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Alcune riflessioni estetiche e politiche su “Filosofia della letteratura” di Peter Lamarque

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di Lorenzo Graziani

“Che cosa vuol dire vedere la letteratura come un’arte?” È con questa la domanda che si apre Filosofia della letteratura di Peter Lamarque (traduzione dall’inglese di M. Gozzi e L. Graziani, Mimesis, 2024). Si tratta sicuramente di una questione tecnica (che cosa – o quando – è arte e in che modo la letteratura si inserisce nel più ampio sistema delle arti?), ma possiede oggi delle sfumature quasi polemiche, se non addirittura politiche. Queste ultime – lo confesso – hanno giocato un ruolo non secondario nella mia scelta di presentare il volume al pubblico italiano: esplicitarle spero possa incoraggiare il lettore curioso a cimentarsi in una riflessione teorica sottile ma imprescindibile.

Mettiamolo in chiaro subito: l’implicita provocazione dell’interrogativo di Lamarque non nasce oggi dallo scontro con i fan dell’écriture o con quei Teorici che rifiutano il discorso estetico perché lo considerano ideologicamente compromesso. Quelle ormai sono posizioni marginali. Le analisi letterarie più aggiornate, come la biocritica e il darwinismo letterario, si concentrano su come i testi agiscono sul nostro cervello, valutando la letteratura in base alla sua utilità: sia per i vantaggi evolutivi legati all’invenzione di storie, sia per i benefici psicofisici del contatto con mondi immaginari. Ed è proprio in contrasto con queste tendenze che, secondo me, va letto il libro di Lamarque.

Nonostante gli indubbi buoni propositi, riscontro (almeno) un paio di aspetti problematici nei suddetti orientamenti critici: il primo di ordine estetico e il secondo di ordine politico.

Partiamo dall’estetica. Secondo un eminente filone di studi umanistici – tra i cui esponenti di spicco possiamo annoverare il neozelandese Brian Boyd, il francese Alexandre Gefen e l’italiano Michele Cometa – la letteratura ci aiuta a vivere, ad adattarci ai cambiamenti e a sentirci dalla parte giusta, vicini agli emarginati e ai sofferenti. Come scrive Gefen, è “una macchina per fabbricare rassicurazione”: un sostegno per la nostra fragilità di fronte alle crisi e, al tempo stesso, un atto di solidarietà verso chi è ancora più vulnerabile.

L’ammirevole nobiltà d’intenti di questi ricercatori, però, non deve mettere in soggezione al punto da scoraggiare qualsiasi critica. Non solo perché dimenticano che solo una piccola parte delle opere comunemente considerate letterarie possiede queste qualità (la letteratura occidentale non inizia forse con due maschi che si contendono una schiava?), ma soprattutto perché non sono queste qualità a definirne la letterarietà.

Walter Siti coglie il punto perfettamente: “se il criterio per giudicare la letteratura è il bene che fa, allora che cosa può importare se sia bella o brutta letteratura?” (Contro l’impegno). In altre parole, c’è una differenza fondamentale tra ciò che ha valore in sé (come ottenere conoscenza, superare l’angoscia o dire la verità) e ciò che ha valore letterario. È quest’ultimo che dovrebbe guidare la valutazione estetica perché, quando il primo prevale, si perde l’aspetto valutativo e onorifico del termine “letteratura”, riducendola a semplice fiction o, peggio ancora, a mero storytelling.

Passiamo alla questione politica. Non riesco a smettere di pensare che l’attuale enfasi sull’utilità della letteratura abbia motivazioni che i marxisti definirebbero “strutturali”. Viviamo in un’epoca in cui domina il principio dell’efficienza, motore essenziale del neoliberismo, perché promuove modi di agire e di pensare che si conformano a una logica incentrata sull’utile e sul raggiungimento di obiettivi pratici. Se le cose stanno così, viene quantomeno il sospetto che l’ossessione per i benefici della letteratura celi, dietro buone intenzioni, una sostanziale subalternità al sistema.

Non solo l’utilità, ma anche l’insistenza sui “benefici psicofisici” mi insospettisce. Porta la mia mente agli scaffali sempre più zeppi di farmaci da banco contro i disturbi psicosomatici dovuti allo stress: la stessa sofferenza generata dal sistema è stata mercificata e messa a profitto. Stare bene per lavorare meglio. Anche la letteratura potrebbe avere il suo ruolo nell’oliare gli ingranaggi.

Senz’altro esagero, e anch’io riconosco che le mie perplessità hanno – in parte – una natura idiosincratica. Ciononostante, ritengo siano spunti su cui vale la pena riflettere. E credo che il pensiero di Lamarque possa offrire, in questo senso, un contributo prezioso. Lungo tutta la sua carriera non si è mai stancato di rivendicare una certa “inutilità dell’arte”, particolarmente evidente nell’ultima raccolta di saggi, The Uselessness of Art, in cui sottolinea la necessità di valutare l’arte in quanto tale (for its own sake). Valutare un’opera d’arte in quanto tale significa riconoscerla come un artefatto profondamente radicato nella storia, ma capace di trascendere le sue origini, coinvolgendo mente, immaginazione e sensi con un fascino senza tempo. Il suo valore risiede nell’abilità dell’artista di modellare i materiali, risolvere problemi e dare forma a temi universali, senza necessità di ulteriori giustificazioni o benefici pratici.

Le opere d’arte possiedono dunque un valore intrinseco, che tuttavia non deriva da proprietà “naturali”, bensì “culturali”: un blocco di marmo lavorato ha una massa, una configurazione e una composizione chimico-fisica specifiche, ma Apollo e Dafne possiede qualità che il blocco di marmo non ha, come quella di raffigurare la metamorfosi della ninfa inseguita da Apollo. Poiché le opere d’arte non coincidono con i materiali di cui sono composte, ma sono oggetti culturali, Lamarque sottolinea l’importanza dell’educazione estetica: per poterle apprezzare è necessaria una certa competenza, accompagnata da specifiche conoscenze e aspettative.

Ora, sottolineare l’inutilità pratica dell’arte e il ruolo fondamentale dell’educazione estetica è tutt’altro che irrilevante nella società odierna. Per quanto siano importanti l’impegno ecologista o il contributo alla riduzione dell’ansia, potremmo scoprire che il vero valore dell’arte – e della letteratura in quanto arte – risiede nel ricordarci l’esistenza di una logica di fruizione radicalmente opposta a quella del consumo.

 

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Segue un estratto dall’Introduzione all’edizione italiana di Peter Lamarque, Filosofia della letteratura, a cura di Lorenzo Graziani, Mimesis, Milano-Udine 2024.

 

Il dualismo di Lamarque nell’ambito dell’ontologia dell’arte ha molteplici conseguenze sull’esperienza estetica. Innanzitutto, se è vero che le opere d’arte sono degli oggetti culturali distinti dai loro supporti, nell’atto di apprezzarle e valutarle entrano in gioco anche processi cognitivi – e quindi non solo o semplicemente percettivi. Gli oggetti artistici non sono oggetti naturali, bensì istituzionali, e pertanto si avrebbe torto a considerare i fattori storici, contestuali e culturali come irrilevanti per la corretta fruizione. E se la risposta alle opere d’arte è mediata dalla nostra cultura, la capacità di apprezzarle non è una dote naturale, bensì un’abilità che va sviluppata attraverso l’educazione: per valutare un’opera d’arte è necessaria una certa “competenza” accompagnata da determinate credenze e aspettative.

Le facoltà intellettuali non agiscono esclusivamente in un secondo momento, sul materiale greggio fornito dai sensi, ma sono attive fin da subito poiché la percezione è “completamente permeata dal pensiero”. Ecco perché Lamarque può essere considerato un sostenitore dell’empirismo estetico, ossia della tesi secondo cui il valore estetico di un’opera d’arte è essenzialmente legato al modo in cui l’opera viene esperita. È questo un punto su cui Lamarque diverge notevolmente dalla posizione di Danto e Walton, filosofi che su di lui hanno avuto grande influenza. I loro noti esempi che coinvolgono coppie di oggetti percettivamente indiscernibili in cui soltanto uno dei due è classificabile come opera d’arte (per citarne uno: le Brillo Boxes di Andy Warhol) sono appunto volti a dimostrare come l’empirismo estetico sia falso. Secondo Lamarque, però, questo è vero solo se si considerano unicamente le proprietà fisiche del supporto, senza far riferimento alle proprietà estetiche di tipo relazionale, ma ciò significa esperire il materiale costitutivo e ignorare l’opera: un conto è dire che la percezione è insufficiente a distinguere due oggetti indiscernibili, un altro è sostenere che, una volta effettuata la distinzione, le qualità relazionali che permettono di distinguere, nel nostro caso, un’opera d’arte da un oggetto comune non influenzino la nostra percezione.

Per dirla in modo molto semplice: se io so – perché è esposta in un museo, perché mi è stato impartito qualche rudimento di storia dell’arte, perché il suo valore di mercato è molto più alto ecc. – che ho davanti Fontaine di Duchamp o le Brillo Boxes di Warhol e non un orinatoio parigino o delle scatole di spugne abrasive per piatti, la mia percezione è immediatamente diversa poiché, se riconosco l’opera, colgo una serie di proprietà estetiche che l’oggetto quotidiano non possiede.

In ambito più strettamente letterario, la distinzione tra opera e testo ha delle ripercussioni sulle modalità di assegnazione del valore. In particolare, se il valore di un’opera letteraria si fonda su quelle che sono le specifiche prassi di apprezzamento della letteratura, si dovrà distinguere tra valori intrinseci – ossia propri della fruizione delle opere letterarie in quanto tali – e strumentali. Tra questi ultimi figurano – a parere di Lamarque – il potere di suscitare emozioni e di essere veicolo di verità e virtù morali o politiche. Si tratta di valori che non di rado vengono oggi chiamati in causa per giustificare il nostro interesse nei confronti della letteratura. La ragione è di ordine “strutturale”, come direbbero i marxisti: in un’epoca in cui la reificazione capitalista ha raggiunto livelli estremi di pervasività, e il criterio dell’utilità e della ricaduta pratica (immediata) è divenuto il metro di valore assoluto, è ovvio che puntare sulla letteratura come palestra per l’empatia (Kidd e Castano), le buone pratiche (Murdoch) o – addirittura – l’imparzialità nel giudizio (Nussbaum) sia una buona idea, se non altro per ottenere finanziamenti alla ricerca umanistica, sempre più in difficoltà a giustificare la sua stessa esistenza.

Simili concezioni della letteratura non persuadono Lamarque, che dedica alcuni dei più interessanti e importanti capitoli del libro che avete tra le mani a smontarle pezzo per pezzo in favore di una visione umanistica della letteratura e del valore letterario: alle opere non viene richiesto di essere vere, moralmente giuste o di supportare visioni politiche progressiste, bensì di essere interessanti – in quanto sviluppano temi di universale interesse umano – e scritte bene. L’essere “scritto bene” non va però inteso come la proprietà di un testo di essere eloquente o un esempio di “bello stile”, bensì come la proprietà di un’opera letteraria di essere costruita in modo tale che gli artifici formali (stile, modalità d’intreccio, disposizione dei versi e tutte le altre strategie di organizzazione del materiale) siano adeguati al contenuto (l’interesse umano che viene portato allo scoperto) o, per dirla in breve, che vi sia consonanza tra mezzi e fini.

L’indivisibilità del contenuto dalla forma nel quale è espresso non vale solo per la poesia, ma anche per la prosa, ed è all’origine di quello che Lamarque chiama principio di opacità: a differenza del mondo reale, i mondi di invenzione, che formano il contenuto delle opere letterarie, sono costituiti dal modo in cui ci vengono dati attraverso il materiale linguistico e, pertanto, la loro identità – e quella degli elementi che li compongono (personaggi, oggetti, eventi ecc.) – dipende in maniera essenziale da come vengono presentati. Le entità finzionali sono essenzialmente prospettiche: poiché l’accesso alle informazioni che le riguardano è strettamente vincolato a enunciati che esprimono anche dei punti vista valutativi su di esse, non possiamo pensare ai testi finzionali come a delle finestre attraverso cui osservare un mondo: “dobbiamo accettare che non esiste siffatto vetro trasparente, ma solamente un vetro opaco, dipinto, per così dire, con delle figure che non vengono viste attraverso di esso ma in esso” (Lamarque, The Opacity of Narrative).

[…]

Se si fosse ancora in dubbio sul fatto che il valore di un’opera d’arte – letteraria o d’altro genere – non risiede nel suo contenuto edificante o nella sua capacità di veicolare empaticamente pressanti messaggi volti a orientare la condotta pratica delle persone, Lamarque suggerisce – sulla scorta di Hume – di ricorrere alla cosiddetta “prova del tempo”. Non si tratta solamente di constatare il fatto che opere molto apprezzate al momento della loro pubblicazione sono poi state dimenticate, bensì di notare come le vere opere d’arte acquistino il loro status di capolavori immortali proprio quando i motivi ideologici e politici che le hanno ispirate sono divenuti meno impellenti.

L’esempio addotto è il celebre dipinto di Jacques-Louis David, La morte di Marat, realizzato in piena Rivoluzione francese, su commissione dei giacobini, da un pittore profondamente coinvolto negli eventi del periodo. In tali circostanze, l’opera di David si presentava come uno strumento di propaganda. Dopo un breve periodo di celebrità, il dipinto cadde nell’oblio per poi essere “riscoperto” verso metà Ottocento sulla scia di una entusiastica recensione scritta da Baudelaire che ne lodava la potenza espressiva, in grado di commuovere anche un pubblico molto distante per epoca e sensibilità da quello del contesto d’origine del quadro. La diminuzione dell’urgenza ideologico-politica rivoluzionaria aveva quindi lasciato spazio per l’apprezzamento delle sue caratteristiche formali e stilistiche. Sotto la medesima luce andrebbero viste le opere d’arte contemporanee, sebbene sia più difficile a causa della perspicuità delle ragioni pratiche a cui sono legate: data la loro giovane età è difficile slegare il valore di romanzi come L’anno del diluvio di Atwood o Ecotopia di Callenbach – appartenenti al genere oggi piuttosto in voga dell’ecofiction – dall’impegno sul fronte ecologista, ma il loro valore in quanto letteratura sarà evidente solamente quando tali motivazioni diverranno meno cogenti.

Di Caterina, che balenò per un istante dalle tenebre del tempo

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Hans Clemer [Fiandre, ante 1480 – Piemonte, post 1512]
Madonna del coniglio [1490- 1510]

Josquin Desprez [1450-1521] La Bernardina
Carmen strumentale a 3 voci, 1500 ca.

di Greta Bienati

Nell’anno del Signore mille cinquecento dodici, il giorno dodici del mese di maggio, davanti a Francesco Stanga, notaro in Revello, si presentò per sottoscrivere un contratto dotale la saluzzese Caterina Milaneti, accompagnata dal padre Bartolomeo e dal fratello Giovanni Pietro. Caterina non aveva ancora toccato la maggiore età, ma già era vedova di mastro Giovanni Clemer, detto Ans, pittore venuto di Provenza ma nato in Allemagna, donde era partito insieme al cugino, per far fortuna nelle terre del meridione.

Si dice che a chiamarlo al di qua delle Alpi fu la stima della marchesa di Saluzzo; ma forse a guidare i suoi passi fu solo il vento d’occidente, che sospingeva i pittori erranti di corte in corte e di convento in convento, dalla terra di Francia a quella d’Italia.

È sepolto con il suo cuore il ricordo di quando vide per la prima volta Caterina, tanto più giovane di lui, e venne preso d’amore per lei: dev’essere stato in chiesa, mentre assisteva alla funzione della domenica, o forse lo colpì la danza dei ricci color del miele, nella carola di una festa di maggio. Nelle madonne e nelle sante che dipinse tra Saluzzo ed Elva, mastro Ans ne ripeté infinite volte anche il mento rotondo, la bocca disegnata a cuore e gli occhi grandi e miti, che curvavano melanconici verso il basso.

Hans Clemer Crocefissione [Chiesa Parrochiale di Elva. CUNEO]

Ancora più nascosto è quel che innamorò Caterina. La famiglia non era povera, e non dovevano mancarle i pretendenti. Quei pochi tratti che l’umidità e il tempo hanno risparmiato del ritratto che mastro Ans fece di se stesso ai piedi della croce, dicono che
aveva gli occhi celesti e che passava in altezza i saluzzesi di tutta la testa. Se anche il suo parlare conservava le consonanti dure del nord e i suoi lineamenti erano quelli degli uomini d’Allemagna, così rudi da parere intagliati nel legno, le sue maniere dovevano essere quelle cortesi di Provenza, dove aveva trascorso la giovinezza.

Di certo, il pittore venuto da lontano piacque al futuro suocero, che lo accolse come un figliolo, un po’ per buon cuore e un po’ perché aveva l’aria di un buon investimento. Ma fu Bartolomeo a spingere la figlia a maritare il promettente artista, o fu piuttosto lei a convincerlo ad aiutare il dipintore vagabondo, ricco solo della propria arte?

L’occhio attento di Bartolomeo dovette anche accorgersi che il talento di mastro Ans era troppo grande per il piccolo marchesato. Si saranno tenuti in famiglia lunghi consigli se fosse il caso di trasferirsi a Milano o a Mantova, dove brillavano le grandi corti d’Italia. Ma al turbine dei palazzi degli Sforza e dei Gonzaga, mastro Ans finì col preferire la quiete della sua bottega in ruata da Draperiis, la contrada degli artigiani, dove Caterina si affacciava di tanto in tanto, mentre lui terminava una madonna che le somigliava.

Così, invece delle affollate vie di Mantova e di Milano, mastro Ans percorse in lungo e in largo i sentieri delle valli che si diramano dal Monviso, risalendo il Po e l’Infernotto, per lasciare nelle cappelle sperdute tra i monti affreschi degni di papi e imperatori. Fin nel borgo più remoto, il suo pennello portò il volto di Caterina, infondendo nelle sue madonne tanto amore e tanta maestria che la gente di montagna le vide capaci di grazie e di miracoli.

Piuttosto che in pianura, mastro Ans si spingeva volentieri in Provenza, dove ritrovava i ricordi di giovinezza e l’abbraccio del cugino, che lì aveva preso moglie, e che spesso lo raccomandava per incarichi di prestigio. La via era veloce e comoda: il marchese aveva fatto scavare giusto qualche anno avanti il Përtus dël Viso, per passare in Francia attraverso il ventre della montagna anche quando i Savoia sbarravano il passo e al colle delle Traversette cadeva la neve. Alto com’era, mastro Ans doveva piegarsi quasi in ginocchio nei punti più bassi del lungo budello di roccia. Avrà cercato di scacciare la malinconia della partenza scambiando qualche parola con i mercanti che portavano in Provenza canapa e olio di noce. Al ritorno, invece, si sarà accodato impaziente agli uomini con le gerle cariche di broccato e di sale estratto alle Acque Morte, accarezzando a ogni
momento la tasca in cui serbava il gioiello che aveva acquistato per Caterina.

Nella casa in ruata de Draperiis, lei doveva ingannare l’attesa riordinando le terre colorate e i pennelli di scoiattolo. E forse misurando trepidante i suoi tempi di donna, nella speranza di poter accogliere il marito con la notizia che la notte d’amore prima della partenza le aveva lasciato in grembo i suoi frutti.

Figli, però, non ve ne furono. O, comunque, nessuno che sopravvisse. Eppure, più volte mastro Ans la dipinse madre, nel mantello blu bordato d’oro della santa Vergine, con in braccio il Bambino, incoronato dagli stessi ricci d’oro rosso di Caterina. Al polso del neonato, si premurò di mettere i grani rossi di un braccialetto di corallo, che riuscirono a stornare il malocchio, se non dai figli in carne e ossa, almeno dal bambino dipinto.

Della morte di mastro Ans, si sa che fu improvvisa e che lo colse nel fiore degli anni e della sua arte. Una febbre gli arse il cerebro, oppure cadde da un’impalcatura, mentre attendeva a un affresco per la marchesa, e i garzoni di bottega lo portarono a casa da Caterina, sdraiato su una lettiga improvvisata con una scala a pioli. Lei avrà pianto per lo spavento e, con l’ultimo fiato, lui avrà sorriso che non era niente. Poi, però, avrà chiamato in disparte il suocero Bartolomeo, per mostrargli che non era uomo che dimenticava il bene ricevuto: casa e bottega in ruata de Draperiis sarebbero andate a Caterina, mentre a lui e al cognato Giovanni Pietro, che lo aveva accolto come un fratello, lasciava parte del denaro che la sua arte gli aveva procurato. Dopo la morte del marito, Caterina vi avrebbe aggiunto anche quello che le spettava: l’unica cosa che volle tutta per sé furono i gioielli
ricevuti in dono, ché le importavano di più degli immobili e dei crediti da riscuotere.

Non passò molto tempo dalla morte di mastro Ans che Caterina accettò di rimaritarsi con Giovanni di Enrico, dei Ferrariis di Pralormo, portando in dote tremila fiorini, seicento dei quali le vennero restituiti come dono nuziale. Insieme al padre, doveva aver ragionato che non era cosa buona che una donna sana e fiorente rimanesse sola: se anche aveva sofferto per la morte del marito, la giovinezza richiedeva che le lacrime venissero asciugate e che la vita riprendesse il suo corso.

Se il nuovo matrimonio fu felice e se, questa volta, arrivarono dei figli ad allietarlo, è cosa nascosta nel buio dei secoli. Nessuno sa per quanti anni, sentendo messa nel duomo di Saluzzo, tra il fumo azzurro dell’incenso, Caterina alzò gli occhi alla Madonna fatta a sua immagine, immobile nella sua giovinezza. E nemmeno se rimpianse la gentilezza e l’affetto del pittore venuto da lontano.

Nel giorno dodici del mese di maggio dell’anno del Signore mille cinquecento dodici, alla presenza del reverendo domino Gastone de Bearnio, protonotario apostolico della diocesi di Saragozza, del nobile Giovanni Agostino Gambaudi, segretario marchionale, e di Iacopo Crava, aromatario in Saluzzo, Caterina giurò sul Vangelo di Nostro Signore, e il notaro appose il proprio sigillo. Poi la vedova di mastro Ans uscì con passo leggero dalla stanza, e svanì nell’ombra dei giorni.

La grassa signora

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di Rosa Blasetti

Il profumo di crostata si diffondeva nel vano scala e raggiungeva l’androne del palazzo e le mie narici di bambina. Lo seguivo, rincorrendolo fino al terzo piano, dove la dolcezza annusata si sarebbe mischiata alle braccia burrose di mia zia che ci aspettava sulla soglia per la nostra solita domenica di giochi e merende. Erano gli anni ‘90: le case si aprivano nel weekend per ospitare i familiari più prossimi. I locali per bambini non esistevano ancora e quel pomeriggio io, mio cugino e mia sorella  inventavamo i modi più divertenti e disparati per stare insieme. I grandi si intrattenevano in sala nelle loro chiacchiere, salvo sporadicamente farci visita per controllare se avessimo bisogni primari da soddisfare: fame, sete, pipì, caldo o freddo; mia zia avvitava la moka per il caffè e spolverava il dolce con un po’ di zucchero a velo.

La nostra stanza si inspessiva dell’odore di chiuso, figlio di un tempo infinito a scambiarci figurine e inscenare situazioni di viaggi improbabili dove io, mamma di due piccolini, partivo per sempre alla ricerca di fortuna. Il silenzioso aprirsi della porta scoppiava la bolla d’infanzia in cui eravamo immersi e accompagnava l’ingresso di un adulto che, rapido, entrava chiudendosela alle spalle.

“Facciamo un gioco!” dice mio zio. Lui è fortissimo: spalle larghe, bicipiti gonfi, petto possente. Ci invita a mettere le braccia tese lungo i fianchi, a rimanere rigidi come pezzi di legno e stringere i pugni. Per primo tocca a mio cugino: gli racchiude i pugni piccoli nelle sue mani consapevoli, lo solleva il più possibile e poi, dal punto più alto, lo fa cadere giù…una roba pazzesca…da morire dal ridere! Poi, passa a mia sorella: la vedo salire in aria come un razzo e, di schianto, andare nuovamente a terra. Infine, arriva il mio turno. Mi solleva veloce, sono altissima, carica dell’adrenalina che precede il salto. E, invece, non vengo lasciata più. Le sue braccia mi cingono le ginocchia da dietro e piano piano, lentamente, il mio corpo scende appiccicato al suo. Provo a ridere. La sua stretta fangosa è spiacevole e quell’attrito indesiderato diventa spiraglio per la vergogna che entra indisturbata e va a spargersi nel mio corpo di bambina. Cerco allora di tirarmi indietro: “lasciami zio”. Provo a districarmi. Lui scherza. Ma il mio corpo struscia il suo e mi è insopportabile. E’ quell’appiccicaticcio, quella prossimità, ad essermi rimasta incollata addosso. Cerca di baciarmi. Scherza, mi scanso. Alla fine, mi lascia andare. Che ridere questo gioco! Che schifo questo gioco! Che bello questo gioco! Che brutto questo gioco! Che figo questo gioco! Che paura questo gioco! Le sensazioni che precedono questi pensieri viaggiano alla velocità della luce. Un millisecondo dopo l’altro le vedo alternarsi dentro di me: immagini tremanti che mi fanno piombare in una confusione tale da farmi avvertire la possibilità concreta di impazzire. “Sei solo una stupida! Una cretina, un’idiota che non sa distinguere cosa è un gioco e cosa no”. E così, a nove anni circa, faccio conoscenza diretta della mia salvatrice. E’ una signora grassa, corpulenta, dalla voce greve e lo sguardo deciso, pronuncia frasi nette e severe nei miei confronti, non ha parole gentili, ma è sempre molto chiara: “tu sei un’idiota! Non capisci niente! Non è successo niente di che…stava solo giocando! Cosa diavolo sei andata a pensare?!”. Arriva con il suo vestito morbido nero, i capelli ondulati di permanente appena fatta e tutti gioielli d’oro a ornarle le braccia, le mani, le orecchie e il collo, ad appesantire una figura già di per sè gravosa, anche solo nello sguardo. Mi dice che sono io ad essere sbagliata e mi toglie d’impaccio, strappandomi via dal caos di percezioni contrastanti che mi lottano dentro. Nei suoi occhi ci sono solo certezze. Grazie a questa signora imbellettata riesco a non impazzire, la confusione si dipana, la sua voce altisonante spazza via come un vento fortissimo tutti i dubbi, le domande, le ambiguità, le sensazioni strane. E, così facendo, mi permette, per quel pomeriggio, di rimanere bambina, di tornare a giocare, di mangiare un bel pezzo di crostata alla nutella, la mia preferita del resto, e dirmi che siamo una bellissima famiglia.

I ricordi, quei ricordi, erano arrivati tutti, tutti insieme, come una valanga di ghiaccio rovente addosso. La mia pelle di giovane liceale ne era rimasta ustionata per sempre.

