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La Punta della Lingua – festival di poesia

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Ancona e Portonovo, 19-26 Giugno 2016

Il programma –

Domenica 19

Portonovo – Chiesa di S. Maria

ore 18.00 Cerimonia di apertura del Festival

Saluti delle autorità, dell’organizzazione e degli ospiti

ore 18.45 TONY HARRISON

Traduzione Giovanni Greco

La poesia e i bambini

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di Azzurra D’Agostino

Questo pezzo è una dedica a tutti gli insegnanti che nonostante tutto superano le barriere della semplice formalità, e trasformano il loro lavoro in una delle più grandi creazioni: quella di costruire il futuro dando ascolto ai bambini e ai ragazzi del presente. Ed è una dedica ai bambini e ai ragazzi che non si lasciano intimidire da un mondo che sembra che a volte possa fare a meno della loro fantasia. Non è così, ragazzi, non è così! Continuate a colorare, a cantare, a dire il vostro mondo!

alle insegnanti e ai ragazzi della scuola di Seneghe “Francesco Ignazio Cadello”

la bambina dai capelli azzurri Lo scorso marzo è successo un piccolo commovente evento. Un evento nel senso pieno della parola, non in quello che è usato comunemente oggi per indicare un appuntamento spettacolare. Un evento che è stato incontro, comunione, soffio di speranza, gioioso scambio e, da parte mia, un sincero inaspettato pianto. Detta così, lo so, può sembrare una cosuccia un tantino retorica. Ma lasciatemi essere sentimentale, per una volta. Antefatto: in dicembre ero a Seneghe, un paesino dell’oristanese, a mio vedere luogo misteriosissimo e per questo amato, dove da dodici anni si svolge un festival dedicato ai poeti: Cabudanne de sos poetas (settembre dei poeti). In questo festival per varie ragioni sono stata coinvolta più volte, è stato questo festival a farmi credere nelle potenzialità effettive di una comunità che si appassiona alla poesia, e da lì ho imparato molte cose che ho sempre cercato poi di portare con me ‘in continente’. La fiducia nel fatto che si debba fare quello che si crede importante, o anche solo bello, e che questo fatto, di avere fiducia, basti a far sì che le cose accadano poi davvero.
Insomma, in dicembre insieme a Mario Cubeddu (l’antica anima luminosa del festival e non solo) e a Francesca Matteoni (poeta e amica che ho coinvolto in un’altra avventura sarda che merita un racconto a parte) andiamo in visita alla piccola scuola elementare e media che si trova in paese. Un unico piccolo edificio che ospita una sola sezione per ogni classe.

 

Incontriamo tutti i bambini delle elementari, dopo il benvenuto della responsabile della sede seneghese della scuola (che fa parte dell’Istituto Comprensivo di Santulussurgiu diretto da Giuseppe Scarpa) Miriam Mastinu, e poi le classi medie. Domande, risate, perplessità, letture, racconti. Incontri belli insomma. Passano dei mesi e torno. Mi dicono che i miei libri sono stati presi dalla biblioteca a cui li avevo donati. Luisa, la bibliotecaria appassionata (non a caso promotrice di ‘Nati per leggere’) mi dice che i ragazzi hanno tanto lavorato. Mi incuriosisco.
Arrivo a scuola e incontro la seconda media, dove i ragazzi mi mostrano un power point dove hanno scritto loro poesie e commenti alle mie; incontrerò anche la terza, guidata dall’insegnante Giuseppina, dove accendiamo oltre al pc con altre poesie molto belle e commenti, un dibattito intorno alla scrittura, a cosa vuol dire una poesia, al legame con le canzoni, al nostro bisogno di sentire le parole, parole fresche e diverse da quelle di tutti i giorni – pur essendo, a ben vedere, sempre le stesse.

schiribizzi e la pozione

Quando arrivo in prima il mio cuore si ferma. Mi trovo davanti una classe di ragazzini che in realtà sono bambini, bambini con gli occhi lucidi, emozionati, in trepida attesa di incontrarmi. Incontrare me è in questo caso incontrare loro stessi, o meglio, le loro fantasie, le loro creazioni, l’apertura che la poesia ha dato alla loro testa: sono emozionati perché il nostro incontro significa esporsi, dire cosa ci ha colpiti, cosa ci ha fatto creare, mettersi nella posizione rischiosissima e oggi così rara di mostrare il proprio lato fragile, quello tenero, quello che si incanta per un topolino tra i sassi o una vecchia che intreccia canestri. Mi è venuto da piangere, e Miriam – insegnante e parte del Cabudanne – mi ha abbracciata stretta in corridoio, con gli occhi lustri anche lei.

poesia per bambini in vacanza

Bambino per bambino mi hanno mostrato i loro disegni: hanno realizzato magnifici quadri, incorniciati lungo il corridoio della scuola, e ognuno di loro, guidato da Antonella, l’insegnante dotata di grazia, ha esposto davanti a tutti, e per me, l’interpretazione che nel disegno ha dato alla sua poesia. Alcuni poi mi hanno letto le loro poesie. Altri mi hanno fatto domande. Pierpaolo, ad esempio, che ha disegnato ‘La bambina dai capelli azzurri’ mi ha chiesto: ma la bambina dai capelli azzurri, chi è? sei tu, è tua figlia, o te la sei immaginata?

la misura del mondo e 'gatto'

Nei loro disegni colorati e profondi, nei loro occhi lucenti, nel loro silenzio attento e nella loro agitazione – quella che si ha quando si deve incontrare un grande amore – ho pensato a quanto sorprendentemente bella possa essere la vita, e – lo dico senza vergogna – quanto questa bellezza si possa incontrare grazie alla poesia.

La bambina dai capelli azzurri

La bambina dai capelli azzurri
ha sognato tutto il tempo automobili
un balcone rosso con un orologio
e un mobile grosso che ci si arrampicava
poi calava dal cassetto dentro un regno
di carrozze e fiori parlanti con un cane bigio
vestito da ragno una torre di rampicanti
un secchio per il pesce d’oro il ramo fresco
d’alloro dipinto col gessetto il segno
spesso della penna andata a nozze
con il re di cuori in un mondo fresco
di colori dove di tanto in tanto
invece delle frasi usciva fuori un canto.

Elezioni a Milano: una riflessione

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di Giorgio Mascitelli

 

L’implicito invito all’astensionismo che il post contro Pisapia del 10 giugno di Gianni Biondillo contiene mi spinge a una breve riflessione sulle elezioni comunali a Milano. Dico subito che molte delle perplessità di Gianni sulla candidatura di Sala sono anche le mie, tanto è vero che nel primo turno non me la sono sentita di votarlo;  anzi scegliendo Basilio Rizzo non ho scelto soltanto una figura che stimo per la sua storia personale e politica, ma un personaggio competente e onesto in grado di svolgere, chiunque sarà il sindaco, un reale ruolo di controllo, che non si limiti a protestare sui prezzi del bar interno a Palazzo Marino.

Al secondo turno però voterò per Sala per due motivi, uno di carattere personale e uno di carattere politico. Sul piano personale, abitando dalle parti di via Padova dal 2001, mi ricordo bene del clima di paura che si respirava negli anni delle giunte di centrodestra; un clima alimentato da quelle stesse giunte perché, non avendo un progetto su quell’area come sulle altre periferie che non fosse immobiliaristico, se ne servivano per mantenere fedele elettoralmente quelle zone. E’ stata un’esperienza di disagio personale così forte quella di vivere in un ambiente dominato dalla paura per problemi  spesso banalmente governabili con un po’ di cura amministrativa, che non la vorrei più rifare: e non vi è dubbio che le forze che stanno dietro a Parisi siano le stesse di allora. Sul piano politico è evidente che Sala, anche se lo desiderasse, non potrebbe fare il sindaco renziano doc sia per la storia di Milano di questi anni sia per quella della sua candidatura; d’altronde Sala mi sembra più realista del suo sponsor Renzi su questo punto, come dimostrano il coinvolgimento di alcuni assessori della giunta Pisapia e l’accordo con i radicali.

Sull’esperienza di Pisapia il discorso si farebbe lungo e Gianni ha scritto cose che non condivido per la loro approssimazione, ma vorrei ricordare una solo cosa: nel 2011 il successo di Pisapia era evidentemente legato anche al referendum contro la privatizzazione dell’acqua perché per la prima volta da molti anni la sinistra tornava a fare la sinistra. Questa scelta non era certo dovuta ai vertici del PD ( allora c’era Bersani) o di altre forze, ma a un gruppo di associazioni e militanti politici che imposero la questione all’ordine del giorno. Era cioè una scelta di protagonismo e di movimento che scombinava i soliti giochi politici e che diede lo slancio anche alla candidatura di Pisapia. E’ chiaro che esperienze fuori dagli schemi come quella di Pisapia possono essere imposte al sistema politico solo in presenza di un protagonismo politico e di uno slancio della base. Dal mio punto di vista la questione cruciale non è se Pisapia si sia comportato da ignavo o meno ( io penso di no, ma il ragionamento non cambierebbe neanche in caso opposto), ma se c’è in noi abbastanza di tenacia e ostinazione per tornare a riproporre questo protagonismo. Per esempio quando la giunta Pisapia fu attaccata ferocemente da Fabio Fazio per le domeniche senza automobili, a nessuno di noi venne in mente di difendere quell’esperienza. Se vuoi un sindaco diverso dagli altri, lo devi anche difendere dai poteri che lo vogliono normalizzare: altrimenti a quello non resta che adeguarsi o andarsene.

 

Una breve e affettuosa risposta a Giuliano Pisapia

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penna d'oca(due giorni fa sul Corriere della Sera ho risposto ad una intervista di Elisabetta Soglio,  sul tema delle elezioni amministrative a Milano. Ieri il sindaco Giuliano Pisapia ha inviato una lettera, sempre al Corriere, a me indirizzata. Ho scritto una veloce replica ma per questioni redazionali il giornale non la ha pubblicata. Quindi la condivido qui.)

di Gianni Biondillo

Caro Pisapia,

alla domanda posta ad una assessore della giunta che ti ha preceduto – “come pensa di attrarre giovani costruendo appartamenti da 10 mila euro al metro quadro?” – la risposta fu illuminante: “esistono anche giovani ricchi!” È così che si perdono le elezioni amministrative. Il mio cuore batte a sinistra, dalla giunta Moratti non mi aspettavo nulla. L’ho avversata con tutte le mie forze. Le cose da voi fatte e che tu elenchi nella tua lettera garbata sono buone, “di sinistra”, e le ho apprezzate anche pubblicamente. Ma, perdona il vecchio linguaggio, sono sovrastrutturali.

Mi consigli di andare a chiedere al parroco di Baggio… be’, sai, dato che a questa tornata elettorale la zona ha votato per il candidato del centro destra, sono io a chiederti di andare da lui per avere delucidazioni sul voto. Tutti ingrati?

Diecimila appartamenti di proprietà pubblica vuoti, in buona parte del Comune, cioè diecimila famiglie che potrebbero avere una casa e non ce l’hanno, questo, invece, è strutturale. Così si perdono le elezioni. Lasciando campo libero ai populisti razzisti che si trovano nelle condizioni ideali di fomentare la guerra dei poveri (chiedi al parroco…).

Sull’accusa d’ignavia: era tuo diritto decidere di uscire di scena dopo una legislatura. Il tuo dovere, invece, era quello di creare una strategia d’uscita che capitalizzasse il lavoro fatto. Insomma, chiudersi in una stanza e dire alla giunta: non si esce da qui fin quando non troviamo un nome condiviso (magari evitando nel frattempo di pubblicare libri dove ti toglievi sassolini dalle scarpe, bruciando naturali candidati in pectore). Perché, sai, Beppe Sala, per quanto vincitore delle primarie, si porta addosso il peso di chi l’ha candidato. I milanesi non amano le imposizioni romane. Gli auguro di cuore di scrollarsi di dosso questa sgradevole sensazione, in fretta, e dimostrare di essere il sindaco di cui abbiamo bisogno. Con idee concrete e realizzabili.

Vivo in via Padova, ho familiari e amici al Giambellino, in Barona, a Baggio, a Crescenzago, ho la mamma a Quarto Oggiaro. Credo di avere una vaga idea della situazione di questi quartieri. So cosa significa sentirsi abbandonati (chiedi… chiedi al parroco…).

