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L’anima perduta dei Circoli Arci

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di Francesca Matteoni

Questo articolo è apparso lunedì 11 ottobre sul quotidiano online ReportPistoia, a cui si deve il titolo, che mi sembra appropriato. Lo rilancio su Nazione Indiana perché penso che possa essere utile a chiunque sia interessato al volontariato culturale, specialmente negli spazi Arci, sempre più in abbandono. Ho aggiunto link a eventi e blog locali per ulteriori informazioni – il link cui rimando per la Casa in Piazzetta è in realtà un archivio blog di un laboratorio tenutosi lì nel 2014 (fm).

Dopo i recenti fatti che hanno messo il Circolo delle Fornaci sotto riflettori di cui si farebbe volentieri a meno, ho pensato che era il momento di raccontare un’esperienza diversa in quel luogo di cui sono stata parte attiva. Ho pensato, soprattutto, che in un lungo periodo di crisi dell’Arci, che difetta riguardo l’offerta culturale e il dibattito politico, serve più che mai il racconto, perché i fatti non parlano da soli: anzi, se lasciate soli, cadono nell’oblio. No, non è ammissibile che Casa Pound provocatoriamente pretenda di fare raccolte di beneficenza in un luogo fondante della sinistra sociale. Non è nemmeno corretto etichettare tutta la beneficenza come buona: buono è ciò che aiuta l’emancipazione dalla povertà di ogni tipo – economica, spirituale, intellettuale; buona è la ricerca del benessere di tutti, aldilà di etnia, credo, classe, non ciò che crea dipendenza verso un gruppo ideologico che avversa concetti di uguaglianza, rimarca assurdi confini identitari e preferisce la paura alla conoscenza. Ma quando i luoghi restano vuoti e le formule non corrispondono alle pratiche reali, il minimo che può succedere è che altri subentrino, sostituendo i loro scopi ai valori che dovrebbero resistere oltre personalismi e lotte di potere. Sono cresciuta a un campo di distanza da dove sorge l’attuale circolo delle Fornaci. Allora c’era una pista irregolare di pattinaggio e una struttura messa su alla meglio per le iniziative estive del circolo, che si trovava in Via di Sant’Alessio. Una catapecchia in confronto all’edificio moderno che vediamo oggi, eppure quella catapecchia era piena di vita e si animava ancora di più durante la Festa dell’Unità, mentre le sale dell’attuale circolo fanno un po’ tristezza al confronto. Ho passato le estati dall’infanzia all’adolescenza in quella pista, a litigare, fare comunella, a rifugiarmi sotto la fornace per starmene in pace fra le sterpaglie e il casottino dei pattini di Tiberio, Artemio Balli, il  presidente della società di pattinaggio. Sono diventata più o meno adulta, ho lavorato e studiato all’estero, sono tornata. E al mio ritorno c’era il circolo fresco di inaugurazione.

Nell’autunno del 2013 ho iniziato a proporre iniziative, per poi entrare nel consiglio qualche mese dopo: era novembre ed eravamo reduci da una delle tragedie in mare che aveva colpito i profughi a Lampedusa. L’assessore alla sanità dell’isola aveva lanciato un appello per una raccolta fondi e pensai che potevamo raccoglierlo, con un concerto di solidarietà. C’era da una parte da rispondere a un’emergenza vera; dall’altra da fare musica – e se nei circoli non si fanno suonare i ragazzi, si contribuisce a togliere loro spazi, a rendere l’aria cattiva, a fermare quel meraviglioso senso di libertà e sovversione che vive nelle migliori esperienze musicali. Il punk rock è libertà, citando Kurt Cobain. I ragazzi devono poter suonare, anche stonando, andando fuori tempo, trovando il loro tempo. All’evento parteciparono vari gruppi – rap, punk, dream pop, rock. Tantissima gente. Iniziò la collaborazione con Lorenzo Fedi, il giovane fonico dell’Arci, che al circolo Garibaldi organizzava concerti, intercettando gruppi italiani ed europei e dando voce ai giovanissimi della provincia, molti dei quali frequentavano la sala prove della Casa in Piazzetta. Grazie all’aiuto di Lorenzo abbiamo dato vita a concerti, ospitando emergenti, gruppi di varia provenienza, perfino parigini, esperimenti giovanili, animando serate, pomeriggi e nel gennaio 2015 la Notte Rossa dell’Arci alle Fornaci.

Era bello ed era vero – esisteva un filo connettore con il Circolo Garibaldi e Casa in Piazzetta, memori che le Fornaci erano già la scena di un importante evento sociale legato alla musica: lo S’concerto di Quartiere, esperienza decennale di radicamento sul territorio e spazio per le espressioni giovanili. Poi, convinta che volere è potere, ho ideato alle Fornaci un festival di poesie, “Perché tale è la mia natura”, fratello minore del festival L’importanza di essere piccoli, promosso dall’Associazione Arci Sassiscritti di Porretta Terme, che da anni porta poeti e cantautori nei borghi dell’Appennino emiliano e che tra il 2014 e il 2017, durante la scorsa amministrazione, ha coinvolto anche il comune di Pistoia. Poeti di caratura nazionale, autofinanziamento, interazione con operatori e artisti locali. Quando dissi che volevo fare un festival di poesia alle Fornaci, qualcuno sgranò gli occhi, come se fossi pazza. Ma questo accade perché da una parte spesso la gente ignora che l’anima della poesia non è roba da salotto: sta nei margini, si nutre del contatto con il molteplice e il diverso; dall’altra ha un pregiudizio sciocco verso questo quartiere e dimentica che l’unico modo per cambiare le cose è osare avere una visione. Tantissimo lavoro e bellezza e, in negativo, molta solitudine nel fare. L’anno dopo il festival ha avuto la sua seconda edizione in due diversi momenti: uno primaverile gestito dai ragazzi di Piazzetta e aperto agli adolescenti con le loro poesie e la loro musica; e quello estivo, per cui grazie all’interessamento di Arci provinciale e la mediazione di alcuni del consiglio, arrivò anche un finanziamento per coprire le spese.

Illustrazione e grafica di Ginevra Ballati

Ad aggiungere impegno a maggio il circolo aveva ospitato la festa annuale di Nazione Indiana, realtà intellettuale della rete, il più antico dei blog letterari della cui redazione faccio parte, insieme a scrittori e poeti del nostro panorama. Incontri sull’educazione di genere, sull’Islam, sui libri di recente pubblicazione dal fumetto al reportage, al cinema e al video, coinvolgendo educatori e operatori del territorio come l’insegnante Pina Caporaso e Michele Galardini, direttore del festival Presente Italiano e attivo al circolo con un programma di cineforum. Ero tuttavia stanca e abbandonata a me stessa – non riuscivo più a reggere tutto da sola. Così dopo il festival me ne sono venuta via, salutando un’ultima buona iniziativa del Circolo – una festa Arcobaleno realizzata insieme ad Arcigay di Pistoia. Era il 2015 e io già mi stavo impegnando per il paese dove risiedo, Santomoro, collaborando con il Centro Sociale di cui ora sono la presidente. Venendo via ho portato con me alcune cose, adattandole e migliorandole: Zucche Vuote! i laboratori per bambini di Halloween, diventati qui una piccola tradizione; e la poesia, che si è trasformata in esperienza laboratoriale e itinerante nella Valle delle Buri, con il progetto Il Viaggio dell’Eroe. La musica è rimasta indietro, con mio grande rammarico: si agisce a seconda dello spazio in cui siamo, delle esigenze del territorio in cui ci muoviamo – cose che imparo quotidianamente in questo paese alle pendici dell’Appennino. Cosa mi resta? Amici, esperienza, il valore dell’impegno. E cosa vuol dire tutto questo? Prima di tutto che spesso c’è un modo errato di intendere il volontariato sociale. Questo significa seguire e attuare un immaginario vivo e sociale, non donare semplicemente un po’ del proprio tempo, ma far sì che ci sia posto per le idee, mettendosi in discussione perché sappiamo che il risultato sarà gratificante, che la gioia sta nel condividere. Secondo, che nei circoli non basta mettere vagamente a disposizione delle stanze. Bisogna accompagnare chi viene, servono figure di bravi mediatori, che creino legami con il mondo urbano, riconoscendo “chi ci è” da “chi ci fa”. Queste sono responsabilità precise che chiunque voglia attivarsi nell’Arci dovrebbe considerare: volontariato non significa fare alla meno, significa che c’è qualcosa che conta più dello stipendio nella nostra scala di valori e per cui, magari, lo stipendio è funzionale. Significa offrire luoghi per la diversità di espressione e comportarsi da buon ospite quando qualcuno arriva: farlo sentire a casa. Perché questo erano, talvolta ancora sono, i circoli: le case di tutti, la Casa del Popolo. Una casa dove la sinistra dovrebbe mostrare la sua faccia migliore e comunitaria. Le case se non si curano crollano. Le porte non vanno soltanto aperte – bisogna uscire a cercare l’altro, sempre, come scriveva il poeta Hölderlin, e infine invitarlo, lasciarlo entrare.

Il perturbante

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[Di seguito, un estratto del romanzo “Il perturbante”, Autori riuniti 2017, finalista e menzione speciale al Premio Calvino 2016]

di Giuseppe Imbrogno

Da due giorni si sono abbassate le temperature. L’inverno è arrivato, ha messo fine a un lungo autunno, tra un mese scarso sarà già primavera. È ancora tempo di saldi, ogni volta durano qualche giorno di più. Detesto la primavera, detesto l’estate. Tra un numero sufficiente di anni potrò finalmente vivere una lunga, unica stagione autunnale di saldi perenni.

È giovedì sera, sono in Corso Buenos Aires, non ho niente da fare, niente da comprare. Cammino lentamente, guardo le vetrine, guardo le persone, camminano sul marciapiede, attraversano la strada, entrano ed escono dai bar, dagli store d’abbigliamento. C’è molta gente sul marciapiede, bisogna stare attenti per non urtare qualcuno, esserne urtati, i negozi sono semivuoti. Due orientali mangiano anelli di calamaro fritti seduti al tavolo esterno di un bar, esposte all’ingresso ci sono le fotografie retroilluminate di alcune pietanze. Pizza capricciosa, lasagne, cotoletta alla milanese, rucola e pomodorini.

Arrivederci casa, addio.

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di Filippo De Matteis

Il fumo dei crolli iniziò a salirci negli occhi mentre prendevamo l’ultima curva, che avrebbe sepolto per sempre negli specchietti il profilo delle case e decapitato i grandi pini dentro una nuvola. Mi chiedesti di guidare più veloce, per non svenire.
Partivamo troppo presto, in quella vita. Sempre quando c’era ancora luce, così che le cose non si nascondessero attorno a noi. Volevamo che rimanessero e che la notte fosse solo l’epoca del viaggio e mai della partenza.
Neanche allora ci riuscì di programmare il nostro addio al buio. Di quello che ci avrebbe ferito, ci toccò ferirci.

Come il primo giorno del mondo. Un ritratto di Franco Ferrara

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Casa di Franco Ferrara e di sua moglie Raffaella, Settembre 2017
Casa di Franco Ferrara e di sua moglie Raffaella, Settembre 2017

 

di Giorgiomaria Cornelio

 

Sebbene ogni presenza oscilli nel vento breve di una foglia
E ogni parola disperda la propria luce
Nel letto deserto di un’assenza
E nel gelo di chi ha donato a tal punto
Da credere di non aver mai donato
Franco Ferrara, Questo intendevo dire

Incominciare, perciò, nell’osservanza della parola, facendo l’inventario delle carte in esilio. Insistere a far nascere la ferita del senso. Accertare, in anticipo, l’equivoco, l’inadeguatezza di ogni resoconto, e il filo d’oro del legare insieme i postumi del transito: “questa mia mano, che è della stessa terra della memoria*”. Franco Ferrara (16 marzo 1935 – 23 gennaio 2014) è stato poeta di versi “senza mendicherie di plauso o pitoccando governi, potentati, costanzesche adunanze d’osti, mimi, parolai, orchesse leste al calappio di con buche genitali, o lisciando elisiri di letterari menestrelli o cori di castrati”, e tanto basta a riparare la debile definizione di poesia come pura regione di circostanze: semmai l’enigma all’opera, il fuoco sopra ogni segno.

In una lettera all’editore a proposito della seconda edizione dello PseudoBaudelaire, Corrado Costa scrisse che per “il poeta non c’è nessuna biografia – a tutela della sua immagine.” Per Ferrara parliamo allora d’immemoriale, come se la definizione continuasse a ritrarsi, ad opporsi al certificato d’esistenza che lo volle, allo stesso tempo, docente, critico letterario, esploratore, fondatore di riviste letterarie ed autore televisivo. Prendendo poi a sbrecciare un poco la compagine dei resti, i “cinque continenti strappati al midollo dell’anima”, i quasi 40.000 volumi appigliati ovunque nella sua casa così irrecintata (avendo allora concentrato il nubifragio in unico auto-de-fé: esoterismo, alchimia, letteratura, religioni orientali…), il greto del testo reclama lo studio combinatorio, la vigilanza, il volgersi e il rivolgersi nell’altrove del viaggio e del deserto: non solo quello dell’Africa Sahariana, dove pure Franco Ferrara è stato nel corso delle sue spedizioni seguendo le piste carovaniere utilizzate dai Romani, ma anche quello scavato e innervato nel corpo delle adunanze, delle reminiscenze fossili, del silenzio che trattiene “l’alba di due eternità”, e custodisce il canto d’amore d’un violino (Imzad, Edizioni Ripostes, poemetto legato alla lingua parlata dai Tuareg dell’Haggar e Premio Gozzano nel 1989).

Ferrara fa del deserto la capitale della moltiplicazione dei due tempi, e del tempo una stagione del sangue: poesia è “allevare l’uragano sulla fronte della siccità”. Qui l’accadimento e la storia sono cause pendenti, e la destinazione del detto è la carie. Sicché da un capo all’altro dello scisma si edifica la galassia nel corpo dell’altro, e l’amore diventa minuta ricreazione del mondo: “Vorrei bruciare incensi di comete per la tua anima (…) e rapire la prima parola di Dio per fartene un nido” (Lettere a Natasha, edizioni Ripostes, 1986, lungo poema in forma di corrispondenza iniziata altrove, come originato senza origine). Qui, infine, la poesia fa luce prima dell’alba, e bisognerebbe ascoltare senza piegare le parole soltanto al sigillo dell’oracolo, ma riconoscere un’altezza che è precedente ad ogni altezza, cioè una formula per rifare il mondo (diciamo, noi ultimogeniti: per uscire dal “postmoderno”):

Mentre anche la natura si ripete, essendo ogni nuova primavera la stessa eterna
primavera (cioè la ripetizione della creazione), la « purezza » dell’uomo arcaico, dopo
l’abolizione periodica del tempo e il ricupero delle sue virtualità intatte, gli permette, alla
soglia di ogni « vita nuova », un’esistenza continua nell’eternità e quindi l’abolizione
definitiva, hic et nunc, del tempo profano. Le « possibilità » intatte della natura a ogni
primavera e le « possibilità » dell’uomo arcaico all’inizio di ogni nuovo anno non sono
quindi omologabili. La natura ritrova soltanto se stessa, mentre l’uomo arcaico ritrova la
possibilità di trascendere definitivamente il tempo e di vivere nell’eternità. Nella misura
in cui fallisce nel farlo, nella misura in-cui egli « pecca », cioè cade nell’esistenza «
storica », nel tempo, sciupa ogni anno questa possibilità. Però conserva la libertà di
abolire queste colpe, di cancellare il ricordo della sua « caduta nella storia » e di
tentare nuovamente una definitiva uscita dal tempo.
(Mircea Eliade, Il mito dell’eterno ritorno)

La prima pubblicazione di Ferrara, I pascoli della nostra mano, viene fatta risalire al 1960, e a questa fecero seguito, tra gli altri volumi, la “Storia della sorgente del tronco bianco”, traduzione da Tymoteusz Karpowicz come rivolgimento, divagazione, rinvio del senso ed invito a pensare il “testo” come estremità mutevole, da cui sempre si passa, e “Nella polvere d’oro d’una antica stanchezza: manomissioni e licenze” sempre su testi di Timoteusz Karpowicz e di Ursula Koziol.
A metà degli anni 90 Ferrara aveva iniziato a comporre un romanzo rimasto incompiuto, sua “dilettosa narranza”, dal titolo Ritorno all’Indie meridiane

ovvero
sulle vicende realissime e postreme
di Aliotto da Guienna
Lupo Goliante, Ghiandino Colapicco, Livriero di Vega
e Albarello Cometa
che le su dette
narrò.