Gli amori, la politica, le versioni di greco, gli amici, le canne, i voti, le risate erano finiti tutti sul fondo della mia esistenza; in figura, campeggiavano le ustioni, eppure io, disperata, mi guardavo nuda, mi scrutavo ogni centimetro di pelle, ma non le vedevo. Sapevo solo che le lacrime mi sconquassavano le pareti interne del corpo, le erodevano come gocce d’acqua sulla pietra, e io mi stavo sgretolando.

“Oggi parlerò con Giulia”, mi dicevo. La mia insostituibile compagna di banco. Lei, che le molestie le raccontava con il sorriso e, in ogni increspatura delle labbra, dichiarava la sua granitica incapacità di dire di no. Quella mattina, pioveva.

“Giù, hai visto che tempo di merda?”

“Ci tocca stare a casa pure stasera!”

“Devo raccontarti una cosa Giù, ma non so se ha troppo senso…”

“Spara…”

L’ho vista entrare all’improvviso, spaccando la porta, gridava impazzita, furiosa. La grassa signora era piombata in velocità dentro l’aula, aveva ribaltato sedie, banchi, zaini e, ricolma di sudore, ansimante, mi aveva messo le mani al collo.

“Ma che sei scema forse?” mi urla in faccia.

“Voglio solo dire quello che ho ricordato” sibilo.

“Quello che hai ricordato?! Perchè adesso va a finire che sei stata in grado di formulare un pensiero compiuto, fermo, sulla cosa? Tu? Che ti confondi anche rispetto a che gusto di gelato ti piace o no?” La sua risata gonfia di violenza è insopportabile nelle orecchie, sento il bisogno di chiuderle, ma è tutto bloccato, le mani, le braccia sono diventate marmo. E lei continua.

“Comunque vai, fai pure…la cretina del villaggio, la stupida della classe, la ragazzina imbecille che non sa controllarsi, che si spaventa come cappuccetto rosso del lupo cattivo.”

E’ irriverente la sua voce. Mi sfotte e mi va a pungolare lì dove sento che le ossa potrebbero frantumarsi e decretare la mia inesistenza per sempre. La vergogna mi tappa la bocca.

“Hai ragione” sussurro “non voglio passare per la stupida bambina spaventata, non voglio!”

“Vedi che se ti fermi poi qualcosa di giusto lo riesci a dire?”, mi allenta la presa. Si ricompone. Tira fuori dal suo vestito un fazzoletto damascato per asciugarsi il volto. Prende il rossetto e lo passa con ferocia sulle labbra carnose. Aggiusta veloce i capelli per renderli nuovamente voluminosi. Prende in mano il mio non senso, lo guarda soddisfatta, gioca con la mia confusione, infine la piega e la mette in tasca. Tutto a posto, tutto chiaro. Non saluta. Sa che tornerà.

Giulia aspetta il mio racconto. Arrivano parole su un’improbabile serata con Andrea, quello della terza D che mi piace da sempre. Vedo la mia bocca robotizzata aprirsi per far uscire suoni falsi e lontani, racconto quello che è facile ascoltare e mi salvo dal ribollire che sento dentro.

La grassa signora, a quei tempi, mi inceneriva continuamente con lo sguardo e, attraverso quegli stessi occhi, faceva penetrare la vergogna nelle mie vene mischiandola al sangue che, arrivato al cervello, mi rendeva muta e, in quanto muta, per sempre sola. Da lì, la vergogna divenne una dolorosa abitudine, una scossa continua che sentivo irradiarsi dalla cima dei capelli e entrare nelle viscere, nei muscoli,  affondando nei genitali senza scaricarsi mai.

Quasi ogni giorno, vedevo quella figura allo specchio interporsi tra me e la mia immagine riflessa. Il suo sedere largo strabordava dallo sgabello di legno su cui poggiava, le spalle nude erano circondate dalle sottili bretelline dell’abito che aveva indosso, quei miseri pezzi di stoffa scomparivano tra le pieghe del suo corpo come i miei vissuti. Sporgendomi al lato della sua schiena potevo scorgere il seno voluminoso e imponente farsi spazio nella scollatura, a ricordarmi tutto il suo potere. Gli occhi, contornati di nero, fornivano allo sguardo la durezza necessaria a redarguirmi. Il suo corpo enorme oscurava il mio, fino a farlo sparire, e si trascinava dentro tutte le emozioni di cui era attraversata la mia carne, portandosi via tutta me stessa. E così, improvvisamente, non esistevo più, c’era solo lei ad occupare, risoluta e soddisfatta, tutto lo spazio e il tempo del mio vivere.

Intanto, le domeniche continuavano a vedermi preda delle tradizioni di famiglia. Mia zia e mia madre passavano la giornata a cucinare, l’una a fianco all’altra. Io le osservavo. I loro maglioni mettevano in risalto la familiarità dei loro corpi, pensavo a me e mia sorella e ai nostri corpi anch’essi così uguali nella forma, come a sancire il legame ancestrale al di là delle parole, al di là della vita, al di là del tempo. Non riuscivo a togliere di dosso i miei occhi dalle loro schiene, mi ripetevo che anche solo per la differenza di età che ci separava, non potevano essere ignare di quello che avevano intorno. E non riuscivo a capacitarmi di quanto amore provassi, tanto di quell’amore da sentire lo stomaco svuotarsi di tutto il mio vissuto, di tutta la mia storia. Seduti intorno alla tavola, la stanza si riempiva di chiassose parole vuote, mia sorella e mio cugino si scambiavano squilli sul telefono. Mio zio, sul balcone, chiacchierava e fumava con mio padre, incurante del cibo che arrivava. Il suo sguardo mi toccava e seguiva indisturbato ogni mio movimento. Fu in uno di quei pranzi che decisi di far sedere la grassa signora al mio fianco.

Ogni piatto che arrivava lo destinavo a lei, che lo divorava puntuale.

Lei ingrassava, io sparivo.

Mi dissi che avrei resistito a tutto, a tutti, per sempre, fino a non sentire più nulla, neanche la fame.

Furono anni silenziosi, a denti stretti, fatti di una tensione sorda che mi permetteva di annullare il mio sentire e far spazio alla praticità della vita. Tutta la mia resistenza non mi aveva comunque impedito di crescere e diventare una donna. Trovai un lavoro e un compagno pronti a riempire le mie giornate.

La grassa signora  era sempre lì che ingurgitava, nervosa, le mie emozioni. L’idea di farla fuori, ogni tanto, prendeva piede nelle mie sedute di psicoterapia. Ma poi, una volta tornata sulla strada della mia vita, sbattevo contro il suo corpo prepotente che mi rimetteva a posto, mi ricentrava e, seppur violentemente, mi toglieva dalla possibilità terrifica di spezzarmi dentro. Un’unica volta sentii davvero di averla persa. Ricordo con esattezza quei giorni di maggio in cui mi ritrovai sola in ospedale a fare i conti con il mio utero che sanguinava. Lei sembrava la grande assente, per seconda mia madre che nascondeva il suo non esserci dietro un raffreddore insignificante. Sul lettino operatorio eravamo io e il mio cuore spaccato, aperto, da cui fuoriusciva la vita. Le parole accusatorie della grassa signora erano mute, rimanevano sorprendentemente incastrate nella sua bocca, provava ad addossarmi colpe, significati, possibili distrazioni, imputava inadeguatezze al mio corpo di donna che aveva portato avanti un compito senza concluderlo. Ma il dolore non aveva lasciato fessure da cui poter entrare. il flusso era solo in uscita. Sentivo che la testa era pronta a dimostrarmi che sì, si può impazzire di dolore. L’ultima immagine che ho è quella del medico che si fa spazio tra le mie gambe.

Tornai a casa sbandando. Nella mia cucina, trovai mia madre che stava friggendo le polpette. Era venuta a trovarci. Io sanguinavo. Lei friggeva. La grassa signora si stagliava imponente sulla parete arancione.

“Stai facendo un gran casino per tre centimetri di cellule che andavano tolte via! Sei la solita esagerata!”. Le sue parole, questa volta, rientrarono, crude, sotto la mia pelle.

“Avrei voluto mia madre accanto. E poi quelle cellule sono state la mia vita in questi tre mesi”, risposi.

“Esageri, esageri, esageri…come se a te accadesse sempre il peggio! Ti lamenti, ti riempi la bocca di giustificazioni e, come al solito, dai la colpa agli altri per la tua incapacità di fronteggiare la vita. Ti riconosco ora: sei la solita idiota!”.

Era tornata per ridimensionare me, il mio dolore folle, le mie emozioni che, improvvise, dopo una vita intera tenute sotto chiave, erano esplose insieme al mio utero.

“In fondo, ha ragione”, mi dissi. Tutto quel dolore doveva essere solo un mio solito, stupido errore.

Io sanguinavo. Mia madre friggeva. Non avevo capito niente. Il suo amore era racchiuso in quelle polpette, proprio in quelle polpette che io non avrei mai mangiato. Le avrei condite con il mio dolore eccessivo e le avrei date in pasto alla grassa signora. Ero di nuovo in piedi. Lei ingrassava. Io sanguinavo.

In qualche modo, il Natale era arrivato. Ero di nuovo io. Il sangue era tornato a posto, come me, si era inglobato di nuovo nel fluire delle mie vene. Il lavoro procedeva. Con il mio compagno avevamo preso un cane per sentire appagato il nostro bisogno di essere genitori. Tante cene fuori, ottimi piatti sulla tavola, qualche progetto per il futuro insieme. Tutto rientrava nel quadro perfetto di una vita normale. La vigilia di Natale ci avrebbe visti in famiglia per il primo anno nella nuova casa. Mi ritrovai completamente sola a preparare il cenone per accontentare tutti. Ognuno aveva di meglio da fare. In particolare il mio compagno che, invece di aiutarmi, aveva lavorato instancabile fino a tardi. Ero furiosa. Sentivo la rabbia accompagnarmi tra i fornelli e contrarre il mio corpo esausto. Lo avrei ucciso. Al momento del brindisi, però, lui dice: “Voglio ringraziare Sara, senza la quale tutto questo non sarebbe stato possibile!”. In quel momento, mi si è affacciata dentro la signora con la sua espressione accigliata e mi ha urlato forte nelle orecchie: “Vedi com’è carino? Stai sempre a lamentarti e a incazzarti per niente!”. Tutto chiaro. In un attimo, la rabbia si ridimensiona. Mi si scioglie dentro, fino a diventare acqua ed evaporare.

E così, per questa sera, almeno per questa vigilia di Natale, faccio accomodare la gran signora a capotavola, a guardia del mio sentire per non farlo strabordare sulla tavola apparecchiata, le mangio a fianco, le verso da bere i vini più profumati e brindo a lei che tante volte mi ha salvata dal precipizio e che, almeno per oggi, mi permette di scattare una foto in cui siamo tutti insieme, in accordo, salvi, proprio come una famiglia felice.

 

La Neve

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Immagine di Andreas da Pixabay

di Silvano Panella

Sono uscito di casa molti passi fa, passi pesanti nella neve che nasconde gran parte del paesaggio, che smorza le inquietudini e i rumori, acceca di bianco, di nettezza – eppure spiccano i più piccoli dettagli: quel ramo, quella foglia, quelle orme d’animaletto. Mi fermo ai margini del bosco. Querce e abeti non possono essere travolti dalla neve che cade dal cielo fingendosi un segreto insondabile. Batto le mani, guantate ma intirizzite, in procinto di perdere ogni sensibilità. Spinto dal freddo, proseguo il cammino – il freddo mi suggerisce la vitalità perché è questa l’arma per sfuggire alla sua conquista dei corpi, che perdono calore dai margini fino al cuore, destinati a una morte che lascia sul viso un’espressione atrocemente interrogativa.

Avanti a me una figura sporge, svanisce tra i tronchi, tra i rami. Devio, esco dal sentiero appena percettibile nel molle biancore per vedere meglio questa figura che procede nella mia stessa direzione. Mi attende. Mi saluta con la mano. Vestita d’un mantello di pelliccia, coronata d’una folta chioma di capelli rossi, il sorriso a infondere la tranquillità. Intuisco un nesso tra la donna e la neve.

«Cosa fate qui?», le chiedo.

«E voi?», chiede la donna.

Dopo non esserci risposti, proseguiamo. Poi mi volto. La donna è in attesa delle mie parole.

«Siete uno spirito elevato?», le chiedo, e suscito una lieve risata. «Ecco: uno spirito elevato reagirebbe così.»

«Cosa ne sapete, voi, di spiriti elevati?», la donna chiede, l’espressione imbronciata.

Osservo la neve: intorno a noi, sulla terra, nascosta a sprazzi nel bosco, e in cielo, pronta a cadere.

«So quel che ho letto, quel che ho studiato, appreso. E so quel che dico. Ancora oggi trovo la voglia di stupirmi, la voglia, i modi, i tempi. Il passato sovrabbondante di spiriti mi incuriosisce. Il mio è un interesse letterario, antiutilitaristico, non sociale. Volubile, floreale, insomma formale. O l’ho sottinteso, formale, quando ho detto letterario? Non so, dovrebbe, eppure… Avremmo bisogno di neve»

La donna ride di nuovo. È chiaro, ho invocato la neve pur essendovi affondato, circondato. Ma questo dimenticare la neve è un effetto della neve. È chiaro, è l’attutimento – lo scrissi in un mio racconto.

«L’ho scritto», dico alla donna. «Perdonatemi se parlo in prima persona, ci troviamo nel pieno della… No, non della tempesta. Né della bufera. Né della tormenta. Nel pieno della stasi, dell’incantamento, del tempo che si è arrestato.»

Controllo l’orologio? No, potrei scoprire che il tempo non si è arrestato e questo interromperebbe il nostro contatto.

«Inconcludente lo siete senz’altro», la donna mi dice, e ride della mia esitazione.

Noto che la sua mano destra stringe un bastone torto, le dita terminano con lunghi copriunghie d’argento.

«Dove avete raccolto quel bastone?», le chiedo.

«La domanda semmai è: l’ho rigato?»

«Non avevo il coraggio di domandare una cosa così invisibile, minima, personale.»

«Né risponderò a una domanda che ho suggerito io.»

Preda di un dubbio sotto la forma di un’ombra, guardo dietro di me. Ma tutto è identico a un momento fa, tutto è ammantato di neve.

«Come fa a esserci del buio se c’è la neve?», chiedo a me stesso con la voce che avrei utilizzato se avessi posto la domanda alla donna.

«Questo bianco è completo. È ovunque, silenzia, confonde, ammalia, è compatto, acceca di macule scure. È persistente», la donna dice, e tamburella coi copriunghie sul bastone torto.

Avverto un tintinnio di preziosità sovraesposte. Quei copriunghie mi suggeriscono gli artigli delle linci, qui in agguato, mi suggeriscono la sopportazione al freddo metallico. E mi suggeriscono la presenza d’una reggia all’interno del bosco. Mi inoltro tra le querce. Gli abeti sono lontani lassù, in cerca di luce meno caliginosa. La donna mi segue con la sopportazione di chi è conscio di sapere troppo. Il risveglio del mio orgoglio di uomo che non vuole ammansirsi neppure di fronte alla deità mi porta a fermarmi e a perdere l’occasione di rinvenire la reggia e i suoi segreti, ebbro di recitare la parte dell’offeso, finalmente insofferente alla derisione.

«Voi, immune al freddo, alle sensazioni e alle lusinghe – ovvero nessuno distrae bene quanto voi – siete senza dubbio uno spirito elevato», pronuncio una formula inventata sul momento che fa svanire la donna mentre sorride.

Svanita, aiutata da un brusco, ingente crollo di neve causato da uno scoiattolo salito su un ramo carico e sofferente. Lo scoiattolo mi guarda da un altro ramo, è salvo. Anche la donna è salva, da qualche altra parte. E il suo incantamento è salvo, allontanatosi dalle mie insistenze. Proseguo pensando alla donna. Perché così poco terrena? La nevicata si intensifica. E se cercassi in futuro, alla scomparsa della neve? Se mai trovassi qualcosa in futuro, sarebbero soltanto rovine, non la reggia, non la donna. Invece ora, sotto la neve, potrebbe sembrare che la reggia sia ancora tutta intera, non i resti, i frantumi di cui gli abitanti vanno fieri. Io dico che un fantasma tra quelle rovine…

Erbe madri, pietre magiche e amuleti

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di Erika Maderna 

È uscito per Aboca  La memoria nelle mani. Storie, tradizioni e rituali delle levatrici di Erika Maderna.

Ospito qui un estratto.

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Erbe madri, pietre magiche e amuleti

Le mani della levatrice declinavano un alfabeto di gesti di antica memoria; il ritmo salmodiato di sapienti liturgie di parola orchestrava i tempi del parto. Ma un altro elemento importantissimo concorreva a completare il prezioso bagaglio delle competenze operative: una vasta e circostanziata farmacopea, appartenente a un filone sapienziale femminile che oscillava fra evidenze empiriche e magia. Le piante delle curatrici hanno una lunga storia, che le collega agli usi sacri di erbe medicamentose ritenute “materne”: quelle che la tradizione classica definiva matres herbarum, erbe madri, o per le madri, come se la natura le avesse generate al fine di salvaguardare la salute e la fertilità delle donne.

Fortunatamente, parte della trattatistica medica conserva abbondanti informazioni sull’utilizzo di queste risorse. La continuità fra il mondo classico e il Medioevo è ancora una volta sorprendente, ed è dovuta soprattutto alla fortuna di quel sorprendente catalogo di saperi che è la Storia naturale di Plinio il Vecchio, che nei capitoli dedicati alle risorse botaniche riportava un dovizioso inventario di rimedi.

Dalla summa pliniana si ricava una ricca aneddotica, che mescola evidenze empiriche, superstizioni e ritualità apotropaiche; un’eterogenea confluenza di tradizioni circoscrive la salute umana in una rete di corrispondenze fra uomo e natura, dove quest’ultima si esprime attraverso segnature, significati reconditi e conformità simboliche.

Plinio attribuiva grande utilità alle piante che definiva surdae e ignobiles, cioè silenziose e prive di fama, ovvero le erbe autoctone e spontanee che costituivano la base della tradizione farmaceutica mediterranea. Sono le piante di cui per secoli anche le donne si sono servite per curare.

Il complesso delle informazioni sulle affezioni ginecologiche comprende numerosissimi riferimenti. Una ricognizione dei rimedi più comunemente citati include erbe dalla denominazione marcatamente femminile: per esempio l’aristolochia, che come suggerisce la parola greca è “ottima per il parto”, cioè provoca il mestruo e ha potere espulsivo; il ciclamino, il cui nome suggerisce un beneficio per il “ciclo”; l’artemisia, pianta “artemidea” dalle qualità emmenagoghe; il partenio (“erba vergine” o “erba delle vergini”), che in forma di pessario procura le mestruazioni e favorisce l’espulsione della placenta. Ma ricorrono anche erbe comuni quali l’iperico, la betonica e la piantaggine, impiegate per le più diverse affezioni dell’utero e per quelle conseguenti al parto.

Di uso frequente erano poi il dittamo e la malva, che in pozione o in fumigazione provocano le mestruazioni e facilitano il parto; la calendula regolatrice del flusso mestruale e la menta che lo blocca; la verbena, il cumino e l’ortica contro i crampi uterini, il polio per espellere la placenta e i feti morti, il fieno greco per gli indurimenti, i gonfiori e le contrazioni dell’utero.

Anche l’anice godeva di un ampio utilizzo. Plinio ricorda che un certo Dalione, erborista, ne prescriveva cataplasmi da applicare sul ventre per calmare i crampi uterini, e alle gravide somministrava talora una pozione di anice e aneto, sostenendo che dopo averne odorato l’aroma riuscissero a partorire più facilmente.

All’alloro nano, ai semi pestati del fieno greco e al sonco scaldato in vino bianco o olio si ricorreva per facilitare il travaglio. Ma gli esempi potrebbero moltiplicarsi. I tipi di preparazione erano numerosissimi e variegati, e spaziavano fra infusi, decotti, unguenti, polveri, macerati, suffumigi, impacchi, purganti.

Un approfondimento a parte merita il ricco sistema di amuleti botanici riservati alla gravidanza, al parto e alla protezione del neonato. Erano chiamati okytòkia, letteralmente “rimedi per un parto veloce”. Sebbene ad avere maggiore diffusione fossero soprattutto le pietre-amuleto, le fonti danno prova che certe piante erano ritenute efficaci non solo come ingredienti farmaceutici ordinari, ma anche come talismani, grazie alla loro carica di energie benefiche. Conservate all’interno di piccoli sacchetti, venivano posizionate a contatto con il corpo oppure appese alla cintura.

Anche in questo caso, l’enciclopedia pliniana si rivela una risorsa aneddotica fondamentale. Si dà conto, per esempio, di come i semi del cetriolo favoriscano il concepimento e giovino al parto, qualora avvolti in lana d’ariete e messi sulle reni della donna a sua insaputa, a patto che subito dopo il parto vengano immediatamente portati fuori dall’abitazione della puerpera. Similmente, il ramo di un moro, colto con la luna piena e a condizione che non abbia toccato il terreno, se legato al braccio delle donne rimedierebbe a un flusso mestruale sovrabbondante. Anche il vischio, raccolto nella prima fase della luna senza usare strumenti di ferro e senza fargli toccare terra, funzionerebbe come talismano. Approccio sperimentale e funzione magica convivevano legittimamente, senza conflitto.

Un’altra pianta utilizzata a tale scopo era la malva, erba spontanea assai comune: Risulta che le partorienti sgravano più rapidamente se sotto di loro si pongono delle foglie di malva, le quali immediatamente dopo il parto devono essere tolte per evitare che venga espulso l’utero. Alle partorienti si fa bere anche, a digiuno, del succo ottenuto facendo bollire in vino un’emina di malva.

L’impiego nella fase finale del parto era giustificato da un presunto potere espulsivo di questa erba: si tratta di una delucidazione che Plinio si premura di aggiungere, attribuendone la paternità alla scrittrice e ostetrica Olimpiade di Tebe. La necessità di sottrarre un okytòkion subito dopo il parto, e addirittura di portarlo fuori dalla stanza della puerpera o dall’abitazione, rispondeva alla necessità di evitare che la forza espulsiva dell’amuleto continuasse a operare, trascinando fuori dal corpo della donna anche l’utero e le viscere.

È lecito supporre che tutte queste informazioni, esito di un accurato spoglio della letteratura disponibile sulla medicina ginecologica, abbiano in gran parte attinto alla tradizione delle levatrici, che di quei rimedi semplici e composti sperimentavano quotidianamente sul campo successi e fallimenti. Tuttavia, la mancanza di fonti dirette non ci concede di andare oltre la congettura intuitiva. Questo almeno fino al VI secolo, quando un manuale di un’ostetrica bizantina, Metrodora, avrebbe permesso finalmente di operare un confronto con la tradizione operativa di ostetriche e medichesse. Avremo modo più avanti di descrivere nel dettaglio questo testo, prezioso per il nostro approfondimento; qui è tuttavia importante rilevare come la dotazione farmaceutica di Metrodora riveli un’evidente continuità con le informazioni di fonte pliniana.

Per le infiammazioni dell’utero troviamo prescrizioni di massaggi con olio di mirto, di maggiorana o di giglio; in caso di parto difficile rimedi a base di ruta, aneto, cumino. Per evitare gli aborti spontanei l’ostetrica bizantina ricorreva all’onnipresente artemisia, mentre per i disordini del mestruo e vari altri disturbi tipici femminili si trovano medicamenti a base di salvia, aneto, camomilla, altea, fieno greco, lentisco, e, ancora una volta, ruta e artemisia. Metrodora ricorre di frequente anche all’uso dei pessari, cioè tamponi di erbe compresse da inserire all’interno della vagina a scopo anticoncezionale o per trattare piaghe o altri disturbi, per lo più preparati con foglie di rovo o di mirto e rose secche.

Facendo un salto di alcuni secoli, queste stesse piante sarebbero state protagoniste indiscusse anche della tradizione ginecologica della Scuola medica salernitana. Nel Libro sulle malattie delle donne, attribuito a Trotula de’ Ruggiero, si cita una bevanda chiamata diathessaron, utile per i disordini del mestruo, composta da menta o mirto, genziana, aristolochia e bacche di alloro in eguale dose, assunti con miele e acqua. Per le stesse evenienze, si ritenevano salutari erbe diuretiche quali finocchio, spigonardo, sedano selvatico, cumino, cicuta velenosa, carvi, prezzemolo, cotti nel vino o bevuti con miele.68 Negli scritti salernitani l’artemisia e la ruta vengono menzionate con grande frequenza, così come la menta, la piantaggine, il mirto, il giusquiamo, il fieno greco, la verbena, l’altea, la camomilla, la salvia e l’alloro.

Tutta imbevuta di sapere farmaceutico è una prescrizione relativa alle difficoltà nel parto, presente nel libro Cause e cure della badessa tedesca Ildegarda di Bingen, nella quale si può anche osservare come si ripresenti il tema dell’apertura e della chiusura del corpo femminile, che continua ad abitare il linguaggio simbolico del parto. L’efficacia del finocchio e della renella, infatti, viene attribuita alla capacità di queste erbe di scaldare soavemente, e dunque schiudere e sciogliere, le membra.

Se una donna incinta fatica molto durante il parto, si cuocia in acqua, con precauzione e grande controllo, un poco di erbe leggere, ossia il finocchio e la renella, e tolta l’acqua, le si disponga calde intorno ai fianchi e al dorso della donna, legandole delicatamente con un panno che le tenga ferme, affinché il dolore e le chiusure si sciolgano un poco più facilmente e dolcemente. Gli umori cattivi e freddi che sono nella femmina quando è incinta, la contraggono e la chiudono, ma il soave calore del finocchio e della renella, esaltati dalla dolcezza dell’acqua messa sul fuoco e disposti intorno ai fianchi al dorso, dal momento che proprio in quei punti la donna soffre per la contrazione, stimolano le membra ad aprirsi.

Ma erano soprattutto certe pietre, dette “pietre gravide”, a corredare l’armamentario degli oggetti scaramantici. L’aetite, o pietra aquilina (così chiamata perché si diceva andasse cercata nei nidi delle aquile), ricordava nella forma un utero gravido, e per questa ragione le veniva riconosciuta una funzione benefica per il parto. Ha la caratteristica di contenere un’altra pietra più piccola, che come in un guscio si muove quando la pietra “madre” viene scossa: questo dettaglio rendeva intuitiva l’analogia con un feto nel grembo materno, e la conseguente presunta azione terapeutica per magia simpatica. Veniva posizionata a contatto col corpo, all’interno di un involucro di pelli animali, al fine di trattenere il feto nell’utero scongiurando l’aborto; come ogni altro okytòkion, andava però assolutamente rimossa nella fase conclusiva o subito dopo il parto, per evitare un prolasso uterino o conseguenze peggiori.

