people di Montesano il “palazzo-microcosmo”, nel suo doppio statuto di luogo della città reale e della città narrata, assuma, di volta in volta, i tratti di uno studio televisivo di un reality show, di un manicomio, di un lager: se nella narrativa napoletana l’interno poteva essere tana, rifugio, cavità materna, esso ora diviene gabbia, prigione.

Tra italiano e dialetto
Che sia rappresentata secondo un modello spaziale duale e centripeto o, al contrario, multifocale e centrifugo, negli ultimi quindici anni l’ambientazione napoletana comporta spesso una caratterizzazione linguistica che si fonda sulla presenza del dialetto e delle varietà d’italiano locale (la diversità dei romanzi di Ferrante è doppiamente significativa, perché proprio quel dialetto rimosso dalla superficie linguistica agisce nella trama e sui personaggi). Certo, le soluzioni sono diverse: c’è posto per gli usi iperrealistici e grotteschi di Magic People, così come per le potenti escursioni stilistiche che, a partire dal dialetto e dall’italiano locale, si registrano in Di questa vita menzognera e Il genio dell’abbandono. Proprio i due romanzi di Montesano e Marasco permettono di mettere a fuoco un ulteriore aspetto. Ciò che è notevole in alcuni romanzi di Napoli non è solo il lavoro sul serbatoio locale e la resa dei fenomeni d’interferenza tra dialetto e italiano, ma anche la qualità stilistica con cui sono restituiti i rapporti tra le altre varietà del repertorio nazionale: la pressione “orizzontale” dei codici della vita quotidiana, l’ampia gamma dei sottocodici delle professioni e dei gerghi, le retoriche dei linguaggi politici e dei nuovi media. Sebbene le soluzioni di Montesano e Marasco, ma anche di Starnone, siano diverse, è però vero che la lingua dei loro romanzi è a un tempo doppia, plurivoca, aperta a spinte centrifughe verso l’alto e il basso. Se si può parlare di ricreazione mimetica di usi linguistici della città reale, è solo a patto di riconoscere che, nel suo complesso, l’efficacia della soluzione proposta da questi narratori trova il suo fondamento nella consapevolezza della inquieta relazione che linguaggio e narrazioni intrattengono con la realtà. Attraverso la postura della voce narrante, i romanzi sono sorretti da una tensione conoscitiva che spinge a sfidare l’opacità che s’interpone tra la pagina scritta e tutto ciò che la circonda; il gusto per elenchi di parole, i fenomeni di correctio e le soluzioni parafrastiche in italiano e dialetto mirano a restituire alla trama la capacità di significare, con la sua alterità, nello scarto e tra le faglie di formulazioni concorrenti.
Un secondo aspetto va evidenziato. La compresenza di registri diversi, l’urto e l’incontro tra italiano e dialetto, i movimenti tra scritto e parlato – in una parola, la polifonia della lingua – rimandano a prospettive esistenziali e sistemi assiologici tra loro in competizione e in contrasto. In Via Gemito di Starnone, il confronto con l’ingombrante figura del padre, persino quando avviene nella forma di un ricordo provocato dal «soffio di vecchissime rabbie», si traduce in una perdita della capacità di «misurare le parole», in uno scivolamento verso le esagerazioni «rozze» e «imprudenti» che Federì era solito affidare al dialetto. Nella produzione di Montesano, sono invece l’italiano locale basso dei cafoni arricchiti e la lingua di plastica dei reality a rubarsi a vicenda la scena e a dispiegare – dagli schermi televisivi, lungo le strade della città, nelle residenze in collina dei nuovi ricchi – il loro potenziale entropico sul narratore: sulla testura linguistica della sua voce, sulle sue capacità di conoscenza e interpretazione del mondo.
Allo stesso modo, il confronto e la tensione tra i personaggi che affollano Il genio dell’abbandono di Marasco assumono consistenza sonora non solo attraverso la mescolanza di italiano e dialetto, ma anche con la ricreazione di un’ampia gamma di registri dell’italiano: sul versante dello scritto, sono abilmente resi gli appunti del dottor Virnicchi sull’internato Gemito; l’asciutta (e, per Gemito, reticente) notazione del registro degli orfani dell’Annunziata con la sua pretesa «di svuotare burocraticamente il mistero di una creatura»; le lettere e le memorie di Gemito, con tutto il campionario di errori tipici delle scritture semicolte, sempre in bilico tra oralità e scrittura, dialetto e italiano. Sul fronte dell’oralità, nel romanzo della Marasco, tra botteghe e bassi, cliniche e “salotti buoni”, le parole e le frasi in italiano, francese e napoletano rincorrono e accerchiano Vincenzo, si mescolano ai suoi discorsi per poi spegnersi nel momento in cui la notizia della sua morte si diffonde in una città che si riscopre smarrita e senza voce per «lacuna» o «pentimento».
Sebbene sia diversa la soluzione proposta, anche nell’Abusivo e in Gomorra (e, in modo tutto sommato non diverso, nella Dismissione) hanno una precisa funzione – stilistica e narrativa – le tecniche di riuso, prelievo e inserzione di un’ampia gamma di testi e parole dei linguaggi specialistici: inserti provenienti da altre sfere mediatiche, brani di articoli di cronaca locale, intercettazioni, verbali d’interrogatori, parole del gergo malavitoso e stilemi della cronaca giornalistica. Separando ciascuno di questi elementi dal suo contesto originario e riposizionandolo nell’architettura del romanzo, Franchini prima e Saviano poi mettono in luce formazioni discorsive e strategie retoriche degli universi di discorso di cui parlano: è anche attraverso questa opzione per un linguaggio capace di ricontestualizzare tessere testuali diverse che prende forma il peculiare timbro della voce che nell’Abusivo e in Gomorra dice “io”. Se questi materiali sono inseriti in una narrazione in cui la dimensione autobiografica è un modo di dizione e una postura etica, è appunto per far sì che il lettore sappia che questa voce si assume la responsabilità di interpretare, valutare, e dire.
Le osservazioni relative alla voce che nei romanzi dice io, ci fanno più decisamente entrare dentro gli ingranaggi dei testi. A questo livello, c’è dunque un altro, decisivo, aspetto della relazione tra spazio e lingue: la funzione che le voci di Napoli hanno sulla storia narrata. In questa prospettiva, un dato va messo in rilievo per i romanzi di Ferrante, Marasco, Montesano, Starnone: le voci della città giocano un ruolo significativo tanto nel costruire l’immaginario spaziale quanto nel definire la relazione tra spazio e personaggi. Infatti, avvolgendoli, quasi sempre minacciosamente, il dialetto e l’italiano di Napoli costringono i personaggi a riposizionarsi all’interno del sistema spaziale della città. In particolare, poiché in Via Gemito, in Di questa vita menzognera e nei romanzi di Ferrante la narrazione è autodiegetica, l’assedio di voci che si è appena descritto minaccia in primo luogo quella del protagonista: è la stessa voce narrante a doversi modulare in relazione a questo assedio, a dover rifiutare “le voci degli altri” o assumerle come parte integrante del proprio timbro attraverso mosse e contromosse di riposizionamento: discendere, risalire, riattraversare, fuggire, sono allora tutti movimenti possibili nello spazio urbano. Se muoversi nella propria città significa anche muoversi nel tempo, attraversare Napoli ha per il narratore-protagonista una precisa funzione: quella di ripercorrere la storia, personale o collettiva, dei luoghi, al fine di verificare attraverso quali parole e in quali forme esperienza e memoria possano essere nuovamente dicibili. Non sarà, quindi, sorprendente il fatto che il narratore-protagonista di Via Gemito possa trascorrere «tutto il pomeriggio a cercare date, identificare spazi, trovare proposizioni per immagini fluide». È infatti il nesso tra la forma dei luoghi e la quantità di passato, personale e collettivo, che ciascuno di essi custodisce a spiegare perché nei romanzi di Napoli siano privilegiati alcuni movimenti; sono infatti proprio gli attributi che definiscono la densità spaziale della città — stratificazione storica del tessuto urbano, verticalità dello sviluppo, presenza di cavità sotterranee — a favorire l’investimento narrativo e simbolico nei movimenti di discesa, nelle posture e nei gesti effrattivi.

I movimenti che parlano
Con un movimento di discesa e una rocambolesca fuga notturna prende avvio Il genio dell’abbandono. Scappato dalla casa di cura, Vincenzo Gemito si sottrae ai possibili inseguitori percorrendo «la via più lunga e disturbata dai ricordi»: la buia e ripida strada del Moiariello, che congiunge la collina di Capodimonte alle vie del centro greco-romano. Minacciato da latrati di cani e voci del passato egualmente terribili, Vincenzo si muove tanto più avanti nello spazio quanto più indietro nei ricordi e nel tempo, fino all’attimo-zero in cui tutto ebbe inizio, con un rumore che parla di abbandono e rifiuto: il tonfo del neonato nella ruota dell’Annunziata.
Non sembrano estranei alla spazialità verticale tipica di Napoli anche i tentativi di discesa negli scantinati e nei sottoscala di un rione di periferia presenti nei romanzi di Ferrante, così come è certamente connesso alla topografia cittadina il movimento ascensionale delle protagoniste dal Rione alle colline di Posillipo e, poi, da Napoli a Roma, Firenze, Torino. A loro volta, nei romanzi di Montesano l’immagine di Napoli come città verticale viene sottoposta a riletture e aggiornamenti. Il tradizionale modello verticale e centripeto s’interseca con un altro, centrifugo, verso la periferia diffusa che si distende tra Caserta e Napoli; inoltre, la discesa e l’immersione nel ventre non riattiva energie ma sconvolge, destabilizza e riporta a galla detriti, rifiuti, cadaveri: «il residuo non ulteriormente consumabile» (come lo ha definito Giancarlo Alfano) che Napoli deposita dentro di sé.
A ben vedere, anche in due narrazioni come La dismissione e Gomorra, certo diverse dai romanzi appena analizzati, è possibile riconoscere zone testuali in cui la postura “effrattiva” del narratore e il suo sguardo attento alle manipolazioni inflitte al territorio concorrono a descrivere Napoli e il suo hinterland come spazi cavi, sagomati prima dalla natura e poi divorati dagli interessi economici: ridotti, alternativamente, a nudi scheletri o corpi rigonfi. Gesti e immagini che parlano di violazioni ed effrazioni costellano il libro di Saviano. Basterà un esempio: alle violazioni che la camorra infligge allo spazio-corpo di Napoli e del suo hinterland (il porto «ano di mare che si allarga con grande dolore degli sfinteri», il «cranio nudo della provincia napoletana», il «ventre molle di Forcella» violentato dalle sparatorie), corrisponde, uguale ma di segno contrario, il movimento con cui Roberto entra nella grande villa, vuota ma ancora controllata dal clan, del boss Walter Schiavone: qui il protagonista compie il gesto «idiota» e liberatorio di svuotarsi la vescica in una sontuosa vasca che, come tutto il resto dell’arredamento, è ispirata a quella di Tony Montano, il gangster cubano di Scarface.
Non è un caso, dunque, se, il lettore della Dismissione è tentato di dare particolare valore simbolico all’esplorazione notturna che Vincenzo Buonocore, il protagonista, conduce attraverso l’Italsider: «senza più fumi né fiamme; senza più voci, richiami, sibili, sfrigolii; senza l’inconfondibile miscela sonora propria dello stabilimento che non si ferma». Infatti, nella decisione di introdursi di notte all’interno della fabbrica si manifesta con chiarezza l’atteggiamento del tecnico specializzato, che al silenzio e alla liquidazione dei reparti, risponde con la precisione e il rigore «assoluti» con cui esegue il suo ultimo compito: smontare le colate continue. Nella narrazione di Rea-Buonocore, muoversi con movimenti esatti, nominare secondo tassonomie precise, disegnare mappe, stendere inventari sono tutti gesti e operazioni attraverso i quali riprendere possesso, almeno sul piano emotivo e memoriale, di quegli spazi ormai vuoti che vengono sottratti alla classe operaia, così come prim’ancora, proprio collocando la grande fabbrica in un «sito di vulcaniche bellezze e acque benedette», le erano stati sottratti aria e mare. Insomma, anche per Rea, entrare nelle cavità significa opporre alle verità opache delle cronache e delle versioni ufficiali, una “storia” che riverberi sulla pagina scritta il senso della relazione tra spazi e uomini, e del dialogo tra le loro voci.
Proviamo a concludere: oltre alla loro intima solidarietà, scelte stilistiche, postura narrativa, statuto gnoseologico ed etico della voce narrante ci hanno consentito di mettere a fuoco l’importanza che nella costruzione delle trame e dei personaggi hanno i movimenti nella rete spaziale e sonora di Napoli. L’attraversamento degli spazi è anche un attraversamento delle voci e delle lingue: gli uni e le altre non funzionano come fondali «docili» e remissivi; piuttosto, distorcono i percorsi dei personaggi, li costringono a traiettorie di allontanamento e ritorno, a effrazioni e discese. Chiedono di ascoltare e ricordare, di narrare, e comprendere.