Sempre continuando ad impietrire la parola, a farne una cera, un nido paretimologico che trattiene la densità dell’andare, cercando così non il governo di un’origine certa, ma lo spazio, la terra eletta del tappeto dove “le figure rovesciate si ricomporranno nel tessuto splendente, nell’atlante perfetto dei significati” (Cristina Campo), Ferrara ha rivolto la sua poesia oltre il letargo delle categorie interiori e del tempo presente: perché “mitologia è ontologia”, mattino di un altro giorno, conferenza sulla caligine, viaggio che non ha fine, canto:

“(…) E aver raccolto il deserto nel cavo della gola
Aver nutrito col sangue l’indifferenza delle pietre
Aver assunto la leggerezza della nebbia
Per confondere ciò che l’assenza ha lasciato
nei miei occhi
Aver piegato parole come ginocchia
Per colmare lo scarto esiguo tra due onde
Aver fissato parole di una solitudine nuda
Come un cuscino sgualcito dall’assenza
Aver scavato parole per alimentare le vene
e disciolto ogni vena per ricomporla in parola
e da labbra umane essere dissolto in suono.
Questo intendevo dire.”

 

 

*Tutte le citazioni sono versi di Franco Ferrara, laddove non indicato altrimenti

 

 

 

OT GALLERY (una retrospettiva # 1)

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a cura di Giulio Marzaioli

 

La OTgallery, sebbene non scavata nella roccia, è a tutti gli effetti una galleria. Inaugurata il 30 settembre 2014, la galleria, ideata e diretta da Giulio Marzaioli, è stata realizzata sul web (otgallery.org, attualmente off-line) con la collaborazione tecnica di Elisa Davoglio. Ospita una collezione permanente di 11 installazioni, a cura di Giulio Marzaioli, e 17 mostre temporanee curate (in ordine di allestimento) da: Massimiliano Manganelli, Andrea Raos, Alessandro Broggi, Alessandro De Francesco, Mariangela Guatteri, Damiano Abeni, Brunella Antomarini, Alessandra Greco, Andrea Inglese, Luigi Socci, Vincenzo Ostuni, Simona Menicocci, Maria Grazia Calandrone, Riccardo De Gennaro, Renata Morresi, Gian Maria Annovi, Giorgia Romagnoli. A tre anni dall’inaugurazione presentiamo una retrospettiva in 2 tappe (con cadenza settimanale) che ripercorrerà, a partire dall’allestimento della collezione permanente, il tracciato proposto, nell’auspicio di una nuova riapertura della galleria al grande pubblico.

La vergine Maria

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Di seguito, un racconto sul sesso, le aspettative e le prime volte.
Dal tuo terrazzo si vede casa mia” di Elvis Malaj, edito da Racconti Edizioni.

di Elvis Malaj

Maria aveva trascorso l’intera mattinata chiusa in camera, e dopo una lunga ricerca su internet aveva scoperto di essere ancora vergine.
L’una era passata da un pezzo quando girò la chiave per aprire la porta; chiamò subito Giuseppe, il suo ragazzo. Il giorno prima avevano litigato. A Giuseppe, Maria piaceva molto. Le mandava un sacco di messaggini sul cellulare, a volte qualche poesia. Quella mattina le aveva scritto solo: «Ciao, che fai? :)» – e solo perché se non le avesse scritto, la cosa sarebbe sembrata grave. Lei però non aveva risposto.
«Ti ho pensato tutto il giorno» fu una delle prime cose che le disse Giuseppe al telefono.
Maria prese il telefono e tornò in camera sua, non voleva che gli altri l’ascoltassero.

Come Rajoy mi fece diventare indipendentista

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di Mónica Flores

“Io non ho voglia di andare d’accordo,
ho voglia di andare, d’accordo?”
Caparezza

Questo mio testo nasce da una poesia scritta ieri con la rabbia provocata da una realtà assurdamente surreale. Ieri, nel bel mezzo della notte, mentre i miei pensieri erano oscuri quanto la selva di Dante, sputavo sulla carta del mio quaderno parole che nel futuro saranno ricordo.

Catalunya

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di Antonio Sparzani

(Nell’agosto 2009 pubblicai qui quattro post del genere diaristico sulla mia recente vacanza in Catalogna, terra che molto amo e nella quale mantengo vere amicizie. Dati i recenti avvenimenti, ripubblico qui, come testimonianza di amore e di dolore, un piccole collage del terzo e del quarto di quei post.)

Se esci dalla stessa porta [stavo parlando della cattedrale di Santa Maria del Mar] e guardi quello che prima non avevi visto tanta era l’ansia di entrare a vedere quella meraviglia che già lo sapevo che era tale l’avevo vista tante volte ma così sempre desidero fare nei posti rivedere le cose già viste che sono sempre diverse dal ricordo che ne conservo e hanno sempre cose nuove da dire e da mostrare ad esempio quel dettaglio lì del portale mai l’avevo notato se appunto esci ti trovi in una piazza che ha il nome di Fossar de les moreres come dire il fossato ma come ora saprete anche la fossa dei gelsi

Come della rosa

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di Teresa Fiore

Tiziana Rinaldi Castro Come della rosa Effigie edizioni, 2017, euro 19

La letteratura incentrata sull’esperienza degli Italiani all’estero ha una lunga, e spesso poco nota, storia, e al suo interno quella degli Italiani negli USA, e in particolare a New York, ricopre un ruolo importante, abbracciando storie antiche e nuove di partenza dall’Italia e di ricerca di uno spazio di vita in un altrove. Come della rosa di Tiziana Rinaldi Castro (Effigie, 2017) s’inserisce in questa variegata galassia letteraria in maniera del tutto originale. Scardinando la convenzionale storia della tensione tra “casa” e “nuovo mondo” propone un romanzo di case multiple e mondi sincretici che si sviluppano intorno a un’identità aggregativa, fatta di incontri, esplorazioni e di ricerca interiore. Bruna di Michele, soprannominata Lupo, lascia il Sud d’Italia per la Grande Mela negli anni Ottanta: il suo percorso di fotografa freelance e donna in lotta contro la dipendenza dall’alcol s’intreccia a quello del cubano Emiliano Westwood, narcotrafficante e fornitore d’armi alla guerriglia salvadoregna, mentre le loro vite s’intrecciano ai riti del culto yoruba guidati da Mama Adebambo, sacerdotessa del tempio di Harlem. Il loro itinerario, fatto di pena e guarigione, così come di rivelazioni e segreti, è anche un viaggio fisico, non solo attraverso le strade crude del sud del Bronx o della Brooklyn di quell’epoca, ma anche negli spazi sterminati del sudovest degli Stati Uniti e persino del Messico. Ma Come della rosa è soprattutto un viaggio attraverso miti, letteratura, arte e musica che si fanno lingua, per scoprirsi e capirsi attraverso le citazioni e la costante affabulazione.

 

Più che un romanzo fluviale, come è stato definito da Pier Luigi Razzano nelle pagine di Repubblica, l’ultimo libro di Tiziana Rinaldi Castro è un rizoma, direi. Il fiume parte da un punto e procede allontanandosene, mentre il rizoma è l’estensione sotterranea del fusto di una pianta che si sviluppa soprattutto in orizzontale, in molteplici direzioni, e gemina nuove piante. Questo concetto di natura botanica è ben in sintonia con un libro che vuole essere un roseto, come suggerisce la similitudine del titolo, nella sua inconsueta sintassi: la rosa – simbolo d’amore, amicizia, morte, terapia, iniziazione – qui regala tanto profumo quante spine. Ma ritorniamo all’altro concetto di natura botanica, il rizoma: per riprendere il significato attribuitogli da Deleuze e Guattari, che a loro volta lo riprendevano da Jung, il rizoma rappresenta un continuo flusso di energia creativa, anche se sotterranea e a volte non visibile, che non segue leggi gerarchiche né paradigmi antitetici, ma si muove, prospera e crea in senso plurimo. Il concetto di rizoma è per definizione legato alla creolizzazione, e mi è venuto in mente leggendo il romanzo di Tiziana Rinaldi Castro che, creola lei, non poteva che scrivere un romanzo creolo e rizomatico, appunto, tessendolo attraverso una scrittura addensante, cagliata, per usare un termine sciasciano. Le valli del Cilento che si associano alle strade della metropoli newyorkese, le frasi in dialetto campano di nonna Angiolina a cui fanno eco le battute in spagnolo cubano di Emiliano, le pozioni terapeutiche yoruba che convivono con il ricordo delle tradizioni cattolico-pagane del Meridione italiano. E poi gli infiniti richiami artistici e mitici senza confini che si fondono tra loro: da Edgar Allan Poe ad Antonio Machado e José Martí, passando per Parsifal e Dioniso fino a Miles Davis, dalle poesie di Garcia Lorca … a  quelle della nonna in Italia, mentre le massime di Mama, che chiede a Bruna ed Emiliano di raccontare e di raccontarsi per guarire, sono come le congas della narrazione, ne scandiscono il ritmo profondo.

 

In tanti cercano i parallelismi tra le storie del romanzo e la storia dell’autrice, che, originaria di Sala Consilina (Salerno), si è trasferita a New York nel 1984, e qui è diventata sacerdotessa yoruba nella comunità Lucumì. Ma è proprio nella trasposizione di un’esperienza in materia narrativa intrisa di letteratura e narrazione che va ricercato il senso di Come della rosa. Nella implicita biblioteca borgesianamente babelica del libro hanno uno spazio speciale i testi della tradizione americana, così cari alla scrittrice, e per certi versi motore del suo viaggio oltreoceano, frutto di letture giovanili rinvigorite da esperienze di vita negli USA, sia negli spazi urbani che in quelli aperti della natura, e dall’amore per il jazz. E seppur resti praticamente assente la tradizione letteraria italiana in questo romanzo scritto in italiano all’estero e pubblicato in Italia, il libro affronta e in maniera non convenzionale l’emigrazione, che per quanto scelta, pone sempre quesiti sul senso di appartenenza. Quando Emiliano incita Bruna a diventare sacerdotessa yoruba, lei rivela la sua esitazione: “forse dimentichi che appartengo a un’altra cultura.” E in un momento ancora più indicativo, Bruna, arrivata dall’Italia da pochi anni, si identifica con gli italoamericani – fenomeno raramente riscontrabile – quando Jean Michel Basquiat (sì, proprio lui) fa ridere a crepapelle Emiliano imitando Don Vito Genovese, e lei confessa: “Io li guardavo un po’ scucita, incerta se ridere con loro…. perplessa nel vedere la mia gente insultata.” Ma la titubanza rispetto al senso di distanza da una cultura non è affatto ricerca di purismo nella vicenda raccontata da Tiziana Rinaldi Castro; è semmai cauto e riverente avvicinamento nella propensione ad accogliere, ad aggregare appunto, perché il vero ritorno per chi parte è in effetti impossibile.

 

Ma proprio in questa sua ricerca esistenziale, Come della rosa, forse inconsapevolmente, s’inserisce nel corpus della letteratura degli italiani d’America – come il poeta di inizio secolo Emanuele Carnevali, “vagabondo  seminatore di parole da un buco della tasca”, per citare un suo famoso verso  – e anche nella ricca tradizione degli scrittori italoamericani come Kym Ragusa, autrice di The Skin Between Us: A Memoir of Race, Beauty and Belonging, incentrato sulla ricerca del passato siciliano per capire il presente di italoafroamericana, partendo dal rapporto con e tra le nonne, figure chiave anche nel romanzo di Tiziana Rinaldi Castro, che con scrittori come Ragusa s’incontra e pubblica saggi. Schivando con sensibile intelligenza il rischio della ricerca, talvolta improduttiva, dell’identità enico-culturale nel rapporto lineare tra terra di partenza e terra di approdo, l’autrice di Come della rosa predilige gli altrove che si incontrano e ci fanno loro tanto quanto noi li rendiamo nostri. Come la New York, creola e molteplice anche lei, vero teatro del tortuoso cammino spirituale dei protagonisti. Un luogo che Bruna “cammina” à la de Certeau, scardinando le norme di controllo del sistema. Sono tra le pagine più liriche del romanzo quelle sulle passeggiate per New York, al tempo stesso esplorazione di luoghi da documentare con la fotografia, scoperta di sé, medicina contro la dipendenza. E assumono un valore ancora più pregnante in questa fase storica di frenetico boom edilizio, il più intenso e aggressivo nella storia di una città che distrugge e crea costantemente, giorno e notte, perché non dorme. Come dice con sguardo perspicace la voce narrante del romanzo di Tiziana Rinaldi Castro: “È una prerogativa di questa città vedersi demolire dinanzi agli occhi il fondale di stagioni della vita: ospedali, chiese, scuole, cosa che altrove accadrebbe soltanto in ragione di una guerra o una calamità naturale e che qui fa dire già al ventenne: ‘Ai miei tempi lì c’era…’” E in questo senso, Come della rosa, è un documento e un omaggio a una New York di cui avere nostalgia, ma che la città stessa non dà il tempo di rimpiangere, se non attraverso la letteratura (e il cinema, e l’arte in generale). Tra i tanti “cammini” di una città che Bruna definisce “generosa”, ma con la quale in tanti hanno un rapporto di odio e amore per questa “cosa viva”, ci sono i passaggi sui ponti, luoghi simboli del collegamento. Bruna li scala, malgrado i divieti, anche di notte, per sentirli vibrare, per vibrare dentro, per da lì cogliere nuovi punti di vista sulla città con la sua macchina fotografica. È in questi ponti che si ritrova il senso del viaggio e della ricerca, intellettuale, emotiva, spirituale – umana – raccontato da Come della rosa, un ponte che per essere costruito distrugge qualcosa, che crea nel presente il futuro, legando il passato che già esiste, e che invita a cercare delicati equilibri tra terraferma, isole, correnti marine e venti. Come della vita.

4321 e il grado zero di Paul Auster

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di Francesca Fiorletta

Scrivendo di sé nei sei mesi che aveva impiegato per terminare il suo breve libro di centocinquantasette pagine Ferguson si era ritrovato dentro un nuovo rapporto con se stesso. Sentiva un legame più intimo con i suoi sentimenti e allo stesso tempo si sentiva più lontano, quasi distaccato, indifferente, come se durante la stesura del libro fosse diventato paradossalmente una persona più calda e più fredda, più calda perché si era aperto e aveva mostrato le sue viscere al mondo, più fredda perché poteva guardare quelle viscere come se appartenessero a un altro, un estraneo, uno senza nome, e non sapeva dire se quella nuova relazione col suo io di scrittore fosse positiva o negativa, migliore o peggiore. Sapeva solo che il libro lo aveva sfinito, e non era sicuro che gli sarebbe tornato il coraggio di parlare di sé. 

