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Un ronzio devastante e altre cose blu – Gianluca Garrapa

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  Anteprima della raccolta di racconti di Gianluca Garrapa 

copertina

 

La città dove non si drogavano più

 

Il fatto è che in tutte le città, grandi o piccole, ordinate o disordinate, sporche e caotiche o pulite come, e pacate come, piccole per quanto metropolitane e arretrate come, o immense e vivibili per quanto festaiole al massimo grado come, maleducate come una qualsiasi città della e puzzolenti come può esserlo una città della, o cordiali come una qualsiasi città della e odorose come può capitare in, fredde e disumane come una qualsiasi città del o false e teatrali come una qualsiasi città del, insomma tutte le città hanno in comune una caratteristica, ormai non più piacevole come un tempo: la droga. Una volta, ai tempi dei giovani Mike e dei giovani David,

c’era il padre,

la madre quanto bastava

non c’era tanta omologazione

c’era meno diavoleria elettronica

si uccideva per e si salvava per

non c’era l’indifferente e nemmeno la raccolta indifferenziata

la droga, oggi, è anche cattiva, tagliata male, non serve a dilatare coscienze.

 

Fatto sta che in questa città non si drogava più nessuno, e una curva che avesse indicizzato l’andamento dell’abuso di alcoolici e droghe avrebbe picchiato verso lo zero assoluto… tanto che le discoteche non avevano più alcun senso, visto che l’ebbrezza e l’euforia drogareccia non distorcevano più il rumore discotecaro in musica; eppure, nonostanti questi radicali cambiamenti, la gente perbene, ipocrita, e finta tollerante, tale solo perché del tutto indifferente, morta dentro, insomma, quanto più la vedete splendida splendente all’esterno, firmata, elegante, alla moda (mio Dio, la gente vestita alla pagina, indossa lapidi e arroganza per far fronte alla propria e più totale insicurezza, ti spiattella questi visi freddi e acuminati come cunei per tener sollevate porte che altrimenti si chiuderebbero da sole come le loro anime lì lì in bilico per accartocciarsi su se stesse al minimo spiraglio di vento coscienziale,) insomma, questa gente alla moda, elegante, firmata come i porci con il tatuaggio dell’azienda agricola di provenienza, non si accorge nemmeno di questo rinsavimento generale, generico e per lo più giovanile.

 

Si deve al geniale Elgan Protosik, nome di finzione del signor Graziano Baldassarre, pseudonimo dello scrittore Baltasar Gracian, di questo signore, di cui niente sappiamo, dobbiamo a lui il mutamento dei costumi tale per cui si smise l’abuso di sostanze eclatanti e stupefacenti con tutte le conseguenze che ne derivarono, e che nell’immediato furono a dir poco sbalorditive, poiché da sempre auspicabili dal buoncostume delle famiglie e della comunità cittadina tutta. Però i centri di disintossicazione risentirono profondamente degli effetti della nuova rivoluzione tanto che dovettero chiudere i battenti e battersi per ripristinare il normale abuso di alcool e laudani vari. Diminuirono i ricoveri per epatiti ascrivibili all’abuso di coca, eroina, pasticche et cetera. Insomma, cari lettori e care lettrici, questa città divenne l’unica città in cui nessuno si drogava più e dove nessuno non si alcolizzava più.

 

Quando arrivò il tizio, lui, Protosik, cioè Gracian, cioè Graziano, si presentò come dott. Ludovico Giglioli. Tossicologo. Psicoterapeuta, esperto di pratiche orgoniche, strenuo difensore delle teorie bioenergetiche di Reich, al bisogno anche pranoterapeuta .

 

Si materializzò la mattina del 30 novembre 1996: quest’uomo dall’aspetto imponente e gentile, elegante e di grigio, viso ben disegnato, una tesa del cappello sulla fronte poco ampia ma nemmeno stretta, perfetta, naso greco, labbra morbide, carnose, gote rasate, non troppo pallide, occhi chiari, capelli biondo scuro, entrò nell’ufficio del direttore e gli presentò il suo Progetto orgonico per il recupero di tossicodipendenti e alcoolisti, dopo essersi seduto, la borsa di pelle nera sulle gambe, e dopo aver, prima di sedersi, tolto il soprabito, levato il cappello posandolo sulla borsa che era sulle gambe, sfoderato un sorriso bianco e cordiale, sottraendo la sua fisiognomica posturale a quanto di gelido e falsamente cortese potesse tradire l’insieme degli elementi della sua persona.

 

Prese a parlare con un’affabilità che affascinò entrambi, lui e anche il direttore. Lo straniero, tale appariva il Giglioli agli occhi succulenti del direttore, accompagnava le parole con gesti misurati e come annotati in punti strategici di un ideale pentagramma discorsivo, nessuna insicurezza interiore trapelava, grazie a una gesticolazione per nulla pleonastica: tipo affettare esageratamente l’aria con le mani, sbarrare gli occhi, storcere la bocca, corrugare la fronte e tutti i muscoli del viso per sottolineare, per convincere, per imbambolare l’interlocutore. Giglioli non doveva fregare nessuno: la sua idea avrebbe funzionato indipendentemente da ogni trucco retorico e mimico.

Fluido, una dizione perfetta, invisibile. Spiegò.

 

Il fatto precipitò. Sparirono i tossicodipendenti, sparirono tutte le droghe e gli alcoli, sparirono le strutture socio-sanitarie finalizzare al recupero. E la città divenne pulita.

 

Ma non molto tempo dopo, il moto orgonico che avrebbe dovuto salvare, come fece, la città dalle droghe e dagli alcoli devastò, ahi loro, boomerang, rivoltandoglisi contro, di nuovo la città. E la causa orgonica generò un’altra epidemia di problemi e dipendenze: pansessualità, promiscuità sessuale transgenerazionale, anche. Non si capì perché il Giglioli avesse proibito l’uso dei profilattici. Sicché il numero di nascite aumentò vertiginosamente e in proporzione aumentarono le morti per malattie a trasmissione sessuale mentre i decessi per overdose e cirrosi sparirono. Non si capì nemmeno perché il Giglioli avesse proibito che i malati compulsivi di sesso, di aids e di epatite, potessero curarsi. Molti pensarono, e tuttora restano dello stesso parere, che Giglioli, fosse solo un impostore patologico e malvagio, un imbroglione senza scrupoli, per il fatto, ovvio, che di lui, a un certo punto, si persero, inspiegabilmente, le tracce.

 


Gianluca Garrapa è counselor psicoanalitico, speaker radiofonico, poeta, scrittore, comico, performer, a volte descrittore visivo in collettive di pittura; scrive per Satisfiction; sue scomparse su vari siti web: Gammm, Compostx, Slowforward, Nazione Indiana, Critica Impura, Poetarum Silva, Verde Rivista, Fara poesia, Patrialetteratura, Larosainpiu, Il fatto quotidiano, Il sole24ore.

Da Curae e altre poesie

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di Antonio Perrone

Da Curae

Contravvenuto

Eri il cambiamento necessario
quello inatteso, e da me non voluto
non ricercato e perciò straordinario
insostenibile, contravvenuto.

* * *

Ciente

Tu tiene ciente nomme
e ciente mane e ciente
uocchie e ciente culure
‘e capille diverse.
Ciente vocche tu tiene
e ciente voce ‘e femmene
e ‘e mascule e ‘e creature,
ciente voce pe’ ddicere
ca ssì, ca nno, ca tiene
paura, ca me vuo bbene
ca sî ggelosa…
Ma i’ sulo na penna
pe’ scrivere sti ccose.

* * *

Anagramma

20 milligrammi di anafranil
tra la seconda e la terza di lorazepam.
Un ottavo di mirtazapina al riposo
per stare forti e sereni al mattino.
L’assenza ha il peso
di poco più di un grammo
di qualche medicina amara.
Stamattina ho scoperto
che l’anagramma di mirtazapina
contiene il nome Mara.

* * *
Cancellare

I mozziconi sporchi di rossetto
che le morbide mani riponevano
semispente sui tavoli del bar
in vitrei posaceneri.
Gli scuri occhiali da sole intarsiati
che portavi sul naso sbarazzina
a copertura dei grandi occhi chiari
nei quali si leggeva ogni pensiero.
E poi i silenzi, i tuoi lunghi silenzi
improvvisi, giganti, imprevedibili
durante i quali mi guardavi
e mi prendevi la mano impaurita.
Sono queste le cose, mia rosa,
che non saprò mai più cancellare.

* * *

M.a.M

Occhi neri, occhi rari come perle
imbrunite dal sale, dalla sabbia,
nane brune che il fuoco delle stelle
che un tempo erano soli rossi e arancio
ha spento inesorabile. Occhi neri
che adesso sono i miei, dentro l’azzurro,
dentro il violaceo delle occhiaie stanche
dentro il bianco dei miei ricordi persi
nella neve che copre la memoria.
Occhi candidi, occhi sporchi, occhi
persi, i tuoi, come i miei, nel passato
nel tempo ch’era nostro e adesso è mio
e tuo, e suo, e loro. Occhi di pece
di petrolio, oro nero, occhi di lutto
e di amore sottratto alla cinèrea
polvere. Occhi di carbone, d’ebano
occhi d’inchiostro, stasera, Michele.
Occhi i tuoi come il buio delle sere
che passo in silenzio, nel silenzio
delle cose gridate, che il cuore
non sente e gli orecchi non vedono
e gli occhi, i tuoi, Michele, i tuoi occhi
accesi come perle e rari come
stelle e innevati come il petrolio
e fumanti come l’inchiostro, e spenti
come l’azzurro dei miei anni.

* * *

Da Sonetti

Verba volant

verba volant
scripta manent
etsi volant
tamen manent
scripta volant
verba manent
semper volant
nempe manent
sunt qui dicunt
falsum esse
etiam dicunt
dubium esse
alii dicunt
certum esse

I poeti appartati: Olga Campofreda

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Charity Shop- Gaetan Bernede
Charity Shop- Gaetan Bernede

Second Hand Shop

 

Hai tirato fuori dal cassetto

un paio di vecchie promesse

sgualcite

e con un gesto

che mi è sembrato bello

mi hai coperto le spalle

Città dei porci. Il supermercato

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cittadeiporci3

di Davide Orecchio

(La supercarne più rossa del rosso. Più sanguinosa di una vena recisa. Più tenera di un boccone di petali. Più nutriente di tre pasti completi. La mangiano gli uomini. Ai maiali, invece, disgusta ← la sua morbidezza, la sua fragranza. Il maiale rifiuta pancarnis.)

[…]

Sul marmo dei padroni e nel cartongesso dei servi. Dov’è la conurbazione degli avi e dei posteri. Nel solco dei padri e sulla calce dei figli. Un maiale si sveglia, riprende coscienza, scioglie le cispe, si ritrova in un parco urbano che sbocca, al di là di un rondò, sull’asfalto ed è tornato in città, e dalla calotta ne riconosce il diorama e le sopravie.

Apre lo sportello dell’ignipotens e mette piede sull’erba che non è la vegetazione di ieri, ora è domestica, sintetica per la microvita della macrocittà e che disastro, o forse fortuna, potrei tornare a casa, riposare un poco, chiarirmi le idee, ma come la trovo?, dove mi trovo? ← pensa Felix e scorge un edificio al di là della siepe, della strada, e vuole raggiungerlo.

S’incammina per la callaia, esce dal parco, corre sul mucchioselvaggio ma non rintraccia nessuno. La città ha zone spurie di transito tra industria e servizi che sono intervalli, che se fossero un uomo non ne troveresti il carattere, che se fossero un libro diresti: non hanno carattere. L’edificio che Felix puntava non ha carattere → il magazzino impiombato e chiuso da chissà quanto tempo; le finestre sigillate da scuri che perdono farina di legno. Non c’è nulla. E nessuno. Non c’è lavoro, non c’è voce, non c’è produzione.

Passa oltre sul mucchioselvaggio tra decine di palazzi così. Qualcosa o qualcuno incontrerò, prima o poi, ma forse è meglio di no e si scoraggia, già debole per la denutrizione, avvilito mentre le forze l’abbandonano, scoraggiato dal fatto che ogni cosa o persona si sbricioli e dissipi mentre già entra in una strada stretta, e sulle finestre dei fabbricati si ripercuote il buio di stanze deserte, non c’è vita e morte neppure, i pluviali sono secchi: dove crescono ragnatele e si riparano i topi e le blatte.

Di chiavica in chiavica, di chiusino in caditoia Felix procede tristissimo. Traspira grasso dal grugno, il sudore delle fatiche subite e che insozzano. Portoni di piombo o alluminio. Ferrocemento, gesso. Neanche il passaggio di un extracarrus. Senza tempra, senza curiosità, si muove a caso, non sa dove andare, eppure cammina. La casa vuota è lui, la strada sgombera è lui, autore del cammino nella scopatura del quartiere tra le cui immondizie c’è ancora lui che trova se stesso con la rotta, il sogno, le anime perse.

Nella coda del topo vede se stesso. Nella poltiglia vede se stesso. Nell’angolo ceneroso. Nei serrami orlati di sudicio. Nella minestra di selci e brecciame. Lo sconforta la chiazza di urina asciugata. In ogni cosa storta suona l’allarme del suo fallimento. Incontra il vetro rotto e va con meno muscoli e ossa, quasi per l’inerzia della sua storia, come se gli bastasse strisciare. Al vecchio si rompe il femore e s’accontenta di stare seduto, e accetta il decubito come forma di vita. Al cieco è sufficiente l’ascolto e ci si aggrappa. Al porco non resta che il viaggio, la necrosi del viaggio, il tormento del viaggio, il dovere del viaggio in cancrena. Così Felix passa sfiorando ed è sfocato, e non sa dove va.

Sta perdendo il desiderio di farcela. Ora s’accorge che laggiù, a tre incroci da qui, due normoarto istruiscono porci, s’imbatte in daffare. Ma li guarda come si guarda la nebbia, il proprio sonno. E non li raggiunge. Cerca aiuto ma non chiede aiuto. Preferisce dondolarsi nel prospetto d’asfalto. Tiene gli occhi rauchi sulle zampe e prende una strada ancora più stretta e riscuote giusto un chiassuolo che gli offre dove incespicare. È buio, angusto, lurido. Il vento s’incanala e solleva carta straccia, pellicole di plastica, piume, peli come se li risvegliasse ma poi, quando si ritrae, finisce col posarli e cullarli. Tra poco il vento tornerà per il circo.

Si potrebbe immaginare un budello il cui compito non sia lasciar scorrere ma trattenere, e in quest’entrame a cielo aperto, ma scortato a destra e sinistra dalle pareti alte di palazzi senza colore, installare il cammino di un maiale tra le aderenze. Si potrebbe paragonare a un rantolo l’itinerario e volgere lo sguardo per non vedere le zampe umiliate da quello che pestano. Quanto pesti però esiste con la sua puzza e la materia che s’attacca e ti contamina, e ancora la cenere, il pulviscolo, lo sterco secco, la polvere avvizzita di aeternus, le mura che aumentano e incombono, il vomito di animali randagi, le piume di uccelli dissugati, ciascuna macchia con la sua origine organica, il dovere di avanzare ed esistere anch’esso come forma di esistenza, l’ostinazione del respirare come forma di esistenza cui nessuno tiene a parte te (la solitudine come forma di esistenza fragile), l’appetito e la nausea, lo sguardo e il ribrezzo, la debolezza e l’inerzia → tutto esiste sommandosi nel porco, finché appare una fessura nel muro che chiude l’approdo del vicolo, ossia il culo di sacco.

Un imbocco. Felix lo raggiunge e inizia a studiarlo. È aperto e consente il passaggio a chi si accoccoli sulle ginocchia. Nello studio della cosa Felix un poco si sveglia, riprende curiosità e si domanda: cos’è questo buco?, sarà il caso di entrare? L’apertura getta caldo a vampate e rumore d’aria spinta da un meccanismo. Dentro è buio, ma s’intravede un tubo che potrebbe essere la conduttura di un’areazione. Accanto, per terra, c’è il sigillo che qualcuno ha scardinato. Poi Felix vede scarti di confezioni, scatolame svuotato, fagioli, foglie di rucola, pane secco, bottiglie, una latta di zucchero, barattoli di caffè, ossa posate su vaschette di polistirolo macchiate di sangue. Avanzi sparsi per terra ai piedi di un muro rosso, come digeriti ed evacuati. Sembrano i resti di un pasto e lui si accovaccia, infila la testa nel tubo, poi una mano avanti, poi un ginocchio, poi l’altra mano e l’altro ginocchio ed è entrato.

Ora striscia nel condotto nero. Gocce d’acqua, vapore al rovescio, gli cadono addosso. Scivola sulle pareti innaffiate. Urta una spalla. Ansima. Si rialza. L’aria turbina ed è il rumore dell’antro. Si graffia un po’ le ginocchia, le mani un po’, i gomiti, starnutisce nell’umido, penetra il caldo. Va all’incontrario nel ventre, dall’uscita verso l’ingresso. Ora c’è luce. Qualcosa di luce. Si vede che l’altro capo è vicino. Ma se c’è luce resta anche buio, ossia l’una definisce l’altro e il contrario. Ma è vero che la luce aumenta e il buio cala.

Non è lunga, la tubatura. È già finita. Felix è al cospetto di una grata di resina. Posa l’occhio sulle feritoie. C’è un bagliore e ancora luce, ormai la sorgente, in uno spazio bianco, pulito, attorniato da scaffali bianchi colmi di merce che Felix, lontano, non riconosce. Ma dev’essere cibo. Ma dev’essere un forum. Dei normoarto. È la strategia. I magazzini del cibo allignano nei distretti della desolazione, antifecondano pericoli, assalti, proteggono il cibo sui nastri automatici ← robot smistano gli ordini verso i funghi, verso le orchidee; i porci non frequentano i forum, ai porci la pancarnis non interessa, i forum sono vietati ai porci ma Felix, disordinato dalle coincidenze, imbrogliato da enigmi, disanimato dagli accidenti, convinto di essere un naufrago vuole verificare, vuole sapere e decide di entrare e stacca la grata (alla rete della città la grata comunica che Felix sta entrando), volge il corpo, afferra il muro, cala le zampe, le poggia sullo scaffale più alto, poi sul penultimo, poi sul terzultimo intanto aggrappandosi all’ultimo, insomma viene giù finché atterra e subito corre a nascondersi in un angolo, così che i robot non lo vedano.

Nella corsia dei viveri. È tutto bianco. Anche le confezioni. È una gondola lunga, bianca, colma di ripiani carichi di merce impacchettata nel bianco. Felix poggia le spalle su una scaffalatura. Ha fame, ma non sa che mangiare. Non vede l’erba e le ghiande fra la mercanzia, tra le scorte di viveri, bevande, piatti pronti, biscotti, etichette, il marzapane, il leccume, le pappe e tutto il bendidio, cibo in scatola, in polvere, imbustinato, surgelato, precotto, macrobiotico, le vitamine, le proteine. Ma non vede l’erba e le ghiande. Suppone l’assortimento di pseudocarni, pseudopesci e molluschi → simulacri per il desiderio polifagico, normoarto di ingurgitare creature che volassero, pascolassero, nuotassero. Immagina il ristucco, la sazietà, la nausea e gli manca il fiato. Ha fame. Ma non vede l’erba e le ghiande. Anche il più innocuo dei pani potrebbe essere intruglio. Meglio astenersi.

Ma non sa cosa cerca, cos’è venuto a verificare. Nello spazio candido. Un montacarichi s’aziona e spaventa Felix. Teme il consumo e l’abbondanza che coglie nelle provviste. I forum dei grandifrogie non sono ricchi così. Tanto spreco lo disgusta anche. E cosa c’è dentro quelle buste, torna a chiedersi? Quale vivanda elaborata? Quali forme un tempo di vita e adesso di vitto? Espositori lunghi decine di metri, alti metri su metri, nel bianco. L’intensità della luce bianca gli dà l’emicrania. Nessuna finestra. La merce come deceduta, contenitore di ex pseudocreature raffinate in prodotti inerti e forse nutrienti o forse nocivi. Un cimitero di maschere. Una messinscena in forma di pacchetto e moltiplicazione di pacchetti: bianchi.

Felix capisce il segreto di questi luoghi: è che lo disgustano, non sono adatti al suo sguardo. Ma non vede l’erba e le ghiande. Ma non sa cosa sia la pancarnis. Non l’ha mai voluto sapere, ma è l’ora di verificare e gli pare d’aver sbirciato un traguardo; è lontano e gli sembra la forma di un nastro, un punto dove la corsia finisce. Dall’altra parte invece, verso destra, non c’è nulla se non il limite della sua vista, il declino dello sguardo (non) oltre la nebbia degli scaffali e sotto l’accanimento della luce, nel bianco. Quindi lui striscia verso sinistra senza fiducia, senza coraggio, senza rumore.

Una cordigliera di prodotti immobili, se non per l’aria condizionata che solletica custodie e sposta pellicole, presiede al gattonare di Felix che si fa avanti con la cautela della testuggine e gli sembra che non debba finire più, mano sinistra e ginocchio destro, mano destra e ginocchio sinistro. Non s’alza, non si ferma né indietreggia, nello stile della testuggine → il posto è deserto. I robot lo ignorano. Di cosa ha paura? ← del sistema che intuisce appena. Paura e ostinazione: è un mescolo che lo costringe ad avanzare seppure acquattato, però senza arresti, al modo della testuggine. Ancora rumori: montacarichi, traslazioni non viste ma udite, consegne in partenza sui droni, forse una risata o un messaggio vocale l’intimoriscono e convincono a restare chino.

Eppure va avanti, mano e ginocchio, mano e ginocchio, finché arriva al nastro, che è un nastro di carni. È gonfio di rocchi, di fette e tocchetti. C’è un tagliere. C’è un tritarcarne. C’è un trinciapollo. C’è una mannaia. Cosce di pseudovitello e pseudotacchino. Quarti di bue sintetico sullo sfondo. Bistecche, fettine, lombi, fese e girelli. È pronto per il filetto, se qualcuno lo chiede; e per il macinato.

Felix alza il muso e si accorge, però, che è tutta uguale, la carne, cambia nella forma ma non nella sostanza che smaglia, più che rossa è arancione, lucida e fosforescente, affettata sulle vasche di maiolica dove l’hanno sdraiata. Forse non è nemmeno carne, ragiona Felix. E invece lo è. Quello che non è, è che non è pseudocarne. È carne, è supercarne, è pancarnis: lo spiega un display sulla testa del nastro e di Felix, che ora legge, appunto, “Pancarnis”, e la riconosce; poi il novero seguita nelle sottospecie della “pancarnis al sapore di pollo”, e della “pancarnis al sapore di abbacchio”, e della “pancarnis al sapore di tonno”. La carne camaleontica. Prende le forme desiderate. Dal desiderio. Sembra che si prostituisca. Grazie agli aromi, agli impianti genetici. È pronta a non essere nulla, pur di essere tutto. Che strane abitudini hanno gli uomini – (riflette Felix) – di mangiare cose che hanno il gusto, di altre cose, di non pretendere, il vero, ma per dettato, coscienza, lavoro sembra che sbagli, perché sul display l’elencazione prosegue finché si rivela la “pancarnis nel suo sapore”, “l’originale sapore della pancarnis, che viene dal maiale della città”, “fresco, del quinto anno”, “stagionato, in salame”.

.

“Che viene dal maiale

della città”.

 

Qui non ci sono

l’erba e le ghiande.

 

“Fresco, del quinto anno.

Stagionato, in salame”.

“Capocollo, biroldo, àrista, cotica e coppa, lardo e guanciale, spalla, nicchio, ventresca, pancetta, zampone, roventino, culatello, strutto” → nella città, sul marmo dei padroni e nel cartongesso dei servi, dov’è la conurbazione degli avi e dei posteri, nel solco dei padri e sulla calce dei figli ← il maiale si vende, il maiale si compra, il maiale si mangia e il maiale cade sul pavimento del forum, è steso, ha le spalle contro il pavimento del mondo, ha gli occhi bene aperti sul mondo, ha la bocca bene aperta per il mondo che entra nella vita nuova di Felix che era il maiale senza memoria, senza sapere, che è il porco il quale oggi vede → un ologramma sulla testa del nastro e della pancarnis, come a riprodurre pubblicità del Novecento, mostra una donna dentro la casa di un fungo di città alta, nella sua zona di alimentazione, che taglia una fetta da un insaccato non molto diverso da quelli del capanno del bifolco nel bosco, e la offre a suo figlio che se l’infila in bocca, l’assapora, la scioglie e dice buona! con gli occhi.

{ “L’originale sapore della pancarnis, che viene dal maiale della città”. }

I normoarto dicono buona con gli occhi mentre dal pavimento del mondo, rannicchiato tra quello e lo scaffale come uno che giochi a nascondino, sdraiato pancia a terra e la fronte sul braccio, Felix urla No!; Cos’è questa vita? – piange Felix –, che sta succedendo? E l’ologramma prosegue. Il prosciutto dalle mani della madre al palato del figlio. Le ghiottonerie. I volti felici. La buona educazione dei normoarto. Le frasi fatte. Il sapore di carne. Il sapore nuovo. La mortalità. La ferocia. Il potere. La cosmesi. L’ipocrisia. Il prezzo della carne. Non voglio guardare, non voglio sapere. La luce bianca Astroeclissi™. Il colore arancione che smaglia. La verità. Il gusto dell’uomo, la sua gola. Il condimento, la conserva. I grani di pepe tra i denti, le scorie di pelle. Il grasso. Il sale, la sete.