Bibliografia minima
Un quadro sull’imagery di Napoli nel romanzo del secondo Novecento è offerto da G. Alfano Un ‘vivere pieno di radici’. Il modello spaziale di Napoli nel secondo Novecento, in Id., Paesaggi mappe tracciati. Cinque studi su letteratura e geografia, Napoli, Liguori, 2010, pp. 91-150; sull’alterità geografica e culturale della Napoli dell’Amore molesto, v. anche Tiziana de Rogatis, Elena Ferrante e il Made in Italy. La costruzione di un immaginario femminile e napoletano, in Made in Italy e Cultura. Indagine sull’identità italiana contemporanea, Palermo, Palumbo, 2015, pp. 288-317.
Modellizzazioni del repertorio linguistico di Napoli sono illustrate in N. De Blasi, Per la storia contemporanea del dialetto nella città di Napoli, in «Lingua e Stile», 37, 2002, pp. 123-157; su dialetto e italiano di Napoli si può leggere ora N. De Blasi, Storia linguistica di Napoli, Roma, Carocci.
Analisi degli impieghi di italiano e dialetto nei romanzi e nelle narrazioni di Ferrante, Montesano, Rea, Saviano, Starnone sono in P. Bianchi, La funzione del dialetto nella narrativa di autori campani contemporanei, in La città e le sue lingue, Napoli, Liguori, 2006, pp. 267-280; C. De Caprio, La città lebbrosa, la smorta terra e il mare. Dimensioni linguistiche dello spazio urbano tra fictio e realtà. “Di questa vita menzognera” e “Magic People” di Giuseppe Montesano, Dante & Descartes, Napoli, 2006. Di molti dei testi qui esaminati, in relazione agli assetti della narrativa italiana, scrive G. Simonetti, I nuovi assetti della narrativa italiana (1996-2006), in «Allegoria», 57, 2008, pp. 95-136.
Per la rappresentazione del femminile e del materno in Ferrante ho tenuto presente S. Milkova, Mothers, Daugheters, Dolls. On Disgust in Elena Ferrante’s “La figlia oscura”, in «Italian Culture», 31/2, 2013, pp. 91-109; Tiziana de Rogatis, L’amore molesto di Elena Ferrante. Mito classico, riti di iniziazione e identità femminile, in «Allegoria», 69-70, 2014, pp. 273-308 e i saggi raccolti in The Works of Elena Ferrante: Reconfiguring the Margins. History, Poetics and Theory, New York, Palgrave Macmillan, 2016 (si veda, per l’attenzione alla categoria del post-umano, il contributo di Enrica Maria Ferrara).
Un accesso alle questioni relative all’autofiction, alla dicotomia fiction/non-fiction e allo statuto della voce narrante nella produzione di Saviano è offerto da C. De Benedetti, F. Petroni, G. Policastro, A. Tricomi, Roberto Saviano, “Gomorra”, in «Allegoria», 57, 2008, pp. 273-308; A. Casadei, Realismo e allegoria nella narrativa italiana contemporanea, in Finzione cronaca realtà. Scambi, intrecci e prospettive nella narrativa italiana contemporanea, a c. di H. Serkowska, Massa, Transeuropa, 2011, pp. 3-21 e R. Donnarumma, Ipermodernità. Dove va la narrativa contemporanea, Bologna, il Mulino, 2014, in particolare pp. 190-195; con attenzione al passaggio di medium, v. M. Moccia, Raccontare Gomorra, in «Between», 5/10, 2015; per aspetti della relazione con lo spazio e l’ambiente, v. N. Scaffai, Letteratura e ecologia. Forme e temi di una relazione narrativa, Roma, Carocci, 2017, pp. 157-162.

 

Manuale di atti sovversivi

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“E il settimo giorno ballò” – Lisbona, 2017

 

a cura di Serena Cacchioli

Judite Canha Fernandes è nata a Funchal, sull’isola di Madeira, nel 1971. È performer, femminista, curinga (di Teatro dell’Oppresso/a), scrittrice, bibliotecaria, attivista, madre e ricercatrice, senza un ordine preciso, ed è stata rappresentante europea nel Comité International della Marcia Mondiale delle Donne tra il 2010 e il 2016.

Le sue opere spaziano dalla poesia al teatro, dalla letteratura per l’infanzia ai racconti brevi. I componimenti che presento, tradotti da me, fanno parte del «Manuale di atti sovversivi», pubblicato nella raccolta O mais difícil do capitalismo é encontrar o sítio onde pôr as bombas (La cosa più difficile del capitalismo è trovare il posto dove mettere le bombe, Urutau Editora, São Paulo, Brasil. Poesia, 2017, inedita in italiano). Il Manuale nasce da un esperimento di creazione collettiva. Judite ha chiesto a un certo numero di persone di dirle un gesto – un semplice gesto privato – che ognuno di loro fa, quotidianamente o meno, contro il capitalismo. Il risultato è un manuale poetico e collettivo straripante di idee sovversive.

 

manuale di atti sovversivi

 

 II. (atti di ricapitalizzazione)

 

decoro la casa con mobili e fiori di strada
smetto di mangiare carne                  spengo la tv
sono inutile                 non servo
(non servo per sposarmi                   non servo per lavorare
non servo per dare l’esempio            l’arte non serve a niente
io non servo)
offro arte sulla via pubblica               faccio la pipì nei prati.
faccio e disfo i colori
riutilizzo
i dolori, gli amori, il tempo.

 

pago l’affitto in collettivo, secondo i redditi
o
la loro
mancanza.

 

faccio pupazzi da dito e li scambio per la lana delle vicine
cerco il nome di una poetessa dell’Ottocento
fra i contatti del telefonino
uso i vestiti di mia madre
tengo i soldi sotto al cuscino
bevo il caffè del commercio equo.

 

il problema è che ogni volta che voglio mettere una bomba contro il
capitalismo, nel frattempo lo uso.
(perdonami signore, perché pecco di ridondanza. attraggo e capto
fondi di capitale per distruggere nidi di capitale)
per costruire la bomba           (o la faccio in un picnic)
o cerco la ricetta su internet
chiedo un prestito a una banca
vado a far compere al centro commerciale
e non so mai dove mettere la bomba.

 

divorzio da un bancario.
(e quella banca non sarà mai più la stessa:
bca                 banif                    santander)

 

torno a casa
semino il mio orto
condivido semi
faccio pacchettini che vengono da regali precedenti
scrivo lettere su carta sottile
e le digitalizzo per mandarle a te.

*

 

III. (atti di collettivizzazione)

 

non ho proprietà privata nel frigorifero,
cucino sempre amore collettivo.

 

cerco di esistere liberamente
o libera dalla mente, non so.
converso per via telepatica
trasformo casa mia in un festival gratuito
e ripeto tutti i gesti. di tutte le infanzie.
di tutte le domande.
amo come se il cuore fosse una bomba a orologeria,
inserisco una frase poetica nella traduzione di una lettera commerciale
sopporto il calore delle profondità vulcaniche senza reagire.

 

senza reagire
cuocio l’argilla
fino a essere capace di decidere per me quel che vorrò.

 

sono l’eroina inevitabile delle mie routine.

 

empatia. urgentemente.
(era ancora il 19 gennaio del 1923 e si diceva già la stessa cosa)

 

allatto mio figlio. posso alimentare
con il mio stesso corpo
la vita bella e semplice, spontanea e miracolosa.

 

o anche no. non sono madre.
non mi riproduco.
bacio persone dagli organi riproduttivi uguali ai miei per la strada.
occupo una casa, uno squat.
mi ricordo tutti i giorni che sono bella anche quando il mondo
insiste a dire che sono brutta.
mi ricordo tutti i giorni della bellezza anche quando il mondo mi
spaventa.
mi ricordo e mi meraviglio tutti i giorni.

 

imparo che l’amore non dipende da una sola persona.
sola soltanto.

 

per niente sola,
fra tanti passeri in cerca di una poesia collettiva.

*

IV. [atti d’azione (diretta)]

 

racconto la mia storia.
(alle persone non piace ascoltare sofferenza altrui, per questo
racconto sempre la mia storia
e la mia storia è quella che nessuno vuole ascoltare.)

 

ho riunioni felici e riunioni difficili.

 

nel mezzo di una città prodigiosa, faccio graffiti su cartelli d’annunci
(soprattutto su quelli che vendono felicità)
sputo fuoco
e poi la manifestazione avanza, viola e siderale.
disfo demolizioni
e nel mezzo delle aggressioni, grido all’uniforme:
“la pace, il pane, la casa”.

 

la pace            il pane             la casa.

 

occupo il banco de portugal              poi l’azienda sanitaria locale.

 

mi amo.
(eccoti una bomba, industria cosmetica! eccoti un’altra bomba,
industria farmaceutica! e un’altra,
apparato psico-psichiatrico!)

 

restituisco la mia tessera militare come obiettore di coscienza,
restituisco alla pide tutti i dischi di zeca afonso meno uno.
questo lo ascoltiamo nello sgabuzzino tra spavento e confusione.

 

una volta
ho fatto passare in televisione un disco che sputava su george w. bush
dicendo che era una ballata romantica.
iniziava così: george era un bambino basso
molto più basso del comune. mi ricordo benissimo
di voler assaltare una banca. più di tutto.
(più di fare vendita diretta dei miei cd alla fnac)
entrerei con la tuta da sub dal condotto della via costiera
e poi capirei
il capitale è un cubo d’acciaio con la serratura su un lato che
trattiene l’aria all’interno.

 

per fortuna mia
ho un mini server in casa,
la mia cloud proprio sul letto.
lo stato, per sapere dei miei sogni,
deve sfondare la porta,
e google non ha ancora salvato il mio pensiero.

*

V. (atti del fine settimana)

 

di venerdì non produco, fingo soltanto.
ho allargato il fine settimana
– i take my time           i make my time –
uso i miei piedi e una bicicletta usata
dedico il mio tempo ed energia a cose inutili
coltivo la distrazione, faccio cose senza senso
lavoro con scambi non monetari, non contabili, effimeri
e imprevisti
con persone che non conosco e altre che amo.

 

i fine settimana sono per i lavori dell’anima: tessere mazzi
d’incenso,
propagare erbe                      prendersi cura dei fiori.

 

non mi depilo. resto lì, il ginecologo non sa bene che fare
con le mani
e io serena, in mezzo ai peli,
mi riconosco bella, riservata e domestica.

 

nella casa accanto, durante una valutazione strategica del funzionamento,
un ateo risponde al questionario su quale pensa che sarà il futuro
dell’impresa:
“il futuro appartiene a dio.”
e dio danzò,
e io con lui. danzare è stata. sempre.
una delle mie sovversioni preferite.
atto ad atto
permanentemente sana
anche quando svengo
o quasi sparisco
perché sono la speranza
e non c’è antidoto più sovversivo.

 

 

 

 

Agosto oscuro

0

(Tommaso Labranca ha scritto molto. E molto di ciò che ha scritto ha avuto diffusione carbonara, roba per pochi iniziati, autopubblicazioni, email, blog… Luca Rossi, dopo la sua morte, ha raccolto alcuni di questi testi introvabili, li ha organizzati e ora, nella collana dei libri di Tipografia Helevetica, finalmente ripubblicati (per i tipi della “loro” microcasa editrice). In attesa del doveroso anti-meridiano labranchesco, questo mi sembra un buon inizio. Pubblico qui di seguito la affettuosa introduzione al volume di Luca, spronandovi ad acquistare il volume. Basta un click. G.B.)

 

di Luca Rossi

Se solo fossi stato più veloce. Avrei potuto prendere la rotella della pizza Alessi a forma di orso polare blu che Tommaso aveva coordinato con il portabiscotti Mary Biscuit in termoplastica blu, con la zuccheriera Gino Zucchino Alessi, sempre in blu e avrei potuto operare il salvataggio cerebrale. Avrei usato lo spremiagrumi Mandarin per scolare il cervello e lo avrei collegato al powerbank che ho sempre nello zaino. Per tutto il resto ci sarebbe stato tempo: l’avrei potuto mettere in un acquario per pesci e lui sarebbe rimasto lì dentro, completo di occhi e nervo ottico, con tutto l’occorrente per continuare a guardarmi durante la procedura. Avrei sostituito la batteria portatile con un avviatore d’emergenza per auto o con una batteria per tir e avrei tenuto Tommaso in vita, lì immerso un altro po’ in una sostanza lattescente e nutritiva. Dall’acquario avrebbe continuato a guardarmi, con gli occhi sempre aperti, ancora vivi, alimentati dallo starter, collegato in due punti distanti del midollo spinale, per alimentarlo. Tommaso mi avrebbe guardato tutto il tempo, attraverso gli occhi, fissi, ma non spenti, un po’ come succedeva in una delle scene più pulp di Robocop II: un cervello, estirpato e messo sott’olio, ascolta i chirurghi parlare di come il resto della sua persona verrà smaltito, in umido probabilmente. Io avrei dedicato la massima cura a questi amabili resti, li avrei dispersi sul Sacro Monte di Varese, come voleva lui, facendo partire sull’iPhone Ascent (An Ending) di Philip Glass, come concordato con lui e subito dopo un pezzo qualsiasi degli Wham! Con George Michael che di lì a poco si sarebbe nullificato come Tommaso.

Penso che Tommaso avrebbe vissuto bene anche all’interno di un barattolo di miele che era la sua unica dipendenza. Avremmo continuato a parlare, telepaticamente. Certo ci sarebbe stato qualche problema per andare al ristorante e anche per elaborare un complicato dress code per un nuovo indimenticabile evento della stagione autunnale della MaisonLabranca, ma avremmo avuto tutto il tempo del mondo per trovare una soluzione.

In questa brutta copia del Cervello di Donovan io non avrei avuto la faccia di Lew Ayres, il primo Dottor Kildare e non avrei nemmeno potuto contare sull’assistenza della futura signora Reagan, ma al massimo della mamma di Tommaso che si sarebbe messa a urlare vedendomi prendere i guanti di lattice e la rotella della pizza a forma di orso polare che a Tommaso piaceva tanto, ma che non aveva mai usato.