Non proprio centocinquantasette, in realtà, ma per l’esattezza novecentotrentanove sono le pagine che compongono “4321″, il romanzo-mondo, il romanzo-vita di Paul Auster, recentemente edito da Einaudi, nella traduzione di Cristiana Mennella. 

Il cuore è un cane senza nome

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di Giuseppe Zucco

Una volta, lei, entrando in bagno, l’aveva trovato dentro. Non aveva bussato, né si era sincerata in altro modo se ci fosse qualcuno. Ma adesso lui era davanti a lei, seduto sulla tazza, i jeans e le mutande alle ginocchia. Non che ci fosse niente di male o che non fosse capitato altre volte. I due erano parecchio intimi, avevano passato ore a perlustrare l’uno i pori dell’altra, i difetti fisici e le irregolarità corporali non erano più tabù, in alcune occasioni potevano toccare quegli argomenti senza provocare ferite o ritorsioni. Eppure, trovarsi così, sotto lo sguardo di lei, mentre era concentrato sui propri intestini – il viso contratto e gli occhi persi sulle mattonelle – lo aveva messo pazzescamente a disagio, come se lei fosse entrata in una sfera di verità assoluta, la sfera in cui lui si conservava vero ma per se stesso, dove lei non avrebbe mai dovuto mettere piede.

Lui, il cane, all’inizio, mentre microscopiche goccioline cadute dagli abissi del cielo si appendevano ai suoi baffi, non sapeva cosa c’entrasse quel ricordo con quel momento. Successivamente, sentendo il freddo umido del bosco, e la paura dell’oscurità del bosco, e quella angoscia sottile che andava comprimendo i suoi punti vitali, ebbe ragione di se stesso, e arrivò a capire che avrebbe potuto sopportare anche quel senso di soffocamento, ma non che lei lo guardasse e lo scoprisse così fragile, spaurito e senza risorse. Era un bene che, perlomeno adesso, lei non fosse lì.

Facendo qualche passo indietro, il cane mise una zampa su quel punto, e da lì, di colpo, si sprigionò nell’aria il volo di quegli esserini, il cui corpo consisteva più che altro nel frullio di sottilissime ali nere.

Il cane, senza pensarci, gli corse dietro. Si issò sulle zampe posteriori e sbatté le altre due per aria. Saltò da un verso all’altro, a bocca aperta, cercando di chiudere tra i denti il palpito misterioso di quella vita che da qui, tra l’erba, sembrava rispondere solo a poche ed elementari istruzioni.

A più riprese, il cane, abbaiando, aiutandosi con la coda, tentò di disperdere lo stormo in invisibili e isolati ronzii. Ma per quanto ne distraesse il volo, lo stormo poi si ricompattava, si affusolava, si arrotondava, scopriva nuove e inesplorate forme con cui dare senso alla comunità, come se ogni esserino trovasse la fondatezza della propria esistenza al cospetto dell’isterico battito d’ali di tutti gli altri.

Senza perdersi d’animo, puntando a quello, rovinare la piccola e mobile armonia di cui era testimone – del resto, da bambino, era stato il terrore dei formicai e l’incubo delle lucertole avviticchiate ai mattoni sotto il sole – il cane continuò a inseguire e insidiare lo stormo, appostandosi dietro gli alberi e saltando fuori di colpo, al punto che, l’ultima volta, al cane, tra i denti, era rimasto quell’esserino in volo, e lui lo sentì sbattere furiosamente contro il palato, la lingua, l’interno delle guance, anche se fu più lo sgomento che la pietà a spingere il cane ad aprire la bocca e lasciarlo andare.

Si era perso. O, almeno, non sapeva dov’era. Così, lui, il cane, sgranando gli occhi, prese a girare su se stesso. E abbaiò. E guardò intorno se avesse lasciato orme così evidenti da essere usate come filo conduttore verso la radura. Ma l’erba, impassibile, una volta schiacciata, era tornata su.

A un tratto, il cane pensò di inseguire ancora lo stormo – magari, a furia di girare, lo avrebbe riportato di nuovo nello stesso punto. Ma anche lo stormo era sparito.

Il cane ricacciò un guaito dentro, non tutto era perduto – scoprì quell’albero, con il tronco inclinato, e saltando, arrampicandosi al tronco con le unghie, lo avrebbe scalato, riuscendo a scorgere poi da lassù, tra le fronde, dove si trovasse. Il peso non giocò a suo favore, e precipitò di schianto, lasciando solchi disperati sulla stessa tenera corteccia in cui, di solito, risaltava il profilo scheggiato di un cuoricino inciso da ragazzi in gita posseduti dal ribollire degli ormoni e da un’idea di eternità già svaporata sull’autobus di ritorno con quel bottino tra le mani – piccoli rospi rinchiusi nei barattoli di vetro.

Allora, lui, il cane, affidandosi al caso, prese a correre. A correre veloce mentre l’oscurità si allargava e le goccioline bucavano a intervalli l’aria.

Il cane prese la prima striscia d’erba rada, e la seguì. Incontrò degli alberi sulla sua direzione, lì aggirò. Sentì degli schianti tra le macchie scure, non diede tempo al proprio sangue di gelare. Filando in apnea, sacrificò allo spirito del bosco i ciuffi della coda rimasti impigliati in un intrico di rovi. E dove l’erba svettava in guglie più alte e più fitte, celando con la sua massa chissà quali trappole e disastri, il cane chinava il capo e la fendeva con audacia. Ma anche così, il cane non sanò la distanza che intercorreva tra il suo respiro rotto in piccole parti e la radura selvatica, sì, ma ricca di quel tesoro, i croccantini.

Forse le creature del bosco avevano già approfittato dei croccantini, pensò il cane, stipandoli nel cavo degli alberi, sotterrandoli come monete d’argento. Oppure, pensò, il bosco stesso, ripiegandosi fronda su fronda, aveva sepolto la radura, in modo che lui non potesse trovarla.

Non potendo di meglio, il cane, nel suo cuore di cane, maledisse il padre. E dichiarandosi per quello che era diventato, ululò a più riprese.

Quel verso gli si seccò in gola. Cosa ci poteva essere di più destabilizzante del dolore? Il cane non ne aveva esperienza, e già le sue narici erano attraversate da un odore fetido e dolce insieme. L’odore dell’inesauribile fermentare di cose vive e cose morte nell’oscurità del bosco.

Le sue orecchie si drizzarono, la coda puntò al cielo cupo. Sentì uno scricchiolio, poi un altro, lo strisciare di qualcosa, e si voltò di scatto – ma le chiome degli alberi erano ferme, i rami e i boccioli erano fermi. E per essere sicuro che quei rumori fossero reali, il cane lasciò che l’aria nauseante gli riempisse i polmoni e poi trattenne il respiro.

Anche così, in quel silenzio, un silenzio più carico e profondo, non trovò risposte – i suoi timpani riverberavano solo il battito accelerato del suo cuore. E in quel modo, il cane ebbe solo certezza che lui, nonostante tutto, esisteva, e che un terrore indicibile gli aveva scavato quella nicchia dentro. Era proprio quanto lei gli aveva lasciato in dote andando via. La memoria involontaria e uno spavento costante. L’idea di essere inadeguato alle situazioni. La sensazione minacciosa che tutti gli elementi cospirassero segretamente contro di lui.

Per questo non trasalì più di tanto quando tutto cominciò a ondeggiare. Di colpo, a grandi folate, il vento gonfiò le ombre, e gli alberi cigolarono con stridore.

Il cane sentì i peli più minuti prendere il verso del vento, e scoprì delle forme nerastre staccarsi dai rami in volo.

Gli lacrimavano gli occhi, e piegando la testa tentò di assestare i passi nel vortice dell’aria. Se per lui, grande e grosso, era così, chissà cosa ne sarebbe stato dei ragni e delle falene. Tutto si disperdeva senza rimedio. E il cane non fece in tempo a considerarsi parte di una popolazione più vasta e con un identico destino, che il vento, soffiando forte, gli infilò l’orecchio destro, procurandogli dolore.

Glielo disse anche lei, quella volta, uscendo dal ristorante, dopo che tutti erano andati via. Non doveva permettersi di soffiarle nell’orecchio. Le dava fastidio. Le faceva male. La metteva in imbarazzo. Soprattutto con gli amici davanti. Lui, tenendo il suo passo, disse che l’aveva fatto solo una volta, era uno scherzo. No, che non era uno scherzo, disse lei. Ah, no?, disse lui. Per niente, disse lei. E cosa sarebbe?, disse lui. Lei aprì la borsa cercando le sigarette. Ma non ti viene in mente?, disse. Lui la guardò rovistare nella borsa. Era impossibile che le trovasse. Almeno mentre camminava a quella velocità. No, non mi viene, disse. Che mi vuoi scopare, disse lei. Che cosa?, disse lui. Che mi vuoi scopare davanti a tutti, disse lei. Cosa?, disse lui. Le sigarette non saltavano fuori e la luce dei lampioni faceva il punto sul tetto delle macchine parcheggiate. Che ti annoi o che ti è venuta voglia e vorresti farmi, disse lei. Tu  non stai bene, disse lui. E tutto questo mentre ci sono altre persone. Persone che ci conoscono. I nostri amici. Ma proprio non ti viene?, disse lei. Aveva il viso contratto, dalla borsa non cavava niente, era sul punto di lanciarla tra le macchine. Lui, allungando il passo, fece per prenderla da un braccio. Lasciami, disse lei. Fermati un attimo, disse lui. Lasciami perdere, disse. Camminarono ancora, anche se avevano superato la loro macchina da un pezzo. Le loro ombre rigavano le serrande dei negozi chiusi. Ma dove stiamo andando?, disse lui. Non sei obbligato a seguirmi, disse lei. Ma che ti ho fatto?, disse lui. Mai stata così in imbarazzo, disse lei. Soffiarmi in un orecchio. Credevi fossimo soli? Che ti dice la testa?, disse lei. Che ti dice? Portare la nostra camera da letto in mezzo al ristorante. Ti rendi conto, o no?, disse.

Tutto era più scuro, le goccioline ripresero a cadere, anche se a causa del vento il cane sentiva gelare punti impensabili del suo corpo. Era come se minuscole dita gli toccassero il ventre.

La massa nera di un albero si piegò orribilmente sotto il vento. Gli arbusti solcavano l’aria fracassandosi sui tronchi. Le foglie gli filarono in bocca, gli tapparono le narici, e lui, il cane, scrollando a più riprese il capo e il dorso, avanzava completamente disorientato.

Non pensava più a niente, tanto era concentrato sul punto in cui posare le zampe, ma anche così, crollando improvvisamente, finì in una buca. Il cane guaì per lo spavento. Non aveva un graffio, era tutto bagnato, e strisciando fino a uscire dalla buca si portò dietro i guaiti che non ne volevano sapere di richiudersi dentro. Aveva l’erba addosso, qualcosa in un orecchio, e il cane si dimenò con forza, cercando di liberarsi anche dal peso dell’acqua, ma continuò a essere percorso da quei brividi.

Il cane abbaiò, il vento non si lasciò intimidire, né perse intensità davanti ai suoi denti sguainati. E si fiondò ventre a terra tra gli arbusti. Ma la notte e il cielo erano un enorme sibilo, e il cane, sentendo il vento caricare gli arbusti, ricordò la volta in cui lei gli aveva mandato quel messaggio vocale sul cellulare. Il messaggio era muto. Si sentiva l’aria, i fruscii. Quando la chiamò per capire cosa gli avesse mandato, lei disse che era una prova. Si sente il tuo respiro, disse lui. Veramente?, disse lei. Giuro, disse lui. Allora cancellalo, disse lei. Se poi ci lasciamo, ti resta l’unica cosa di me che non dovresti avere – anche se lui lo salvò comunque nella memoria del cellulare, il suo respiro carico di anidride carbonica, il suono di una dissipazione continua.

Gli arbusti furono sradicati dal vento, il cane filò via. Il vento soffiò più forte, e preso alla sprovvista, il cane rovinò su un albero, e sfregò il fianco sulla corteccia, e fu come se vi avesse lasciato qualcosa di sé, perché poi ululò come se l’avesse perduto per sempre. La pioggia centrava la ferita, sentiva caldo e freddo insieme. Ma invece di accucciarsi e leccarsi, immaginò la cima di una lunga radice strisciare silenziosamente, stringersi intorno a una sua zampa e trascinarlo via.

Così, raccogliendo un legno da terra, pensò a lei, solo a lei, le sue labbra. Serrò il legno tra i denti, e continuò a infilare l’oscurità, e quando sentì una fitta più forte, affondò i denti nel legno, e trattenendo in bocca un sapore di resina e terra, fu investito da una bufera di cose appuntite.

Avanzò con gli occhi chiusi. Tutto perse gravità, ogni cosa si convertì in una frequenza sonora, e nel fragore assoluto, inaspettatamente, il cane fu in grado di cogliere i crepitii dei rami, i gemiti degli steli, lo stridore delle foglie, e in quel modo, anche lui diventato suono nella notte scura – tutti quei guaiti a denti stretti – si sentì parte della materia viva e pulsante del creato.

Fu quella sensazione a tradirlo, non era mai saggio sentirsi parte di qualcosa, si finiva per equivocare e abbassare le difese – il cane seguitò a strisciare le zampe a terra con gli occhi chiusi, e in un attimo fu invaso da un rumore terribile, atroce, sepolcrale, spaventosamente al di là della sua capacità di sopportazione. Una luce rischiarò la notte, perfino quella trattenuta sotto le sue palpebre serrate, e si adunò e si disperse un boato a cui seguirono altri boati ancora, come se il cielo si stesse strappando dalle fondamenta.

L’orrore fu tale che il cane si piegò sulle zampe. Gli si era contratta la gola, non guaiva più, tremava senza riuscire a tendere le zampe. E avvertì un freddo, un freddo spietato, un freddo che risaliva le sue cellule e le declassava da piccoli giardini brulicanti di vita a roccia inerte ricoperta da uno strato di ghiaccio.

Lui, il cane, ripiegato su se stesso, pensò alla morte. La morte, sì, ecco tutto. E subito dopo ricordò che, una volta, neanche così lontano da casa, aveva visto la faccia della morte, e quel giorno lei era con lui. Camminavano per strada. Tornavano dal supermercato. Lui reggeva le buste cariche di spesa, lei un sacchetto di carta colmo di arance. Davanti a loro, su uno strato di foglie sgualcite, una ragazza peruviana spingeva una sedia a rotelle su cui era accomodata una vecchia dall’età indefinita. La vecchia, avvolta in un giaccone bianco, il cappuccio bianco sulla cuffia blu, un plaid allungato sulle gambe, aveva la faccia marmorizzata in un’espressione vacua. Gli occhi sbarrati, la pelle tesa sugli zigomi e incavata sulle guance, la bocca aperta in un ovale scuro e senza denti. La possibilità che le labbra chiarissime e irrigidite fossero attraversate dagli insetti era altissima. Lei guardò la vecchia che le veniva incontro, guardò lui. Mi amerai anche quando sarò così?, disse lei. Certo, disse lui. Mi amerai anche in quelle condizioni?, disse lei. Sempre, disse lui. Mi amerai anche quando sarò vecchia e mi colerà la saliva sul mento e non potrò scendere con le mie gambe dal letto e dovranno spogliarmi, lavarmi e rivestirmi ogni volta che sentirò la necessità di andare in bagno, liberandomi lì dove sono?, disse lei. Facciamo così, disse lui. Ti chiamo Catetere. Cancello il tuo nome dalla rubrica del telefono, metto Catetere. Così, mentre arriva quel momento, mi abituo, tutti i giorni, mille volte al giorno, ogni volta che mi chiami, disse. Ma devi sempre scherzare?, disse lei. E chi scherza?, disse lui. Poso le buste a terra, e cambio il tuo nome sulla rubrica, disse lui. Giuro, disse. E la guardò – le sue guance rosse per via del freddo o di qualche altra cosa che le aveva sospinto il sangue in superficie.