Tali superstizioni sono rimaste vitali molto a lungo, tanto che l’utilizzo della pietra aquilina caratterizza anche in tempi recenti alcune tradizioni popolari. Si usava legarla al braccio o al collo della donna gravida per attirare simbolicamente e fisicamente il feto verso l’alto, scongiurando così una fuoriuscita prematura; durante il parto, poi, veniva rimossa e collocata sulla coscia, in modo da esercitare, quasi fosse una calamita, una forza d’attrazione opposta.

Le pietre gravide potevano essere fornite dalla levatrice, ma spesso appartenevano al patrimonio delle donne della famiglia, oppure venivano inviate, scambiate o prestate all’interno della rete parentale o amicale. Trotula de’ Ruggiero ci ricorda che la conoscenza specifica delle proprietà di questi particolari ausili era di solito affidata all’esperienza delle ostetriche:

Ugualmente si noterà che vi sono certi rimedi fisici il cui potere ci è oscuro, i quali sono utili quando espletati dalle levatrici. Pertanto fa che la paziente tenga un magnete nella mano destra e questo le gioverà. Fa che beva raschiatura di avorio. Giova il corallo sospeso al collo. Allo stesso modo, è utile somministrata in una pozione la materia bianca che si trova negli escrementi di falco. In una maniera simile, l’acqua nella quale sia stata lavata la pietra del primogenito trovata nel ventre di una rondine o nel suo nido giovevole per lo stesso stato e per molti altri.

Anche fra le pagine del Libro delle creature di Ildegarda di Bingen troviamo testimonianza di convinzioni che assegnano alle virtù dei cristalli efficaci poteri protettivi, e in aggiunta propongono immagini e simboli estremamente suggestivi. In precedenza abbiamo menzionato l’utilizzo rituale di una pietra denominata “sarda”, che la badessa cita per una sua presunta virtù “espulsiva”; ma è altrettanto sorprendente una notizia riferita al diaspro, segnalato per essere un potente talismano scacciadiavoli, capace di proteggere contro le presenze malevole che possono insidiare la salute della madre e del bambino dopo il parto.

Quando una donna partorisce un bambino, a iniziare dal momento del parto e per tutto il puerperio tenga in mano un diaspro: gli spiriti malvagi dell’aria non potranno fare del male a lei né al suo bambino. La lingua dell’antico serpente è attratta dal sudore del bambino che esce dalla vulva della madre e in quel momento insidia tanto il bambino quanto la madre. Se dunque il serpente esala il suo alito in qualche luogo, colloca lì un diaspro: il suo fiato s’indebolirà, farà meno male e il serpente smetterà di soffiare.

Ancora più stupefacente si rivela questa bizzarra storiella: quando la femmina del topo deve partorire, fa fatica e trova difficoltà. Allora, mentre soffre, si reca sul bordo dell’acqua, cerca delle pietre piccolissime e ne ingoia tante quante ne può tenere in gola. Poi corre nella sua tana, le risputa, soffia sopra, le copre con il proprio corpo, le riscalda e subito partorisce. Dopo aver partorito, scopre di detestarle e le respinge con le proprie zampe, si sdraia sui propri piccoli e li riscalda. Se qualcuno potesse trovare quelle minuscole pietre entro un mese dal momento in cui la femmina del topo le ha respinte e le attaccasse sull’ombelico di una donna che è già in travaglio ma non riesce a partorire, costei partorirebbe rapidamente, poi dovrebbe subito allontanare le pietre.

Questo tipo di oggetti scaramantici avrebbe assunto nel tempo forme e modalità di utilizzo differenti, adattandosi di volta in volta a linguaggi e ritualità più affini al contesto religioso. Nella tradizione cristiana, la funzione protettiva accreditata agli amuleti okytòkia sarebbe stata assorbita, fino a tempi relativamente recenti, dai cosiddetti “abitini” e dai “brevi”.

I primi erano piccoli sacchetti contenenti immaginette dei santi, che le donne gravide posizionavano sotto gli abiti. Analoghi, e ugualmente operanti per magia di contatto, erano i “brevi”, fogli di carta o pergamena recanti formule propiziatorie o preghiere. Potevano essere preparati anche con la cosiddetta “carta vergine”, un materiale ricavato dalla lavorazione della membrana amniotica che talora riveste il neonato quando “nasce con la camicia”, e alla quale si attribuivano poteri magici. Questa veniva portata in chiesa di nascosto, per “assorbire” le benedizioni durante la messa, oppure fatta battezzare insieme al bambino, occultata fra le vesti. Poi, una volta fatta seccare, si poteva utilizzare come supporto su cui scrivere invocazioni e formule benauguranti. La segretezza che doveva necessariamente coprire la preparazione di questi amuleti ne identificava tuttavia anche la natura illecita in quanto superstiziosa; e non è un caso se molte delle informazioni relative a queste pratiche si ricavano dalle carte relative a processi per stregoneria.

Quest’ultima considerazione introduce un elemento rilevante, ai fini del nostro intento di tracciare l’identikit storico della levatrice, ma soprattutto di circoscriverne la rappresentazione sociale e culturale. Osservando la variegata trama, e la connotazione fortemente magica, delle procedure che abbiamo considerato, non sorprende che l’identità della levatrice abbia potuto essere soggetta a un’ambivalente rappresentazione. Oltretutto queste operatrici, che si muovevano in un territorio estremamente delicato, erano sottoposte a un giudizio collettivo assai poco incline ad accreditare fiducia alle iniziative delle donne.

La loro storia si è pericolosamente incrociata con quella di epoche ostili a ogni forma di sapere femminile, che in molti casi hanno assunto forme persecutorie.

Luigi Trucillo: Antigone e la giustizia della metamorfosi

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di Enza Silvestrini

 

Ci sono figure che appartengono alla storia del mondo, archetipi della coscienza collettiva in grado di orientare il nostro pensiero nel rapporto con la realtà, di descrivere il senso del nostro stare al mondo. Sono figure mitiche che dal passato sussurrano una verità che il presente, nel suo ostentato fragore, percepisce appena. Così è Antigone che dalle pagine della tragedia di Sofocle, attraversando secoli di riprese e riscritture, approda nei versi del poemetto di Luigi Trucillo Antigone nella città dei pazzi, edito da Cronopio.

Nonostante resti fedele alla simbologia che sostanzia la tragedia antica, Trucillo reinventa il mito originando un altro modello, un nuovo inizio.

Generalmente interpretata come la custode della legge morale contro uno Stato che calpesta la pietas verso i morti, Antigone sceglie di combattere una lotta titanica contro un re despota che separa legge e diritto impedendole di seppellire il cadavere del fratello.

Nel poemetto di Trucillo, Antigone è forse ancora più sola. Sorretta dall’integrità del suo passato e del suo dolore, richiamata da un nuovo tonfo della giustizia, Antigone si presenta al lettore nella forma di una piccola lucciola, vagante a mezz’aria mentre le sue palpebre / a poco a poco accendono un paesaggio.

La luce è un elemento cardine nel testo: illuminare per guardare il reale nella sua evidenza; illuminare per conoscere. Così insegna la sapienza antica che fa della luce la metafora fondamentale della verità. Ma non è solo la conoscenza intellettiva che interessa al poeta, quanto la saggezza del cuore che può comprendere e assecondare la sorte in un ritmo più umano, alieno dalla spietatezza. E infatti ogni cuore che batte è una luce, / ma non tutti lo accettano.

In un tempo come il nostro, dominato da un eccesso di illuminazione e di visibilità, è singolare notare come sia una piccola luce, dalla sua prospettiva ritirata, a illuminare davvero. È una luce che viene dalle ombre, che da sempre condivide lo spazio con le tenebre. Proprio per questo, ha imparato a guardare il buio della notte e della mente.

Di fronte alla profondità della lucciola, appare persino risibile la luce, tanto più potente, della torcia impugnata dal guardiano. Abbagliando senza illuminare, essa riassume la tracotanza del più forte, ma soprattutto l’inquietudine dell’uomo di fronte allo spettro dell’anarchia. Ripetitivo e claudicante, il guardiano si trascina nella sua arrugginita certezza: anche tra le macerie non bisogna mai abbandonare la salda presa del controllo / per un delirio del cuore. Occorre preservare l’ordine contro la follia, contro il caos che si insinua come polvere nella storia, contro ogni devianza sovvertitrice. All’orrore, che squarcia il sistema e la terra sotto i suoi piedi, il guardiano non sa trovare altro argine della acritica obbedienza alla norma, qualunque essa sia. Il guardiano è una voce nemica e necessaria, ultimo baluardo della legge di Creonte, il suo esecutore, un tramite come acutamente nota Antonello D’Elia nella sua postfazione dove evidenzia soprattutto il carattere dialettico della tragedia. Antigone potrebbe essere il doppio di Creonte, il suo limite, il dubbio lacerante dell’incertezza che si incunea nella tenacia del potere, nella fermezza dell’azione.

A dialogare con Antigone, c’è un coro dei 4 senza 4. I quattro elementi che gli antichi immaginarono come i principi generatori e conservatori del tutto, sono qui come un esodo / che si dirige fuori scena. Aria, acqua, terra e fuoco che furono l’anima, la pupilla, l’utero e il crogiolo di Zeus sono ormai ridotti a liquami e gas inquinanti, a qualcosa che comprime la vita avvelenandola. Tutto è un’eco di ciò che è stato. Anche i luoghi. Porsi in ascolto di questa eco è un esercizio di attenzione della mente e del cuore, capace di sentire le voci degli scomparsi. È risalire all’indietro il flusso del tempo e delle vite trascorse, per dare corpo alla memoria di coloro che la storia ha reso invisibili e anonimi murandoli vivi dentro sé stessi.

Richiamata in un luogo che fu la città dei pazzi, negli anfratti desolati del manicomio (l’Istituto “Leonardo Bianchi” di Napoli) con il suo carico di storie e frantumi, Antigone si aggira tra quelle che furono le stanze, nel solco di un dolore antico.

Il Bianchi è un non luogo, una particella espulsa dalla città come qualcosa di indesiderabile, che è preferibile non guardare. È una cellula di follia e contenzione, di torture e disumanità perché i pazzi stanno su un confine tra umano e bestiale e dunque per loro non valgono le leggi morali. Per contenere la loro pazzia si può tutto. Basta che il contagio non si estenda, basta che siano sottratti all’occhio della polis che prospera nei suoi civili convenevoli, nella sua ipocrita bontà.

È un non luogo speculare alla polis, è alter così come il pazzo di fronte al “sano”, così come Antigone di fronte alla perseveranza del re Creonte.

Il fascio di luce della torcia del guardiano illumina schedari e rovine dove i ragni tessono le loro tele e gli insetti respirano.

Dalle cartelle numerate senza più un ordine legato alla successione, emergono destini, scaglie di vita concentrati in un nome: Umberto, Modestina, Maria, Luigi ed ancora altri bisbigliano, dall’aridità di carte e documenti, frammenti di una storia che è, insieme, personale e collettiva.

Il Coro sa che conoscere un dato / o un uomo / è la discriminante tra la scienza e l’amore.

Dalle cartelle compaiono anche nomi di poeti come Sylvia Plath, Majakovskij e, soprattutto, Hölderlin. Poeti smisurati che si sono spinti fino alle soglie di sé stessi, della propria identità (io che non sono io, dice la cartella n. 603 di Sylvia Plath), che hanno eroso i lembi della parola poetica per farla splendere nella sua interezza, che con la loro vita e la loro morte si sono fatti altro da sé per guardare le stesse viscere dell’umano.

Da questo limite, i poeti parlano della metamorfosi, della possibilità di danzare sul tempo che ci consuma e ci affratella, che ci proietta in nuove forme.

Proprio Hölderlin, che ha abitato la notte della mente, dell’Antigone sofoclea è un traduttore atipico poiché, scuotendo e scavando la lingua, egli ricrea in senso moderno quella stessa capacità emozionale che l’originale aveva sugli antichi. Attraverso le sue note di traduzione e la sua potente invenzione linguistica annuncia una verità che Trucillo accoglie e fa sua: la comunanza alla quale Antigone chiama non è solo quella del sangue, ma quella che deriva dal legame universale di ogni essere umano con gli altri. È un legame nato dalla condivisione di sofferenza e morte che segnano il tempo e l’aspettativa umana. È il senso greco del destino. Nella sua solitudine tragica, Antigone ne è cosciente.

Tra le schede compare anche quella con il nome di Basaglia. È la cartella n. 0, un numero flesso in una molteplicità che disegna un vasto arco da niente a tutto, che dà valore alla posizione, che accresce o annulla. Zero, dai margini del sistema di numerazione, è un decentramento che permette di superare la cieca autorefenzialità della somiglianza e di guardare dalla prospettiva della divergenza. Così Basaglia, nei versi di Trucillo, non è solo una premessa cronologica di un nuovo modo di concepire la cura, ma soprattutto è la consapevolezza che tutto ciò che vive / inizia ancora, è la visione che abbraccia in un unico orizzonte l’umano: Tra il dentro e il fuori / c’è l’uomo, / intrecciato con tutto / e sempre intero / come un ponte di liane.

Il vero dono, ci dice il poeta, è in un originario essere tutti. È questa verità che Basaglia ci affida.

Lo scontro tra l’individuo e la polis, tra la ragione dell’intelletto e quella del cuore, inaridisce le stesse radici su cui la comunità si regge perché riduce tutto ad un unico aspetto, ad un relativismo colpevole che inquina il vivere comune: Il male può sembrare un bene / se gli Dei dell’epoca / ti accecano la mente, / e la struttura generale / risolve tutto / nella sua accelerazione stabilita.

Anche politicamente, è la pluralità il fondamento della condizione umana.

Una lucida costruzione architettonica eleva l’edificio poetico su diversi livelli stilistici. I suoni si richiamano come in un processo di gemmazione in cui le sillabe che compongono il verso sembrano sbocciare l’una dall’altra, snodandosi nella potenza di vibrazioni affilate o nella morbidezza di parole avvolgenti.

Nell’Antigone di Trucillo, la tragedia si è già consumata. Il suo tempo è divenuto evanescenza e metamorfosi. Resta la possibilità di illuminare con una luce fioca ciò che è stato per guardarlo nella sua spettrale inesistenza che, tuttavia, lo rende enormemente presente. Allora, Antigone, piccola lucciola, avversa il flusso indifferente / della morte. Nell’intermittenza della sua luce, che si dilata e si contrae come in una nascita, prende su di sé tutte le storie di quelli sepolti nel silenzio dell’oblio, le incarna per affidarle al coro e a chi vorrà seguirla perché diventi plancton / che integra le vite.

Il concetto di fratellanza, che prima dell’epilogo chiude il testo e che è così giovane nella storia degli uomini, qui si innesta nella comune consapevolezza del caos. Un movimento circolare ci riconnette all’origine e, nel contempo, all’inizio del poemetto. Il Prologo si apre, infatti, con la forza di una domanda che, anche quando proviamo ad allontanare, continuamente risuona nelle nostre coscienze: Chi sei, fuori dagli altri?

È una domanda radicale perché la pluralità di forme e vite attraversate ci racconta chi siamo, il dolore di volti silenziati. Volti e destini che, infine, Trucillo affida alla fluidità dell’acqua, a un comune fondale umano. Nell’acqua tutte le storie si sciolgono e si integrano in un’ondata di spuma collettiva. Si nutrono della sottile potenza della metamorfosi, della tenace libertà degli inizi.

A che punto è la notte? (appunti per una decodifica culturale del trumpismo)

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di Giorgio Mascitelli

A prima vista il successo di Trump appare connesso con l’uso spregiudicato e abile, ma non abilissimo, di due miti. Il primo è quello della nazione incarnato dal MAGA e il secondo è quello della tecnologia incarnato da Musk, che non a caso si è portato dietro tutta la Silicon Valley.

Sul primo sarà sufficiente ricordare che è un tema tipico della destra la spiegazione della decadenza o delle sofferenze di un paese con il tradimento e la corruzione delle classi dirigenti. Esso ha molteplici esempi e, per limitarci all’Italia, la vittoria mutilata su cui Mussolini costruì la presa del potere e D’Annunzio la sua popolarità, è uno di quelli più nitidi. Il fatto che le classi dirigenti siano effettivamente corrotte e non credibili, è il caso tanto dei gruppi dirigenti degli attuali Stati Uniti quanto di quelli dell’Italia liberale, non cambia la natura mitologica di questo discorso. Infatti sono mitiche l’evocazione di un passato dai tratti volutamente vaghi e l’indicazione della risoluzione dei problemi della nazione con l’arrivo al potere di un vero patriota che risolleva magicamente la situazione. Del resto la promessa di tornare grandi è una delle possibili declinazioni di quel “mettere il passato in scatola, con tante maiuscole”, che Furio Jesi indicava come uno dei tratti caratteristici della cultura di destra.

Sul secondo occorre innanzi tutto precisare che il ruolo di Musk come uomo forte dell’amministrazione ha ovviamente risvolti, obiettivi e modi di intervento molto concreti, ma per il senso di queste note a me interessa trattarne soprattutto l’aspetto simbolico, anzi di simbolo incarnato funzionale all’ideologia. Il mito della tecnologia ha infatti un duplice significato: uno è quello di, per parafrasare le parole di Jesi sul passato,  mettere il futuro in scatola a lettere maiuscole, cioè la promessa che nel futuro tutti i problemi saranno risolti da una forza sovrumana come la tecnologia; Il secondo è quello specificamente neoliberista del futuro nella forma di aspettativa di ricchezza (non a caso l’eccezionale capitalizzazione di borsa di alcune società chiave di Musk non è dovuta ai profitti realizzati nel presente, ma alle aspettative di crescita). Va però precisato che a differenza del mito della nazione, che perlomeno nel Novecento è stato tipico delle forze reazionarie, quello della tecnologia ha attraversato l’arco di tutte le posizioni politiche, dalla rivoluzione sovietica al fascismo passando per le liberaldemocrazie, perlomeno nella prima delle due accezioni. Del resto la partecipazione degli imprenditori della Silicon Valley, cioè di un settore innovativo che per i suoi legami con la new economy clintoniana è sempre stato considerato progressista, alla cerimonia di insediamento di Trump aveva valenza mitologica mettendo in scena la tecnologia che presenziava alla nascita di una nuova era. In particolare Trump e Musk si pongono su questo piano come interpreti di un’idea che nella cultura statunitense odierna è profondamente condivisa in diversi ambiti, direi maggioritari, della società, compresi alcuni che avversano politicamente il trumpismo. Si tratta di quello che Evgenij Morozov ha chiamato il soluzionismo ossia la convinzione che qualsiasi problema sociale possa essere risolto tramite la tecnologia. Tale idea è centrale perché è uno degli strumenti fondamentali per camuffare scelte politiche da scelte tecniche neutrali e sarà uno degli strumenti a cui ricorreranno il presidente e il suo doppio nel loro attacco alla democrazia. Allo stesso tempo il soluzionismo è patrimonio anche di quelle élite politiche e finanziarie che si oppongono (si oppongono sempre nel quadro di una logica interna di sistema) ai due e dunque è stato criterio dell’azione anche di amministrazioni passate.

L’uso del mito in politica è storicamente uno dei caratteri del fascismo, se a questo aggiungiamo le pulsioni autoritarie tipiche e i propositi ostentati di imperialismo vecchio stile, l’identificazione di Trump con esso sembrerebbe indiscutibile, ma in questo caso tale equivalenza è ingannevole e rischierebbe di portarci fuori strada. Non solo la riproposizione dell’antifascismo in un quadro di rispetto formale delle prerogative del parlamento e di assenza di una censura generalizzata e perciò ben visibile non sarebbe comprensibile alla maggioranza, ma sfuggirebbero anche gli aspetti specifici e nuovi del trumpismo. Del resto mancano qui almeno tre decisivi elementi del fascismo classico: il partito unico organizzato in forma paramilitare come elemento di inquadramento delle masse, l’esaltazione dello stato, mentre qui al contrario il taglio e il restringimento sono lo scopo esibito, e l’identità controrivoluzionaria, visto che non c’è nessuna rivoluzione da combattere.

L’idea del fascismo eterno, secondo la formulazione che le dette Umberto Eco nella nota conferenza tenuta alla Columbia University nel 1995, è una delle più diffuse oggi tra i democratici di ogni paese e, purtroppo, delle più fuorvianti. Non perché i caratteri che Eco attribuisce al fascismo siano in sé sbagliati e nemmeno perché molti di essi sono comuni a movimenti tradizionalisti e reazionari che non sono stati fascisti, ma perché l’idea di sottrarre il fascismo ai rapporti storici e sociali concreti che lo hanno determinato per trasformarlo in un oggetto logico astratto da applicare a ogni situazione si traduce poi nella sua trasformazione in una sorta di contromito accecante e distorcente. L’applicazione della logica popperiana antistoricista nella sfera della politica produce effetti rovinosi. Questa identificazione impedisce inoltre di vedere che anche vecchie caratteristiche assumono in un altro contesto un significato politico differente: per esempio l’estetizzazione della politica negli anni Trenta è fuor di dubbio un tratto tipicamente fascista, ma con la diffusione dell’apparato mediatico essa diventa una pratica che coinvolge sistematicamente anche le liberaldemocrazie e quindi assume un valore politico diverso. Del resto nell’azione di Trump vediamo una politica aggressiva degli annunci, dunque una politica mediatica che paga molto sul breve periodo, ma sul medio potrebbe rivelarsi discretamente autolesionista, e il ricorso non a una legislazione straordinaria, insomma allo stato di eccezione, ma a una legislazione ordinaria sfruttando l’anomalia americana in cui sono ancora in vigore leggi dei secoli passati, che possono essere usate, in un quadro di legalità formale, con fini antidemocratici nell’attuale contesto: leggi che sono state mantenute in vigore o approvate da amministrazioni precedenti.

Se dovessimo trovare un riferimento più efficace per cogliere pienamente la linea di Trump, la nozione più utile è quella di dittatura liberale che ha utilizzato Massimo De Carolis in un suo intervento sul presidente argentino Milei, non a caso tra i principali alleati di Trump (https://www.youtube.com/watch?v=W2gO6Qi2fhs). L’espressione dittatura liberale viene tratta dalla nota intervista in cui il premio Nobel Von Hajek esprimeva il proprio favore alla dittatura militare cilena di Pinochet, dichiarando di preferire una dittatura liberale a una democrazia senza liberalismo. In particolare la mescolanza di richiami alla difesa della libertà degli individui dalla dittatura dello stato e le  contestuali spinte alla repressione di minoranze e oppositori si spiegano proprio nell’idea che i migliori, cioè i vincitori della competizione naturale in economia ovvero i ricchi, vanno difesi dal risentimento contronatura dei perdenti e allo stesso tempo vanno lasciati liberi di esprimersi. Questa peculiare posizione viene resa popolare tramite l’attacco alla casta, ma a differenza dei populisti che hanno l’idea per così dire di trovare migliori rappresentanti del popolo, qui l’idea stessa di popolo viene eliminata: esiste una massa di individui perdenti a cui viene offerta la possibilità di vendicarsi delle loro sofferenze sui politici corrotti e su varie minoranze indicate come responsabili della situazione e allo stesso tempo la possibilità dell’identificazione simbolica con i migliori che hanno vinto. La motosega che Milei brandisce nei comizi è il simbolo del rancore individualista e della liberazione delle energie dei migliori, cioè i più ricchi, che lo stato pretende di imbrigliare.

Tale genealogia del trumpismo (Pinochet, scuola di Chicago, anarcoliberismo) dimostra che esso è un esito non necessario, perché in storia non c’è nessuna dimensione deterministica, ma possibile della globalizzazione. Tale considerazione implica una concezione della globalizzazione diversa da quella dominante, dovuta alla cultura liberale, come un’epoca di pace, di diffusione della civiltà e dei diritti umani grazie all’effetto armonizzante del mercato unico mondiale, in cui guerre e dittature sono retaggi del passato (basterà ricordare a titolo di esempio la dichiarazione di Obama su Putin, dopo l’occupazione della Crimea nel 2014, che andava in senso contrario alla storia). La realtà ha dimostrato che la globalizzazione non solo è stata un’epoca assolutamente propizia all’imperialismo e alle guerre per motivi sostanziali di carattere economico, ma che è stata distruttiva della democrazia nella misura in cui i grandi capitali e i relativi capitalisti hanno assunto una dimensione finanziaria tale da superare quella di quasi tutti gli stati, salvo gli stati continente, con conseguente perdita di sovranità di questi stessi. Purtroppo non si conoscono forme di democrazia al di fuori di quella degli stati nazione perché la democrazia si basa su una forma di politicizzazione diffusa dei cittadini che nasce dai diritti politici garantiti dalla costituzione. Naturalmente non si tratta di rincorrere le chimere sovraniste, ma di recuperare l’impostazione del movimento no global che a cavallo del millennio aveva colto le tendenze fondamentali della globalizzazione e cercava di articolare una risposta politica all’altezza. L’idea, derivante da questa immagine della globalizzazione, che in Occidente la democrazia sia stabilita una volta per tutte o al massimo sia minacciata da nemici esterni è un’idea sbagliata e pericolosa. Ma questo tema ci porterebbe molto in là, per il discorso che intendo fare qui mi limito a sottolineare che accostarsi all’idea del trumpismo e delle sue varianti come retaggi del passato, come peraltro suggerisce l’uso del termine fascismo, è assolutamente deleterio, perché bisogna considerarli in realtà come anticipazioni di un futuro evitabile ma possibile e manifestazioni per nulla casuali del presente. Bisogna liberarsi, cioè, dalla forma mentis assolutamente fuorviante di trovarci di fronte a un passato che ritorna mentre ciò che arriva è un tipico prodotto della contemporaneità.

Poco prima della fine del suo mandato Joe Biden ha rilasciato una dichiarazione culturalmente molto importante invitando a guardarsi dalle minacce che gli oligarchi tecnologici possono portare alle democrazie. Con tali parole Biden sdoganava nel lessico politico e giornalistico il concetto di ‘oligarca’ in relazione agli Stati Uniti, che finora veniva usato solo per i paesi dell’ex Unione Sovietica. D’altro canto era sorprendente che tali affermazioni provenissero da un esponente del partito democratico statunitense, che, a cominciare dalla deregulation sotto la presidenza Clinton, è stato a pari merito con i repubblicani edificatore della presente oligarchia. D’altra parte Biden non pensava che tutti i grandi capitalisti, tutti i gruppi di interessi siano negativi per la democrazia, ma che esistano degli oligarchi buoni e degli oligarchi cattivi, per dirla con una semplificazione. Chi sono gli oligarchi buoni? In realtà fino a qualche tempo fa Elon Musk e tutti i giganti della Silicon Valley, quando ancora erano progressisti e collaboravano con le amministrazioni democratiche erano considerati tali. Questa dichiarazione non è però frutto solo di opportunismo politico, ma corrisponde a una precisa necessità ideologica, se non ci fossero oligarchi buoni, non sarebbe sostenibile l’idea della globalizzazione liberista, che ha consentito agli oligarchi di raggiungere dimensioni di ricchezza pericolose per la democrazia, come evento positivo. E’ un atteggiamento che troviamo, per esempio, anche nel film Il lupo di Wall street di Martin Scorsese, in cui l’anomalia è individuale e non sistemica.