E si sente piangere. Si sente un lamento. Viene dal basso. Tradisce un grugnito. Un pianto che si nutre del lamento e cresce per autogenesi. Si gonfia. Si fomenta. Allora si muove un robot. Viene avanti dal nastro, si tiene al centro del corridoio. Guarda in basso. Dove il pianto aumenta. Il pianto si sfoga. È desolato e ascoltandosi s’affligge. È un pianto che stride ed erutta. Si ascolta, non trova nient’altro da ascoltare e perciò piange. La fronte sul braccio per non vedere. La pancia a terra. Le ginocchia fredde. Il moccio interrompe il respiro. Fiotti di gemiti dalla gola usata per respirare, che invece prorompe.

Il robot si china, vede il maiale. I denti, la polvere, le unghie. La verità. L’abbandono. Il derelitto sotto lo scaffale. La vita come un movimento dal passato che poi imbocca il culo di sacco. Il pianto ha solo il pianto. Mangia pianto, beve pianto, lo respira. Il pianto rifiuto. Il pianto in rivolta, senza la forza né la violenza. Il pianto si rannicchia e non vorrebbe esibirsi, ma scoppia la reazione dell’individuo dentro la natura del corpo (per uscirne e gridare pianto): col pianto. Così ogni singhiozzo e convulsione sfugge a un domatore sconfitto. È stato inutile acquattarsi. Senza effetto piangere tra il muro e lo scaffale. È superfluo nascondere gli occhi nel braccio. Ormai il pianto è pubblico. Il lamento del porco nel forum degli uomini tra pezzi di carne e il robot. Il pianto spettacolo.

Il robot continua a osservarlo: un maiale accucciato che piange in un forum, dove non dovrebbe essere ← riceve il comando di portarlo via. E il pianto, che ascoltava il comando, aumenta in un grido. Adesso viene una percussione dal corridoio gondola. Passi, tacchi robotici. Oggetti spostati. Impazienza. Cade qualcosa. Il pianto non smette. Ora cambia ritmo per la stanchezza di corde vocali e trachea. I gemiti rimbalzano tra le pause come polpette. Silenzio, polpetta gemito, silenzio, polpetta gemito. Il pianto di Felix rovista nel corpo di Felix. Corre nelle caverne in cerca di consenso: è giusto che io pianga e mi disperi?, trova consenso e riemerge per enunciare il suo pianto.

Piangendo, il pianto si spiega. Chiunque ascoltandolo capirebbe perché piange. Ma come posso parlare il suono del suo pianto? Tu riesci a sentirlo? Il dettato? I segni non emettono suoni. E io sono debole. Penso a un soldato sulla spiaggia di sangue, il corpo maciullato, la gamba divelta; prima gridava, ma ora s’è sfiatato e tra poco rantolerà. Il pianto protesta. I passi sono il galoppo di un branco e ora si fermano. Il branco è arrivato. Altri tre robot che s’aggiungono al primo. Due afferrano la zampa destra di Felix. Due la zampa sinistra. Lo tirano. Un maiale tappeto. Felix pensa solo al pianto. Rifiuta di mettersi in piedi. Rammollisce, non cammina. I robot lo issano per la schiena e lo portano in alto. Le mani di plastica come puntelli e materassi per Felix che ora sta a pancia in su vicino al soffitto. Nella luce, nel bianco, nel pianto.

Inizia la marcia. Verso l’uscita. Felix vivo e lagnoso ma trincerato dietro agli occhi e nel pianto. Trasportato in silenzio. L’unico suono è il suo pianto. Felix esanime se non per il pianto che cola sui pori della pelle e la irriga ed entra per le labbra nella bocca che respira e geme; anche sui robot ne cola un poco. Lambiscono merci. Sul corridoio lungo. Salame e bistecche colmano il suo (non) sguardo. Felix portato sul dorso. Le braccia scivolano, penzolano, sfiorano le spalle robot. Nelle zampe inerti si arrende. Le zampe denunciano la forza che gli è mancata. Non sono zampe. Chiamale mani. Gli zigomi rossi. Il sudore. Una smorfia lo modifica a tal punto da sembrare un ghigno e si somma al piagnisteo che, cantilenato, assomiglia a uno sfottò, a un’isteria, a un piantoriso. Invece non ride affatto. Piange il suo pianto.

Il torace palpita. Mica solo il cuore. Il ventre, il petto e i polmoni. La carotide. La mandibola. La processione come una lenta nuotata sul dorso nella corsia. Se ci fosse acqua a portarlo e una leggera corrente, e non i robot, allora piangerebbe l’acqua che lo sospinge. Il pianto sarebbe il suo fiume. Ma anche adesso non è diverso, visto che piange. Ghermito, il grugno puntato verso il soffitto, la testa calva e rosa che ha perso il cappello, le fauci insalivate, le unghie svenevoli, il verro si concentra su quanto lo spezza, sebbene lo pensi con riserbo e senza dirlo se non col pianto: sono solo, chi non lo sarebbe se scoprisse di stare al mondo per lavorare e poi un giorno essere mangiato?

Ed ecco l’uscita. La luce naturale. La sfocatura della città bassa. Scendono una rampa di scale. Ora Felix s’irrigidisce e sembra un cadavere. Apre gli occhi. Vede le guglie di città alta. I robot lo posano su un ignipotens. Salgono con lui due robot. L’ignipotens s’invola. A bordo, Felix spegne l’ascolto della memoria avariata e dei fatti di oggi e di ieri, rifiuta le rievocazioni e i traumi che ora sono orfani della mente (la madre adottiva) e della realtà (la madre naturale). La realtà è la madre naturale di ogni turbamento, ma la madre adottiva è la mente che alleva e tiene in vita il ricordo del dolore, un’altra forma di dolore, finché si fortifica ed è adulto. Succede però che la madre adottiva si consenta pause e rifiuti il ricordo, come adesso Felix lo esonera.

Parlerà e piangerà ancora, e denuncerà? Silenzio, il maiale riposa.

Parte 1: l’appartamento, la città
Parte 2: una gita in campagna

(Foto di copertina: Pig slavesDoctor Who; fonte: http://tardis.wikia.com/wiki/Pig_slave)

Vita di Alice/3

2

di Francesca Fiorletta

Lara vendeva appartamenti.
Fin da quando era piccola, aveva sognato di lavorare in un’agenzia immobiliare.
Si lasciava inebriare dall’odore di vernice e spazi vuoti che traspira dalle pareti disadorne dei caseggiati in periferia, s’eccitava al cospetto dei cantieri aperti delle palazzine che si ergono, poco a poco, sull’affaccio di parchi abbandonati e spoglie anse di fiume.

Ritratto critico di Edoardo Sanguineti. Prima parte

4

di Angelo Petrella

[Pubblico qui in tre momenti diversi un saggio di Angelo Petrella. Si tratta di un ritratto critico di Edoardo Sanguineti apparso nel 2005 sulla rivista Belfagor, n.359, pagg. 543-546. Questa è la prima puntata. La seconda è programmata per  l’8 marzo 2017 e la terza per il 15 marzo. L’immagine si riferisce ad una cartolina di Carol Rama inviata all’autore del saggio da Sanguineti.  B.C.]

1. “Triperuno”: l’avanguardia e il suo superamento

La prima raccolta poetica di Edoardo Sanguineti può ben essere accolta come metafora della personalità dell’autore: una pulsione anarchica distruttiva puntualmente corretta da un vigile razionalismo progettuale. Non a caso, la carriera accademica di Sanguineti comincia, grazie a Giovanni Getto, poco dopo la pubblicazione dell’opera prima Laborintus. A più riprese, proprio la partecipazione ai lavori della Neoavanguardia creerà complicazioni nel mondo universitario. Il percorso intellettuale sanguinetiano risponde in effetti a quest’esigenza ribelle e antagonista, ma da praticarsi attraversando e utilizzando l’istituzione, in tutti i campi. Lo testimonia, ad esempio, la sua militanza comunista di non iscritto al partito pur ricoprendo diversi incarichi politici, prima come consigliere comunale e poi come deputato al parlamento; il tentativo di chiusura con l’ermetismo teso a rivalutare la linea crepuscolare della lirica italiana; non ultima, l’ostentata proposta di un anti-canone nella celebre antologia Poesia italiana del Novecento.

Il nome di Sanguineti è indissolubilmente legato all’esperienza del Gruppo 63, di cui fu uno degli ideologi e promotori, sebbene la sua prima produzione poetica indichi la necessità di un rinnovamento senza ancora aver coscienza dei futuri esiti neoavanguardistici. Laborintus viene dato alle stampe nel 1956 per l’editore Magenta, grazie all’interessamento di Luciano Anceschi: le reazioni del pubblico saranno poche e non molto lusinghiere, almeno fino alla pubblicazione dell’antologia I Novissimi nel 1961 (Andrea Zanzotto parlò addirittura di «sincera trascrizione di un esaurimento nervoso»). Eppure, la prima raccolta sanguinetiana contiene elementi di grande novità non solo per la rottura con le linee dominanti della poesia italiana, ma anche per i modelli culturali e letterari europei a cui si riferisce. Gli anni Cinquanta sono anni in cui accanto al neorealismo in declino dominano la linea ermetica, quella montaliana e quella sabiana: Sanguineti vuole appunto chiudere con queste esperienze e, in definitiva, con la lirica, ovvero con il modello poetico per eccellenza della poesia borghese. Ma come metterlo in discussione? La via d’uscita è fornita dall’esempio delle avanguardie storiche, che rappresentano il punto massimo di contraddizione cui giunge la cultura borghese: solo attraversandole sarà possibile far esplodere dall’interno quelle contraddizioni e, con esse, il linguaggio tout court.

Questa tensione non è solo letteraria, ma innanzitutto culturale: al caos del mondo in preda alle trasformazioni sociali successive al dopoguerra corrisponde il caos linguistico e informale a cui tentare di dar forma. La sistematizzazione del disordine è la spinta propulsiva iniziale del progetto di Laborintus, che pure è consapevole dell’impossibilità di redimere il mondo attraverso il linguaggio: l’opera è tutta protesa verso la conquista di un significato assoluto, di una junghiana coincidentia oppositorum, di una palingenesi rivoluzionaria che viene però continuamente rimandata. Non resta che una realtà in frantumi, così come accadeva per gli autori del grande modernismo. Ma con una differenza fondamentale: se il frammento linguistico eliotiano serve a tentare di puntellare e sorreggere le rovine, se il plurilinguismo poundiano risponde alla tensione titanica di riassumere il mondo, il sanguinetiano «viaggio nell’inferno borghese serve solo a rivelare che nel suo orizzonte non si dà salvezza» (Romano Luperini 1981, 835). La frammentarietà di Laborintus comincia dalla materia dell’espressione e investe addirittura il piano visivo del segno linguistico: punteggiatura, numeri e disposizione grafica del testo appaiono esplodere e dilatarsi, quasi mossi da paura di annientamento. Il verso viene assemblato in modo asintattico, scardinando la regolarità in funzione di un ritmo tutto singhiozzante, ironico e corrosivo, ricco di figure del significante:

 

tu e tu mio spazioso corpo

di flogisto che ti alzi e ti materializzi nell’idea del nuoto

sistematica costruzione in ferro filamentoso lamentoso

lacuna lievitata in compagnia di una tenace tematica

 

Con Opus metricum (Rusconi e Paolazzi, 1961) Sanguineti ripubblica i testi di Laborintus assieme a quelli del nuovo ciclo Erotopaegnia. Questa seconda raccolta fa da contrappunto dialettico alla prima: la pulsione alla sublimazione diventa qui una descrizione eroicomica e grottesca di atti fisici ed erotici, dove ossessivamente ritornano temi inerenti alla nascita, alla penetrazione, alla maternità. Ciò che colpisce a una prima lettura è innanzitutto il recupero di un certo grado di narratività, dall’ictus molto reiterato, anche se continuamente frustrata da interruzioni. Questo movimento spezzato lascia intuire già quale sarà il percorso di ricerca successivo di Sanguineti: inserti, parentesi, finte esclamazioni, invocazioni, ricordi improvvisi e stralci di conversazione cercano di costruire un discorso comunicativo ma criticamente distanziato. In secondo luogo, nei testi di Erotopaegnia si nota un certo lirismo di stampo crepuscolare, ma abilmente camuffato dall’abbassamento ironico e dallo straniamento (questi sono gli anni in cui, d’altronde, Sanguineti lavora ad alcuni dei saggi che nel 1965 confluiranno in Tra liberty e crepuscolarismo). Quando però la lirica viene esibita esplicitamente e senza interruzioni, la poesia si trasforma in inno alla materialità dell’esistenza caricandosi di tensione oppositiva.

Nel 1964, sotto il titolo di Triperuno, Feltrinelli ripubblicherà le raccolte precedenti aggiungendovi il terzo ciclo di Purgatorio de l’Inferno: il titolo, tratto da una presunta e inedita opera di Giordano Bruno, allude a una tentativo di riscatto e di redenzione dal magma pullulante dell’esperienza umana e avanguardistica. Dopo aver toccato il fondo paludoso del linguaggio e della cultura borghese, alla ricerca insoddisfatta dell’utopia, è ora di «lasciarsi il fango alle spalle» e iniziare a ricostruire da capo la realtà. Cosa è accaduto rispetto alle prime due raccolte poetiche? Innanzitutto, il convegno di Palermo del 1963 ha decretato la nascita della Neoavanguardia: ed è singolare notare come la costituzione del Gruppo 63 sia cronologicamente posteriore al superamento sanguinetiano della fase anarchica e distruttiva. Nello stesso anno, infatti, Sanguineti pubblica sulla rivista Il Verri il saggio Per una nuova figurazione, celebrando il neofigurativismo dell’amico Enrico Baj e del gruppo dei pittori nucleari. Ci troviamo di fronte al compimento del progetto di trasformazione dell’avanguardia in arte da museo: il problema «era quello di capire quale tipo di comunicazione fosse possibile, una volta raggiunta la soglia del silenzio: abbandonare la scrittura o esplorare altre strade?» (Fabio Gambaro 1993, 79). Alla scelta rimbaudiana Sanguineti preferisce la seconda opzione, dedicandosi pertanto a sondare ogni terreno possibile a una rifondazione dello statuto iconico del linguaggio, anche se non realisticamente mimetico: la figurazione costituirà il terreno di partenza di tutte le successive vie di ricerca e sperimentazione.

Lo stile di Purgatorio de l’Inferno, pur ricco di interferenze, è infatti sostanzialmente comunicativo: le libere associazioni, la furia elencatoria o le continue incidentali non riescono a soffocare il discorso narrativo che si apre alla realtà attraverso scorci diaristici, a partire da situazioni personali, quotidiane o politiche. Da più parti, questo ottimismo è stato interpretato come falsa ricomposizione utopica della realtà attraverso la mitopoiesi: Alberto Asor Rosa, ad esempio, individuava in Purgatorio de l’Inferno una ricaduta nell’ideologia che rimanda messianicamente l’idea di rivoluzione e il confronto con i problemi concreti del presente (Asor Rosa 1973, 158-60). Questo tipo di giudizio riassume in verità troppo sbrigativamente la complessità di un’opera che si pone quesiti nuovi in un momento storico del tutto peculiare. La ricomposizione del mondo tramite la poesia non è mai appagata, ma è sempre motivo di tensione non soddisfatta: è un realismo non rispecchiato, dunque più brechtiano che lukacsiano. La mimesi, d’altronde, è bloccata sul nascere grazie al ricorso a un’atmosfera onirica, come a voler espandere e straniare la percezione della realtà: si ricordi che il 1963 è anche l’anno in cui Sanguineti dà alle stampe il romanzo Capriccio italiano e il testo teatrale Passaggio, per le musiche di Luciano Berio, in cui il sogno esercita un ruolo fondamentale. Diarismo, critica sociale ed onirismo costituiranno la matrice propria di tutta la poesia sanguinetiana almeno fino agli anni Novanta.

 

 

2. Figurazione e crepuscolarismo da “Wirrwarr” a “Postkarten”

 

La raccolta intitolata Wirrwarr (Feltrinelli, 1972), composta da T.A.T. e Reisebilder, viene data alle stampe dopo un lungo periodo di silenzio poetico. Negli anni successivi alla pubblicazione di Triperuno, infatti, Sanguineti ha dedicato molte delle sue energie alla stesura di saggi critici e teorici, di testi teatrali e di narrativa, nonché dell’antologia sulla poesia italiana. Eccezion fatta per le sette poesie di T.A.T., già pubblicate dall’editore Sommaruga nel 1968, il silenzio poetico è presto spiegato con il vuoto ideologico lasciato dall’esaurimento della spinta neoavanguardistica e sessantottesca: la condizione affatto incerta e provvisoria della poesia rende impossibile strappare indicazioni o ipotesi al futuro. Non a caso, il titolo tedesco della nuova raccolta può tradursi sia con il termine di «guazzabuglio» che con quello di «zibaldone», alludendo all’implicita dicotomia dell’opera che accosta l’arduo informalismo del primo ciclo al diarismo discorsivo del secondo.

T.A.T. sta per «Tests di appercezione tematica», ovvero le prove visive elaborate dallo psicologo Henry Murray: qui si assiste indubbiamente alla ripresa e all’esasperazione di quell’informalismo che si era manifestato già in Laborintus. La frattura tra segno e referente è decisamente consumata non solo al livello sintagmatico, ma addirittura al livello intraverbale. Il linguaggio è desemantizzato e tocca il limite di comprensibilità, testimoniando come unica verità l’impossibilità di significare univocamente. Già Walter Pedullà notava come i testi di T.A.T. servissero in qualche modo a «ibernare» l’esperienza della Neoavanguardia per tramandarne al futuro quanto v’era stato di più sconvolgente (Pedullà 1963, 563).

I cinquantuno componimenti di Reisebilder costituiscono invece il resoconto di un viaggio compiuto dall’autore tra Germania e Olanda nel 1971. Ciò che colpisce di questa raccolta è l’assoluto abbandono a un tono scorrevole e narrativo: le continue parentesi non creano più interferenza, sparisce quasi del tutto il plurilinguismo e le stesse citazioni variamente estratte da autori tedeschi hanno più la funzione appositiva che non quella straniante. Sanguineti porta avanti la linea diaristica ma svuotandola ormai delle tensioni che pure ancora riempivano Purgatorio de l’Inferno. In Reisebilder non c’è più nulla da distruggere o da difendere: il poeta si guarda nello specchio e riconosce nei propri lineamenti la perdita definitiva del ruolo intellettuale nella società post-sessantottesca. Non si dimentichi che nel 1971 esce Trasumanar e organizzar di Pier Paolo Pasolini, mentre tra il 1968 e il 1973 Zanzotto pubblica La beltà e Pasque, dove la polemica contro l’insufficienza della lingua si traduce in uno scioglimento del binomio significante/significato e nel tentativo di salvare il dicibile attraverso una lingua nuova e sperimentale. In Sanguineti, come si sa, il problema non si consuma tanto nel rapporto tra linguaggio e comunicazione, ma tra linguaggio e ideologia: finita l’epoca delle grandi utopie, Reisebilder decreta il fallimento del tentativo di riconciliare il linguaggio con la realtà, così come testimonia l’impossibilità di cantare tragicamente quel fallimento. L’unico modo di far poesia è in maniera abbassata, sottilmente ironica, quasi silenziosa. Sanguineti mostra di adottare la lezione crepuscolare (per altro ben sviscerata già nei saggi di Tra liberty e crepuscolarismo), ma abbassandone il registro polemico e temperando sia il patetismo radicale gozzaniano che la dissacrazione divertita palazzeschiana. Tutto è a posto così com’è, senza tragedia o pathos.

Postkarten (Feltrinelli, 1978) sembra poi sbloccare la situazione di stallo in cui era finita la poesia di Reisebilder, che ancora mostrava sensi di colpa per lo smarrimento di un’identità poetica: l’irrimediabilità della condizione prosastica della poesia viene ora adottata e introiettata quasi con gioia, al punto da lasciare spazio a situazioni anche comiche e grottesche. Il tono si fa decisamente colloquiale e la punteggiatura è ormai un mero strumento grafico per staccare i sintagmi l’uno dall’altro: ma, contemporaneamente, è insistente il ricorso sapiente a versi tradizionali anche se abilmente mascherati. Non si dà più alcuna condizione di rivolta e la parola poetica smitizzata e inutile sopravvive in un discorrere motteggiante, intellettuale e quasi precettistico, che galleggia sui frammenti del mondo, al punto da far rilevare a più d’un critico l’affinità col coevo Satura di Eugenio Montale. Sanguineti, attraverso il quotidiano, si libera dalla paura del vuoto ideologico dei primi anni Settanta e adotta un nuovo registro, alla ricerca di un’annullamento dell’identità finora avuta:

 

perché io sogno di sprofondarmi a testa prima,

ormai, dentro un assoluto anonimato (oggi, che ho perduto tutto, o quasi): (e

questo significa, credo, nel profondo, che io sogno assolutamente di morire,

questa volta, lo sai):

oggi il mio stile è non avere stile:

 

In questo senso Postkarten va letto come filiazione e dilatazione delle basi gettate nella raccolta precedente. Non è un caso che il volume feltrinelliano del 1975, intitolato Catamerone, includa l’intera produzione poetica di Triperuno e Wirrwarr: con questa operazione, Sanguineti suggella l’esperienza avanguardistica e a un tempo la gestazione di quella fase di trapasso post-sessantottesca. Reisebilder e Postkarten vanno letti come successiva progressione dialettica verso la distruzione dell’identità borghese del poeta, che verrà elaborata a partire dalle due raccolte successive.

 

[continua]


	            

L’uomo

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di Michele Cocchi

(incipit dal romanzo La cosa giusta, in uscita per Effigi).

Aprì gli occhi e si ritrovò al buio. L’aria odorava di pelo bagnato e di urina di cane. Nel silenzio, sdraiato sul fondo di calcestruzzo, sentiva la schiena intorpidita e la coscia dolergli. Allungò una mano al ginocchio, si palpò la stoffa dei pantaloni impregnata di liquido e si annusò le dita, riconoscendo l’essenza ferrosa del sangue. Alzò di poco la testa nel tentativo di vedere e la riabbassò sul pavimento; poi curvò la schiena, allungò un braccio e si toccò la ferita senza riuscire a valutarne la gravità. Il dolore, comunque, gli impediva di sollevare la gamba, così abbandonò la testa sul pavimento e iniziò a sudare.

Quando si svegliò, dopo un tempo imprecisabile, capì che non sarebbe morto dissanguato. Intorno a lui ogni cosa era ancora immersa nel buio. La gamba gli faceva male, ma di un dolore diverso, come di una lama che a intervalli regolari gli trafiggesse la carne appena sopra l’osso.

Si girò sulla pancia e cominciò a trascinarsi sul pavimento, cercando di non piegare il ginocchio ferito; sentiva le gambe indolenzite e la stoffa dei pantaloni appiccicata alla pelle. Non  riusciva a capire in quale punto del capannone si trovasse, e tantomeno che ore fossero. Era notte, di questo era sicuro, perché dalle finestrelle in alto non proveniva alcuna luce. Si fermò a riposare e a riprendere fiato, la fronte aderente al pavimento.

Quindi riprese a strisciare, puntando i gomiti e spingendo con le reni con tutta la forza che aveva. Quando si fermò, pochi metri più avanti, aveva il fiatone e si accorse che stava tremando per il freddo. Sforzò gli occhi e fissò la penombra in cerca di qualcosa per coprirsi, nonostante le forme intorno a lui continuassero ad apparirgli estranee. Allungò un braccio e tastò a destra e a sinistra, finché nella ricerca afferrò una latta vuota di olio per motori. La sollevò con rabbia e la lanciò lontano; ne ascoltò il tonfo metallico contro la parete di cemento.