Effettivamente, doveva essersi strappato qualcosa nell’altezza irraggiungibile del cielo – il cane, tremando ancora, alzò gli occhi, e dietro alcuni corpi neri e sfilacciati, salì la luna, la luna piena.

Dov’era prima? Dove si trovava? Era mai possibile nascondere un’enormità simile?, pensò il cane. La luna sgusciò via dalle ultime velature, si dimostrò per quello che era. Maestosa, freddissima, distaccata – era bastato quel bagliore perché tutto mutasse. La luna aveva suscitato le forme del creato, e ora non c’era tronco, fronda, rovo sbattuto dal vento che non saltasse via dall’oscurità con un profilo netto e illuminato.

Non che prima il cane non vedesse o non capisse dove fosse – ogni oscurità possedeva un suo intimo chiarore. Solo che in quel momento, sotto quella luce, il bosco era così nero e così chiaro che il cane allentò la morsa dei tremori concentrandosi sui dettagli mai notati prima. Le foglioline lanceolate. Le spine appuntite. La corteccia a scaglie.

Il vento e la pioggia vennero a riprendersi il cane. E il cane, uggiolando, si alzò sulle zampe. Imboccando una via tra gli alberi, avvertì una stretta allo stomaco – il cane guaì e pensò fosse per la pioggia. Ma quella sensazione andava oltre il freddo che il vento incollava al pelo zuppo d’acqua. Era il peso di una nostalgia insostenibile, nostalgia per la vita con lei che non si sarebbe più verificata, una nostalgia del futuro, di tutto ciò che avrebbe potuto essere e che, paradossalmente, nel fitto del bosco, sentiva ancora a portata di mano – il modo in cui lei infilava la testa nel collo di un maglione chiudendo gli occhi, il modo in cui lei apriva la porta di casa non dosando mai la spinta, tanto che nel tempo, a furia di battere la porta, si era formata quella concavità nella parete, una nicchia polverosa che ricordava gli angoli di certe chiese svuotate dai santi.

Il cane sollevò gli occhi al cielo, e la luna gli restituì lo sguardo. Erano crateri che si specchiavano nei crateri. E il cane prese a ululare.

 

Tratto da: Giuseppe Zucco, Il cuore è un cane senza nome (minimum fax, 2017)

da Primine / Alessandra Carnaroli

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2.

Primine
Primine

mamma è depressa mio fratellino
se la fa addosso
la notte chiama mamma
babbo mai

Il tempo tormentato nelle celle siriane, “Il luogo stretto” di Faraj Bayrakdar

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di Giuseppe Acconcia

“Il luogo stretto”, l’ultima raccolta di poesie del siriano Faraj Bayrakdar (Nottetempo, 2016, 98 pag., 10 euro), traduzione di Elena Chiti, si inserisce nel magnifico e vario filone della poesia in carcere e sul carcere fiorita negli ultimi decenni nel Paese. Faraj ha trascorso sei anni in completo isolamento e 14 anni in carcere, attivista del partito comunista anti-governativo, il poeta è stato costretto ad imparare a memoria i suoi versi perché non aveva né fogli né penne. “Ho esercitato la memoria” per scriverci direttamente, ammette il poeta nella prefazione al testo. Di sicuro questa confessione conferisce ai versi una forza ancora più struggente di quanto non abbiano le parole. La poesia diventa un esercizio del detenuto per conoscere e “proteggere” la propria anima. In altre parole serve per conquistare la salvezza e dare senso o valore alla vita. Proprio quel senso di cui il carcere priva la vita dell’uomo. È nelle mani di sua figlia che l’autore ha consegnato i suoi testi non appena ne ha avuto la possibilità durante le visite concesse ai suoi familiari. Ma Faraj non è mai stato davvero solo in carcere, anche i suoi due fratelli erano nelle celle del regime degli al-Assad, per affiliazioni politiche diverse dalla sua. Tragico è stato l’incontro con uno dei suoi fratelli, incarcerato a pochi metri da lui. E ogni parola, ogni incontro esprime con chiarezza il motto che sembra echeggiare in ogni verso: “la libertà che è in noi è più forte delle prigioni”. Tant’è vero che una campagna internazionale per il suo rilascio e l’eco che ha avuto in tutto il mondo la traduzione in francese dei suoi versi da parte del poeta marocchino, Abdellatif Laabi, avrebbe alleviato la sofferenza dell’autore.
I temi ricorrenti in questa raccolta vanno dalle donne, alle visioni del detenuto, dalla trasfigurazione della cella e dei versi degli animali, fino ad una più generale rivoluzione della natura che prende forma nei fiumi proprio nel luogo dove queste poesie sono nate: il carcere. La prigione è intesa come un luogo senza tempo e pieno di contraddizioni. Si tratta di versi profondamente politici che esprimono la più convinta opposizione dell’autore verso gli autocrati di turno ma più in generale verso uno Stato che trasforma la sua terra in una “fossa comune” più che in una “nazione”. Sono elegie delle donne che circondano il poeta che siano esse madri, figlie, sorelle, innamorate. In “Due sigilli”, Faraj richiama proprio la nostalgia verso le sue “due gazzelle” (moglie e figlia), “smetti mia nostalgia/ di non avere approdo”. In “Storia”, il poeta è attraversato dallo sgomento della solitudine della cella “scrivi sui muri/riferisci al sultano tuo signore/ che una cella non è più stretta/della sua tomba/ che una cella non è più corta/ della sua vita”. Un “sultano” che per l’autore è “indegno di sepoltura”.
E da qui in poi al poeta ingabbiato non rimane che affidarsi ai versi degli animali. In “Richiamo”, Faraj vorrebbe aprire le mura del carcere alle colombe. Non importa se questo potrebbe ucciderlo perché il richiamo è “come il vino della poesia”. E così non gli resta che ululare vegliando il cadavere penzolante di uno studente universitario. In tutta questa tristezza, l’unica salvezza è sì la poesia, ma una certa creazione che mira all’equivalente poetica della donna. “Lei sola disseterà l’anima”, “è presente nell’assenza” del carcere “quasi le stelle fossero tue schegge”. Il tempo diventa un continuum di visioni straordinarie, ma tragiche. “Non ero né vivo né morto”, ma un amico suggerisce a Faraj la forza che cresce intorno a lui fuori dalla cella “Ricordo chi piange per te e mi pare/ che siamo in molti e le nubi rare”. Questa angoscia e questo sgomento attraversano i giorni di “Sciopero della fame” in cui si sentono i palpiti del sangue e dei ricordi. Ritornano i versi, i nitriti questa volta, “perché il mio corpo è cella/ e la poesia è libertà inattesa”. I versi sono a questo punto dei sinonimi del dolore. In questa poesia del dolore, “il blu del profondo è dolore/ e il profondo del blu è dolore”. E così le mani di sua moglie diventano le rive di un fiume di dolore. Le visite dei familiari sono come una rinascita ma fugaci, tanto che quando terminano “le finestre del carcere chiudono gli occhi/ e le pareti si coprono di/ un colore di estremo pudore”. Questi versi si trasformano in gemiti, di corpi su corpi, nei momenti più tormentati in cui Faraj è solo “e la morte è tutto” “e lo Stato ti regala una morte/di riserva”. Uno Stato perverso che “spezza la schiena” e lascia dietro al poeta un’epoca che “si vergogna/per la menzogna della geografia”. In “Questo è ora” ormai la cella si trasforma nello spazio mentre un passerotto costruisce un orizzonte sull’altra finestra. Questa tragica ma umanissima raccolta “Il luogo stretto” non omette di aprire alla possibilità della vita futura e così si chiude inaspettatamente con poesie più serene da “Eco” a “Diagnosi” fino a “La lacrima”. “È una vita della notte”.

La casa dei bambini

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“La casa dei bambini”, di cui pubblico l’incipit, esce oggi per Fandango (ndf).

di Michele Cocchi

Il cuore gli batteva così rapidamente e da tanto di quel tempo che ne era esausto. Procedevano in silenzio, carponi, in fila indiana, lungo il muro di cinta. In testa Nuto, poi lui e dietro Dino. A tratti, folate di vento gli spostavano un ciuffo di capelli davanti agli occhi. Tremava, non sapeva se di paura o di freddo. Che avrebbero fatto una volta fuori? Dove sarebbero andati? Non c’era stato il tempo di pensare a niente, soltanto al percorso migliore: raggiungere il muro e seguirne il perimetro fino alla capanna degli attrezzi. Attraversare il parco sarebbe stato troppo rischioso. Nuto si arrestò d’un tratto e lui sentì il cuore balzargli in gola. Poi lo vide agitare il braccio con insistenza: s’intuiva la sagoma della capanna. Non mancava molto, un centinaio di metri. Ancora però non si vedeva la scala che il custode, a detta di Dino, aveva dimenticato poggiata da un lato. Durante la cena era corso tra i tavoli ripetendo a bassa voce: “Riunione d’emergenza! Presto! Riunione d’emergenza!”, mentre le mamme lo sgridavano e gli intimavano di tornare a sedersi. Più tardi, nella stanza dei giochi, avevano organizzato la fuga.

Erano stati fortunati, la luna era sottile ma abbastanza luminosa da non aver bisogno di una torcia. Nella Casa nessuno dei bambini ne possedeva una, anzi, nessuno dei bambini possedeva niente di niente. Poi in lontananza lui vide un oggetto muoversi avanti e indietro. Sentì le braccia e le gambe gelarsi e diventare terribilmente pesanti.

Dino stava guardando nella stessa direzione. “Sandro, laggiù!”

“Ho visto. Che cos’è?”

“Una strega!”

Che avevano da parlare?, li sgridò Nuto a bassa voce. “Silenzio.”

“Guarda là.” Nuto si voltò. “Laggiù. Vedi? Si muove.”

“È l’altalena. È solo il vento.”

“Ma l’altalena è dall’altra parte.”

“No, è da quella.”

Lui e Dino avevano perso l’orientamento. Si meravigliava di come muoversi di notte fosse tanto diverso dal muoversi di giorno. Il parco che conosceva così bene adesso gli sembrava estraneo. Come se in assenza di luce gli occhi dessero importanza a oggetti che di solito non ne avevano. Grossi tronchi. Dossi sul terreno. Grovigli scuri di rami sugli alberi. Il buio tramutava le cose in mostri. Si sforzò di capire dove si trovassero con precisione. Vedeva un tratto di vialetto e un pezzo del grande cancello grigio, le sbarre lisce impossibili da scavalcare. Strizzò gli occhi. Le due colonne di cemento e poi il muro con il filo spinato per non farli scappare.

“Accidenti! Ho dimenticato le chiavi”, esclamò all’improvviso Dino. Stringeva nella mano il mazzo di chiavi di mamma Olga. “Ho dimenticato di rimetterlo nel suo grembiule.”

“Almeno hai messo i cuscini sotto le lenzuola come avevamo detto?”, gli domandò Nuto.

Lo aveva fatto.

“Se si accorge che le mancano le chiavi, darà subito l’allarme. Dai, muoviamoci.”

Finalmente raggiunsero la capanna. La scala era là, Dino aveva ragione. Nuto e Dino la portarono fino al muro. Si assicurarono che fosse stabile.

“Dai, veloci”, disse Nuto.

Salì i primi due scalini, quando la porta della capanna improvvisamente si aprì e comparve Pasquale, il custode.

La mattina dopo, appena svegli, furono condotti dal direttore. Le mani giunte e le dita incrociate sopra il piano della scrivania tarlata. I capelli neri con dei ciuffi bianchi. Lui si sentiva stanco, aveva passato la notte sveglio perché aveva troppa paura per riuscire a dormire, temeva la furia del direttore. Guardò fuori. Tutto intorno alla Casa il parco senza erba, la terra dura e gli alberi coi rami secchi sui quali da tempo non crescevano più foglie. Viola si dondolava sull’altalena, tenendosi ben stretta alle corde. Il sole era largo e pallido. Così freddo che lo si poteva guardare fisso senza bruciarsi gli occhi. Si domandò dove fosse Giuliano. Giuliano che aveva deciso di non fuggire con loro, ma che li aveva abbracciati uno a uno prima che uscissero di nascosto. Sentiva il bisogno di parlargli, di sapere il suo parere.

Il direttore guardò Nuto e Dino seduti accanto a lui. Entrambi nella stessa posizione: la testa bassa e le mani sulle ginocchia. Ripeteva cose già sentite molte volte: le regole, il rispetto per le mamme e gli altri bambini, lo sforzo che facevano per mantenerli in salute. Le orecchie gli ronzavano, non riusciva a stare concentrato e a seguire i discorsi. Vedeva scantinati e corridoi bui. Immaginò che per gli altri fosse lo stesso. Il perché lo sapeva: questa volta rischiavano l’espulsione. Avrebbe significato essere divisi e spediti in tre Case diverse. Sarebbe stato come morire. Se il direttore fosse stato un rettile, pensò, sarebbe stato un’iguana, con la cresta sulla testa come la corona di un re.

Il direttore sospirò. Perché avevano tentato di scappare?, chiese.

Nuto si mosse sulla sedia. Alzò la testa. Gli occhi grigio chiaro. Di loro tre era sicuramente il più coraggioso, però non disse niente.

Fu Dino, invece, a parlare. “Vogliamo sapere cosa c’è là fuori.”

Il direttore lo fulminò con lo sguardo. “Cosa volete che ci sia là fuori? Case, persone, niente di speciale.”

“E che succede?”

Il direttore alzò la voce: “Non succede niente. Niente di niente”.

“E quel rombo, il mese scorso? E tutte quelle luci?”

“Ve l’abbiamo già detto, era una gara automobilistica, e le luci erano i fuochi d’artificio.”

“Perché non ci avete portato a vederla?” Era stato Nuto a parlare.

“Perché era troppo lontana, e siete troppo piccoli. Se sarete scelti, o quando andrete alla Casa dei ragazzi, potrete fare quello che vi pare. Adesso fareste bene a studiare e a comportarvi come si deve.”

“Però c’è stato l’incendio.” Si accorse di aver parlato senza averne davvero l’intenzione. “L’incendio ha ucciso i miei genitori e quelli di Nuto. Guardi la ferita.” Allungò una gamba e cercò di arrotolarsi il pantalone fino alla coscia, ma la stoffa si bloccò all’altezza del ginocchio.

Il direttore si alzò bruscamente e la sedia cadde sul pavimento con un tonfo terribile.

“La conosco la tua ferita, Sandro”, lo rimproverò. “Te l’hanno detto anche le mamme. Devi smettere di inventarti queste storie. Tu vedi cose che non esistono. Spaventi gli altri bambini.”

“Non se l’è inventato”, disse Nuto. “Sandro dice la verità.”

“Ora basta.” Il direttore batté il pugno sul piano della scrivania e tutti e tre si zittirono e abbassarono la testa. Erano maledettamente sfacciati e ingrati, aggiunse. Avrebbero saltato la scelta per sei sabati consecutivi. E se avessero aggiunto anche soltanto una parola, li avrebbe espulsi tutti e tre.

 

Intelligenze nomadi

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di Nicola Fanizza

Verso la fine del mese di luglio, sono tornato nel paese che mi ha visto nascere. Avevo appreso – attraverso facebook – che erano quasi terminati i lavori di ristrutturazione della piazza. E, pertanto, la mattina del giorno successivo al mio arrivo, sono andato subito a vedere la sua nuova veste. Ho avvertito subito la sensazione di trovarmi di fronte a una meraviglia accecante!