Questo tipo di impostazione però rende impossibile qualunque critica radicale del trumpismo come forma oligarchica e la prova ci è stata offerta qualche giorno fa in Italia da Giorgia Meloni. Quando le è stato obiettato il rapporto di vassallaggio con Elon Musk, la presidente del consiglio non ha negato che l’imprenditore sudafricano fosse un oligarca, ma ha obiettato alla sinistra i suoi rapporti con Soros, da lei considerato più considerato pericoloso di Musk. L’imbarazzata e ambigua difesa del finanziere teorico della società aperta fatta da Bersani in una trasmissione televisiva è stata l’eloquente rappresentazione dell’empasse culturale della sinistra liberal globalista nello svolgere un credibile ruolo di critica nei confronti del trumpismo, al di fuori dello stretto perimetro dell’area dei suoi sostenitori.

Si tratta quindi di riconoscere che il trumpismo è una variante estremista del neoliberalismo e che non esiste critica radicale di Trump senza una critica di esso. Queste posizioni sono le uniche che possono garantire una cornice unitaria e potenzialmente egemonica a tutta quella serie di diritti delle minoranze che sono investite dall’attacco di Trump che altrimenti rischiano di essere voci nel deserto. Allo stesso tempo bisogna riconoscere che se questo è un passo essenziale per determinare a che punto è la notte, sono molti altri i fattori perché la presidenza Trump appare essere un’accelerazione della crisi statunitense, dalle dinamiche difficili da prevedere.

Poetiche e politiche dell’intelligenza artificiale

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Ospito qui un estratto da PROMPTING. Poetiche e politiche dell’intelligenza artificiale di Niccolò Monti, uscito recentemente per Edizioni Tlon.

La rivoluzione cibernetica

Se per il Surrealismo la mano che crea può corrispondere immediatamente al linguaggio, per la cibernetica il computer può rimpiazzare mediatamente le funzioni svolte dal cervello. L’ipotesi presuppone un’analogia, secondo cui le macchine e gli organismi sono funzionalmente simili. Già nel xix secolo i fisiologi parlano di macchine pensanti – in relazione agli automatismi organici – ma il termine non muore lì, ritorna nella nascente cibernetica, riesumando l’idea, anch’essa di origine ottocentesca, per cui una macchina sufficientemente complessa sarebbe in grado di svolgere operazioni logiche automaticamente, con una minima supervisione umana.

L’idea di una tale macchina pensante la ritroviamo nei progetti speculativi e talvolta persino realizzati di Charles Babbage, Ada Lovelace, Stanley Jevons, Allan Marquand, matematici con vocazioni ingegneristiche, consapevoli di non maneggiare un problema di natura esclusivamente logica. Inventare una macchina capace di sostituirsi pure solo in parte allo sforzo mentale, oltre che a quello fisico, avrebbe sortito profondi effetti strutturali su come si organizza l’attività lavorati sull’idea stessa di lavoro. Dal xix secolo a oggi, non si può scindere la riflessione sulle macchine intelligenti, sull’automazione, da questioni storico-sociali: «Si potrebbe dire che la computazione emerse in quanto automazione della divisione del lavoro mentale e calcolo dei costi di tale lavoro».[1] Il pensiero cibernetico interseca queste direzioni, una legata alla storia della logica e un’altra alla storia del lavoro.

A dire il vero, l’una e l’altra sembrano essere inscindibili, a partire da una delle idee su cui è stata innestata buona parte della cibernetica. Quando, nel 1948, Claude Shannon formula la teoria dell’informazione, sono già trascorsi vent’anni di ricerche su come misurare la quantità di informazione veicolata in uno scambio comunicativo. Nel 1928 Ralph Hartley, un ingegnere impiegato presso i Bell Labs, aveva pubblicato un articolo sulla “Transmission of Information”, dove veniva per la prima volta sollevata una questione divenuta di centrale importanza anche in discipline dapprima lontane dalla cibernetica, come ad esempio la linguistica o la semiotica.

Se due individui possono intendersi a vicenda quando scrivono o parlano, è la condivisione di un codice che consente loro di interpretare i simboli usati mediante lo stesso significato. Ma il significato è un fattore psicologico, specificava Hartley, mentre per stimare un’esatta misura quantitativa occorre basarsi unicamente su fattori fisici, in modo da evitare tutte le ambiguità e parzialità della comunicazione. La trasmissione di informazione poteva essere considerata sotto l’ottica di un gioco probabilistico. La codificazione e la successiva selezione dei simboli sono fatti fisico-meccanici, interpretati non secondo un sistema semantico, ritenuto un’astrazione psicologica da escludere, ma attraverso una statistica calcolata sulla fonte del messaggio: l’informazione sarà misurata dalla probabilità che un dato simbolo venga enunciato tra quelli selezionabili in un insieme finito, per quanto ampio.

Altri impulsi si accumularono attorno al 1943. Un articolo in particolare è ritenuto un testo centrale della cibernetica, un campo di studio interdisciplinare il cui nome è stato coniato su un calco dal greco: kybernētiké, l’arte di governare, guidare, timonare. Norbert Wiener, con Arturo Rosenblueth e Julian Bigelow, era tra gli autori di “Behavior, Purpose and Teleology”, pubblicato per l’appunto nel 1943. Ritornava quel principio fisiologico su cui Hartley aveva posto le basi della calcolabilità dell’informazione: i tre autori assunsero una postura analoga per sostenere l’isomorfismo strutturale tra macchine e organismi, seguendo l’ipotesi che per le une e per gli altri si possa parlare di un comportamento intenzionale attivo, intrinseco alla loro fisiologia e che si esprime nella tendenza a correggere il corso delle azioni sulla base di un processo di feedback. All’apparenza sembra allora che vi sia un’intenzione, nella forma di una regolazione adattiva del comportamento agli stimoli provenienti dall’esterno. L’intenzionalità, tradizionalmente legata alla capacità di stabilire e perseguire uno scopo, conferendo così una forma teleologica all’azione, veniva ora svincolata da fattori psicologici e ricondotta soltanto a interazioni meccaniche e reattive tra l’organismo (o la macchina) e il mondo. Ecco l’idea del feedback, una serie di aggiustamenti che viene attivata in risposta al ritorno degli output come input.

Idee simili vennero esposte sempre nel 1943 in The Nature of Explanation di Kenneth Craik, e soprattutto da Warren McCulloch e Walter Pitts in “A Logical Calculus of the Ideas Immanent in Nervous Activity”, tra le prime formalizzazioni di una rete neurale. Il modello matematico di McCulloch e Pitts proponeva di emulare l’attività dei neuroni biologici nel cervello servendosi di una notazione derivata dalla logica simbolica, in particolare dai lavori del filosofo Rudolf Carnap, in quegli anni esule tedesco negli Stati Uniti e docente a Chicago nello stesso Ateneo dei due scienziati. Il ricorso alla logica simbolica va ricordato, poiché fu in contrasto a questa decisione che si improntarono le più decisive critiche mosse al modello McCulloch-Pitts. Il metodo per strutturare una rete di neuroni artificiali si innestava su alcune assunzioni tratte da quanto si sapeva riguardo il funzionamento dei neuroni: «L’attività del neurone è un processo di tipo “tutto-o-niente”».[2]

La base logica di questa ipotesi di partenza è derivata da una delle leggi fondamentali dell’algebra booleana – riferimento che accomuna questo approccio neurofisiologico e la teoria di Shannon. Si tratta di una legge che definisce un algoritmo tra i più basilari: l’appartenenza o meno a una classe, la quale, ammettendo solo una dicotomia tra due risposte, sì o no, arriva a regolare quei sistemi che prevedono due stati possibili di esistenza. Un neurone può essere attivato, oppure no; in un circuito elettrico un relè può trovarsi in uno stato chiuso o aperto, spento o acceso, a seconda dell’intensità della corrente, come già aveva postulato Shannon a partire dal 1938.

Ma la differenza tra un ricorso e l’altro a questa legge matematica mostra il modo in cui la storia dell’ia si sia biforcata in due paradigmi, ugualmente fondamentali affinché anche la creatività artistica finisse nelle ambizioni e profezie dell’ia. Il primo paradigma cade sotto il nome di “ia simbolica”, contrapposto al cosiddetto “connessionismo”, nel quale è dominante l’uso di modelli di machine learning fondati sulle reti neurali, come in McCulloch e Pitts, e in seguito con il percettrone (perceptron) ideato nel 1958 da Frank Rosenblatt, tra i maggiori ispiratori di questa corrente di ricerca rimasta per decenni in secondo piano rispetto alla ben più visibile e finanziata ia simbolica. Quest’ultima, esauritasi quasi del tutto tra gli anni Ottanta e Novanta, si basava su un’ipotesi computazionalista secondo cui ogni pensiero non sarebbe altro che un calcolo di simboli, ai quali si attribuisce sia una materialità sia un valore semantico che ne costituisce la rappresentazione.

l connessionismo, al contrario, inerisce più strettamente alla cibernetica e in particolare ai suddetti saggi del 1943; è legato, in altre parole, a una prospettiva secondo cui al centro della costruzione di macchine intelligenti doveva trovarsi quel meccanismo di feedback, ovvero di ritorno e circolarità, tra macchina e mondo, tra ciò che calcola e ciò che viene calcolato. Potremo dire che una macchina apprende nel momento in cui essa reagisce intelligentemente al contesto in cui agisce; per questo il feedback veniva definito, già da Wiener, “negativo”, nel senso che ogni output errato sarebbe rientrato sotto forma di input, per indirizzare il comportamento della macchina.

Questo modello adattivo sarà alla base del paradigma connessionista e successivamente di gran parte del deep learning, l’insieme di tecniche computazionali basate su reti neurali da cui è nato l’attuale interesse per il prompting. Torneremo a parlare di questa genìa nel secondo capitolo. Nel frattempo, l’ia simbolica aveva imboccato un’altra strada e, benché sia stato superato, questo paradigma fu determinante nel far compiere all’ia il salto verso le arti. Ciò è stato possibile anche grazie alle fortunate applicazioni incontrate dalla teoria dell’informazione in estetica, dapprima nella teoria musicale, nella quale a partire dalla metà degli anni Cinquanta avevano iniziato a moltiplicarsi i tentativi di modellare la creatività, ad esempio parlando di processi di composizione stocastica.

Oltre alla musica, un ambito particolarmente fertile è stato quello della creatività ludica, in particolare negli scacchi. Il gioco, come il linguaggio, è un sistema di regole spesso rigide, talvolta plastiche, all’interno del quale ci sono cose che possiamo fare e altre che invece ci vengono precluse proprio dalle regole del gioco stesso. Il gioco è un’attività essenzialmente creativa, anche se – o forse proprio perché – si configura anzitutto attraverso i vincoli. Come fare a traslare la creatività che emerge da sistemi simili, la musica, il linguaggio, il gioco, dove un atto creativo si dà grazie e in opposizione a ciò che lo regola e sorveglia?

Il salto verso le arti non fu immediato. Dovettero prima consumarsi gli otto anni in cui si svolsero le Macy Conferences (1946-1953), una serie di colloqui interdisciplinari, di cui alcuni organizzati a titolo della nascente cibernetica. In uno degli ultimi simposi, il neurofisiologo William Grey Walter sulla scorta di McCulloch e Shannon ribadì l’evidenza fisicalista della spiegazione dei fenomeni di causazione e di creazione: non esiste nulla al di fuori dei meccanismi fisiologici che fanno muovere il mondo. A ciò aggiungeva la questione di come nei cervelli e nelle macchine si arrivasse a una configurazione organizzata: se questa fosse il frutto di una finalità o implicasse invece un certo grado di casualità.

L’osservazione dei cambiamenti di stato in stato, ad esempio nei processi di apprendimento, faceva supporre che un’organizzazione casuale della materia potesse funzionare «come uno stato-trampolino per una macchina docile, che sia di metallo oppure di carne».[3] Su questa scia, a intrecciare causalità, casualità e creatività, assecondando un interesse di ricerca analogo, sarà l’evento spesso reputato l’epicentro mitologico dell’ia: la scuola estiva al Dartmouth College del 1956. Fra i quattro organizzatori di quelle giornate troviamo John McCarthy, lo scienziato che coniò l’espressione “intelligenza artificiale”, giunta poi a significare un intero ambito scientifico, persino gli esperimenti di deep learning lontani da ciò che lui aveva in mente da esponente del paradigma simbolico, a cui appartenevano anche Allen Newell, Herbert Simon e Marvin Minsky.

Nella proposta redatta in preparazione alla scuola estiva, gli organizzatori articolarono in sette punti quello che essi riassumevano come il “problema dell’ia”: i computer automatici (la programmazione di calcolatori capaci di simulare le funzioni più elevate del cervello umano); come far usare un linguaggio naturale a un computer (torna il problema di come automatizzare la generalizzazione e la manipolazione simbolica); le reti di neuroni (ovvero l’uso dei modelli matematici impostati secondo la metafora dei neuroni); la teoria della dimensione di un calcolo (come misurare l’efficienza di un calcolo in base alla complessità del dispositivo di calcolo e delle funzioni); l’automiglioramento (ipotesi ulteriore rispetto ai modelli adattivi della prima cibernetica); le astrazioni (come dare a certe macchine la capacità di formare astrazioni a partire da dati sensoriali e di altro tipo); infine, la casualità e la creatività (ogni ragionamento ordinato, per poter essere detto creativo, ha in sé una dose controllata di casualità).

Un altro organizzatore, Nathaniel Rochester, pur afferendo al paradigma simbolico, ebbe il merito di introdurre una questione divenuta centrale per lo sviluppo dell’ia e, come abbiamo visto, del prompting: come far sì che i risultati della macchina siano originali? La domanda si legava strettamente allo sforzo di innestare un barlume di intuito o di capacità congetturale nei calcolatori automatici. Rochester desumeva la sua proposta dal modello avanzato da Craik nel 1943, secondo il quale ogni azione mentale equivale a costruirsi piccoli motori (engines) nel cervello, il cui compito è fornire astrazioni e predizioni riguardo l’ambiente circostante. Per Rochester era inevitabile che questo processo avvenisse tramite una dose di casualità, ciò che gli individui esperiscono nella forma di intuizioni improvvise e inattese.

Quale approccio seguire? Da un lato, copiare il modo in cui il cervello sembra performare nei momenti di ragionamento e creazione casualmente orientati; dall’altro, cominciare da una classe di problemi che richiedono originalità per essere risolti, e sulla base di questi sviluppare un programma capace di risolverli con un calcolatore. Rochester indica che entrambi gli approcci sono percorribili, ma rimanda il responso a futuri esperimenti. Parla dei progressi che sono stati fatti con le reti neurali per risolvere il dilemma di come rendere una macchina originale, solo per poi dichiarare i limiti di quei tentativi, secondo lui in erba. Il percettrone doveva ancora essere ideato, ancora molti inverni e primavere dell’ia si sarebbero succedute: il problema di come riprodurre originalità e creatività nei programmi “intelligenti” permette di intravedere la scia che porta a ciò con cui abbiamo a che fare oggi, il prompting; una scia che sarebbe poi la storia profonda dell’ia, composta di una lunga serie di ambizioni, profezie e ideologie scientifiche che, il più delle volte, si sono spente

[1] M. Pasquinelli, The Eye of the Master. A Social History of Artificial Intelligence, Verso Books, London 2023, p. 64.

[2] .S. McCulloch e W. Pitts, “A Logical Calculus of the Ideas Immanent in Nervous Activity”, in «Bulletin of Mathematical Biophysics», vol. 5, 1943, p. 118.

[3] Si veda il tweet di François Chollet del 13 luglio 2017, twitter.com/ fchollet/status/885378870848901120.

Charming men. La storia degli Smiths

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di Martina Panzavolta

Il nome “Smiths” abbraccia la coesistenza di violenza e delicatezza, evoca la nostalgia del passato come critica al presente, ma anche l’immagine di un mazzo di fiori – per la precisione, un mazzo di gladioli – che fuoriescono dalla tasca posteriore dei jeans e che roteano in aria per venire gettati sul palco. La band inglese, formata da Morrissey (voce), Johnny Marr (chitarra), Andy Rourke (basso) e Mike Joyce (batteria), ha respirato per soli cinque anni e quattro album, ma è stata fatale per un’intera generazione. L’«aspetto realistico» dei loro brani è stato certamente l’ingrediente – insolitamente – segreto del successo: gli Smiths hanno infatti saputo radicarsi a una dimensione profondamente quotidiana, in grado di raccontare qualcosa vicino a chi ascolta, pur senza rinunciare a disseminare i propri brani di citazioni raffinate, o meglio, rifinite da un wit e da uno charme alla Oscar Wilde (cfr. Rennis 2024, p. 295). Del resto, non stupirebbe se «We are all in the gutter, but some of us are looking at the stars» (“siamo tutti nella grondaia, ma alcuni di noi guardano le stelle”, Wilde 1892, p. 88) rientrasse fra le strofe dei loro testi, omaggiando esplicitamente la saggezza estetica dello scrittore inglese. A ragione, quindi, l’affiliazione artistica degli Smiths a Oscar Wilde è stata colta e sottolineata da Fernando Rennis, che ha posto la sopracitata espressione in apertura al suo libro dedicato alla storia della band.

Charming men. La storia degli Smiths, edito da Nottetempo nel settembre del 2024, non è semplicemente un percorso fra gli album e i testi degli Smiths, ma un intreccio di materiale storico e musicale in cui, oltre alle telecamere puntate sulla band, si fa “zapping” sul calderone incandescente degli anni Ottanta. In un certo senso, si può dire che, nel libro di Rennis, gli Smiths siano circondati da co-protagonisti e comparse: una menzione speciale va di certo a Margareth Thatcher, seguita dal trionfo del liberismo, dalla paura del nucleare della Guerra Fredda e dal dilagante disordine sociale a livello mondiale, in cui trovano voce i gruppi underground giovanili e le droghe a buon mercato. Nella narrazione degli Smiths, la cornice storica è fondamentale: non solo mostra alle lettrici e ai lettori la realtà messa in musica nei brani, ma soprattutto ricorda che l’espressione artistica può essere uno strumento di critica che contribuisce a muovere il presente e dare speranze – tutti aspetti che troppo spesso vengono tralasciati.

Fernando Rennis ha una penna piuttosto allenata all’intreccio fra musica e politica; fra i suoi testi sul tema, si possono menzionare Politics. La musica angloamericana nell’era di Trump e della Brexit (2018) e Patriots. La musica italiana da Berlusconi al sovranismo (2019); il suo penultimo libro è invece Un glorioso fallimento. L’eterno presente della Factory Records (2022). Sulla linea delle sue ricerche storico-politiche, Rennis dà avvio alla narrazione degli Smiths a partire da un flashforward: una seduta del Parlamento britannico. «Miserable Lie, I Don’t Owe You Anithing o Heaven Knows I’m Miserable Now: quali di queste canzoni avrebbero cantato i poveri studenti se il governo avesse portato a casa il voto sull’aumento delle tasse universitarie?» (Rennis 2024, p. 15). Kerry McCarthy lo chiese nel 2010 al primo ministro David Cameron, il quale rispose che «non gli avrebbero cantato di certo This Charming Man» (ibidem).

Le canzoni degli Smiths non avevano certo bisogno di essere menzionate a una camera parlamentare per divenire politiche: fin dai primi concerti, la band era solita invitare il pubblico a salire sul palco per prenderselo, già dimostrando che i riflettori del loro successo dovevano essere puntati sul quotidiano protagonista dei loro testi (cfr. ivi, p. 21). Agli Smiths non importava di dire o non dire qualcosa fuori posto, si trattava, piuttosto, di non fare qualcosa di omologato o senziente solo perché doveva essere fatto. Del resto, come diceva bene Wilde, «quando i critici non sono d’accordo fra di loro, l’artista allora è d’accordo con se stesso» (Wilde 1891, p. 7). Su questo, tutti i membri della band erano hand in glove, che in inglese significa “complici”, e camminavano letteralmente “mano nel guanto”; non a caso l’espressione è stata il titolo del loro primo brano di successo (Rennis 2024, p. 62).

Il loro essere alternativi non era semplicemente una moda, ma una postura vigile e critica: negli anni del thatcherismo, le arti che non avevano ambizioni industriali erano fuori dai giochi. Per questo, come sottolinea a più riprese Rennis, firmare per la Rough Trade, un’etichetta indipendente britannica, e scegliere di rimanerci anche nell’anno di maggior successo, fu un atto di protesta consapevole nei confronti delle grandi case discografiche che seguivano le linee guida di Thatcher relativamente ai valori di individualismo e liberismo. Al contrario, gli Smiths volevano un “lavoro etico”, coerente rispetto a ciò che mettevano in musica: «un sacco di soldi, se fatto bene» (p. 84). Del resto, la denuncia della pedofilia e della corruzione inglese non era affatto qualcosa da canticchiare con la leggerezza degli Wham!, l’altro volto della musica britannica: lo “Charming Man” che il duo pop impersonava era superficiale e finto, quello degli Smiths era tanto reale quanto erotico e pedofilo, come gran parte della borghesia inglese mascherata da gente per bene. Del resto, gli Smiths avevano a cuore la ricerca della “verità”, quella che riguarda l’umano e i suoi i sentimenti, e che molto spesso viene messa a tacere, soffocata dall’indifferenza e dall’alienazione. Per questo, come sottolinea Rennis, i veri «pugni in faccia» per il pubblico sono stati Please, Please, Please, Let Me Get What I Want e How Soon is Now (1884): due brani che ricordano la fragilità delle speranze e che, nonostante ciò, difendono il bisogno di sentirsi amati in un mondo che ci rende sempre più soli (ivi, pp. 144-145).

Questa “ricerca della verità”, per così dire, non aveva nulla di intellettuale: per gli Smiths, doveva prendere i cuori «dalla gente normale che vive con te» (ivi, p. 178), che è disposta a riaprire le ferite cicatrizzate dalla invulnerabilità apatica, per ricucirle, non senza dolore, nella speranza della rigenerazione di comunità più consapevoli e, di conseguenza più critiche e attive. La musica, per gli Smiths, doveva quindi puntare a e accendere un senso di frustrazione positivo nei confronti delle violenze subite; d’altronde, questo è stato dichiaratamente l’intento primario di Meat is Murder (1985), il secondo album degli Smiths che cantava in maniera assordante il senso di insoddisfazione.

Del resto, gli Smiths hanno partecipato attivamente, e non solo con i loro brani, ai movimenti di sinistra. Di fatto, sono saliti più volte – anche se non sempre al completo – sul palco del Red Wedge, un collettivo di musicisti che voleva appoggiare le politiche del Partito Laburista in vista delle elezioni generali del 1987, nella speranza di estromettere il governo conservatore di Thatcher (ivi, p. 203). Le loro canzoni dovevano raccogliere le voci del presente, non imbrattarle di finta felicità; a tal proposito, Morrissey e Marr raccontano che, davanti allo schermo della tv, mentre ascoltavano gli Wham! cantare I’m your man lo stesso giorno in cui Chernobyl è esplosa, hanno sbraitato: «che cazzo c’entra questo con la vita delle persone?» (p. 211). Il brano Panic (1986) fu il risultato di queste riflessioni.

Nella narrazione di Rennis è interessante anche il racconto della ricezione italiana della band. Per fornire un esempio si può citare Pier Vittorio Tondelli, lo scrittore camp per eccellenza degli anni Ottanta e Novanta, il quale affermava che gli Smiths avevano un fascino invidiabile: i testi di quel «geniaccio» di Morrissey riuscivano a tenere insieme quell’«immaginario ambiguo in cui piacere e dolore sono intrinsecamente uniti» (cfr. Tondelli 1985, pp. 123-125; citato in Rennis 2024, p. 182). Del resto, tale intreccio si trova all’apice della sua altezza nell’esplicita unione di amore e morte in un brano di The Queen is dead, l’ultimo pubblicato con la Rough Trade, il cui titolo è There Is a Light That Never Goes Out.

Tuttavia, contemporaneamente a brani definiti sempre più “traboccanti di fascino” (cfr. ivi, p. 226), per la band andavano acuendosi diverse crepe. Anche se nelle esibizioni sembravano ancora affiatati, nel 1986 l’intesa inaugurata dall’Hand in Glove si era ormai incrinata. Di fatto, come ripete più di una volta Rennis, gli Smiths non erano un gruppo di amici che poi ha deciso di mettersi a fare musica, ma quattro individualità che si sono trovate a parlare dell’Inghilterra e del mondo al momento giusto, e non più del tempo che per loro è stato giusto. Innanzitutto, nel 1986 avevano rotto gli accordi con la loro etichetta indipendente e avevano firmato per la EMI, una major, che di certo non rispettava l’idea etica di lavoro che si erano prefissati. Di più, Morrissey e Marr, non avevano più le stesse idee in merito al materiale musicale: se Marr voleva sperimentare ed era curioso delle nuove tecnologie in campo artistico, Morrissey non voleva abbandonare il “linguaggio naturale” della musica («Nature is a language, can’t you read?», “La natura è un linguaggio, non riesci a leggerlo?”, Ask, 1986). Così, nell’estate del 1987, Marr dichiarò la sua definitiva uscita, spiegando: «Non nego che ci fossero certi problemi all’interno della band […] Ma la ragione principale per cui me ne sono andato è semplicemente che ci sono cose che voglio fare, musicalmente, che non hanno spazio negli Smiths» (ivi, p. 265). Del resto, anche Morrissey, da parte sua, si era definito «preparato» alla dipartita del collega (ivi, p. 267). Molti articoli, come ricorda Rennis, hanno dichiarato che è stata la fine della band inglese più originale degli ultimi anni.

Negli anni successivi non c’è stata nessuna reunion: come spiega Rennis, anche questo fa parte «del loro charme, anzi del loro mito: cinque anni di attività, quattro album e un comunissimo cognome inglese che li incastra per sempre in un’insormontabile giovinezza» (ivi, p. 280). Per le lettrici e i lettori di Rennis, gli Smiths saranno legati anche a un’instancabile speranza legata all’avvenire musicale: l’arte può trovare ancora la sua voce. Loro lo hanno dimostrato: proprio mentre Margareth Thatcher affermava “there is no alternative”, riferendosi al capitalismo e alla globalizzazione, gli Smiths cantavano «Why do I give valuable time / To people who don’t care if I live or die?» (“Perché do tempo prezioso / A persone a cui non importa se vivo o muoio?”, Heaven Knows I’m Miserable Now, 1984).