Aveva ripreso a strisciare, ma la gamba gli mandava fitte così pungenti che fu costretto a fermarsi di nuovo; concentrò lo sguardo su un punto laterale e finalmente riconobbe il contorno di alcune ciotole impilate sul pavimento. Ampi anelli scuri che balzavano fuori dalla notte. Strisciò ancora, mantenendo la stessa direzione, finché la testa andò a cozzare contro il mobile addossato alla parete. Col cuore che gli batteva per lo sforzo, l’uomo si girò su un fianco e rimase immobile alcuni istanti, poi premette a terra le mani e si diede la spinta per mettersi seduto. Grugnì per il dolore, gli occhi gli si riempirono di lacrime. Digrignò i denti e riprese fiato, respirando a pieni polmoni, aspettando che le fitte alla gamba si placassero, mentre sentiva il rivolo caldo di sangue colargli sopra il ginocchio e scivolargli lungo il polpaccio. La testa che gli girava per la tensione. Con la schiena incollata agli sportelli scorrevoli, cercò tastoni la maniglia del mobile e fece scorrere l’anta dietro le spalle. Al tatto riconobbe i sacchi di cibo secco da cinque chili disposti sul primo scaffale e fece appena in tempo a voltare la testa di lato e vomitare. Si ripulì la bocca con la manica della camicia e si concentrò di nuovo sull’interno del mobile. Spostò il primo sacco e lo accompagnò a terra di fianco a lui, fece cadere sul piano metallico il secondo con un tonfo e lo trascinò fuori. Dopodiché fece la stessa cosa con il terzo e il quarto, le scosse alla gamba gli procuravano punture brucianti. Quando ebbe liberato la parte superiore dello scaffale, accompagnò lentamente la gamba ferita sopra uno dei sacchi distesi e si allungò all’interno del mobile cercando alla cieca la cassetta veterinaria. La trascinò sul pavimento e poi si spinse a rovistare in mezzo a vecchie mangiatoie e a ritagli di rete arrotolata. Annaspava e deglutiva e si gettava in avanti indifferente al dolore, con la testa protesa nello spazio angusto oltre lo sportello, bestemmiando e costringendosi a trattenere e respingere i conati di vomito. Aveva gettato a terra il sacchetto con gli spray antiparassitari, le spazzole e i guinzagli. Dentro un contenitore di plastica aveva riconosciuto le pile consumate e alcune lampadine tascabili e adesso provava diverse combinazioni, senza riuscire a vedere cosa stesse facendo, finché una luce si propagò intorno a lui. Per prima cosa puntò la lampadina all’altezza del ginocchio. Uno squarcio indicava chiaramente dove la lama era penetrata lacerando la stoffa e la carne. Sotto il circolo di luce la macchia di sangue rappreso appariva nera ed era impossibile distinguerne i bordi. L’uomo orientò la lampadina sulla cassetta e iniziò a frugarvi dentro: individuò il flacone dell’antidolorifico, ne svitò il tappo contagocce e lo riempì per tre volte spremendoselo sulla lingua. Dopodiché chiuse gli occhi, lasciò scivolare indietro la testa e premette la nuca sulla superficie fredda del mobile, attendendo che il farmaco facesse effetto, in uno stato tra il sonno e la veglia. Quando aprì gli occhi vide un vecchio di fronte a lui con una faccia sconvolta che lo guardava e provava a parlargli, ma l’uomo distinse soltanto un biascicare incomprensibile. Il vecchio allora si avvicinò brancolando e allargando la bocca, come per farsi sentire meglio, e l’uomo si accorse che al posto dei denti aveva vetri di bottiglia piantati nelle gengive. Si svegliò di soprassalto e tastò tutt’intorno il pavimento per ritrovare la lampadina. Il silenzio era immutato. Soltanto lo scroscio dell’acqua che scorreva nella gora dietro il capannone. Puntò la luce nel vuoto, facendo emergere dal buio le gabbie accatastate a una parete, i paletti di metallo per le recinzioni e gli attrezzi nell’angolo opposto. Cercò una posizione sufficientemente comoda, con la gamba ancora sollevata sul sacco di mangime e l’altra distesa sul pavimento. Dall’interno della cassetta prese un flacone di disinfettante, una confezione di garze sterili e una di bende. Incastrò la lampadina tra due sacchi di mangime così che il fascio puntasse diritto sulla gamba ferita. Con un paio di cesoie tagliò i pantaloni all’altezza della coscia e fece scorrere la stoffa fino agli scarponi. Il taglio era profondo poco più di un centimetro e piuttosto largo. La lama ricurva della roncola era affondata nella carne e uscita sopra il ginocchio sfiorandogli il femore. Si piegò in avanti e provò ad allargare i lembi della ferita; sentì una puntura propagarsi sotto la pelle e vide la carne aprirsi e sputare fuori un grumo di sangue. Puntò la lampadina nella direzione dell’ingresso, ma a malapena il fascio di luce raggiungeva le chiazze di gasolio sul pavimento pochi metri più avanti. Fissò a lungo lo sguardo dove supponeva dovesse esserci l’entrata del capannone. Rovistò ancora nella cassetta, utilizzò una delle garze per disinfettarsi le mani e una seconda per disinfettare la ferita. Tagliò due metri di bende e fece una fasciatura intorno al ginocchio: flettere la schiena in avanti risultava particolarmente difficile. Si era spremuto un altro contagocce di antidolorifico sulla lingua e aveva atteso di sentire la testa leggera per issarsi sulle braccia e mettersi in piedi. Grugnì, bestemmiò e si afferrò al secondo scaffale. Si fermò e aspettò che il dolore si acquietasse, con la testa tra le braccia e tenendosi in equilibrio sulla gamba sana. La fasciatura teneva e non gli sembrò esserci un’ulteriore perdita di sangue, soltanto, la gamba stava gonfiando e la sentiva pulsare sotto la benda. Spostò il fascio di luce e, sorreggendosi al mobile, camminò a passi laterali fino all’angolo del capannone dove teneva gli attrezzi.

Il fantasma orizzontale

2

di Anita Tania Giuga

«Il sistema familiare ha bisogno di ritrovare la pace, di chiudere le vicende in sospeso. L’onere passa ai nuovi arrivati, alle forze giovani del sistema, produce sintomi come i tuoi, segnali chiari e inconfutabili».

Alle due era finita la telefonata. Il telefono le era entrato in testa. Lo sentiva ancora pulsare tra il pensiero dei soldi e quello delle macchie. Stava proprio là, installato al centro di due frasi: un dolmen che separava a metà il cielo. Aveva parlato di costellazioni familiari con un maestro, esperto di astrologia evolutiva e libri del Cinquecento. Le aveva detto del fantasma orizzontale.

Le cinque giornate di Arthur Rimbaud

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di Angelo Tolomeo

19 ottobre 2015

Stamattina presto mi ha citofonato Rimbaud e mi ha detto che bisogna assolutamente essere moderni. Io non ho nemmeno aperto la porta perché so dove vuole andare a parare e soldi non gliene do.

Wittig e la lingua proibita

3

di Simonetta Spinelli

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Avevo chiesto a Simonetta Spinelli il permesso di pubblicare alcuni suoi articoli scritti diversi anni fa e già postati sul suo blog. Le avevo anche chiesto di scrivere una breve nota di accompagnamento per ogni intervento, raccontando in sintesi le circostanze della composizione e il contesto di discussione in cui si inseriva, e lei lo ha fatto finora, di questo le sono grata. Purtroppo Simonetta ci ha lasciato da alcuni giorni ormai. Altre – più vicine e con maggior cognizione di causa – sapranno dare alle sue riflessioni la risonanza e la continuità che meritano. Qui ci limitiamo a continuare a ritrasmetterla come un segnale radar. La scelta di ripubblicare questi testi in serie spero sia sempre evidente a chi legge: (non solo sono incredibilmente belli, ma) sono inattuali e perciò parlano al presente.

 

Gli altri articoli di Simonetta Spinelli su Nazione Indiana:

Passioni a confronto. Mario Mieli e le lesbiche femministe

Una donna lesbica femminista

Queering Wittig?

Pratiche lesbiche e vincoli ciechi

 

A Simonetta, indicibile cantora

Monique Wittig cantora dell’indicibile  (2003)* 

I cantori, da che mondo è mondo, hanno sempre avuto un destino stravagante. La loro testa tra le nuvole sembra a volte così ancorata alla terra che ascoltarli genera simultaneamente ammirazione e fastidio. Visionari, in una società di pazzi innamorati della loro follia, rappresentano l’eccesso imperdonabile, ciò che deborda dalle regole e non può essere costretto in argini razionali. I cantori sono rari e in genere finiscono male. Una volta tagliavano loro la lingua.

Le cantore sono ancora più rare. Difese nel loro confondersi in comunità di donne, considerate inessenziali, incapaci di turbare l’ordine, sono sopravvissute in una cultura orale di breve raggio. Quando il raggio delle loro storie si è allargato sono state eliminate in blocco, mescolate nelle categorie storicamente codificate del disordine. Categorie collettive: streghe, isteriche, puttane. Prima di cancellarle fisicamente la storia ne ha cancellato il nome e le parole, perché fosse impossibile la memoria. Con buona pace del mondo le cantore sono estinte.

O almeno così si credeva. Poi è arrivata Monique Wittig. Inequivocabilmente una cantora. Non una che scrive, ma una che rompe lo spazio chiuso delle convenzioni, costruendo il linguaggio non negoziabile della sua passione. Che non si limita a dire l’indicibile ma ne fa materia di canto, di orgoglio, di potenzialità di saperi e di espressione. Per questo, rispolverando un rituale sperimentato, le hanno tagliato la lingua.

Non è nata come cantora Wittig, ma già nel suo primo romanzo – L’Opoponax del 1964 (ed. it. Einaudi 1966) sono riscontrabili i segni della ricerca di senso che la porterà a diventare una presenza scomoda e scandalosa nella cultura contemporanea.  L’Opoponax rientra nei canoni dello sperimentalismo del nouveau roman, corrente letteraria anticipata da Nathalie Sarraute e successivamente teorizzata da Alain Robbe-Grillet, che tendeva a rivoluzionare la tecnica del romanzo, eliminando ogni annotazione psicologica dei personaggi per restituire l’immagine oggettivata di un mondo estraniato ed estraniante.

Nel romanzo Wittig mette in scena la vita quotidiana della comunità infantile che ruota intorno a una bambina. Vita quotidiana osservata come attraverso l’obiettivo imparziale di una macchina fotografica, in una cronologia lineare non interrotta da valutazioni moralistiche o descrizioni psicologiche. Persino il soggetto parlante è guardato da una distanza sottolineata dall’espediente linguistico che la individua attraverso dati anagrafici (Catherine Legrand) o per mezzo di un pronome impersonale (in francese on): “Catherine Legrand a letto si annoia, ci fa caldo e non può dormire”, “Catherine Legrand e Véronique Legrand mettono in ordine i giocattoli”. Per gli adulti che appaiono nel romanzo, come figure nello stesso tempo onnipresenti e di sfondo, quasi abitanti di una diversa dimensione, l’effetto di distanza è costruito attraverso l’ottica infantile che li identifica in un ruolo: “La suora lo mette solo in un banco”, “La Signorina sta conversando con una signora sulla porta della classe”, “La madre sta stendendo la biancheria in giardino”.

Il racconto oggettivato disancora luoghi, oggetti e persone dai parametri culturali consueti e li reinterpreta attraverso lo sguardo dell’infanzia non ancora deformato dalle sovrastrutture, in particolare dalla sovrastruttura di genere. Il soggetto bambina che guarda è incurante dei piani temporali e logici, dei rituali della vita collettiva adulta, che registra ma che non comprende – prende nota che alcune donne sono signore e altre signorine, ma non ha la minima idea del perché -, segue la sua curiosità non selettiva e mette insieme quello che vede, che sente, che immagina, in un unico blocco di conoscenza in cui non distingue ordini di priorità. Quando si imbatte in un evento nuovo – “Dice che Valerie Borge ha mani gambe viso d’un bruno lucente” – per il quale non trova parole nel linguaggio del quotidiano, passa automaticamente nella dimensione del magico, e inventa il personaggio mitico – l’Opoponax – che è nello stesso tempo figurazione di quello che prova e linguaggio per dirlo.

L’Opoponax è indefinito – né animale, né vegetale – senza contorni, come l’emozione colta in un attimo tra attività e osservazioni consuete, è spaventoso, infido, crudele, tenero, onnipotente. E’ gioco di seduzione che attira e respinge, è quanto deborda dal sistema delle regole e lo stravolge, è l’inaddomesticabile che nello spazio-tempo codificato costruisce il suo spazio di esistenza, uno spazio di passione. Così smisurato che può essere detto solo riassumendolo nel suo nome e apre a ogni scenario possibile.

La critica letteraria in Francia, distratta dalla portata innovativa strutturale e linguistica del romanzo, ha sottovalutato gli aspetti più politici di queste prime elaborazioni di Wittig. Le ha persino dato un premio letterario prestigioso (prix Médicis).  Poi ha osservato, con malcelato orrore, dalla scrittrice Wittig nascere la cantora di un’epopea che scava dal silenzio corpi e sogni celati e dà loro vita, forza, linguaggio. L’epopea di un soggetto collettivo tracotante, audace, inaudito: le Guerrigliere.

Le Guerrigliere del 1969 (ed.it. Autoproduzione delle Lesbacce Incolte, 1996) scardina drasticamente le convenzioni letterarie, linguistiche e della convivenza sociale. Preannunciando le critiche al sistema fallologocentrico, che il femminismo articolerà successivamente, mette in scena, senza mediazioni o edulcorazioni, il rapporto tra i sessi come una guerra di difesa cruenta e spietata in cui è in gioco per le donne la libertà di esistere, e quindi non prevede trattati ma solo la vita nella vittoria o la morte (fisica, morale, sociale) nella sconfitta.

La struttura del testo segue la cadenza del poema epico, nella ridondanza delle immagini, nel ritmo delle azioni che si sovrappongono e si inseguono, nella coralità delle rappresentazioni. Al presente dell’infanzia dell’ Opoponax si sostituisce il tempo circolare di un pensiero e di un linguaggio in perenne divenire, in cui il prima, il durante e il poi si intrecciano senza soluzioni di continuità. Al soggetto impersonale del primo romanzo si sostituisce il soggetto collettivo (elles) che scandisce tutte le pagine del testo, sfruttando l’obbligo della lingua francese alla ripetizione del soggetto del verbo (frettolosamente omesso nella traduzione italiana). Il soggetto universale maschile, che nella convenzione linguistica assorbe il plurale femminile rendendolo neutro, viene qui scalzato dalla martellante ripetizione del soggetto femminile identificato come unico titolare dell’azione (“Esse dicono che…) con un effetto travolgente di spaesamento culturale. L’espediente linguistico porta la collettività di donne guerriere in primo piano: “esse dicono… esse raccontano… esse combattono… esse cantano…” e decostruisce un soggetto passivo ricostruendolo come soggetto agente, in lotta, consapevole della propria forza: “Esse – guerrigliere, combattenti, autodefinite – dicono…”. Le donne cancellate dalla storia diventano il soggetto incancellabile della storia.

Agente è il soggetto collettivo – le Guerrigliere – ma Wittig sottolinea come questo corpo sociale in divenire sia costruito da corpi, pensiero, determinazione che hanno i mille nomi delle innumerevoli donne che lo compongono, che lo fondano. Così la storia corale viene interrotta continuamente da pagine di elenchi di nomi: nomi antichi, di divinità, di poete, di artiste, nomi della tradizione, nomi moderni, nomi…”ciò che le designa come l’occhio dei ciclopi…”. Sono tante le Guerrigliere e ognuna di loro è una singolarità che sceglie di farsi con le altre corpo sociale.

L’espediente letterario della circolarità temporale segna il divenire della collettività.

La sequenza temporale degli avvenimenti (la lotta al patriarcato, la vittoria, la ricerca di senso) è scompaginata. L’evento intermedio dà l’avvio al testo, quello iniziale lo conclude, come a sottolineare che la collettività ‘inaudita’ delle Guerrigliere si struttura simultaneamente sulla memoria, sulla costruzione di senso, sulla continua rimessa in discussione delle certezze acquisite. Il passato e il presente riacquistano significato solo in quanto parti interconnesse di un percorso di conoscenza che non si fossilizza ma perennemente cerca di rinnovarsi.

La parte finale del testo ripercorre la guerra di liberazione: guerra feroce, senza esclusione di colpi, guerra di schiave che per riappropriarsi della vita uccidono e sono uccise, rispondono alla violenza con la violenza. E’ la parte dell’opera che più ha suscitato critiche, che ha fatto gridare allo scandalo, per la rappresentazione cruda dei dettagli, per la visione apocalittica dei massacri. Wittig vuole un mondo di donne scatenate e violente, di furie omicide, vuole un incubo, si è detto. Ma Wittig non vuole un incubo, si limita a sottolineare – senza alcuna mediazione o tentazione di ammorbidimento – come l’incubo sia già incarnato nell’eccesso di violenza che scatena in chi lo subisce una lotta di difesa altrettanto violenta, altrettanto eccessiva.

L’incubo è tutto inscritto nella realtà dell’oppressione di un sesso sull’altro che fa, quotidianamente, strage di corpi e desideri. Uscirne è un imperativo etico, una necessità così forte da non poter tollerare tregue né tentennamenti.

L’inizio dell’opera rappresenta la comunità vittoriosa. Le Guerrigliere si riappropriano dello spazio, ricostruiscono tempi a dimensione dei loro corpi, costruiscono rapporti, riti. E’ l’epopea della libertà e del ritrovamento: ritrovamento di sé, del senso della collettività orgogliosa. Le donne vincitrici riscoprono saperi antichi, inventano storie nuove e reinterpretano storie passate, si prendono cura di sé e delle altre e iniziano le bambine ai riti del riconoscimento attraverso l’uso del “femminario”, il libro delle “portatrici di vulva”, in cui sono incisi i simboli “del cerchio, della circonferenza dell’anello, della O, dello zero, della sfera”, il libro che riporta gli infiniti “nomi della vulva”.

La costruzione del soggetto collettivo Guerrigliere necessita di un’opera di invenzione di linguaggio, di mitologia, di costume, ma questa ricerca di libertà rischia di trasformarsi in codice. La parte intermedia dell’opera mette in scena proprio la messa in discussione di quanto è stato costruito, segnato, reso solido dalla coscienza collettiva delle donne, e la consapevolezza del rischio sempre presente di ridurre il sapere conquistato a ideologia: “[Esse] dicono che concepiscono i loro corpi nella loro totalità. [Esse] dicono che non privilegiano una delle sue parti con il pretesto che è stata un tempo oggetto di proibizione. [Esse] dicono che non vogliono essere prigioniere della loro ideologia”. Il femminario viene sostituito da un libro con le pagine bianche in cui ogni donna, di ogni età, può scrivere opinioni, desideri, visione del mondo. La ricerca porta al rifiuto delle convenzioni, del codice imposto: “[Esse] dicono che i simboli che esaltano il corpo frammentato sono temporanei, devono sparire… Esse, corpi integri primi principali, avanzano camminando insieme in un altro mondo”.

Se con l’avanzare insieme delle Guerrigliere in un altro mondo Wittig era riuscita a turbare i sonni della critica ufficiale – impegnata e non – con Il corpo lesbico del 1973 (ed.it. Edizioni delle donne, 1976) turba il sonno e la veglia sia delle femministe etero che delle lesbiche, che avevano appena trovato nel movimento uno spazio di espressione e temevano ogni discorso che potesse mettere in pericolo l’equilibrio faticosamente raggiunto. L’egualitarismo imperante richiedeva la messa sotto tono o il bando delle differenze: una regola non scritta che agli inizi degli anni ’70 non ammetteva deroghe e che Wittig, clamorosamente, infrange  – prima ancora del suo famoso “le lesbiche non sono donne”, secca chiusura di uno dei saggi che scriverà in seguito – , perché ha troppo chiaro il senso della sua differenza e ‘sotto tono’ non rientra nei termini del suo vocabolario.

Ne Il corpo lesbico lo stravolgimento delle regole letterarie e linguistiche – mescolamento dei generi letterari, eccesso nelle immagini e nella terminologia, gioco continuo di iperboli – raggiunge il suo apice. Il tempo quotidiano è scomposto e ri-composto nel tempo del desiderio e lo spazio si dilata e restringe solo a dimensione della materialità tra due corpi di donne. Una materialità costitutiva di soggetti mobili, transumanti, in divenire, al di là dei ruoli, agenti del desiderio e agite dal desiderio: l’amante/amata, l’amata/amante. Nel rapporto tra due donne motivate dal desiderio –l’una per l’altra e l’altra per l’una – tutto si scardina, tutto si ri-considera. Non ci sono limiti perché esiste solo la propulsione a una conoscenza altra innescata dal desiderio. Tra l’amante/amata e l’amata/amante si costruisce una pratica d’amore che è furia di conoscenza, così altra da quanto è codificato che deve inventare il suo linguaggio e la sua pratica, è necessitata a creare il suo sistema di segni.

Il corpo lesbico, corpo del desiderio di una donna per una donna, non può essere rappresentato in termini convenzionali. E’ il corpo impudente che vive l’interdetto, è il corpo che non può essere addomesticato, reso oggetto, parcellizzato. Non è solo seno, vagina, glutei, ma è derma, cellule, muscoli, tendini, umori, fibre, vene, arterie, midollo, e il percorso d’amore diventa l’epopea – intramezzata da elenchi umoristicamente tratti dai manuali di medicina – di una ricerca durante la quale tutto deve essere riscoperto, ri-significato, per corrispondere al desiderio che lo origina.  Il soggetto di quel desiderio e di quel percorso è a sua volta un soggetto che affronta il rischio della perdita di sé, dei propri confini, il rischio della disintegrazione per potersi ricostruire in corpo desiderante. Un corpo lesbico. Né femminile né maschile, perché il femminile e il maschile sono il portato di una convenzione che il corpo lesbico, nella sua decostruzione/ricostruzione di sé per sé, rende privo di senso perché appartenente ad un altro – estraneo – sistema di segni.

Wittig non lascia spazio ad equivoci: perché il corpo lesbico costruisca la sua esistenza non è sufficiente una donna, sono necessarie due donne, ognuna amante/amata, desiderante/desiderata dall’altra e ambedue mosse, proprio da quel desiderio, a costruirne la dimensione di vivibilità, il linguaggio, la pratica, a «riconoscerlo in un’altra semiotica»[1].

Anche la reazione non lascia spazio a equivoci: le opere di Wittig cominciano ad essere boicottate in Francia. E la cantora, privata della sua lingua, costretta ad emigrare negli USA e a scrivere in inglese, abbandonerà il linguaggio visionario della passione e pubblicherà quasi esclusivamente saggi.

 

 

 

*Pubblicato in Donne in Viaggio, 15 luglio 2003.

[1] Teresa de Lauretis, Differenza e indifferenza sessuale, Firenze, Estro, 1989, p. 198.

 

Stracci

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di Fiammetta Galbiati

stracciSono strisce di colori, acquosi e vaghi, le testimonianze del loro passaggio in questo giorno di pioggia; sono veicoli e ragazzi in bicicletta, il torso proteso in avanti, i denti graffiati da fiotti di fango spruzzato al minimo transito: le bocche gravide di insulti, che liberano sonoramente tra gli sputi, a scacciare tutto lo schifo che c’è. E sono lame che ti affettano mentre ti superano, e ti sbilanciano, ma tu riesci a resistere anche a questo e pedali, pedali, pedali.

La salita a zigzag, tra le auto parcheggiate a casaccio, il viale bordato di tigli che, in primavera, profumano da far svenire, il rondò che ritaglia la distesa incolta, chiamata ancora con il nome della fabbrica, divenuta cattedrale di ruggine e mattoni sfaldati. La ciclabile che svapora sulla provinciale tutta a buche. E, in un caleidoscopio di gocce imbevute di PM10, i binari del treno che, quando qui scendevano a studiare da mezza regione, vivevano intrecciati ai campi di barbabietole, annientati con gli zuccherifici, come quello in cui tua zia ha lavorato una vita.

“Da settembre è partito il processo per assegnare le pulizie delle scuole con una gara europea lanciata da Consip, la piattaforma digitale degli acquisti della Pubblica amministrazione. Fino all’altroieri, tutti quei servizi che non riuscivano a fare i bidelli erano appaltati a storiche ditte esterne (soprattutto al Nord) o a convenzioni con cooperative di ex lavoratori socialmente utili (al Sud).”
(http://www.corriere.it/scuola/14_gennaio_15/nessuno-fa-pulizie-scuole-chiuse-veneto-6d730128-7dc0-11e3-80bb-80317d13811d.shtml)

Le prime avvisaglie filtrarono tra jingle e lustrini ingannevoli. Mancava poco a Natale. Bastò un trafiletto di un giornale: siamo stati ceduti, cambia l’appalto. Tagliano, vi dicevate tra colleghe, sotto quel tetto marcio che, a ogni scroscio, gronda un’acqua che non è acqua. è un liquame giallastro di carcasse. Volatili intrappolati nel solaio, morti e fattisi vermi, nutrimento per i topi che, nel silenzio della notte, e nell’oscurità delle ristrettezze, si vanno a rosicchiare lo scheletro del tuo e del nostro futuro: le scuole. Quando piove, vi tocca punteggiare i corridoi di secchi e, alla fine del turno, svuotate litri, di quei loro resti, filtrati da controsoffitti che si inzuppano e poi cedono, con uno slap, come una pappa scura.

Non sarà più come prima, bisbigliavate tra voi, udendo le prime notizie.

Un tempo bastava un solo sorriso di un bambino per farvi andare giù il vostro stipendio esanime e il gelo di certi genitori: quelli che entrano a scuola e non vi vedono, perché mirano alla classe, alla maestra, perché così non va, proprio non va. Hanno una corazza spessa come l’arroganza che protegge le loro paure e non sentono le vostre domande.

Taglieranno? Ci taglieranno?