Se è vero che il bianco dei mattoni amplifica e dilata lo spazio, è altresì certo che il riverbero della luce del Sole costringe i presenti a chiudere gli occhi.

Nell’ora del meriggio ho avuto l’impressione che il tempo e la natura si fossero, addirittura, fermati in una stasi inquietante: gli effetti dell’astro hanno cessato all’improvviso di essere benefici e si sono fatti opprimenti e disseccanti. Da qui la mia fuga verso l’unica zona d’ombra della piazza, dove ho incontrato alcuni amici che non vedevo da diversi anni.

Nel ricordare quelli che non ci sono più, i miei interlocutori hanno chiamato in causa la discarica, che è ubicata nel perimetro di un paese vicino. Viene ritenuta, infatti, la causa principale della brutale devastazione del territorio e, insieme, delle numerose neoplasie che hanno colpito i residenti.

La devastazione dello spazio sociale l’ho percepita, invece, attraverso il tono di voce con cui essi mi hanno parlato. Il sentimento che ho potuto riconoscere nelle loro parole, nei loro tristi sorrisi e nei loro sguardi è stato di amarezza e di rabbia disperata.

A volte mi è capitato di cogliere nei loro discorsi ciò che da sempre accomuna gli abitanti del Sud: l’ostinazione a voler essere sempre se stessi, lamentandosi delle proprie mediocrità salvo poi godere inconsciamente di quest’attitudine a essere immobili, languendo nel vedersi affondare.

Pensavo pure che l’età avanzata rendesse gli individui liberi di esprimersi, di esistere, di comunicare. Invece ho visto vecchie persone rancorose ancora in preda al bisogno di marcare il proprio territorio, segnare il tempo e non riuscire a sorridere alla vita che prima o poi apre a tutti le sue finestre di libertà.

Nel gioco dei ricordi, i miei amici mi hanno riportato alla mente il motto pronunciato da mio fratello, in occasione della sua partenza per il Canada. Prima di salire sul treno – era la primavera del 1965 –, Giovanni si rivolse ai suoi amici, che erano andati alla stazione ferroviaria per salutarlo, con queste parole: «Addio paese dell’Oriente. Qui c’è troppa fantasia!».

La fantasia non è il male. La fantasia di per sé è positiva. Serve per rendere più dolce la vita, serve per sognare. Nondimeno, quando non è supportata da alcun sostrato materiale, quando è eccessiva, può assumere una curvatura negativa. Spesso ci dimentichiamo che Narciso non ama sé stesso, bensì la sua immagine. Infatti, dopo aver forgiato la propria immagine, si riconosce per davvero nel fantasma che ha prodotto, ossia in ciò che è frutto solo della sua immaginazione, in ciò che non esiste!

Non penso comunque che i giovani di oggi abbiano più o meno fantasia dei giovani degli anni Sessanta. Ciò che abita, sicuramente, nei loro pensieri sono i sentimenti, le paure, la solitudine e il senso di inadeguatezza dei giovani. Di ieri, di oggi, di sempre.

La mancanza di lavoro rappresenta di fatto la pietra di inciampo che impedisce loro di fare progetti o di coltivare eccessive illusioni. L’hanno capito persino quelli che si iscrivevano ai partiti di governo per trovare il «posto» ai propri figli. Manca il lavoro. E quei pochi temerari che tentano l’avventura, aprendo nuove attività commerciali, sperimentano, dolorosamente, il fallimento.

Le uniche attività in cui i datori di lavoro ti pagano alla fine della giornata sono solo quelle dell’agricoltura e della pesca. Nelle attività rimanenti, i salari sono di fame e i lavoratori non sanno mai quando saranno pagati.

Per quel che riguarda il caporalato, va detto che nel Mezzogiorno non è mai morto, anche perché le istituzioni non lo hanno mai combattuto. Si può dire che spesso i politici e i sindacalisti lo hanno addirittura incentivato, assumendo essi stessi il ruolo dei caporali.

D’altra parte, i giovani hanno capito che la scuola non è più un ascensore sociale, vivono in un mondo ostile, un mondo che non riconosce più i diritti, un mondo che li fa vivere in una perenne incertezza. Da qui la loro fuga verso altre nazioni europee, sanno che la loro strada non passa per il paese in cui sono nati.

Vivere nel luogo che ti ha visto nascere, vivere respirando sempre la stessa aria, non è una cosa positiva. Gli uomini non sono come gli alberi, non hanno radici. Sono nati per uscire, per vagare nel mondo. Il tempo del paese è il tempo della ripetizione, è un tempo sempre uguale e, insieme, il tempo dell’attesa, è un tempo sprecato, è il tempo della noia, è un tempo che ti rende infelice.

Il Sud, oggi, non può farcela da solo. Ogni anno perde i suoi figli migliori: il 50% dei giovani che si diploma va a studiare nelle università del Nord o in altri Paesi e pochissimi sono quelli che, dopo aver conseguito la laurea, tornano a vivere nei luoghi in cui sono nati. Da qui l’impossibilità di affidare lo sviluppo dello spazio sociale ed economico del paese solo ai rimanenti.

E’ risaputo che chi arriva da lontano il più delle volte ha un piglio e una disponibilità che, difficilmente, trovi in chi è catafratto da sempre nel suo paese. I rimanenti, invece, amano la ripetizione, sono nevrotici e, a volte, tendono a impigliarsi nelle reti della malinconia. Occorre aprire le porte del paese, occorre fargli prendere aria fresca, accogliendo gente nuova. Il paese non deve configurarsi come un luogo identico sempre a se stesso, bensì come un luogo di transito, non come luogo dell’essere, ma come un luogo del divenire.

Il paese deve aprirsi agli altri, rimanendo nel contempo contratto: infatti, mentre la contiguità spaziale ed emotiva consente la dilatazione dell’anima, l’ipertrofia urbanistica sortisce, invece, la sclerosi delle coscienze, ossia individui chiusi, monadi senza finestre, ripiegate sempre su se stesse.

Ma ciò che può davvero avviare un movimento di rinascenza del Mezzogiorno è, soprattutto, il ritorno a casa delle intelligenze nomadi. Penso a tutti quegli individui che, non riconoscendosi nel discorso canonizzato del paese, sono andati a vivere altrove.

Questi ultimi devono essere ascoltati, sono individui che dicono il vero (parresiates), sono come i pittori di cui parlava Machiavelli, i quali per rappresentare il paese si collocavano sulla collina alla giusta distanza. Mentre i rimanenti non riescono a cogliere ciò di cui paese soffre poiché sono troppo vicini, gli stranieri non riescono a mettere a fuoco il paese, in quanto sono troppo lontani. La distanza in cui si collocano le intelligenze nomadi è, viceversa, quella giusta. La loro è una prossimità distanziante. Sono vicini, poiché sono nati nel paese e, insieme, lontani, giacché hanno acquisto durante la loro erranza le lenti per mettere a fuoco i problemi reali del paese.

La rinascenza del Mezzogiorno sarà, comunque, possibile solo riattivando la grande tradizione di pensiero dei nostri meridionalisti.

Il degrado culturale nel Mezzogiorno, intanto, è diventato onnipervasivo. Gli intellettuali impegnati sono ormai una specie in via di estinzione in tutta la penisola Italiana e nel Sud in modo particolare. Gli eredi dei meridionalisti hanno gettato la spugna da un sacco di tempo e sono stati sostituiti da uno strato di operatori culturali variamente occupati nella produzione di un immaginario che – dicono loro – deve essere utile e spendibile. Ciò che viene riciclato, a fini di marketing territoriale, è un passato folclorizzato e devitalizzato: ossia come ti vendo il Salento ai milanesi!

 

 

una rete di storie I MINORI STRANIERI NON ACCOMPAGNATI

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una rete di storie
STORIE DI EMIGRAZIONE I minori stranieri non accompagnati
Domenica 29 ottobre alle ore 15.00 Sala Ipogea
Mediateca Montanari di Fano [PU]
“Invisibili. Non è un viaggio, è una fuga”
Documentario UNICEF 35 minuti

Accompagnare i minori
di Andrea Inglese
Il migrante è senza dubbio una delle grandi e terrificanti figure del nostro tempo, lo è a tal punto grande (e terrificante) da evocare una quantità di immagini estremamente forti, perturbanti e spesso contraddittorie: il migrante è colui che annega, che non può essere salvato, che nessuno vuole sia salvato, ma il migrante è anche quello che viene salvato, agguantato per un soffio, strappato alla morte quasi esausto. Il migrante è quello che scappa, è quello sempre in fuga, è quello che passa le frontiere invisibile, nascosto nelle pieghe del camion, ma è anche quello che arriva, che prende posto, che si accampa, che dorme per terra e che, noi passanti, dobbiamo scavalcare. Il migrante è quello che non sa cosa fare, che non sa cosa vendere, che vaga senza un ruolo, una meta, ma è quello che raccoglie i pomodori, è quello che fa ogni tipo di lavoro clandestino, è quello che rischia di morire di lavoro. Il migrante è un rifugiato, è un richiedente asilo, viene da un paese raso al suolo dalla guerra civile, rischia la morte per sfuggire alla morte, ma il migrante è un immigrato, qualcuno che vuole uscire dalla povertà, qualcuno che rischia la fame per sfuggire alla fame. Il migrante è un minorenne solitario, senza famiglia, senza alcun sostegno, ma deve provare alle istituzioni che è un minorenne, e gli si guardano i denti, gli si misurano le ossa. Il migrante popola tutti i fantasmi razzisti e fascisti, popola i sogni di pietà, popola la nostra impotenza e la nostra rabbia, le nostre paure. Il migrante alberga sovrano al centro della nostra cresciuta, allenata, indifferenza. Il migrante è il nonno che ci sta alle spalle, è l’esclusione che temiamo per nostro figlio. Il migrante è quello che noi fortunatamente non siamo. Noi siamo espatriati, semmai.
In uno dei migliori dizionari della lingua italiana, il Palazzi e Folena, il sostantivo “migrante” non esiste neppure. C’è un aggettivo, derivato dal participio presente di migrare, che è un termine medico: “ascesso, rene migrante, che si sposta dalla sua sede primitiva”, ma vi è attestato anche un uso meno tecnico: “uccello migrante, uccello migratore”. In effetti, “migrante” è un sostantivo della nostra epoca, una fatale invenzione linguistica, ed è un vocabolo carico di talmente tante immagini e significati che è necessario, ad un certo punto, dargli un ancoraggio più circoscritto, riferendolo a una realtà con la quale possiamo entrare in contatto in modo più personale e intimo.
 
Abbiamo scritto su Nazione Indiana dei migranti (per esempio qui), di quelli che scappano da una guerra, di quelli che muoiono senza arrivare da nessuna parte, di quelli che soggiornano in un limbo dentro i nostri confini nazionali, dentro le nostre città, e non si riesce a capire, a decidere, se siano sommersi o salvati. Per la festa indiana organizzata a Fano volevamo parlarne ancora. E io ho suggerito agli amici e alle amiche indiane di parlare dei minori non accompagnati, e di comprendere come oggi, in Italia ma anche in Francia, sia possibile incontrarli, conoscerli, e decidere di fare delle cose con loro, di seguirli da vicino per un tratto della loro vita, di fare a loro un po’ di posto nella nostra vita.
 
Marielle Macé, una studiosa francese di letteratura, ha appena pubblicato un volumetto intitolato Sidérer, considérer. Migrants en France 2007 (“Sbalordire, considerare”). La sua analisi è particolarmente interessante perché non muove da sbandieramenti di principi – quello che uno Stato di diritto dovrebbe fare, quello che una società democratica e giusta dovrebbe fare nei confronti dei migranti – ma da due attitudini più concrete, due posture affettive e intellettuali. Nella prima, tutto ciò che vediamo alla tele, che leggiamo sui giornali, che ci capita di vedere per strada, ci lascia “pietrificati, chiusi in un’emozione che non è facile trasformare in azione”. Nella seconda, caratterizzata dal verbo “considerare”, siamo invece spinti “ad andare a vedere, a tener conto dei viventi, delle loro vite effettive”. Nello sbalordimento, restiamo impotenti a distanza, e ci riempiamo di immagini. Nella considerazione, ci avviciniamo, comprendiamo, entriamo nella concretezza delle altrui vite. Sembra forse un ragionamento ancora astratto. A me pare essenziale, però, partire da questa impotenza, che è conseguenza di una domanda schiacciante: “che fare?” Che fare di fronte agli annegamenti, al traffico delle vite umane, alla miseria dei molti, ai respingimenti, alla criminalizzazione delle ONG, al razzismo di paese, al razzismo parlamentare? Io sono partito dal mio sentimento di vergogna (ne ho parlato qui). Sono partito dalla vergogna, in quanto questo sentimento impregnava la mia prima persona plurale – il noi dell’appartenenza occidentale, europea e nazionale – ma anche la mia prima persona singolare, l’Andrea Inglese che aveva scritto su Calais, ad esempio, senza mai essere andato fare qualcosa a Calais, e che guardava, come tanti, la sofferenza “a distanza”.
 
In realtà, già allora sentivo non si trattava di porsi di fronte alla domanda massimalista: “che fare?”, dal momento che il problema vero era: “da dove cominciare?”, perché le possibilità d’azione sono in realtà molteplici, innumerevoli, e si tratta d’individuare soprattutto quelle che ci corrispondono di più, quelle per cui siamo in grado di garantire una fedeltà sulla lunga durata, al di là della reazione emotiva momentanea.
 
In questo mi ha aiutato in modo decisivo Olivier Favier, una persona che ha scritto molto sui migranti in Francia, che continua a scriverne, e che nello stesso tempo vive coi migranti, soprattutto i più giovani, i minori, accogliendoli direttamente, coinvolgendoli in attività teatrali, mettendoli in relazione con famiglie e individui residenti in Francia. Un giorno Olivier ha messo un post su Facebook, in cui parlava di un centro in un villaggio a me sconosciuto, a due ore di distanza da Parigi, dove un’associazione per conto delle autorità provinciali accoglieva dei migranti minorenni. Olivier invitava delle persone residenti a Parigi a proporsi come “padrini” per questi ragazzi, in modo tale da costituire per loro un punto di riferimento all’interno della società francese, un punto di riferimento che non fosse puramente istituzionale. L’impegno non pareva spaventoso. Non implicava un diretto sostegno economico, e poteva limitarsi a un’ospitalità limitata nel tempo, con incontri di scadenza mensile. L’idea di entrare in diretto contatto con una persona, una concreta persona e per di più molto giovane, strappandola alla massa indifferenziata dei migranti, mi corrispondeva. Sentivo che a quel livello potevo fare qualcosa, e sentivo che m’interessava fare qualcosa, che era importante per me entrare in quel nuovo rapporto. (È importante precisare che mia moglie e io, accettando questo ruolo nei confronti di Samed – ruolo per altro poco definito in termini giuridici, almeno in Francia attualmente – cercavamo di soddisfare anche un nostro desiderio. Il posto che facevamo a Samed, all’interno del nostro nucleo familiare a tre, inclusa nostra figlia di sette anni, era in realtà un vuoto che noi percepivamo, e che avremmo comunque cercato di riempire. Da questo punto di vista, non potremmo essere più lontani dall’idea dell’aiuto come gesto unilaterale, magari tinto di qualche elemento sacrificale. Se c’è generosità nell’avvicinarsi a un minore, nel fargli spazio all’interno della propria vita, è innanzitutto una generosità nei confronti della propria vita, è perché si vuole una vita più grande, più ricca e, devo aggiungere, più complicata.)
 