Bibliografia

Tondelli, P. V. (1985), Un weekend postmoderno. Cronache dagli anni Ottanta, Bompiani, Milano 2001.

Wilde, O. (1891), Il ritratto di Dorian Gray, trad. it. di L. Cecchini, Mondadori, Milano 2020.

Wilde, O. (1892), Il ventaglio di Lady Windermere, trad. it. diC. Dondo, Garzanti, Milano 2010.

Mots-clés__Pioggia

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Pioggia
di Paola Ivaldi

Fabrizio De André, Dolcenera -> play

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“La pioggia mi riporta”, Patrizia Cavalli, da Poesie (1974-1992), Giulio Einaudi editore, pag. 91.
La pioggia mi riporta
i pezzi dispersi
degli amici, spinge in basso i voli
troppo alti, dà lentezza alle fughe e chiude
al di qua delle finestre finalmente
il tempo.
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[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. La prima domenica del mese Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a:  ornellatajani@hotmail.it Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]

Overbooking: Cetta Petrollo

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Guardaroba di poesia per custodire la vita
di

Nadia Cavalera

La poesia è infinita, mutevole, onnipresente. Esiste in tante forme quante sono le vite che abitano questa terra. E, che lo si voglia o meno, essa rivela sempre la vera natura di chi la genera. Può essere autentica o artefatta, spontanea o manipolata, ma resta comunque lo specchio della vita di chi la esprime. Perché – e non mi stancherò mai di ripeterlo – poesia e vita sono due facce della stessa medaglia.

Poesia è l’estrinsecazione in libere azioni che il soggetto cerca di fare della propria esperienza, che va dalla nascita alla morte. Poesia è la definizione della vita, un soffio tra le due estremità, un mosaico fragile e potente di attese, errori e invenzioni, che io chiamo, semplicemente, senza volontà di sminuirlo, “passatempo”.

Ma scrivere – e vivere poeticamente – non è solo un atto individuale. È anche un gesto di connessione, uno scavo interiore che diventa ponte verso gli altri. Nessuno porta la propria vita da solo, ci ricorda Hölderlin. La poesia è quindi una forma di solidarietà, un’azione concreta per costruire legami in un mondo sempre più frammentato. Eppure, questa solidarietà è spesso dimenticata, lasciando l’umanità in una condizione di precarietà che la spinge, oggi più che mai, sull’orlo del baratro.

Le parole, unite in un abbraccio globale, sono le uniche armi di difesa concesse per resistere. Un sogno? Un’utopia? Forse, o certamente. Ma senza sogni, non c’è lotta. Dobbiamo crederci, dobbiamo impegnarci, perché solo coltivando la parola possiamo preservare un mondo che non sia preda del denaro, che distrugge le sane radici ovunque penetra, come ricorda anche Simone Weil, ma lo domini e cerchi di risvegliare quei preziosi principi fondati sul rispetto, sulla cura, sulla consapevolezza.

E questa cura deve partire dal mondo vicino a noi, dalla realtà quotidiana che ci circonda. Osservarla, raccontarla, custodirla: questa è la cifra stilistica e umana della scrittura di Cetta Petrollo., poeta e narratrice da oltre quarant’anni. Compagna del “novissimo” Elio Pagliarani, ha fatto della parola uno strumento di identità e resistenza. Con orgoglio, ha rivendicato la specificità delle donne della sua generazione, cresciute con la consapevolezza di una diversità da affermare, piuttosto che da omologare a modelli maschili.

Ma il suo sguardo non si limita alla denuncia. Nella contemporaneità, coglie il rischio di una perdita della fierezza femminile, inghiottita da dinamiche consumistiche. La sua è una generosità che non si misura in denaro o beni materiali, ma in tempo, attenzione, ascolto. Una pratica costante di partecipazione alla vita degli altri, dai grandi intellettuali fino ai lavoratori più umili. Un atto di cura autentico e concreto.

A testimoniarlo è la sua corposa auto-antologia, “GUARDAROBA. Tutte le narrazioni e le poesie 1979/2021” (Zona, 2024, con introduzione di Loredana Magazzeni). Già dal titolo, che coniugato al femminile, “la guardaroba” (come era in origine, comprendendo pure l’attuale “guardarobiera”) indica non solo la stanza di un’abitazione per lo più arredata di armadi dove si conservano vestiti, biancheria e roba simile, ma anche la persona che attende alla loro custodia. “Guardaroba” è dunque l’insieme di abiti vari, di lenzuoli, asciugamani, coperte, tovaglie, coperte, centrini, pizzi e merletti di casa Petrollo («La casa è la mia più recente identità, il centro intorno a cui ruota tutto il resto») ed è Petrollo stessa, loro attenta vestale. Che ce li presenta nelle forme varie della sua scrittura, spaziando dagli  epigrammi, ballate, stornelli, haiku e sonetti (apprezzati dacché al Laboratorio diretto da Pagliarani nel 1978 aveva scoperto «che la gabbia metrica e la costrizione della rima e delle sillabe servivano a contenere l’effusione sentimentale, a rendere meno dilagante l’io, a solidificare la scrittura rendendola lontana dallo sfogo umorale e privato») alle ricognizioni in dialetto romanesco; dalle molteplici favole notturne e non agli intensi e coinvolgenti recitativi d’amore, alle cronache di artisti e intellettuali nell’Italia del secondo novecento; dalla scrittura deformata per una presa in diretta delle storie rumene ai delicati lasciti poetici, dedicati al nipotino.

Il suo registro è sempre vibrante: colloquiale e familiare, brillante e musicale, a tratti ironico, a tratti giocoso, ricco di leggerezza.

Petrollo, nata Maria Concetta, e divenuta Cetta, per «ghiribizzo nordico» della madre «dettato dall’amica bolognese» e tale rimasta tra le possibili varianti (Concettina-Tina-Cetta-Connie-Concezion-Cetty): «due sillabe puntate e puntute ma con la a finale che non si schioda. No, non si schioda». Ebbene Petrollo ha fatto della parola la sua casa. Ma non si è limitata a raccontare esperienze: le ha custodite, protette e trasformate in un atto d’amore per le persone, gli animali, i luoghi e perfino gli oggetti.

Tra questi, i libri occupano un posto speciale. Dal 1978, quando ha iniziato a lavorare in biblioteca, li ha considerati creature vive, da curare come si curano le cose più preziose: «Ero così felice! Toccare con le mani i volumi per un lavoro che, secondo me, era importantissimo, sapere cioè se stavano dove la scheda indicava che fossero, se erano in buone o in cattive condizioni, proprio come avrei fatto a casa mia, solo che questi erano libri di tutti e questi tutti si fidavano così tanto di me da darmeli in consegna e aspettare che io mi prendessi cura di loro!»

La gioia della cura è sempre sottesa in questa testimonianza di vita vissuta («Mi porto dietro il mio passato / Con qualche tarlo antico / Che a ogni primavera si rinnova») perché «Quando si cura la vita, non si può pensare ad altro». Non ci «si schioda».

E allora, ecco la poesia di vita. Non un rifugio astratto, ma un percorso concreto, un intreccio di memoria, affetti e pensiero critico. Un modo di abitare il tempo, radicandolo nella storia e aprendolo alla speranza della solidarietà.

Con testi

di

Cetta Petrollo

 

Fiore di rosa

quanto cara mi sei

mente orgogliosa!

 

 

Del cibo faccio a meno

ed anche degli ossequi

c’è un punto interno

fra il respiro e il ventre

e quella sono io tranquillamente

 

Mi porto dietro il mio passato

Mi porto dietro il mio passato

Con qualche tarlo antico

che a ogni primavera si rinnova

sottotraccia il profumo nella casa

di quando noi eravamo.

Così fa la ginnastica

il cassetto rivelando

le pipe ancora calde

(e cenere mai buttata).

Vorrei dirlo per tutti

ma non sono capace

e lo dico per me

e per un pedigree

che faccia storia.

Ancora trent’anni al secolo

(già sorpassato

da questo tavolino d’antiquariato).

 

Vico Palla

Mi dice che la odia. Me lo dice troppo. Fra di noi una bottiglia di

vino, due bicchieri. Fra le mani ho un riccio di mare, bruno, lucido.

Pieno di aculei robusti. Lo tengo saldamente. Quando voglio ho polsi

forti e dita brunite, si confondono con le spine.

Il menu è scritto col gessetto sulla lavagna e lui e il mio compagnuccio.

Cosa vuoi che sia caro. Fammi aprire questo riccio. Non ho coltelli

dietro. Meno male che non vedi che ho il corpo nudo.

Ho una capanna per tutti i miei mari.

Le acciughe fritte di vico Palla.

 

Amicizia

Certe volte parliamo della morte. La morte si è infilata verso una

passeggiata per piazza De Ferrari. Dove eravamo danzanti, barcollanti.

Lei più giovane. Io quasi sua mamma.

Certe volte parliamo di camere ardenti e di percorsi che furono nostri,

a tratti portate da treni lenti come diligenze che attraversano il deserto

del cuore.

Certe volte parliamo di torri e di mare e di burrasche e di questo

mare di sassi simile, dissimile ai nostri.

Certe volte parliamo di biglietti che volarono da lui a lei da lei a

me, provenienti da percorsi invernali mai superati, una pioggia d’amore

sempre uguale.

Certe volte ci scambiamo versi che furono da lui a lei da lui a me.

In un andare errabondo che non vogliamo dimenticare.

Certe volte parliamo di lui.

Del suo corpo, del suo modo d’amare, del suo incistarsi nei buchi

Dell’abbandono.

Certe volte ancora lo amiamo.

Ci ritroviamo nella stessa casa dell’esistenza. Che è sua. Che è nostra.

Certe volte ci teniamo per mano.

Amicizia fra donne. Passione.

 

All’epoca che le fanciulle 16 (racconti serali)

E finalmente il cielo aveva iniziato a prendere un ritmo, un ritmo

tranquillo dove le lune andavano e venivano e le stelle si muovevano e

il respiro si alzava e sollevava, il respiro di tutto il cielo verso la spiaggia

e dal cielo continuavano a srotolarsi racconti come scie luminose

che si allungavano e ad ogni scia si mostrava un percorso di vita sicché

dai cassetti esse tiravano fuori le storie, storie piene di immagini e

stavano lì a vita spalancata a raccontare le storie ad ascoltare quelle altre

di storie che piovevano dal cielo in ispidi, scontrosi, percorrenti,

amorevoli, talvolta irosi, racconti serali.

Che la pioggia di racconti era poi una pioggia d’amore.

Che certo non è che si mostri subito una vita.

Non si impara subito una storia.

Con pazienza.

Né è facile raccontarla.

Con pazienza.

Ma certo tenendosi per mano sotto un cielo che respira può essere

più semplice.

Oppure meravigliosamente complicato.

Può essere tutto.

E il vento determinato dell’avvio le lascia sulla porta di casa con lo

zaino sulle spalle.

Perché le fanciulle osano ascoltare le storie.

Chiusura delle sedici fanciulle sotto al cielo.

Inizio del viaggio.

Che scivola verso.

 

Mio nipote si sposerà a Farfa

in una bella giornata di sole.

Non so se potrò partecipare.

Forse, se il mio stomaco

me lo permetterà

ed io darò il permesso

a me stessa di arrivare al secolo.

(A dire il vero non so nemmeno

se si sposerà e se sposerà

un uomo o una donna

ma credo che in fondo parteciperò).

Per questo lascio

la mia impronta calda

su questa panchina di pietra

di fronte all’Abbazia.

Perché la pietra è intelligente

e io sono seduttiva

(la pietra conserva la memoria

e mio nipote si siederà

su questa pietra

a Farfa, un giorno

in una bella giornata di sole).

Disegni sul muro bianco

ridendo senza paura

dico basta ma senza convinzione

e penso che non farò

mai ridipingere il muro

che resterà li come il segno

delle crescite

e mi terrà compagnia

quando sarà difficile alzarsi

il mondo divenuto solo una casa

ma quanto chiassosa

quanto colorata

con i segni ardimentosi

sopra il letto.

La bella pelle dell’amore

risplende

così abbiamo passato l’equinozio

e la bella pelle dell’amore

risplende

risplende tranquilla senza fretta

mentre solo su un fianco

dimostra il suo bilico

la bella pelle dell’amore.

Intanto mi hai tenuta

nella bella pelle dell’amore.

(Amor che dato sia

casto mi prende)

[…Ì  il corpo si ritrae sponda seconda

alla fase seconda della luna orgasmo che non sarà

e io me ne starò distesa

incinta di parole?

Ma s’è aperto il passaggio

corrispondenza del sé

corrispondenza del sé riscaldandosi l’aria

appena appena sulla brace del camino

riscaldandosi l’aria

(il tuo ascolto è un porto

dove passo e ripasso

allentando gomene)

(valve che nuovamente riapro

nuove valve ogni volta)

 

Aprilie

Pasqua

Roma 3 aprile

In pasticerie di Lepanto sono uova di pasqua grandi con tule rosa,

azuro, tuti colori, in bar, alimentari e fermata metro e poi uova picole

di ciocolata quale costa come una giornata a fare pulizie, baby sitter o

in cucina alo Spiedo come mia cugina Dorina picolina quale pulisce

verture e pela patate poi mete divisa rosa con fioco dietro e serve a tavola

seria e non parla, senza prattica, senza permeso, a paura, e clandestina,

vuole fare atrice.

Veramente non vivo con lei, dormo lontano in camera con mobili

in grande palazo dopo Ostiense in posto dove arivano due metro, due

tram anche li per’o sono uova di Pasqua.

Mafalda chiede come sono uova di Pasqua da voi? Colorate?

Uova di pasqua in mio paese sono rosse! Alcune fanno anche uova

ricamate con prezemolo, prima prezemolo sopra, poi cipola rossa in

acqua e uova diventano bianche e rosse come ricamate come la lenzuola

quale Mafalda mete su leto. Ricamano a Botosani? A Botosani

no ma insegnano a lavorare terra. Anche in America dice Mafalda credo

non ricamano ma fanno scuola in fatoria con galine e io o visto gallo

grandisimo in aula di Universita quela volta che Ettore fa turne.

Pure mia mama Pasquina non a lenzuola ricamate a Sant’Arcangelo

quela volta niente ciocolata, solo uova sode da fare Pasqua cento anni

fa, quasi, di questa che Pasquina e morta gia da vent’anni.[…]

Chi l’avrebbe detto

Chi l’avrebbe detto

nel duemiladiciassette

vado parlando dei tuoi libri

e quel brutto inventario

che li descrive tutti

con i prezzi che mi dettavi

diventa la cosa più bella

che noi si sia mai fatta.

Acquisto slarghi d’anima.

La luce radente di via Margutta

si allunga verso questa

nostra periferia.

Un crepuscolo (un’alba?)

alla Carrà.

I decenni si distendono

proprio come le dediche

le legature in marocchino.

E quella lì che strillava

per i soldi della spesa

ora va incontro alla moglie

giovane e le dice

“ecco! Vedi?”

 

 

 

Il gatto di Wittgenstein giocava certamente a tennis

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Immagine di Walter Frehner da Pixabay

di Chiara Merli

La prima volta che ho visto Michele è quando si è presentato a casa, studentino di mio padre. Alto, a una prima occhiata (mi è parso) con troppi denti, spigoloso, una riproduzione vivente di un quadro di Schiele; sopracciglia arcuate ma gentili, un naso pure quasi all’insù, delicato. Un collo lungo e un’aria da Wittgenstein. Wittgenstein che con il tempo sarebbe diventato il Nostro, colui che stava studiando con mio padre e figura di massima fascinazione per me.

***

“Il primo o il secondo?”, mi hai chiesto. “Il secondo, ovviamente: ‘Vedo somiglianze qua e là’”.

Non eri bello, ma volevi esserlo, ti muovevi in casa con eleganza. Papà non ti ha portato nel suo studio sul giardino, siete stati in sala a chiacchierare davanti a un caffè e io mi sono accodata, o meglio accoccolata su una sedia, gatto ultraricettivo senza sapere perché.
Per qualche strampalato motivo avete parlato di cucina, non di filosofia. Il gateau, i maccheroni con la besciamella, le origini francesi di molta cucina napoletana.

“Le dominazioni straniere non ci hanno mai interessato più di tanto”, ha detto mio padre, “l’importante è che abbiano portato la besciamella”. Tu hai solo sorriso, mangiando i bignè con voracità: pochi, ma ciascuno in un morso solo.

Quando te ne sei andato ho girellato per casa forzandomi di non chiedere informazioni su di te. Qualcosa poi ho chiesto. Eri uno studentino caparbio, con entrambi i genitori insegnanti all’Orientale, lingue. Eri venuto a Napoli con loro, dal liceo, che ho scoperto essere stato lo stesso mio ma in anni diversi. Vivevi a Materdei, non lontano da noi, con una sorella e un gatto bianco che chiamavate Egli.

Stavi bene qui anche se le usanze napoletane ti sembravano le più strette possibili, e per questo leggevi molto sull’argomento: Goethe, Lewis, Benjamin. Sapevi più cose di me che ci ero nata. Goethe ti sembrava una personcina modesta e a modo, Lewis ti irretiva per le faccende guerresche (“Ho letto Guerra e pace saltando tutte le parti di guerra”, ti ho detto scandalizzandoti un poco) e con Benjamin dividevi l’intolleranza alla città: sporca e caotica, quasi a dire che il Vomero poteva essere un posto buono, austroungarico.

Ci siamo fatti un’appiccicata gigante, una volta, su questa cosa che credevi il Vomero un buon posto. Non è Napoli!, dicevo io, spiegandoti la differenza e l’evidente verità riconosciuta da tutti: il Vomero è “su Napoli”, difficilmente un vomerese si riconoscerà come napoletano. Proprio questo scarto apprezzavi, tu, in qualche maniera costretto a convivere con il magma di una città che non capivi, che ti confondeva.

Cercavi in ogni dove ricordi di quel Nord in cui eri cresciuto, facevi paragoni e nei paragoni, a me pare, tutto si sfrangiava. Si conosce sì per differenze, ma pronunciarsi a proposito della mia città paragonandola a quella o quell’altra mi sembrava un modo non fertile di trarne conclusioni. La verità mi sembrava una: bisognava mettersi nella sua trama e lasciarsi perdere, solo allora si sarebbe potuto dire, Sono qui, e lei, la città, è così.

 

Venivi a casa abbastanza spesso. Ti chiudevi in studio con mio padre, e il più delle volte sentivo le sue imprecazioni. È sempre stato così, fumantino, incapace di trattenersi su quel che riteneva giusto, e a te teneva, teneva al punto da non misurarsi nelle imprecazioni.

“Devi scrivere ogni cosa come se fosse necessaria, come se ogni parola in quel momento non potesse stare in altro posto che lì”, ti ripeteva, e tu non capivi, non volevi credere al senso di ineluttabilità provvisoria e al contempo definitiva del linguaggio, quel linguaggio di cui i contorni tu e lui analizzavate senza alcun risparmio, con adesione totale.
“Per far sì che gli altri credano a quello che scrivi devi crederci tu per primo, completamente”, incalzava.

Abitavamo in una grande casa sul Corso, con un giardino e un terrazzo; ho sempre faticato a spiegare, quando mi sono spostata da lì, come possano convivere un terrazzo e un giardino nella stessa casa. In realtà la soluzione è semplice. Il Corso Vittorio Emanuele si snoda in alto, serpeggia lungo il crinale di una collina, lo taglia in un punto tale per cui la collina diventa lo spazio da costruire, così, in obliquo. Per cui casa nostra, al quarto piano, apriva le sue stanze su un giardino grande, protetto, ricco di aranci, un tavolo, qualche gatto che andava e veniva, oltre ai due nostri, anch’essi nomadi. E da un altro studiolo ecco che si stendeva il terrazzo, grande, con vista sul mare e sul Vesuvio, fin dall’infanzia da me detto “il grande signore con il cappello”.

Avete presente il disegno di quel brutto libello che è il Piccolo principe in cui un serpente inghiotte una preda al punto da sembrare un cappello? A me il Vesuvio è sempre sembrato così, ma più elegante, diciamo un signore distinto con un cappello marrone, aggraziato della grazia di un tempo lontano: quando il vulcano fuma il signore sta fumando la pipa, quando annotta il signore dorme in poltrona, con il vezzo di tenersi il cappello anche in casa.

Insomma, spesso mi facevo trovare all’uscita dello studio, in sala, su una poltrona a fingere di leggere, o più spesso in giardino, al tavolo di marmo, con le mie carte lasciate al vento, con una spremuta, un caffè e tesa a cogliere ogni segnale. Una volta che sei venuto a casa, ti sei seduto vicino a me sotto uno degli aranci più vicini alla vetrata; cercavi mio padre, ça va sans dire, ma lui non c’era, e sei stato con me che leggevo.

“Prenditi un libro”, ti ho detto indicando la libreria della sala, e tu te ne sei venuto con un libello su Omero. Era dicembre; scorgevo benissimo il tuo simulare, la tua attenzione protesa verso di me che leggevo, anche io compresa nello stesso sforzo di dissimulazione dell’attenzione verso di te.

Avevamo un’età di mezzo, quella in cui si cerca la strada, ma la tua sembrava diritta, mossa da un’ambizione che non comprendevo appieno. Siamo stati a leggere a metà un’oretta, mentre il sole faceva il suo giro e si nascondeva un poco dietro gli alberi di fico. Il tuo viso è andato in ombra, e io ho avuto la percezione netta che un giorno saresti fiorito, molto più di allora.

Quando la porta dello studio era aperta sul giardino sentivo le vostre conversazioni quasi per intero, schermata dalle mie occupazioni ma non troppo; non ho mai pensato di essere inopportuna, ho sempre pensato che quel che succedeva nello studio mi riguardasse; d’altra parte portavamo avanti la stessa ricerca, io con le mie inclinazioni, tu con le tue, che spesso convergevano, ma avrei presto scoperto che altrettanto divergevano perché non mi è mai piaciuto contraddire nessuno quanto mi piace contraddire te.

All’epoca studiavo Filosofia anche io, incurante che i miei passi fossero gli stessi percorsi prima di me da mio padre; mi sembrava l’unica scelta possibile, essendo cresciuta fra i libelli e gli studenti che giravano per casa, ognuno a depositare un’informazione provvisoria sullo stato del pensiero occidentale.

Ricordo che da piccola girava per casa “l’hegeliano”. Non so perché mio padre gli avesse mai dato corda, ma era spesso lì a ricordarci i fondamentali da cui aveva potuto prendere le mosse il marxismo. Dinoccolato e stazzonato, amava proclamare che “Il vero è l’intero” e cercava una crasi tale per cui l’idealismo, il marxismo e il cattolicesimo potessero trovare una quadra; penso che sia stato per questo che mio padre gli abbia dato una chance, voleva vedere se il suo sfilacciato tentativo sistematico potesse funzionare.

Erano sempre studenti, mai studentesse; non so se mio padre le volesse fuori per non inquietare Anna, mia madre, la persona più sottilmente gelosa del mondo.
Erano sempre studenti e ruotavano velocemente, perché mio padre era tipo da infatuazioni; tu sei stato di gran lunga la persona che abbia sopportato di più.

Mi ero ormai abituata a vederti regolarmente a casa quando sei sparito qualche mese, e non ho mai saputo perché. Ho pensato aveste litigato, ho pensato che il tuo procedere snello e incespicante avesse dovuto fare i conti con l’ostinazione che ti è propria e che incocciava con quella del tuo professore, il quale non disse mai una parola del tuo distacco, immagino sapesse anche lui provvisorio.

Sei riapparso un giorno di aprile, con una guantiera di pastarelle di Flora; sapevi che con gli sciù caramellati con la panna avresti potuto riconquistare tutti velocemente. Mi hai sorriso di un sorriso pieno e senza scarti, e per la prima volta ho compreso che eri venuto anche per me. O solo per me? Non riuscivo ancora a capirlo, anche se lo sospettavo molto. Mio padre si è chiuso nel suo studio con Haydn dopo aver ingollato uno sciù di gola e cortesia, e ci ha lasciato in giardino a chiacchierare.

Dunque quella luce negli occhi, nuova, non era solo ambizione, era anche un – si poteva davvero chiamare così? – sentimento? Mi sei sembrato davvero lì per me. Era aprile, i giorni dopo Pasqua, i riti della pastiera ancora in corso e la voglia perenne di andare al mare per restarci, non solo di guardarlo dal terrazzo. Avrei voluto andare a Procida, avrei forse voluto andare a Procida con te, ma diciamocelo, era una situazione così anni Cinquanta, così delicata e incasellata nelle grammature di un tempo protetto antico e concordato dalle famiglie, di andare a Procida non se ne parlava. Abbiamo però deciso di vederci finalmente fuori casa, e siamo andati a fare una passeggiata a via Caracciolo.

Alla villa Comunale ci sono i miei alberi preferiti, sono ficus, ma a me parranno sempre baobab, per un gioco di immaginazione.

“Quello è il mio albero”, te l’ho indicato e sono andata a giocare sulle radici grandi, sporgenti, anzi giganti, più grandi della chioma, quasi, e ho pensato, e ti ho chiesto, due cose: “Ricordi il momento in cui Sartre sente nitida la nausea guardando le radici di un albero?”, e: “Hai sentito di quello strano studioso che dice ‘è vero non ci sono fondi, ma se ci fossero sono sicuro servirebbero per scoprire definitivamente che il cervello degli alberi sono le radici’?”.

“In questo caso avrebbero tutta la testa di fuori”, hai detto, “sarebbero alberi un po’ matti”.
Vicino alla Villa comunale c’era l’acquario, mi hai detto che in Napoli ’44 si racconta di quando, in guerra e in fame, un cucciolo di lamantino fu preso dall’acquario e cucinato all’aglio.

“Ma il lamantino all’aglio fa piangere!”, ho detto io, sensibile ai cetacei e alle creature marine tutte. Il lamantino divenne presto la mia bestia preferita, e più avanti ci saremmo mandati mail che finivano così: “Saluti, baci, lamantini!”.

“Nina”, mi hai tirato a te con un gesto, “andiamo verso il mare”. L’abbiamo costeggiato a passo snello, ho imparato subito che come me amavi il passo che fende l’aria e la folla, e ti ho visto metterlo su di tanto in tanto, ma alternandolo a un passo per me, che permettesse di guardarmi, di guardare il mare, di vedere che reazioni avevo alle sparate che facevi.
“Mi sono rotto una mano contro una vetrata, a un convegno”, hai detto. “L’ho presa in pieno”.

“Rotta?”.

“Be’, rotta, sanguinava. Guarda, ho la cicatrice”, mi mostri il palmo, con le linee imperscrutabili del tempo e del destino e un segno cicatrizzato scomposto. “Se guardi bene, io lo vedo, disegna una emme. La vedi?”.