“Consip S.p.A. ha indetto una gara per l’affidamento dei servizi di pulizia ed altri servizi tesi al mantenimento del decoro e della funzionalità degli immobili, per gli Istituti Scolastici di ogni ordine e grado e per i centri di formazione della Pubblica Amministrazione. (…)La gara è divisa in 13 lotti geografici e prevede un massimale di fornitura (…).
(da sito Consip: http://www.consip.it/gare/bandi/storico_gare/2012/gara_0021/)

Non lo hai detto a nessuno, nemmeno a tua madre, che ogni tanto ti spedisce soldi per quelli che lei chiama sfizi. Ma le bollette non sono sfizi, né lo è l’osteopata di quel disgraziato del tuo adorato ragazzo, che ogni due per tre si va a sfasciare in una di quelle sue assurde acrobazie su e giù per i muretti, che lui ti ha insegnato a chiamare parkour.

“Ad oggi le persone che svolgono servizi di igiene ambientale e di ausiliariato nelle scuole italiane sono oltre 24.000. Di queste, circa 11.500 sono ex lavoratori socialmente utili (cosiddetti “ex lsu”), soprattutto al Sud, mentre i restanti, fanno parte dei cosiddetti “appalti storici”.
Tutto nasce con la legge 124 del 1999, (..). Allo Stato sono stati trasferiti i dipendenti impegnati nelle attività trasferite (bidelli), ma sono stati anche trasferiti gli oneri per i contratti in essere (gli “appalti storici”) e quelli per i lavoratori socialmente utili attraverso la stipula di nuovi appalti con imprese che hanno assunto alle proprie dipendenze a part-time gli ex lsu. (…) A fronte di questa situazione, nel 2009 sono iniziate le politiche di riduzione della spesa nel settore: i famigerati tagli. Il decreto del Fare, nell’estate 2013, ha introdotto il principio per il quale i lavoratori delle cooperative e delle società degli appalti non devono costare allo Stato di più rispetto a quanto si spenderebbe per svolgere i servizi di pulizia ricorrendo ai bidelli. (…) dall’anno scolastico 2013-2014 l’acquisto dei servizi di pulizia delle scuole dovesse avvenire solo in seguito a una gara Consip”.
(http://www.iltempo.it/cronache/2014/03/04/emergenza-scuole-il-caos-degli-addetti-alle-pulizie-1.1225987)

Disfarsi dell’automobile fu la cosa più logica: valse sei mesi di affitto. Non ti guardasti indietro. A quel punto, pensasti fosse doveroso allungare la mano sulla manopola del termostato e impostarlo come la tua vita: al minimo.

L’ultima meta fu lo sgabuzzino, quello spazio che nell’appartamento di sopra è diventato un bagno (perché uno solo ormai non basta neanche alle coppie infertili). I tuoi occhi corsero lungo i ripiani, avanti, indietro: le trovasti in alto a sinistra. Le scartasti una a una. Quelle loro confezioni trasparenti svolazzavano come neve a fiocchi larghi, mentre trattenevi tra gambe e braccia ciò che contenevano: tutte le coperte di pile maculate, o scozzesi, o pelose, o screziate che avevi ricevuto a Natale, e a Natale dell’anno prima, e a Natale del Duemilaedieci.

Ma erano così tante, che iniziarono a scivolare e si ammassarono ai tuoi piedi come una catasta di stracci. Eri la Venere degli scudi per l’inverno.

“Durata dell’appalto: Per ciascun Lotto, 24 mesi, decorrenti dalla data di sottoscrizione della relativa Convenzione. Tale durata può essere prorogata fino ad un massimo di ulteriori 12 mesi, su comunicazione scritta di Consip S.p.A. (…) “
(http://www.consip.it/gare/bandi/storico_gare/2012/gara_0021/)

Taglieranno, è certo. Lo dicevano i sussurri autunnali malevoli che si rincorrevano nell’aria di queste vostre piazze. Tu no, lei sì: dimezzano il personale, mormoravano. Sui giornali leggevate il nome del vostro nuovo padrone, il vincitore dell’appalto.

– Cosa sarà di noi?, ti chiedesti tra le proteste bestemmianti di tuo figlio, intirizzito, che scopriva il valore del termostato.

Poi, un giorno, uno spiraglio insidioso come una lastra di ghiaccio dopo un gradino: vi teniamo tutte, ma.

Non ti sono mai piaciuti i ma. Congiungono cose che non van d’accordo.

– Riduciamo le ore, così ce n’è per tutti, vi dissero dopo quel ma.

– E noi? Come camperemo con la metà delle ore?

– Vi arrangerete!

Arrangiarsi con trecentocinquanta euro al mese.

Anche ora, che al semaforo scatta il verde, e, dopo aver inalato cumuli di polveri sottili, sei lì che fai i conti.

– E se non ce la facciamo?

– Se non ce la fate, vorrà dire che penseremo a una soluzione.

Vorrà dire? Vorrà dire che, al solito, rimanderanno. Annaspate così dal 2001: è come essere ottenebrati da un drappo gettato dall’alto: fiere da domare. Da allora tirate avanti nella bruma di chi è assuefatto a essere un ultimo.

Vi sposteranno più avanti, come si fa con le cose poco importanti.

– La prossima volta non vi toglieranno solo le ore: tenetevi strette quelle che avete, prima che perdiate anche il posto, bisbigliò una voce subdola di chi non vi protegge abbastanza

Eravate abituati da tempo a chinare il capo: incurvare anche le spalle fu il passo successivo. I vostri dissensi si agitarono al vento finché non si fecero infinitesimali: un puntino nel buio.

“Il cambio di impresa uscito dall’ultima gara d’appalto ha falcidiato ancor di più il monte-ore «già stato decurtato nel 2010»: da lunedì scorso le lavoratrici delle imprese di pulizia dei plessi scolastici provinciali hanno visto ridurre drasticamente il loro orario con diminuzioni fino al 60% (e di conseguenza è stato falcidiato anche lo stipendio). Con situazioni paradossali, accusano i sindacati: la giornata lavorativa da 4 ore a turni di 45 minuti.”
(http://iltirreno.gelocal.it/livorno/cronaca/2014/01/14/news/tagliato-le-pulizie-nelle-scuole-genitori-e-lavoratori-si-ribellano-1.8467594)

A gennaio, l’inizio del nuovo corso recò danno ai pargoli. Corridoi e palestre polverosi come deserti, ingressi sguarniti. Tremava la terra nella quotidianità delle famiglie. Fu un’onda che vi travolse e vi portò in superficie, bramati da tutti, come i nuovi salvatori. Era come fare surf per la prima volta: euforico e terrorizzante.

Non vi notava nessuno, prima. In poche ore vi avevano trasformato nei loro vessilli, oggetto di diatribe, comunicazioni astiose, consigli d’istituto, rivendicazioni politiche di quartiere. Di articoli di giornali, che, quando li chiamavate voi, a fatica vi concedevano un trafiletto. Ora fiumi di gente, in piazza, a gridare a squarciagola il bisogno che avevano di voi. Prendendovi sotto braccio, i genitori vi trascinavano per le strade declamando improbabili slogan, in nome dei diritti dei loro bambini.

Anche quando ti coricavi, la sera, ebbra e dimentica delle quattro mura ammuffite che vi contengono, lo sentivi, il ronzio nelle case in cui si parlava di voi. Abbozzavano articoli, lettere di rivendicazione, fratellanze politiche. Ordivano.

Ti viene quasi da ridere ora, a pensarci. Era troppo.

“Le scuole che restano sporche, la sorveglianza all’interno degli istituti che non può che diminuire, i lavoratori che perdono il loro posto di lavoro. A suon di lettere aperte o di post sui social network scoppia la protesta dei genitori: c’è perfino chi minaccia una sorta di “sciopero dei genitori” annunciando di pensare a forme di protesta clamorose come il rifiuto di mandare il figlio a scuola.”
(http://iltirreno.gelocal.it/livorno/cronaca/2014/01/14/news/tagliato-le-pulizie-nelle-scuole-genitori-e-lavoratori-si-ribellano-1.8467594)

Senza le proteste delle famiglie, forse non avreste ottenuto la pioggerella di denari che vi ha traghettato alla fine di marzo. Una mancia. Negli anni vi hanno spogliato di ciò che eravate.

Nessuno credeva vi fossero due categorie di bidelli, forse persino voi l’avete voluto dimenticare. Tu e Carlo, per esempio, Carlo, lo statale, avevate gli stessi compiti fino a gennaio. Ma questa è una storia che nessuno vuole vedere, lo sai, di quelle che, poi, generano solo finto stupore quando deflagrano in rivendicazioni fratricide. Pure adesso, con questo nuovo corso, confuso e chiuso in mille caselle, che ora si aprono e ora si chiudono, accorrete verso chi ha bisogno, anche se non lo potete fare, e sorvegliate e telefonate e assistite, nonostante l’amica, il marito, la mamma scuotano la testa, ogni volta che vi guardano. Perché, secondo loro, ve lo devono pagare, il lavoro in più, se non può più essere il vostro vero lavoro.

“Una «patata bollente» che coinvolge circa 24mila lavoratori, circa 14mila ex Lsu (i lavoratori socialmente utili) che al 28 febbraio, esaurito l’ulteriore stanziamento previsto dalla legge di stabilità, potranno vedersi scadere il contratto o ridurre drasticamente lo stipendio (…).”
(http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-02-19/appalti-pulizie-scuole-caos–121006.shtml?uuid=ABDGYcx)

Te lo ha detto una cugina di tua madre, che da loro li lasceranno a casa.

Il figlio di una sua amica è un bidello germogliato nel terreno sbagliato, un lotto in cui non tagliano le ore, ma le teste. Succede anche questo. Colpi di scimitarre fendono l’aria nella direzione che fa più comodo, mozzando alla cieca.

I malevoli bisbigliano che vi han ficcato in tre recinti di proposito, fa più comodo se vi dividono: i bidelli statali, incalzati da quelli come te che hanno sempre fatto i bidelli ma con appalti esterni e da quelli che vengono da storie diverse e si sono ritrovati con la ramazza in mano. Una competizione con i soldi di tutti.

La roulette della gara vi ha lasciato su un terreno cedevole: basta un passo per cadere. Ti sembra che anche quelli come Carlo possano cadere, prima o poi. E lo faranno perché rimarranno soli e non basteranno a fare tutto e bene.

“(…) il problema è che se il governo non fosse intervenuto il 28 febbraio stanziando altri 20 milioni di euro, dall’1 marzo molti degli addetti alle pulizie si sarebbero trovati senza più un contratto di lavoro.” (http://www.iltempo.it/cronache/2014/03/04/emergenza-scuole-il-caos-degli-addetti-alle-pulizie-1.1225987)

Ci ripensi mentre il clacson dell’automobile, che saetta al tuo fianco, ti congela le gambe. Avevi appena pulito i tuoi metri quadri – perché, ora, il tuo lavoro non si misura in ore, ma in superfici da lavare -, che si presentano alla porta una mamma tutta trafelata e una figlia serafica con una sciarpa a righe così lunga che quasi carezzava la terra del cortile. Erano in ritardo ed erano vestite come se l’inverno durasse tutto l’anno.

La mamma si avvicina e, fingendo discrezione, sibila:

– So che per lei è un azzardo.

– Un azzardo?, le chiedi, interdetta.

– Sì – dice, dando un bacio distratto alla figlia -, perché, con tutta questa storia, vi converrebbe mollare e andare, chennesò, a fare le pulizie in nero da qualche parte.

– Già!, le fai, senza darle peso.

Quella si pianta su due piedi e sbottona il cappotto, come se dovesse trascorrere con te il resto della giornata.

– E perché non lo fa? Mollare tutto questo, intendo.

– Perché amo i bambini, sa?

– Ma non le conviene questo lavoro!

– Lo so, lo so. Ma faccio la bidella da sempre: a me piace il mio lavoro, i bambini.

La donna fa per andarsene, è già alla porta. Poi torna indietro con la cintura del cappotto che sbatacchia sui polpacci.

– Ho un’amica che lavora in uno di quei posti in cui offrono assistenza privata: le può interessare?

Te lo dice così, su due piedi, senza darti il tempo di realizzare. La guardi interdetta, ma quella riprende:

– Sono sempre in cerca di personale: non bastano mai le donne che devono assistere i malati e gli anziani, oggigiorno.

Io assisto i bambini, anzi, io assisto i pavimenti su cui camminano i bambini, da quando ci hanno tagliato ore e mansioni: è quello che vorresti dirle, ma ti sembra troppo. In fondo, la donna ti vuole aiutare.

– Al massimo può fare il corso per OSS e tentare quella strada, ti dice mentre qualcuno ti chiama con un urlo che scende le scale e porta il tuo nome.

La lasci in mezzo all’ingresso, con una mano che fruga nella borsa. La cintura del cappotto tocca quasi terra.

Ritornerai dopo dieci minuti e il tuo occhio cadrà vicino alle circolari da smistare; ti infilerai in tasca quel pezzo di carta, dimenticandotene fino a questo momento: “Parlerò di lei alla mia amica: intanto, le lascio il suo numero”, firmato “Anna, la mamma di Paola della terza A”.

Verbale di accordo Ministero del Lavoro-MIUR- Parti sociali del 28 Marzo 2014

“Il MIUR (…) utilizzerà risorse complessive pari a 450 milioni di euro, a decorrere dal 01.07.14 e sino al 30.03.16, che saranno impiegate per lo svolgimento, da parte del personale adibito alle pulizie nelle scuole, di ulteriori attività consistenti in interventi di ripristino del decoro e della funzionalità degli immobili adibiti ad edifici scolastici. (…)Il Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali si impegna ad attivare percorsi di formazione e di riqualificazione (…)si impegna, altresì, a garantire il periodo 01.04.14-30.06.14 i necessari strumenti di ammortizzazione sociale in deroga per un importo complessivo di 60 milioni di euro. Le Aziende ripristineranno, a decorrere dal 01.04.14, le condizioni economiche e contrattuali dei lavoratori ed delle lavoratrici, vigenti al 31.12.1. (…).”

Decoro vuol dire nascondere le crepe sotto la vernice, nascondere la polvere sotto al tappeto. E voi siete polvere.

Il giorno in cui ve lo dissero a momenti cascasti per terra.

C’era un elenco di cose che dovrete fare, voi, madri e mogli o ex mogli di famiglia. Vi guardaste le mani: prima il dorso e poi i palmi, che tutte quelle cose non le sapevano fare.

Cartongessi, con un’anima di ferro che non sarai mai in grado di tagliare, impianti e manutenzioni di giardini che se le volevamo fare andavamo a vivere in una villetta a schiera, si dicono i tuoi colleghi.

Decoro sa di limone sulla ferita aperta.

Come si decorano i soffitti con i tetti che colano liquami? Perché sostituire vetri se le finestre nemmeno si chiudono? O riparare gli impianti sanitari se poi mancano le tavolette e la carta igienica e i bambini trattengono i bisogni fino a che qualche tata li viene a prendere?

Decoro sa di cose che non saprete fare, di banca ore in cui sommare prestazioni che qualcuno farà al vostro posto perché avete in media cinquant’anni, le vertigini, le vene varicose, i guanti in lattice che forse sono allergica e tanto non li uso, che poi i bambini si spaventano. I bambini e i ragazzi, il motivo per cui non sapete fare altro se non i bidelli.

“Che la vicenda fosse opaca era apparso evidente già da luglio (…). L‘elemento più stupefacente di tutta la storia è che il costo dei contratti rinnovati automaticamente è stato stabilito sulla base di convenzioni attivate da Consip con delle società che hanno agito illegalmente, facendo “cartello” attraverso degli accordi sottobanco che gli hanno permesso di dividersi in parti uguali una torta da 1,63 miliardi di euro, come spiegato dall’Antitrust nelle motivazioni della propria decisione”.
(http://www.huffingtonpost.it/2016/01/23/scuola-antitrust-appalti-pulizia-scuole_n_9058780.html)

– Insomma, lo dicono tutti: l’accordo è stato creato per tenerci in piedi. E poi, ho sentito dire che il decoro non riguarderà tutte quelle voci: ce la vedi la Giusy a sistemare gli impianti elettrici? Morirebbe folgorata nei primi dieci minuti, quella vecchia zuccona che non capisce un tubo!, dice la collega che tra qualche anno presiederà i comizi del nuovo sindacato.

– E cosa faremo, allora?, le chiedi.

– A quanto ho sentito, le pulizie straordinarie o dipingere, ma fino a due metri di altezza, perché sopra non possiamo.

– E a chi toccherà il resto?

– Non ne ho idea, forse a nessuno. Una bella pulizia e una mano di vernice basteranno per far risultare il decoro.

– Ma io faccio la bidella, non il decoro!, protestasti.

– Cara, ti devi dare un mossa! Se volevi davvero fare la bidella dovevi studiare, prendere il tuo bel diploma e così potevi fare il concorso come statale.

“Per l’Antitrust le prove raccolte sono inequivocabili: “L’esito della gara è stato condizionato eliminando il reciproco confronto concorrenziale, mediante l’
utilizzo distorto dello strumento consortile”, si legge nel provvedimento.”(http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/01/24/scuole-belle-ecco-come-il-consorzio-nazionale-servizi-manutencoop-e-gli-altri-si-sono-spartiti-lappalto-sulle-pulizie/2400916/)

Su questa provinciale battuta dai tir, che con le loro file di ruote tuonano a ogni buca, la pista ciclabile sarà sempre solo un’idea. Sei in bilico tra il guardrail che non esiste e il canale gonfiato dalla pioggia: punti all’incrocio che separa i viali senz’alberi della periferia e la chiesa romanica sfregiata dalla tangenziale. Il rondò, che sostituirà l’incrocio, si farà entro l’estate. Al centro ci piazzeranno un tripudio di graminacee, che a ottobre vireranno al rosso, senza sapere che, il prossimo inverno, in una notte di nebbia, l’aiuola verrà scorticata dalla guida incauta di qualcuno troppo ebbro per vederla.

Ignara di ciò, ora e per sempre, segui la pioggia che si unisce all’acqua del canale con piccoli cerchi che si spengono svelti. Sei zuppa d’acqua anche con la mantella e non puoi fare a meno di pensare all’umido che troverai a casa, quel suo odore che non ti lascia mai. E poi, la ruota anteriore incontra un ramo che non avevi visto.

Serri le mani sul manubrio, le nocche si fanno bianche. Non basta.

Ti trovi accecata dal buio: è un’oscurità antica e conosciuta. Ricorda il rifugio in riva a quella palude. Quasi senti l’odore delle braci aromatizzate da scorze d’arancia che attenuavano quello dei viandanti che entravano a ondate chiassose. Turisti come voi, benché tua madre si sentisse oltraggiata a essere assimilata a quelle genti in scarpe basse e jeans, lei che dalla montagna veniva e ci andava solo con gli scarponi e i pantaloni alla zuava di velluto a coste larghe, color del muschio. Come suo padre, prima di lei.

25-03-2016: “Il ministero dell’Istruzione ha stanziato altri 64 milioni di euro per prorogare fino al 30 novembre il programma “Scuole belle” (…). serviranno per arrivare a fine novembre. Nel periodo estivo di sospensione dell’attività didattica, il governo si è detto disponibile ad accogliere eventuali richieste di cassa integrazione in deroga..”
(http://www.orizzontescuola.it/news/appalti-pulizie-miur-stanzia-64-milioni-scuole-belle-e-non-licenziare-addetti-ex-lsu)

Rimani a terra tra i ricordi solo pochi secondi, ti alzi graffiata dall’ululato dei clacson suonati da chi ti ha visto e non si vuole fermare. Riprendi a pedalare, pedalare, pedalare. Tutto è acqua in questo giorno di aprile intessuto di cupi presagi. Le tue gambe tremano al punto che non senti il dolore all’anca su cui sei caduta. La mantella si è strappata dal gomito in giù e ora è punteggiata di cicche di sigaretta. Tutto il tuo fianco sinistro è sporco di terra e asfalto. Ti sbracci tra le auto irrequiete e i tir che creano spostamenti d’aria da concorde. Ciò che ti circonda ha una velocità siderale, di quelle che ti fanno quasi a fette, mentre ti lasciano indietro. Finisci per proteggerti dietro un trattore e il suo erpice che, lasciato il campo, si inseriscono, lenti e alteri. Lì dietro, così incurvata, sei quasi invisibile. Con una mano tasti la tasca: il foglietto della mamma di Paola della Terza A c’è ancora. Le auto, adesso, vi devono superare in blocco, nervose. Quando lo fanno, ti tremano anche le braccia. è così tangibile, la paura. Ti chiedi se saresti davvero capace di cambiare lavoro. Riesci a fendere il muro d’acqua fino all’incrocio, dove la svolta a sinistra è sempre un azzardo, oggi più che mai. Speri che il trattore ti possa proteggere un altro po’: non ha ancora messo la freccia. Alzi la mano sinistra per segnalare la svolta e noti lo squarcio nella mantella. Ti incalzano da dietro: c’è un parafanghi a venti centimetri dalla tua ruota posteriore.

Quando succede, sei nel centro esatto dell’incrocio, così diranno i giornali: nel centro esatto dell’incrocio.

Il trattore non ha svoltato a sinistra: ha proseguito, tenendo il centro della strada.

La tua mano non spuntava oltre le propaggini dell’erpice: era come se non ci fosse.

La macchia d’olio era lì da poco.

“Lo scooter, guidato da G.T., 37 anni, che sopraggiungeva in direzione opposta, è scivolato sopra una macchia d’olio. I carabinieri stimano che la macchia fosse lì da non più di un’ora”. E anche: “Lo scooter ha strisciato sull’asfalto per diversi metri, fino a falciare una donna, E.I., che sbucava da dietro un trattore a bordo della sua bicicletta. La donna, madre di un ragazzo di 16 anni, è stata portata all’ospedale più vicino”.

A cosa pensavi un secondo prima dello scontro? Al cambiamento? Mentre vedevi l’impotenza negli occhi dell’uomo in sella allo scooter che ti avrebbe colpito, pensavi alla mantella da quattro soldi da riparare: come la tua vita.

“La donna aveva indumenti sgualciti e un’ecchimosi in corrispondenza dell’anca. I medici legali hanno ritenuto le ferite compatibili con un trauma plurimo dovuto all’impatto con lo scooter”.

A cosa pensavi mentre cedevi all’asfalto brandelli di tessuti?

Credono tuttora che tu sia caduta sul fianco destro e che poi abbia rotolato sull’asfalto fino al marciapiede. E che ti sia procurata così le ecchimosi sul sinistro, ferito, invece, nella prima caduta. E non hanno capito che, in quest’ultimo fatale evento, avevi un piede intrappolato nel groviglio di ferro della bicicletta, che ti ha trascinato, inerme, per metri, scorticandoti tutto il fianco destro. Per metri, fino al marciapiede sul quale pensasti di voler morire, piuttosto che rimanere invalida, e di peso per tuo figlio. Se avessi potuto rotolare, forse ti saresti fatta meno male.

Agosto 2016: “I bidelli “appaltati” costano allo Stato come se fossero dipendenti pubblici, come dice la legge. Ma fanno la metà delle ore, hanno meno compiti (per esempio non fanno assistenza ai bimbi), salari più bassi e meno garanzie.”

(http://laprovinciapavese.gelocal.it/pavia/cronaca/2016/08/08/news/bidelli-appaltati-alle-coop-stessi-costi-meno-servizi-1.13937866)

La prima persona che contattarono fu l’amica della mamma di Paola della Terza A. Le chiesero: conosce la madre di una certa Paola? Da lì risalirono alla tua identità. Ricostruirono il tuo essere una mamma sola, l’appartamento modesto e freddo, una parete coperta da disegni e biglietti di bambini. Lavorava come bidella, scrissero. Quando lo lesse, il dirigente scolastico della tua scuola si ricordò di telefonare a tuo figlio.

Nessuno dei presenti aveva notato la tua caduta precedente. I periti non ricostruirono l’intera vicenda, trascurarono il fianco sinistro, inventando una banale rotolata che nessuno poteva aver visto, e che nessuno negò di avere visto, perché, in mezzo a tutto quel fracasso, le loro impressioni contavano più della verità.

Eri invisibile: dietro l’erpice, e prima di scivolare sul ramo, e prima di uscire da scuola, e mentre lavavi i pavimenti, e ieri, mentre i compagni di Paola della Terza A ti sfilavano davanti prima di entrare in classe, e a marzo, quando fu siglato l’accordo quadro, e a febbraio quando stanziarono briciole per darvi respiro, e a gennaio quando vi dimezzarono le ore, e a dicembre quando cercavate di indovinare il futuro tra i liquami dei volatili intrappolati nelle soffitte, e prima ancora, quando facevate comunque i bidelli e i bambini ti chiamavano la Emy.

Saresti stata invisibile anche senza la macchia d’olio, anche oggi, dopo gli scioperi, le proteste di chi è stato spedito a chilometri da casa pur di fare il decoro, le guerre, la sentenza dell’antitrust, le richieste di internalizzazione, gli articoli di giornale, le proroghe delle proroghe, delle proroghe, delle proroghe, delle proroghe, che chissà quando finiranno.