In questo modo, dopo vari mesi di attesa, ho conosciuto Samed, un diciassettenne ghanese (oggi maggiorenne), anglofono, con una pesante storia alle spalle (il viaggio dal Ghana alla Libia, il soggiorno libico di alcuni mesi, i tentativi di traversata, l’approdo in Italia, la fuga in avanti, l’attraversamento della frontiera a Ventimiglia, il vagabondaggio in Francia alla ricerca della capitale, e alle fine l’incontro fortuito con l’educatrice di un’associazione che lo ha tolto dalla strada). Si dirà che tutti i migranti hanno una pesante storia alle spalle. Sì, appunto, ma quella di Samed è una, è la sua, inconfondibile rispetto a tutte le altre.
 
Incontrando Samed, però, ho incontrato tutto un mondo di persone in gamba, sorprendenti, che a vario livello, in vari modi e secondo stili di pensiero magari differenti, sono mobilitati per entrare in contatto, conoscere, aiutare, fare qualcosa con questi ragazzi. E questo è un altro aspetto prezioso di tutta la vicenda. Ci sono un sacco di persone, spesso non più giovani, che hanno voglia d’incontrare e di vivere qualcosa d’importante con questi giovani. La forma esteriore che tutto ciò prende ha i caratteri della solidarietà, ma è qualcosa di più profondo che si gioca tra questi diversi gruppi di persone. Siamo all’interno di uno scambio simbolico, di affetti, uno scambio di universi generazionali, di speranze nei confronti del futuro. Ecco, forse si cerca soprattutto di scambiarsi un futuro. Giovani africani con europei non più giovani, entrambi alla ricerca di qualcosa che dia senso al futuro, al tempo che ci resta da vivere.
 
Non vorrei farla lunga, anche se molto potrei scrivere di cosa è cambiato in noi conoscendo e vivendo con Samed. (Quello che sembrava un impegno non spaventoso, ad esempio, è diventato un forte legame affettivo, che ovviamente ridefinisce in maniera imprevista aspettative e ruoli di tutti nella relazione.) M’interessa di più sottolineare una cosa. Mentre mia moglie ed io eravamo coinvolti in questo nuovo progetto con Samed, ho incontrato in Italia un paio di amiche che erano interessate a lanciarsi nella medesima avventura e che cercavano di capire in quale quadro istituzionale si poteva agire per i minori non accompagnati. Oggi mi pare che le cose comincino ad essere più chiare. Un ⇨ articolo su “Repubblica” del 10 ottobre prova a fare il punto sulla situazione dei cosiddetti “tutori volontari”.
 
A Fano, il 29 ottobre si parlerà di questo soprattutto, durante l’incontro intitolato Storie di emigrazione. Sarà presente Olivier Favier, dalla Francia, per portare appunto una testimonianza su cosa accade al di là delle nostre frontiere, sia in termini di politiche migratori sia in termini di mobilitazione cittadina. Interverrà in dialogo con lui Andrea Nobili, una figura istituzione, ossia il Garante per i diritti dei minori delle Marche. Ma l’incontro si avvarrà anche della testimonianza di Giuseppe Acconcia, giornalista esperto di Islam e Medio Oriente, che già è stato ospite di una festa indiana e ha pubblicato articoli sul nostro sito. Verrà trasmesso anche un documentario UNICEF, Invisibili non è un viaggio, è una fuga. Alla preparazione di questo incontro hanno lavorato, oltre a Orsola Puecher, Maria Luisa Venuta, Renata Morresi e il sottoscritto.
 
Il nostro obiettivo è quello di riuscire ad accompagnare magari qualcun altro di noi a fare un passo fuori dalla vergogna e dallo stordimento, per avvicinare queste vite di giovani e giovanissimi, e realizzare con loro un pezzo di strada.

 
Con Giuseppe Acconcia, Olivier Favier, Andrea Nobili, Maria Luisa Venuta
 
GIUSEPPE ACCONCIA (Salerno, 1981), giornalista e ricercatore, si occupa di Iran e Medio Oriente. Laureato in Economia, dal 2005 ha vissuto tra Iran, Egitto e Siria collaborando con testate italiane (Il Manifesto, Il Riformista, Radio 2, RaiNews), inglesi (The Independent) ed egiziane (Al Ahram). Ha lavorato come insegnate di italiano per migranti e all’Università americana del Cairo. Si è occupato di cooperazione euromediterranea e ha pubblicato racconti, poesie e romanzi brevi. Ha pubblicato La Primavera egiziana (2012), Egitto. Democrazia militare (2014) e Grande Iran (2016).

OLIVIER FAVIER Storico di formazione, è reporter, fotografo, traduttore ed interprete. Ha creato nel 2010 il sito www.dormirajamais.org e pubblicato nel 2016 il libro Chroniques d’exil et d’hospitalité (Le Passager clandestin), frutto di un lavoro di tre anni a contatto dei migranti, in Francia ed in Italia.

ANDREA NOBILI Garante per i diritti dei minori delle Marche ⇨ OMBUDSMAM Chi é

MARIA LUISA VENUTA Dottore di ricerca in Economia.
Dal 1997 svolge in modo continuativo e sistematico attività di ricerca applicata, formazione e consulenza per enti pubblici e privati sui temi della sostenibilità integrata, economia circolare e come coordinatrice di progetti culturali e di carattere ambientale. Da giugno 2015 collabora a Fondazione Museo dell’Industria e del Lavoro di Brescia nel settore ricerca e progetti e come Project Manager del Progetto triennale di riapertura del museo del ferro San Bartolomeo di Brescia.

Belve, mostri e scatole di cartone. L’incontro con l’altro nei libri illustrati per l’infanzia.

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di Francesca Matteoni

L’altro, si sa, è sempre il grande enigma che ci definisce. Lo si fugge, lo si cerca, lo si teme, lo si incontra per caso, lo si guarda come in uno specchio ribaltato. Tornando a perdermi nella mia collezione di albi illustrati per la prima infanzia, mi sono accorta che gran parte di quella folla di bambini buffi e normalissimi, di animali feroci che compaiono in luoghi improbabili, di famiglie bizzarre, mostri, attraversatori di boschi di professione ha in comune proprio l’esperienza dell’altro nel suo molteplice manifestarsi. Con la potenza evocativa dell’illustrazione, poche parole essenziali, che a ogni pagina si rida a crepapelle o ci si commuova una volta chiuso il libro, questo suggeriscono al bambino e all’adulto che vi entrano: l’altro c’è, ineluttabile, sorprendente, necessario. Di più: sotto tutti i sentimenti che ne derivano resiste un impulso primigenio dell’umano e dell’infanzia: il desiderio di esplorazione, di scovare chi vive dall’altra parte, sta dietro una porta, fa capolino dalle grotte, viene a sedersi sulla nostra collina preferita.

Si comincia con un rito, complice un babbo tentatore, che guida tutta la famiglia, cane domestico incluso, a caccia di un orso, seguendo il ritmo incoraggiante della filastrocca: “A caccia dell’orso andiamo. Di un orso grande e grosso. Ma che bella giornata! Paura non abbiamo.” A caccia dell’orso scritto nel 1989 da Michael Rosen e illustrato da una delle più note illustratrici britanniche, Helen Oxenbury, è un classico per l’infanzia, con una struttura semplice e un testo memorabile, dove l’altro viene affrontato con spirito d’avventura, alternando tavole in bianco e nero in cui si ponderano gli ostacoli del percorso ad altre colorate ad acquarello, immersive, in cui insieme ai protagonisti si scivola nei suoni dell’erba e dell’acqua verso la caverna dell’animale… che non ha alcun desiderio di essere disturbato da una famiglia impicciona e spavalda e infatti fa scappare tutti a gambe levate, a ritroso nella natura che unisce e separa, fino alla porta di casa.  I suoni onomatopeici,  il fiorire del paesaggio dal tratto della Oxenbury, in negativo prima, a colori poi, segnano un percorso di avvicinamento, eccitazione, fuga, come un bellissimo gioco in cui la paura si trasforma in curiosità. E anche l’orso che alla fine torna verso la sua dimora per riprendere sonno, sembra più malinconico che minaccioso.

L’altro spaventoso, che sarebbe meglio non disturbare e non andare a molestare nella sua tana, lo si ritrova nelle amatissime storie del Gruffalò (senza accento nell’originale inglese), inventate da Julia Donaldson e illustrate da Axel Scheffler. Chi è il Gruffalò? Un bestione peloso, aggressivo con artigli e zanne affilate, occhi giallastri, che, soprattutto, non esiste se non nella fantasia di un topolino deciso a scampare agli inviti a cena di volpi, gufi, serpenti… perché, casomai accettasse, sarebbe lui stesso il piatto principale! Il Gruffalò è l’altro immaginario, confezionato appositamente per difendersi, perché nulla funziona meglio che vantare conoscenze altolocate e zannute nella piramide alimentare, meglio ancora se perfino ignote alla massa, quando si è destinati a una vita da preda. Ma cosa succede se poi l’energumeno si manifesta davvero? Andrà “cucinato” anche lui con l’inventiva che viene dalla lotta per la sopravvivenza.  E nel caso il Gruffalò, ormai pieno di timore verso il Topo Tremendo, avesse una figlioletta temeraria, il topo aguzzerà l’ingegno, giocando sull’illusione, la luce della luna che ammalia e inganna chi la guarda, proiettando ombre tremule e gigantesche. Alla fine il topolino si salva sempre, raggira i predatori, muta la sua fragilità in potenza. Nei libri del Gruffalò l’altro viene creato più che riconosciuto o incontrato, si nutre di dettagli presunti che passano di bocca in bocca, viene manipolato dalla consapevolezza del narratore e dall’ingenuità di chi ascolta, diventando una mera questione di prospettiva, in cui la fantasia è più vera del vero, le menti dei vari animali, vittime dell’eloquente topolino, vedono la bestia terribile (Gruffalò o Topo Tremendo che sia) ben prima che questo abbia corpo.

Addentrandosi in una sfera più intima dell’esperienza infantile fantasia e paura animano Una strana creatura nel mio armadio scritto e illustrato da Mercer Mayer nel 1968, con una tecnica e un immaginario molto vicini a quella di Maurice Sendak nel suo capolavoro Nel paese dei mostri selvaggi, pubblicato cinque anni prima. La vicenda è la più ordinaria: un bambino nel suo letto che non riesce a prender sonno perché teme il buio e coloro che lo abitano. L’armadio per esempio, socchiuso e sospetto, non potrebbe essere la dimora di un mostro famelico? Il bambino si arma con un fucile giocattolo, ma il mostro che esce allo scoperto non ha nulla di raccapricciante: è a pallini, ha l’espressione di un povero malcapitato che non sa dove cercare riparo, piange e urla quando il bambino gli “spara”. A questo punto il bambino diventa il consolatore – il povero mostro è innocuo, un po’ ridicolo, sciaguratello… e se ne va dritto sotto le coperte con il protagonista, dove entrambi aguzzano nuovamente i sensi, perché altre porticine scricchiolano, altri intrusi, magari stavolta davvero minacciosi, si avvicinano. Grazie al disegno incantato e buffo insieme il libro ci porta nella conoscenza reciproca, il metodo più efficace contro la paura dell’altro. Paura, scoperta, ribaltamento di ruoli, amicizia, infine. Non si è più stranieri quando si diventa amici, quando vengono messe in condivisione le proprie vicende. Di amicizia trattano i prossimi libri sfogliati e ammirati, ognuno declinandola secondo un particolare sguardo e ambiente. Un leone in biblioteca scritto da Michelle Knudsen e illustrato da Kevin Hawkes, ha ancora une belva come protagonista, che però si distingue per un comportamento inusuale: va in biblioteca per ascoltare le storie che vengono lette nell’angolo dei ragazzi, impara a non infrangere le regole, si mette al servizio della direttrice, la signorina Brontolini. Poi un giorno la signorina Brontolini cade dallo sgabello, fratturandosi un braccio, e per soccorrerla il leone rompe tutte le regole: corre, ruggisce, fa rumore nel luogo del silenzio e per questo, brontolato malamente dal bibliotecario, se ne va. Solo più tardi il bibliotecario comprende l’errore, trovando la signorina a terra nel suo ufficio e da lì inizia la ricerca del leone in città, perché la biblioteca senza di lui non è più un luogo speciale. Il libro è prima di tutto un inno alla lettura, al mondo delle storie e ai posti dove questo è custodito, ma l’inno si dispiega proprio attraverso la presenza straordinaria di un altro inaspettato, indomabile all’apparenza e poi mite e fedele quando viene vicino. Un amico speciale dalle pagine, fatto di stupore, selvaticità, riconoscenza. Nessuno è mai solo ciò che sembra, gli altri, come i libri, vanno aperti.

E anche i bambini, con il loro universo, la loro alterità, vanno saputi vedere, senza sentimentalismi di sorta, quasi mettendosi al pari, permettendo al bambino che siamo stati e non all’adulto che ci invade di sentire e sapere cosa vive l’infanzia. La balena della tempesta di Benji Davies si svolge sulla costa e il paesaggio marino è il microcosmo abitato da Nico e da suo padre, un pescatore. Le giornate del bambino sono lunghe e  malinconiche, del grido dei gabbiani, dell’odore della sabbia e del pesce, come ampiamente suggeriscono i disegni di Davies, dove nessuno parla, sebbene l’emotività dei personaggi riempia la pagina. Dopo una tempesta Nico trova una balenottera spiaggiata. Riesce a trascinarla in casa e la sistema nella vasca, nascondendola, almeno fino a sera, dal padre. Il bambino teme che il padre si arrabbi, ma quando infine l’uomo scopre l’esistenza dell’ingombrante e silenzioso ospite, sarà per lui la rivelazione dei sentimenti di solitudine del figlio, profondi, struggenti, azzurri come un cetaceo disperso. Insieme riporteranno l’amica nell’oceano e il distacco è reso più leggero dalla presenza del genitore. Chi è la balena apparsa all’improvviso? L’infanzia nel suo costante evolversi fatto di arrivederci, abbandoni e scoperte, la bellezza e il timore di essere soli, la necessità di una conferma in chi è più grande: non tanto perché sia maestro e guida, ma perché sappia stare accanto.

Privo di adulti e tutto concentrato sulle relazioni fra bambini, anche Sulla collina, sempre illustrato da Benji Davies, ma scritto da Linda Sarah. Devo dire che ho un particolare attaccamento a questo libro – e spesso, sfogliandolo, mi sono proiettata su quella collina del primo autunno, quando il cielo cambia e quasi si rannicchia sulla terra, le foglie ondeggiano e c’è ancora abbastanza luce e calore per giocare all’aperto. Uto e Leo salgono sulla collina, trascinando scatole di cartone più grandi di loro. “Certe volte sono re, soldati di ventura, astronauti. Certe volte sono pirati che solcano cieli e mari in tempesta. Ma sempre, sempre sono Grandi Amici”. Hanno un ritmo a due che li contraddistingue. Poi un giorno Samu, un altro bambino, prende coraggio e con la sua scatola di cartone raggiunge i due amici: Leo subito accoglie il nuovo arrivato, ma qualcosa si interrompe per Uto, che si incupisce, si isola, fino a non voler più salire sulla collina e distruggere la sua scatola. Il nuovo arrivato è un destabilizzatore per lui, stravolge un equilibrio segreto. Seduto in casa disegna per ore due scatole l’una vicina all’altra. Deve accettare il mutamento e non ne sembra capace. Poi un pomeriggio Leo e Samu lo chiamano da fuori, lo invitano ad affacciarsi: hanno preparato per lui la scatola di tutte le scatole – gigantesca, piena di aquiloni, bandierine, colori e con le ruote!