Sarebbe stato il degno epilogo dell’agosto oscuro di Tommaso Labranca, un agosto passato a lavorare all’ennesima biografia su commissione e che si sarebbe concluso come uno dei libri più celebri del poco celebre Clifford Siodmak, che da noi è arrivato solo sotto forma di Urania altamente disintegrabile, fragile come tutte le cose belle.

Tommaso però avrebbe potuto continuare a scrivere, mi avrebbe dettato le cose telepaticamente, proprio come a scuola, come avviene nelle pagine più belle di quell’Urania: un dettato come a scuola e avrebbe finito il libro sul mondo del lavoro e del lavorìo intellettuale che aveva il nome di lavorazione Cyclon come la polvere che il padre di Tommaso, gommista, usava per pulirsi le mani e che aveva scelto per quel suo  suono così dannunziano.

Nel cervello di Tommaso, quell’insieme di volute grigie che ora mi osserva silenzioso dall’acquario, sarebbe stato un Cuore 2.0 ambientato nel meraviglioso mondo di chi millanta una miseria balzachiana perché per vivere «lavoro coi libbri!» come ama urlare alle amiche coatte.

Il nuovo Cuore o Cyclon sarebbe stato pubblicato da Ventizeronovanta? Non è detto. Tommaso diceva spesso di voler cercare un altro editore, diverso da noi, cioè da me solo ora che lui si è ridotto a encefalo galleggiante, ma chi? Nel dubbio un contratto con se stesso, con Ventizeronovanta non era vincolante, ma avrebbe dovuto sottoporre il testo al vaglio del giudice-editor più severo: lui stesso.

Ci aveva preso gusto a farsi le cose da solo, perché «tanto non vendo, non m’interessa vendere se devo scrivere cose che non mi piacciono» e quindi era meglio vivere dignitosamente con le biografie alimentari come quella del cantante di Pontedera, oppure elemosinando articoli da Libero, «gli unici che mi fanno lavorare» e, sento che telepaticamente il cervello lo sta impremendo a fuoco tra le mie sinapsi, gli unici che mi facciano scrivere quello che voglio, come lo voglio.

Steve Martin, del quale Tommaso aveva curato la biografia per Excelsior 1881, l’editore che ci ha fatto incontrare (nel senso che grazie a Excelsior 1881 abbiamo preso a frequentarci ogni giorno, quando stavamo editando un mio libro), viene sedotto da un cervello in Ho perso la testa per un cervello: il protagonista s’innamora di una conserva di neuroni. In tutti i cerebri però è radicato un forte istinto di sopravvivenza, siano essi in vetro o all’interno della scatola cranica, o in un hard disk esterno pieno di file interrotti. Così quella cartella, nominata maliconicamente “cose da fare” chiede giustizia, perché la morte, prematura, di un cervello eccezionale, è sempre un’ingiustizia, anche se questo cervello non è morto.

Come il protagonista del Cervello di Donovan anche io mi chiedo cosa abbia originato il pensiero di Labranca, perché l’encefalo non me lo vuole dire. «Il pensiero è frutto di un processo chimico, il problema è scoprire quali combinazioni chimiche siano responsabili del successo, della gioia, del dolore, del piacere» diceva il Dottor Kildare a Nancy Reagan guardando dentro l’acquario nel quale galleggiano i neuroni di un miliardario mitomane.

Il cervello di Tommaso invece è reticente, quindi devo rispondermi da solo: è l’isolamento, quella solitudine che ricercava e nella quale mi era permesso entrare solo in punta di piedi. La solitudine che difendeva e che percorreva, percorravamo, in bicicletta nella lunga estate milanese fatta di asfalto rovente e di parcheggi facili, una città svuotata dalla volgarità impiegatizia sciamata verso località amene animate da dj set chiassosi, olio abbronzante su addominali faticosamente piallati per nove mesi all’anno in attesa di questi quindici giorni di trasgressione.

Sento che queste cose me le sta suggerendo il cervello telepaticamente. È questo cervello che ha scritto i frammenti che andrete a leggere e che sono stati scritti in anni diversi, ma sempre in questo periodo, il periodo che va dagli ultimi giorni di agosto ai primi di settembre, fino alle prime castagne mature, chiuse nel loro riccio come il cervello di Tommaso era chiuso nel corpo prima che lo liberassi. Sono anche i ricordi più belli che ho di Tommaso. Lo vedo con l’encefalo inserito nel corpo, io e lui, attraversare la città svuotata con le bici del comune e la cartella stampa del suo ultimo libro, Vraghinaroda per portarlo in gallerie d’arte e redazioni che non risponderanno mai. Oppure lo rivedo a raccogliere castagne nei boschi vicino a Varese «La mia Combray» o ad attraversare il decumano dell’Expo in una sera di ottobre dell’ultimo autunno che ha visto, la stagione che amava, tanto quanto odiava l’estate. È questo agosto oscuro, quello che ha distrutto il suo corpo fisico che lo ha elevato sopra quel grigio cielo impiegatizio dove Labranca ha ambientato 1+1=1 e che odiava fino al midollo (quindi anche ora che è un cervello), fin da quando lavorava all’enciclopedia della pesca DeAgostini, della quale ricordava maliconicamente il bar della metro di Caiazzo e l’Apple II che aveva portato un capodanno a casa per lavorare, proprio come noi due a capodanno 2015 che ci siamo trovati a lavorare a Tipografia Helvetica mentre il resto del paese faceva il trenino. Eccola la patetica libertà di chi vive nel meraviglioso mondo delle letterine e cerca di scaldarsi nel freddo inverno metropolitano solamente con collaborazioni a riviste e quotidiani come in Iva è partita, fiaba patetico-fiscale che è la vita di chi si deve procacciare un reddito giorno per giorno. Così quando l’ultimo modello di iPhone, che racconta mesi di stenti per pagare le rate e che non suona perché le redazioni sono chiuse ad agosto come a dicembre. In questa bolla di caldo africano o di gelo iperboreo si consuma la tua personale apocalisse urbana, fatta di attese irrealizzate e fatture non pagate. Viene da chiederti dove hai sbagliato, forse peccando di eccessiva purezza.

In uno di questi agosti Tommaso aveva scritto le Poesie dell’agosto oscuro e H20, Il sussurro dell’acqua, che chiude la raccolta e che è stato presentato in occasione del primo compleanno di Ventizerovanta. È stato invece il silenzio dei boschi insubrici a ispirargli Una zampa più corta ed Applesina, in uno dei pomeriggi passati a raccogliere castagne. «Ti fa piacere se li pubblichiamo? Anche se tu dicevi che alla tua morte avrei dovuto bruciare tutto?» Il cervello mi fissa, ma non risponde. Mi viene voglia di usarlo come un iPod Shuffle, uno strumento magico in grado di azzeccare sempre la playlist giusta per uno specifico stato d’animo, un libro-game che ha per protagonista Milano o una LabrancApp che sfruttando il gps e la realtà aumentata attivi un’ologramma tridimensionale di Tommaso ogni volta che attraverso in bici un luogo della città che ho visitato con lui. Quello che invece posso fare è un Labranca superpocket compatto e tascabile, che è un po’ quello che è stato raccolto nelle pagine che seguono. Accontentiamoci nell’impossibilità di avere un Labranca “aumentato”, ridotto nel peso e nello spazio occupato, ma virtuale e interattivo, ologrammatico, vivo in qualche modo, con il quale interagire ancora, come l’intelligenza artificiale del film Lei, ologrammi più veri dei replicanti senz’anima quotidianamente immessi e ritirati in un mercato in cui è difficile distinguerli dagli uomini dotati di anima. Una specie di Blade Runner 2049, ma con le prime umide foglie gialle settembrine al posto della pioggia sempiterna a manifesto di questi anni incolori. Il cervello di Labranca sarebbe più umano di tanti uomini interi. Potrei metterlo in un tupperware con del ghiaccio secco e infilargli un cappellino di lana per il freddo. Lo metterei nello zaino e poi nel cestino di una BikeMi e pedalerei alla volta del McDonald’s di Porta Venezia o di Brenta o in uno dei tanti posti in cui andavamo assieme a lavorare. Sarei disposto a correre il rischio di farlo spiaccicare sull’asfalto, proprio come nel finale di Robocop II. Rabbrividendo ogni volta che la ruota della bicicletta incontra l’infida superficie di porfido del temibile pavé cittadino, perché tutti i cerebri celebri del cinema fanno sempre una brutta fine. E troppo spesso anche nel mondo vero.

Gli abneganti

1

di Simone Panepuccia

Questo racconto è stato presentato e letto al corso della Scuola del Libro “Scrivere un racconto che piacerebbe al New Yorker” tenuto da Luca Ricci

 

Tutto iniziò con un capello più lungo del normale. Quella mattina Lucio Scolari si stava pettinando e, come tutte le mattine, lavorava al camuffamento del suo principio di calvizie.
La piazza scoperta sulla sua testa si allargava e la lacca, che doveva ridistribuire i pochi capelli rimasti, seguendo un algoritmo più efficiente, non bastava più.

Si era accorto, quella mattina, che uno dei capelli con cui era solito ombreggiare la chierica, si era fatto grosso, nero come un cavo elettrico, e lungo, molto più lungo degli altri.
Gli fece fare due giri intorno alla piazza e lo fissò con un grappolo di capelli presi da un lato e paralizzati con diverse spruzzate di lacca.

Poi smise di pensarci e andò in ufficio.
Simone Fibonacci, il suo project manager, lo convocò nel suo ufficio per informarlo della situazione: Globalware Italia, il cliente che foraggiava tutta l’azienda con le sue grasse commesse, richiedeva la presenza di un analista software nella sua sede di Milano.
– È per quel problema che c’è stato lo scorso week end? – chiese Lucio. Fibonacci annuì. – La spiegazione che gli abbiamo dato non li ha convinti.
– Infatti era un po’ debole.
– Non potevamo dirgli che i loro siti web sono andati giù perché la nostra rete non ha retto il carico, che dici Scolari?
– Dico che in questo caso non ci sono molte scuse che tengano. Forse dire la verità…
– Non se ne parla. Ci fanno il culo a brani. Tu stasera parti per Milano e ti inventi una scusa migliore della nostra.
Mentre stava per uscire dall’ufficio del Fibonacci, i suoi capelli cominciarono a forzare lo strato di lacca che li teneva congelati.
– Scolari, una cosa… – intervenne il project manager senza alzare gli occhi dal notebook. – Ti ho girato un’email di quel coglione di Serafini, della Banca di Trento. Dagli una risposta, io non ci ho capito niente. Sempre a rompere i coglioni, quello lì. Un giorno o l’altro li mando a cagare, ‘sti pezzenti.
Lucio annuì senza voltarsi, temendo che i suoi capelli stessero prendendo il volo e si infilò in bagno. Davanti allo specchio non c’era sentore di ribellione: la lacca stava tenendo, ma allora perché sentiva questa sensazione, questo formicolio? Si osservò meglio e vide che il capello anomalo si era ingrossato ancora, soprattutto sulla punta, dove stava emergendo un pezzetto di metallo. Lo infilò sotto il ciuffo e uscì dal bagno.

Prese il Frecciarossa Roma-Milano delle 19, perché fino alle 18 era dovuto rimanere in ufficio. Anche se non importante come Globalware, la Banca di Trento era comunque un cliente di rilevo, checché ne dicesse Fibonacci. A volte non capiva come potesse, uno come lui, fare il project manager: l’azienda aveva bisogno di dirigenti come un bambino ha bisogno della mamma. Lui sapeva che molte volte bisognava sacrificarsi per questo bambino, passare notti insonni, preoccuparsi se qualche server faceva i capricci, chiudersi in ufficio durante il week end finché il problema non era risolto. Invece il Fibo se ne andava, per dire, tranquillo in settimana bianca e lasciava a lui tutte le incombenze.

cosedicasa

1
di Jacopo Ninni

Aperture 

Non ci restano
molte sorprese
ma il gesto è sufficiente
a rinfrescare la memoria

Preliminari 

Parliamone poi stasera
in un contorno di ebollizioni, fritture
e mescolamenti nella
processione fluida di idrolisi o
più congeniali amilasi,
definiremo ogni istanza al momento esatto
concentrati su un comune punto di fumo
davanti alla croccante scissione dei trigliceridi
e contemplare intanto l’imbrunire di una
generazione di destrine.
Lascia l’invidia agli occhi coagulati
delle proteine.
Decideremo allora se e quando
aumentare o calare la temperatura
con un gesto azzurro e progettuale. 

La cattiva scuola

3

di Giovanni Accardo

 

 

 

 

 

Credo che lo slogan “buona scuola”, con cui il governo Renzi ha chiamato l’ultima riforma scolastica, sia speculare allo slogan berlusconiano “forza Italia”: cioè superficialmente sottoscrivibile da tutti, nella sua genericità. Chi, infatti, potrebbe auspicare una cattiva scuola? Eppure quella disegnata dalla legge 107, nei fatti e nei giudizi di moltissimi insegnanti, è una cattiva scuola. Ne sono convinte due insegnanti di Palermo, Stefania Auci e Francesca Maccani (quest’ultima in realtà trentina trapiantata nel capoluogo siciliano), che su tale riforma hanno scritto un agile libretto intitolato, appunto, La cattiva scuola (pp. 105, 8,00 euro), pubblicato lo scorso ottobre da Edizioni Tlon.