Ti faccio un esempio. Mia madre è invalida al 100% con grossi problemi di mobilità. Vive in una casa popolare del Comune (ex IACP. Dove sono cresciuto, insomma). Ha richiesto anni addietro, prima all’ALER poi a MM, di poter sostituire la vasca a sedere con un piatto doccia. Ha telefonato, è andata negli uffici preposti, ha spedito email, lettere, raccomandate con ricevute di ritorno. Niente, neppure una risposta. Poi, durante un consesso politico a Palazzo Marino, due mesi fa, stufo, l’ho raccontato pubblicamente. Dieci giorni dopo mia madre aveva il piatto doccia nuovo di zecca. Sono felice per lei. Ma triste per chi non ha un figlio scrittore che può permettersi di alzare la voce. Queste cose non devono più accadere. Chiunque sarà il sindaco.

con affetto, Gianni Biondillo

 

L’estate che ammazzarono Efisia Caddozzu

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di Marisa Salabelle

Tra i compagni Efisia trovò per la prima volta l’amore o qualcosa che almeno vagamente gli somigliava. La faccia di Carmine Signorello s’intravedeva a stento, tra capelli, barba e baffi, tutti neri e ricci. Portava un paio di occhialetti alla Trotszki, l’eskimo di ordinanza, jeans con le borse alle ginocchia, maglioni a trecce che gli faceva sua nonna. Durante le riunioni parlava e gesticolava molto. Era uno studente fuori corso della facoltà di scienze politiche, andava a lezione sì e no una volta la settimana, non dava mai esami ma girava sempre con grossi libri sotto il braccio. Una sera lui ed Efisia erano andati ad affiggere volantini nelle vie più buie e meno frequentate del centro: lei li portava nella tasca del montgomery, lui li attaccava ai muri con abbondanti spennellate di colla liquida. Improvvisamente posò il secchio della colla,  le si avvicinò, le sbottonò gli alamari e le afferrò le poppe con entrambe le mani. Efisia fu presa talmente di sorpresa che non riuscì a proferire parola. Carmine le tirò su la maglia, le sbottonò la camicia, trovò il reggiseno, ne estrasse una mammella e cominciò a succhiarla avidamente, mentre con la mano libera le palpava il culo attraverso la stoffa della gonna.

«Ehi che cavolo» cominciò lei ma venne sopraffatta dall’eccitazione: si addossò al giovane e si lasciò tastare, leccare e sbaciucchiare. In mezzo alle gambe sentiva un ardore, una frenesia:  aveva bisogno di qualcosa di grosso e duro che le entrasse dentro, ora, subito, e ciò che non capiva era da dove venisse questa necessità, visto che mai prima di allora lei aveva avuto la pur minima esperienza sessuale. A volte, la sera a letto si toccava, prima di addormentarsi, gliel’aveva insegnato Letizia, le aveva fatto vedere come fare per provare piacere, bisognava immaginarsi delle storie eccitanti, abbassarsi il pigiama sotto le lenzuola, mettere le mani lì e premere, sfregare, stropicciare… dopo un po’ di lavoro il godimento arrivava, irresistibile, e dopo che era finito sopraggiungeva una sonnolenza, ci si addormentava molto meglio. Efisia aveva delle fantasie, provava a immaginare come sarebbe stato farlo con qualcuno dei ragazzi che conosceva, ma si trattava soprattutto di un gioco che faceva con se stessa, niente fino a quel momento le aveva fatto presagire che un giorno, all’improvviso, il desiderio, quello vero, di un maschio in carne ed ossa si sarebbe presentato così implacabile, perentorio, come un ordine cui bisogna obbedire senza indugio. L’avrebbe fatto lì, addossata al portone di una casa, incurante delle rare auto che passando illuminavano quell’angolo nel quale loro due consumavano nefandezze. Trovò un po’ di fiato per dire aspetta un momento, non possiamo, qui siamo in mezzo a una strada; Carmine la prese per un braccio e la trascinò in un cortile dove lo fecero in piedi, come due selvaggi.  Poi la portò a casa sua, viveva da solo, in due stanzette miserabili: la buttò sul letto e scoparono fino allo sfinimento. Quella notte Efisia non tornò a casa e quando suo padre, il giorno dopo, provò ad attaccare una delle sue filippiche, lei gli rispose con durezza che se non gli stava bene era pronta a fare le valigie e andarsene immediatamente.

«Non ho capito se era talmente arrapato che si sarebbe fatto anche una capra», disse a Letizia il giorno dopo, «o se in un modo o nell’altro gli piaccio. Francamente, non riesco a crederlo.»

«Perché devi pensare questo, non sarai una bellezza, ma chi lo è, e poi hai begli occhi, vorrei avere io i tuoi capelli al posto di questi tre peli sbiaditi.»

Il problema con Letizia era che non si capiva mai se era sincera o solo molto gentile.

«Non vedo perché tu ti debba continuamente buttare giù, sono sicura che puoi piacere molto, ho notato che per la strada si voltano a guardarti.»

«Sì, qualche vecchiaccio bavoso, camionisti in crisi di astinenza, non farmi ridere.»

“Vorrei averle io le tue puppe, lo vedi come sono piatta, sembro un asse da stiro.»

Le puppe, in effetti, erano quelle che avevano folgorato Carmine. Tutte le volte che si incontravano le sbottonava il cappotto, le palpava il seno e sussurrava Fammi sentire se le tieni ancora. Lei, che le sue tette enormi le aveva sempre odiate, gli era grata per la  sua devozione verso quelle ingombranti sporgenze. Si vedevano in ogni momento libero, scappavano dalle riunioni, si barricavano nell’appartamento di lui e sperimentavano pratiche sessuali che Efisia nel suo candore non aveva neppure sospettato potessero esistere. Bighellonavano per la città a notte tarda, con o senza volantini da affiggere; si sedevano sugli scalini del Battistero, mangiavano cartocci di olive e pane con salamino piccante o spesse fette di spalla, si facevano una birra o una canna. Tutto sembrava essenziale, necessario. I bambini della scuola di montagna, la lotta di classe, Marx e Don Milani, il sesso, le olive: ogni elemento si incastrava perfettamente nell’altro, non poteva essere altrimenti, la vita aveva finalmente senso.

da: Marisa Salabelle, L’estate che ammazzarono Efisia Caddozzu (Piemme, 2015)

Viaggio in Bosnia (2/2)

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di Giovanni Accardo

Zijo Ribic e il massacro di Skočić

Skočić era un villaggio della Bosnia orientale, abitato prevalentemente dal clan familiare di Zijo Ribic, rom musulmani, una fiorente comunità stanziale di agricoltori, operai specializzati e artigiani che vivevano in ottimo rapporto con Serbi e Bosgnacchi (i musulmani di Bosnia). Il 10 luglio 1992 una formazione paramilitare entrò nel villaggio. “Quella notte”, ci racconta Zijo in una sala conferenze dell’Hotel Tuzla dove lavora come cuoco e dove dormiremo questa notte, “avevamo deciso di rimanere tutti insieme nella grande casa di un nostro parente; da qualche giorno avevamo paura. Quando abbiamo sentito arrivare i camion non potevamo immaginare cosa sarebbe successo. I paramilitari serbi hanno cominciato a picchiare gli uomini, volevano oro e denaro. Hanno stuprato mia sorella maggiore, Zlatija, davanti a tutti. Aveva tredici anni. Quindi l’hanno picchiata perché portava al collo una croce ortodossa d’oro. Dopo ci hanno raggruppati tutti davanti alla casa. Hanno detto che non ci avrebbero fatto niente e che ci avrebbero portati da un’altra parte. Ci hanno caricati sui camion e portati in un villaggio vicino dove avevano già scavato una fossa comune. Ci hanno fatti scendere uno alla volta. Prima mia madre con mio fratellino, poi sono venuti a prendere me. Avevano appena finito di stuprare nuovamente mia sorella maggiore. Io piangevo, chiedendo di vedere mia madre. Mi risposero che l’avrei rivista subito. Hanno ucciso tutti, uno alla volta: i miei genitori, i miei fratelli e le mie sorelle, gli zii, i cugini. Poi è arrivato il mio turno. Ho sentito un colpo di lama nel collo e degli spari. Sono caduto e mi hanno gettato nella fossa insieme agli altri che avevano appena ammazzato. Io avevo 7 anni, ero soltanto ferito ma mi finsi morto; dopo qualche ora uscii dalla fossa comune tutto sporco di sangue e scappai nei boschi. Arrivato sanguinante in un villaggio vicino, fui soccorso da una donna e da due soldati Serbo-bosniaci dell’Esercito Popolare Jugoslavo che mi lavarono e medicarono. Sono cresciuto dapprima in un orfanatrofio in Montenegro, poi a Tuzla, dove ho frequentato la scuola alberghiera e mi sono diplomato cuoco.”

Al raggiungimento della maggiore età Zijo fu ospitato a Casa Pappagallo, una struttura gestita da Tuzlanska Amica, per ragazzi e ragazze che usciti dall’orfanotrofio non hanno altro luogo dove andare. In quegli anni conosce Nataša Kandić, sociologa di Belgrado, Premio Internazionale Alexander Langer 2000, impegnata fin dall’inizio del conflitto nella ex-Jugoslavia nella denuncia dei crimini di guerra e delle violazioni dei diritti umani, e si convince a raccontarle la sua storia. Dopo le indagini preliminari condotte su mandato del Tribunale per i Crimini di Guerra di Belgrado presso cui è stata fatta la denuncia, nel 2010 è iniziato il processo contro gli autori del massacro di Skočić.

La testimonianza di Zijo è la più commovente tra tutte quelle ascoltate durante il nostro viaggio in Bosnia. Ma a stupire gli studenti non è soltanto il suo racconto, quanto piuttosto la scelta di perdonare i suoi carnefici. Gli studenti gli chiedono come sia stato possibile, sperano che almeno alcuni di loro gli abbiano chiesto scusa. “No”, risponde, “nessuno mi ha chiesto scusa, ma io non volevo vivere nell’odio. Dimenticare quello che è accaduto non posso, ma perdonare sì, è l’unico modo per andare avanti e costruirmi una vita normale, senza precipitare in una specie di buco nero, come credo si debba vivere con l’odio dentro.”

 

Zijo Ribic e Andrea Rizza

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nel febbraio 2013 sette appartenenti alla formazione paramilitare responsabile del massacro, grazie anche alla testimonianza di Zijo, sono stati condannati per crimini di guerra dal Tribunale di Belgrado, ma purtroppo in appello solo sono stati assolti. “La prima volta che ho rivisto il comandante del gruppo”, racconta Zijo Ribic, “ mi è passato di tutto per la testa, poi ho pensato che se mi facevo vincere dall’odio, sarei diventato uguale a loro. Io non sono uguale a loro. I miei genitori non mi hanno insegnato a odiare. Non posso e non voglio dimenticare quello che è successo alla mia famiglia e al mio villaggio. Ma posso decidere di non odiare. È difficile, ma da qualche parte dentro di te puoi trovare la forza per riuscirci.”

A gennaio del 2016, ha sepolto quattro delle sue sorelle uccise nel 1992. Le altre due sorelle e il fratellino sono stati ritrovati nella stessa fossa comune, ma i loro resti erano troppo parziali e Zijo ha deciso di aspettare a seppellirli.

 

Fantasmi a Srebrenica

È la visita a Potocari il momento più doloroso del viaggio.

Ai primi di luglio del 1995 l’enclave musulmano di Srebrenica, che era sotto la protezione internazionale dell’ONU, venne circondata dai serbi guidati dal generale Mladic. L’11 luglio, quando capirono che il loro arrivo era imminente, tutti i cittadini dell’enclave (quasi 40 mila persone: uomini, donne, bambini, anziani) abbandonarono le loro case per andare a chiedere aiuto e protezione ai 450 caschi blu olandesi che avevano la loro base in una ex fabbrica di Potocari, a pochi chilometri della città di Srebrenica. In 5.000 riuscirono a sfondare il cordone di protezione ed entrare, tutti gli altri rimasero fuori. Quando Mladic arrivò in città e la trovò deserta, corse dagli olandesi furibondo, minacciandoli. Una foto nella mostra permanente che c’è nella ex base militare, ritrae il comandante olandese Karremans mentre brinda con Mladic, al quale vennero consegnati pure i 5000 che erano riusciti a rifugiarsi all’interno. Il generale serbo ingannò i musulmani, dicendo che li avrebbe protetti lui, ma a tutti apparve chiaro quale sarebbe stato il loro destino. Gli uomini vennero separati dalle donne, i figli dai 14 anni in su dalle madri, proprio come facevano i nazisti con gli ebrei e in spregio alle leggi internazionali sui prigionieri di guerra. Le donne e i bambini furono trasferiti a Tuzla che era in mano ai musulmani. Circa 15.000 uomini cercarono di mettersi in salvo scappando attraverso i boschi, nella speranza di raggiungere Tuzla a piedi; oltre 8.000 mila di loro vennero catturati, anche con l’inganno, e barbaramente uccisi uno ad uno. I loro corpi sepolti nelle fosse comuni.