Per quanto aguzzassi lo sguardo tracce di segni decifrabili non ne vedevo, poi ho notato una sorta di piccola retta con un’altra piccola retta parallela a fianco; volendo proprio immaginare, poteva essere chiusa da un’ondina nella carne, e quella costituire una emme.
Ho sorriso e basta, senza rispondere per un po’. “Un pochino la vedo”, ho detto poi, e tu hai annuito soddisfatto.

Ci siamo seduti sugli scogli, mi sono ricordata di quando da piccola mi ci portavano con i panini con la frittata; sulla sabbia era meglio, perché la sabbia entrava un po’ nel panino, si mischiava alla frittata, e intanto i giornali svolazzavano e anche volavano via, e ci si alzava a turno per recuperare le pagine, soprattutto quelle delle parole crociate, che, ugualmente a turno, ognuno con una penna colorata diversa compilavamo.

Non te l’ho raccontato, perché i ricordi d’infanzia sono così, un po’ neniosi, e non volevo tediarti. In uno slancio improvviso però hai deciso che avresti potuto tediarmi tu.

“Posso farti leggere qualche verso?”, mi hai chiesto. “Li ho scritti stanotte, in un ‘narcolessico’, un po’ mi stavo addormentando e un po’ mi tenevo sveglio”.

Ho annuito e sorriso, ti sorridevo sempre molto.

“Tieni”. Mi hai porto un taccuino viola.

“È indaco”, ho detto di slancio.

“Viola”, hai precisato tu, “l’indaco ha più blu”.

“Non ci pensare proprio, questo è certamente indaco, ho un taccuino uguale, e non è mai stato di altro colore”.

Iniziava lì quella che sarebbe stata una nostra lunga scaramuccia nel tempo: trovare la parola più precisa possibile per definire un colore.

“Quello del plumbago secondo te che colore è?”, ti ho chiesto per metterti alla prova.

“Azzurro”, hai risposto.

“È pervinca, pervinca!”.

“E che colore è il pervinca?”.

“È color plumbago”.

Hai riso per la circolarità della definizione che non lasciava scampo a una notazione più precisa, notazione che sarebbe sempre importante trovare per definire le sfumature: il gioco è trovare la parola più minuziosa possibile per chiamarla, la parola di grana più fine.

“Fammi leggere, dai”.

Ho memorizzato quei versi quasi con precisione, io credo, perché erano i primi tuoi che leggevo e da lì avrei potuto immaginare quando tu avresti composto versi che io avrei continuato, o viceversa. Facevano così: “Nel momento in cui / con grazia / si malleavano i dolori / io, nella notte, sto e mi levo / e attendo il momento in cui / al risveglio / ogni cosa sarà al suo posto / la topografia del corpo pronta / a scardinare il giorno nuovo”.

Sarebbe stato banale dire che era bella. “È bella”, ho detto, e non ho aggiunto altro, perché sentivo già in corso una riduzione ai minimi termini: quella in cui tu avresti ostentato, e io lodato. D’altra parte è un po’ così, per i ragazzi in generale, abituati sin dall’infanzia a essere lodati molto. Le bambine sono sempre graziose, i maschi sempre bravi. “Sei bravo”, ho detto, e mi sono sentita definitivamente sprofondare in un gioco di ruolo non scritto che per un qualche motivo mi sentivo di interpretare.

Forse il motivo era questo: sapevo ti avrei fatto leggere anche i miei scritti, un giorno, sapevo già forse addirittura che ne avrei scritti anche per te, e questo livellava le forze, faceva sì che potessi lodarti, perché io lo sarei stata altrettanto.

Non avevo ancora contezza piena della spigolosità del tuo carattere, quella che faceva da contraltare ai lineamenti disegnati da Schiele e che ti rendeva parco di lodi, il più possibile. Per quanto sfilacciate tu me ne abbia sempre fatte, ma con un certo contegno, un controllo assoluto. Un mistero della tua psiche che non mi è stato ancora dato di sondare.

In ogni caso ti ho lodato, e di nuovo mi sei sembrato soddisfatto: bastano due versi, avrai pensato. In verità non erano i versi in sé, non tra i migliori anche tra i tuoi futuri, ma il fatto che quel tuo slancio a scriverne fosse anche il mio e apprezzassi il tuo coraggio di donarmene un paio, su uno scoglio, un giorno di sole come a Napoli ci sono in quantità così grande da far credere che ci sarà sempre il sole, fuori e dentro, e che le giornate cupe non sono una parte delle cose, sono proprio uno sgarbo, un improperio, un’ingiustizia. Siamo stati dunque nel sole ma in un sole che c’era sempre, senza stupore e senza contezza dei giorni cupi futuri.

***

Siamo rientrati a casa e ho pianto. Un pianto un po’ di maniera, ottocentesco, e un po’ no. Avevo il sentore dei giorni bui futuri, che sarebbero venuti ineluttabili come sempre vengono. A cena c’era pasta e zucca, e non mi è venuta voglia di andare a mangiare.
A casa mia non andare a mangiare era un affronto, una cosa inconcepibile. Prima di tutto era inconcepibile non potere avere fame, e in secondo luogo un’impronunciabile oltranza quella di non partecipare al desco con il resto della famiglia.

E infatti non c’è stato verso di impuntarmi: con gli occhi ancora un po’ rossi, dopo essermi soffiata il naso con un fazzoletto bianco con le iniziali del professore ricamate (così era ancora tutto molto più ottocentesco), mi sono seduta a tavola e ho mangiato pasta e zucca, mai stata la mia preferita, ma quest’era.

Nella mia famiglia a tavola si chiacchiera sempre molto. Mio fratello Adriano era appena tornato dal cinema con la sua nuova fidanzata, era andato a vedere Kill Bill, volume 1, ed era esaltato e incredulo. “Il sangue finto di Tarantino è la cosa più bella del mondo”, ripeteva. Mia madre tornava da una sessione di esami del suo corso di poesia italiana contemporanea, e mio padre, be’, aveva passato il pomeriggio nello studio a scervellarsi sulla tesi di Michele. Come ho detto era facile alle infatuazioni, ben più di me, e aveva puntato tutto sulle parole prodigiose di quel ragazzino con la testa di conchiglia.

“È intollerabile”, diceva. “Una testa così, e un perfezionismo tale che non combina niente! Che ci vuole, che ci vuole a buttare giù parole, apparentemente a caso? È così che acquistano significato”. Quando partiva con le sfuriate arenare le insensatezze non era facile, per cui lo ignoravamo. Penso che già allora puntasse su Michele per una borsa e per tenerlo come assistente. Michele aveva già dalla sua però una insostenibile testardaggine, e non ho mai capito sul serio a proposito di cosa lottassero. Quel che è certo è che dopo il mio pianto ottocentesco non ne volevo sapere niente: Michele è come giocare a tennis con il gatto, mi ero appuntata in qualche parte della testa, e ne ero in quel momento così sicura che, con il piacere di mio padre, se l’avesse saputo, quelle parole erano per me ineluttabili.

Michele è come giocare a tennis con il gatto e, a volte, è meglio buttare la palla a mare.

Un genere anglosassone (Letteratura e diritto #2)

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di Pasquale Vitagliano

Le ragioni per le quali il giallo è (stato) un genere principalmente anglosassone sono quelle che hanno fatto nascere in quell’area geografico-culturale il giornalismo delle note 4 domande. Sistema di autogoverno delle comunità cittadine, rete capillare di giudici di pace, cioè onorari di prossimità, modello accusatorio e non indiziario del processo penale (i fatti vanno provati in udienza davanti ad una giuria), sono elementi che formano cittadini che non percepiscono la giustizia come una statua incombente e lontana con bilancia e spada. La vicinanza solletica anche la curiosità. Ecco l’attenzione verso le notizie di cronaca. In Italia il percorso è stato molto diverso. I giudici sono quelli che incarcerano Pinocchio e i giornalisti hanno ambizioni di letterati. Per lungo tempo qui da noi sarebbe stato impensabile un film come L’asso nella manica di Billy Wilder in cui il protagonista va alla ricerca dello scoop della vita per un piccolo giornale di Albuquerque.

Leonardo Sciascia fu il primo a rompere il tabù del poliziesco, al punto di pagarne pegno in prima persona, considerato in alcune antologie scolastiche non come un classico ma come autore di gialli. Per il grande scrittore siciliano il primo detective della storia è stato il profeta Daniele. È lui che risolve il caso dei due vecchioni e così salva Susanna dalla condanna. Lo stesso episodio lo analizza Bruno Cavallone, anche come docente di diritto processuale civile, considerandolo un paradigma della necessità del controesame dei testi ai fini della fondatezza della prova. Nella letteratura bisogna aspettare il XIX secolo per trovare il vero primo detective nella storia. Si tratta dell’ispettore Bucket nel romanzo Casa Desolata di Charles Dickens. Anche se, a dire il vero, dei proto-investigatori li troviamo ne L’assassino del motorista Rolsen del norvegese Maurits Hansen del 1839 e nel celeberrimo I delitti della Rue Morgue di Edgar Alla Poe del 1841.

Intanto cosa è accaduto in Italia? Se la collana Urania-Mondadori dà il nome di “giallo” al genere, va riconosciuto che questi libri sono sempre stati considerati di serie B, libri adatti per le stazioni ferroviarie. La storia cambia nella metà degli anni ’90. Anche se Carlo Lucarelli inaugura la saga del suo commissario nel 1990, è nel 1994 che esce il Birraio di Preston di Andrea Camilleri e un anno dopo L’alligatore di Massimo Carlotto (per cronaca, egli stesso condannato a 16 anni di carcere per un’accusa di omicidio, dopo sei anni ha ricevuto la grazia dal presidente della Repubblica). Perché le date sono importanti? In televisione nel 1984 ebbe un successo stupefacente la serie del commissario Cattani de La Piovra (l’ultima stagione è del 2001), interpretato da Michele Placido. Ma soprattutto scoppia nel 1992 Tangentopoli. La lotta alla corruzione politica e alla Mafia con le stragi del ‘93 fanno dei magistrati degli eroi. Tantissimi lo sono stati davvero. Molti ne hanno assunto solo la postura. Alcuni si sono mossi sul proscenio come calciatori o star dello spettacolo. Altri ancora sono diventati autori di polizieschi. Nel 2000 esce Romanzo criminale del giudice Giancarlo De Cataldo. Il grande successo ottenuto è la consacrazione definitiva del genere sugli scaffali della letteratura. Nel suo ultimo libro Per Questi Motivi (il PQM delle sentenze, che precede il dispositivo, ovvero la formula conclusiva). Autobiografia criminale di un paese (SEM, 2024), egli ha tentato di “illustrare come si arriva ad una sentenza”, in casi da lui non trattati, e “come possono aver ragionato i giudici e come possiamo ragionare oggi, a tanti anni di distanza dai fatti”. Ecco, aspettiamo con curiosità che scriva (lo ha preannunciato egli stesso in un’intervista) anche sull’omicidio di Marta Russo, essendo stato giudice relatore nel relativo processo. Intanto sul caso vi consiglio di leggere Polvere di Chiara Lalli e Cecilia Sala.

Le lettere scarlatte (Letteratura e diritto #1)

Apologia di Maurizio Blondet

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di Cesare Cherchi

Cos’è un complotto? Come si distingue tra complotto e Storia? Negli ultimi anni, con l’avanzare del fronte della crisi epistemica le domande han ricevute molte risposte, tutte egualmente deludenti. E se il problema fosse proprio la ricerca di un criterio di demarcazione? Il filosofo Cesare Cherchi propone un cambio di prospettiva: il problema del complotto non si risolve con una definizione – in realtà solo propedeutica all’eradicazione –, bensì riconoscendo l’impotenza di ogni progetto di igiene del dibattito pubblico. E nel farlo sceglie volutamente una delle “scottature” più indifendibili: l’opera di Maurizio Blondet.

Apologia di Maurizio Blondet

Fino a non troppo tempo fa “complotto” era una parola come altre, si sarebbe potuto usare “macchinazione,” “intrigo” e ottenere un effetto pressoché identico, da qualche decina d’anni tuttavia non è così. Un complotto (con accessorie storpiature gutturali che hanno avuto una certa fortuna tra il 2010 e il 2020; “gomblotto,” “comblotto” et similia [Cosa significa gomblotto?]) è sì una cospirazione, ma una cospirazione falsa. Non solo, l’estensione semantica della parola sembra essersi spostata dalla realtà al mondo delle idee. Dicendo che qualcosa è un “complotto” non evochiamo una serie di fatti, veri o falsi che siano, quanto piuttosto l’attitudine di chi vi crede; il complotto è una perversione che ammorba la mente di qualche debole, dire che qualcuno crede a un complotto – o meglio “ai complotti” come una sorta di unica costellazione – tipicamente dice poco del complotto in questione e molto di quel qualcuno. Ma non è stato sempre così.

Negli anni ‘80 Umberto Eco parlava di complotti con un interesse che non era totalmente semiotico e che richiedeva ancora delle analisi materiali – che invece sarebbero state superflue parlando di terra piatta decenni dopo nella “Storia delle terre e dei luoghi leggendari” (Bompiani 2013). E ancora, negli anni ‘90 Carlo Ginzburg, nell’introduzione de “Il giudice e lo storico” (Einaudi 1991, ed. Quodlibet 2020) si chiedeva quando fosse legittimo nel ricostruire il passato ricorrere a un complotto. Oggi la discussione non potrebbe aver luogo, perlomeno non utilizzando la stessa parola, un complotto vero suonerebbe con un che di paradossale.

Tutto questo pensavo mentre avevo davanti, in una libreria dell’usato, i tre volumi di “Complotti” di Maurizio Blondet (Il Minotauro, 1996, 1996, 1997). A che punto della parabola usciva questo libro, quanto paradossale o ironico doveva apparirne il titolo? Domande delle quali, per ragioni anagrafiche, non mi era chiara la risposta. Ancora nell’immediato dopo guerra, si parlava di “Complotto dei Medici” senza secondi significati, qualche anno fa – nel pieno del isteria di Qanon – usciva invece “Complotti!” di Leonardo Bianchi (minimum fax, 2021), una compilazione sociologico-dileggiatoria delle teorie del complotto più strampalate.

In particolare mi era di grande interesse l’autore, Maurizio Blondet. Di lui era molto noto – si direbbe cult, se la parola non avesse perduto di significato – presso i bibliofili italiani “Gli Adelphi della dissoluzione” (Ares, 1994) che suggeriva piani luciferini dietro il programma editoriale delle edizioni Adelphi. Un mio amico mi aveva persino raccontato di aver cenato ad una tavola con Blondet una volta, questi gli avrebbe rivelato che l’induismo non esisteva, ed era una creazione escogitata per contrastare il cristianesimo.

Complotti I

Le mie intenzioni erano crudeli e ingenue; non mi aspettavo nulla di preciso, ma ho acquistato immediatamente tutti e tre i volumi con una certa attitudine sardonica, che si compiace nel trovare gusto nelle cose più false e lontane. Le aspettative venivano in qualche modo confermate dalla copertina del primo volume. “Complotti. I fili invisibili del mondo. I – Stati Uniti, Gran Bretagna” su cui capeggia un ragno che tesse la sua tela. Tuttavia già la seconda di copertina mi sorprende:

“Può la complottistica assurgere a dignità scientifica? Può diventare una disciplina congetturale, superando la barriera della pura fantasia o della dietrologia?”

Le promesse di una trattazione scientifica sono curiose, soprattutto perché paiono in contraddizione con la quarta: “Il lato oscuro della storia contemporanea, un mosaico di misteri che nessuno ha mai analizzato,” che non lascia intravedere slanci teoretici. Ad ogni modo dalle prime pagine si intuisce abbastanza rapidamente che la seconda, con tutta probabilità apocrifa, verrà disattesa. Dopo una brevissima definizione di complotto (“ciò che chiamiamo “Complotto” faute de mieux, prendendo a prestito l’espressione usata per screditare il fenomeno che scandagliamo è, prima che un “Progetto” – una “Cultura”, una visione del mondo. Che si è formata negli ultimi tre secoli, s’è nutrita di filosofie oligarchiche e messianismi iniziatici” p. 8) libro si apre con una suggestiva descrizione del viaggio del Battello Britannia in Italia nel 1992, quando nei primi giorni di Giugno i maggiori depositari del potere amministrativo ed economico italiano salirono a bordo apparentemente per rendere omaggio alla Regina, in realtà per essere introdotti nei precetti di una non meglio specificata dottrina. La pagina dopo – con un colpo di scena a cui Blondet nel corso dell’opera ci abituerà – inizia con il racconto, storicamente più che accettabile, della dismissione dei manicomi. Viene alla mente l’incipit della “Storia della Follia nell’età classica” in cui Foucault raccontava la dismissione dei grandi lazzaretti francesi per farne, appunto, dei manicomi. Nella ripresa di Blondet non ci si concentra però sugli edifici ma sulla vita libera dei ricoverati. Qualcuno di ingenuo potrebbe pensare che fosse stato un gesto umanitario – naturale conseguenza di migliori pratiche psichiatriche – al massimo ben propiziato dal relativo risparmio economico. Invece subito la tela blondetiana si tesse, individua una genealogia di biologi abolizionisti-eugenetisti; la dimissione dalla sicurezza degli istituti di cura è propedeutica allo sterminio dei più deboli. Non è ben chiaro come, ma la tecnica di Blondet deve molto alla confusione. I fatti che riporta sono quasi sempre veri, e se sono falsi sono sicuro siano errori fatti in buona fede. Dunque non si può dire faccia disinformazione. Piuttosto, una volta presentati, i fatti vengono raggruppati artificiosamente e accompagnati da commenti oscuri che lasciano sempre presagire qualcosa di ignoto e sinistro.

E a proposito di giustapposizioni; cosa c’entra tutto ciò con il viaggio del Britannia? Qui si introduce uno dei maggiori temi della trilogia: Blondet ha un interesse quasi maniacale per il ruolo nefasto dell’Impero Inglese nella Storia – ma non nel senso che ci potremmo aspettare. In questo caso in particolare Malthus-Darwin-Huxley sono espressione di una rete coloniale animata da una vasto programma di eugenetica implementato attraverso il potere economico britannico. Nondimeno, ancora una volta non è ben chiaro quale siano le mire di questa setta eugenetista, in cui sembrano confluire tutta la moderna genetica e psichiatria.

Questo pare essere una caratteristica ricorrente, forse anche giustificata dall’introduzione metodologica di sorta citata sopra. Vedremo però che questa attitudine non verrà sempre mantenuta e le premesse non sempre attese.

Il complottismo contemporaneo ci ha mal abituato, i soliti complottisti che abbiamo al giorno d’oggi, Stefania Maurizzi o Paolo Barnard per far nomi, seguono una linea frustra. Quello che fanno è una scoria della controinformazione della guerra fredda. I complotti sono tipicamente filo-americani (e per America si intende ogni forza economica e finanziari globale) dunque ci sono trame pittoresche (come il comune di Vicenza che viene consegnato ogni quattro anni al PD da misteriosi armeggi dell’esercito americano), le rivoluzioni colorate, i biolaboratori in Donbass, Putin che combatte i poteri forti. Moncherini di una controcultura filosovietica a cui molti si appoggiano per comodità, come i villici costruivano baracche nelle basiliche romane in rovina durante il basso Medioevo.

Blondet ha invece qualcosa di diverso, non ritroviamo subito i soliti riferimenti; gli americani cattivi e italiani brava gente (una sorta di perversione autoriferita del buon selvaggio). Il complottismo più bieco poi raramente si spinge indietro, Blondet invece si muove continuamente avanti e indietro dall’alto Medioevo fino ai giorni nostri. Il complotto non è un’arma impropria (spesso sovrapposto alla disinformazione) o strumento di quel centro di potere o quell’altro che cerca di vendere “cambiamenti di prospettiva” (intendere dal punto di vista orientale quello che vediamo da un punto di vista europeo o viceversa), è piuttosto un modo nuovo, totale, di intendere la Storia (più simile Zecharia Sitchin che a Giulietto Chiesa).

Nei capitoli successivi l’ampio respiro che Blondet aveva fatto intravedere all’inizio pare però spegnersi e ci perdiamo in interminabili liste di congressi, scienziati e casi di cronaca che collegano il progetto MK-Ultra, Charles Manson, Aleister Crowley, l’LSD e virus dell’HIV (con l’HIV Blondet crea una sorta di caccia al tesoro; dissemina tutti e tre i volumi di sporadiche connessioni di istituzioni o persone alla ricerca sull’HIV con le solite connotazioni sinistre, ma senza mai dire niente al riguardo).

Finalmente però il campo ritorna ad aprirsi e si identifica quello che se non è un nemico è il nemico “il fabianesimo,” un movimento politico che incarna le mire Britanniche e il progetto dell’Ordine Mondiale. Conseguentemente scopriamo – con una certa sorpresa se siamo abituati ai crassi complotti filosovietici che vanno per la maggiore in Italia – che gli americani, in quanto ribelli agli inglesi, sono nella Storia motore del Bene, anzi i neocon raeganiani sono sì il nemico (almeno questo è un topos familiare) ma solo in quanto sovietizzatori dell’originario spirito rivoluzionario americano (p. 56). Il primo volume si chiude così, con un elogio dell’America delle origini:

“Sta infatti giungendo il tempo, temo, di rimpiangere l’America capitalista che ci vinse nella Seconda guerra mondiale. Perché per tre secoli la spinta primordiale dell’America capitalista non è stato l’edonismo […]. No: la sua molla originaria stava in una sovrabbondanza di forze vitali un […] coraggio costruttivo che chi conosce l’America ritrova, non del tutto esaurito, ancor oggi.” (p. 58)

Ma da dove deriva questo ruolo dell’Inghilterra, dal fabianesimo e – incontriamo per la prima volta uno dei punti centrali – dell’israelitismo inglese? Sono tutte domande lasciate in sospeso, con la speranza vengano risposte dal secondo volume.

Complotti II

Complotti I ci aveva lasciato con molte domande e vedendo il secondo volume viene da chiedersi se fosse stato progettato già durante la stesura del primo dato che questo si chiama “Complotti II. I fili invisibili del mondo. Europa Russia.” Il numerale viene spostato dal sottotitolo al titolo. In copertina stavolta compre una riproduzione di “Nemesi” di Dürer. Blondet, da grande narratore, inizia sempre dal particolare.

Addentrandoci nei dettagli della nascita dell’Unione Europea si scopre che il ‘68 è stato ideato e implementato dall’esterno (da forze atlantiche e europeiste) per piegare De Gaulle che all’Unione e al suo sgherro, Jean Monnet, si era da sempre opposto; una cortesia curiosa dal momento che tutti gli altri oppositori (tedeschi) erano stati molto più semplicemente fatti saltare in aria.

Dalla Germania si passa poi alla Russia parlando della quale – a parte alcune considerazioni economiche traballanti, ma meno folli del solito – ci sono passi bellissimi sullo spirito Russo e Stalin, che se fossero scritte in un italiano più stentato non sfigurerebbero tra i lavori dei nostri esperti di “geopolitica.”

Fin’ora c’erano stati suggerimenti a riguardo – vanno considerati tali le strane considerazioni dal tono heideggeriano sul popolo ebraico (“solo due popoli possono ‘generare l’Anticristo,’ la Russia e gli Ebrei, e sono precisamente quelli che possono sconfiggerlo, perché solo chi sa coagulare sa anche solvere.” p. 87), ma nel capitolo XIII arriva il primo grande afflato che sembra essere inequivocabilmente antisemita (vedremo dopo che l’antisemitismo, per Blondet, è una categoria riduttiva). Si fa la storia dell’Unione Sovietica e per ogni evento si cerca un ebreo, il più prominente possibile (Gelfand, Bronstein-Trotskij etc.) e lo si elegge a “vera mente” dentro a ogni nefandezza.

Il X capitolo è centrale per lo sviluppo di tutta la serie ed è oltretutto scritto in una prosa di rara bellezza che val la pena riportare (quasi) per intero:

“Le scoperte geografiche del Cinquecento spostarono i traffici sull’Atlantico; nel Mediterraneo divenuto un lago, solo Venezia si resse per secoli in un fastoso tramonto, che fu una squisita, lunghissima corruzione. Mentre le navi portoghesi, spagnole e britanniche conquistavano imperi del Nuovo Mondo, il Leone di San Marco sventolava nell’esiguo spazio dell’Adriatico le cui vele – incapaci di andar a bolina – dovevano ancora, come ai tempi di Roma, chiedere aiuto ai remi. Sappiamo che un’oligarchia chiusa e intrigante regnava su quell’arretratezza e su quello splendore.”

“Ma ignoriamo che quell’oligarchia poté essere definita un “impero invisibile”: un modello in cui personaggi senza volto, nella City o a Wall Street hanno identificato il prototipo di ogni potere elitario e segreto che pretenda di dominare il mondo con leve invisibili. […]”

“Dietro e a sostegno delle sue reti commerciali, la Serenissima seppe creare un sistema di informazioni riservate , di influenze politiche e di legami basati sul credito finanziario e sulla conoscenza di quello che avveniva nei luoghi più lontani […].”

“La nostra baluginante conoscenza dei fatti c’indurrebbe a credere che quella rete antica sia da secoli strappata, inoperante. Invece qualche filo di quella rete compare insospettatamente ai giorni nostri. Ci piacerebbe ricostruire, ad esempio, per quali segreti passaggi alcuni membri della famiglia dei Caboti (o Cabotti), passati nei secoli dall’Inghilterra alla Nuova Inghilterra e stabilitisi a Boston, abbiano dato origine a una dinastia dell’Establishment americano più chiuso e più stretto: i Cabot Lodge. […]” (p. 93 e sgg.)

con questi tratti metafisici, quasi sacrali o Borgesiani, Blondet finalmente ci introduce nel cuore della sua ideologia; c’è un unico filone, che scorre sotterraneo come un fiume carsico, per riemergere per i rapidi momenti in cui il nostro riesce ad individuarlo e presentarcelo:

“Per esempio, si può scoprire che nella pietà cristiana che Venezia ostentava nelle sue chiese e conventi, covarono umori gnostici e scismatici di origine orientale. Non sappiamo molto dell’umanista e benedettino Paolo Giustiniani, d’alta famiglia veneziana e amico del nobilissimo Gasparo Contarini, vescovo di Cividade dopo il 1536; tranne che la sua mistica cristiana doveva molto (troppo) ai monaci del Monte Athos, la cui ortodossia negava ferocemente quel passo del credo romano il quale asserisce che lo spirito santo “procede dal padre e dal figlio” (filioque procedit). La negazione del filioque tipica della chiesa greco ortodossa e di quella slava che ha il suo centro a Mosca, se non rinnega, almeno svaluta l’Incarnazione. Come conseguenza, acutizza l’antitesi tra il corpo e lo spirito. Sul piano dell’azione umana, chi nega il filioque tende a vedere il mondo di quaggiù come un’illusione desolata e non come un’occasione di bene; la sua azione sarà guidata da questo pessimismo segreto. Egli non crederà al progresso dell’uomo attingibile attraverso le opere. Il risultato finale sarà una tendenza morbosa all’immobilismo che giungerà fino al rifiuto del progresso tecnico e, in politica, all’idea che il mondo debba essere governato da pochi, scettici saggi. L’oligarchia contro la democrazia. Così fu Venezia. Così fu Bisanzio. Così fu (ed è) Mosca, “Terza Roma”: immobili e arretrate, eppure sottili e colte; dedite alla segretezza e al potere autocratico.