GLI SCRITTORI PREPOSTUMI

3

di Giacomo Sartori

(Questo testo fa parte di un dossier curato dal Cartello (Forlani, Inglese, Schillaci e il sottoscritto) uscito nella rivista francese “La Revue Littéraire” e ora nel numero 68 di “Nuova Prosa” col titolo Esercizi di sopravvivenza dello scrittore italiano.)

Il mio quinto romanzo, l’ultimo venuto, è stato rifiutato da tutti gli editori, come del resto i precedenti.

Mariano Bàino – Prova d’inchiostro e altri sonetti – mini-antologia con nota (in-)esplicativa

0

Da Prova d’inchiostro e altri sonetti

di Mariano Bàino

1.

mundus (homeless man)

chiuso il tuo chiuso dentro un cassonetto
conchiglia inconchigliata col suo mollo
fra la calda immondizia, in un brodetto
sapido di primordi, finché il collo

ancora umano troppo umano non
lo scannano spirali in giro lento
di un vecchio camion nella notte con
tritarifiuti d’ordinanza -il vento,

folate fredde in mezzo allo sfasciume,
fa volteggiare un po’ di cartastraccia
fra le baracche sul greto del fiume.

Il vento a due spazzini il cuore agghiaccia
con l’urlo che dà in fondo all’infernale
compattatrice -un urlo d’animale.

* * *

senza titolo

per la mia mente è davvero incredibile
che tutto venga dopo quel falotico
mondo del mercato. ma non starò

qui nel modello a smidollare gli alibi
di chi voleva raddrizzare i torti
-alibi nostri, certo, che nell’urto

dell’accaduto -quasi la pezzuola
sulla piaga di uno morto male –
hanno scolato subito. ma pare
che nel silenzio ancora il ringhio sale

della cagna-poesia. al capitale
-qualcuno ha detto- può restare in gola
l’osso senza carne della parola
(avesse l’osso forma di pistola…)

* * *

sonetto del mattopardo

tranquillo te ne stai come un pupazzo
di segatura che scuote la testa
ogni tanto, quel tanto che rispazzoli
i sonagli che in cima fanno cresta.

quel berrettino a punta ha un suono pazzo
-se il suono senti bene è un po’ una festa
del morto o vita che tintinna a cazzica
-ti dice di un destino cartapesta,

che incarni una finzione di te stesso,
un sogno d’altri ch’è un quadro sconnesso
di fiori, tutti finti, che strapazzi

solo per imitare una protesta
sensifera, di linfe, un breve sprazzo
nulleo, del nulla della luce pesta

* * *

scacchiera/zugzwang

otto colonne e righe se tu prendi
le linee da sinistra -se conduce
la destra il verso a specchio -se sei luce
spettrale che attraversa -se comprendi

fra algebre il sistema che palude
è a sbiechi alfieri avversi – se sorprendi
tu l’altra mente e mentre sali scendi
a lama di rasoio – se traluce

la trama sua fra i tagli, le caselle
-se si accartoccia il fronte, si deforma
il nero bianco quadro come pelle

squarciata, se lì entri, un po’ a tentoni
rovisti e sei toccato dalla forma
a sbalzo dell’assurdo -se abbandoni

* * *

sonetto dell’area cinquantuno o dreamland

ardono oggetti di una luce ambrata
-luce, tra le montagne del nevada,
ellittica, che pulsa, è alla spianata
della statale, fila in autostrada

verso ovest -svanisce, diventata
due globi verdi e piccoli nell’aria
o aerei neri segreti o stellata
traccia d’antimateria che dirada

nel bianco del deserto: cominciata
con dischi somiglianti al mezzo dollaro
l’azione aliena, va a zigzag. sì, gli ufo

per le frangiate palpebre, una bolla
dove la carne sogna -sogni il gufo
la stella che è felice mentre crolla.

* * *

2.

disamato amante

quella lingua che come un martelletto
clicca la lingua in forme stabilite
dai codici d’amore sembra in lite
con la maschiezza, maschera in lucchetto.

dal tuo baciare io mi disconnetto
e guato nei tuoi occhi d’antracite
un vuoto che chi sa se è mite o immite.
eppure ti desidero, lo ammetto,

e forse è dopo un po’ che ti interessa
darti ad un estro, farti nel rapporto
dark lady, dama d’acme, diavolessa…

ma temo, sai, di rimanerne assorto,
quiete vedo vorrei tifonessa
-gli scogli tuoi saranno mai il mio porto?-

* * *

osceno/sentimental

ehi, senti? mento! è da poeta, in fondo,
però riuscissi a dirlo questo groppo
-un solo atomo, a muoverlo, e il troppo
sciocco delirio dove per te affondo

sarebbe estremo limite di lingua,
salvezza, a me, che osceno come il papa
di de sade, che sodomizza un tacchino

sto qui ad amarti, mentre si dissangua
il cuore prosciugato dal tuo napalm,
svuotato per riempirsi di un pochino

di te, di un’ora sola del mio oppio
sfumato dalla storia, via dal mondo
-sessi incrociati sulla sedia a dondolo
bastavano, bastava quel galoppo.

* * *

3.

prova d’inchiostro

(per gelsomino d’ambrosio, in memoria)

nella tensostruttura di un sonetto
chi sa sei tuoi racconti disegnati
avrebbero a soffrire, limitati
da spire rime cavi e un architetto

pentito già da prima -non sia mai
che immagini sfiottate dal tuo petto
sia io a dissipare. allora spero
vuota la prova. ancora non sciupati

per vie d’inchiostro i silenzi, le ore
della tua lady d’indaco, gli spersi
veli nei venti con l’aspide flessile

e il corvo re… vedrebbe ogni lettore
come in lisci cucchiai dentro i miei versi,
di un grande sole il pallido riflesso.

* * *

piede di madonna

non sempre trovi gli occhi allineati
il collo a volte va sulla clavicola
largo e per fasci muscoli s’irradiano

in modi che ci sembrano arteggiati
con un pennello alla brava, così
a scrollo, disunita abissità

dal rimanente incarnato -ti scorrono
a tratti caravaggio, in sprezzatura,
parti anatomiche, per la pittura
di luce transversa, di chiaroscuri

dal disegno che abbozzo ti procuri
con bianca biacca e fosco fondo -caro
di più il chiarore in zuffa e nell’asprura
con ombre e ogni genere di scuri.

fra le stranezze plurime
dei corpi soffro solo quello strano
collo del piede di maria, mostrato

ai viandanti, fra strada
e soglia -un poco sa di crudeltà
(te la ridi della deformità?)

* * *

__________________________________________________________________

Nota (in-)esplicativa

di Daniele Ventre

Nell’architettura seriale di periferia che si viene ormai imponendo in un’ampia area della poesia italiana, ridotta a vasta e uniforme pianura di nebbie occasionalmente adorna di caseggiati cubiformi, o a cumulazione catalogica di superficie, dominata da un combinato (mal-)disposto di epigonalismo e accademia, abbiamo avuto il piacere di imbatterci in un tesoro inaspettato, uscito per i tipi di Nino Aragno editore nella collana i domani, l’aureo Prova d’inchiostro e altri sonetti, di Mariano Bàino, la cui voce poetica si configura ancora una volta come una ventata d’aria fresca. Mariano Bàino è un autore che ci è intimamente congeniale per più di una ragione: anzitutto, l’estrema ricchezza formale ed espressiva che connota la sua produzione, sia poetica, sia narrativa; in secondo luogo, la profondità conoscitiva e la forte assertività e positività ontologica ed esistenziale (e resistenziale, considerato l’environnement e le sue nicchie an-ecologiche) di cui ogni sua opera è portatrice: una profondità e una positività tanto più veementi e coese, quanto più colpisce l’orecchio e l’intelligenza del lettore la patina di sommessa e signorile ironia che di Mariano Bàino è la cifra stilistica più evidente.

La silloge, articolata in quattro sezioni, si configura come una neo-rossiniana piccola messa solenne, o meglio, come una piccola grande opera-mondo, un mondo che si manifesta da principio come sostanza deiettiva, residuo disorganico, rifiuto, nella contemplazione dell’esistente degradato che è al centro del sonetto incipitario, mundus (homeless man). La stessa forma del sonetto, in quest’incipit, è torturata e tormentata nella sua struttura ordinaria, e marcata con combinazioni rimiche anomale (“con”, “non”, ordinariamente proclitiche, da clausola grafica di verso atonale), che minano l’apparente solidità dell’armatura wyattiano-shakespeariana dello schema metrico, trasformando il metro stesso in allegoria di un tessuto di realtà nelle cui leggi si incasellano sbavature e storture. Un esempio simile di allegoria tramata nel ritmo e nella scansione strofica è nel componimento senza titolo, la cui disposizione inversa, terzine che precedono le quartine, è più caratteristica della poesia d’oltralpe -si pensi ai decasyllabes di Résignation, lirica incipitaria dei Poèmes Saturniens di Verlaine. In questo sonetto appare evidente il parallelismo fra la struttura formale invertita e la denuncia dell’inversione segno-significato del mercato, deprivatore di senso. Nello stesso contesto, tuttavia, rinveniamo l’allusione marxianeggiante al rovesciamento dialettico fra la preponderanza del mercato e il “ringhio … della cagna-poesia”, ambiguamente connotata come cagna da guardia e nel contempo cagna da lupanare, grazie a cui “al capitale… può restare in gola/l’osso senza carne della parola”, rovesciamento dialettico che rende ancora più straniante la specularità formale. Ma un ulteriore passaggio da sottolineare, in questo sonetto rovesciato, è che in effetti dal punto di vista dell’originaria visione marxiana siamo di fronte a un duplice slittamento di prospettiva, con l’immagine del residuato sovrastrutturale (la poesia) che si oppone dialetticamente al mondo oggettivo dei rapporti di forza dell’economia, e vi si oppone in termini di posizione sovversivo-rivoluzionaria (l’osso della parola è efficace solo se ha “forma di pistola”). Questo che è il quarto dei sonetti della prima sezione si rivela dunque una sorta di proemio metapoetico di secondo grado, in cui tutto, dal ri-arrangiamento delle sillabe al messaggio, palesa a chiare lettere una visione paradossale della poesia: pur ingabbiata com’è in una dimensione marginale e liminare, essa funziona come grimaldello atto allo scardinamento dell’esistente, come suo speculum deformante e rovesciato, a patto però che non ceda alla seduzione dell’informe, ma persegua fino in fondo, sempre nel paradosso e nell’autocontraddizione apparenti, la necessità di soddisfare positivamente alla fame di forme che, come da lezione blochiana e da principio (disperato) di speranza, mina da sempre la materia. Risulta ora quasi banale sottolineare come, prendendo l’aire da questo paradosso-coerente del dare forma all’informe con disperata speranza, i singoli sonetti procedono sezione dopo sezione come fulgurazioni creative sorprendenti, in cui nuovi slittamenti prospettici sono sempre in agguato. Così a valle di una sequenza di singoli snapshots, dall’indecifrabilità/indecidibilità che connota il terzo uomo alla pensosa staticità hopperiana dei nighthawks, dalle sinestesie del tartufo bianco alle dissonanze di sonetto degli storni e del debito, alla grazia allucinante e totalitaria del plastico d’ape, campeggia l’ambigua figura al centro del sonetto del mattopardo, eco remota di un Pinocchio che era già emblema di uno dei momenti più giustamente noti della produzione letteraria di Bàino, ma al tempo stesso decostruita persona loquens, voce tintinnante di rime per l’occhio e rime ipermetre cumulate e tumulate in sonetto continuo, che con il suo “breve sprazzo/nulleo, del nulla della luce pesta” riecheggia alla lontana il sereniano “nulla nessuno in nessun luogo mai”. Dalla perfezione formale assoluta di scacchiera/zugzwang, in cui la limpidezza geometrica del classico schema petrarchesco di quartine a rime incrociate e terzine a rime incatenate si fa immagine uditiva delle mosse forzate dell’esistenza, alla riscrittura kavafiana di arrivano i barbari, che per converso celebra, nella distopia del collasso finale di civiltà, il trionfo della parola eccedente la forma chiusa, per terminare con l’atmosfera aliena del sonetto dell’area 51/dreamland, con i suoi ominosi dischi volanti, ein moderner Mythus di junghiana memoria, proiettato in un’area di sogno e in un tempo del sogno futuro, la prima sezione di Prova d’inchiostro racchiude il mondo in una sorta di giocosa cronaca disseminata dell’apocalissi.

La seconda sezione della raccolta torna, in parte, alla tematica amorosa che è tema di molta parte della tradizionale produzione in sonetti, e ciò che ancora una volta colpisce è il continuo gioco di trompe-l’oeil e trompe-l’oreille di cui la voce poetica della persona loquens si anima. Così, per esempio, in disamato-amante fronte e volta si controbilanciano, come un simbolo di Yin e Yang, fra “maschiezza-maschera” e “dark lady dama d’acme diavolessa”, in la single felicita l’ironia tipica di Bàino si riveste di toni neo-gozzaniani, mentre in osceno/sentimental il gioco di risegmentazioni, sia strofiche (quartine e terzine si incrociano) sia verbali, si fa portavoce di un ulteriore messaggio meta-poetico (“ehi, senti? mento! è da poeta, in fondo”). In questa sezione di ludico-verbali ἐρωτικὰ παθήματα, si stacca per il suo tono più pensoso, e per le sue forme estreme e debordanti, un nuovo senza titolo il sesto e penultimo, in cui l’oggetto libidico, ma anche l’eros in sé, si palesano fusi insieme in un “amato dèmone”, altalenante e ingombrante assenza-presenza.