Il gioco può riparare le ferite che nessuno ha inferto eppure Uto avverte benissimo. I tre bambini spingono l’incredibile “Mostro Creatura Scatola Cosa”, che chiamano MegaRobo, di nuovo su per la collina: fanno merenda, viaggiano attraverso incredibili avventure, semplicemente posizionando MegaRobo in modi diversi, sono felici, in una Samu-Leo-Utitudine, un ritmo a tre che finalmente piace a Uto.

“È nuovo. Ed è bello”. Dove si sta bene in due, andrà meglio in tre.E quanto sperimentano i bambini risuonerà in molti dei lettori come una nostalgia, uno di quei momenti in cui ci siamo approcciati a una nuova conoscenza con riluttanza e nessuno spirito collaborativo, convinti che sarebbe andato tutto storto… e invece l’altro ci ha sorpreso. Anzi, ci siamo sorpresi noi uscendo dalle nostre sicurezze, entrando in un nome nuovo, multiplo, un’attitudine alla spensieratezza che ha bisogno di scosse e novità per farsi forte.

Cosa succede però se l’altro non arriva dall’esterno, ma da dentro? Un sembiante infantile, per esempio, che si allunga nell’ombra di una belva boschiva e tutto si sforma, si fa scuro e contrario. Virginia Wolf, la bambina con il lupo dentro, scritto da Kyo Maclear e illustrato da Isabelle Arsenault affronta il tema complesso della depressione quando si è bambini, la tristezza inguaribile che toglie colore al mondo. Il libro gioca con la vicenda e i nomi di due sorelle famose, la scrittrice Virginia Woolf, affetta da una forma nevrotica che la condusse al suicidio, e Vanessa Bell, la maggiore, nota pittrice. Così nella prima tavola possiamo riconoscere la stanza iconica della scrittrice nella sua abitazione a Rodmell, nel Sussex, ma qui sono due protagoniste bambine ad animarsi: una di giallo vestita, dall’abito al fiocco in testa, l’altra in ombra, che urla invece di parlare e le parole riempiono la pagina a lettere capitali, che ha un muso lupesco e due orecchie appuntite invece di un viso da bambina. Niente va come dovrebbe: “Un giorno mia sorella Virginia si è svegliata che aveva un lupo dentro. Faceva versi da lupo e si comportava in modo strano”, dice Vanessa, che, decisa ad aiutarla, prende coraggio, e, trovando un pertugio ancora libero dal buio, entra nella dimensione in bianco e nero della sorella. Va, insomma, a casa dell’altro, ribaltandosi e rischiando pure lei di perdere il senno. Una volta arrivata qui chiede a Virginia dove vorrebbe essere, se c’è un posto bello e libero dalla malattia dell’anima, e quel posto è “Bloomsberry”, che fiorisce dal pennello di Vanessa in bocci, rampicanti, rami, uccelli canori, caramelle. Anche Virginia prende i colori e arricchisce questo paesaggio dove la tristezza si ribalta a sua volta in allegria e sorellanza e… mentre il mondo torna al suo posto scopriamo che quelle orecchie da lupo non erano che un fiocco azzurro sulla testa della bambina! Andare verso l’altro, quando l’altro fa male, è prigioniero nel suo infinito spavento, richiede amore e inventiva. Richiede di non avere pregiudizi, essere curiosi perfino quando ciò che atterrisce non ha unghioni ritorti e fauci spalancate, ma è invisibile e quindi può essere ovunque.

Concludo questo viaggio con un classico inglese amatissimo, finalmente tradotto in italiano nel 2016 – Una tigre all’ora del tè, scritto e illustrato da Judith Kerr e pubblicato nell’originale nel 1968. Il libro vive di un fascino segreto e della semplicità della storia, che è difficile e perfino inopportuno piegare a una qualsiasi morale, come è in genere malsano fare con le opere dell’immaginazione quando essa va selvaggia, simile agli strani animali incontrati fin qui. Sophie e la mamma si preparano a prendere tè con biscotti e pasticcini, quando il campanello suona. Sarà il lattaio? Il ragazzo delle consegne? Il babbo? Nessuno di questi normali soggetti: è una tigre “grande, grossa, pelosa e a strisce”, che educatamente chiede di unirsi al tè. Nessuno sbigottimento da parte di Sophie e della mamma, che accolgono la tigre come se fosse un ospite normale, solo che è l’appetito tigresco a essere straordinario: in breve la tigre dà fondo a tutto quanto trova di commestibile o di bevibile, dalle cibarie della dispensa all’acqua dei rubinetti, cosicché Sophie, quando la tigre saluta e si congeda, deve mettersi la camicia da notte saltando il bagno in vasca – speranza, in realtà, di molti bambini nell’ora serale. Per di più all’arrivo del padre non c’è niente da servire in tavola e l’uomo ha un’idea: andare a cena al ristorante! Un bel modo per terminare una giornata di quotidiana straordinarietà. Sarà davvero accaduto? O la tigre è una metafora, un’illusione condivisa? Judith Kerr fuga ogni dubbio prontamente: il giorno dopo, al supermercato, mamma e bambina acquistano un bel barattolo di Cibo per Tigri, perché.. non si sa mai, dovesse farsi di nuovo viva a scampanellare. “Ma da quel giorno nessuno l’ha più vista”, si conclude la storia. Una fiaba d’accoglienza – fare posto per chiunque viene -, un addio speciale all’infanzia, come una tigre che ha fame di tutto e che poi non c’è più e sarà stato vero? ci saremo stati davvero, mamma? certo, lo conferma questa Scatola della Sopravvivenza o di Cibo per Animali Ingombranti; un elogio della libertà e del caos; un inno all’inglesissima ora del tè –  la tigre è l’altro indecifrabile, ma è e resta soprattutto se stessa e suona una trombetta dispettosa, mentre noi chiudiamo il libro. L’altro è infine qualcosa o qualcuno che non si può imbrigliare. Ogni volta si trasforma, devasta, risana, ci assomiglia, ci fa scappare sotto le coperte, ci fa volare in una scatola con le ruote. Ogni volta che salta fuori dalle pagine dobbiamo ricominciare tutto daccapo, anche se il libro è vecchio, usurato, le illustrazioni sapute quasi a mente, il cuore già pieno della sua meraviglia.

 

una rete di storie STORIE DEL TRAUMA DEL TERREMOTO

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⇨ una rete di storie
STORIE DEL TRAUMA DEL TERREMOTO
Domenica 29 ottobre alle ore 10.30
Sala Ipogea
⇨ Mediateca Montanari di Fano [PU]
 

di Renata Morresi
Venerdì non è successo niente. Eravamo in classe, parlavamo di come si fanno le domande in inglese. C’erano le finestre aperte, si sentivano le ruspe e i camion lavorare lì accanto, dove sorgeranno le ‘casette’ per chi è sgombrato da Camerino quasi un anno fa. I ragazzi del quarto durante la prima ora scherzavano sul compito di filosofia, compito scritto, proprio come l’anno scorso nel giorno della scossa grossa – non sarà mica la prof che ce la tira, ecc.  Scherzavano un po’ per scaramanzia, un po’ per nervosismo. Un anno è lungo, e l’allerta dei primi tempi, quella che ci teneva pronti, mobilitati, solidali, si è trasformata in una specie di abitudine, una tensione cronica sempre sull’orlo del cortocircuito. Quasi nessuno di chi ha perso tutto l’ha ritrovato. Ma tutto è tanto da ritrovare, e nel frattempo siamo cambiati, è cambiata la nostra vita, siamo andati altrove, fatti altri progetti, e via così. Abbiamo scoperto delle cose: che una terra che si abita non è solo un luogo neutro, vuoto, e poi pieno e poi svuotato e poi riempito. Un luogo non è una scatola. E che persino uno dei luoghi più antropizzati d’Italia com’è questo si può rivelare poco pensato, vissuto acriticamente. La catastrofe ha questo potere: di mostrare come la questione non è tanto quella della lotta ‘contro la natura’, ma della costituzione di una comunità consapevole. Quella, insieme alle case, da ricostruire. Ci siamo rimessi a pensare, a litigare, a discutere, ma con tutte le facoltà politiche atrofizzate, con tutte le decisioni affidate altrove. Abbiamo scoperto persino di amarli i posti, solo ora, dopo averli usati fino all’estenuazione. E che sia nessuna regola che la pletora di regole a poco valgono senza la fiducia. Che persino ad amarlo un posto dobbiamo reimparare.
 
Un anno è lungo a vedere i militari che presidiano la zona rossa, le macerie e i detriti ancora sparsi sui sampietrini. Un anno è breve: venerdì non è successo niente di importante, ma a un tremolare dei vetri, a un sussulto fioco, i ragazzi si erano già infilati sotto i banchi, qualcuno di quelli rimasti sulla sedia era sbiancato, un altro si sentiva svenire. In brevi attimi siamo scivolati fuori, in silenzio, per lo più in fila indiana, qualcuno si teneva per mano. Poi fuori, al sole, dopo le telefonate di rito, hanno cominciato a cantare.
 
Domenica 29 ottobre, alle dieci e trenta alle mediateca di Fano ci ritroviamo a parlare con artiste, autrici, attivisti, poeti, di terremoto, dei suoi traumi, e dei nostri compiti.

 
Con Emanuela Baldi, Lidia Massari, Renata Morresi, Adelelmo Ruggieri, Anna Tellini
 
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Emanuela Baldi è un’artista che considera l’arte come uno strumento per promuovere lo sviluppo e la trasformazione sociale, valorizza le differenze e facilita lo scambio cross-culturale.  Esperta di dialogo interculturale, networking e dinamiche di gruppo nel settore pubblico e privato, idea progetti artistici per il dialogo tra le culture, conduce laboratori sulla condivisione di processi collettivi e iniziative “making together”. Utilizza la creatività manuale come mezzo di dialogo ed espressione collettiva, coinvolgendo persone di ogni età ed origine, accorciando le distanze tra i vari target sociali e  valorizzando l’espressione del singolo nel collettivo. Viaggiatrice e sperimentatrice ricerca continuamente nove collaborazioni e scambi con artisti e professionisti di altre discipline, poiché crede nella ricchezza delle differenze e della molteplicità di sguardi.
 
Lidia Massari, nata nel paese leopardiano circa mezzo secolo fa, si laurea con una tesi sperimentale sulla malattia d’amore nella poesia latina. Da allora vive tentando di insegnare lingue morte a giovani teste vive ideando curiosi esperimenti didattici, con risultati alterni. Accanita lettrice, fece voto di non tediare gli altri con i propri scritti, ma negli ultimi tempi sta venendo meno alla promessa. Fra le altre cose, collabora saltuariamente alla rivista “Artapartofcul(ure)” e gestisce due pagine Facebook che usa a mo’ di blog, “Diverso viaggiare” e “Cronache mesopotamiche”, quest’ultima dedicata al territorio maceratese duramente colpito dal recente terremoto.
 
Renata Morresi vive e lavora nel maceratese, si occupa di poesia, traduzione e letteratura anglo-americana. Sue poesie sono apparse in rivista (PoesiaSemicerchio, Il Caffè illustrato, Alfabeta2, Il nostro Lunedì, ecc.) e nelle raccolte Cuore comune (peQuod 2010), Bagnanti (Perrone 2013), La signora W. (Camera verde 2013). Nel 2014 ha vinto il premio Marazza per la prima traduzione italiana di Rachel Blau DuPlessis (Dieci bozze, Vydia 2012); nel 2015 ha ricevuto il premio del Ministero dei Beni Culturali per la traduzione di poeti americani moderni e post-moderni. Quest’anno ha scritto una serie di poesie, ancora inedite, che ha chiamato “anti-smismiche”, ispirate alle retoriche aberranti del post(?)-terremoto.
 
Adelelmo Ruggieri (1954) abita a Fermo, nelle Marche. Per peQuod ha pubblicato le raccolte di poesia: La Città lontana, 2003; Vieni presto domani, 2006; Semprevivi, 2009 e 2010. Del 2016 è il fascicolo Habitat. Le sue prose sparse sono raccolte nei libri Porta Marina – Il Poggio (peQuod, 2008); I tetti sono semplici a Sali (Capodarco Fermano Edizioni, 2012); Subito o domani. Non è la stessa cosa (Italic, 2013). Dal 2011 collabora al sito letterario “Le parole e le cose”.
 
Anna Tellini ha insegnato letteratura russa presso l’Università de L’Aquila, e considera sua somma fortuna l’essere stata allieva di Angelo Maria Ripellino. Si è occupata prevalentemente del Novecento, con una particolare predilezione per la tragica figura di Vs. E. Mejerchol’d, di cui ha curato l’edizione italiana de Il Revisore (Monteleone, 1997) e de Il ballo in maschera (Bulzoni, 2003). Dopo la distruzione della sua Facoltà ad opera del terremoto ha continuato l’insegnamento in posti di fortuna. Fa parte del Centro Antiviolenza per le donne de L’Aquila, che quest’anno festeggerà il suo decennale, e che, insieme alla rivista “Leggendaria” e altre associazioni della sua città nell’ottobre 2010 ha costituito il Comitato TerreMutate (www.laquiladonne.com), che ha organizzato nel maggio 2011 un grande incontro nazionale di variegate realtà femminili “perchè potessero vedere L’Aquila con uno sguardo diverso – lo sguardo delle donne, appunto -, creare una rete solidale e recare semi di ricostruzione e di rinascita, da gettare nella terra tutte insieme”.
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una rete di storie CALUMET VOLTAIRE cabaret letterario

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una rete di storie
CALUMET VOLTAIRE
cabaret letterario
Sabato 28 ottobre alle ore 21.00 après le buffet!
Mediateca Montanari di Fano [PU]
Sala Ipogea
 
Cose mai viste (le riviste)
di Francesco Forlani
Anni fa – molti anni fa – un noto intellettuale napoletano mi raccontò di come gli impresari che gestivano le serate di avanspettacolo al Salone Margherita avessero trovato un espediente pubblicitario per fare gola al pubblico- presumibilmente in gran parte di maschi- e attirare quanti più spettatori. Invece di mettere sulla locandina sei ballerine scrivevano dodici bellissime gambe. Dodici è più di sei, come confermeranno i fisici matematici tali il nostro indiano Antonello Sparzani, eppure, almeno in questo caso, può essere uguale a sei visto che per fare dodici gambe ci vogliono sei ballerine. Il piccolo aneddoto mi serve per condividere con voi una riflessione che mi faccio da anni – da molti anni- ovvero da quando ben quasi trent’anni fa sono caduto nell’incantesimo delle riviste. Poteva andarmi peggio in quella fine degli anni ottanta, tipo inciampare nell’eroina o peggio ancora nell’ultraliberalismo dei goldenboys, ma a occupare in modo ossessivo lo spazio mentale e del cuore dei miei desideri, ci sarebbero state solo riviste. A proposito di Nazione Indiana  tra noi redattori si è sempre detto che quella che a molti appariva come una debolezza- la mancanza di una gerarchia redazionale, di una parola d’ordine diktat condivisa da tutti, un’estetica e un pensiero unici e trionfanti – e perché no anche un po’ tronfi-  costituiva il punto più saldo e solido, insieme alla stima e all’amicizia che hanno reso il nostro sito longevo e vivace. Eppure uno degli elementi che ci accomuna va a mio avviso identificato in quella parola di cui si diceva all’inizio: le riviste. La maggior parte di noi si è formato sulle riviste e per alcuni addirittura nelle stesse, come è stato prima il caso di Baldus, poi  Paso Doble, Sud, Alfabeta e l’Atelier du Roman. L’elenco va chiaramente completato ed è proprio questo che chiederò agli altri collaboratori o lettori di Nazione Indiana: segnalate nei commenti la rivista in cui vi siete formati. Ma formati a cosa? ci si potrebbe chiedere. A stare con gli altri? A crescere insieme? A farsi le ossa? A scoprire da subito che la qualità letteraria non va affatto a braccetto con “l’argent”? Che non si è pagati per fare cultura ma appagati dal desiderio di farne parte? Che il conflitto può essere foriero di scoperte e non solo di spaccature? O più semplicemente si impara con le riviste che le cose possono finire e ricominciare, che nulla è più duraturo dell’effimero. Ma tornando da dove eravamo partiti, ovvero dalle dodici bellissime gambe, una cosa mi ha sempre incuriosito, come strani misteri che ci si porta dietro dall’adolescenza ed è il fatto che un numero di avanspettacolo e quello di un dossier monografico portassero lo stesso nome: rivista!! La risposta è semplice. Entrambe portano lo stesso nome perché le caratterizza la periodicità, il suo ripetersi almeno nella cornice che ospita contenuti diversi. In realtà anche altro, ancora più essenziale, unisce queste due rappresentazioni, ed è il loro mettere insieme generi  diversi, gusti differenti, proponendo una mescla di alto e basso, elitario e popolare. Avanspettacolo e avanguardia hanno calcato per decenni  lo stesso palco a cominciare dalla grande lezione di Tzara e Compagni, inventori di quel Cabaret Voltaire a cui è ispirato il titolo delle nostra serata. Ci saranno performance, musica improvvisata, reading, convivialità, conversations, preferendo questo termine, civile, a quello di dibattito generalmente stantio come l’acqua nelle caraffe posate sul tavolo dei relatori. Le feste di Nazione Indiana sono state e saranno questo. A Fano faremo come a Milano, Mesagne, Pistoia, Torino, Parigi, Fos’di Novo, Bolzano, dunque non mancate.
 