 

Mladic e i caschi blu olandesi

 

 

 

 

 

 

 

 

 

A tutt’oggi sono stati identificati i resti di circa 6.600 di loro, sepolti nella collina di fronte alla base ONU di Potocari, proprio laddove sono stati abbandonati da tutti. Molti villaggi musulmani oggi sono abitati soltanto da donne. Gli studenti possono avere un’idea di quello che è accaduto attraverso un video proiettato all’interno della ex base olandese, in quello che è diventato un centro di documentazione. Il video mostra la città mentre si svuota, gli abitanti che scappano prendendo pochissime cose dalle loro case, alcuni vecchi, troppo anziani per poter camminare, vengono trasportati dalle mogli dentro delle carriole. Nelle loro facce di persone comuni si legge la paura, il dolore, la disperazione. Tutti siamo colti da una enorme pena per la loro sorte e dalla rabbia per non averlo impedito. Aveva ragione Alexander Langer, quando pochi mesi prima aveva scritto che l’Europa muore o rinasce a Sarajevo. E qui, l’Europa e la comunità internazionale hanno dimostrato il loro fallimento, preoccupandosi innanzitutto degli interessi nazionali. Mentre scorrono quelle immagini angosciose, nella sala il silenzio è densissimo, guardo le facce impietrite degli studenti e mi dispiace che vedano quell’orrore. Ma come fare a renderli più umani se non facendogli vedere a quali livelli di bestialità può giungere talvolta l’uomo? Quando arriva la testimonianza di una mamma che ricorda le urla del figlio di 14 anni, costretto ad abbandonarla per andare nel gruppo degli uomini, mentre si consumava una barbara separazione che credevamo di non dover più rivedere, dopo le terribili pagine della shoah, trattenere le lacrime diventa impossibile. Poi arrivano le immagini delle esecuzioni: i paramilitari serbi che hanno eseguito il massacro, hanno avuto la sfrontatezza di filmarsi. Siamo sgomenti e senza parole. La storia si ripete, ancora una volta non insegna nulla, ancora una volta non serve ad evitare che le tragedie del passato si consumino nel presente.

A Srebrenica incontriamo gli animatori dell’Associazione «Adopt Srebrenica», fondata da un gruppo di giovani serbi e bosniaci con l’obiettivo, tra gli altri, di raccogliere storie e immagini che documentino la vita quotidiana di Srebrenica prima della guerra e la costituzione di un fondo di libri, foto, video, documenti sulla storia della città e della Bosnia Erzegovina, da mettere a disposizione della cittadinanza. Proprio per acquisire le necessarie competenze, due di loro hanno recentemente svolto un periodo si formazione all’Istituto per la storia della Resistenza di Torino. Ceniamo tutti assieme. Fuori continua a piovere e per la notte si prevede la neve. Le strade sono deserte, la città sembra abitata soltanto dai fantasmi. Gli studenti, dopo le fortissime emozioni della giornata, hanno voglia di andare a bere qualcosa in un locale, hanno voglia di distrazione e forse di calore. Stanotte dormiremo presso alcune famiglie e in molte delle case c’è solo una stufa a legna in cucina e qualche stufetta elettrica che scalda poco. Andrea Rizza ci accompagna in un bar, ma non potremo restare oltre le 23.00, quando scatta una sorta di coprifuoco che costringe tutti i locali a chiudere. Il bar è serbo, come i pochi avventori, quasi tutti giovani; di anziani purtroppo in città ne sono rimasti pochi. Quasi tutti salutano Andrea con molto affetto, ormai lo conoscono da diversi anni. Si vede che anche loro hanno voglia di divertirsi perché, vedendo quel gruppo di venti studenti, alzano il volume della musica, spengono le luci e accendono dei faretti colorati. Uno studente chiede se può scegliere qualche canzone e si mette al computer. In breve i tavoli vengono messi di lato e quel piccolo bar diventa un’improvvisata discoteca. Gli studenti ridono e ballano, per un momento si dimenticano degli orrori della guerra. È giusto così, mi dico.

 

Srebrenica

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ritornando a casa

Durante il viaggio di ritorno mi siedo accanto agli studenti, curioso di sapere come hanno vissuto gli incontri e le testimonianze di questi giorni. Non siete dispiaciuti di non aver fatto la consueta gita di quinta in una capitale europea all’insegna del divertimento, gli domando? No, rispondono in coro, anche se quando gli insegnanti ce l’hanno proposto eravamo diffidenti, ma già durante le lezioni di preparazione abbiamo cambiato idea. “Questo viaggio”, dice Enrico, “sebbene a tratti molto doloroso, ci ha fatto scoprire una pagina ignota del recente passato, una pagina che tutti dovrebbero conoscere, proprio in un periodo in cui non si fa altro che parlare di profughi di guerra.” Mentre li ascolto, avendoli osservati con attenzione in questi giorni, mi sembrano davvero cresciuti. “Questa è la storia che vorremo studiare a scuola”, dice Daniele, “è questo il modo, appassionato e coinvolgente, con cui dovete insegnarla, dedicando più ore e dando più spazio al ‘900. In questo viaggio l’abbiamo veramente toccata con mano.” “Ritorno a scuola con molta più voglia di vivere”, mi dice Giulia, “proprio come racconta Ungaretti nella poesia Veglia, quando, completamente immerso nell’orrore della Prima guerra mondiale, scrive: «Non sono mai stato tanto attaccato alla vita».

Mentre stiamo per lasciare la Croazia ed entrare in Slovenia, ci arriva la notizia della condanna a 40 anni di carcere per Radovan Karadzic, presidente dell’autoproclamata repubblica serba di Bosnia, ritenuto colpevole di genocidio, persecuzione, sterminio, omicidio, deportazione, terrore in alcuni villaggi dell’enclave musulmano di Srebrenica. Basterà questa condanna o quella del generale Mladic a fare giustizia? Gli studenti pensano di no, l’unica vera giustizia, dicono, si avrà quando i carnefici riconosceranno le loro colpe e quando tra serbi e bosgnacchi (i musulmani di Bosnia) ci sarà una convivenza autentica, a partire dalle scuole condivise.

 

Lo scorso mese di marzo, Giovanni Accardo, insegnante di italiano e storia al Liceo “Pascoli” di Bolzano, in compagnia delle colleghe Valentina Mignolli e Maristella Partipilo, ha accompagnato in Bosnia Erzegovina gli studenti della classe quinta D/E. A far loro da guida Andrea Rizza della Fondazione Alexander Langer Stiftung che ha curato anche la preparazione dei ragazzi. Questo suo reportage è apparso, in forma ridotta, sul quotidiano “Alto Adige” del 02.04.2016. La prima puntata si trova qui.

La prima immagine: Zijo Ribic, a sinistra, con Andrea Rizza; la terza: Srebrenica.

 

mater (# 3)

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di Giacomo Sartori

 

come foglie di novembre

 

non mi dicevi ch’era morto

l’amico d’una vita

o l’ultraconfidente

crollato un altro bastione

dissertavi e divagavi

murata nella logorrea

(stizziti guizzi del mento)

Scarafag(g)itazione

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prigov-in-his-studiodi Dmitri Prigov

traduzione dal russo di Giorgia Romagnoli

Preavviso

Ogni epoca presenta i suoi personaggi buoni, cattivi, prodigi, dell’orrore. Infatti, il tema di questo libro è la nuova svolta di un tema di sempiterna presenza tra le nostre ctonie truppe. Nella nostra urbana, blindata vita quotidiana apparvero alla vista, irruenti e fragili scarafaggi.
Il libro non rimanda ad un comune soggetto – intreccio – ma solamente allo spirito della quotidiana presenza di queste truppe nella nostra vita, allo spirito della lotta, della resistenza, dell’eroismo, dell’orrore, della convivenza e dell’amore.

Per amore o per soldi

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mollette

 

Per amore o per soldi. Lavoro domestico, sessuale, di cura dentro e fuori dal mercato (a cura di Valeria Ribeiro Corossacz e Alessia Acquistapace) è il titolo di un seminario pubblico organizzato dal Laboratorio di Etnologia del Dipartimento di Studi Linguistici  e Culturali di Modena che si terrà il 13 e 14 giugno.

Interverranno Silvia Federici, Charito Basa, Sabrina Marchetti, Beatrice Busi, Valeria Ribeiro Corossacz, Simonetta Grilli,  Irene Peano, Olivia Fiorilli e Alessia Acquistapace.

 

Si parlerà di divisione sessuale del lavoro domestico, sex work, lavoro biopolitico/affettivo e messa a valore delle soggettività nel mercato del lavoro, lavoro di cura nelle relazioni/famiglie eterosessuali, omosessuali, trans, lotte e forme di resistenza politica in ciascuno di questi ambiti.

Questo il programma:

Per amore o per soldi. Lavoro domestico, sessuale, di cura dentro e fuori dal mercato

Dipartimento di Studi Linguistici e Culturali di Modena, Largo Santa Eufemia 19, Aula E – Modena

Lunedì 13 giugno

14.00 Saluti del Direttore del Dipartimento di Studi Linguistici e Culturali

14.15 Silvia Federici (Hofstra University) Donne, corpo, territorio e la produzione del comune.

14.45 Charito Basa (Filipino Women Council) Genere, lavoro e diritti nell’esperienza di un gruppo di donne filippine in Italia.

15.15 – 15.30 Pausa

15.30 Sabrina Marchetti (Istituto Universitario Europeo) Delega della cura, relazioni fra donne e politiche migratorie nella provincia di Reggio Emilia

16.00 Olivia Fiorilli (Università RomaTre e Laboratorio Smaschieramenti) e Alessia Acquistapace (Università Milano Bicocca e Laboratorio Smaschieramenti), Tracce di autoinchiesta sul “lavoro del genere” nel lavoro precarizzato e nelle relazioni trans.

16.45- 19.00 Discussione

Martedì 14 giugno

09.30 Irene Peano, Università di Bologna, Lavoro sessuale e riproduzione sociale dentro le catene globali della produzione agro-industriale.

10.00 Beatrice Busi, Laboratorio Smaschieramenti, Dal salario al lavoro domestico allo sciopero dai generi: la riproduzione sociale come campo di soggettivazione (trans)femminista

10.30 – 10.45 Pausa

10.45 Valeria Ribeiro Corossacz, Unimore, Lavoratrici domestiche e lavoro domestico in Brasile: lotte e contro-reazioni.

11.15 Simonetta Grilli, Università di Siena, Oltre il genere della cura. Riflessioni sul lavoro domestico e le pratiche di cura nelle famiglie omogenitoriali.

11.45 – 13.30 Discussione


 

L’obiettivo del convegno è creare un’occasione di confronto tra ricercatrici e attiviste sul tema delle trasformazioni del lavoro domestico, sessuale e di cura retribuito e non retribuito, in relazione con i cambiamenti che hanno attraversato le relazioni familiari e parentali (Grilli, Zanotelli 2010) e con le profonde trasformazioni che hanno interessato il mercato e le forme stesse del lavoro nel contesto postfordista (Hardt 1999, Sarti, 2010, Armano et al. 2014).

Come è noto, l’ingresso massiccio delle donne nel mercato del lavoro retribuito non ha comportato cambiamenti significativi nella distribuzione del lavoro domestico e di cura all’interno delle famiglie (Rosina, Sabbadini 2006, Gribaldo 2010). La responsabilità di questo lavoro continua a ricadere sulle spalle delle donne (Kergoat 2004) che, a seconda della loro condizione di classe, ne possono poi appaltare una parte ad altre donne, in genere migranti e in condizioni di assoluta precarietà dei diritti fondamentali (Morini 2002, Ehrenreich, Hochschild 2004, Gutiérrez-Rodríguez 2010, Marchetti, Triandafyllidou 2015).