Più metafisica la terza sezione, venata di uno sfaccettato amor idearum intellectualis, e spesso, in concreto, delle umbrae idearum che l’arte, figurativa o musica, rappresenta: si tratta di un tema che interessa in modo diretto o indiretto la maggior parte dei sonetti centrali ε ha una lunga tradizione in occidente, a partire dall’arte ecsfratica delle Immagini di Filostrato, per arrivare a Walser. Qui si rinviene per esempio il sonetto tribute Prova d’inchiostro, che dà il titulum all’intera silloge, e in cui si opera il redde rationem di rinchiudere la narrazione/ragione/ragionamento del mondo (nello specifico, del mondo racchiuso nei racconti disegnati dello scomparso Gelsomino d’Ambrosio) “nella tensostruttura di un sonetto”, tensostruttura che raggiunge qui le massime tensioni sperimentalistiche: basti pensare al sonetto bicaudato con fronte e volta invertite piede di madonna.

Chiude infine l’opera l’ipersonetto di settenari Carnevale Minore, omaggio implicito “all’archimandrita Zanzotto” (come da notazione di Andrea Cortellessa), in cui il tono crepuscolare, quasi dimesso, da mottetti e bozzetti, meriterebbe una lunga e articolata trattazione a sé e chiude con un allegro in sordina una trama poetica unica del suo genere. Nell’ipersonetto finale, sottoinsieme che costituisce in sé un’unica struttura poematica, il moto-cross verbale a cui il lettore di Bàino deve tenere dietro, prende anse più meditative, e culmina, in “ti nascondi e si vede” con quello che sembra configurarsi come un autoritratto a distanza, un congedo dalla pelle/ordito di pixel con cui il lettore e il poeta si sono finora interfacciati/confusi.

 

Tre giorni e una vita

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di Gianni Biondillo

Pierre Lemaitre, Tre giorni e una vita, Mondadori, 223 pagine, 2016
traduzione di Stefania Ricciardi

Possono gli avvenimenti di pochi giorni, tre per la precisione, cambiare per sempre l’esistenza di una persona? È esattamente quello che succede ad Antoine, un dodicenne che vive a Beauval, nella profonda provincia francese, in una delle tante anonime case a schiera, con vicini anonimi quanto lui. Antoine non ha il padre, che lo ha abbandonato quand’era piccolo, e vive con una madre fin troppo affettuosa e oppressiva. Le sue amicizie sono rare, i suoi compagni di scuola non lo considerano un vincente. Vive l’arrivo dell’adolescenza pieno di timori nei confronti della sua mediocrità, incapace di eccellere, di farsi notare.

Poi accade un fatto allo stesso tempo di poco conto eppure brutale e catastrofico: il vicino di casa uccide il proprio cane davanti ai suoi occhi. L’affetto che provava Antoine per un cane neppure suo, l’idea che coltivava di amicizia disinteressata, bambinesca, subisce un duro colpo. Da qui un concatenarsi di avvenimenti muterà per sempre la sua esistenza.

Pierre Lemaitre appare un narratore sadico con i suoi personaggi, sempre in balia di eventi dovuti al caso, deus ex machina che rimettono di volta in volta in gioco le certezze del lettore. Tre giorni e una vita ha nella sua prima parte le pagine migliori, dove i temi della colpa e dell’inganno assumono colorazioni dostoevskiane, mentre il ritratto di Antoine adulto, dopo i tre fatali giorni del suo peculiare superamento della linea d’ombra, sembra ineluttabile, senza appigli.

La scrittura di Lemaitre è concentrata su due poli: l’intreccio serratissimo, colmo di colpi di scena, e la lettura dell’interiorità del suo protagonista. Tutti gli altri personaggi, e sono molti, sembrano reagenti chimici al servizio della analisi psicologica di Antoine, un ragazzo che avrebbe potuto vivere una vita differente, se non avesse vissuto quei tre giorni maledetti.

(pubblicato precedentemente su Cooperazione n° 35 del 30 agosto 2016)

Cangura [2 prose inedite]

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di Alessandra Carnaroli

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dice che non sa dov’è mio padre, dice che forse gira con la macchina sempre nei soliti posti quelli che conosce a memoria tutti gli stop, dove si può superare, dove bisogna stare attenti perché ci mettono gli autovelox proprio quando torni a casa dal lavoro.
dice che porta ancora il cappellino con la scritta di versace e gli occhiali neri, se c’è il sole abbassa la capotta dice che così vede meglio le ragazze e si fa vedere, sorride fa ciao con la mano.
dice che gli piace anche se è ridicolo quando mette la polo sui pantaloni di stoffa e le scarpe da ginnastica sono troppo bianche si vede che le ha comprate da poco le mette solo per andarci in giro venire da me dice che sembra come se è sempre un turista
dice che a mia madre gli viene la nausea quando lo vede vestito come uno che va al liceo, dice che è come se lo vede che si nasconde nei bagni per fumare come se lo vede baciarsi con la ragazzina che c’ha lo scooter argento gli mette una mano nelle mutandine di monella vagabonda gli parla di vasco rossi gli fa gli squilletti nel cellulare

Amando Lear: Giorgio Barberio Corsetti

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Eredi e carnefici del proprio destino

Appunti sul Re Lear di Giorgio Barberio Corsetti

di Lucio Saviani

Re Lear è lo spettacolo della vita che concepisce la sempre imminente disfatta, una vita che anticipa la rovina e corre verso la propria fine. È vita impregnata di morte, un destino che si fa carne. Ed è una carne che sa di male, che ha odore di morte (“smells of mortality”). A tratti, sui piccoli carri spinti dagli attori, sulle sue scarne scene mobili, Giorgio Barberio Corsetti sistema e presenta personaggi disposti come “nature morte”.

È una storia di donne e di uomini, di padri e figli, genitori ed eredi, e tutti, in un mondo che odora di mortalità, tutti carnefici del proprio destino.

Una verità che gli occhi non vedono e che vuole per sé chi è fuori di senno (il cieco e il folle qui guadagnano a volte un tono beckettiano; come re Lear di tanto in tanto sembra intendersi nei suoi deliri festosi con ospiti assenti, uomini di trono e di teatro, come Caligola, Eliogabalo, Ludwig, Rodolfo II e anche quel principe di Homburg che, poco tempo fa, Barberio Corsetti ha portato in scena ad Avignone).

Re Lear è lo spettacolo sinistro, infernale, il dramma di morte, dissidio, esilio, calunnia e dissoluzione, il più apocalittico e “tempestoso” dei drammi shakespeariani, continuo presagio di catastrofe e rovina del mondo. Perché Re Lear (e lo spettacolo di Barberio Corsetti ne è formidabile interpretazione) è il dramma in cui tutto è eccesso, de-lirio, un andare oltre il segno, con il suo tempo sostenuto ad ogni passo, veloce e rovinoso, dove tutto precipita, con i personaggi che corrono via verso il precipizio del destino che essi già incarnano.

Corsa scellerata e furiosa come su un pendìo scosceso, che per Barberio Corsetti è inclinato come le tavole di un palcoscenico.

La potente bellezza dello spettacolo di Barberio Corsetti è retta, sostenuta, con forza davvero regale, dal ritmo con cui la tempestosa storia prende vita e mortale vicenda. Rhythmos, prima ancora che il “moto delle onde”, significa la forma che in un istante assume ciò che è in movimento, forma modificabile, senza consistenza organica, come un drappo della veste che si ferma sulla spalla, o come l’instabilità dell’umore, ossia di ciò che scorre via. È proprio grazie a questo eccezionale ritmo, tempo che non abdica né divide, che lo spettacolo può sprigionare la sua forza e conservare al tempo stesso la sua potente stabilità.

Il tragico dissidio tra l’esercizio del potere e una dichiarazione d’amore, autorità e potestà come sorelle rivali, l’impegno dell’eredità e la necessità del riconoscimento: Re Lear, proprio grazie a queste vicende, mette in scena la fine di un’epoca e l’inizio di un’altra. Ma come poter riconoscere un’epoca prima che sia davvero un’epoca, ossia prima della sua fine? Il Re Lear di Giorgio Barberio Corsetti è un interrogarci sulla nostra epoca, una domanda piuttosto rara sulla scena del tempo presente e che di questo spettacolo esprime tutta la necessaria e preziosissima inattualità.

All’Argentina di Roma ‘Re Lear’ con Ennio Fantastichini diretto da Barberio Corsetti

Lo spettacolo debutta il 21 novembre e rimarrà in cartellone sino al 10 dicembre

 

FACCE (elenchi # 5)

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di Giacomo Sartori

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

facce affacciate (alle facciate)

facce affaccendate (alle faccende)

facce sfaccendate

L’Europa vista dall’Albania: Paolo Mastroianni & Patrizia Posillipo

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Foto di Patrizia Posillipo

Ksamil-Albania

di Paolo Mastroianni

E il padrone, come al solito senza parlare, ha intascato il danaro e con un cenno del capo mi ha passato la busta coi pesci che un turista aveva appena comprato. Quattro spigole. Ho iniziato a pulirle. L’uomo si è fatto vicino: barba d’argento, occhi castani spensierati e guizzanti in un volto abbronzato e rugoso. Sicuramente italiano.

Abbassato lo sguardo, ho affondato il coltello nel primo pesce, l’ho aperto, l’ho ripulito con un giro veloce lasciando cadere le interiora nell’acqua, poi mi sono abbassato, ho allungato il braccio aldilà della chiazza rossastra e marrone di sangue e interiora intorno ai miei piedi, l’ho sciacquato con acqua di mare pulita e mi sono rialzato incrociando gli occhi attenti dello straniero: forse non aveva mai visto nessuno pulire del pesce nel mare. Ne ho approfittato e gli ho chiesto:

– Per quale motivo gli Inglesi non vogliono stare in Europa?

Sorpreso, è rimasto un poco in silenzio. Tanto per prendere tempo, ha fatto anche lui una domanda:

-Com’è che parli italiano adesso che avete televisione e canali e programmi?

-Perché voglio andare in Italia, perché anche se molti Albanesi da un pezzo dicono che ci sono paesi migliori, l’Italia è sempre l’Europa, ed è per questo che non capisco gli inglesi.

L’uomo ha chiuso e riaperto gli occhi. Poi ha iniziato a parlare, con lentezza, scandendo ogni parola:

-E’ che evidentemente gli inglesi pensano che stare in Europa sia peggio per loro, per la loro economia, per il fatto che le persone dagli altri paesi d’Europa possono andare liberamente da loro…

Ho risposto:

-Resteranno isolati, come noi che non sopportiamo nessuno e nemmeno noi stessi, la Grecia che ci ha rubato la storia, il Kosovo che pure sono albanesi ma sono e saranno diversi…

L’uomo mi guardava pensoso. Mi sono fermato. Lui ha detto:

-Non si sta bene in Italia, non c’è niente di buono davanti, c’è disoccupazione, soprattutto tra i giovani…

-Per noi c’è lavoro! – gli ho detto.

Mi ha guardato perplesso. Ho capito che pensava alludessi agli albanesi che fanno imbrogli e rapine e portano droga e gestiscono prostituzione. Così ho ripreso a parlare:

-Non ce ne sono più di italiani che fanno i muratori e trasportano mattoni e cemento, che raccolgono frutta nelle campagne d’estate, o che portano al pascolo greggi per giorni e per notti e fanno formaggio di capra e di pecora, o che lavano cessi…

Lui mi ha interrotto:

-Ed ha senso venire in Italia per fare questi lavori? Non è meglio restare?

foto di Patrizia Posillipo

L’ho fissato. Ero sul punto d’iniziare a parlare, di dirgli “Lo sai quanto prendo e solo d’estate? Lo sai che mia madre non ha medico e medicine e oramai si trascina come una vecchia? Lo sai che qui non c’è lavoro in inverno, e che in inverno c’è solo freddo e disperazione? Lo sai che qui devi conoscere per ogni piccola cosa, e mia madre non conosce nessuno e mai nessuno ha voluto conoscere?” E lui allora mi avrebbe risposto: “E pensi che avresti medico e medicine con i lavori che hai nominato? Pensi che avresti una casa, o che potresti sposarti e fare dei figli?”. E io gli avrei ribattuto: “Sarei in Italia, in Europa, dove tutto è più semplice e comodo e presto o tardi mi passerebbe davanti una buona occasione. Magari qualcuno mi farebbe portare una partita di droga, mia mamma non verrebbe a saperlo, forse lo immaginerebbe a distanza di mesi o di anni vendendomi fuori dalla miseria per sempre, e allora ne sarebbe felice dentro di sé… E seppure nessuna occasione mi passasse davanti, seppure dovessi patire la fame, sarebbe in un posto migliore, con le ragazze e i ragazzi che hanno gusto e vestiti e spensieratezza negli occhi. Almeno godrei nel vederli, a immaginarmi cresciuto come uno di loro”.

Tutto questo ero sul punto di dirgli, ma il tempo non sarebbe bastato. Così, in modo da fargli capire, ho velocemente abbracciato con uno sguardo accigliato il coltello, le spigole che ancora non avevo pulito, il grembiule marrone e rosso di sangue e interiora, la baracca con le conche e il padrone, che adesso mi stava guardando poiché c’era un altro cliente cui pulire tre pesci, albanese stavolta, con l’aria di chi va di fretta.