Di sommersi e di salvati (riflessioni siriane)

2

di Daud al-Ahmar*

Si sbaglia a credere che le nazioni vittime della storia (e sono la maggioranza) vivano col pensiero fisso della rivoluzione, vedendovi la soluzione più semplice. Una rivoluzione è sempre un dramma (…). La rivoluzione è l’ultima risorsa e se un popolo ha deciso di ricorrervi è perché ha imparato per lunga esperienza, che non gli resta altra via d’uscita. (Ryszard Kapuściński – Shah in Shah)

Mi dice che non sapeva cosa fare dopo la prima esplosione, non c’era ancora abituato. Era corso a radunare i pezzi dei corpi per cercare di rimetterli insieme. C’erano altri ragazzini come lui, piccole prede del panico, e tutti si affannavano a dare a quei pezzi un ordine. Era un istinto nuovo (o antichissimo) e bisognava fare in fretta, ma era allo stesso tempo un dovere ineludibile costruito sul paradigma per cui non ci si può prender cura dei vivi se non è possibile farlo coi morti.

Ali mi guarda diritto, con quei suoi occhi color nocciola la cui forma allungata ha qualcosa di turcomanno e di azero e che graffiano sempre con ironia e cinismo. Ma ora che lo conosco bene ho capito che hanno anche qualcosa che appartiene all’angoscia dei testimoni, dei sopravvissuti. Qualcosa che ha radici in una solitudine profonda, sempre oscillante tra due imperi, la memoria e la dimenticanza, e sospesa sul vuoto dell’incomunicabilità. Un sentimento nato in un ragazzino iracheno di Mosul, cresciuto con lui e in lui, negli anni e guerra dopo guerra. I suoi occhi sono anche pieni d’amore per la vita, però. Anche se talvolta mi pare un amore strano, eccessivo, costruito su una vaga e inestinguibile fascinazione per la morte.

Sediamo in un minuscolo bar di Amman, un posto dai vetri opachi e dal molto fumo nell’aria. Stringiamo birra e sigarette. Tavolini angusti e consumati costringono al faccia a faccia. Sotto il mento piattini di formaggio salato, noccioline, cetrioli; sopra le teste un piccolo televisore anni ‘80 montato su un braccio meccanico simile a quello di certi alberghi economici. La voce lontana e melodiosa di Umm Kulthum fa da sottofondo ad annunci pubblicitari a dir poco grotteschi, uomini in tanga gonfi di anabolizzanti, modelle sexy al volante di macchine sportive, resort di lusso sul mar morto o ad Aqaba. Sulla parte bassa dello schermo scorrono ininterrottamente le ultime notizie: bombardamenti sulla Siria, attentati a Baghdad e a Beirut, la spianata delle moschee a Gerusalemme chiusa dagli Israeliani.

Ali dice che vorrebbe vedere tutto raso al suolo, distrutto, ogni statua, ogni colonna, ogni argilla, ogni tempio. La devono far finita con questa parola ridicola: civiltà. Che se ne vada tutto in polvere Ninive, Ur, Babilonia, nomi che non significano più nulla per gli iracheni. “Civiltà” ripete, lanciandomi un’occhiata sarcastica mentre rimuove un pezzo di nocciolina dai denti e lo inghiotte.

Ci soffermiamo a guardare lo schermo, pensando che forse quell’amalgama di immagini musica e notizie non è poi così assurdo. Non più di quanto lo siano i caccia siriani, russi, francesi, statunitensi, turchi, israeliani e via dicendo, che si sfiorano, sfrecciando a pochissimi metri di distanza sul cielo devastato della Siria.

Poi Ali, rapito da qualche pensiero, assume quell’atteggiamento paternalista che odio e mi dice che no, non posso capire. Anche se ho qualche “referenza”, sensibilità e tanta buona volontà. Sorride perché mi incazzo. Torna sereno, raccoglie due noccioline tostate dal piattino, manda giù una gran sorsata di birra e lancia una breve occhiata allo schermo esclamando: questi giordani sono proprio stronzi! E poi: ma tu, civilizzato, sei nato in ospedale, vero? E perché? Eri malato?

Paolo dall’Oglio ha scritto di aver subito durante la guerra una potente accelerazione esistenziale. Mi pare un’ottima definizione per descrivere quel tipo di dis-orientamento che hanno i profughi quando riescono a scappare o sopravvivere. E in questo caso parola non potrebbe calzare meglio, dato che non possono più volgere verso oriente, la loro terra [non è un po’ orientalista come cosa? State ad Aqaba lui va a Izmir! Cmq “dato che Ali forse non potrà più volgersi verso oriente, dov’è la sua terra].

Che ne pensi? mi guarda, la guardo. è pericoloso, dico. E poi, cosa farai? Non lo so, non importa c’è mio fratello ad Amsterdam. Qualcosa farò. Meglio che stare qui. Quando parti? La prossima settimana vado a Izmir, poi di lì non so dove mi porteranno. Non te lo dicono mai prima. Sono dei bugiardi quelli. Mi raccomando, appena sai la destinazione contattami, ho degli amici a Lesbos e in altre isole, a Kos per esempio. Certo, ti faccio sapere. Mi raccomando, così se c’è qualche problema ti possono aiutare. Certo, ti ringrazio veramente tanto. Ma figurati. Ma si, tu mi capisci. Non so se ti capisco, so solo che io farei lo stesso.
Provo a capirti (penso). Damasco posso solo immaginarla, figurati perderla. O Aleppo. A volte penso: se distruggessero Venezia che farei, che penserei, come reagirei? Mi rivolgo spesso a Venezia quando cado in queste crisi d’identità, quando provo a immedesimarmi. Non so perché proprio Venezia, io non sono di Venezia. Forse perché come il Marco Polo di Calvino ho bisogno di una città, di una bellezza originaria che mi permetta di comparare con tutto il resto (quindi di capire). E Venezia, nel suo sprofondare, mi mette faccia a faccia con la morte: una morte lenta è più accettabile, mi dico, più umana, a patto che non sia per malattia (anche nel modo di morire o di soffrire emergono i privilegi). Penso a Venezia, forse, perché dopo anni che viaggio in Medio Oriente ho capito che il suo fascino sta nel suo orientalismo (di un occidentalismo) e in un immaginario tutto arabo; tantissime persone che ho incontrato, all’udire la mia provenienza, mi hanno subito chiesto con aria curiosa e sognante come fosse Bunduqiyya (in arabo Venezia ha un nome suo proprio, c’è chi sostiene provenga dal nome di un fucile che si mercanteggiava in epoche lontane).

L’altro giorno è passato a trovarmi Abdelqader, si è avvicinato ad una delle piante che ho sul balcone e mi ha detto: ehi ma questa è una gardenia! Ho annuito, ero sorpreso che conoscesse la pianta. Poi ha aggiunto con quell’aria spensierata che si ritrova: Damasco è piena di alberi di gardenia. Sento la vostra nostalgia soprattutto quando cambiate argomento. Mi chiedo spesso se cercare di immedesimarsi non sia un esercizio inutile o patetico o paternalista.

Comunque ascolta, appena sei a Izmir fammi sapere, questo è il numero che mi hanno dato i miei amici, se ti trovi in mezzo al mare e succede qualcosa, chiamalo. è un s.o.s. che ti mette in contatto con la guardia costiera greca. Qualsiasi cosa succede chiamalo, capito? mi raccomando. Anche se qualcosa non ti quadra con quello che vi porta, non solo se il mare è grosso. Ma si non preoccuparti. Vedrai che andrà tutto bene, è vicinissimo, al massimo un paio d’ore di barca mi hanno detto. Si si, lo so, però ricordati: appena sai il nome dell’isola chiamami. Se è Lesbos – si chiama anche Mitilini – o Kos, fammelo sapere. E in ogni caso dimmi quale sarà l’isola: ci sono sempre amici di amici da contattare. Ma si, ma si, tranquillo, avrò il telefono ti scrivo. Dai che qui non è come tra la Libia e l’Italia, mi hanno detto che è facile. Si ma poi quando arrivi avrai bisogno di qualcosa, di soldi di cibo, di farti una doccia… Dai basta cosi. Vieni qui e dammi un abbraccio. Sembra che ti devo consolare io! E io: è che mi vergogno. Dai. Basta cosi. A presto. Yalla, ciao! Ciao! Ci vediamo in Europa!
Ehi, a proposito, sai nuotare? Non ricordo più se gliel’ho chiesto o l’ho immaginato.

A Beirut trovo un libro di Pasolini in francese con testo italiano a fronte. “Poesia in forma di rosa”. Lo sfoglio con affetto, un vecchio amico. Dopo gli scritti, a mo’ di postfazione, l’edizione francese ha aggiunto un’intervista a Moravia, vi leggo che Pasolini e Genet non si sono mai incontrati; dopo la morte del poeta pare che Moravia e Genet invece si siano frequentati, lo scrittore italiano catturato dalla fascinazione del poeta per la causa palestinese. La cosa mi riempie di interesse (era una cosa che mi chiedevo da molto tempo senza mai accondiscendere alla veloce risposta della rete) ma, come a rimandare un piacere, mi affretto a chiudere il libro, soddisfatto, pensando che tornerò presto sull’argomento.

Ora ho fretta. Salgo le scale e mi ributto su Hamra. Strana Beirut, una città che non conosco e che mi pare di conoscere. Chissà perché. Forse per questa maledetta abitudine al Medio Oriente. Eppure lo stesso Medio Oriente mi ha insegnato che di “medio” c’è davvero poco, che ogni posto ha il suo bel caratterino o identità e modo di lottare per questo e quella. Eppure. Un’aria familiare.

Camminando vedo un sacco di gente seduta a terra o sui marciapiedi. Siriani. Penso: eccoli qua. Negli occhi qualcosa che non è disperazione né dolore. Stanchezza. Siedono sul grembo grigio e arido della strada, su piccole lingue di asfalto, ruvide come quelle dei gatti. Tra le braccia delle donne neonati, tra le dita degli uomini sigarette, ultimo appiglio di virilità. Derubati di tutto. Uomini-bambini dal sesso fragile. Le donne invece mi sorprendono sempre, coi loro avambracci forti cullerebbero una stiva.

Vedere il mare a Beirut è un’impresa con tutti questi palazzoni grigi. E guardando in alto penso: e se fosse il mare invece a dare colore al cielo? Un cielo grigio. Sono pochi gli sguardi verso l’alto. Io me lo posso permettere mentre i profughi per strada guardano dritto, come a invocare l’orizzonte che tagli le costruzioni infami e faccia passare un po’ di brezza. Beirut è un caldo umido difficile da sopportare, con i vapori del traffico asfissiante, i peli che ti pizzicano la pelle come se fossero quelli di qualcun altro, la sporcizia accumulata ai lati delle strade, i liquami, le mosche, i clacson, i mozziconi, le rose. Le rose sulle braccia di questo bambino che me ne offre una. Ma sono al tavolo da solo, gli dico con un arabo zoppicante. E lui mi guarda, sorride, come per dire: embé? Fairuz coccola in sottofondo cantando di rose damascene: tutto torna. Faccio cenno al bambino di andare verso le coppie. Mi guarda senza muoversi, con un sorriso dai denti bianchissimi che gli illumina la pelle oliva. Gli occhi vivaci mi fanno agguato di bellezza. Ma non cedo: fisso lo scugnizzo con aria seria, che vuol essere quasi di rimprovero, mentre sento il senso del ridicolo che mi si dibatte dentro. Fingo di distrarmi per un momento e poi torno a guardarlo ma quello è già guizzato via, lasciandomi lí da solo, con un irreprensibile e sorpresa aria da coglione a chiedermi da dove venga quella rosa rossa poggiata sul mio tavolino che giace come un’apparizione. Mi torna alla mente un racconto de l’Isle d’Adam in cui i bambini andavano a rubare fiori freschi nei cimiteri per rivenderli agli stessi borghesi che li avevano lasciati qualche ora prima sopra i sepolcri dei loro parenti. Le strade del ‘900, penso, Parigi. Beirut trattiene ancora molto del novecento, e di una certa borghesissima e sprezzante aria parigina. Di un certo modo intellettuale di fare, di guardarsi intorno, di studiare, la Palestina, la Giordania, la Siria, i maroniti, gli sciiti, i sunniti, i druzi e via dicendo. Beirut è l’unica che è rimasta penso, se salta Beirut è finita. Baghdad, Damasco, Cairo, Gerusalemme, ormai inaccessibili in un modo o in un altro, più che agli stranieri, agli arabi stessi. E quanto sono importanti le rappresentazioni simboliche e culturali di queste capitali, per gli arabi. La loro identità conta più degli Stati stessi, mi pare di poter dire. Di fatti, Faiuruz canta le città, non gli Stati, penso. Guardo la rosa, sorrido, sicuramente prima di arrivare sul mio tavolo avrà fatto un giro ingegnoso e irriverente

Un rivolo di sudore mi scivola dall’ascella al gomito, solleticandomi la coscienza. Il calore mi rimbambisce. Guardo i vestiti che indossano. Non posso stare nel limbo, preferisco l’inferno, diceva Kamal, amico palestinese mentre camminava su e giù per la stanza. Te la smetti di fare “i fora?!” (cosi chiamava l’andirivieni durante l’ora d’aria nelle prigioni israeliane), ma no, sai che favoriscono la digestione e il pensiero! Ora capita anche a me di camminare avanti e indietro per la stanza quando penso. Che pensavo? Ah, già l’Inferno. Che si tratti sempre di quel vecchio inferno che formiamo stando assieme? O invece si tratta di qualcos’altro? Quanta gente c’è a Beirut e in Libano? Qui si rischia di morire soffocati dalla folla. Vivere laddove l’uomo si è ritirato a istinto. I rifugiati siriani a Beirut non sono accolti bene. Eppure sono un milione in una popolazione di tre (che conta anche un buon numero di rifugiati palestinesi) e tutto si tiene in piedi in un equilibrio stupefacente.

Penso ai vestiti, al loro logorarsi naturale, guardo gli abiti come fossero staccati dai corpi. Strumenti umani. Penso al loro logorarsi sociale. Troppo facile riconoscere nel gomito, nella manica o nella cerniera, un contadino o un operaio. E quelli di un rifugiato? Eppure non ho mai visto abiti abiti così puliti e stirati come quelli dei miei vecchi colleghi di Gaza. O quelli dei contadini che incontravo nei campi e che quando mi venivano a trovare in ufficio avevano camice impeccabili, gilet e giacca di un eleganza scintillante. E le jalabyye bianchissime dei beduini una volta lasciati gli animali nelle stalle? Quante mani di donna ci sono dietro a tutto ciò? Eccola che infatti mi torna alla mente, la vecchia contadina umbra che durante la vendemmia mi diceva: poro marito mio, me ricordo che non se riusciva a toje de dosso quella puzza de merda! Stava sempre a accudì li porchi! Io ce provavo ma mice je se la faceva! E me lo immaginavo così il marito, con lo scrimo perfetto e le mani gonfie infilate l’una nell’altra, a sentire la messa con quel raccoglimento umile e delicato. Poi c’è mio nonno: il suo affannarsi nel farsi bello, nel rigovernarsi (una volta si diceva cosi in italiano, rigovernare) ogni mattino, nonostante la morte già lo placcasse, a letto da mesi. Una delle immagini più nobili che porto con me.

Ana, I am sick, marida, malata. L’uomo ritiratosi a istinto, ad alienazione? Everybody is getting sick because of the A.C., l’aria condizionata. L’alienazione ha già in sé il germe del privilegio (di farsi alienare)? What did you buy today? Shoes. Fi discount bi shara3 el-hamra, ci sono I saldi su via Hamra? Rinunciare ai privilegi? Profittarne per estenderli? Don’t do it habibi, you will ruin your make up, ti stai rovinando il trucco, non fare cosi tesoro. Estendere o eliminare. La trasvalutazione. Guardo le dita trasvalutate di smalto di queste giovani donne libanesi che bevono birra parlandosi tra di loro senza staccare l’occhio dal telefonino intelligente: don’t do it, habibti! Queste ragazze che parlano un arabo inglesizzato, due razze non incrociabili. Già il francese beirutino ha impregnato la lingua. Ora l’inglese. Beirut sembra realizzare l’inicrociabile. è questo l’inferno, mi dico a volte, il non saper più districare, strangolati da troppi lacci in cui tutto sembra avere lo stesso valore. Strano che Pasolini e Genet non si siano mai incontrati.

Turchia.

Ma che cosa gli dovrei dire io a uno che mi chiede cosa ne penso del Mediterraneo? È così caro, per me. Già la parola suscita un riverbero ameno in me. Ma tutto sta cambiando da un po’ di anni, da quando lo vedo dalla sponda sud, sud-est. Ho cominciato a metterci sabbia sporca dentro questo bel sentimento: il presente. Vedo scendere sabbia sporca, una clessidra che si inceppa. Un tempo sporco, una puzza di passato che ritorna. Sará la puzza della Storia? E più vado avanti più insisto nel metterci sabbia: mi faccio del male? Ma potrei fare altrimenti ormai? Tutte le evocazioni solari, sognanti, romantiche con cui mi sono forgiato da giovane pensando alla Grecia, al mare tra le terre, alla lira. In arabo lo chiamano il mare bianco, tra le terre. Ecco un’altra cosa che dimentico sempre di andare a guardare, questo legame tra colori e i mari, mar rosso, mar nero, mar bianco. Chissà se anche dalle nostre parti lo si chiamava bianco, tempo fa, il mediterraneo. Deve averlo scritto Metvajevic nel suo splendido breviario ma anche qui la memoria non mi viene in soccorso. E poi anche quel breviario è poesia, e la poesia la stavo giusto giusto riempiendo di sabbia sporca. Certo Predrag se lo può pure permettere, capirai è di Mostar, un’altra dolorosa-amorosa sponda. Ma io no, non posso. Penso ancora a Pasolini, all’apertura scenica della sua Medea: tutto è santo, tutto è santo! Esclama Chirone mostrando un mare splendido al piccolo Giasone. Per poi aggiungere: ma la santità può anche essere una maledizione.

Solo chi è umile può gridare viva la libertà. Vedo le immagini della polizia di frontiera che cerca di contenere centinaia di umani, vestiti come umani. La polizia è grottesca, invece, uomini vestiti come dei non uomini. La gente non scappa, scarta di lato, poi ci ripensa, torna indietro, scavalca i muri, si infila tra i fili spinati, si graffia, si sbuccia, prende due manganellate in testa. Sanguina, urla. Ma questi scappano dalle bombe, dalla clorina, dagli stupri della guerra, dall’inaudito. Avranno mica paura di due cyborg grotteschi? E infatti passano. Si fanno pure i selfie a un certo punto. Decine di volte mi è capitato di andare a manifestazioni contro il governo: la polizia, le cariche, il fuggi fuggi. Scorrimento pacifico, zone rosse, teste rosse. Un tipo di gioco che ha delle regole. Tutti o quasi le conoscono, perché sono le regole del proprio momento storico nel proprio paese, e il rapporto dialettico che ha una data popolazione con il proprio Stato (potere) e l’uso che questi fa della forza. Sappiamo bene come la forza diventi violenza e poi come, sempre Genet ci ha insegnato, come la violenza si faccia brutalità. Si sa che lo Stato si può permettere di rompere le regole del gioco. Ma il popolo no, a meno che, appunto, non si tratti di una rivoluzione.

Ma quello che vedo ora è una specie di dipinto del Quarto Stato che avanza tra polizie di frontiera, bambini che camminano in rime sparse, ragazzi coi backpack che sembrano farsi una gita in montagna, e invece si portano dietro la casa e la vita, facce stanche ma decise ad andare avanti con dentro gli occhi la voglia di una vita migliore, anche se hanno già capito meglio di tanti giovani europei che in quest’Europa c’è qualcosa che non torna, che c’è poco da fidarsi. Ci sono pur sempre dei diritti (a pagamento), ma sono pronti (a pagare) per i campi in detenzione, le impronte digitali, il rispetto delle regole, che non si rimetta in discussione lo statu quo, simbolico e legale. Eppure avanzano e con il loro andare sbaragliano le regole del gioco. La polizia carica, respinge, lacrimogeni botte. E allora? Dove volete che vadano dopo la manifestazione? A casa? Questo è un viaggio sola andata per il momento, poi staremo a vedere. Avanzano e cambiano le leggi, stati di emergenza, detenzioni amministrative, regolamenti temporanei, quote. Schengen, Dublino I Dublino II, Dublino III. Basta, non c’è più. Finito. Tutto finito. Le hanno cambiate con una camminata lunga un mese o due: Siria-Svezia.

Decine di manifestazioni (sorrido tra me e me) da adolescente ventenne, lotte in strada all’università. Mai riusciti a cambiare una virgola in una legge negli ultimi vent’anni. Nemmeno un capoverso, maledettissima Italia. E loro invece? Arrivano e le cambiano! Facile facile, come sedersi sull’arena, osservare il mare e l’orizzonte, il moto dei gabbiani, infilare il proprio odorato nella brezza: tutto è santo. è meraviglia.

(Ma nel momento in cui guarderemo la natura come naturale tutto sarà finito. Addio mare, addio cielo).

Chiamo Ali, il mio amico iracheno, e gli annuncio: i bambini si stanno riprendendo l’acqua dell’Eufrate! Abbiamo già scherzato un sacco di volte sui due fiumi, ride, mi chiede, e come? Gli dico che mi trovo al parco e ci sono i piccoletti siriani che giocano a pallone a piedi nudi su quell’erbetta turca di un verde tanto sgargiante: si riprendono il fiume. In piena estate con 45 gradi questi turchi annaffiano tutti i giorni parchi, automobili, negozi: persino gli spartitraffico delle autostrade sono prati inglesi. Mostruose dighe hanno permesso a questo paese di diventare il granaio del Medio Oriente. Agricoltura intensiva e via a mercanteggiare. Senza preoccuparsi se si sommergono città antichissime e interi siti archeologici o se si inaridiscono altri paesi. Ma gli uni sono kurdi, gli altri siriani o iracheni. Ali recita le parole di un vecchio poeta di Baghdad, Abd al-Wahhab al-Bayyati, è un epoca in cui nemmeno più le anime si prendono cura delle altre o osano ribellarsi. Si intenerisce anche lui ogni tanto, forse rapito da qualche ricordo della sua Mosul quando ci si poteva lavare via la polvere della strada con un bel tuffo nel Tigri o quando si poteva pisciare in santa pace sui ruderi di Ninive, tra sterpaglie e fiori di ortica. Mi dice che non devo rimproverare troppo la Turchia perché si sta prendendo più di un milione di persone mentre voi (europei) prima li bombardate e poi li lasciate morire come cani, in mezzo al mare. Gli dico che lo sta facendo per convenienza politica e strategica e anche perché in fondo non potrebbe fare altrimenti. E che la smettesse di darmi dell’europeo. Mi prende in giro e dice che sono solo un turista. Gli dico che fanno bene a rubargli l’acqua allora, e ci mettiamo a ridere.

Incontro una ragazza, amica di amici, mi dice di essere siriana, le chiedo di dove, in arabo, mi chiede dove hai imparato l’arabo le dico in Palestina mi dice di essere palestinese le chiedo di dove mi dice di Haifa. Dopo una breve pausa aggiunge: mia nonna ha le chiavi di casa. Poi: ci sei stato? è bella Haifa? Mi torna alla mente un lungo poema di Mahmoud Darwish che parla di quest’uomo di Haifa rifugiato nel sud del Libano, che un giorno parte con la sua barchetta e si dirige verso sud e vuole tornare in Palestina, nella sua cittrà, Haifa. Rema finché non lo fermano i soldati israeliani. Le dico che Haifa è bella, anche se in realtà non mi è piaciuta molto, le preferisco Acca. Mi dice che suo nonno invece era un posto vicino a Tiberiade e che ogni tanto ritira fuori la storia del cane che aveva da bambino e che aveva abbandonato a casa nella fuga. Poi mi dice che è nata a Yarmouk ma cresciuta ad Aleppo. Le dico: non finite mai di muovervi voi palestinesi, eh? Sorride e mi dice si però sono stanca! Dopo l’inizio della guerra è andata a Beirut dove ha vissuto dal 2012 fino a qualche mese fa e poi è venuta in Turchia; quest’estate ha provato di arrivare in Grecia ma non ci è riuscita, mi fa capire che si è trovata in una situazione poco piacevole e non indago oltre. Si è messa a lavorare con un organizzazione umanitaria qui. Parla un ottimo inglese, e arabo madre lingua. Un po’ di curdo. Il turco non le piace anzi non le piacciono i turchi, non si sa mica quello che stanno combinando e chi pagano. Le dico di non dirlo troppo forte, sorride. La sera fumiamo un narghilè e mi racconta la storia di sua zia, la moglie del fratello del padre. È scappata da un Aleppo in fiamme un paio di settimane fa. Doveva passare i check-point governativi per andare nella zona controllata dai gruppi ribelli e poi arrivare qui in Turchia. Era con il figlio, ricercato perché doveva fare il servizio militare. Al check-point ha dato al soldato (del governo) la carta d’identità dell’altro figlio che si chiama Ibrahim ed è in Germania. Il soldato l’ha consegnata a un ufficiale e questi le ha detto: signora ci dica la verità ed io la aiuto. Come si chiama suo figlio? Ibrahim. Allora sono andati dal figlio e gli hanno detto: come ti chiami? Ibrahim. Li hanno tenuti un’ora. Dopo di che l’ufficiale è tornato dalla donna con la carta d’identità in mano e le ha detto signora, ora è disposta a dirci la verità? Come si chiama suo figlio? Ibrahim. Hanno preso il ragazzo e gli hanno detto: come ti chiami ragazzo? Ibrahim. Li hanno trattenuti per un’altra ora. Poi l’ufficiale si è avvicinato alla donna di nuovo e lei lo ha guardato negli occhi e gli ha detto: è Mohammad, ha un cancro e dobbiamo andare di là. Dopo un cenno i soldati hanno portato via il ragazzo che è riapparso poco dopo zoppicante e col viso tumefatto. Dopo essere stati respinti la donna ha fatto il giro di mezza Siria passando per altri check-point da sud verso ovest e poi risalire. Stringendo tra i pugni quelle prescrizioni mediche che erano la sua unica risorsa e salvezza. Il suo lasciapassare e quello del figlio malato. E’ riuscita ad arrivare nella zona dei ribelli, e infine in Turchia. Ieri, mi ha detto Yasmin guardandomi negli occhi, si è presentata a casa mia ed era stravolta, coi vestiti logori. Le ho offerto di fare una doccia, le ho passato dei soldi, ha rifiutato. Mi ha detto che suo figlio era già arrivato a Izmir e lei doveva raggiungerlo perché non aveva con sé i documenti medici e dovevano andare in Grecia e poi in Germania al più presto. I medici ad Aleppo le hanno detto che non potevano farci niente. Ma in questo caso, aggiunge Yasmin, anche se non ci fosse stata la guerra non sarebbe stato diverso.