Da sempre lo Stato e le altre istituzioni pubbliche si sono appoggiati sul lavoro gratuito svolto dalle donne nelle famiglie e in generale sull’organizzazione dei rapporti sociali tra i sessi (Delphy 1998) per evitate di farsi carico di una grossa fetta di bisogni sociali. Le politiche di austerity non fanno che aumentare questo fenomeno.

Parallelamente, nell’attuale mercato del lavoro, segnato da processi di precarizzazione e desalarizzazione (Beck 2000, Gallino 2007), alle prestazioni lavorative esplicitamente pattuite si affianca un mansionario implicito e mai contabilizzato sempre più ampio e indefinito fatto di capacità comunicative, relazionali, di cura, di seduzione, di persuasione e di mediazione dei conflitti, oltre che di passione/identificazione nel lavoro e di conseguente dedizione e disponibilità quasi-illimitata che sono richiesti gratuitamente (Busi 2006, SomMovimento NazioAnale 2014).

Queste capacità e disposizioni affettive soggettive sono richieste a tutte/i, sebbene in misura diversa a seconda dei settori produttivi, e con meccanismi diversi per mobilitare le diverse identificazioni di genere, in modo che il lavoro di cura, la seduzione o la dedizione al lavoro di un uomo etero, di una donna etero, di un gay, ecc. si esprimano in performance coerenti con il loro presunto genere e appaiano quindi come naturali, spontanee e soprattutto spontaneamente donate al capitale (SomMovimento NazioAnale 2014, Weslig 2012).

Tuttavia la valorizzazione da parte del capitalismo postfordista di attitudini e capacità culturalmente costruite come tipicamente femminili (Morini 2007) non deve far perdere di vista che gli aspetti più ripetitivi e usuranti del lavoro domestico e del lavoro di cura degli esseri umani, non solo in condizione di dipendenza (bambini, malati, vecchi), sono ancora quasi esclusivo appannaggio delle donne, e sono ancora considerati indesiderabili e degradanti (Moujoud, Falquet, 2013).

In questo senso, lo studio etnografico delle configurazioni familiari e affettive non eterosessuali o non basate su legami di coppia o filiazione (Saraceno 2003, Grilli 2014, Acquistapace 2014) che emergono nel contesto contemporaneo offre l’occasione per capire se e come in queste esperienze il lavoro di cura/domestico possa essere eventualmente riorganizzato, reinventato, sovvertito.

Il lavoro sessuale retribuito è svolto oggi in gran parte da donne cisgender e donne trans, ma anche da uomini, per una clientela quasi totalmente maschile. Fra le/i sex worker ci sono ovviamente posizioni di classe, di colore e di status legale rispetto al razzismo istituzionale delle leggi sull’immigrazione molto diversificate. In ogni caso, la legittimità dell’attività che essi/e svolgono è al centro di dibattiti fin troppo infuocati, che spesso negano la capacità stessa delle/dei sex worker di parlare per sé (Garofalo 2014). La virulenza di questi dibattiti riflette, fra le altre cose, l’importanza delle poste in gioco implicite nel rappresentare la sessualità come un dono, un istinto, un piacere, una prestazione, una tecnica, e nel rappresentare i rapporti sessuali a pagamento come qualcosa di radicalmente distinto da quelli presunti gratuiti che hanno luogo nel contesto dell’eterosessualità obbligatoria (Rubin 1984, Tabet 2004).

Le trasformazioni dei processi di valorizzazione nel capitalismo contemporaneo rendono necessaria una nuova analisi del lavoro e un radicale ripensamento delle definizioni e del rapporto fra sfera produttiva e sfera riproduttiva. Questi temi sono al centro di un vivace dibattito interdisciplinare, all’interno del quale, peraltro, è ampiamente riconosciuta la centralità di un approccio etnografico alle nuove forme del lavoro produttivo e riproduttivo (Armano et al. 2014), e del contributo che l’analisi femminista del lavoro riproduttivo può offrire a tale sfida teorica (Tabet 2014, Federici 2014).

Riunendo intorno allo stesso tavolo ricercatrici e attiviste che si occupano da diversi punti di vista di lavoro domestico, di cura e sessuale, retribuito e non, ci interessa quindi verificare come e quanto queste diverse esperienze possano entrare in relazione e se possano scambiarsi o costruire insieme strumenti per meglio comprendere le trasformazioni dei rapporti tra i sessi-generi e dei rapporti di produzione nel contesto contemporaneo.

Bibliografia

Acquistapace, Alessia, 2014, “Decolonizzarsi dalla coppia. Una ricerca etnografica a partire dall’esperienza del Laboratorio Smaschieramenti” in L’amore ai tempi dello tsunami : affetti, sessualità, modelli di genere in mutamento, a cura di Chiara Martucci, Gaia Giuliani, and Manuela Galetto, 69–85. Verona: Ombre Corte.

Armano, Emiliana, Federico Chicchi, Eran Fisher, Elisabetta Risi (a cura di), 2014, Confini e misure del lavoro emergente, numero monografico di Sociologia del lavoro,133.

Beck, Ulrich, 2000, Il lavoro nell’epoca della fine del lavoro. Tramonto delle sicurezze e nuovo impegno civile, Einaudi, Torino.

Busi, Beatrice, 2006, “Il lavoro sessuale nell’economia della (ri)produzione globale”, in Altri femminismi. Corpi culture lavoro, Roma, Manifestolibri, pp. 69-84.

Delphy, Christine, 1998, “Travail ménager ou travail domestique?, in L’Ennemi Principal 1. Économie politique du patriarcat, Paris, Syllapse, pp. 57-74.

Ehrenreich Barbara, Arlie Russell Hochschild (a cura di), 2004, Donne globali: Tate, colf e badanti, Milano: Feltrinelli.

Kergoat, Danièle, 2004, “Divisione sexuelle du travail et rapports sociaux de sexes”, in Dictionnaire du Féminisme, a cura di Helena Hirata, Françoise Le Doaré, et al., Paris: Presses Universitaires de France, pp. 35-44.

Federici, Silvia, 2014, Il punto zero della rivoluzione, Verona: Ombre Corte.

Gallino, Luciano, 2017, Il lavoro non è una merce. Contro la flessibilità, Roma-Bari, Laterza.

Garofalo, Giulia, 2014, Vendere e comprare sesso. Tra piacere, lavoro e prevaricazione, Bologna: Il Mulino.

Gribaldo, Alessandra, 2010, “Scelte moderne, identità ambivalenti. Genere, classe e fecondità nell’Italia urbana”, in Alessandra Gribaldo e Valeria Ribeiro Corossacz (a cura di), La riproduzione del genere. Ricerche etnografiche sul femminile e sul maschile, Verona: Ombre Corte.

 Grilli, Simonetta, 2014, “Scelte di filiazione e nuove relazionalità. Riflessioni a margine di una ricerca sull’omogenitorialità in Italia”, Voci, XI, 24-42.

 Grilli, Simonetta, Francesco Zanotelli (a cura di), 2010, Scelte Di Famiglia, Pisa: ETS.

 Gutiérrez-Rodríguez, Encarnación, 2010, Migration, domestic work and affect. A decolonial approach on value and the feminisation of labor, Oxford, Francis & Taylor, 2010.

 Hardt, Michael, 1999, “Affective Labor”, Boundary 2 26(2): 89–100.

 Morini Cristina, 2002, La serva serve. Le nuove forzate del lavoro domestico, Roma: DeriveApprodi.

 Morini, Cristina, 2007, “The Feminization of Labour in Cognitive Capitalism”, Feminist Review, 87.

 Moujoud, Nasima, Falquet, Jules, 2013, “Cent ans de sollicitude en France. Domesticité, reproduction sociale, migration et histoire coloniale”, in Verschuur Christine, Catarino Christine, Genre, migrations et globalisation de le reproduction sociale, Cahiers genre et développement, n. 9, pp. 229-246.

Muehlebach, Andrea, 2011 “On Affective Labor in Post-Fordist Italy”. Cultural Anthropology 26(1):58–82.

Rosina, Alessandro, Linda Laura Sabbadini, 2006, Diventare padri in Italia: fecondità e figli secondo un approccio di genere, Roma, Istat.

Rubin, Gayle S., 1984, “Thinking Sex: Notes for a Radical Theory of the Politics of Sexuality” in Pleasure and Danger: Exploring Female Sexuality, a cura di Carole S. Vance, Boston and London: Routledge and Kegan Paul.

Saraceno, Chiara, 2003, Mutamenti della famiglia e politiche sociali in Italia, Bologna: il Mulino.

Sarti, Raffaella, a cura di, 2010, Lavoro domestico e di cura: quali diritti?, Roma, Ediesse.

Sommovimento NazioAnale, 2014, “Sciopero sociale: sciopero dei/dai generi”,  http://sommovimentonazioanale.noblogs.org/post/2014/11/13/sciopero-sociale-sciopero-dai-generidei-generi/

Tabet, Paola, 2004 La Grande Beffa. Sessualità Delle Donne E Scambio Sessuo-Economico. Soveria Manelli: Rubettino.

Tabet, Paola, 2014, Le dita tagliate, Roma: Ediesse.

Triandafyllidou, Anna, Sabrina Marchetti (a cura di), 2015, Employers, Agencies and Immigration. Paying for Care, London: Ruotledge.

Wesling, Meg, 2012, “Queer Value.” GLQ: A Journal of Lesbian and Gay Studies 18, no. 1: 107–25.


 

Panopticon

2

di Michele Mari

panopticon

Io penso che una scienza nuova nascerà un giorno, non una scienza della
vista, ma delle visioni, che spieghi i sogni, le immagini, le apparizioni,
gl’incantesimi della pupilla e della memoria con la stessa precisione con
cui le leggi della riflessione e della rifrazione, e le ultime teorie sulla natura
della luce, rendono conto ormai della magia degli apparecchi naturali
Leonardo Sinisgalli, Furor mathematicus

 

L’idea mi venne a teatro, una ventina di anni fa. Era l’ultima sera in cui il grande Kean prestava il suo corpo e la sua voce ad Amleto, e io ero giunto a Londra quel giorno stesso per vederlo e ascoltarlo. Seduto nel mio palco, in compagnia di una dama di cui per discrezione non farò il nome, assistetti alla rappresentazione come in trance, tanto quell’uomo sapeva soggiogare gli spettatori in virtù del suo straordinario magnetismo. Tuttavia arrivò l’attimo – un attimo destinato a cambiare la mia vita per sempre – in cui fui bruscamente richiamato alla realtà. Fu all’inizio del quinto atto, quando il principe di Danimarca rivolge a Orazio quelle tremende e dolcissime parole sul teschio di Yorick, sulle labbra che avevano pronunciato un’infinità di motti e di scherzi, e che lui da bambino aveva baciato innumerevoli volte, e che erano state proprio lì, su quel punto del teschio, fu in quel precisissimo istante – «Here hung those lips that I have kissed I know not how oft» – che ebbi la netta sensazione che Amleto, voglio dire Kean, stesse guardando dritto verso di me, anzi che il suo sguardo cercasse il mio, intercettandolo e ricacciandolo indietro, come a voler invertire il nostro rapporto, o meglio come se in quel momento, nel palco, io fossi lo spettacolo, e lui, sulla scena, lo spettatore.

Non ci volle molto perché quella sensazione si trasformasse in intuizione, e l’intuizione in progetto. Il resto è noto: in capo a un anno avevo sottoposto i miei disegni ai gabinetti di giustizia di tutte le corti d’Europa, e quattro anni dopo, nell’isolotto di Santo Stefano, presso all’isola di Ventotene, veniva inaugurato l’edificio che tutto il mondo conosce con il nome di Panopticon. Sì, perché l’imponderabile capriccio che regola le cose umane aveva stabilito che le mie idee non venissero raccolte né dalla Francia dei Lumi e della Rivoluzione né dalla mia bella e civile Inghilterra, bensì dalla malfamata dinastia dei Borboni, alla cui signoria sottostavano appunto quelle isole.