Fingendo di non averlo notato, ho riabbassato la testa per raschiare le squame dell’ultima spigola dell’italiano, ripulirgli la pancia, sciacquarla, avvolgerla dentro la carta, allungare il braccio e passare la busta, con un movimento deciso che ha indotto l’albanese ad avvicinarsi e allungarmi i suoi pesci, l’italiano finalmente a capire che non c’era più tempo e allora a farmi un sorriso dolce e un po’ divertito, come a dirmi che stavo sbagliando, che qualcuno mi aveva messo in testa stronzate, quindi – in un istante veloce, simile a quello in cui avevo abbracciato il coltello, il grembiule marrone e rosso di sangue, la baracca e le conche e il padrone – a guardare il tramonto, il mare pulito, la costa rocciosa, le colline verdi alle spalle, ed a dirmi un’ultima cosa prima d’incamminarsi e sparire per sempre dalla mia vista:

-E’ una terra bellissima, e si vive con poco.

A mezza bocca, senza sorriso, gli ho detto:

-Ma non è l’Europa.

L’era dell’autopromozione permanente

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[Questo testo fa parte di un dossier curato dal Cartello (Forlani, Sartori, Schillaci e il sottoscritto) uscito nella rivista francese “La Revue Littéraire” e ora nel numero 68 di “Nuova Prosa” col titolo Esercizi di sopravvivenza dello scrittore italiano.]

di Andrea Inglese

C’era la rivoluzione permanente. È un concetto di cui ho sentito parlare molto tempo fa, e qualcuno me l’ha pure spiegato.

I “monelli” del Dr. Tomuschat

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di Orsola Puecher

Chi sono e dove si trovavano i bambini con i vestitini sporchi e stracciati come il monello di Charlot, i monelli come con arguta dolcezza qui nelle Marche si chiamano comunemente i bambini? E i soldati e ufficiali della Wehrmacht sorridenti che li prendono per mano, le donne in posa, i neonati in carrozzina, le suorine ammassate a sbirciare da un balcone, poi con gli ombrelli neri? Nelle riprese sfocate del Dr. Tomuschat, ufficiale medico della Wehrmacht, ⇨giunte dopo molte traversie fino a noi nel terzo millennio dal secolo delle guerre, in un ordinato antico paesaggio rinascimentale di vigneti e fondi agricoli si riconosce la cinquecentesca Villa Selvatico Sartori di Battaglia Terme, Rovigo, sui Colli Euganei, con la sua lunga scalinata a terrazze, la quadrata sagoma massiccia, il belvedere tutto intorno, la cupola turrita. Edificata in cima al colle di Sant’Elena, detto fin dall’alto Medioevo “colle della Stufa” (o stupa) per la presenza di una famosa grotta sudorifera, la Grotta Radioattiva, per curare malattie e dolori articolari con il calore e le acque termali che sgorgavano dal sottosuolo, fu frequentata nel tempo da famosi personaggi: da Francesco Petrarca, al duca Francesco III di Modena, il filosofo Michel de Montaigne, lo scrittore francese Stendhal e il poeta tedesco Heinrich Heine. E li possiamo ancora immaginare, sudati e accaldati, seduti fra le rocce vulcaniche, avvolti in bianchi panni drappeggati come senatori romani, o dannati di un un qualche antro acherontico dantesco.

Nel filmato appare anche un grande edificio “moderno”, in stile ventennio, che è lo Stabilimento Termale INPFS, Istituto Nazionale Fascista della Previdenza Sociale: un suo padiglione era stato adibito in quegli anni a ospitare i molti orfani di guerra della zona. Cosa che giustificherebbe la presenza dei “monelli”.

Lo stabilimento idro-termale, costruito ai piedi del colle per preservare la littoria salute dei lavoratori, venne inaugurato in pompa magna nel 1936, alla presenza di autorità regie e fasciste, Piccole Italiane e Balilla e folla festante.

 

Nel ’43-’44 l’Istituto Nazionale Fascista della Previdenza Sociale fu requisito dal comando Tedesco per ospitare il Feld-Lazarett 95, ospedale da campo della 5a Gebirgs-division della Wehrmacht, una divisione di montagna paragonabile agli alpini. La 5a Gebirgs-Division dopo le vittoriose operazioni militari nell’isola di Creta nel ’41, che si conclusero però con grandissime perdite di uomini, dopo l’impiego nel settore sud-ovest di Leningrado, dove fronteggiò l’Armata Rossa fino al novembre 1943, contribuendo tra l’altro all’accerchiamento del cosiddetto “fronte Volchov” ma subendo anche là grandi perdite, venne trasferita in Italia settentrionale per un periodo di riposo. Dal gennaio 1944 entrò in azione sulla linea Gustav, scontrandosi anche nella battaglia di Montecassino. A settembre era sulle Alpi Marittime, e il 2 maggio 1945 si arrese alla 5ª armata statunitense nei pressi di Torino.


Nel filmato del Dr. Tomuschat compaiono ufficiali, soldati, in divisa, in maniche di camicia, in esercitazioni militari che paiono scampagnate domenicali, mentre brandiscono fiaschi di vino e bottiglie di prosecco, con bambini per mano e tutti sempre sorridenti e benevoli. Anche il saluto nazista con il braccio alzato è veloce, appena accennato, simile a un normale gesto di commiato. La gente qui è in posa di fronte agli shot di cinematografia amatoriale, con cinepresa portatile Agfa Movex e pellicola Agfa 8 mm del Dr. Tomuschat e non esposta, almeno per una volta, agli shot letali delle armi da fuoco di diverso calibro dell’esercito tedesco, ormai sconfitto e per questo ancora più incattivito, in quella precipitosa ritirata attraverso il Veneto, via di fuga diretta verso la Germania, detta comunemente marcia della morte per il numero di vittime di stragi, una lunga scia di atti di pura rappresaglia e crudeltà perpetrati contro una popolazione civile inerme e provata da anni di guerra. Il filmato ricevuto e fatto sviluppare da ⇨ Home Movies di Bologna e diffuso sui principali siti dei quotidiani per vedere se per caso qualcuno, ancora dopo tutti questi anni passati, vi si riconoscesse, è ora oggetto di analisi da parte di storici e studiosi. In vari articoli che ne parlano si cerca di identificare, un po’ forzatamente, e forse inutilmente, al suo interno, fra la quotidianità pacifica della situazione tracce del Male Assoluto, che ha percorso l’Europa nella prima metà del secolo scorso. La quotidianità, l’esistenza di una quotidianità, fatta di gesti normali, insignificanti è quasi impensabile in periodi di guerra, eppure la vita andava avanti comunque, nonostante tutto, per tutti, vittime e oppressori. Ad essere oggettivi, cosa molto difficile in casi come questi, non ci si può sbilanciare nè sul versante della celebrazione degli alcuni, rari, nazisti buoni, oppure di quella certa vulgata in cui si distingue Wehrmacht buona e SS cattive, cosa che farebbe solo il gioco di un certo strisciante e mai morto negazionismo, ma neppure è possibile virare le immagini riprese di indizi di terrore imminente, come un po’ fa intendere il pur bel accompagnamento musicale di sottofondo. Il terrore è interiorizzato dentro noi che guardiamo il passato con il futuro alla spalle, nel nostro occhio che non riesce ad essere innocente di fronte alla storia e alla sue bufere. Come l’Angelus Novus di Klee-Benjamin:

IX.
C’è un quadro di Klee che si chiama Angelus Novus. Vi è rappresentato un angelo che sembra in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui ha fisso lo sguardo. I suoi occhi sono spalancati, la bocca è aperta, e le ali sono dispiegate. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Là dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente ma­cerie su macerie e le scaraventa ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e riconnettere i frantumi. Ma dal paradiso soffia una bufera, che si è impigliata nelle sue ali, ed è cosi forte che l’angelo non può più chiuderle. Questa bufera lo spinge inarrestabilmente nel futuro, a cui egli volge le spalle, mentre cresce verso il cielo il cumulo delle macerie davanti a lui. Ciò che noi chiamiamo il progresso, è questa bufera.

Il nostro occhio, il nostro ricordo è sempre nell’attimo di pericolo e forse è giusto che sia così, perché il ricordare, la memoria, non sia un mero esercizio di nostalgia, di conformismo, ma la scintilla di speranza per i cui morti, le vittime, non muoiano due volte nell’oblio e nel ritorno della stessa violenza, sempre pronta a rinascere, a ritornare a vincere, e che mai non ha smesso di vincere.

VI.
Articolare storicamente il passato non significa conoscerlo «proprio come è stato davvero». Vuole dire impossessarsi di un ricordo così come balena in un attimo di pericolo. Per il materialismo storico l’importante è trattenere un’immagine del passato nel modo in cui s’impone imprevista nell’attimo del pericolo, che minaccia tanto l’esistenza stessa della tradizione quanto i suoi destinatari. Per entrambi il pericolo è uno solo: prestarsi ad essere strumento della classe dominante. In ogni epoca bisogna tentare di strappare nuovamente la trasmissione del passato al conformismo che è sul punto di soggiogarla. Il messia infatti viene non solo come il redentore, ma anche come colui che sconfigge l’Anticristo. Il dono di riattizzare nel passato la scintilla della speranza è presente solo in quello storico che è compenetrato dall’idea che neppure i morti saranno al sicuro dal nemico, se vince. E questo nemico non ha smesso di vincere.

Un dottore nazista con dei bambini con faciloneria evoca subito un qualche Mengele, eventuali terribili esperimenti su di essi, le donne le vedi come possibili deportate, rasate, nude, messe al muro, stuprate, i bambini ostaggi di rappresaglie, episodi realmente e iteratamente avvenuti, ma forse questo Dr. Tomuschat, era solo un medico militare che curava i feriti di guerra nazisti nel Feld-Lazarett 95 situato nello stabilimento termale. La cinepresa è amatoriale e quindi pare improbaibile che proprio in quel drammatico 1944 di ritirata, il film fosse girato per propaganda, ma bensì forse era solo per uso personale, per ricordo. Per raccontare a casa di un bel ricordo, da viaggio in Italia, che lavasse la coscienza dalla stragi di quel periodo, in quasi ognuno dei piccoli paesi vicini dei Colli Euganei. Il comando della Wehrmacht della zona, posto nel Collegio Vescovile della vicinissima Este, era in mano a un certo Willy Lembcke, protagonista di atti indegni. Qualcuno dei soldati sorridenti in pausa terrore del filmato vi aveva partecipato, vi parteciperà?
Nel suo romanzo La vita eterna [1972] ⇨ Ferdinando Camon, scrittore un po’ dimenticato ma che molto ha dedicato alla Storia del Veneto martoriato dai nazifascisti, descrive la crudeltà di Lembcke.

Sul far della sera arrivò nel paese una moltitudine di ragazzini tedeschi sui sedici anni, con cappotti più lunghi di loro che spazzavano la terra e le facce spaventate e perciò spaventevoli, e disponendosi metà a destra della strada e metà a sinistra, in totale silenzio come per una cerimonia sacra, cominciarono la loro processione. Dietro di loro venivano i tedeschi anziani che sopraggiungevano continuamente in camion e lasciavano i camion al crocevia incolonnandosi a piedi per la processione che andava a benedire le Sette Albare. In mezzo alla processione come una reliquia santa portata a spalle sul baldacchino veniva la faccia di pugnale del colonnello Lembcke sulla gip silenziosa che pareva procedesse a motore spento, e ai quattro lati della gip c’erano quattro ufficiali tedeschi che con la coda dell’occhio tenevano continuamente sbirciato il colonnello. Come arrivarono in zona, il colonnello ad ogni casa che incontrava pareva che si svegliasse da un sogno, perché illuminandosi di una luce sporca trasformava il pugnale in una faccia e con lo sguardo annoiato e sofferente toccava qualcuno dei quattro ufficiali, a destra o a sinistra del suo tronetto a seconda che la casa fosse a destra o a sinistra, e l’ufficiale così toccato si trasformava in bestia e schizzava via come un cane rabbioso e mordeva le file della processione che in un grande urlìo si scompigliava di qua e di là tutt’attorno alla casa come vesponi inveleniti, e poi saltavano dentro la casa per le finestre e per le porte, e per scoprire se c’era gente piantavano la baionetta sui letti trapassando i materassi e sugli armadi sforacchiando le porte e sulle madie e attraverso le tende dei sottoscala, sempre di corsa per le camere e saltando i gradini e nella fretta più volte scontrandosi tra loro con fragore di elmetti e ruotare delle occhiaie bianche senza pupilla, poi saltavano fuori per le finestre e mentre quattro si disponevano agli angoli della casa gli altri tornavano di corsa a riprendere il loro posto nella processione.

Sono casi questi in cui la colpevolezza collettiva di un intero popolo, cozza con l’innocenza individuale, effettiva magari in qualche caso, o pretesa, sempre. A tutti i processi di criminali nazisti, la scusa più usata per giustificare ogni tipo e grado di crudeltà e autoassolversi individualmente, non è sempre quella di aver ubbidito a ordini superiori?
Dando uno sguardo alla mappa dell’⇨ Atlante delle Stragi Nazifasciste in Italia, colpisce questa nuvola cosi densa di segni rossi delle etichette luogo di Google Maps, tale da non lasciare quasi intravedere l’orografia del territorio, e ingrandendo con lo zoom, ecco che si evidenzia come quasi ogni piccolo paese ne fu colpito in misura maggiore o minore.

Nel libro Soldaten, Garzanti [2012], lo storico Sonke Neitzel e lo psicologo sociale Harald Welzer analizzano i comportamenti brutali e la psiche dei soldati nazisti studiando i verbali degli archivi inglesi e americani, che trascrivono le intercettazioni delle conversazioni tra i soldati tedeschi rinchiusi nei campi di prigionia di Trent Park e Wilton Park, nel Regno Unito, e di Fort Hunt, in Virginia, Stati Uniti, e da cui emerge che quella violenza così incomprensibile era una violenza talmente profonda e ideologicamete radicata da essere davvero normale.