Guardo Yasmin che soffia fumo dal becco legnoso del narghilè e sorseggiando la sua birra dice – come si trattasse di un romanzo – che storia, eh? Io fuori dalla portata della parola, la osservo, annuisco a tutto quello che dice, provo grande imbarazzo. Le chiedo se riproverà a imbarcarsi, mi dice distrattamente: sì, forse. È stato come chiederle se domani viene a piovere.

La separazione è sempre dolorosa!” ripete la voce meccanica di google translator mentre due visini mi sorridono di là dello schermo. Rania e Lana giocano divertite, sono venuto a trovarle perché stasera è la vigilia della loro partenza per la Germania. Sono eccitatissime, non saprei dire se tristi o felici, forse entrambe le cose. Hanno finalmente ottenuto il visto tramite il ricongiungimento familiare, perché la loro mamma, un anno esatto fa, ha traversato in qualche stiva. Dopodiché si è regolarizzata, ha pazientato dodici mesi senza marito e figli, con l’ausilio dei servizi sociali tedeschi ha studiato la lingua, trovato casa, lavoro e ora ha potuto finalmente chiamare tutti a sé. Ahmad, il marito, ha un bel sorriso da adolescente nonostante gli ultimi due anni gli abbiano scolpito rughe che la sua discreta posizione sociale ad Aleppo non aveva previsto punto. È un padre premuroso e ha fatto di tutto perché Rania e Lana continuassero a suonare (hanno deciso di non mandarle a scuola e aspettare la Germania), e Khafif (mentre scrivo è fresco fresco di diciott’anni) invece finisse la scuola in Turchia. Non dev’essere stato facile per nessuno, né per la mamma sola, lontana ed estirpata dei figli, né per lui a far collare la famiglia e tutti gli attriti adolescenziali pervertiti dall’orrore cui sono stati sottoposti. Ha responsabilizzato Khafif il più grande, e tentato di imbrigliare quel diavoletto che è Lana. Ma forse, la cosa più difficile è stata di rassicurare Rania, la più piccola, timida e introversa, ma ricca di un’intelligenza profondissima.
Ed eccoci qui alla vigilia della partenza: Khafif ha appena finito la scuola e Rania e Lana mi fanno l’ultimo concertino personale. Sono molto felice, queste due piccolette mi sembrano in grado di levare ogni pietra dal cuore del padre che le guarda sottecchi col sorriso di soddisfazione tipico del genitore. Sono mesi che mi hanno portato Fairuz con la loro voce e i loro strumenti: Lana suona il violino, Rania la chitarra. Guardo Salime mi viene da ridere pensando al momento in cui la prematura vivace bellezza delle figlie sboccerà come un melograno folgorando la povera razza germanica: quanti grattacapi che avrà il mio amico! Suonano, ma Rania è costretta a fermarsi di tanto in tanto perché le si congelano le dita e non può continuare a pizzicare le corde: perde sensibilità. Salimmi ha già spiegato in un’altra occasione che da quando la madre è partita, Rania ha cominciato ad avere questi disturbi agli arti. Rania guarda imbarazzata il padre, come a dire, eccoci di nuovo, e si strofina con violenza le mani tra loro. Le dita sono violacee.
La separazione è sempre dolorosa. Penso a Rania cosi timida e silenziosa, quanta guerra c’è in lei e quanto dev’essere stato difficile dire addio alla madre che partiva in nave. Chissà se ne conosceva i rischi. Credo di sì, possiede quell’arguzia dei timidi cui non sfugge nessun dettaglio. Lo vedo da come si muove, dalle domande che mi pone (la timidezza ora che mi conosce meglio si è fatta furba discrezione) in cui echeggiano sempre pezzi di conversazione che ho avuto col padre (seppur queste avvengano in un inglese che lei capisce pochissimo) o dalle parole in italiano che ripete alla perfezione a settimane di distanza, e mi sussurra come un segreto tra me e lei.
Lana invece è una bottiglietta d’aranciata frizzante, non si ferma un attimo, trova sempre un pretesto per dire la sua. Gioca, ride, prende e si fa prendere in giro. Un giorno, mentre mi spiegava quanto fosse brava a suonare il violino l’ho interrotta e facendo finta di sgridarla le ho detto in inglese: ah! come siamo modesti! Ha guardato il padre con quel naso da scoiattolo curioso e gli ha chiesto in arabo: cosa significa
humble? Da quel giorno è peggio di prima e non fa altro che lodarsi e compiacersi e concludere con un: ai eem veery veeery humble!! E giù a ridere… Lana e Rania hanno due piccoli nei sulla parte destra del mento, seminati nella stessa posizione obliqua, come una costellazione che finisce sull’arco delle labbra. Penso che se riuscirò a conoscere la loro mamma, per prima cosa andrò a cercarle l’orsa maggiore sul volto. Le rivedrò in Germania probabilmente.

È la vigilia della partenza e Salim si affaccia più del solito sulla memoria: mi parla della loro fuga da Aleppo. La peculiare intimità che comportano gli addii lo spinge a dire più cose, a indugiare sui particolari, a metterci anche l’emozione. Non tutti quelli che hanno fuggito le porte dell’inferno sono disposti a parlarne, al contrario. La memoria è “legittima difesa” e poi ci si snerva nel rispondere sempre alle stesse domande. C’è un doppio binario. Il primo è la consapevolezza più o meno intimamente dichiarata che la memoria è fallace. Prendo in prestito il termine che ha usato Primo Levi con raffinata lucidità per arrivare al secondo, analizzato anch’esso dal grande chimico-scrittore italiano: la vergogna. Quella sorta di vergogna che si prova nel raccontare, superstiti del vuoto, davanti agli occhi vergini di chi non sa cos’è l’orrore.
Salim mi racconta di come l’appartamento in cui vivevano si sia trovato, a un certo punto, sulla linea di divisione tra ribelli e forze governative. Il palazzo, appena fuori della città vecchia di Aleppo, sorge esattamente in un incrocio che era divenuto di cruciale importanza militare. Accende il portatile, mette google map e zoomma fino a mostrarmi il palazzo. Mi spiega le forze in campo, le vie, i punti strategici. Il posizionamento dei cecchini. Era così due anni fa, ora è tutto cambiato. Mi mostra come i governativi avevano occupato l’ultimo piano del palazzo dove viveva mentre i ribelli tenevano sotto controllo il territorio che comincia dall’altro lato della strada. Si erano ritrovato in mezzo a due fuochi. I governativi sparavano dal tetto e i ribelli rispondevano sull’intero palazzo, probabilmente credendo che lì vi fossero soltanto soldati e cecchini fedeli al presidente. E invece gli altri piani erano ancora abitati da famiglie.
Poi mi mostra il terrazzo del salotto, comincia a spiegarmi qualcosa ma siamo interrotti da Khafif che entra all’improvviso nella conversazione. Indica il terrazzo della sua camera, più esposto ai colpi dei ribelli, e corregge il padre su alcuni dettagli. Salim lo guarda stupito e pensieroso. Poi il figlio aggiunge: ti ricordi papà quando siamo andati a prendere i vestiti in camera mia? Abbiamo strisciato fino all’armadio per evitare le pallottole e poi, usando il vecchio bastone, abbiamo agganciato la mia roba? Salim sorride imbarazzato, come se non ricordasse. Mi dice che durante quel mese in cui erano rimasti in trappola non sapeva come comportarsi, era stordito. Aveva passato notti insonni, non solo a causa degli spari, ma perché attanagliato dalla responsabilità. Sapeva che doveva prendere una decisione, prima o poi. Aggiunge: l’unica cosa che mi rendeva “relativamente” tranquillo era che i ribelli non avevano armi che potevano colpire in modo grave, o distruggere il palazzo. All’epoca avevano solo piccoli calibri e miravano ai corpi. Bastava stare fuori dal loro tiro. Mi ricordo che al tramonto il sole creava una traiettoria di luce che entrava in salotto illuminandolo perfettamente: in quei momenti dovevamo stare particolarmente al riparo. Io dormivo in quella stanza perché c’era la televisione e cercavo di capire cosa cavolo stava succedendo nel paese: la guerra era scoppiata cosi, da un giorno all’altro. Ricordo che una volta una pallottola mi ha sfiorato la nuca e si è infilata sul muro a un palmo sopra la mia testa.
Il palazzo era costantemente sotto tiro e la cosa incredibile è che due vie più in là la vita scorreva tranquillamente, negozi aperti, gente in giro, il solito traffico aleppino. Quella era la parte governativa. L’altra era l’inferno delle bombe sganciate dai jet governativi e tutto il resto. Io oltretutto ero stato rilasciato da poco, dopo aver passato tre mesi in cella (qui non si dilunga ma avverto una lieve esitazione) perché i governativi mi avevano arrestato: avevo preso parte alle manifestazioni all’inizio della rivoluzione, dimostrazioni pacifiche e piene di speranza. Ma poi avevo lasciato perdere, quando le cose avevano cominciato a cambiare piega.
Quando mi hanno rilasciato sono corso a casa ma qualche giorno dopo i militari del governo hanno occupato il tetto del palazzo. Ora, coi soldati al piano di sopra ero sicuro che mi avrebbero riconosciuto e ammazzato. Ero considerato uno dei ribelli! Ma dopo qualche scambio di battute con gli ufficiali che perlustravano le case avevo capito che la comunicazione tra i soldati e i servizi segreti non era poi così lineare (spesso gli uni disprezzano gli altri), quindi non si sono troppo curati di me.
Mi dice come la guerra sia arrivata in città, da un giorno all’altro, senza preavviso, come la pioggia… ma a questo punto Khafif rientra violento nella conversazione (è la prima volta da quando lo conosco che lo vedo sgusciar fuori dalla sua giovane età e cambiare voce e atteggiamento) e dice ti ricordi papà quella macchina schiacciata dai carri armati? Era una giornata come le altre e dal terrazzo avevano visto un’automobile che a un certo punto si era trovata davanti un carro armato, sbucato dall’angolo. Il guidatore è uscito dalla macchina e gli hanno sparato, dice Salim ma Khafif aggiunge: sì ma non lo hanno preso, è scappato in mezzo ai cespugli di quel palazzo, aggiunge indicando lo schermo. Salim lo guarda di nuovo con stupore. Ma hanno schiacciato la macchina coi cingoli! esclama il figlio ancora incredulo.
Allora Khafif entra al centro della discussione e si mette a raccontare una storia pure lui ma questa volta si rivolge al pavimento, non a me. Sono sceso giù per comprare qualcosa da mangiare al negozio all’angolo. Eravamo affamati, stipati dentro casa coi soldati sul tetto. Quando sono uscito dal portone del palazzo c’erano tutti soldati intorno. Uno di loro, giovanissimo, mi ha chiesto se potevo comprargli un panino. Ho risposto che certamente lo avrei fatto. Il tempo di correre al negozio, prendere qualcosa al volo… dopo due minuti l’ho trovato in una pozza di sangue. Ero immobilizzato dal panico. Sono rimasto come uno scemo davanti a quel corpo col panino in mano finché non ho realizzato che tutti mi stavano gridando di scappare. Ero terrorizzato dal rumore dei colpi che venivano dall’altra parte ma anche dai soldati stessi. Non sapevo cosa fare col panino, dice sorridendo imbarazzato. Ricordo solo che poi sono tornato in me, mi sono allontanato. Un altro soldato mi ha preso il panino dalle mani, mentre a un altro fu ordinato di andare a rimpiazzare il morto. Khafif stacca gli occhi dal pavimento e torna al presente come dopo una lunga trance: mi guarda con occhi acquosi come a sincerarsi che abbia anche io partecipato al suo monologo interiore.
All’epoca Khafif aveva quindici anni, mentre lo vedo con quel panino in mano penso all’accelerazione esistenziale narrata da Paolo Dall’Oglio, prima che lo rapissero.

Infine Salim mi racconta il giorno in cui ha deciso che era ora di andarsene dal palazzo. Una mattina lui e sua moglie avevano notato due fori perfetti nelle colonne di cemento armato della casa. Ho capito che erano armi nuove. Non c’era da fare altro che radunare in fretta le cose e andare via. Quello era il segnale: la guerra stava evolvendo. Torna a mostrarmi il palazzo su google map, e indica, vedi? Siamo passati di qui e poi abbiamo preso la macchina che era parcheggiata proprio vicino a quel palo e infine siamo scappati. No, papà, dice Rafif. Siamo scappati tutti a piedi verso la parte sicura della città e tu sei tornato da solo a recuperare la macchina. Me lo ricordo, benissimo.
Vedo Salim che guarda Khafif e li lascio al loro stupore di padre e figlio, alle loro memorie complementari e sovrapposte che fondono l’insonnia, gli incubi, le opzioni, le strategie e i ripensamenti per sfuggire alla morte. Ora stanno parlando di quando scapparono da casa, ma parlano tra di loro, non più a me; io osservo lo schermo del computer e penso che se il portone del palazzo avesse dato sulla strada principale invece che sul retro un cecchino li avrebbe sterminati uno ad uno, quando scapparono. Penso a Sarajevo, che è stata la mia prima guerra e il mio primo assedio. Penso che nella guerra conta tutto, ci vuole abilità, arguzia e tanta fortuna. Ci vuole coraggio. Ma nessuno di questi ingredienti è in grado di garantirti la vita.
Rania e Lana si annoiano, scalpitano come si scalpita prima di una partenza come questa: è giunto il momento dei regali. Le porgo i braccialetti che ho portato mentre con la coda dell’occhio vedo Salim che dice a Khafif di portarmi qualcosa. Arriva con un backgammon di legno e mi dice, ci tengo a questo, portatelo in Italia. Le separazioni sono sempre dolorose, dico a Rania e Lana prima di abbracciarle. Poi dico loro che quando ci vedremo le porterò a Venezia, sono tutte contente.

La mia amica mi ha mandato un messaggio, la Grecia è bella, le piace un sacco, quando sarà finita tutta questa storia ci ritornerà in vacanza. I greci mi piacciono scrive. Sono come noi: strillano per ogni cosa. Il mare è bello anche se non so nuotare, lo guardo. Non l’avevo mai guardato così, in Siria. Ora è un valore. Le faccio un’infinità di domande, sono curiosissimo. Ma non risponde più. Riappare dopo qualche giorno, mi racconta parte del viaggio, ancora via sms: è arrivata a Bodrum e da lì si è imbarcata per Kalimnos. L’hanno portata al campo ma era pieno, ora sta in un hotel. È contenta. Poi scompare di nuovo. Ancora qualche giorno e un numero olandese mi dice che è arrivata dal fratello. Sono felicissimo. Mi dice ti posso chiamare, le dico certo. Ha la voce che brilla. Adesso si riposerà per qualche giorno e poi andrà dalle autorità. La metteranno in un campo, mi dice. Mi ci terranno spero non più di una quindicina di giorni e poi mi sposteranno in un altro. È un passaggio obbligato, se voglio la residenza. Fanno tutti cosi. Dovranno intervistarmi per l’asilo. Dopo qualche giorno mi scrive dal campo: è affollato di gente che viene da ogni dove, si sente fuori posto, è molto sola, ma si è fatta un amico. Mi invia una foto di lei che sorride con un bimbo nigeriano. Gli occhi tristi, ma hanno la bellezza di chi sta vivendo la propria storia.

Siedo in un piccolo caffè in Libano, in Turchia, in Giordania, non ne sono più cosi sicuro.
Il giardino interno è in stile aleppino, pavimentato di pietre fresche, alberi di agrumi, un pozzo, tavolini bassi dove non so mai come infilarmi. Fumo profumato di narghilè e il rumore delle pedine del backgammon. Il caffè è frequentato da molti ragazzi siriani. Discutono vivaci e aspettano. Scrivono e aspettano. Si guardano, sorridono e aspettano. Molti di loro hanno partecipato ai primi fermenti della rivoluzione, quando si andava per le strade e la polizia cominciava a torturare e a sparare. Hanno visto il sangue dei primi caduti e hanno strillato in faccia agli aguzzini in divisa. Sono tornati in strada più arrabbiati e più numerosi. Finché la rivoluzione è cambiata. Finché abbiamo cominciato a odiare la parola “rivoluzione”, mi ha detto una giovane archeologa siriana, un giorno, come a marcare “il punto di non ritorno”.
Kapuściński mi ricorda che quel momento è uno dei massimi enigmi della storia. E dell’
umanità mi verrebbe da aggiungere. Questi ragazzi sono “quell’uomo della folla che ha smesso di avere paura” di cui narra il reporter polacco. Il poliziotto incontra il dimostrante in mezzo alla strada, lo minaccia, ma lui rimane impassibile. Non c’è più quella terza persona tra poliziotto e ribelle: la paura. L’uomo rimane, la folla rimane. Il poliziotto torna indietro e dà ordine di sparare. Il potere, tronfio e pieno di sé esagera in arroganza e perisce. Il despota è convinto che l’uomo sia una creatura vile perché è circondato da persone vili. Ma morire per un dittatore o morire per la libertà non è la stessa cosa.
Forse è dentro questa frase che cerco di districare quei fili che prima mi strangolavano. Si dice spesso (in Europa) che la rivoluzione siriana – e quelle arabe in generale – siano primavere tradite, fallite, trasformatesi in qualcos’altro. La violenza, la brutalità, le bombe barile, l’estremismo islamico e via dicendo. E lo si dice con quel fatalismo che non si cura nemmeno di nascondere la spocchia (tutta occidentale) da cui è generato.
Quello di cui non si parla mai invece è il tradimento della democrazia, di questa Europa tronfia e piena di sé, che ha dimenticato le sponde natie di Tiro, e che guarda il mediterraneo – non da nord verso sud – ma dall’alto verso il basso. Stati di emergenza che vengono prolungati da governi di transizione: è un Unione che si stringe intorno al proprio deficit di libertà e di identità, che non sa più a quale paese vicino riempire le tasche, a chi fare capacity building sulla sicurezza. E di nuovo quella
sinistra tolleranza verso i fascismi che aumentano le proprie leve, masturbandosi nella paura sociale..

Forse per alcuni moralisti delicati, cinici dell’intelletto, anche questo è fisiologico. Ché in fondo la Storia umana non è che guerra, interrotta da brevi periodi di pace. Ma io dico, con Primo Levi, che nessuno storico o epistemologo ha ancora dimostrato che la storia umana sia un processo deterministico. Se ne discuterà tra pochi anni, quando i giovani rifugiati parleranno la nostra lingua. Sarà una bella prova, allora, trovare l’ordine del discorso. E non sarebbe male cominciare adesso.

  • l’autore scrive sotto pseudonimo

Tutto il nostro sangue

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di Licia Ambu

Tutto il nostro sangue è un atlante della sopravvivenza.
Narra il punto più profondo della gestazione.
Ti spoglia.
E alla fine ti abita.

Spiegare potrebbe non rendere l’idea, mi rendo conto. Si dovrebbero dare le coordinate complesse per orientarsi: dire che è un noir, un po’ fiaba, ma anche gotico, però fantastico, un romanzo pieno, con punte di mistero e colpi di scena, esoterismo anche. Per poi aggiungere che i piani temporali sono diversi e si alternano lungo tutto l’arco del libro: parliamo di una narrazione che mette radici nell’ottocento e produce rami fino ai quaranta passati del duemila. Si potrebbe uscirne confusi, sulla carta. Gli alberi genealogici, poi, sono una scommessa pericolosissima, per il fatto che coinvolgono epoche diverse, intrecci, sono stipati di nomi e date che sono molte cose tutte insieme a cui stare dietro. Apocalittico e distopico, dal canto loro, sono il genere di parola che fa un certo effetto, descrivibile lungo una scala che va da acquisto immediato a diniego assoluto. Tutto questo è qui e rende il libro fuori categoria.

Protagonisti indiscussi sono l’albero genealogico e la macchia geografica a largo delle coste della Virginia nota come isole Shore. Abitanti e abitate. Le abitate sono fisse in spazio e tempo e devono sopperire e reagire, al modo in cui la specie di turno decide di occuparle; gli abitanti hanno un rapporto di amore e odio con la “loro” terra e tutto ciò che ospita, loro compresi. Luoghi e persone convivono, luoghi e persone cercano di sopravviversi. La sopravvivenza è un fatto. Si può sopravvivere vivendo una vita tranquilla, con un nonno che ti insegna il giro del vento, oppure ci si può trovare in situazioni al limite, ad esempio se tuo padre è un uomo pericoloso, se la pistola è l’unica cosa che hai per difenderti nell’ora in cui sarebbe tuo diritto pieno invece giocare alle principesse, o se lo sballato di turno decide che sei l’oggetto sessuale di una serata tra amici. In casi del genere si cerca di salvarsi la pelle.

C’è sempre qualcuno di cui preoccuparsi. Qualcuno che sa che siamo qui da sole, tanto per cominciare.

A pagina sei è disegnato l’albero genealogico (scommessa vinta). Una sorta di mappa della narrazione dove i racconti sono le singole tappe, i luoghi temporali della storia. Narrazioni naturalmente dislocate nel tempo, riconducibili una all’altra per il tramite di dettagli, particolari, una specie di mi ricordo quella casa, siamo già passati di qua. Ma anche racconti come singoli sintagmi basati su un efficacissimo “qui ed ora” che se ne fregano delle coordinate spazio temporali, risultando molto evocativi e perfettamente connotati. Ad esempio, scrivere che di notte le facevano male le braccia tanto aveva voglia di stringere i suoi bambini, rende più di un’idea. Un’altra cosa degli alberi genealogici è che si leggono per ruoli, o parentele. Se non sai già cose di tuo sono praticamente muti, parlano solo di connessioni inizialmente insignificanti. Poi leggi, e più leggi più cerchi i legami come indirizzi sulla mappa. Si incontra gente ammaliante, sottolineo. Personaggi che compiono azioni, con o senza motivi, fanno cose (sì, vedono gente, è il caso di dirlo) e al tempo stesso sono isole. Esattamente come le Shore, isole che con richiamo potente trattengono tutti gli abitanti, creando con loro un legame anche contro la loro volontà. La gestazione estrema. Quella che non taglia il cordone e si appiccica addosso i figli. Così l’isola possiede tutte le creature che ha generato, così gli uni gli altri si possiedono attraverso parentele, magie, colpe, segreti anche quando non si vogliono. La terra e i suoi abitanti sono speculari e il fatto che si tratti di un’isola rende tutto ancora più viscerale perché l’isola ha quel potere di attrazione magico e fatale. Se sei figlio di un’isola non sarai mai orfano. L’isola qui è madre: genera, ospita, trattiene miserie e miracoli. Una maternità infettiva che si tramanda dal sangue delle sue donne in termini di protezione, generazione, desiderio o colpa. Il sangue scorre nelle vene e rimane lì. È un patrimonio condiviso che può essere una possibilità o una condanna, ma in ogni caso è innegabile: timbro indelebile, marchio della discendenza.

Non sono poi così sorpresa che tu sia tornata, ormai tutti sono fissati con gli alberi genealogici. Per quanto mi riguarda, è solo un’inutile perdita di tempo. Scoprire di discendere da un principe serve solo a darsi delle arie. Ti va un caffè?