Così oggi io, l’Ispettore, siedo al centro, e guardo. Tutt’intorno a me, alla distanza di un raggio di cinquanta metri, gira la circonferenza di un edificio formato da tre ordini di logge; ogni loggia si articola in trentatre celle: gli assassini in basso, i pazzi in mezzo, e i politici in alto, per un totale di novantanove reclusi. Dal mio scranno girevole li tengo tutti sotto controllo, e poiché li spio da una feritoia continua, nessuno di loro può sapere quando io sia di vedetta, né in quale preciso momento il mio sguardo sia orientato verso di lui. Questo incute in ognuno di loro l’idea di essere visto ininterrottamente, ciò che inibendolo e paralizzandolo ne fa un detenuto ideale. Ideale, voglio dire, al punto da trasformarsi nel proprio custode, poiché interiorizzando il mio sguardo ha finito con il sentirsi guardato in continuità da se stesso.

La guardia, il guardiano, è chi guarda: se solo l’uomo avesse un po’ più di coscienza etimologica, quanti inconvenienti si eviterebbero! Anche la cura delle anime si riduce a una questione ottica: chi ne dubitasse, si soffermi a ragionare sul significato della parola episcopo. Di più: non è forse ormai un luogo comune affermare che prevenire è meglio che punire? Ebbene, sfido chiunque a prevenire senza un’adeguata previsione; e prevedere il male non significa contemplarlo al di sotto delle apparenze, cioè, letteralmente, sospettarlo? Uno spirito contraddittorio potrà obiettare che, in relazione a uomini che la società ha definitivamente esiliato dal proprio cospetto, queste affermazioni non hanno senso: ricorderò allora che, a differenza dell’inferno di Dio, l’inferno degli uomini non impedisce al peccatore di reiterare il proprio peccato, sicché è statisticamente probabile che anche in prigione l’assassino ucciderà, il ladro ruberà, il sodomita peccherà contro la natura, quando non vogliano scambiarsi i ruoli e le competenze. Dunque, signori, è tutto molto semplice: i detenuti siano lo spettacolo, il carcere una sinossi, e l’intero corpo di guardia si riduca a una sola persona: un voyeur. Non siamo forse stati educati a sufficienza, quando da bambini venivamo ammoniti a non peccare perché – risento ancora la voce del parroco – «Dio ti vede»? Un occhio inscritto in un triangolo, ecco la religione; un occhio inscritto in un cerchio, ecco la riforma carceraria.

Un complesso sistema di tubazioni a raggera mi porta anche i suoni: basta che io tolga l’opercolo a uno dei novantanove ugelli che si affacciano alla mia specola per sentire le bestemmie e le preghiere di ognuno, il suo pianto, un tamburellare di dita, un colpo di tosse: per questo dopo qualche mese di detenzione i prigionieri più pavidi divengono pressoché muti, mentre i più facinorosi si abbandonano a ogni sorta di violenza verbale con accresciuto spirito di rivalsa. C’è stato un tempo in cui mi divertivo a provocare i primi e a minacciare i secondi, come un direttore d’orchestra che diriga i suoi strumentisti; ora, da tempo, lascio che ognuno segua la propria indole; una subdola sazietà si è da tempo impossessata di me, e l’unico modo per combatterla, o meglio per ritardarla, è stato escogitare sempre nuove migliorie al mio sistema. Per esempio ho fatto ricoprire la mia torretta di specchi (trentatre lastre che la sfaccettano come un diamante), in modo che guardando verso di essa ogni detenuto trovi la propria sagoma in miniatura, edificante memento della propria impotenza e della mia autorità. Ho aggiunto raggere che rendono la pianta dell’edificio simile a un fiore, aggetti che impediscono la vista laterale, gronde e balaustre che riducono la prospettiva al suo fuoco, e quel fuoco è quella piccola sagoma su quella piccola porzione di specchio. Finalmente, ho disposto la copertura dell’arengo, eliminando con la vista del cielo la speranza in un mondo migliore: infatti, come potremmo ancora dirci illuminati, se non instillassimo nella parte peggiore della società l’idea che i conti si regolano qui, su questa terra? Meno i prigionieri vedranno, più in proporzione crescerà il mio sguardo, come quello dell’orbo nel paese dei ciechi, ciò che ancora una volta conferma la nostra più radicata convinzione: non essere l’ottica se non una forma di filosofia (del resto, altrimenti, perché useremmo termini come speculare o riflettere?). Io, l’Ispettore, sono ad un tempo il legislatore e il sapiente, il sacerdote e il ministro; vedendo tutti so tutto, e in quanto onnisciente sono Dio. Il Dio di Santo Stefano, a un tiro di schioppo da Ventotene, nello sparuto arcipelago delle Isole Pontine, regno di sua maestà il Borbone. Panossi, sinossi… pansinossi, sinpanossi… sin-simpa-panossi… vedente ma non evidente, per niente… speculatore catafratto di spicchi di specchi, al centro di una corolla di trentatré petali, e poi trentatré e trentatré, come nella visione del sommo Dante, e io l’uno da cui tutto promana, o il cento che tutto completa, origine e fine, senso ultimo e primo…

Non più visto da tempo immemorabile, non ho più viso: se mi imbattessi in me stesso, non mi riconoscerei. Sono arretrato in me fino a perdere i miei contorni: nemmeno dei miei occhi ho coscienza, perché tutto è rappresentazione mentale, sovranamente libera dai sensi. Loro, i novantanove reietti, sono in me, inscritti nella mia entelechia come larve oniriche, pallide modulazioni dell’essere. Compresenti, tutti, al completo, oh quanto vorrei liberarmene! Rimanere solo con me stesso, almeno un istante, o Signore! O Borbone! O Jeremy Bentham! Aiutatemi! La ruota si è messa a girare, le celle vorticano come in una giostra, giro su me stesso per seguirne il moto e isolarle ma vanno troppo veloci, trascorrono l’una nell’altra in un’unica scia, tre scie sovrapposte come gli anelli di Saturno, e Saturno dunque son io, il pianeta dei melanconici e dei dissennati, il perno, d’inverno… del nostro discontento, l’inverno… o l’inferno, più interno… dove in asse con le celle fuggitive mi volvo, m’avvito su me stesso come una trivella intesa all’abisso, quello che ecco, adesso intuisco, io vedo, lo vedo! Laggiù, dove i miei novantanove compagni mi trascinano con il loro peso, nello sprofondo, dove è tale l’orrore che lo sguardo non regge, ma io sono l’Ispettore, e vedo… e vedo… e vedo. Vedo quello che non avrei mai voluto vedere.

E vedo che quello mi vede, e io sono suo.

Ventotene, 27 giugno 2014
(Il racconto è stato pubblicato in L’isola delle storie, ed. Ultima spiaggia, 2014)

 

 

***

 

Nota al racconto
di Antonella Falco

Il Panopticon è una struttura architettonica, adibita a carcere, ideata dal filosofo e giurista inglese Jeremy Bentham nella seconda metà del XVIII secolo. Tale edificio presenta una pianta circolare nell’ambito della quale sono disposte le celle dei detenuti, munite tutte di due finestre, una rivolta verso l’esterno, per far entrare la luce, e l’altra verso l’interno, in direzione di una torre centrale nella quale siede il sorvegliante. Caratteristica peculiare  di questa tipologia di carcere è che al recluso non è mai dato di sapere quando e se sia sottoposto a sorveglianza, avendo il custode la potenziale facoltà di osservare tutti nello stesso momento. Proprio dall’impossibilità, per il detenuto, di stabilire quando e se sia effettivamente osservato e dalla consapevolezza della potenziale onniscienza visiva del guardiano deriverebbe secondo Bentham una sorta di interiorizzazione della disciplina: il mantenimento dell’ordine, l’ottemperanza delle regole e la docilità di comportamento diverrebbero per il recluso un atto pressoché automatico. L’Idea del Panopticon risale al 1791 (o meglio al 1791 risale la pubblicazione di Panopticon o la casa d’ispezione, scritto però nel 1786) e trova una delle sue prime applicazioni pratiche nel 1795, allorché il governo borbonico ordina la costruzione del carcere di Santo Stefano, sull’omonimo isolotto dell’arcipelago Pontino. Nel corso  degli anni questa struttura – l’unica in Italia ad ispirarsi compiutamente ai principi architettonici dettati da Bentham – ha ospitato non solo detenuti comuni ma anche dissidenti politici, accogliendo tanto i rivoluzionari dei moti del 1799 e del 1848 (tra questi Silvio Spaventa e Luigi Settembrini) quanto gli oppositori di Mussolini durante il ventennio fascista (nota è la detenzione di Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi e del futuro Presidente della Repubblica Sandro Pertini). Terminato il secondo conflitto mondiale il carcere torna ad accogliere criminali comuni per poi essere definitivamente dismesso nel 1965.

Contigua a quella di Santo Stefano è l’isola di Ventotene che ormai da quattro anni ospita il festival letterario Gita al faro: un drappello di scrittori e scrittrici approda su quello stretto lembo di terra che negli anni Quaranta vide nascere il primo manifesto di un’Europa libera e unita e vi trascorre una settimana, fra presentazioni di libri, laboratori di scrittura per i piccoli lettori e passeggiate alla scoperta del patrimonio paesaggistico, artistico culturale e storico dell’isola. Il festival si conclude con due serate di reading durante le quali gli scrittori leggono al pubblico i racconti inediti che hanno scritto durante il loro soggiorno, racconti ispirati all’isola e dall’isola.

Nel giugno del 2014 Michele Mari è tra gli autori partecipanti alla terza edizione del festival e il suo racconto, Panopticon,  nasce appunto dalle suggestioni di una gita al carcere di Santo Stefano compiuta durante quella settimana.

In Panopticon Mari descrive in modo accurato la conformazione architettonica del “carcere veditutto”, sottolineando come lo sguardo potenzialmente ininterrotto del sorvegliante trasformi ciascun prigioniero in un «detenuto ideale»: «Ideale, voglio dire, al punto da trasformarsi nel proprio custode, poiché interiorizzando il mio sguardo ha finito con il sentirsi guardato in continuità da se stesso», così si esprime l’Ispettore, incline ad abbandonarsi a sottili riflessioni sulla natura del proprio ruolo e a discettare di questioni etimologiche: «La guardia, il guardiano, è chi guarda: se solo l’uomo avesse un po’ più di coscienza etimologica, quanti inconvenienti si eviterebbero! Anche la cura delle anime si riduce a una questione di ottica: chi ne dubitasse, si soffermi a ragionare sul significato della parola episcopo».

Un Ispettore compiaciuto del proprio ruolo e consapevole delle implicazioni voyeuristiche che esso comporta – «i detenuti siano lo spettacolo, il carcere una sinossi, e l’intero corpo di guardia si riduca a una sola persona: un voyeur» – e non immune alla tentazione di cedere al gioco sadico del gatto col topo, padroneggiando abilmente gli strumenti che la nuova tipologia di carcere mette a disposizione, come ad esempio il rudimentale telefono, costituito da «un complesso sistema di tubazioni a raggera» in grado di far arrivare all’orecchio del sorvegliante i pianti o le imprecazioni dei prigionieri, ma anche di farlo comunicare con loro, rendendo, attraverso provocazioni e minacce, ancora più incombente e onnipervasiva la propria presenza.

È interessante notare come lo stesso Bentham, non pago di aver progettato questo ampio apparato carcerario, abbia proposto a più riprese e con zelo a dir poco sospetto, di esserne anche il primo sorvegliante. Altro aspetto da non sottovalutare è che la torretta centrale, oltre ad essere la sede del custode, è aperta anche ad altri eventuali visitatori, non solo parenti di detenuti ma anche semplici curiosi. La rete voyeuristica ideata da Bentham è dunque molto più larga di quanto si possa immaginare in un primo momento e nella mente del filosofo utilitarista inglese può trovare applicazioni anche al di fuori del sistema carcerario. Infatti il panopticon si presta a divenire modello ideale di altre strutture atte a tenere sotto controllo un gran numero di persone entro uno spazio delimitato, quali ad esempio, ospizi, ospedali, manicomi, orfanotrofi e fabbriche.

Mediante il suo panopticon Bentham ha concepito una nuova forma di dominio dell’uomo sull’uomo, raffinata e moderna, che Michel Foucault, nel suo saggio Sorvegliare e punire, individua come paradigma del potere nell’ambito della società contemporanea, un potere che non incombe più dall’alto ma pervade il tessuto sociale dall’interno ramificandosi in esso e creando una fitta rete di correlazioni.