In Italia, in ogni luogo dove arrivavamo, il tenente ci diceva sempre “cominciate ad ammazzarne un po’ “. Io parlavo italiano, avevo compiti speciali.
[Dice un caporalmaggiore della Wehrmacht e un suo compagno di prigionia.]

Il tenente ci diceva, ammazzatene venti, così avremo un po’ di pace, alla minima loro sciocchezza via altri cinquanta. Ra-ta-ta-ta con le mitragliatrici, lui urlava, “crepate, maiali”, odiava gli italiani con rabbia.

I sorrisi dei militari della Wehrmacht non ci ingannano nemmeno per quei pochi minuti del filmato, ma forse queste immagini ci dicono molto di più dell’Italia del ’44-’45, di ville antiche e storiche, luoghi sacri o profani requisiti dai tedeschi e che spesso furono teatro di saccheggi, di torture, e di violenze di ogni tipo. E questi monelli ci raccontano la condizione di un paese ridotto a una miseria profonda da anni di guerra. Si fanno riprendere con maggiore o minore ritrosia, gli viene detto di certo Sorridi… sorridi…, si avvicinano agli uomini in divisa, ai loro mezzi con la confidenza e la curiosità che solo i bambini possono avere. Si fanno prendere per mano. Ma i visi già quasi adulti, già provati da mille privazioni, da una vita dura, anche oltre la guerra, che forse abbiamo troppo presto rimosso, con un cagnolino al guinzaglio, una canna da pesca in mano, i piedi nudi, le gambine un po’ rachitiche e sporche, i fiocchi nei capelli, nonostante, e le treccine ben strette intorno alla testa da mani sapienti, guardano diritto in camera, ci guardano e noi con commozione li guardiamo. Come ci guardano, e anche noi li possiamo guardare negli occhi, i soldati, a volte un po’ pingui, lo sguardo da padri di famiglia, spesso con un certo imbarazzo. La sagoma del Dr. Tomuschat curvo nel riprendere si sovrappone sotto forma di ombra per ben due volte. Ci siamo tutti sulla scena in questa pausa sospesa fra le violenze. Ed è forse per questo che l’emozione di questi quasi sette minuti che paiono apparire come per miracolo dalle code della pellicola con i loro disturbi di linee e di erosioni, non ci abbandona facilmente.

Nel rapido passaggio di inquadratura fra un soldato che spara con il fucile durante le esercitazioni e i tre bambini adossati a un muro in fila, corre un brivido lungo la schiena. Ma loro poi un poco sorridono. Senza troppa convinzione, ma sorridono, parlottano fra loro. Non è il caso questo di fucilazioni di massa e rastrellamenti di donne e bambini di tanti altri luoghi. Ma il pensiero non può non andare subito a questi episodi, a terrore negli occhi, nessun sorriso, attesa dell’esecuzione. Più si guardano questi sorrisi, questa confidenza apparentemente gentile dei superuomini ariani conquistatori con il popolo conquistato e sottomesso duramente, più non si riesce ad esserne tranquillizzati. Per contrapposizione. E qualche attimo di studiata e costruita serenità, non riesce e non può cancellare tutto il resto.

Appunti per la costruzione di una mappa di superficie e di profondità del Sulcis Iglesiente (1/2)

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testo e foto di Dario Coletti

 

 

 

 

 

 

 

 

Più di altri il territorio del Sulcis Iglesiente può essere visto come punto di incontro tra più

CinemaZERO

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di Mariasole Ariot

Da stasera, a Trento, comincia CinemaZERO. Tra le più importanti realtà cinematografiche, il festival si propone di far incontrare autori e opere all’insegna di una ricerca nazionale e internazionale – e al cui interno troviamo anche un concorso destinato a cortometraggi autoprodotti.
Per quanti avessero letto qui  la recensione di Alberto Brodesco a The Good Intentions di Beatrice Segolini, il film verrà proiettato sabato 2 dicembre alle ore 18,15.

 

Europa vista dalla luna: intervista a Steven Brown dei Tuxedomoon

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Cover di Andrea Pedrazzini

Tales from an european journey: Steven Brown e l’Europa dei Tuxedomoon

di Mirco Salvadori

traduzione a cura di Andrea Aguzzi

da Sud n°50

 

 

Sembrerà strano chiedere ad un americano nato in Illinois e residente in Messico cosa rappresentava il vecchio continente per chi, negli anni a cavallo tra i ’70 e gli ’80 lo vedeva da oltre oceano. Eppure è una domanda che giunge quasi spontanea, se pensata dopo aver conosciuto Steven Brown, la musica e il lungo percorso dei Tuxedomoon, una formazione che incarna la purezza dell’avanguardia cresciuta in un’Europa vissuta come terra ritrovata, forse mai del tutto abbandonata.

Mirco, prima di rispondere alle tue domande vorrei solo condividere alcuni pensieri sul tema più ampio riguardante il vecchio continente. Ho sempre creduto nel ruolo fondamentale degli artisti, lo stesso rivestito dai re, gli eserciti e le chiese nella creazione della futura Europa. Tra il ‘700 e l’800 del primo millennio, nel vostro continente sono vissuti Goethe e Byron e Shelley e Keats e Wagner, per citarne alcuni. Questi uomini attraversavano l’Europa, le Alpi, i fiumi e le valli spesso a piedi, prima ancora che tale luogo esistesse ufficialmente. Si potrebbe dire che già covava un ideale nelle menti dei grandi pensatori e artisti. Inconsciamente stavano tessendo un futuro basato sull’ identità europea. Già a quel tempo le frontiere per loro non esistevano: i trovatori, i protagonisti della commedia dell’arte e le piccole compagnie teatrali si muovevano costantemente, senza dimenticare gli innumerevoli pittori espatriati. In un certo senso i Tuxedomoon, con umiltà, hanno seguito il loro esempio come europei della seconda e terza generazione sradicata dall’Europa.

 

Per molti di noi, estimatori della prima ora, ascoltare brani come In A Manner Of Speaking o The Cage, Les Six, A Piano Solo, Egypt, Time To Loose, Soma, ecc. – tracce che ho scelto d’impeto, a memoria – rappresentava una sorta di salto indietro nel tempo, quell’ascolto ci portava a respirare l’atmosfera satura di frenesia artistica imperante dentro gli indefiniti confini di una mitteleuropa sempre vista come ricettacolo di passioni. La vostra musica ci immergeva nel fumo dei caffè letterari parigini e nella frenesia dei circoli lettarari del primo ‘900. Voi eravate coscienti del potenziale immaginativo scatenato dalle vostre composizioni, era quella la via idealmente percorsa dai Tuxedo o il vostro fine era altro.

foto di Mirco Salvadori

Tu fai riferimento alla natura paradossale di un’intervista ad un americano che parla di Europa. Dire che un gruppo di musicisti e artisti provenienti da San Francisco è riuscito a trasportarvi nella Parigi fin de siècle e nel glorioso passato mitteleuropeo può suonare assurdo. Poi però penso ai Rolling Stones, gli inglesi che hanno introdotto milioni di persone, negli Stati Uniti e in tutto il mondo alla musica afroamericana del ventesimo secolo. Oppure i Beatles che si sono evoluti da “I wonna hold your hand” alle tecniche in studio di Stockhausen. Per molti di noi il primo contatto avuto con Stockhausen e la tape-music è arrivato attraverso interviste con i Fab Four. Ecco, forse abbiamo bisogno di condotti o di filtri per elaborare i nostri sogni e i nostri desideri nascosti. Altri esempi potrebbero essere Philip Glass, Steve Reich e Terry Riley, che trasformarono il mondo attraverso il proprio suono usando stili impensabili come per esempio la musica minimalista orientale di Bali e non solo.

A volte il termine “straniero” “étranger” “outsider” ci fornisce solo il giusto contatto per apprezzare qualcosa che non potremmo altrimenti percepire. Un esempio di questa torsione o cambiamento di percezione provocato dallo “straniero”, anche se negativo, è il cosiddetto “Malinchismo”, qui in Messico.

Malinchismo si riferisce all’idea comunemente diffusa in questa terra, che qualsiasi cosa straniera sia migliore o preferibile a qualsiasi cosa nazionale, sia essa formata da uomini o oggetti.

Il nome deriva da “la Malinche” la donna indigena che è diventata amante di Hernan Cortez. La donna mayana che ha preferito l’europeo alla propria gente.

Certamente siamo stati immersi nella musica europea per lungo tempo prima di arrivare in Europa. Ricordo di aver usato Schoenberg per una colonna sonora di un film super 8 realizzato al liceo e ancora, al San Francisco City College ho conosciuto Blaine (Reininger), assieme andavamo a vedere le mostre sui futuristi e amavamo ascoltare i Kraftwerk, Bowie e Eno, per dire.

 

Che aria si respirava nella San Francisco fine anni ’70.

 

San Francisco, a metà degli anni settanta, era ancora immersa nel crepuscolo dorato degli anni Sessanta. Ho vissuto in un comune del distretto di Haight; gay, uomini, donne e cani tutti vegetariani e tutti talentuosi artisti a tempo pieno.

Ci siamo formati come tutti, in quei tempi, all’interno di questa comune dove ho avuto la ventura di diventare un membro del gruppo chiamato Angels of Light. Figli e figlie di Duchamp o Breton che hanno lavorato a rendere la vita quotidiana un’opera d’arte, anche grazie alle loro produzioni teatrali. Nessuno di noi andava al negozio all’angolo senza indossare qualche costume o altre stravaganze. Dal lato politico gli Angels erano sostenitori della cultura “free” di San Francisco. Credevamo che tutta l’arte doveva essere libera. Gli Angels non facevano mai pagare un biglietto e per farne parte non potevi avere un lavoro normale (un’influenza del situazionismo?) o essere coinvolto in qualsiasi cosa che comportasse un pagamento. E così quando ho iniziato a suonare con i Tuxedomoon in bar o in locali dove si facevano pagare ho dovuto lasciare il gruppo. Erano tempi inebrianti.

Il Punk ha aperto i portali, ha rotto la musica commerciale che ci ha tenuto in scacco per anni. E anche se in un primo momento fu difficile, fu grazie a questa ribellione culturale che la creatura Tuxedomoon poté crescere.

Che ne pensavate del movimento di protesta europeo di fine anni ’60, aveva lasciato traccia nella San Francisco psichedelica di quegli anni?

 

Il movimento studentesco e quello dei lavoratori del ’68 si era diffuso oviamente in tutto il mondo. Per quanto riguarda il suo impatto su San Francisco negli anni ’70 però, la mia sensazione è che la Bay Area si fosse già reinventata tutto senza l’aiuto di Parigi… le comuni, le cooperative, gli hippies i movimenti neri e quelli delle donne e poi i gay, tutto era già accaduto negli anni ’60! C’era uno zeitgeist vero. Ecco il perchè del nome “Holy Sixties”. A Berkeley si, loro erano più in linea con quello che stava accadendo in Europa in quel momento.

 

Quale è stato il vostro primo contatto con la cultura europea contemporanea e cosa vi ha spinto ad attraversare l’oceano.

 

Il mio primo contatto è avvenuto attraverso la musica e il cinema: Kraftwerk, Bowie, Eno, Fellini, Pasolini, Fassbinder. I loro messaggi parlavano di un altro spazio e del tempo, qualcosa di diverso e nuovo. Qualcosa di più serio e interessante degli USA. Winston (Tong) e Bruce (Geduldig) erano già stati in Europa come duo, l’agente di Winston a Parigi è diventato l’agente europeo di Tuxedomoon e via, ci siamo diretti verso l’Europa che per noi era come un altro pianeta. Quando abbiamo deciso che era ora di lasciare San Francisco pensavamo di avere 3 opzioni: Los Angeles, New York o l’Europa. Abbiamo scelto quest’ultima in parte incoraggiati da Winston; in un modo incredibilmente ingenuo, quasi infantile, siamo saliti sopra un aereo e abbiamo iniziato a muoverci senza piani prestabiliti, siamo andati… e siamo rimasti.

 

Come si immaginava Steven Brown questo continente, la sua cultura e come lo ha realmente trovato una volta sbarcato dentro i suoi confini nei primi anni ’80.

 

Il primo anno trascorso a Londra e poi a Rotterdam fu quanto di più lontano dalla scena californiana ci si potesse immaginare: freddo e grigio… persone e paesaggi. Penso che in qualche modo la mia natura malinconica ne fosse felice. Ma alcuni di noi si lamentavano molto, desiderando il calore della California.

Ricordo che durante il nostro primo giro in Olanda eravamo in un furgone e cercavamo il posto in cui avremmo dovuto suonare (un centro giovanile sponsorizzato dal governo, sconosciuto negli Stati Uniti). Abbiamo chiesto informazioni ad una ragazza in bicicletta che ci ha detto di seguirla. Le siamo stati dietro per qualche chilometro, abbiamo seguito quella ragazza su una bici per qualche chilometro e siamo arrivati alla nostra destinazione grazie al suo aiuto. Questa prima percezione degli Olandesi e dell’Olanda è stata confermata nel corso degli anni. Naturalmente ci sono molte altre storie in altri paesi … ma un’altra volta? Un altro posto? Forse…

 

Che mi dici della nostra penisola, quella che mi sembra sia come una vostra seconda casa.
Mia madre era italiana. Il suo cognome era Fuga. L’architetto del XVIII secolo Ferdinando Fuga è un parente lontano. L’Italia è diventata una seconda casa, sì. Ogni volta che visito il vostro Paese non vorrei più andarmene. Qui si ncontrano nuovi amici, si impara la lingua e si conoscono sempre nuovi luoghi. La bellezza fisica dei paesaggi, la storia, l’arte… inebrianti.