Fin dal basso medioevo, dunque, si accompagna alla fede cristiana una parte eretica che non crede nell’opera dell’uomo sulla terra, ma vede il mondo terreno con indifferenza, una vuota eternità priva di valore.

Coloro che non credono che Cristo sia venuto a redimere la nostra vita terrena, che non si sia mai fatto carne. Chi non crede che Dio si sia fatto uomo crede anche che la vita terrena sia priva di valore, questa accidia ha creato un’ideologia, diffusasi per secoli nelle classi dominanti, secondo cui non può esservi progresso per l’uomo, e l’umanità vada governata come si governa un gregge, mantenendo l’ordine e aspettando la fine dei tempi, se mai ci sarà.

È questo che rende il popolo ebraico un tanto saldo alleato della “nomenklatura.” È un disegno di cui in onestà non posso che ammirare la bellezza letteraria, è tutto quello che Dan Brown avrebbe voluto scrivere se solo avesse avuto l’acutezza di spirito necessaria per farlo.

Le pagine finali regalano alcune rivelazioni. I fondaci veneziani che controllavano le granaglie si son estesi fino ai giorni d’oggi, da Caboti di Venezia ai Cabot di Chicago, attraverso Leopold Luis-Dreyfus (trisavolo di Julia Louis-Dreyfus) impedendo ai cittadini americani di consumare le loro granaglie, tanto che “l’americano medio spese due miliardi di dollari in più nel solo ‘73, come diretta conseguenza degli aiuti all’URSS” (p. 118) dimostrando una capacità di spesa (o un tasso di inflazione) che per l’epoca non avrei sospettato. Nel capitolo finale scopriamo invece che Licio Gelli sarebbe stato coinvolto nell’omicidio di Olof Palme (si direbbe come esecutore, ma come sempre ci sono solo allusioni).

Complotti III

Il terzo libro è forse il più deludente, non ha una struttura integrata con gli altri due, e verrebbe il sospetto che sia stato pubblicato in seguito al successo dei primi due (la mia copia di Complotti I è la sesta edizione nel solo 1996, l’anno di uscita). Scopriamo che il ‘68 come venne creato (vedi Complotti II) così venne spento (sempre da Licio Gelli). A quanto pare dall’analisi dei titoli dell’Economist si leggono fatwe contro Salvo Lima e Aldo Moro, poi regolarmente uccisi (non è chiaro se i titoli servissero a comunicare la volontà omicida ai sicari o a pubblicizzare il mandante). Ci si perde in una serie di teorie apparentemente slegate tra loro, sarà quindi sufficiente fare un riassunto delle più notevoli: la farmacologia ha dimenticato la sacralità della manipolazione della natura ed è diventata una pratica in scivolamento sempre più rapido verso Satana, Tangentopoli fu un’operazione americana per liberarsi dei politici cattolici (ultimo baluardo contro lo gnosticismo orientale). Giorgio Napolitano fu un agente della finanza internazionale per neutralizzare l’anticapitalismo del PCI, così come l’Ulivo. A pagina 75 vengono nominati di passaggio, per la prima e ultima volta, gli Illuminati, senza dare nessuna spiegazione.

Gli ultimi due capitoli, delle considerazioni sulle nuove fascinazioni proto-cristiane dei cattolici (ordinati e non) e un report sul processo della Corte Internazionale dell’Aja a Dusan Tadic (sulla scia di “Heichmann in Jerusalem”) sembrano delle aggiunte posteriori. Il tono sinistro si perde completamente e rimangono solo due pezzi giornalistici, peraltro molto belli, che hanno – incredibilmente – un tono tra il conciliante e l’ottimista. Il mondo quindi non è condannato.

C’è, però, un grande assente in questa storia dei complotti: il Vaticano. Col Vaticano, viste le istituzioni segrete e misteriose, e la longevità e l’ambiguità dei loro fini, i complotti sono naturali se solo si ha la necessaria fantasia. Tuttavia in Blondet la Chiesa Cattolica non viene mai nominata. Questo perché – in uno slancio di fede e di ingenuità che è curioso ritrovare in questo gran maestro delle trame e dei segreti – la Chiesa Cattolica opera la volontà di Dio in Terra, dunque è infallibile agente del Bene, da secoli unico argine allo gnosticismo élitista.

Diceva Nelson Goodman che una fallacia logica è tale solo nella misura in cui ha la medesima forma di un argomento corretto, difatti se non assomigliasse a nessun ragionamento corretto non sarebbe una fallacia ma solo un nonsenso o un errore marchiano. Ma se qualcosa ha la stessa forma di un argomento valido allora è un argomento valido. Dunque le fallacie paiono non esistere.

Per Blondet vale la stessa cosa. Rispondendo all’appello della seconda di copertina del primo libro potremmo usare lo stesso principio per determinare cosa sia un complotto, un complotto è qualcosa che ha la stessa forma di una teoria storica ma non lo è, ma siamo sicuri che si possa avere la forma di un lavoro di Storia senza essere Storia? Che sia falsa e scriteriata non è abbastanza per una teoria per essere un detta complotto. Edward Gibbon e Jacob Burkhardt sono pieni di falsità e romanticismi, ma rimangono storici.

Dobbiamo forse arrenderci al fatto che Blondet sia uno storico tanto quanto Robert Darnton o Jacques Le Goff? Ovviamente no, in Blondet c’è qualcosa di diverso e assurdo. Ma in cosa consiste questa assurdità?

Le connessioni labili e tendenziose tra persone o enti in Complotti non sono peggiori di quelle che tesse ogni settimana Report (in cui, non a caso, lavorava Paolo Barnard). Il controllo dei media da parte delle élites che descrive Blondet è addirittura più plausibile e sfumato di quello che si trova in Manufacturing Consent di Chomsky e Herman. Le letture storiche contorte che si trovano nei libri sono in fondo molto più documentate e ragionevoli delle perversioni storiche e storiografiche della classe giornalistica italiana che troppo spesso arrivano (con inspiegabile successo) in libreria, da Gianpaolo Pansa in giù. Ciò non ostante tra questi l’unico paria complottista rimane Blondet.

Di tutti i peccati di cui si macchia Blondet si sono macchiati beniamini del “ceto medio riflessivo” (per usare un’espressione cara alla politologia italiana) in misura pari e talvolta maggiore, ma li accuseremmo al massimo di essere pessimi storici o pessimi giornalisti, ma non complottisti. Perché?

La spiegazione che mi sono dato è che in loro riconosciamo una parte politica, alla quale siamo pronti a dare ragione o torto; “Per forza gli argomenti di Tizio sono falsi e strampalati, come farebbe altrimenti a sostenere il Male?” “Quello che dice Caio è solo un’approssimazione, ma è nel giusto nel sostenere il Bene!”

Blondet è diverso non perché usi metodi diversi, ma perché non ha nessuno dalla sua parte, se ci fosse un giornale anti-manicheista o anti-càtaro con i suoi lettori forse avrebbe anche lui la sua schiera di sostenitori “moderati” e senza la stagnola in testa, ma questi giornali non esistono, e dunque nemmeno c’è nessuno disposto ad avallare le sue debolezze quanto altri sono pronti ad assecondare quelle di Travaglio, Ranucci o Belpietro.

Blondet non è peggiore di tutti questi, anzi ha una delle prose italiane migliori che abbia letto – specialmente per un giornalista. Blondet però è unico ed è anche da solo; così, disorientato, il lettore finisce per vederne tutte le storture che volentieri ignorava per combattere un nemico.

Dunque, cosa fare? Dobbiamo lasciarci andare in un deliquio scettico? Riconoscere che non esiste la Storia e non esistono i Complotti ma solo delle cose che siamo pronti a riconoscere vere? Non penso che sia necessario, dopotutto abbiano negato che esista una legge di demarcazione tra Storia e Complottistica, ma esistono pur sempre la buona e la cattiva Storia. Piuttosto, ogni volta che scopriremo qualcosa (un articolo, un libro, un post, una pagina Wikipedia) che ci da ragione, basterebbe chiedersi “Che cosa ne penserei se non volessi crederci?” Può sembrare una soluzione deludente, ma dopotutto “Libertà non è altro che l’inventario delle proprie catene.”

Macerata,

Giovedì 23 Gennaio 2025

Cesare Cherchi (Macerata, 1997) insegna alla facoltà di Filosofia dell’Università Carolina di Praga dove sta conseguendo il suo dottorato. Si occupa di logiche doxastiche, metafisica e semantica. Nel tempo che rimane si dedica agli scacchi e a ricerche biblio-teratologiche.

Minimo strutturale

0

Di Eda Özbakay

file

ultimamente le file sui marciapiedi sono diven-
tate più lunghe. rigorosamente dritte, di moto
uniforme lungo tutta la linea. spesso non se ne
vede l’inizio, motivo per cui la maggior parte
delle volte non si sa per cosa si è in fila prima
di arrivare al suo termine. la probabilità di
trovarsi nella fila giusta, visto il loro costante
allungarsi, si riduce di giorno in giorno.
abbiamo iniziato ad alzarci all’alba, a uscire
di casa in anticipo, e c’è persino chi non dor-
me più, per mettersi in fila dalla sera prece-
dente. ma il più delle volte, dopo una giornata
di attesa, la fila risulta essere quella sbagliata.
ieri il signor I., già stremato dall’attesa in
quella che sperava fosse la fila che lo avrebbe
condotto a casa, è stato punto da un cala-
brone gigante. pur di non perdere il proprio
posto, non si è mosso, assistendo alla lenta
decomposizione dei suoi tessuti con stupefa-
cente lucidità.
è capitato così, proprio in quel punto e in
quel momento, che una linea di universo si è
curvata, costretta a girare intorno alla massa
dei resti del signor I.

 

 

 

 

rotor

quando viene la signora U. per badare alle
due figlie dei vicini, le fa giocare nel rotor.
salgono sulle loro biciclette nel cortile perfet-
tamente cilindrico, dove prendono velocità
circolando sempre in tondo. diventa scia,
nella forza centrifuga, il giardino nei loro
occhi, e il verde trifoglio sfuma.
perde la sorella che non riesce a mantenere
la rotazione e si lascia catapultare lontano,
fuori dal vicinato. vince, invece, colei che
continua a girare in tondo, sospesa nel vuo-
to, mentre il pavimento del cortile scompare
graffiando la luce, sotto i raggi di ruota.

 

 

 

 

vanno e vengono

vanno e vengono con dei manti di piuma
glauchi, rifiutando di fornirci qualsiasi altro
contesto.

 

 

 

 

la frontiera - c

per oltrepassare il varco oc-
corre ammorbidire la facciata
della cabina di controllo con
il proprio alito. in molti ri-
mangono incollati con la lin-
gua al vetro, le fitte in bocca.

 

 

 

 

un nome

ogni sera, alle sei, si sentiva la salva di
saluto. quel cannone continuava a sparare,
anche se non era rimasto quasi nessuno da
salutare.

le case bruciavano sempre durante la notte,
mai di giorno. noi vestaglie bianche, tarme
intorno alle fiamme, ci radunavamo sulla
sabbia in salita, in silenzio.

ero fortunata. abitavo su una curva stretta.
troppo stretta per le camionette che nella
sterzata perdevano parte del loro carico dai
cassoni. un cocomero, acqua, delle cipolle.

quando non era rimasto più nessuno nel
villaggio, misi una sedia al centro della mia
stanza, in attesa dell’interrogatore. diceva di
cercare un nome, un nome da dare a tutto
questo.

 

 

 

 

breakfast

colazióne s.f. [dal lat. collatio -onis “il met-
tere insieme”]

di questo si tratta: di mia madre che finisce
di preparare la colazione , riempiendo i bu-
chi del formaggio con pezzi di formaggio, di
mio padre che si siede e inizia mordendo un
buco ripieno di formaggio sopra una riga di
giornale. di come cadono le briciole di vacca
sui trattati multilaterali.

 

 

 

 

evoluzione strutturale di un cadavere exquis

interiezione, articolo sostantivo pronome
riflessivo verbo avverbio preposizione arti-
colo sostantivo preposizione complemento
indiretto.
negazione pronome riflessivo verbo avverbio!
articolo sostantivo aggettivo, articolo
sostantivo aggettivo qualificativo aggettivo
preposizione sostantivo.
interiezione, avverbio.

 

 

 

 

 
la frontiera - E

ecco i tosatori specchiarsi
nella collina calva, un attimo
prima di avvertire l'impatto
del cemento sulle loro menti.

 

 

_______________

I testi sono tratti da Minimo strutturale, di Eda Özbakay (pièdimosca edizioni 2024). Con questo estratto non rendo pienamente giustizia all’impianto del libro, alla sua capacità di integrare generi e materiali pur rimanendo animato dall’indecidibile. Più che una raccolta di testi di varia natura (racconti, poesie, costruzioni verbo-visive), si tratta di una piccola opera di incastro e compiute mescolanze. Quella che a una prima lettura si direbbe una serie di microracconti, a guardar bene, con quegli a capo calibrati, le tmesi, l’allineamento a sinistra, i paragrafi/stanze, rivela una densità non dissimile da quella della ‘poesia’, senza bisogno dei suoi dispositivi sonici più evidenti. Anzi, ad essi sottraendosi, mantenendone al minimo l’intensità (nelle liste immaginifiche e nei contrappunti, per esempio), affidando il dettato al potere dell’aleatorio, sempre sull’orlo di trascinarci via con forza centrifuga, e a cambi di frequenza che rivelano, passo dopo posso, un congegno assai ben predisposto. Riconosciamo il minimo strutturale del narrativo: un paesaggio (su cui incombe il caos), una ‘trama’ di rimandi possibili (indecifrabili), ma soprattutto delle forme (delle bozze) di personaggi la cui soggettività è ontologicamente debole o a rischio, coi loro corpi deformati, compressi e torturati lasciati senza spiegazione. Attraverso domesticità perturbanti, allegorie all’umor nero e metanarrazioni, il libro di Özbakay allestisce le sue microfinzioni, e le sviluppa su legature leggerissime. Lo fa soprattutto nell’uso ricorsivo dei testi “la frontiera”, seguiti da una lettera dell’alfabeto, che segnalano la particolare attenzione a un mondo ossessionato dalla classificazione, dal confinamento, dalle linee separatorie. Le figure più frequenti sono, dopotutto, geometrie claustrofobiche: le file, i cubicoli (piscine, cucine, cabine, scatole), le forme sferiche (il rotor, i crani, le “specie ad anello”). Varchi e strappi vengono a bucarle, fiotti di delirio che cercano vie d’uscita da una distopia in cui tutto è addomesticato, “è tutto legno, è tutto pareti, è tutto pavimento, è tutto tavolo e sfregamento” (33). Ѐ un furore sommesso, e una risposta elegantissima al disumano.

(RM)

“L’amore è breccia nelle mura”. Rupert Brooke nella traduzione di Raffaela Fazio

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“Rupert Brooke. L’amore è breccia nelle mura. Antologia poetica a cura di Raffaela Fazio” (Puntoacapo Editrice, 2025)

Dall’introduzione di Raffaela Fazio

[…] Brooke, affascinante nei modi e nell’aspetto, colto e con le giuste conoscenze, è stato considerato a torto un “War Poet”, entusiasta dell’impresa bellica. In realtà, la sua esperienza della trincea fu estremamente limitata. Morì di setticemia su una nave diretta ai Dardanelli e venne seppellito nell’isola greca di Sciro. L’appellativo di “poeta di guerra” lo acquisì soprattutto per i suoi cinque sonetti intitolati Nineteen Fourteen (da lui stesso non visti come la sua migliore produzione), scritti alla fine del 1914. Tra questi, il più celebre è The Soldier. […] Dietro al disincanto, all’insofferenza per l’ottusità di una società conformista, alla rabbia davanti alle avversità (o a Dio), resiste in Brooke un innegabile vitalismo. Alla base di questo impulso non vi è la ricerca di un ideale appartenente a un mondo più elevato, di “aeterna corpora” (cfr. Mutability), né l’illusione di un destino diverso o di un ritorno a qualcosa che non esiste più; vi è piuttosto un sentimento di solidarietà con chi condivide la sua stessa sorte; il desiderio fraterno di un’accoglienza che mitighi la desolazione; la determinazione a continuare il cammino senza “titubanza” e “paura” e la speranza che il futuro porti consolazione come un “altare d’un tratto in mezzo alle Foreste della Notte” (cfr. The Song of the Pilgrims); la consapevolezza che l’“estasi del fuoco”, anche se destinata a finire, è preferibile ai “cuori privi di passione” (cfr. Dust); la capacità di amare le cose della vita quotidiana come “piatti bianchi e tazze, puliti, luccicanti, bordati di blu”, “l’odore di muffa e la sua insistenza tra foglie morte 7 e felci” (cfr. The Great Lover), ma anche “risate apprese dagli amici, e dolce cordialità dentro cuori in pace su cui si stese un cielo inglese” (cfr. The Soldier); infine, la volontà di lasciare un segno in ricordo della bellezza incontrata (cfr. The Great Lover).

Poesie dal libro

A Channel Passage

The damned ship lurched and slithered. Quiet and quick
My cold gorge rose; the long sea rolled; I knew
I must think hard of something, or be sick;
And could think hard of only one thing − YOU!
You, you alone could hold my fancy ever!
And with you memories come, sharp pain, and dole.
Now there’s a choice − heartache or tortured liver!
A sea-sick body, or a you-sick soul!

Do I forget you? Retchings twist and tie me,
Old meat, good meals, brown gobbets, up I throw.
Do I remember? Acrid return and slimy,
The sobs and slobber of a last years woe.
And still the sick ship rolls. ‘Tis hard, I tell ye,
To choose ‘twixt love and nausea, heart and belly.

Passando il Canale

Glissava, oscillava la nave maledetta. Inudito, in gola
un freddo rimestio – sul mare un rollio – tutto venne su.
Fissa la tua mente su qualcosa, mi dicevo, o starai male.
E su una sola cosa riuscivo a concentrarmi – eri TU!
Tu sola in ogni istante sai occupare la mia fantasia!
E insieme a te il ricordo, dolore, acuta pena, torna in me.
La scelta? Fitta al cuore o fegato in preda all’agonia!
O un corpo con il mal di mare o un’anima con il mal di te!

Se ti scordo? Mi contorco nei conati, a più riprese,
su rigetto carne vecchia e pasti buoni e pezzi scuri.
Se ricordo? Rifluisce ciò che è acido e viscoso,
strazio e lacrime e singhiozzi di quegli anni di sventura.
E la nave ondeggia ancora, col suo male. Così, dura
è la scelta, vi assicuro: nausea o amore? pancia o cuore?

*

The Life Beyond

He wakes, who never thought to wake again,
Who held the end was Death. He opens eyes
Slowly, to one long livid oozing plain
Closed down by the strange eyeless heavens. He lies;
And waits; and once in timeless sick surmise
Through the dead air heaves up an unknown hand,
Like a dry branch. No life is in that land,
Himself not lives, but is a thing that cries;
An unmeaning point upon the mud; a speck
Of moveless horror; an Immortal One
Cleansed of the world, sentient and dead; a fly
Fast-stuck in grey sweat on a corpse’s neck.

I thought when love for you died, I should die.
It’s dead. Alone, most strangely, I live on.

La vita che va oltre

Si sveglia chi credeva che mai si sarebbe svegliato
convinto che fosse Morte la fine. Gli occhi apre piano
su una livida piana che vasta trasuda, arginata
da strani cieli privi di occhi. Là giace e rimane.
Aspetta. Alza una volta nell’aria morta – idea insana
fuori dal tempo – una mano che non riconosce,
come ramo seccato. Su quella terra non cresce
vita; lui stesso non vive, è una cosa che urla; appena
un puntino nel fango, insignificante; un granello
di orrore immoto; mondato dal mondo, un Immortale,
senziente e inerte; una mosca che, nel grigio sudore,
a un cadavere resta attaccata, sul collo.

Credevo che sarei morto se fosse morto l’amore
per te. Ora lo è. Strano – da solo, io vivo ancora.

*
Sonnet

I said I splendidly loved you; it’s not true.
Such long swift tides stir not a land-locked sea.
On gods or fools the high risk falls − on you –
The clean clear bitter-sweet that’s not for me.
Love soars from earth to ecstasies unwist.
Love is flung Lucifer-like from Heaven to Hell.
But − there are wanderers in the middle mist,
Who cry for shadows, clutch, and cannot tell
Whether they love at all, or, loving, whom:
An old song’s lady, a fool in fancy dress,
Or phantoms, or their own face on the gloom;
For love of Love, or from heart’s loneliness.
Pleasure’s not theirs, nor pain. They doubt, and sigh,
And do not love at all. Of these am I.

Sonetto

Ti professai, magnifico, il mio amore: era fasullo.
Se chiuso, non è mosso da rapide correnti il mare.
Il grande rischio grava dei o folli – tu tra quelli.
Non fa al caso mio il chiaro e netto dolce-amaro.
S’innalza dalla terra a ignote estasi l’amore,
come Lucifero scagliato dal Cielo all’Inferno.
Ma in mezzo, nella nebbia, ci sono viaggiatori
gementi per un niente; s’aggrappa a ciò che ha intorno
ognun di loro. Se ami oppur chi ami dir non sa:
se un pazzo in costume o dama di vecchia canzone,
se uno spettro o il suo stesso volto nell’oscurità,
per amor di Amore o solitudine del cuore.
Né pena né piacere gli appartiene. Di tutto
è incerto, sospira, non ama affatto. Io son sì fatto.

*
Fafaia

Stars that seem so close and bright,
Watched by lovers through the night,
Swim in emptiness, men say,
Many a mile and year away.
And yonder star that burns so white,
May have died to dust and night
Ten, or maybe, fifteen year,
Before it shines upon my dear.
Oh! often among men below,
Heart cries out to heart, I know,
And one is dust a many years,
Child, before the other hears.
Heart from heart is all as far,
Fafaia, as star from star.

Fafaia

Stelle che diresti sì vicine e lucenti,
tutta la notte rimirate dagli amanti,
fluttuano nel vuoto – ne siamo a conoscenza –
a molte miglia e a molti anni di distanza.
E quella bianca che arde così tanto,
in polvere e notte si è forse già estinta
dieci anni, o quindici, prima di iniziare
a brillare sopra lei, sulla mia cara.
Ah! tra gli uomini qua sotto spesso accade
che un cuore rivolto a un altro cuore gridi
e che, prima di poter essere udito,
da anni in polvere si sia trasformato,
o bimba mia. Cuore da cuore è lontano,
Fafaia, come stella da stella, non meno.

*
The Soldier

If I should die, think only this of me:
That there’s some corner of a foreign field
That is for ever England. There shall be
In that rich earth a richer dust concealed;
A dust whom England bore, shaped, made aware,
Gave, once, her flowers to love, her ways to roam;
A body of England’s, breathing English air,
Washed by the rivers, blest by suns of home.

And think, this heart, all evil shed away,
A pulse in the eternal mind, no less
Gives somewhere back the thoughts by England given;
Her sights and sounds; dreams happy as her day;
And laughter, learnt of friends; and gentleness,
In hearts at peace, under an English heaven.

Il soldato

Se dovessi morire, di me pensate solo questo:
esisterà un angolo in un campo straniero
che per sempre sarà Inghilterra. E là, nascosta
in quella ricca terra, una polvere più ricca ancora,
che l’Inghilterra ha partorito, plasmato, reso
cosciente, dandole fiori da amare, vie per vagare;
un corpo inglese che ha respirato aria inglese,
lavato dai fiumi, benedetto da soli familiari.

E pensate: questo cuore, di ogni male spogliato,
– un pulsare nella mente eterna – restituirà
altrove i pensieri che l’Inghilterra in lui infuse,
paesaggi e suoni, sogni lieti come le sue giornate,
risate apprese dagli amici, e dolce cordialità
dentro cuori in pace su cui si stese un cielo inglese.

Il Socialorgasmo

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di Giancarlo Busso

Il Socialorgasmo è un complesso di ideologie, movimenti e dottrine legato a orientamenti politici di, tendente a una trasformazione della, finalizzata a ridurre le, sul piano sociale, economico e giuridico.

Originariamente tutte le dottrine di F. portavano a una matrice di Socialorgasmo che mirava a perseguire i propri obiettivi attraverso l’abolizione delle classi sociali e la soppressione totale della proprietà. In una seconda fase, ma questa solo teorica, si prevedeva la dissoluzione dello Stato, perché considerato inutile, i beni e i mezzi di produzione erano tornati alla collettività in forma di prodotto.

Quindi F. comunicò alle masse la sua volontà di trasformare la società in una forma più giusta, coerente a quella ideologia che aveva motivato milioni di donne e uomini a rendersi followers della sua rivoluzionaria idea.

I prodotti non erano fonti di guadagno generati dal plusvalore di masse succubi, ma il dono che questo grande organo sessuale poteva concedere ad ogni penetrazione del mercato. L’orgasmo era generato da milioni di followers che gioivano nell’elargire tremila euro per poter accedere ai corsi per truccarsi in modo socialmente attraente, oppure nel partecipare con moltitudini di like e commenti entusiasti alla promozione di ogni tipo di abbigliamento, purché reperibile nelle catene di fast fashion.

Nascevano nelle stazioni ferroviarie fonti fisiche di elevazione a tali standard intellettuali, quindi anche profumi e brillanti, ogni genere di una bigiotteria di sostanze, di sensazioni ed emozioni fortissime, che generavano nel pubblico erezioni e lubrificazioni, fino al compimento ultimo del Socialoragasmo.

Ma come ogni ideale, o mondo ideale, vi era in esso una sostanziale mancanza di aderenza alla natura umana, ovvero alla disturbante sensazione di tradimento che si prova nel mettere insieme qualcosa come l’egoismo delle intenzioni con la purezza delle idee. La natura umana è il grande limite con cui ogni ideologia dell’orgasmo deve confrontarsi; anche F. dopo l’iniziale dirompente successo dovette arrendersi davanti alla banalità di un fallimento stagionale, in un triste succedersi di accuse ed empirismo vittimistico di mancate nuove prestazioni.

Naïf

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Immagine generata da AI

di Mattia Gargiulo

Non lo so dov’è mio padre.

Mia madre sì, lo so benissimo, ma mio padre no, non me lo sono mai chiesto. A parte oggi. Oggi è così, un giorno in cui certe cose ti vengono in mente senza averle pensate o chiamate. Queste cose che da un momento all’altro sono nella testa, devo dire la verità, le trovo presuntuose. Chi credono di essere? Arrivano tronfie da chissà dove e si prendono il posto al capotavola dei pensieri, senza inviti e per di più a mani vuote.