Ma come modello di un potere invisibile il panopticon oltre a far proseliti nel futuro – si pensi al Grande Fratello orwelliano –  presenta delle attinenze anche con un mito dell’antichità, ossia il noto episodio dell’Anello di Gige che Platone nel secondo libro della Repubblica mette in bocca al personaggio di Glaucone. Secondo questo mito Gige, pastore al servizio del re di Lidia Candaule, trova in una voragine apertasi in seguito a un terremoto, un gigantesco cavallo di bronzo contenente  il cadavere di un guerriero con al dito un bellissimo e prezioso anello. Gige se ne impadronisce e indossandolo scopre casualmente che girando il castone verso l’interno della mano l’anello conferisce a chi lo porta la facoltà di diventare invisibile, effetto che scompare semplicemente rigirando il castone. È proprio usando il potere dell’anello che Gige riesce a sedurre la regina e, con il suo aiuto, a uccidere Candaule, prendendone il posto. Nel dialogo platonico, Glaucone menziona il mito di Gige per dimostrare che nessun uomo, sebbene virtuoso, può resistere alla tentazione di compiere il male, se ha la garanzia di non essere visto dagli altri. Dunque la condotta morale non sarebbe che una costruzione della società, un vincolo che l’essere umano rispetta per il timore di incorrere in sanzioni e castighi. Ma se questi scompaiono, perché nessuno può vedere l’azione riprovevole, allora anche la morale viene meno. Secondo Glaucone, se questo anello venisse dato a due uomini, uno virtuoso e l’altro empio, questi, non più condizionati dall’obbligo di dover rendere conto delle proprie azioni, si comporterebbero allo stesso modo, perseguendo il proprio utile a spregio delle leggi della comunità.

A ben vedere la riforma carceraria di Bentham non fa altro che prendere tale principio e mutarlo di prospettiva: trovarsi incessantemente sotto lo sguardo invisibile di un sorvegliante è un deterrente che non solo costringe a non trasgredire le leggi ma addirittura cancella il pensiero stesso di volerlo fare. Concetto che Mari esprime nel suo racconto in una perfetta sintesi iconografica: «Non siamo forse stati educati a sufficienza, quando da bambini venivamo ammoniti a non peccare perché – risento ancora la voce del parroco – “Dio ti vede”? Un occhio inscritto in un triangolo, ecco la religione; un occhio inscritto in un cerchio, ecco la riforma carceraria».

Se si osserva dall’alto il carcere di Santo Stefano, ci si accorge che la sua forma a ferro di cavallo ne fa un panopticon perfetto e che il panopticon altro non è che un anfiteatro: «la circonferenza di un edificio formato da tre ordini di logge» può infatti idealmente tradursi in una serie di palchi che si affacciano tutti sulla stessa scena, ma nella dialettica infinita del vedere e dell’essere visti il gioco ottico si inverte e la rappresentazione del castigo e del controllo si sposta all’interno delle singole celle. Ogni cella, un piccolo teatro. Ogni detenuto, un attore che recita il proprio personale dramma. Non è un caso che Mari inizi il suo racconto collocando proprio in un teatro l’istante preciso in cui nella mente di Bentham sia balenata l’intuizione folgorante del panopticon: «l’idea mi venne a teatro, una ventina d’anni fa. […] Ebbi la netta sensazione che Amleto, voglio dire Kean, stesse guardando dritto verso di me, anzi che il suo sguardo cercasse il mio, intercettandolo e ricacciandolo indietro, come a voler invertire il nostro rapporto, o meglio come se in quel momento, nel palco, io fossi lo spettacolo, e lui, sulla scena, lo spettatore». Ma nel racconto di Mari quella che va in scena non è soltanto la punizione dei condannati ma anche, e soprattutto, l’ossessione del carceriere.

L’inconscio piacere perverso, a metà strada tra voyeurismo e sadismo, che deve aver ispirato Bentham e che Mari trasfonde nel protagonista del suo racconto si fa infatti accanimento e trascina il sorvegliante in una spirale di follia allucinata e fantasmatica fino a tradursi in una vera e propria discesa agli inferi.

Il finale di questo racconto – uno dei più efficaci che Mari abbia scritto – è di grande potenza immaginifica e mostra il sorvegliante soccombere al proprio stesso potere, sopraffatto dalla medesima ossessione di sopraffare gli altri spiandoli. Nel vorticoso delirio che ne consegue, la scena che si apre davanti agli occhi dell’Ispettore – e per conseguenza del lettore – è un possente affresco dantesco: le celle divengono gironi infernali rapiti in un turbinio incessante e sempre più rapido, in una ridda di immagini che si fanno via via più indistinte e «trascorrono l’una nell’altra in un’unica scia, tre scie sovrapposte come gli anelli di Saturno». È un’implacabile discesa all’inferno, una catabasi senza possibilità di ritorno. Che cosa attenda l’Ispettore laggiù, nell’abisso, Mari non lo dice espressamente ma lo lascia intuire. Eppure la vera domanda è cosa si cela dietro l’essere luciferino che attende il sorvegliante nello sprofondo? Non è forse la sua stessa follia, contemplata nell’atto preciso di compiersi? «L’istante in cui la mente delirante piomba per sempre nel buio», scrive Mari in un’altra sua opera, raccontando un’altra storia, che è pur sempre la storia di un faccia a faccia con l’Altro che abita in noi, il lato folle, oscuro, mostruoso, ossessivo.

Se nella visione di Foucault il panopticon di Bentham è inteso come modello del potere nella società contemporanea, nella visione di Mari è metafora del potere magnetico e perverso che può esercitare un’idea quando questa finisca per radicarsi in modo ossessivo dentro la mente di una persona, fino a pervadere la vita intera e sostituirsi ad essa. In questo racconto, infatti, il dominatore viene dominato dalla sua idea dominante. Essa, divenuta ossessione, innesca un processo di vampirizzazione dell’esistenza che svuotata di tutto si riduce a null’altro che alla reiterazione dell’Idea, libera ormai di contemplare se stessa senza più distrazioni: «Non più visto da tempo immemorabile, non ho più viso: se mi imbattessi in me stesso, non mi riconoscerei. Sono arretrato in me fino a perdere i miei contorni: nemmeno dei miei occhi ho coscienza, perché tutto è rappresentazione mentale, sovranamente libera dai sensi».

L’utile, la tecnica, e il capitalismo: alcune note su quello che scrive Severino

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di Domenico Talia

vitruvian-machine

In questo tempo esiste una sorta di ossessione verso l’«utile». Un’attenzione quasi molesta verso questo concetto che si è allontanato sempre più dal significato originale legato alle effettive necessità che le persone hanno per le cose utili. La definizione di ciò che è utile spesso non è sufficientemente ragionata. È guidata dal mondo della produzione e non dalle concrete esigenze della natura umana e questi due estremi sembra si allontanino sempre di più col passare del tempo e con l’affermarsi di logiche economiche sempre più globali e inafferrabili.

sporgersi e intrecciare

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di Giusi Drago
reti_pescatori_camogli

che cos’è un libro?

tante parole per un attimo sovrane
su diversi volumi di silenzio, in lotta
con l’interrogativo se da dire ci sia qualcosa

di vero e di vivo, senza troppo amore per l’ordine
del mondo, nel libro è scritto: vietato
il deposito di rifiuti ingombranti

***

che il mondo agisca in aderenza
al dato, invece tutto sporge avanza
si allunga, anche le parole: come esche sporgono
due tulipani rossi dalla terra, in punta di trapano si allunga
lo scoglio dentro l’acqua, avamposto violento e irregolare,
si tende nel vuoto un’edera pelosa, si allarga a macchia
un’erbaccia di tundra, le calle dipinte da julio paz
spingono foglie verso la donna nuda
con gli occhi tagliati via dalla cornice

***

finita la stagione della pesca, che la rete si disfi nell’acqua,
niente esche artificiali o dannose, solo reti
lasciate a degradarsi in mare

anche l’incontro e la separazione sono corde
intrecciate: non c’è incontro
se i due che si trovano vicini non sono amici,
non c’è separazione quando sono lontani

***

è la vita, è una rete umida
di benedizioni e rimproveri
che ci buttano addosso

nascosti sotto fino a che
la rete aderisce e soffoca

né mia né tua: niente di personale
nel tono di parole che si fanno giustizia
da sole, nelle lenti a specchio, nelle radici secche
del collettivo, nella monotonia delle lamiere
dove pioggia sporca batte

non c’è separazione non c’è incontro
se non si fa amicizia con occhi sessi e parole

L’esperienza di «Nazione Indiana» nella storia del web letterario italiano

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Le parole e le cose rilancia un lungo ed esaustivo articolo/saggio di Andrea Lombardi, uscito sul numero 19 dell’«Ulisse» dal titolo Forme e effetti della scrittura elettronica. Nei commenti si sta sviluppando un’interessantissima discussione.

L’esperienza di «Nazione Indiana» nella storia del web letterario italiano

Ma «Nazione Indiana» risulta l’esperienza cruciale del web letterario italiano anche per altri motivi. Non solo il blog degli ‘indiani’ è stato capace di costituirsi come fulcro del dibattito online e di costruire intorno ad esso una comunità, ma nel percorso che va dalla sua fondazione alla scissione del 2005 si sono manifestate tutte le peculiarità, positive e negative, tipiche dello spazio letterario del web.

 
 

Bracciate #4 – Gianluca Garrapa

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Il quarto racconto della rubrica  Bracciate è «Questo è il mondo», testo ingannevole e ipnotico di Gianluca Garrapa, nato nel 1975, in provincia di Lecce; conduttore radiofonico; comico; counselor all’ascolto ad orientamento psicoanalitico; collabora per Satisfiction e rivista Verde; sue cose su Gammm, Compostx, Nazione Indiana, Critica Impura, Il fatto quotidiano, Il sole24ore.

 

Questo è il mondo

di Gianluca Garrapa

Schillaci

 

  1. I tralicci segnano partiture elettriche, un organismo informe in via di definizione e di putrefazione. L’organismo informe è nella testa d’un uomo che pedala lungo l’argine destro del fiume. La pista ciclabile è la base minore d’un terrapieno idealmente trapezoidale, la strada provinciale a est, le campagne e i casolari, lappate dal fiume, a ovest.

Quanto all’uomo, la percezione d’essere organismo informe lo sfiora in questo momento: fermo, studia l’ansa del fiume persa a destra, nell’interiorità della campagna post-industriale: contempla il monocromatico prato, vasti orizzonti interrotti di gomiti, riallineati da una svolta opposta su un altro amplio orizzonte di strade. L’uomo spinge il pedale…

 

*hanno sistemato i cadaveri fuori. rifiuti di uomini morti. sillabe colorate, un tempo sguainanti sfumature, ora perse in una confusa regressione cromatica. materassi. matematica verticale del cencio. frasi rotte attorno a vestiti. erano vestiti. stracciati buchi ora. sono buchi. l’umano che non c’è. c’era. ci stava dentro. ora solo colori. colori, ma sempre buchi. mancanze. rifiuti cancerogeni travestiti di terra e fiori.*

 

  1. Il bottone nero del gilet, sembra vestito alla francese, secondo un gusto, però, che è più quello d’un francese che si figuri d’essere italiano. Non si può dire, per questo, che scimmiotti i francesi e, d’altra parte, il viso tradisce discendenze inglesi ma ciò non basta a farne un inglese e l’osservatore scrupoloso non tarderebbe a scoprire che razza di sempliciotto provinciale celi il suo sembrare raffinato straniero, e nemmeno questo renderebbe giustizia all’indefinibilità del suo modo d’apparire, eppure, tanto vistosa alla fine d’un’accurata indagine, quanto inosservabile a un’occhiata superficiale, da quest’uomo trapela un’intelligenza vivace, un lampeggiamento di spirito sovente equivocabile per pazzia, una pazzia piacevole però, che sembrerebbe pura follia se ci si fermasse a considerare la semplicità del portamento sgraziato, fuggevole, evanescente, incomunicabile. Il peggio di costui, a un più attento vaglio interiore, si trasforma nel meglio e il meglio, procedendo oltre, diventa il peggio del peggio, e il peggio del peggio, non si sa come, lascia il posto ad altro ed eccoti il meglio del meglio, cosicché, a voler scandagliare la psiche demiurgica di deliri&fobie, il profondo interiore inguainato nelle difese razionali della normalità, non si caverebbe un ragno dal buco se non cortocircuitando: dapprima un ragno che poi diventa un buco che poi diviene a sua volta un ragno. Un Hitler col cuore di Gandhi nel cui fondo di cuore c’è un Al Capone il cui recondito angolo cardiaco ospita una Madre Teresa di Calcutta che a sua volta è un Hitler e insomma non comprendi se le sue azioni si producano in seno a un’idea di bene o di male, non adegua la sua bontà o la sua cattiveria secondo l’interlocutore che ha di fronte: non è buono con i buoni, malvagio coi malvagi, né buono coi malvagi o malvagio coi buoni: costui agisce come gli pare, non per comodità, capriccio, utilità, o cosa, agisce e basta.