 

Due sono le domande che volevo porti da tempo, questa occasione mi permette di farlo. Quale secondo te, tra tutti i lavori dei Tuxedomoon, é quello pensato e ideato con modalità contenuti ed intenti cari al vecchio continente.

 

La risposta ovvia a questa domanda è il poco conosciuto “Les Six” dal cd Joeboy in Messico.

 

La seconda ed anche ultima domanda della nostra chiaccherata: Luigi Tenco.

 

Un’estate dovevo fare la cover del disco di un cantautore italiano degli anni sessanta. Ho chiesto per i suggerimenti. Penso sia stata Velia Papa ex agente italiano dei Tuxedomoon e direttore del Festival di Teatro Polveriggi che mi ha fatto conoscere questo cantante. Alla fine dovevo scegliere tra Gino Paoli e lui. Mi piacevano entrambi ma ho scelto Tenco perché è il cattivo ragazzo dei due. Mi piaceva la tensione e la tematica delle sue canzoni… e naturalmente “suicide is sexy”.

 

Come in tutte le intervista canoniche il finale è destinato al tempo a venire, tuo e dei Tuxedo. Ce lo sveli?

 

Cinema Domingo Orchestra è un progetto che ha le sue radici nella Bruxelles dei primi anni novanta con il vecchio amico Alain Martel, una collaborazione continuata qui in Messico negli ultimi 15 anni. Siamo un gruppo di 4-6 musicisti che compongono e realizzano le colonne sonore per film muti poco conosciuti. Quello che è iniziato come intrattenimento fai da te con gli amici, è diventato un progetto professionale che ora coinvolge festival e teatri in tutto il paese. L’anno scorso siamo stati commissionati per la seconda volta dall’Istituto Goethe del Messico per mettere in musica gemme silenziose recentemente restaurate e poi suonare per le loro prime nazionali. Il 2 novembre di quest’anno, per il Giorno dei Morti, ci esibiremo con il film italiano Rapsodia Satanica di Nino Oxilia del 1917 che vedeva la diva Lyda Borelli come protagonista. Sorprendente simbolismo di mixaggio cinematografico e immagini preraffaelite con la storia di Faust in versione femminile, decorazioni art nouveau e sezioni dipinte a mano.

Ensamble Kafka è un quintetto inaugurato nel 2010 dopo aver messo in musica il film documentario El Informe Toledo del regista Albino Alvarez. È stato nominato per un premio accademico messicano. Julio Garcia è il fedele compositore e il mio partner in Kafka. Suona l’oud, la jarana, la chitarra. Gli altri strumenti sono Tuba, Trombone, Tromba e io con il sax e il clarinetto. La nostra è musica contemporanea messicana. Mentre giochiamo con i brani messicani tradizionali, il nostro obiettivo è quello di creare una nuova musica tradizionale. Abbiamo appena finito il nostro secondo cd. Lo pubblicheremo presto

Nel 2014 Blaine (Reininger) è venuto a Oaxaca per un mese e abbiamo composto e registrato Monte Alban. Pubblicato su Independent Recordings nel 2015, la musica è per pianoforte, violino, organo e sax.

L’estate scorsa, mentre eravamo a Bruxelles a fare le prove per il tour imminente, Peter Principle improvvisamente ci ha lasciato. Peter (Pierre) era la roccia dei Tuxedomoon. Ha creato il terreno su cui poter resistere, lui era il fulcro. Uno dei tre sul palco, quello che sosteneva tutto il lavoro.

Purtroppo ci ha abbandonati, rimaniamo Blaine, Luc (Van Lieshout) e io, continuiamo a lavorare insieme, come da quarant’anni a questa parte.

L’ultimo disco dei Tuxedomoon e l’ultimo registrato con Peter è Blue Velvet Revisited insieme al gruppo Cult With No Name. È una colonna sonora per un bellissimo documentario fatto oltre 30 anni or sono da Peter Brantz durante la realizzazione di Blue Velvet di David Lynch.

Senza nessun suono sincronizzato e con una bellissima fotografia questo film evoca la magia di Lynch in modo veramente originale.

 

Joeboy continua a viaggiare, Joeboy continua a suonare.

intervista pubblicata su Sud n°50

 

 

Storia

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Questa poesia nasce da un racconto molto personale sull’eccidio di Santomoro, avvenuto il 22 giugno 1944. I fatti sono riportati in varie pubblicazioni locali, ultima in ordine di tempo: C’era una volta un torrente che scorreva lungo un piccolo paese, nato su una strada che portava alla Badia… a cura di Laura Bassareo per il Centro Sociale di Santomoro, stampato in proprio nel 2017. Serrantona è la località dove si trova il cippo dedicato alle vittime. Un altro cippo, dedicato a tutti i caduti del paese nelle due guerre, si trova sotto la chiesa di Santomoro. “Non vi è nulla di nuovo sotto il sole” (Ecclesiaste, 1:9). La mia scelta di pubblicare qui questa poesia ha un valore di testimonianza, certo, ma è anche un atto di gratitudine, per tutto quanto questo piccolo paese in cui sono tornata a vivere mi continua a insegnare, anche in tempi cupi, come quelli che viviamo (ndf).

di Francesca Matteoni

Tra una donna di ottant’anni e una bambina
che ancora non va a scuola
passa una vita oppure un corpo
che diviene e si infittisce
ma anche l’altro che stranisce
nella fossa privata della storia
o nel cipresso chiuso
della Serrantona.

Non vi è nulla di nuovo sotto il sole
in un posto minuscolo si scuce
la rete del cielo, si scompare
si ripongono i resti sotto un fiore.

Vennero all’inizio dell’estate
ne presero cinque
per il soldato che si ferì da solo
e non lo voleva confessare.
Io non so come sia morire
per il calcio del fucile
la bocca sulla terra e scava
respira tutto

com’è forte ridere, esserci, tremare
non strappare più l’erba per gioco –
il prato a testa in giù dove si è liberi
per poco, sprofondati
tra gli animali minimi del suolo.

Uno era anche il tuo babbo e mi hai detto
che non sai più che viso avesse
una voce che viene e non si vede chi parla
una bambina che corre e non urla
sotto il cancello del cimitero.

Ci stanno cinque scale coi pioli
Ci stanno cinque morti senza chiodi
legati dai paesani con stupore
per non farli cadere sul selciato
legati con pietà o con dolore
legati con il sangue alle colline
come si lega il male alle memorie.

Non resistono giorni abbastanza
per tradire il passato
io non so come sia dopo aver ascoltato
perché poi bisogna crescere, andare
dimenticare

eppure sta questa nostra amicizia
tra il torrente gentile della Bure
e l’umano non trascorso
come un tempo presente, tutto intero.
Dove nasce un paese, dove finisce
dove vanno le cose che sappiamo
dove t’incontro, dove si accampa il vero?
Dove sono coloro che amiamo?
E io dov’ero?

Perché mente chi dice che non c’ero.
Si ricompone in sogno la bambina
quello che è fratturato si fa saldo
sentire che ogni giorno ricomincia
l’impresa disumana di tenere
le briglie troppo corte dell’amore
e più le tiro più ci fanno stretti
ci allacciano dispersi in un racconto
dove ora abbasso gli occhi per capire
costringo questo soffio di futuro –
dove eravamo tutti, ma tu eri una soltanto

anch’io provavo a vivere lì accanto.

Viola Amarelli – Il cadavere felice

1

di Viola Amarelli

(è uscito per i tipi di Sartoria Utopia “Il cadavere felice” di Viola Amarelli, di cui riportiamo alcuni estratti)

da narrazioni

– di cosa parlano?
– al dunque, niente
sorda sirena

I.
da qualche parte, in qualche tempo, qualcuno

II.
il conto, infinitesimale, del
macellaio

III.
ammutola per scanto, stanchezza
delle labbra, fatica delle sillabe

IV.
da qualche parte qualcuna scuote le anche
lì vuoto chaos
la nascita del mondo

V.
aironi, fenicotteri, libellule
ma le poiane pure hanno il loro ruolo
scarnificano, pulendo all’ossoessenza
quello che resta, quel che m’interessa.

VI.
dite qualcosa, io vi dirò altro

VII.
e molti, molti addii, alle prossime volte
da cronache

I.
aveva pensato di avere
una vita diversa, una vita migliore
fuori di gabbia, lui e i canarini

II.
cerca un buco, una tana
per barricarsi, darsi al formaggio
ma senza veleno per topi

III.
dalle stelle alle stalle
e nessuno che porti la biada

***
l’imbecillità dilagante
niuna nova
lo starsene da soli
la risposta
il silenzio lungo il bordo
il frattale, della costa
il colore sbiadito delle ossa

da dèmoni

vi vedo dietro il vetro,
non vi tocco, un lucido delirio
l’urlo muto, pesci:
chi è il morto
morto morto morto

fare il morto sull’acqua
vivo
passa il sale

sale le scale avvolge il suono
emette e squaglia
gioia
per poco

siate siate gioiosi
l’intento tenace

non s’ulcera più
lo sbrego, diruto
l’io spiritato,
arso, scomparso

il truciolo sbriciola
novo, un tarlo suicida per fame
la vittima in progress
(il prezzo, alto/basso)

Spett.li
Come già
Nel rimarcare
Non si ha modo
Riscontro
Saluti saluti saluti
Molto vi piango

per gli affollati dèmoni che siamo
amplifica: miriadi di voci

***

uno sciame di mediocrità
ronzanti sulla polpa – quel che resta –
sull’osso, ma
il cadavere – dicono – felice

da φαντασματα

VI.
la canna di bambù piegata
tel quel, identica
la curva e la postura,
l’indistinto fruscio della palude.

da cerchi
potresti scrivere una poesia semplice?

certo, una parola sola
affetto

e un dono: mangiare insieme pane e pomodoro

salto, lieve, di festa come la tua vita
nel balenio di coda, corsa che

danza

***
me ne
vado (a vanto) del

te ne avvantaggi, varco, antro,
quando, in due, troppi
il cappio e il ceppo
dei vari modi del saggio
costeggiando, morte dell’amoroso
vento
ostaggio

l’agio, il solitario

***
“ho perso, ho perso, ho perso”
ma non ricorda più cosa
da vincere ci fosse”

—————–
Venerdì 1 dicembre alle ore 18,30 il libro verrà presentato a Milano, all’Officina Coviello, via A. Tadino, 20 con la partecipazione di Viola Amarelli ed Enrico De Lea

Per Alessandro Leogrande

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Domenica 1 luglio 2012.
Siamo nell’ex convento dei Cappuccini di Mesagne. È il secondo e ultimo giorno della Terza festa di Nazione Indiana.
La cittadina che ci ospita porta ancora il lutto per Melissa Bassi, la studentessa uccisa il 19 maggio da una bomba fatta esplodere vicino all’ingresso della scuola a Brindisi, ferendo altre sei compagne scese dallo stesso autobus. A causa della presenza della SCO e al fatto che il bersaglio è un istituto dedicato a Francesca Morvillo Falcone, sulle prime si è pensato alla pista mafiosa. Invece quella strage è un atto di terrorismo individuale.
«Beninteso, “individuale” non è automaticamente sinonimo di “folle”. Potrebbe segnare invece l’irrompere di forme di terrorismo nichilistico-individuale nel nostro paese, un tipo di terrorismo nord-americano o nord-europeo. Si pensi ad esempio a Breivik, l’autore della strage di Utoya, o alla vicenda narrata nel bellissimo libro dello scrittore svedese Gellert Tamas, “L’uomo laser” (Iperborea): si racconta la biografia di un “uomo della porta accanto” che inizia a sparare con un fucile munito di mirino laser contro gli immigrati, colpendo una quindicina di vittime individuate a caso.» Alessandro Leogrande lo scrive a pochi giorni dall’attentato sul Corriere del Mezzogiorno.
Alessandro accetta dunque di passare un pomeriggio con noi “indiani” a Mesagne per ragionare insieme delle molte cose di cui si è occupato: le trasformazioni della Puglia, del Sud e dell’Italia, le mafie, l’inadeguatezza mediatica, la fame di un complesso realismo che impronta il lavoro di molti Narratori degli Anni Zero, inclusi nell’antologia curata da Andrea Cortellessa.
Nella sala c’è l’attenzione di un piccolo convegno, visto che non siamo in tanti. Colpa anche di una grave svista nel far cadere la “Festa di Nazione Indiana” proprio su quel fine settimana. C’è la finale degli Europei con l’Italia che, dopo aver sconfitto la favoritissima Germania, deve giocare contro la Spagna.
Alessandro Leogrande ama il calcio. Lo conosce benissimo, si muove con agio straordinario negli annali di campionati lontani nel tempo e nello spazio. Nel 2010 ha curato un’antologia per “Minimum Fax” intitolata Ogni maledetta domenica.
La domenica sera del 1° luglio 2012 la Nazionale perde 4 a O nello stadio olimpico di Kiev.
Noi a Mesagne siamo tutti nel cortile dell’ex-convento, con gli occhi fissi sul muro che ci serve da sfuocato, improvvisato maxi-schermo. Ci siamo organizzati con pizza e birra come un qualsiasi gruppo di amici o di parenti. È bello ricordarlo così, che s’infervora per un tiro sbagliato, ancora in mezzo a noi, Alessandro Leogrande.
 
Alessandro Leogrande su Nazione Indiana