Sara Taylor poi elimina tutte le cose che non sono importanti o degne di considerazione, e sposta la luce sui dettagli di senso. I dettagli sono un’essenza, indispensabili per un comportamento o una connessione. I suoi personaggi sono vuoti di stereotipi, nessun manichino da vetrina ma più chiaroscuri da retrobottega, facce nascoste dalle tende del soggiorno, e un soggiorno può essere un antro oscuro molto capace. Vengono scovati nei loro istinti più primordiali, nella loro aggressività, nelle loro paure; e nessuna spiegazione, solo collane di fatti. Sono nudi. In questo libro c’è quella parte umana che è feroce o trema quando ha paura, che scappa da un prima o un dove (o entrambe le cose); un richiamo all’atavico, qualcosa che parla al profondo del nostro sistema e ci spoglia. Ci becca il legame anche a noi, e ci spoglia.

Infine, si vede. Così bene che prima o poi chiederò all’esponente del mio albero genealogico, sul divano accanto a me: ti ricordi quella scena pazzesca con le due ragazzine, nel momento in cui la grande dice quella frase? Dai, quel film col sentiero stipato di gusci d’ostrica che fa sobbalzare la bicicletta e alzare la polvere da terra.

Sara Taylor, Tutto il nostro sangue (Minimum fax, 2016)

Le lettere e il volgare

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di Giorgio Mascitelli

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La lettera dei 600 docenti universitari al governo sulla crisi della conoscenza dell’italiano nelle giovani generazioni apparsa nelle scorse settimane ha avuto il merito indubbio di porre l’attenzione generale sul problema delle competenze linguistiche nazionali, argomento che di solito non occupa esattamente la prima pagina dei giornali; anzi tradizionalmente questioni del genere sulla stampa vengono affrontate a ridosso di ferragosto quando tutti sono in vacanza e le redazioni sono più libere nella scelta dei temi. Fatto il doveroso tributo al merito di aver debalnearizzato una questione cruciale, penso che proprio per la sua rilevanza il dibattito vada liberato da tutta un’aura moralisticheggiante.

Con questo non alludo soltanto alla lettera dei professori che quanto meno fanno proposte operative, ma a una certa ricezione dell’opinione pubblica. Per dirla tutta, se si vuole una scolarità di massa anche a livelli superiori, cosa a mio avviso auspicabile se non altro perché l’alternativa sarebbe allontanare precocemente dalla scuola chi ne ha più necessità, bisogna anche sapere accettare che alcune competenze siano più precarie: quando all’università tutti scrivevano senza errori, la frequenza a quella venerabile istituzione non era esattamente un fenomeno di massa. Ciò non significa che non si possa far nulla, ma che le proposte debbano tenere conto del contesto storico  in cui viviamo.

Per restare alla lettera dei 600, può essere utile ridare alle elementari qualche spazio in più all’educazione linguistica rispetto a quello previsto dai nuovi programmi, mentre l’idea di spedire come presidente di commissione per gli esami conclusivi dei vari ordini di scuola un docente dell’ordine superiore mi sembra più essere l’espressione di una  fiducia metafisica nella gerarchia che avere un’effettiva funzione nella risoluzione dei problemi sollevati.

In generale, tuttavia, gli errori più spettacolari nell’uso della lingua, quelli ortografici o certi sintattici come per esempio l’uso dell’indicativo al posto del congiuntivo, quelli che in qualche modo tutti riconoscono, salvo i diretti interessati, e hanno un’eco giornalistica e social, non sono necessariamente i più pericolosi per una fruizione piena e autonoma dell’italiano. La povertà lessicale, l’incertezza sulle varie sfumature semantiche della parola e, a livello più alto, l’incomprensione di certi meccanismi retorici del linguaggio quotidiano e l’inconsapevolezza degli aspetti connotativi ed emotivi della comunicazione costituiscono il più serio pericolo in questo senso. Ora per acquisire e sviluppare  questo tipo di conoscenze e competenze a scuola, non è importante solo  un’attività didattica  specifica, ma  offrire una serie di stimoli culturali che ne consentano l’apprendimento e l’applicazione  spontaneamente. In questo senso la tendenza dominante negli ultimi anni, di cui le prove INVALSI e PISA  sono le punte di diamante, a considerare la capacità e la preparazione linguistica una facoltà in sé completamente scissa da un processo di acquisizione culturale pare assolutamente inadeguata a prevenire queste forme di insufficiente capacità linguistica. Un esempio dei rischi di questa impostazione ce l’ha offerto Girolamo De Michele (http://www.carmillaonline.com/2012/05/08/salvate-il-soldato-rigoni-stern/) analizzando un brano tratto da un racconto di Rigoni Stern e impiegato per le prove INVALSI alle superiori,  in cui il tentativo di valutare  il testo avulso dal suo contesto storicoculturale specifico come strumento di riconoscimento di una pura competenza linguistica conduceva gli autori della prova stessa, nel formulare le domande, a commettere errori anche marchiani.

L’educazione linguistica, specie nel ciclo delle scuole medie inferiori e superiori, è in qualche misura in mano non solo ai docenti di italiano, ma anche agli altri; penso per esempio al ruolo degli insegnanti di materie scientifiche nella definizione rigorosa dei concetti chiave delle loro discipline e, soprattutto, nell’evidenziare come termini d’uso nella lingua comune assumano significati particolari in determinati ambiti. Ovviamente il peso maggiore di questo lavoro spetta comunque a quelli di materie letterarie ed è allora importante seguire il suggerimento di Rossi Doria, che propone di inserire nel curriculum universitario  per accedere all’insegnamento un esame di grammatica e uno di linguistica; inoltre la conoscenza basilare della lingua latina ( essere in grado di fare traduzioni di media difficoltà) e di almeno una lingua straniera è un elemento imprescindibile nella formazione di un docente di italiano di tutto il ciclo medio; bisognerebbe anche favorire e valorizzare nel periodo universitario e in quello di apprendistato esperienze, anche brevi, di insegnamento dell’italiano a stranieri.

Nei dibattiti seguiti alla pubblicazione della lettera dei 600 molti hanno citato il fatto che in Italia il 70% della popolazione sarebbe costituita da analfabeti funzionali, un paio di volte qualcuno addirittura è arrivato a parlare di analfabeti tout court. Credo che l’origine di questi dati sia determinato dal rapporto PIAAC, un’indagine internazionale del 2013 sul livello di uso nella popolazione adulta dei paesi OCSE della lingua, delle competenze matematiche e di altre ancora, per accostarsi alle informazioni  e usarle efficacemente ‘al fine di partecipare in modo efficace nella società’. Caratteristica di questa indagine è di suddividere in sei fasce la popolazione cosicché ‘gli individui sono considerati abili, in maggiore o minor misura nella competenza in questione, invece di essere o solo “abili” o “solo non abili”. In altre parole, non esiste una soglia che separa coloro che hanno la competenza in questione da quelli che non l’hanno’ ( Rapporto Nazionale PIAAC 2014 p.23). La fascia inferiore al livello 1 è quella ai limiti dell’analfabetismo, la 4 e 5 rappresentano la piena padronanza, la fascia 3 è quella che indica il raggiungimento di competenze considerate  fondamentali per gli obiettivi sopra esposti.  Ora in Italia il 70% della popolazione raggiunge la fascia 2 o quelle inferiori, mentre in paesi come la Germania è il 52% e in Danimarca il 50% e la media OCSE è del 49%. Questo significa che il campione italiano, selezionato al 53% tra persone prive del diploma di scuola superiore, non ha problemi di analfabetismo, ma di insufficienti abilità complesse, che diventano nella società moderna fondamentali. Preciso questo fatto perché un certo gusto per il sensazionalismo pregiudica la comprensione del problema.

Questa ricerca offre anche un altro dato significativo e cioè che le prestazioni migliori sono quelle della fasce di età più giovani: sembra di capire, aldilà dei pur comprensibili fattori biologici e storici, che man mano che ci si allontana dal periodo scolastico queste abilità diminuiscono. E’ chiaro che il tipo di esperienza sociale, sia nel mondo lavorativo sia nei consumi culturali, di molti connazionali non favorisce il mantenimento e lo sviluppo delle abilità raggiunte nel periodo scolastico.  Tra le ragioni, verosimilmente,  una struttura produttiva e quindi occupazionale incentrata su attività poco qualificate o tradizionali che non abbisognano di particolari abilità complesse e dunque poco stimolanti su questo piano e  e un modello di consumi culturali in cui la televisione continua a fare la parte del leone, affiancata di recente dagli smartphone che rendono difficile la lettura in rete di testi minimamente complessi. In particolare l’avvento della televisione commerciale ha cancellato qualsiasi funzione educativa di questo medium, che in qualche misura aveva avuto  nella prima fase della sua esistenza ( si pensi a trasmissioni come Non è mai troppo tardi), e ha promosso un italiano sciatto e al tempo stesso stereotipato, privo cioè di quell’inventiva che la vecchia lingua popolare ancora intrisa di dialetto talvolta aveva.

In questo contesto è evidente che la scuola si trova a operare in condizioni di sostanziale assenza di altre agenzie formative che possano condividerne gli sforzi e anzi ha di fronte un assetto sociale che va in tutt’altra direzione.  Così la questione dell’italiano diventa la questione italiana ossia di un paese, che pur avendo potenzialità enormi, coltiva quasi programmaticamente un’obsolescenza e un arretramento delle proprie forme di vita, ivi comprese anche quelle del settore produttivo. In tutto ciò la saggezza di Bertoldo dei nostri ceti dirigenti, intesi non solo come politici ma anche come imprenditori, banchieri e tecnici,  secondo la quale con la cultura non si mangia,  gioca un ruolo non secondario.

 

 

Biagio Cepollaro, Al centro dell’inverno (prologo)

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Biagio Cepollaro,Icona-49,2015.Coll. privata,Milano

di Biagio Cepollaro

Da Al centro dell’inverno, inedito.

Prologo

Dal collasso della storia

1.

il corpo ogni giorno si accende come si avvia un terminale

a lui fanno capo i messaggi in arrivo e ogni input che suona

è richiesta di attenzione e risposta. è pioggia che batte

sui vetri la chat che moltiplica i gruppi divisi per tema

 

2.

il corpo al centro dell’inverno può anche coprire con un respiro

lo spazio della stanza: desiderio e gioia ripetono la loro danza

ma è come stare su di una zattera o dentro un cerchio di luce

che scivola sulla terra. è tutto intorno che non si vede o peggio

è questo mondo prossimo che anche visto non si può toccare: sono

i corpi tutti nell’acquario che “postano” di cibi gatti e grandi imprese

 

3.

il corpo ogni giorno si connette attraverso un fascio di luce

ad altri corpi e le teste si annodano con onde invisibili

che muovono e smuovono anche di notte senza sudare

ciò che prima era solitaria fantasticheria ora è fantasma

di gruppo che si solleva dai cuscini e plana attraverso le porte

se il corpo tagliasse questo filo che lo lega agli altri

si sentirebbe immediatamente respirare ma l’incertezza

della strada sarebbe più grande e anche assordante

sarebbe l’immediato silenzio sceso nella stanza

 

4.

il corpo si tuffa nella piscina riempita da parole

che scorrono incessanti attraverso tubi invisibili

e lo connettono al mondo da ogni lato. sono continue

trasfusioni di senso che nella quotidiana insensatezza

affollano psiche fino a farla sola e febbricitante

 

5.

il corpo anche nel sonno avverte il sussulto del terminale

che dice il messaggio in arrivo o la battuta di qualcuno

a proposito di qualcosa ad una certa ora della notte: il silenzio

non c’è. in suo luogo una modalità silenziosa che piano

sovverte la calma del corpo e la sua greve indifferenza

 

6.

il corpo al centro dell’inverno è un vuoto che non si risolve

è un punto interrogativo che attende il tempo che lo prende

e lo solleva come quando è dentro al suo dire e non c’è differenza

col suo fare. affacciato sull’istante luminoso che non viene si sporge

oltre la minaccia di morte e malattia: ripassa a memoria i volti

pochi dell’incanto che lo salvano forse dal collasso della storia

 

7.

il corpo che si disconnette sguscia via dall’involucro

d’onde che lo stringe. fuori torna ad essere assenza

di linguaggio: ora è soltanto pelle e patina tempo

e postura mentre l’aria della primavera profuma

 

8.

il corpo al centro dell’inverno vede ancora più buie

le strade che portano fuori dalla città verso un’ecologia

di confine tra periferie sfigurate e il grigio negli occhi

molte vite si sbranano qui senza neanche un racconto

basta la rabbia e la tristezza basta per ogni giorno

l’abitudine e per ognuno la morte è la fine del mondo

 

[ Al centro dell’inverno, attualmente in lavorazione, costituisce il terzo libro della trilogia Il poema delle qualità. Il primo libro, Le qualità, è uscito nel 2012 presso La camera verde di Roma; il secondo, La curva del giorno, è apparso per i tipi de L’arcolaio di Forlì nel 2014. Il pdf de Le qualità si può scaricare qui, e alcune conversazioni sul libro qui; la registrazione audio della lettura del prologo realizzata al festival di Bologna in lettere nel maggio del 2016 è ascoltabile qui. L’immagine si riferisce ad un mio quadro  del 2015, Icona-49.B.C.]

Jean Baudrillard e il delitto imperfetto

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di Davide Gatto 

CSA2

(seconda parte)

Il delitto non è mai perfetto, ovvero “l’illusione indistruttibile”[1]

Il processo è irreversibile? Abbiamo perduto per sempre il desiderio, la passione, la curiosità per l’Altro/altro, per il misterioso mondo reale delle apparenze? Tanto è lontano Baudrillard dal credere questo – coerentemente con quel nichilismo “creativo” cui si faceva cenno all’inizio – che arriva a considerare il trionfo attuale della scienza e della tecnologia una sorta di inspiegabile strategia del mondo e delle cose per tenere in vita l’illusione, per trattenere l’uomo sulla soglia della sua scomparsa (come sempre metaforica: di lui resterebbe l’immagine o, futuribilmente, l’ologramma).

L’argomentazione è come sempre ricca e complessa, ma muove essenzialmente dalla considerazione che le cose continuano a sfuggire davanti alla scienza che le bracca, come l’elettrone che talvolta interagisce con i rivelatori come corpuscolo, talaltra come onda, o di cui secondo il principio di indeterminazione formulato da Heisenberg non è possibile stabilire contemporaneamente, per esempio, la velocità e la posizione. Se il mondo e le cose sanno sempre svincolarsi dall’abbraccio mortale – per noi uomini mortale – del pensiero produttore di senso e di perfezione, allora l’illusione è salva e la realtà continua ad apparirci misteriosa ed attraente.

Il ragionamento più interessante però è quello per cui secondo Baudrillard l’impiego della nostra intelligenza per costruire un mondo virtuale e ipertecnologico in sé perfetto, dotato del senso che ab origine cerchiamo, deve essere interpretato come un “acting out”, locuzione con cui la psicanalisi indica la proiezione all’esterno in comportamenti e atteggiamenti del materiale inconscio responsabile della nevrosi, a scopo terapeutico.

Insomma la nostra realtà virtuale sarebbe il tentativo terapeutico definitivo per guarire dal disagio esistenziale che ci è connaturato: l’Altro che tanto ci angoscia con la sua indecifrabilità scomparirebbe, il mondo trasformato in un congegno compatto e automatico ci esimerebbe dal prendere decisioni e dall’assumerci responsabilità, la marginalità così ottenuta – la “scomparsa”, usando le parole di Baudrillard – risolverebbe anche le incertezze tutte novecentesche circa la nostra effettiva esistenza, dato che “in nessun luogo possiamo dar prova della nostra esistenza e della sua autenticità”[2] se non nel mondo virtuale che ha “ucciso” la nostra presenza, perché solo ciò che esiste può essere ucciso.[3]

Se questo però è il progetto inconscio di un uomo fiaccato dalla nevrosi, è certo che la sua realizzazione risulta ancora una volta fallimentare. Paradossalmente e misteriosamente, infatti, la tecnica riproporrebbe inalterato il mistero del mondo, nel contempo però affrancandosi completamente dal controllo dell’uomo e divenendo strumento delle cose che continuano a restare sfuggenti: “Attraverso le finissime procedure che dispieghiamo per captarlo (scil. “l’oggetto della scienza”), non è forse esso a prendersi gioco di noi e a ridersela della nostra pretesa oggettiva di analizzarlo? Gli stessi scienziati non sarebbero lungi dall’ammetterlo.”[4]

Abbiamo affidato alla tecnica il compito di rendere del tutto trasparente il mondo, di cancellare la sua ombra segreta, ma tutto quello che abbiamo ottenuto è la nostra marginalità, la nostra scomparsa (non alienazione, che ancora presupponeva una presa di posizione dialettica, critica rispetto al reale non ancora assoluto come il nostro virtuale), mentre le cose stesse, la tecnica stessa ci ripresentano intatto lo stesso mistero di sempre: “Alla funzione critica del soggetto è succeduta la funzione ironica dell’oggetto”[5], quasi come se l’oggetto stesso se la ridesse della nostra ingenua pretesa di cancellare “la parte maledetta”, l’imprevedibilità, il destino e con essi l’insopprimibile “gioco” dell’illusione.

 

Lo spazio residuo di intervento dell’uomo

L’avvento del Virtuale, la nuova realtà artificiale a cui la scienza e la tecnica lavorano indefessamente, ha segnato un vero spartiacque nella storia del pensiero: se prima le ipotesi di spiegazione del mondo ingaggiavano scontri quotidiani con il pensiero critico in un agone propriamente dialettico, oggi la realtà, compiuta e dispiegata, non ammette alcun pensiero critico semplicemente perché la certificazione tecnico-scientifica l’ha resa totale, indiscutibile, senza ombre.[6]

Sembrerebbe quindi raggiunto l’obiettivo a cui l’umanità ha mirato fin dalle sue origini, quello di un mondo trasparente, pienamente comprensibile e governabile; eppure – osserva Baudrillard – “siamo arrivati a un tale grado di realtà e di oggettività da poter addirittura parlare di un eccesso di realtà che ci lascia molto più ansiosi e sconcertati della mancanza di realtà, la quale poteva per lo meno essere compensata con l’utopia e con l’immaginario.”[7]

Venuto meno quindi il pensiero critico, e con esso la stessa esistenza del tipico procedimento con cui l’intelligenza si confrontava con il mistero del mondo, ovvero la dialettica, all’uomo secondo il filosofo francese non resta che portare all’eccesso con il pensiero questa presunta positività compiuta, “moltiplicare il positivo con il positivo”, perché “Niente ha lo stesso senso appena è confrontato non con la sua forma incompiuta, ma con la sua forma compiuta, o addirittura eccessiva.”[8]

Il ragionamento filosofico trova la sua chiara e piena esplicazione in un capitolo[9],dedicato all’arte e alla figura di Andy Warhol, che potrebbe essere a pieno titolo considerato un piccolo saggio storico-artistico nella più ampia cornice del saggio filosofico.

A differenza di “Duchamp, Dada, i surrealisti”, intenti a isolare e a destrutturare criticamente l’oggetto della loro rappresentazione “per esaltare la soggettività creatrice dell’artista”[10], il suo punto di vista altro rispetto al reale ritratto, Warhol sceglie di sopprimere la sua interpretazione e di riprodurre come una vera e propria macchina solo l’immagine di un oggetto, senza alcun collegamento con il suo referente naturale: l’immagine pura, tecnica ed eventualmente seriale.

Al di là delle polemiche e delle incomprensioni che alcune sue opere suscitarono per la loro apparente celebrazione di alcuni miti della società capitalista e consumista, basta guardare la serie dei barattoli della “Campbell’s tomato soup”, o la riproduzione del manifesto pubblicitario della Coca Cola, o ancora la moltiplicazione di volti e pose di Marilyn Monroe – modulate secondo variazioni cromatiche che fanno pensare più alle prove di un laboratorio di grafica che non alla raffigurazione realistica della persona – per comprendere che centro dell’opera di Warhol non sono le cose reali e sempre problematiche che ci circondano, ma i loro “simulacri” semplificati, artificiali, piatti e insignificanti che la tecnica ha reso possibili e che ha presto diffuso e globalizzato: il mondo vero ed enigmatico è scomparso, soppiantato da vuote immagini senza senso, riproducibili all’infinito.[11]

Ecco dunque che Warhol, in questo mondo totalmente “positivo” a cui non è più possibile opporre una critica, data la scomparsa di ogni polarità dialettica, non fa che potenziare “macchinalmente” questo nostro nuovo mondo virtuale, in cui persone e cose si moltiplicano senza anima nella forma dei cartelloni pubblicitari, delle icone alla moda o delle elaborazioni grafiche di foto di riconoscimento.

E se da una parte – e coerentemente – questa operazione ha comportato la scomparsa dell’artista come soggetto interpretante del mondo, e con esso dell’arte stessa come suo strumento privilegiato[12], dall’altra essa rivela con la massima intensità possibile il vuoto e l’assenza di significato della nostra realtà fatta di immagini e di rappresentazioni, non più di cose e di persone.

A ben vedere questo modo di combattere il positivo con il positivo, questo disvelamento del vuoto che traspare dietro il pieno delle immagini riaprirebbe lo spazio perduto dell’illusione, che anzi diverrebbe finalmente radicale, perché il simulacro del mondo (nichilisticamente il mondo non può che essere simulacro, dato che non esiste se non in quanto apparenza) sarebbe nuovamente “incondizionato” come ai tempi delle “fantasmagorie inumane di tutte le culture precedenti la nostra”[13]: ognuno può vedere nel vuoto delle cose ciò che vuole, anche oltre la dialettica condizionante della religione, della ideologia o della morale, può “prendere il mondo per il mondo, e non per il suo modello”[14].

Paradossalmente – e significativamente – questo straordinario risultato di “rendere il mondo ancora più illusorio di prima” sarebbe decretato proprio dal trionfo delle tecniche, come Baudrillard afferma esplicitamente: “È proprio questo (…) il destino di tutte le nostre tecniche: rendere il mondo ancora più illusorio”.[15]

 

“L’altro versante”, ovvero gli effetti della scomparsa dell’Altro nel nostro quotidiano

L’affermazione di questo nostro mondo totale e indiscutibile costruito a tavolino dalla scienza e dalla tecnica ha determinato – come Baudrillard si è speso a spiegare nella prima parte del libro – l’annullamento degli spazi vuoti della distanza, e quindi della pre-condizione necessaria per l’esercizio dell’intelligenza speculativa, della critica, da ultimo dell’arte intesa come estetica dell’interpretazione: in una parola è scomparso l’Altro/altro, in tutte le sue forme.[16]

La prima forma fattuale di alterità annullata su cui il filosofo francese si sofferma è quella a suo giudizio incomparabile tra il maschile e il femminile.[17] Se caratteristica fondamentale del Virtuale è la costruzione razionale, misurabile, totale di un mondo senza mistero e senza imprevisti (senza destino), è inevitabile che tutte le cose – anche quelle che appartengono a categorie tra loro incomparabili come, appunto, il Femminile e il Maschile – debbano essere ricondotte ad un unico paradigma, a una matrice comune che permetta di metterle a confronto e di rivelarne semmai le differenze. Quale che sia la ragione dello sterminio dell’alterità – semplicemente la temiamo, o la nostra individualità è diventata così preponderante da pretendere di vedersi specchiata nelle cose? -, “Fatto sta che l’alterità viene a mancare, e che bisogna assolutamente produrre l’Altro come differenza, al posto di vivere l’alterità come destino.”[18]

Mentre però la percezione del sesso opposto come incomparabilmente Altro suscita il desiderio, la passione, l’ebbrezza vitale e un po’ spericolata della seduzione, la riduzione di uomo e donna a un catalogo di differenze anatomiche, biologiche, psicologiche etc. finisce per rendere i due sessi sostanzialmente uguali e quindi indifferenti l’uno all’altro. Anzi, spiega Baudrillard, i connotati superficialmente distintivi di uomo e donna, una volta cancellato il fondo oscuro e inafferrabile dell’alterità, possono facilmente passare dall’uno all’altro, facendo dei giorni nostri “l’era del Transessuale”.[19]

“L’utopia della differenza sessuale” – ragiona ancora il filosofo francese –, subentrata allo sterminio dell’Altro, opera attraverso un meccanismo di proiezione, per cui l’uomo non desidera più la donna reale, ma quella ideale modellata a immagine e somiglianza della sua propria parte femminile, e così, viceversa, la donna: di fatto non si desidera più l’Altro, che al contrario si teme, ma in un certo senso il Medesimo, in un corto circuito che porta inesorabilmente ad una società asessuata.