Il ragazzo lo ascolta seduto per terra, rannicchiate le gambe al petto per potervi poggiare il capo sulle ginocchia, le parole dell’uomo insonorizzano l’ambiente attorno all’anima del giovane: ora è natura. Il fuoco borbotta una viva partecipazione, sfaccetta ombre intorno, lingue di fotoni, barbagli stroboscopici farfuglianti, trasformisti, peduncoli brillanti, glitter di clorofilla, luna, fiume, schiocchi di carta stagnola a opera di ben nutriti ratti, il tronco, osserva il tronco e…

 

  1. Il ragazzo si sorprende a percepire, suo malgrado, un’immagine interiore del suo vissuto sovrapporsi al racconto dell’uomo…

Il volto dell’uomo, l’intero aspetto psicofisico, pure il mondo intorno, è cangiante, sembiante prima l’albero, poi il tronco, la corteccia, la forma, il colore, un ovale, un volto, un mare minimo di segni, un simbolo, un colore puro, poi nero, poi il marrone, poi il rosso, poi sangue, la morte, poi un’altra cosa, poi rosa, poi carne e uomo e poi la pelle d’un serpente, il seno della donna, poi la mamma, poi si confonde al cielo, poi terra, poi tutto, poi nulla e l’uomo, in giri di frasi più lunghi, in tempi più torniti, in sospensioni di luce verbale più dilatata, guida, visibilmente sciamanico, nel trauma del reale, dietro l’irreale, nell’infrareale: il ragazzo non s’accorge che l’albero è fermo, poi sinuoso, poi deciso, poi marezzato, poi sciolto in scaglie d’oro&sangue globulare, è il suo stesso esserci a divenire altro e a non ostacolare il guizzo folle dentro la persuasione.

L’uomo persuade.

Dissuade le forme, il contesto muta, muta pure il ragazzo nella deformazione del mondo, non s’accorge che l’albero è lì, muto, immobile, incurante a ogni presa di posizione onirica dell’uomo e l’uomo, eccolo lì, a scoppiettare informe: il nome dell’oggetto è tolto e rimesso: il ragazzo si figura casa e l’uomo parla magicamente e l’albero è una casa, la casa fa dell’uomo un padre e del ragazzo un figlio, poi il ragazzo è un ribelle.

Fuggire e disobbedire, e allora l’albero è una nave di primizie su un’isola lontana e l’uomo un allettante gran Lucignolo senza preveggenza asinina, senza colpa, né vendetta, né peccato, poi il ragazzo si pente in cuor suo e allora l’uomo diventa bonario e il ragazzo un prodigo figliol_ritornante e l’albero qualcos’altro per assecondare il ragazzo, lusingare, accompagnare, finire gli atti mentali e realizzarli, adeguarlo al…

Ecco, per farla breve: l’uomo e il tutto_intorno diventano ciò che il ragazzo desidera o teme suo malgrado; e come riesce l’uomo a trasformare il mondo adeguandolo alla mente del ragazzo? E come non si capacita il ragazzo che dietro le cose c’è uno specchio moltiplicato a esplodere le dimensioni? A confondere? L’uomo vede, è lo sguardo stesso del ragazzo, ecco: è un capacissimo medium, un parto continuo di visioni, indifferenti porzioni immaginarie di reale…

 

  1. Poi il momento giusto: il ragazzo scivola con naturalezza tra verità e falsità saltando da un luogo comune all’altro, il suo corpo prima coccolato, poi strappato.

I suoi amici hanno visto lo stesso uomo in altre miliardi di forme: era un padre, poi una madre, poi un fratello, poi un nonno, una donna.

Ecco il mondo: il buon padre è un criminale pedofilo ma pure un angelo custode, poi una cattivissima madre picchia_brucia_mordicchia le braccia minuscolo del cucciolo umano,

ma è una dolcissima madonna pietosa, certo sarebbe morta, infatti morì, per mano del figlio ormai d’ossa rotte e unghie tolte vie di netto, ecco: l’uomo ha trasformato tutto, non c’è nulla di vero e di falso, nulla di nulla.

Impossibile definire quello che sembra non accadere e avviene.

Il ragazzo scopre l’inganno.

L’albero è un albero indipendente dalla mente dell’uomo, perché le cose dementi e sprovviste d’anima e sogni non puoi manipolarle, l’albero sta lì, immobile, zitto, e il nodo della corda cricchia, corsoio lieve, e ondeggia.

Sì, l’albero non mente, l’impostore galleggia, però.

Gli altri ragazzi s’oppongono, vogliono farsi abbindolare, staccare l’uomo dal pendolo ipnotico del nodo scorsoio, piangerlo, pregarlo, aspettare un altro_costui che di nuovo trasformi per loro il posto che desiderano,

omologare alberi e pianeti: il ragazzo che sa, è un bailamme d’organi gettato in pasto ai cani.

 

  1. Non c’è significante e il significato indispone dispotico.

Chi ha ragione? L’uomo impostore? Il ragazzo era o non era impostore?

Non so se i ragazzi_assassini e tumulanti l’uomo, non sappiamo se quei ragazzi, adesso: stanno ingannando, deviando il significato del termine impostore e ora impostore significhi l’opposto di ciò che volevo dire poco fa… fatto sta che qualcuno usa i vostri occhi: potreste ammazzare allegramente vostra madre senza saperlo, tagliare i testicoli a vostro fratello senza volerlo, c’è il nulla in voi e nessuna via d’entrata: siete fuori e il corpo va, agisce e voi… aspettate semplicemente la morte vostra o altrui.

Viaggio in Bosnia (1/2)

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di Giovanni Accardo

Una domenica pomeriggio a Sarajevo

Il centro storico di Sarajevo, la nostra prima meta, non presenta tantissimi segni dei quasi quattro anni di assedio da parte dei serbi, anche la biblioteca nazionale incendiata nell’agosto del 1992 è stata completamente restaurata. Ogni tanto la facciata di un palazzo mostra i fori dei proiettili, mentre lungo i marciapiedi ci s’imbatte nei segni di una granata ricoperti di cera rossa: le chiamano le «rose di Sarajevo». Al ponte Latino una targa ricorda il punto in cui il 28 giugno 1914 il nazionalista serbo Gavrilo Princip attentò alla vita dell’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono dell’Impero austroungarico, causando lo scoppio della Prima guerra mondiale. Ecco, è più facile trovare targhe che ricordano i civili uccisi dai tanti cecchini che affollavano Sarajevo, attirati da tutte le parti del mondo. Negli anni della guerra c’era un’agenzia nelle Marche che organizzava week-end di guerra: partivi il venerdì, andavi in Bosnia a sparare, la domenica sera ritornavi a casa e il lunedì mattina andavi al lavoro, contento di avere partecipato ad una guerra e magari ammazzato qualcuno senza sapere il perché. L’atmosfera domenicale della città è rilassata, gli abitanti passeggiano o siedono nei caffè, l’architettura e le numerose moschee ricordano la lunga presenza turca, ma la vera natura di Sarajevo è multietnica e multireligiosa, come testimoniano le sinagoghe e la cattedrale cristiana. Sul tram che dopo cena ci riporta in albergo, osservo le ragazze che tornano a casa, non sono molto diverse dalle nostre studentesse, hanno gli stessi sorrisi e lo stesso abbigliamento; mi domando quanti morti ci sono stati nelle loro famiglie e cosa ha significato la guerra per loro. Noi ancora non ci siamo veramente entrati, abbiamo girato per Sarajevo come dei turisti in una qualunque capitale europea: potevamo essere a Istanbul o in un quartiere multietnico di Vienna.

 

Sarajevo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sarajevo tra guerra e pace

In periferia, dove ci spostiamo il giorno dopo, diversi palazzi appaiono ancora bucati dalle pallottole che i serbi sparavano quotidianamente dalle colline circostanti la città. Andiamo a visitare il tunnel che venne scavato clandestinamente sotto la pista dell’aeroporto su suggerimento di due iraniani andati a combattere al fianco dei musulmani; esso permetteva di far arrivare i rifornimenti attraverso l’unico punto della città non controllato dai serbi, di fronte al monte Igman. Se Sarajevo ha potuto resistere per così tanti giorni, è stato grazie al cibo, alle armi e alle truppe che passavano attraverso il tunnel, spesso in condizioni difficilissime, visto che era alto al massimo 160 centimetri e si allagava frequentemente, perciò spesso bisognava chiuderlo. Qui incontriamo Abid Jašar, dalla cui cantina partiva il tunnel, e vediamo le foto della sua complessa costruzione. Abid racconta agli studenti che gli hanno proposto più volte di entrare in politica, ma lui i politici non vuole neppure vederli, credo nelle persone, dice, ma non nei politici che parlano e fanno affari, senza preoccuparsi della gente comune. Poco prima di pranzo raggiungiamo il museo della Resistenza, dove una mostra fotografica documenta i lunghi mesi di assedio; a farci da guida è Elvir Mandra, scappato durante la guerra proprio attraverso il tunnel e arrivato, dopo un viaggio estremamente rischioso e senza un soldo in tasca, a Bolzano, dove venne aiutato dalla Caritas e dove per tre anni ha lavorato come operaio alla Finstral. Elvir, ritornato a vivere in patria, ci dice che il suo desiderio, come quello della gran parte dei suoi concittadini, è di vivere in pace e costruire un futuro per i propri figli. “Nessuno di noi pensava alla guerra, eravamo così immersi nella bellezza della vita che neppure ci preoccupavamo di capire cosa stava succedendo. Nessuno dei miei amici conosceva il nome di un politico, e i miei amici erano musulmani, cattolici, serbi, rom, eravamo fratelli, giocavamo a calcio e bevevamo acqua dalla stessa bottiglia, dividevamo il panino e qualche volta anche i vestiti. Se qualcuno ci avesse detto che sarebbe scoppiata una guerra e che Sarajevo sarebbe stata bombardata, nessuno di noi ci avrebbe creduto. Ora, invece, siamo senza soldi e senza lavoro, io sopravvivo facendo la guida, grazie alle offerte dei turisti cerco di crescere mio figlio, spero che diventi un bravo violinista.” Durante la guerra Elvir è stato ferito allo stomaco da un cecchino, mentre portava in ospedale il fratello ferito alle gambe. Sui cecchini ci racconta una storia terribile di cui è stato testimone: una mamma con un neonato in braccio stava per attraversare la strada, un cecchino ha mirato al neonato, facendogli saltare la testa con una tale precisione che la mamma quasi non si era accorta che il figlio era stato colpito; la mamma ha continuato a camminare, mentre la testa rotolava in terra. I ragazzi sono talmente inorriditi che non riescono neppure a fare domande.