Ho chiesto a mia madre se sapesse dov’è. Ha detto di non sapere nulla da quando è successo il fatto e ha attaccato il telefono come se fossi stato io ad averle messo certi pensieri in testa, come se l’artefice di tutto ciò non fosse stata una persona reale con una voce tutta sua e un paio di occhi che guardano in fondo alla strada, ma solo un’eco che ricorda qualcosa di vago e sfuma in lontananza.

Avevo dimenticato anche questo.
Sono passati anni e mia madre ancora lo chiama così: il fatto.

A onor del vero anche se ufficialmente non so dove possa trovarsi mio padre, credo di saperlo ufficiosamente. Conoscendolo, posso ipotizzare che sia lì dove è sempre stato.
Essendo della vecchia generazione per lui la comfort zone non è un limite, ma semplicemente un luogo in cui infilare le pantofole e godersela. Secondo me sta meglio di tanti altri vecchi leoni spodestati dai loro figli che non tollerano l’idea di avere perso l’autorità di un tempo, di questo lui non si è mai preoccupato: io non sono mai stato un pericolo per lui.

Tra noi non è mai corso buon sangue, però questa storia che un uomo diventa tale quando uccide il padre, è vera per altri, non per me. Non ho mai avuto bisogno di bruciare una parte di me per mettere su nuove radici, ho sempre deposto l’astio e digerito l’amaro presente tra noi. Mio padre l’ho messo sotto un tappeto, come un inciampo, capace di alterare il cammino, ogni qual volta lo calpestavo.

Da quello che so anche mia sorella non lo sente più. All’estero però è facile porre la lontananza come uno spazio invalicabile sia nell’una che nell’altra direzione. Ogni mezzo per spostarsi da o per, sarebbe solo un ronzare verso ricordi o emozioni con la forma di una zavorra. Credo che questo sia l’esempio di una famiglia sgangherata, c’è di mezzo la distanza e il senso di colpa, che ti parla all’orecchio, come un acufene che non si riesce a zittire.

Una sera la mia testa mi propone di ricucire i rapporti con una semplice mossa: “andate a c’è posta per te, può essere una buona idea.” Sono rimasto interdetto, non me lo aspettavo. Rimango sempre stupito del suo essere così naïf, dolcemente naïf. Le chiedo di smetterla con le buone idee, e di darmene delle ottime, ma finisce che inizia con i voli pindarici dove non si atterra mai da nessuna parte. Questo è un chiaro aspetto ereditato da mio padre, che mia madre tiene a ricordare quelle poche volte che ci vediamo. “Non iniziare a farti venire strane idee” dice quando parto con discorsi scellerati. “Mi sembri tuo padre” conclude guardandomi fisso negli occhi, come se volesse attaccarmi, offendermi.
Ribadivo che nonostante fossi suo figlio non sono lui.

Aver scoperto che mio padre l’avesse tradita è stato un contraccolpo, uno di quelli da cui ti riprendi subito o che piano piano ti logora dentro. Soprattutto perché lui è sempre stato un populista e aver realizzato che fosse diventato meloniano fu uno di quegli eventi che per mia madre equivalgono a trovare un’altra donna nel letto matrimoniale.
C’è da dire che mio padre non è mai stato interessato alla politica, destra o sinistra per lui erano tutti ladri, perciò, si è sempre rifugiato nei luoghi comuni: “gli immigrati ci rubano il lavoro”, “non c’è lavoro per colpa degli immigrati” e così via, ma quando nel 2008 si palesò il 5 Stelle ebbe un profondo cambiamento. Per la prima volta si sentì rappresentato da qualcosa. Iniziò a credere che finalmente il sistema avesse trovato la sua controparte: un’onda di delusi, frustrati e rabbiosi che convogliava l’energia delle chiacchiere da bar in una concreta forma d’urto per spazzare al suolo tutte le chiacchiere da salotto. Questa speranza divenne una parte attiva nella sua vita a tal punto da trasformarlo in un militante sempre pronto sul piede di guerra verso chi sosteneva ancora i classici partiti e un missionario verso chi doveva essere convertito al nuovo movimento. Un periodo che si trascinò per diverso tempo anche durante i pranzi e le cene in famiglia di cui non si parlava d’altro.
Una fiducia elettorale che culminò in ciò che per la lealtà segna sempre il suo epilogo: il tradimento. La decisione del movimento di allearsi con la Lega dopo il voto delle politiche del 2018 fu il primo avvertimento verso il declino di quell’ideale.

Mio padre iniziò a chiudersi prima in sé stesso, poi nella sua stanza. Accennò persino a uno sciopero della fame – ispirato dalla figura mitologica di Pannella – per svegliare le coscienze. Ma non durò molto, saltò un solo pasto decantando i crampi allo stomaco causati dalla fame come l’atto di un martire. Per mesi scaraventò su tutti noi un velo di pietismo, incapace di accettare il nostro interesse verso le istituzioni fino a quando, all’improvviso, non trovammo una lettera sul suo comodino.

“Non c’è la faccio più, il vento deve cambiare. Me ne vado, rivoglio la mia dignità e la patria di un tempo, orgogliosa di sventolare la propria bandiera. Mi mancherai ma so che non sei in grado di capire perciò ho scelto chi è stato in grado di ridare fiducia ai miei ideali, di ridare speranza a ciò in cui credo e che mi fa sentire giovane, pieno di energia. Ho scelto Giorgia Meloni. Riparto da qui. Boia chi molla. Tuo marito e neo-camerato.”

Da quel momento mia madre tagliò qualsiasi ponte con lui, o forse dovrei dire che lo falciò e lo distrusse in mille pezzi con il martello. Anni di lotte, di attivismo e di battaglie che andavano a farsi benedire in un pozzo di ricordi che sbiadivano lasciando spazio al nero. Mia madre poteva accettare di sopportare i borbottii di un uomo che non credeva più in nulla, ma non poteva condividere la sua vita con chi aveva valori completamente opposti ai suoi. Come avrebbe affrontato un argomento come quello dei migranti? O quello dei diritti civili del mondo LGBT? O del ruolo dei centri sociali?
Ormai erano su due argini opposti del fiume.

Questa corrente destrorsa invadeva un po’ tutto il mondo, e mia madre iniziò a bruciare tutti i santini di Lenin, Trotsky e Marx nascosti nei vari cassetti dei mobili di casa.

“È colpa del comunismo se ho perso mio marito!” ripeteva. Poi continuava “se solo l’avessi ascoltato di più!” e poi piangeva. Non ho mai capito se intendesse di dover ascoltare di più Lenin o il marito.

Come dicevo prima, adesso il pensiero di dove fosse mio padre si è insinuato nella mia testa e come al solito iniziano a proiettarsi scenari ingenui. Adesso vedo mio padre seduto con la squadra di governo dare opinioni sul nuovo codice della strada davanti a una pletora di alcolici mentre commentano se l’inasprimento delle leggi fa rigare dritti i cittadini.

Questa ingenuità che vuole trasmettere la mia testa non ho mai capito se sia un modo per difendermi da uno pseudo-abbandono mai somatizzato o farmi rendere conto semplicemente di avere una spiccata capacità di immaginazione; se fosse un modo di avere più stima verso di lui o un’illusione di poter avere qualcosa per cui andare fiero. Certo è molto soggettivo ritenersi fieri di sedersi al tavolo di quelli che oggi vengono considerati neofascisti, ma è pur sempre un posizionamento che ad oggi, comunque, non riesco a dargli. Non sono in grado di dire se mi manca, però è un fatto che non abbia mai avuto la voglia di sapere come stesse.

Mio padre è ricomparso nella vita di mia madre dal nulla, come se fino a ieri giocasse a nascondino e ora reclama il ruolo di quello che conta. Non si è riaffacciato di persona davanti alla sua porta, ma in un messaggio di un’amica di mia madre che si è sentita in dovere di confessarle di averlo visto con un’altra. Più tardi si sarebbe scoperto che la donna in questione sia una vecchia compagna che militava nei centri sociali insieme a mia madre. Una donna di cui né io né mia sorella eravamo a conoscenza. Si aprirono due scenari. Il primo: in fondo un fascista e un comunista potessero essere compagni; il secondo: quella di mio padre era tutta una montatura.
Fingersi un militante per potersi scopare qualcuno altro. Il tradimento del tradimento, insomma.

Dopo essersi confrontata con questa sua amica, mia madre ci disse che era vero, l’aveva visto con i suoi occhi. Le due amiche si erano organizzate per un pedinamento e videro l’uomo salire a casa della presunta amante.

Fecero delle foto che ci inviarono via Whatsapp sul gruppo di famiglia a cui seguì un solo messaggio di mia madre: “è come vedere Grillo in politica: uno show imbarazzante”.

Risposi con l’emoticon di una faccetta e una lacrima.

Non successe nulla dopo quella scoperta.

Mio padre non chiarì mai la sua posizione – come Casini – e mia madre non volle saperne mai di eventuali confronti riparatori – si veda il caso Fini-Berlusconi. Il pensiero di volerci raccapezzare qualcosa è rimasto nella testa per un po’, finché non ha lasciato il suo posto per andare da qualche parte e apparire quando ne aveva voglia. La testa è così naïf che certe volte le piace far soffrire il cuore.

Tre segreti di Pulcinella su vita e politica

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©Jamie Baldridge

 

©Jamie Baldridge

 

di Lorenzo Mizzau

Dispositivo. Che il mondo in cui viviamo si esaurisca in un vertiginoso reticolo di dispositivi, sorprende così poco che, a ben guardare, proposizioni simili assumono oggi tutta la carica di ovvietà della tautologia. In effetti, un dispositivo non è che un operatore capace di incidere le linee che strutturano la nostra esperienza quotidiana, assestandole attraverso incessanti processi di scomposizione e ricomposizione. Tutto ciò che finora si è chiamato «istituzione» – dallo Stato alla scuola, dalle amicizie alle agenzie di rating, dalla famiglia alla formazione e ai saperi, dal lavoro agli apparati militari – non è, in ultima analisi, che un vettore di ordine, tale da comporre gli elementi della politica quotidiana, della cultura, dell’economia, della socialità, del gioco, del sogno e della guerra in un quadro efficiente di reciproci incastri.
Che un dispositivo disponga è qualcosa che chiunque è disposto a concedere. Eppure, dopo due secoli e mezzo di filosofia critica, dovremmo ormai aver imparato a diffidare delle tautologie: l’ovvietà è sempre, infatti, il luogo migliore per nascondere una trappola. Anche in questo caso, i sospetti si levano quando al lessico neutralistico degli «operatori», delle «disposizioni», delle «mediazioni» si sostituiscono sinonimi presi dal vocabolario della parzialità. In questo modo, ogni «operatore» diventa strumento e tecnologia di governo, ogni «disposizione» diventa un comando, ogni «mediazione» diventa un compromesso forzato. Lasciarsi alle spalle la neutralità fasulla, dimenticare le parole che ci hanno insegnato, è il primo passo per accedere a questo mondo.

 

Vampiro. Noi siamo stati derubati. Anzitutto della facoltà di chiamarci «noi». Di quel «noi» ci è stato lasciato il residuo più vergognoso, squallido e privo di valore: l’«io», il supporto senza nome del grigiore quotidiano. In effetti, con il «noi», insieme alla potenza di godere delle nostre amicizie, dei nostri odi, dei nostri amori e delle nostre lotte, ciò che ci è stato succhiato via è proprio il quotidiano. Oggi la nostra quotidianità si merita tutto il disprezzo che ciascuno di noi, nel suo buio sgabuzzino emotivo, le riserva. Come si fa terra bruciata di un territorio per forzare all’esodo di massa i suoi abitanti, così, oggi, i nostri nemici inceneriscono le nostre temporalità per mobilitarci verso la conquista del futuro. Ognuno di noi è già sempre sul piede di guerra. Ma ciò significa soltanto che abbiamo già tagliato in anticipo i nostri legami, affinché non ci ostacolino nella fuga. In questo stato di costante eccitazione, a cui siamo indotti da una mobilitazione senza meta perché finalizzata soltanto allo sgombero, non sorprende che qualcuno dia di matto. Ciò dipende anzitutto dalla strategia con cui il nemico è riuscito a stabilizzare quel complesso impazzito che sarebbe la «mobilitazione senza meta». Essa ha potuto esser trasferita sui nostri smartphone soltanto perché era già qualcosa di virtuale. Allo stesso modo, i nostri legami hanno potuto migrare sui social network soltanto dopo esser stati vampirizzati.

 

Che cosa c’è di nuovo? Le epoche fatalmente sfiorate dal sentimento della catastrofe imparano presto a dialogare tra loro. Eppure, se il medioevo è diventato per molti versi lo specchio del nostro tempo, non è soltanto in virtù dell’alito delle apocalissi (ecologica, sociale, etica o politica – per lasciare sullo sfondo la volontà oggettivamente genocida del capitalismo politico di oggi, che non si fermerà certo sul confine di Gaza o della Cisgiordania) che lo attraversano da ogni parte. Le vie della morte sono innumerevoli, e tra le sue scorciatoie più battute c’è senza dubbio quella che passa per lo sguardo e il cuore di ciascuno. «Lo sguardo dell’accidioso – scriveva Giovanni Cassiano quindici secoli fa – si posa ossessivamente sulla finestra e, con la fantasia, egli si finge l’immagine di qualcuno che viene a visitarlo; a uno scricchiolio della porta, balza in piedi; sente una voce, e corre ad affacciarsi alla finestra a guardare; e tuttavia non scende in strada, ma torna a sedersi dov’era, torpido e come allibito».
Nell’epoca del compiuto capitalismo cibernetico, le parole con cui Cassiano, nel De institutis coenobiorum, tracciava il ritratto del tipo malinconico, non sembrano aver perso nulla della loro attualità. Assicurarsi di avere lo smartphone in mano in ogni circostanza – al lavoro, al cinema, in metro, in biblioteca – non è infatti diverso dal lasciare socchiusa la porta della propria stanza. Significa lasciare uno spiraglio aperto per l’imprevisto. In ogni momento qualcuno può entrare. In ogni momento può accadere il nuovo. È il segreto del social network, che, con lo stesso gesto con cui ci espropria dei nostri legami, ci deruba della nostra impazienza – della nostra potenza di provocare il futuro. Non è mai stato vero come oggi che il futuro – preso in senso esistenziale – è la fonte genuina dell’angoscia. Heidegger ha saputo enunciare con ambigua chiarezza la connivenza tra futuro e morte. Il punto focale della sua formulazione è che la morte, proprio in quanto impossibilità di esserci, sottrazione e venir meno di ogni possibile, è, insieme, l’apertura originale della possibilità. Oggi l’ipotesi esistenziale dell’angoscia come apertura è confermata da ogni utente di Tik Tok, che, scivolando nel rabbit hole, di reel in reel, di swipe in swipe, passa attraverso tutte le sfumature dell’inautentico, dalla paura all’ennui, finché il suo sguardo non si fissa nel buco nero da cui scaturiscono le immagini possibili. Che il doomscrolling, l’idiozia indotta dell’utente ridotto ad automa, nella sua assoluta inautenticità, sia in ultima analisi retto, nella sua stessa possibilità, dal segreto legame tra i possibili e il loro angosciante sottrarsi, tra le immagini e la morte, è il significato del sorprendente neologismo «deadscrolling».

Attorno a un completo sconosciuto

5

di Gianluca Veltri

Sai cos’è un tradizionalista, vero?
Uno che lascia che i morti
controllino la sua vita
(James Lee Burke, New Iberia Blues)


Nel luglio del 1965 Bob Dylan ha da poco compiuto 24 anni.
Nel Greenwich Village si muove con le antenne sempre all’erta; coglie, orecchia, ruba. È del tutto disincantato sul potere che la musica può esercitare sulla politica. È un individualista, per lui la canzone di protesta è già finita nel 1963 (!).
È stato un cantautore folk d’impegno civile, ma forse neanche lui lo sa, e di certo gli altri non hanno compreso che questa stagione per lui è alle spalle. Non ce la fa a sentirsi – e essere – la voce narrante di un movimento, qualsivoglia sia. Ma, in generale, Dylan nutre un intimo bisogno randagio di non avere briglie. “Sentiti libero” ce l’ha scritto a chiare lettere nella testa, e state pur certi che se qualcuno tenta di collocarlo da qualche parte, lui è già fuggito via da un’altra. Insomma, per parafrasare una sua canzone e il film su di lui diretto da Todd Haynes nel 2017 – I’m Not Herenon è mai qui. Quando le cose gli diventano troppo familiari, arriva il momento di disorientare prima di tutto sé stesso.
Con l’esibizione di Newport ’65, che occupa una corposa parte finale del film di James Mangold A Complete Unknown, Dylan, interpretato da un Timothée Chalamet estremamente credibile, compie quel rito che Freud definisce metaforicamente “uccisione del padre”. È un passaggio doloroso e necessario per diventare adulti. Scrive Alessandro Carrera in La voce di Bob Dylan: “nel momento in cui smise di credere nella promessa di comunità implicita nel folk revival, e da folksinger moralista si trasformò in predicatore di visioni surreali accompagnate da un gruppo rock, Dylan mise in crisi le stesse categorie grazie alle quali era stato possibile comprenderlo”.
A Newport, nelle edizioni precedenti, il giovanissimo Bob era stato accolto come manna dal cielo, perché la sua originalità, il suo carisma e la sua notorietà erano in grado di traghettare per la prima volta la musica tradizionale verso grandi masse. Erano tutti stupefatti, prima, che un provincialotto del Minnesota potesse interpretare con tanta autorevolezza quel patrimonio, attualizzandolo come mai nessuno era riuscito a fare. Si sarebbero di nuovo stupefatti, adesso, ma per altri motivi. “Non si fischietta in chiesa e non si suona rock a un festival folk”, chiosava il musicista e attore Theodore Bikel, citato nel libro Il giorno che Bob Dylan prese la chitarra elettrica di Elijah Wald, al quale il film di Mangold si ispira. Ma nel luogo che lo ha consacrato come nuovo idolo del folk, Dylan decide che è arrivato il momento di recidere quel cordone ombelicale.
In un mondo che cammina lento, lui va a un’altra velocità. Come egli stesso scrive nell’autobiografia Chronicles: “facevo tutto in fretta. Pensavo in fretta, mangiavo in fretta, parlavo in fretta e camminavo in fretta. Perfino le canzoni le cantavo in fretta”.
Newport è un festival “folk”, orgoglioso delle tradizioni, geloso custode dei tempi eroici che furono. Si svolge nell’omonima località in un isolotto del Rhode Island. Anche se si è cautamente aperto alla modernità, è il luogo che, per esempio, come mostra A Complete Unknown, ospita esibizioni di spiritual delle origini, che mettono in scena schiavi incatenati intenti a spaccare pietre cantando work songs.
Quando arriva sul palco, il 25 luglio 1965, Dylan sembra un alieno piombato sulla terra. È vestito come un rocker, tutti gli strumenti della band sono elettrici: due chitarre, basso, organo e batteria. Altro che menestrello di Duluth.
The ghost of electricity.
È davvero uno dei momenti in cui la storia fa clic.
Sarà una manciata di minuti epici e di infernale frastuono. Appena il tempo di attaccare la spina, e la band parte con Maggie’s Farm, opportunamente rielettrificata rispetto alla versione acustica apparsa appena qualche mese prima sul quinto album di Dylan, Bringing It All Back Home.
Non è forse un caso che il brevissimo, fragoroso set cominci proprio con Maggie’s Farm.

Io alla fattoria di Maggie non ci lavoro più.
No, alla fattoria di Maggie non ci lavoro più.
Faccio quel che posso
per restare quel che sono
ma qui tutti pretendono
che tu sia come loro.

Alan Lomax e Pete Seeger, così come il Jack Elliott nel film di Martin Scorsese del 2019 Rolling Thunder Revue, parlano coi morti e sono in comunicazione costante con una tradizione immutabile; Dylan invece, a metà degli anni 60, è in contatto con i vivi, è un radar puntato sul futuro, un rabdomante sensibilissimo; è una spugna. Ammira i Kinks; l’anno precedente ha assistito all’invasione americana dei Beatles; ha ascoltato i Byrds, che hanno trasformato alcune sue canzoni in tintinnanti ballate elettriche. E soprattutto non accetta di essere accomodato in un ruolo scelto da altri, non può in alcun modo diventare un portavoce, una bandiera. Non è più l’interprete di antiche battaglie altrui, non si sente più obbligato a dover rieditare la lezione dei venerati maestri. Afferma sprezzante: “se volete ancora sentire quella roba, ascoltate Donovan”.
Dylan vive il terrore dell’omologazione, l’irrequietezza è la sua bussola; l’affermazione della propria indipendenza è l’unica fedeltà che è disposto a riconoscere. In quel passaggio di tempo sente un peso di cento chili sulle spalle, e invece ha necessità di viaggiare leggero, con la sua nuova giacca di pelle e i Ray-Ban neri.
Su Youtube si possono confrontare le due esibizioni di Newport, del 1964 e del 1965. Se si pensa che oggi il tempo viaggi troppo velocemente, quel confronto è alquanto istruttivo. Nel 1964 un Dylan solitario e pacioccone con la chitarra acustica sistemata a tracolla molto alta, con dolcevita e abiti di stoffa, esegue compiaciuto e osannato Mr Tambourine Man, con il pubblico che assedia il palco, e un mucchio di persone addirittura sul palco. Il presentatore lo aveva offerto alla folla con l’annuncio “lo conoscete, è vostro” (!). L’anno seguente, il pubblico è più distante dal palco, lui ha un atteggiamento quasi di sfida, la sua attitudine è completamente cambiata, sia nell’aspetto che nel suono imposto agli esterrefatti astanti. Pare che, durante la sua esibizione, un inferocito Pete Seeger abbia invano tentato di tagliare i cavi con un’accetta, e che nel retropalco si consumassero risse furibonde.
Quando tornerà in scena per il bis, dopo aver stordito gli spettatori con la micidiale tripletta Maggie’s Farm, Like A Rolling Stone, It Takes a Lot to Laugh, It Takes a Train to Cry, convinto dagli organizzatori a regalare a Newport un piccolo saggio acustico che non lasciasse troppo amarezza al pubblico, Dylan, ch’è già maestro di allusioni e allegorie, riappare da solo con la chitarra acustica e si congeda con un altro brano di certo non scelto a casaccio, It’s All Over Now, Baby Blue.

Lasciati alle spalle le pietre che hai calcato,
c’è qualcosa che ti chiama.
Dimentica i morti che hai lasciato, non ti seguiranno.
Il vagabondo che bussa alla tua porta
ha i vestiti che una volta avevi tu.
Accendi un altro cerino, ricomincia da capo,
e adesso è proprio finita, Baby Blue.

La svolta elettrica di Newport non impedirà a Bob Dylan di tornare indietro, di smentirsi, fare e disfare infinite volte la matassa delle sue svolte. Sarà un Joker capace di contenere vaste moltitudini, il principe dei trasformismi, a partire da come stravolge e ricompone ogni giorno, incessantemente, il proprio canzoniere, fino a renderlo irriconoscibile. Senza dover slittare l’orologio della sconfinata discografia dylaniana troppo in avanti, solo due anni più tardi, il musicista avrebbe pubblicato John Wesley Harding, un album dedicato a un fuorilegge vissuto nel XIX secolo, con arrangiamenti alquanto minimali, ben distanti da quel “sottile selvaggio suono mercuriale”, urgente e nervoso, dal quale era nata la svolta di Newport e i due dischi precedenti Highway 61 Revisited e Blonde On Blonde.
Nel frattempo, però, in quel 1965 Dylan è così deciso nella sua scelta, adesso che ha trovato la sua strada, da essere disposto a congedarsi anche da Woody Guthrie, il suo maestro, il padre per antonomasia. Nel film A Complete Unknown, Dylan gli fa visita in ospedale, ancora una volta. So Long, It’s Been Good to Know Yuh di Guthrie va in sottofondo. Non c’è più la sacrale sottomissione dell’allievo delle visite precedenti. Woody guarda Bob allontanarsi sulla sua moto. Sulle spalle non c’è più il peso di un passato insostenibile. L’uccisione del padre è completa, le catene sono spezzate.

La vostra vecchia via sta decadendo molto in fretta,
state a lato della nuova se non potete dare una mano,
perché i tempi stanno per cambiare.

(Bob Dylan, The Times They Are A-Changin’)

Le traduzioni di Alessandro Carrera sono tratte da Bob Dylan – Lyrics 1962-2001, Feltrinelli, 2004
Un sottile, selvaggio suono mercuriale è un libro di Daryl Sanders, Jimenez, 2019

Cosa rimane di questo vocabolario?

2

di Giorgiomaria Cornelio

 

Liberi. Uguali. Dignità.

Ma cosa rimane di questo  vocabolario?

Cosa resta di quei gusci di parole posati  a pile, a pigri mucchi,  con molto poco di tenacia per non staccarsi? Cosa rimane di quei misteriosi cenni di pace, della grande meridiana che segnava l’ora buona, quella già giusta?

Cosa resta nella stanza suprema dell’uomo, nella corte di cemento dove a tonfi e bocconate moribonda l’oro di ogni proposito? Che cosa sopravvive quando il proverbio è pantano, quando i morti dormono troppo in basso, e ogni lago di giustizia diventa acqua reflua? Cosa e cosa se s’intenebra pure l’ultimo accordo, se la disfatta è irrimediabile come  la materia opaca,  se il lungo boato inginocchiando  chi altrimenti stava dritto non produce vergogna?

Cosa dovrebbe salvarsi?  Quale pronome?  Quale periodo, che sintassi, che patto di grammatica?

E poi: quanto di questo metro quadrato contiene   una misura non sommaria? Quanto ci avanza di carne? Quanto di cibo? Quanto di nome?  Dove è ancora intatta l’intelaiatura di questo non nostro pianeta?

Quanto, dunque?

Niente.

***

Immagine: Anselm Kiefer

Scritto durante la prima residenza a Centrale Fies per il corredo “Ogni creatura un popolo”, sviluppato nell’ambito di FONDO (network  coordinato da Santarcangelo dei Teatri con AMAT, Centrale Fies, ERT – Emilia Romagna Teatro Fondazione, Fabbrica Europa, I Teatri di Reggio Emilia, Fuorimargine, L’arboreto – Teatro Dimora, Lavanderia a Vapore / Fondazione Piemonte dal Vivo, Operaestate Festival Veneto / CSC Centro per la Scena Contemporanea, Ravenna Teatro, Scarti Centro di Produzione Teatrale d’Innovazione, Teatro Pubblico Pugliese, Teatro Pubblico Campano, TSU Teatro Stabile dell’Umbria, Triennale Milano Teatro.)