Nel frattempo, però, questa sessualità proiettiva e ideale sarebbe la causa dei fenomeni attualmente sempre più diffusi della pornografia, approdo della sessualità maschile malata di differenza e di idealizzazione proiettiva, e della “molestia sessuale: caricatura fobica di ogni approccio sessuale, rifiuto incondizionato di sedurre e di essere sedotti.”[20]

Baudrillard non offre proposte concretamente operative per uscire da questa situazione. La soluzione, generale, è però un filo rosso che continuamente si immerge e riemerge tra le righe del libro: “Occorre tenere aperte l’alterità delle forme e la disparità dei termini, occorre tenere vive le forme dell’irriducibile.”[21]

La perlustrazione ragionata del nostro mondo attuale prosegue serrata nelle pagine successive. Se l’eliminazione dell’Altro come mistero e come destino si è compiuta negli ultimi decenni sotto i colpi della scienza e della tecnica e per l’avvento decisivo del Virtuale – di un reale cioè razionale e perfetto a coprire il Reale sempre sfuggente sottotraccia -, è un fatto però che noi senza l’Altro non sappiamo vivere. Ecco dunque che esso viene resuscitato nelle forme della differenza: la donna non è più altra, ma solo differente, lo straniero non è più altro, ma differente, in fondo anche l’individuo per me non è più altro, ma differente. Mentre però la dimensione dell’alterità, con la sua stranezza, genera passione e pienezza vitale[22], la differenziazione superficiale surrogata ci rende “indifferenti” “E segretamente disperati per questa indifferenza, e gelosi di ogni forma di passione, di originalità, di destino.”[23]

È a questo punto che il filosofo inserisce una sua riflessione – pertinente e assai convincente – sulla drammatica situazione balcanica di quegli anni (il 1994 è l’anno dell’assedio serbo di Sarajevo).[24]

L’annullamento dell’Altro e il conseguente paradigma assoluto della differenziazione sono forieri di “Tutte le forme di discriminazione maschilistica, razzistica, etnica o culturale”[25], così come di una fondamentale indifferenza. Questa indifferenza però può sfociare tanto nel razzismo (cerco l’Altro scomparso come diverso da odiare), quanto nella solidarietà umanitaria (cerco l’Altro scomparso come vittima di un destino che temo ma di cui ho una insopprimibile nostalgia).

Ribalta così Baudrillard la logica umanitaria che correva in quegli anni su tutti gli organi di informazione e in tutte le sedi della politica: non gli abitanti di Sarajevo, o i bosniaci in generale sarebbero state le vittime bisognose dell’intervento dell’Occidente, ma noi occidentali le vittime di un ordine ormai antropologico che avrebbe reso asettiche le nostre vite: sottratti all’imprevedibilità della “parte maledetta”, senza un destino, noi uomini della realtà patinata e assoluta del Virtuale avremmo la necessità assoluta di immergerci – davvero per interposta persona – nella realtà vera, drammatica, fatale di chi un destino ancora lo vive quotidianamente.[26]

Ma il passo dalla riflessione filosofica all’analisi storico-politica è breve. In fin dei conti se è logicamente fondato affermare che il nostro bisogno dell’Altro che abbiamo sterminato si traduce nello sforzo – conscio o inconscio – di determinare o cristallizzare situazioni in cui la parte maledetta imperversi senza che noi ne siamo direttamente toccati[27], è d’altra parte indubbio che chi è politicamente deputato a deliberare in conformità a questo assunto ne è anche pienamente responsabile: è “l’Europa reale, l’Europa bianca, imbiancata, integrata e pulita, moralmente come economicamente ed etnicamente.”[28]

Tirate le somme, la società del suo tempo (e profeticamente del nostro) che Baudrillard ritrae è caratterizzata da “passioni senza oggetto, passioni negative, nate tutte dall’indifferenza (…) e dunque destinate a cristallizzare preferibilmente su qualsiasi cosa.”[29]

Questa indifferenza, “che risponde all’indifferenza tecnica delle immagini” dell’informazione globale, d’altra parte, sfocia inevitabilmente nel “nervosismo”, che il filosofo francese definisce efficacemente come “una forma allergica senza un oggetto definito”, a sua volta destinato a trasformarsi in un odio senza oggetto definito, estremamente volubile: “All’odio nato dalla rivalità e dal conflitto si oppone quello nato dall’indifferenza accumulata, che può cristallizzare bruscamente, in un passaggio all’estremo.”[30]

Eppure – conclude Baudrillard – forse quest’odio è paradossalmente il segno auspicato di una reazione a un ordine (mentale, culturale, politico etc.) universale che pretende di “estirpare il male” – inteso al solito come la parte maledetta, misteriosa, irriducibile – dall’uomo “per farne un essere razionale”: “In questo senso l’odio, passione virale, è anche una passione vitale.”[31]

Sotto la patina di una realtà che ci sforziamo di costruire come un congegno integrale, razionale e interamente governabile, dunque, Qualcosa/qualcosa ancora si muove. Abbiamo fatto e facciamo di tutto per fare dell’Altro l’immagine specchiata di noi stessi, per spingere il mondo e le cose dentro lo specchio che ci riflette, che rimanda sempre l’immagine del Medesimo, ma – preconizza Baudrillard – “Questa schiavitù del medesimo e della somiglianza sarà un giorno spezzata dal riapparire violento dell’alterità”[32], senza peraltro che sia dato sapere con quali esiti concreti.

[1] J. Baudrillard, op. cit., pag. 67

[2] Ivi, pag. 44

[3] Cfr. ibidem: “Il delitto è all’origine di tutte le culture, come l’acting out per eccellenza. E in questo senso la stessa impresa tecnologica può passare per una proiezione criminale, per un acting out sacrificale, per un esorcismo, una di quelle forme eccentriche che eludono la gravità dell’esistenza.”

[4] J. Baudrillard, op. cit., pag. 78

[5] J. Baudrillard, op. cit., pag. 79

[6] Cfr. ivi, pag. 70: “Finora abbiamo pensato una realtà incompiuta, travagliata dal negativo; abbiamo pensato quel che mancava alla realtà. Oggi si tratta di pensare una realtà alla quale non manca niente, degli individui ai quali non manca potenzialmente niente, e che dunque non possono più sognare un’elevazione dialettica.”

[7] ivi, pag. 69

[8] ivi, p. 71, passim

[9] Il capitolo, intitolato Lo snobismo macchinale, è compreso nella prima sezione dell’opera (pp. 81-90).

[10] J. Baudrillard, op. cit., pp. 82-83, passim

[11]J. Baudrillard, op. cit., pag. 82: “Questo è Warhol e la sua ipostasi seriale dell’immagine, della forma pura e vuota dell’immagine, la sua serie di icone estatica e insignificante”

[12] Cfr. ivi, p. 86: “L’estetica restituisce un dominio del soggetto sull’ordine del mondo (…)”

[13] Ivi, p. 86

[14] Ivi, p. 94

[15] Ivi, pag. 89

[16] Cfr. J. Baudrillard, op. cit., p. 117 per una rapida sintesi di queste forme dell’altro: “(…) l’altro in tutte le sue forme (malattia, morte, negatività, violenza, stranezza), senza contare le differenze di razza e di lingua, (…) tutte le singolarità (…)”. Un elenco ancora più esaustivo, corredato di una bruciante spiegazione della sua scomparsa ad opera del Virtuale, è nella pagina introduttiva di questa seconda sezione (p. 113). Cito ad esempio l’alterità “della morte, che si scongiura con l’accanimento terapeutico”, o “Quella del volto e del corpo, che si perseguita con la chirurgia estetica”. La serie si conclude significativamente con l’attestazione che “Non vi è più destino”.

[17] Cfr. ivi, p. 126: “Il Femminile e il Maschile sono (…) due termini incomparabili.”

[18] Ivi, pag. 119

[19] Ivi, p. 121. Cfr. anche più sotto (pp. 121-122): “L’utopia della differenza sessuale termina nella commutazione dei poli sessuali e nello scambio interattivo. Al posto di una relazione duale, il sesso diventa una funzione reversibile.”

[20] J. Baudrillard, op. cit., p. 125

[21] Ivi, pag. 127. Cfr. anche p. 134:” Possiamo soltanto ricordarci che la seduzione consiste nella salvaguardia della stranezza, nella non riconciliazione. Non bisogna riconciliarsi con il proprio corpo, né con sé stessi, non bisogna riconciliarsi con l’altro, non bisogna riconciliarsi con la natura, non bisogna riconciliare il maschile e il femminile, né il bene e il male. In ciò risiede il segreto di una strana attrazione.”

[22] Anche nelle forme opposte della attrazione o della repulsione, precisa Baudrillard chiamando in causa i “resoconti antropologici fino al XVIII secolo, e persino (…) la fase del colonialismo” (p. 136)

[23] J. Baudrillard, op. cit., pag. 135

[24] Si tratta di una autocitazione, dato che viene riprodotto l’articolo originale apparso sulle pagine di Libération il 6 gennaio 1994, come spiega l’Autore in una nota (p. 136, nota 1)  

[25] Ibidem

[26] Cfr. J. Baudrillard, op. cit., p. 138: “Noi però sappiamo meglio di loro cos’è la realtà, poiché li abbiamo designati a incarnarla. O semplicemente perché si tratta di ciò di cui noi, e tutto l’Occidente, manchiamo maggiormente. Bisogna andare a rifarsi una realtà là dove c’è sangue”

[27] Alla pag 141 Baudrillard definisce la nostra una “società vittimale”, intesa “come la forma più facile e più banale di alterità. Resurrezione dell’Altro come sventura, come vittima, come alibi – e di noi stessi come coscienze infelici che ricavano da questo specchio necrologico un’identità a sua volta miserabile.”

[28] J. Baudrillard, op. cit., pag. 140. Pochi righi sotto, ad allargare il quadro di questa ghettizzazione dell’Altro, il filosofo spiega l’immobilismo europeo del tempo come “una fase logica e ascendente del Nuovo Ordine Europeo, filiale del Nuovo Ordine Mondiale, che è ovunque caratterizzato dall’integralismo bianco, dal protezionismo, dalla discriminazione e dal controllo.”

[29] Ivi, pag. 148

[30] Ivi, pagg. 150-151, passim

[31] Ivi, pag. 152. Acuta e lungimirante, poco sotto, l’estensione dell’analisi al campo della geopolitica: “È lo stesso sentimento che nutre, in tutti i popoli non occidentali, questa denegazione viscerale, profonda, di ciò che rappresentiamo e di ciò che siamo. Come se anche questi popoli avessero l’odio. Per quanto si prodighi loro tutta la carità universale di cui siamo capaci, vi è in essi una specie di alterità che non vuole essere compresa (…).”

[32] J. Baudrillard, op. cit., pag. 154

Last words

0

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di Gabriele Tinti

immagini di Andres Serrano

#

Ancora una volta ho mandato a puttane la mia vita
e questa volta non c’è rimedio. Non ho una casa,
non ho un lavoro, non ho un soldo. Ho due figlie meravigliose
che si meritano molto più di quanto io possa
offrir loro, dalla vita si meritano di meglio di quanto
io potrò mai dar loro (…) Sono così depresso e so che
non ne verrò fuori.

Vita di Alice/ 2

1

di Francesca Fiorletta

Alice non sentiva mai il suono della sveglia.
A notte fonda, faceva sempre sogni molto intensi, popolati per lo più da regnanti antichi col mantello rosso e feste danzanti in discoteca, api operose e cavalier serventi, lumachine bianche e magia nera; tornavano a trovarla strani volti del passato, amiche d’infanzia trasferite precocemente all’estero, fidanzati nerboruti che le avevano insegnato l’amore a vent’anni.

Strettoie

3

Marco Giovenale

Dopo un po’ di molto male
tutto manca
meglio: tutto
è dato, di quello che doveva.

Le mosche fanno i lobi
sul canale. Legano coi loro
gigli, globi. Ai gradi dove forza
la corrente, fa cappio. «A tratti
il corpo che la viaggia beve».
A tratti no.

 

 

///

 

 

così invece se vi è accordo farei ora in vostra presenza una
CRISI DELLE GRANDI IDEOLOGIE
per dimostrare – davanti ai nostri graditi – che questo genere di crisi non comporta nulla di

e si vive lo stesso

attenzione. (manciata di magnesio, candela)
pooof – ecco
la CRISI DELLE GRANDI IDEOLOGIE

qualche si copre gli occhi,
qualche starnutisce l’applauso.

non è successo niente

 

 

///

 

 

Finalmente un giorno i giorni
non varranno niente
niente il celestino tutti
i gradi prima, Starbucks, le 6
(di pomeriggio), una
volta ancora senza neve
europea.

Finalmente sarà in corsivo:
finito (è nello script,
perfino, staggato) e le dotcom
comparse scenderanno in righe
filanti dai torpedissimi
torbidi vesuviani
pensando ecco Parigi.

Sarà finita un’altra campagna
elettorale o bellica o le due, più
la letterale che ci sarà un discorso
tra tutti
nei caffè
a varie ore
a capo
a seconda dei fusi.

Ma non ci saranno
i caffè (leggi: i locali)
sostituiti da stabbie stalli
per i morelli degli psicopatici
che però corrono, vincono,
diventano ricchi e
vi danno lavoro – a quelli come voi

 

 

///

 

 

il cameriere coi denti sul guscio
dice la vita è fatta con la morte
bella scoperta ai margini delle
fosse o dei fossili o portando
in tavola qualcosa che poi piace

 

 

///

 

 

O che sintesi fólgo-, vólgo,
all’ultima tacca alcalina del suono…,
un je-toi (getto gettato, gettone memento),
un me metro di pensiero, chassis chiuso
nell’alberghino Oltrarno
sotto le pale est, estive.
Verbigerans. (Flumen)
Cèdesi per mòdica.
Cosa qualsiasi.
Fisica, metafisica, po
litica

 

 

///

 

Marco Giovenale, Strettoie (Arcipelago Itaca, 2017)

 

 

Minchia di mare – Arturo Belluardo

3

  Anteprima del secondo romanzo di Arturo Belluardo

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MIO CUGINO

(in cui Buscemi Davide ha prima anni otto e mesi due, poi anni quattordici e mesi cinque e, per finire, anni diciannove e mesi sei)

C’erano tre motivi per cui mi scassavo la minchia ad andare d’estate in campagna dai miei zii.

In primisi, perché non c’era nenti che fare, solo un gran cauru e zanzare e mi annoiavo come mai nella vita. In secundisi, perché ogni volta, al ritorno a casa nella 600 bianca, mio padre e mia madre si sciarriavano: mio padre diceva a mia madre che gli aveva rovinato la vita, l’aveva fatto finire nelle case popolari della Borgata, che sa suoru sì che aveva fatto fortuna maritandosi un questore pieno di picciuli.

Una volta che la 600 si fermò in mezzo alla campagna di Avola, con il fumo che le nisceva dal radiatore, mio padre aveva fatto scendere mia madre ad ammuttare, dicendo che era tutta colpa sua.

Infine e soprattutto, mio cugino Uccio. Mio cugino era più grande di me di un anno e si chiamava Davide com’ammìa, epperò mentre ammìa mi chiamavano intero, per lui usavano il diminutivo. Forse perché era babbu, scimunito, ma scimunito vero. D’estate in campagna dai miei zii, con i miei genitori che non si parlavano, con quel gran cauru, l’unica cosa da fare era andarsene a caccia di grilli per i campi di grano con quel babbu di mio cugino Uccio.

Giravamo sotto il sole, armati di paletta e secchiello, tra le spighe appena mietute che ci fiddiavano i piedi, lasciandoci vesciche e papole a tinchitè. Camminando, sbattevamo forte i sandali del dottore Sciolt, raccussì i grilli si scantavano e saltavano via. Il gioco era di schiacciarli con la paletta non appena atterravano, prima che saltassero un’altra volta. Poi li mettevamo nel secchiello per darli da mangiare ai pesci russi nella gebbia di pietra.

I grilli avevano le ali di colore diverso, russe e verdi di solito, raramente viola. «Chiddi viola sono i più buoni» mi disse un giorno mio cugino Uccio, portandosene uno alla bocca. «Tiè ccà, assaggia» bofonchiò, con una zampina che gli nisceva dalle labbra. E mi spinse un grillo verso la faccia.

«Mangia! Mangia, ti ho detto» iniziò a schigghiare Uccio vista la mia riluttanza. «Non sei masculu se non mangi!». Nuddu doveva dubitare della mia virilità e mi infilai l’insetto in bocca; il grillo, però, era ancora vivo e mi abbastò sentirmelo muovere sulla lingua per mettermi a sputare e a rovesciare.

«Sei proprio una minchia di mare» commentò Uccio. Il papà di Uccio fu trasferito a Genova e raccussì per alcuni anni li vedemmo picca e nenti. Poi suo padre fu nominato questore e ci ritrovammo insieme al liceo. Uccio, crescendo, era diventato ancora più babbu. Ora arrinisceva a pigghiare al volo pure le mosche e a mangiarsele con gran piacere. Abbastò poco e Uccio diventò il protagonista passivo di tutte le pigghiate

pu’ culu, di tutti gli sgherzi, di tutti i gavettoni di pisciazza del liceo Gargallo. Io, che mi vergognavo ad avercelo come cugino, ero tra i suoi aguzzini più feroci.

Ma a Uccio sembrava non importare, gli piaceva essere al centro dell’attenzione dei compagni, quasi fosse un eroe; a ogni scherzo, anche violento, rideva: «Amicu! Amicu mio!».

Accadde che i poliziotti pestarono a sangue rinnanzi a scuola Ciancio Carmelo, uno di Lotta Continua, perché dicevano che si fumava gli spinelli.

Il giorno dopo scioperammo e andammo a manifestare alla questura contro i poliziotti assassini, agitando le mani nel segno della P38. Uccio pareva ’mpazzuto.

 


 

ARTURO BELLUARDO
È nato e cresciuto a Siracusa, ma vive a Roma con due donne e due gatti. Il suo romanzo Il ballo del debuttante è stato segnalato al Premio Calvino 2016. Le sue storie sono state pubblicate su «Lo Straniero», «Buduàr», «Succedeoggi» e «Mag O» e in antologie edite da Nottetempo e dal Goethe Institut.

La notte che viene

1

di Tristan Kron

IMG_20170205_122318Sono dentro.
Resto in piedi al centro della stanza, in ascolto. Mi accordo al rumore di fondo degli elettrodomestici in standby e del vento sottile tra le siepi e i rami degli alberi nel giardino sul retro.
Tutto è perfetto, è sempre perfetto.
Respiro e cerco un posto per poggiare la mia piccola valigia, che apro evitando il minimo rumore. Mi muovo con gesti esattamente calibrati, i sensi che vibrano di un’acutezza felina allenata in anni di vita da ospite invisibile e inatteso.
Questa notte trovo una stufa ancora accesa, una fiamma viva dietro lo schermo di vetro incrostato di fuliggine; fuori la neve continua a scendere, ma nella stanza la temperatura rimane tiepida e per una volta spogliarmi diventa confortevole. Lo faccio con lentezza, prendendomi più del tempo necessario mentre mi oriento nel nuovo spazio al chiarore pallido e danzante che il fuoco produce.
Intravedo delle scale, ci sono quasi sempre nelle case che scelgo. Intuisco i contorni di un bel divano chiaro, un tavolo moderno di metallo, due lampadari ovali di dimensioni troppo diverse che dal mio punto di osservazione sembrano compenetrarsi, come se il più piccolo fosse una tumefazione del maggiore.
E poi c’è l’odore, questo ambiente profuma di ordine asettico e di mani guantate che sistemano, strofinano, dispongono; mani precise e maniacali che contrastano la pressione uniforme del caos, che si appigliano salde alla certezza del metodo.
E’ tutto così evidente ai miei occhi. Perché io ho dovuto imparare ad osservare, so come farlo. E so che i nodi emozionali dei coinquilini, le tensioni, i rapporti di affetto, rabbia o indifferenza, le increspature dell’armonia familiare si condensano in forme strutturate che regolano l’assetto degli oggetti e degli arredi. Con la perizia di un morboso cabalista leggo verità occulte attraverso l’analisi delle altezze a cui sono appesi i quadri e le fotografie, studiando la posizione relativa dei cuscini sul divano, che statisticamente sono tre, l’orientamento delle piante agli angoli dei muri, fino alla sistemazione combinata delle scarpe nei ripostigli, che formano fasci di vettori spesso non troppo divergenti ma niente affatto casuali.
E non mi sbaglio mai.
Se qualcuno potesse frugare nella mia valigia troverebbe solo poche cose necessarie per la notte, un pigiama lungo, una maglietta bianca e una grigia, un paio di calzini, oltre agli innocenti souvenir che ho preso in prestito in altre case, in altre notti. Tra questi, inestimabili, il dentino che sapevo di trovare sotto il cuscino nella camera di un bimbo e un pettine di madreperla, un oggetto che racconta una storia triste di affetti e conflitti armati.
Ma è ora di dormire. Ho camminato a lungo, è molto tardi. Stanotte scelgo la maglietta grigia, la indosso e a piedi nudi scivolo sul pavimento di marmo lucido e su per le scale nel buio compatto, fino al corridoio che si allunga tra i vani, che sento essere tre. Anche questa è una cosa che si impara: nell’oscurità più completa, il vuoto denso delle stanze si percepisce distintamente, ha una qualità ben diversa da quello che striscia lungo i bordi dei muri all’esterno.
Alla mia sinistra una camera ampia, l’istinto mi dice che ci dorme una bambina, a destra uno spazio più stretto che è con certezza il bagno.
Poco più avanti si apre la camera matrimoniale, la mia camera di stanotte. Sulla porta una superficie umida che posso quasi toccare con le mani, la consueta barriera anti intrusione che la gente nel sonno tesse all’ingresso dei propri spazi sicuri, per bisogno di protezione. Sottile ma estremamente solida, devo frantumarla con pazienza, in silenzio.
E poi seguo con le dita il perimetro del letto, che come immaginavo è vuoto per metà, portandomi dalla parte che mi spetta. Mi distendo e tiro le coperte fin sotto al mento, libero infine il mio corpo dall’inquietudine. Mi chiedo sempre se sia questa la felicità. O l’appagamento. O una qualsiasi delle sensazioni di completezza alla cui ricerca disperata ho indirizzato il mio modo di vivere. E resto lì, immobile e leggero, in ascolto dell’unico rumore della stanza che viene dalla figura alla mia sinistra, quello di un respiro regolare e consolante, un ritmo lento frammentato a volte da un borbottio indistinto.
La donna al mio fianco è delicata, ne intuisco le forme lievemente abbondanti ma proporzionate e beneficio del suo calore, una radiazione che emana dal suo corpo rovente e massaggia il mio, a distanza. Mi avvolgo nell’odore inconfondibile della pelle nel sonno e dei capelli sventagliati sul cuscino, come antenne a dissipare le fatiche del giorno.
Sono allenato a perdere consistenza, divento una presenza impalpabile e non tocco mai per primo la persona che ho accanto; a volte accade che sia lei ad avvicinarsi, ad allungare i piedi o stendere un braccio arrivando al contatto e allora divento il ricordo di qualcuno che in quel letto c’è stato, e forse si rivorrebbe indietro anche per una sola notte. E il sonno prosegue sereno.
Nessuno si è mai svegliato, nessuno si è mai accorto della mia presenza così vicina, dall’altra parte del letto. Una volta, non ricordo dove, venni abbracciato stretto e mi fu sussurrato all’orecchio qualcosa di sconnesso che somigliava a una preghiera; altre volte qualcuno adatta il suo corpo alla mia postura, la ricalca, e non di rado mi sembra che pianga chiedendo la mia consolazione, che non nego mai. Perché tutte le persone addormentate sono indifese, come lo sono io.
Stanotte, mentre sto per cedere al sonno, la donna ha una specie di scossa e mormora qualcosa. E’ caduto un pianeta, dice. E’ caduto un pianeta, ancora una volta. Io non so cosa rispondere, rimango immobile dalla mia parte. Lei dopo poco si volta, allunga la mano e mi stringe il braccio. E’ caduto un pianeta, non lo trovano più dice con voce più asciutta, disperata. Le accarezzo il viso e bisbiglio frasi che sappiano di conforto, la lascio calmare. Il suo respiro ritrova il tempo e lo scandisce con lunghe inspirazioni nasali. Il suo sogno si perde nello spazio e indietro nel tempo, a distanze siderali, nell’orbita di stelle appena nate.
E ora chiudo gli occhi. Penso alla casa in cui dormirò domani, l’ho già scelta. Una villetta marrone non lontano da un mare agitato, il giardino arruffato sul davanti e una vecchia statua accanto alla porta, una statua consumata di una donna seduta senza braccia e senza lineamenti, che guarda lontano. Una dea mutilata. Penso a chi troverò nel letto, ai sogni che arriveranno, a cosa potrò tenere per me. E il sonno, a poco a poco, mi scioglie.
Nella mia vita, da tempi di cui non ho più ricordo, ho visitato innumerevoli case, tutte le notti, dappertutto, e i corpi che ho sfiorato non sono altro che versioni più reali del mio. Nel sonno tutte le persone sono buone, come docili mammiferi addormentati nel profondo delle loro tane calde, appagati e protetti, i cuccioli nascosti nel folto della pelliccia a rivivere avventure e sognarne di nuove. Fuori l’inverno non finisce più. Nelle paludi ghiacciate, tra le nevi nei boschi gli esemplari più forti mi danno la caccia, da soli o in piccoli branchi di loro simili, fiutano le mie tracce ma non possono trovarmi e non torneranno nei rifugi prima di aver concluso la battuta. Lasciano uno spazio per me che posso sostare nei loro nascondigli, al sicuro. Una notte dopo l‘altra, una notte per volta.
Non faccio del male a nessuno, in fondo. Ho solo tanta paura, soprattutto al buio e il buio può essere interminabile. Non voglio dormire da solo. Non sono un pericolo. Prima che qualcuno in casa si svegli, me ne sono già andato.