 

Enfin! Ventiquattro bellissime mani
[ dieci magnifiche penne ]
il 28 e 29 ottobre a Fano!

 
P.S. Rivista è anche termine militare, nel senso di passare in rivista le truppe  e infatti non è un caso che le stesse si definiscano in molti casi proprio in questa accezione: riviste militanti. Ma questa è un’altra storia.
 
ConMariasole Ariot, ⇨ Gianni Biondillo, ⇨ Francesco Forlani, ⇨ Helena Janeczek, ⇨ Renata Morresi, ⇨ Orsola Puecher, ⇨ Jan Reister, ⇨ Giacomo Sartori, ⇨ Antonio Sparzani, ⇨ Maria Luisa Venuta [improvvisazioni musicali di Ettore Mazzoli e Fabio Strinati]
 
ETTORE MAZZOLI E’ nato ad Urbino nel 1994. Il suo percorso musicale è iniziato a con l’approccio da autodidatta prima alla chitarra e poi al basso elettrico. Nel 2009 si è iscritto al Conservatorio Rossini di Pesaro in strumenti a percussione per poi passare nel 2012 al corso preaccademico di basso elettrico jazz. Dopo la maturità classica, conseguita presso il liceo Nolfi di Fano, ha intrapreso il corso di laurea triennale di basso elettrico che ha portato a termine nel 2016 sempre presso il Conservatorio di Pesaro. Attualmente è iscritto al secondo anno del biennio di arrangiamento e direzione d’orchestra jazz. In contemporanea frequenta il corso di laura magistrale in filosofia dell’informazione all’Università di Urbino.
 
FABIO STRINATI (poeta, scrittore, aforista, compositore) nasce a San Severino Marche il 19/01/1983 e vive ad Esanatoglia, un paesino della provincia di Macerata nelle Marche.Molto importante per la sua formazione, l’incontro con il pianista Fabrizio Ottaviucci. Ottaviucci è conosciuto soprattutto per la sua attività di interprete della musica contemporanea, per le sue prestigiose e durature collaborazioni con maestri del calibro di Markus Stockhausen e Stefano Scodanibbio, per le sue interpretazioni di Scelsi, Stockhausen, Cage, Riley e molti altri ancora. Partecipa a diverse edizioni di “Itinerari D’Ascolto”, manifestazione di musica contemporanea organizzata da Fabrizio Ottaviucci, come interprete e compositore. Strinati è presente in diverse riviste, antologie letterarie e pubblicazioni.
 

Cronache mesopotamiche

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di Lidia Massari

Forse i paesi collinari si assomigliano tutti, non so. Io questi conosco, per esserci stata deposta, per caso, alcuni decenni fa; “per caso”, nel senso che i miei giovani genitori, che vivevano altrove, al mio apparire pensarono che sarebbe stato un bene piantare le tende al paese di origine di uno dei due, Recanati, appunto, senza in realtà aver ben chiaro il loro futuro, credo. (Da qui nessuno di noi si è più mosso).

Dicevo: sembra facile, la geografia, con tutti quei fiumiciattoli paralleli. E invece no: ogni collina sembra un pallone pieno d’acqua, fai un buco e sgorga una fonte. Le colline sono solcate da rigagnoli (fossi) che appaiono e scompaiono, formano avvallamenti, diventano pericolosi come torrenti quando piove tanto. Per arrivare a Recanati da Macerata c’è un ponte sopra un fantomatico (perché l’acqua non c’è) “fosso Rica’”: che tutti noi da bravi bambini traducevamo in buon italiano “fosso dei cani”, e che invece ha a che fare con l’antico toponimo di qui, “Ricale”. Ne parla pure Leopardi. No, non “quello”, che tutti qui chiamano Giacomo, ma suo padre Monaldo [1].

Dicevo: in linea d’aria i paesetti collinari all’intorno sembrano a portata di mano, di fatto inerpicarsi su per i colli rende ogni vetta una conquista: le strade o sono dritte, brevi e con pendenze alpine, o procedono a zig zag, contorcendosi come serpenti e rendendo distanze minime (apparentemente), lunghissime. Quando nevica (e nevica tutti gli inverni) e le strade sono ghiacciate, capita di rimanere isolati. I paesetti tanto carini si stanno svuotando: molto più comoda la costa, ampi parcheggi, mega centri commerciali, autostrada. Insomma: il paese è bello, ma non ci vivrei.

Le strade che seguono i corsi d’acqua, dalla costa all’interno, sono battutissime oggi, come lo erano un tempo. Come la regina delle strade, la strada Regina, bellissima storpiatura: il nome deriva da “Rècina”, Helvia Rècina, la città romana che sorgeva ai piedi della collina dove oggi su cui oggi è distesa Macerata. Fiume, strada: e in fondo, sul mare, Potentia, fondata nel 184 a.C. Per dare terre coltivabili a chi aveva combattuto la seconda guerra punica. A proposito, Potentia nel 56 a.C. fu squassata da un tremendo terremoto, e fece fatica a riprendersi. Tanto per non dimenticare.

Poi ci sono strade, anch’esse antichissime, che servono per andare al di là. Le strade che valicano, e i paesi che fanno da sentinella. Siccome, come si è capito, io descrivo quello che vedo dalla finestra, per me la sentinella naturale verso l’altra valle è Montelupone, a guardia della mia Mesopotamia, e custode della Mesopotamia sorella, quella fra il Potenza e il Chienti.

Una strada antica è quella che congiunge Montelupone con San Claudio. C’è un posto magico, da quelle parti, fai cento metri e ti si apre ora la valle del Potenza, ora quella del Chienti, e tu sei lì, in alto, e vedi tutto, dal Conero fino ai monti d’Abruzzo, nessuna casa, ma, però, un’orribile carrozzeria (cofani arrugginiti pneumatici e quel senso d’incuria delle vecchie officine). Questi posti proprio non hanno la vocazione al sublime.

Il Chienti è proprio un grande fiume (nell’ordine delle misure nostrane, si capisce, mica sto parlando del Po; comunque nelle Marche è il secondo), deturpato, violentato, antropizzato quasi selvaggiamente. La zona verso il mare è quella più ricca di insediamenti industriali (zona di scarpari). Il suo corso è bloccato e irregimentato da due dighe importanti (formano i laghi di Polverina e Caccamo). Riceve le acque di un piccolo corso d’acqua con due nomi Fiastrone/Fiastra: alla confluenza sorge un’abbazia famosa. Anche sul Fiastrone c’è una diga. Il punto in cui comincia il Chienti segna anche il confine con l’Umbria: Serravalle.

Inutile dire che anche lungo questo fiume corre una strada parallela, una strada di grande comunicazione il cui tratto più recente, che arriva a Foligno, è stato inaugurato da Renzi nel luglio del 2016. La violenza perpetrata sul fragile territorio dell’entroterra dal lungo serpente d’asfalto è stata già raccontata da altri [2].

Proprio passando per quelle strade, più di quarant’anni fa, papà ci portava sui monti. Lui, che era nato e cresciuto in città, che aveva passato le estati della dolce vita a Riccione, ma aveva conosciuto le Dolomiti, scopriva la bellezza e il mistero delle nostre montagne. E scopriva con meraviglia la ricchezza delle acque, gli spazi intatti, e il silenzio. E decideva di costruire lì il suo secondo nido, in un piccolo borgo di cui dovrò parlare (per quanto sia doloroso, oggi).

Non so se la mappa illustra a sufficienza le mie parole: noi che stiamo qui, invece, abbiamo chiarissima l’idea di tutto quello che il terremoto ha mandato in malora. Perché non è affatto sicuro che “tutto tornerà come prima”.

Io di questo vorrei parlare, ora forse si capisce meglio perché.

 

 

 

1.

Diario di una testimone – Fiastra, 2016-2017

 

5 settembre 2016

Torno in paese per la prima volta. Noto crepe che prima non c’erano, qualche pietra per terra, oggetti caduti. La chiesa, la ragione di esistere di questo borgo, sembra integra (era stata riaperta nel 2015 dopo il restauro post terremoto ’97), ma un’ordinanza dice che è inagibile, chiusa. È comparsa una tenda blu della protezione civile, ma non ci dorme nessuno, perché, come disse la vicina di casa, “se nun dovemo dormi’, almeno sto nel letto mio”. Tutto quasi normale, insomma. È andata bene, un po’ peggio che nel ’97, ma è andata.

 

17 novembre 2016

Mi ricordo la fuga in montagna, dopo due settimane dalle scosse terribili, due settimane di totale paralisi e paura di fronte alla distruzione che non ha ancora trovato degne parole. Le strade interrotte, le deportazioni degli abitanti. L’urgenza che ho sentito, impellente, di raccontare. E mi ricordo il pudore che mi ha impedito di scattare foto delle macerie del paese, e della chiesa. Conservo l’immagine di una delle case di legno (senza acqua né riscaldamento né servizi igienici) donate dal comune di Cesate. Lì dormiranno i miei vicini per tutto il gelido inverno 2016/2017.

 

8 marzo 2017

Non provo rimorso per non aver scattato foto, a novembre. Quelle di marzo sono identiche: tutto uguale, salvo qualche pietra in più per terra, qualche buco più largo, qualche muro più imbarcato. Quando arrivo quassù, dopo un mese e mezzo, le strade hanno ancora, ai lati, cumuli di neve (e nevischio scende dal cielo in una giornata livida e fredda). Sono quattro mesi che “Cronache” racconta, e l’obiettivo si fa un po’ più coraggioso, spia fra le crepe. Non l’obiettivo, ma l’occhio torna a guardare la chiesa, osserva con rispetto e sconforto quel che rimane della casa del prete, che ha perso il tetto e la parete laterale. La vista oscena di un letto, un tavolo, una scansia con dei libri. Una trapunta rossa che il tempo sta pian piano facendo sbiadire Non pubblico niente, mentre i media sparano immagini di neve-neveemacerie-lupivaganti-pecoresottolaneve senza che sul fronte dei decisori pubblici cambi una virgola. Tanto i terremotati stanno al mare, fa freddo, cosa si potrebbe fare? Pochi, pochissimi resistenti trascorrono l’invernata così, in condizioni inimmaginabili, arrangiandosi e nel silenzio, perché intanto, sciolta la neve, di pecore&macerie non importa più niente a nessuno. Passa così, nel nulla, una primavera lunghissima di attese e ritardi.

 

24 agosto 2017

Qualcosa si muove, in effetti. E qualcuno, anche. Per esempio, si sono mossi in tanti, durante l’estate, per venire qua a fare festa, o a discutere e tentare di fare comunità, come è accaduto con “Terreinmoto” o “Borgo Futuro”. Ci sono stati momenti in cui folla e allegria sembravano quelle di trent’anni fa, quando tutte le seconde case erano piene di villeggianti. Nel prato dietro casa sono comparse due enormi tensostrutture, finalmente: una stalla e un deposito di fieno, già pieno fino in cima. La stalla è vuota: le bestie stanno sul Ragnolo al pascolo (e al fresco). Hanno passato l’inverno scorso in una stalla inagibile e rischio crollo perché non c’era un’alternativa. Ora andrà meglio. Qui, tra Fiastra e Acquacanina (fusi da gennaio in un unico comune) sono due le aree già urbanizzate in cui i lavori per le abitazione d’emergenza sono a buon punto. A Fiastra le prime case sono state consegnate il 23 agosto, e già nelle settimane precedenti era stata completata la piccola area commerciale nella parte alta del paese. Il sindaco ha annunciato il restauro di San Paolo e San Lorenzo, due delle chiese storiche. Dell’Abbazia di Santa Maria di Meriggio, e di altri monumenti di qui, non si parla ancora. Come non si parla -perché è tutto vago e fumoso- dei tempi di recupero di prime e seconde case, come torna incerta l’apertura della scuola di Fiastra, visto che le indagini geologiche pare che non siano incoraggianti. E intanto i cronisti che il 24 sono tornati qui continuano a parlare di “casette” e ricostruzione come se fossero sinonimi, come se la consegna dei villaggi SAE fosse la pietra tombale che chiude questa storia di gente “rancorosa” [3].

Sul sagrato della chiesa in dieci minuti si fermano due macchine: gente che scende, fa le foto alle macerie, e se ne va. Forse non è solo turismo macabro, forse è un bene che si cominci a guardare. Forse. Il nastro biancorosso che circondava la chiesa si è sciolto. Ci sono rifiuti, e un vago odore di urina. Qualcuno ha lasciato sotto l’arco della porta una bottiglia di birra.

 

Ottobre 2017, a quasi un anno dalle scosse tremende.

Consegnano SAE col contagocce, ma le inaugurazioni fanno molto rumore. Ne mancano due terzi: più di duemila case provvisorie da consegnare, e la Corte dei Conti che comincia a invocare chiarezza, e ditte costrette a lavorare 14 ore al giorno, e operai sfruttati in subbuglio. Perché le colpe dei politici ricadono, come sempre, sui soggetti più deboli. È cambiato il commissario straordinario, a settembre, ma quasi nulla è cambiato, nemmeno fossimo a Donnafugata. Sono cambiate le persone, le persone hanno cambiato luoghi e abitudini, nel frattempo. Siamo cambiati noi che raccontiamo. Non è venuta meno la voglia di testimoniare, con onestà, e con ostinazione.

 

[…]

 

 

Note

[1] Monaldo Leopardi, Serie dei vescovi di Recanati, con alcune brevi notizie della città e della chiesa di Recanati raccolte dal conte Monaldo Leopardi, Recanati, 1828

[2] Loredana Lipperini, Questo trenino a molla che si chiama il cuore. La Val di Chienti, le Marche, lungo i confini, Laterza 2014

[3] http://www.cronachemaceratesi.it/2017/07/06/symbola-stringe-sulla-ricostruzione-nellarcipelago-del-sisma-carancini-servono-leggi-chiare/984502/