Nel primo pomeriggio ci spostiamo nella parte collinare della città, qui ha sede l’associazione «L’educazione costruisce la Bosnia Erzegovina», fondata dal generale Jovan Divjak con lo scopo di aiutare i tanti orfani che la guerra ha causato. Il generale, che è stato membro della guardia personale di Tito e ha guidato la difesa di Sarajevo, ci racconta la sua storia; gli studenti si mostrano curiosi e affascinati dalla sua cordialità, lo tempestano di domande, vogliono capire come ha fatto la città a resistere tutti quei giorni senza cibo, acqua, riscaldamento e con armi di fortuna. I sarajevesi, dice il generale, non volevano permettere che la loro città venisse rasa al suolo dai serbi, e un ruolo fondamentale nella resistenza l’ha avuta la cultura. Durante l’assedio, infatti, si sono continuati a svolgere, in luoghi di fortuna e particolarmente protetti, concerti, spettacoli teatrali, mostre, rassegne cinematografiche per dare una parvenza di normalità, per far sentire che la città era ancora viva e credeva nella sua salvezza. Nonostante ciò i morti sono stati oltre 11 mila, di cui almeno mille bambini. Filippo gli chiede come mai, pur essendo serbo (Divjak è nato a Belgrado) ha difeso Sarajevo. “Che cosa avrei dovuto fare?”, risponde. “Vivevo qui da 27 anni e mi sentivo pienamente parte di questa gente. Credo che l’identità sia qualcosa che si costruisce giorno per giorno, vivendo in un posto e costruendo legami affettivi. Non la definisce la città in cui sei nato, magari per caso.” Stefania gli domanda se ha mai ucciso un uomo, Divjak si mette a ridere, mentre io temevo che si irritasse. “Non ho mai sparato neppure ad un animale”, confessa, “nell’esercito jugoslavo non ero molto amato, perché alle armi ho sempre preferito la musica, l’arte, la letteratura. Quello che amo più di tutto”, dice col suo tono affabile e a tratti scherzoso, “è la bellezza.” Alla domanda di Francesco, se non avesse avuto sentore dell’aria che tirava, risponde con sincerità: “Ricordo che un giorno, in occasione di una cerimonia ufficiale in Kosovo, il nostro presidente di allora, Milosevic, parlando di unità nazionale, disse che qualora fosse servito, saremmo ricorsi anche alle armi. Mi ricordo che pensai: ma cosa sta dicendo? Una guerra fra noi? Non può essere! Non avrei mai immaginato che il mio paese potesse vivere quello che poi ha vissuto, e ancora oggi me ne faccio una colpa.” Divjak spera che a costruire un futuro di convivenza sia la scuola, attraverso dei programmi condivisi tra le diverse etnie, anche se al momento esse sono rigidamente separate, l’unico esempio di scuole miste sono quelle cattoliche, ad esempio quelle dei francescani.

 

Studenti e insegnanti col generale Divjak

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Manipolare la storia

Sul dramma della scuole separate e della mancanza di una storia condivisa concentra gran parte della sua conversazione con gli studenti la psichiatra di Tuzla Irfanka Pasagic, presidentessa dell’associazione «Tuzlanska Amica» che si occupa delle donne musulmane vittime degli stupri etnici e degli orfani che ne sono nati; è una delle più competenti psicoterapeute nella cura del Post-Traumatic Stress Disorder. Ancora una volta gli studenti domandano come sia potuta scoppiare una guerra così cruenta. La Pasagic accusa duramente il comportamento della stampa prima e durante la guerra, responsabile di una vera e propria disinformazione che ha fomentato l’odio e le violenze, attraverso articoli palesemente falsi e di parte che hanno stimolato l’irrazionalità delle persone. Le sue parole lasciano trasparire un forte pessimismo, soprattutto a causa delle scuole separate addirittura in dodici diversi distretti e con programmi completamente diversi. Il tema delle scuole etnicamente separate spinge gli studenti bolzanini a portare il discorso sulla nostra realtà, si domandano se in Alto Adige la convivenza è realmente raggiunta o se è possibile che un giorno possa esplodere un conflitto armato. Gli insegnanti li rassicurano. Io invece penso a quei partiti di lingua tedesca che lottano per l’autodeterminazione e la separazione dell’Alto Adige dall’Italia, ma non dico nulla. Penso ad Alexander Langer che per molti anni è stato giudicato un traditore del gruppo tedesco e perfino escluso dalla corsa a sindaco di Bolzano, perché si era rifiutato di dichiarare la propria appartenenza linguistica, ipocrita eufemismo per non chiamarla appartenenza etnica. Thomas chiede alla Pasagic se il tempo aiuterà a sistemare le cose. “Il tempo da solo non fa nulla”, risponde quasi seccata. Racconta poi di come serbi e musulmani abbiano iniziato a parlarsi dopo anni di silenzio. “All’inizio non avevano neppure il coraggio di guardarsi negli occhi”, dice. “Non è facile capire chi sta dall’altra parte, provare a vedere le cose dalla prospettiva dei carnefici. Non è facile ma bisogna lavorare affinché si possa parlarne. Noi ci siamo riusciti e abbiamo imparato i meccanismi che fanno parte di questo lavoro di riconciliazione, perciò adesso, quando osserviamo gruppi di altre nazioni farlo, ci viene da sorridere nel vedere che tutti si comportano nella stessa maniera: hanno le stesse reazioni emotive, dicono le stesse cose che dicevamo noi, fanno le stesse facce e le stesse espressioni. Poi, lentamente le cose cambiano, ci si riavvicina e si può ricominciare. Ma questo lavoro non lo fa lo scorrere del tempo, lo facciamo noi, col nostro impegno e la nostra consapevolezza. In tanti in Bosnia non credevano che sarebbe potuta accadere l’immane tragedia che poi si è consumata, la guerra fratricida che ha dissolto l’ex Jugoslavia”, continua, “ma l’uso manipolatorio della storia e della memoria, soprattutto da parte dei serbi, ha fatto sì che la tragedia covasse a lungo e infiammasse gli animi.”

 

Con Irfanka Pasagic

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ancora oggi non mancano esempi di manipolazione, come la grande croce nera eretta dai serbi nella zona di Kravica, lungo la strada che porta a Srebrenica, dove il 7 gennaio 1993 un loro battaglione venne colpito dall’esercito bosniaco. Nell’attacco morirono 44 serbi, ma nella lapide commemorativa non c’è alcuna traccia dell’episodio: né la data, né i nomi dei morti. C’è scritto, però, che dal 1992 al 1995 le vittime serbe sono state 3267 e che tra il 1941 e il 1945 sono stati uccisi 6469 serbi; facendo la somma si ottiene la cifra di 9736 vittime, molte di più degli oltre 8000 musulmani uccisi a Srebrenica nel luglio del 1995. Dunque, sommando episodi diversi della storia, si fa credere al viandante che va a Srebrenica, magari per visitare il memoriale del genocidio, che le vittime serbe siano state più numerose di quelle musulmane.

monumento a Kravica

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Lo scorso mese di marzo, Giovanni Accardo, insegnante di italiano e storia al Liceo “Pascoli” di Bolzano, in compagnia delle colleghe Valentina Mignolli e Maristella Partipilo, ha accompagnato in Bosnia Erzegovina gli studenti della classe quinta D/E. A far loro da guida Andrea Rizza della Fondazione Alexander Langer Stiftung che ha curato anche la preparazione dei ragazzi. Questo suo reportage è apparso, in forma ridotta, sul quotidiano “Alto Adige” del 02.04.2016.

Le prime tre immagini, in ordine di apparizione:
Sarajevo
Il gen. Divjak con gli studenti e gli insegnanti
Gli studenti con Irfanka Pasagic

 

I miei pezzi

1

DSC02397 (2)

di Andrea Inglese

(Queste prose sono tratte dal volume EX.IT – Materiali fuori contesto, a cura di Marco Giovenale, Mariangela Guatteri, Giulio Marzaioli, Michele Zaffarano, La Colornese – Tielleci, 2013. Le considero una sorta di ramificazione (di quarta parte fantasma) di La grande anitra. Le immagini (mie) sono state inserite in occasione della pubblicazione in rete.)

 

Dopo la nascita è importante migliorare, questo me l’hanno detto senza equivoci. È importante migliorare, con le proprie forze, per la valutazione continua. L’ascoltare, ad esempio, deve essere correttamente migliorato alla perfezione.

Divenire pietra

1

PIETRE-VIVEdi Antonio Russo de Vivo

È tutto finzione,
non Ci credete.

Un tempo conoscevo solo stanchezze da temere1dice Peter Handke, UN TEMPO-CONOSCEVO-SOLO-STANCHEZZE DA TEMERE, e indugiamo inebetiti su queste parole – le prime! – che iniziano una confessione/elogio della ‘stanchezza’, il Saggio sulla stanchezza (1989), e riscopriamo, nel fluire lento delle parole, che al di là delle diverse stanchezze ce n’è una, la Stanchezza, cui è lecito tendere con tutta la forza del disimpegno, un momento di pace e di comunione con il mondo:

il mondo, in silenzio, assolutamente senza parole, si racconta da sé […]; tutto il pacifico accadere era al contempo già racconto, e questo, a differenza delle azioni militari e delle guerre, che avevano bisogno di un cantore o di un cronista, nei miei occhi stanchi si strutturava da sé a epos, per di più – come mi parve lampante – a epos ideale: le immagini del mondo fugace inerivano di scatto, una via l’altra, e prendevano forma.2

Siamo da poco svegli, la vita ci si apre lenta e noi sentiamo ancora il peso rassicurante dell’immortalità, poiché il sonno è morte e da quella morte, ancora una volta, siamo tornati vivi, e tutto intorno si dipanano gli elementi, e noi godiamo ancora un po’, come stretti alle caviglie, tentati a tornare lì da dove siamo venuti, e invochiamo le nostre forze, ci risolleviamo, scacciamo i fumi della notte e ci sforziamo di riflettere, inebetiti, sulle parole di Handke affrontate al principio di tutto ciò che da quel momento accade.

Handke si volge indietro, SOLO, e poi ripercorre la sua vita e alla fine capisce. Lo sapevamo già, NOI, che ci sono stanchezze e c’è Stanchezza, l’abbiamo capito prima, quando eravamo giovani e aggiornati e lucidi e sapevamo parlare di tutto con nervosa intelligenza e con chiarezza e senza far tanti retorici preamboli come facciamo ora3, tante volte, allora, incontrammo il Mondo tutto e lo abbracciammo e ne ridemmo e ne piangemmo felici ma di quella felicità che non conosce causa, e così restammo sospesi, più e più volte, in estasi, perché la giovinezza ce lo permetteva, perché non urgeva volgere lo sguardo troppo avanti, oltre la punta dei piedi di mister Burroughs, perché NOI eravamo TUTTO, TUTTO, TUTTO.

Conoscete la malinconia? È quando non vi bastate più, e sentite di avere una ferita aperta da qualche parte, chissà dove, che non procura nessuna fitta, nessun bruciore, eppure sapete che c’è e sapete che resterà lì per sempre perché voi, da soli, non vi bastate, vi manca qualcosa, VI MANCA, VI MANCA, e sostituite, e vi affannate, e ricercate, ma NULLA.

Noi abbiamo perso la Stanchezza e siamo divenuti esseri malinconici, d’un tratto, senza preavviso alcuno. Non c’è speranza a tutto ciò, NON C’È SPERANZA, abbiamo capito come ci gira intorno il mondo, non volevamo farlo, è capitato, capire è una cosa che capita, la comprensione ti si scaglia addosso e tu non sai che farci, ti illudi un attimo che ciò è giusto e bello e importante, e poi scopri che nulla è peggio di capire, fai i conti con ciò che hai capito, di continuo. La maturità, quando viene, ha i connotati diabolici di Silvio, l’antagonista de La pistolettata di Puškin, colui che interruppe un duello quando sopraggiunse il suo turno, irritato dall’indifferenza alla morte dell’avversario, per poi riprenderlo dopo anni, al momento opportuno, quando l’avversario aveva abbastanza vissuto da temere, finalmente, di perdere tutto. Da giovani, al cospetto della morte, si mangiano le ciliegie e sdegnosi si sputano i nòccioli, eppure la maturità è lì, a pochi passi/pochi anni, e vi dice, irritata, “pare che adesso non abbiate il capo a morire” […] “fate colazione; non voglio disturbarvi”4. Noi non l’aspettavamo, essa è arrivata. Noi abbiamo avuto paura, essa ci ha risparmiati, purché, una volta giunta, essa sia per sempre impressa nella nostra testa. Non c’è speranza, non siamo più giovani, anzi una speranza c’è: è la demenza. Ma anche la demenza, ahinoi, giunge senza preavviso, e quando c’è non ci è più utile, non la riconosciamo, non ci riconosciamo, NON SIAMO PIÙ NOI.

Noi, da quando l’abbiamo conosciuta, aneliamo sempre alla Stanchezza, e lo sappiamo che il problema è tutto lì, nell’averla conosciuta, perché una volta conosciuta non può esserci più, eppure, sempre, la desideriamo, e il nostro desiderio, inevitabilmente, è una perpetua nostalgia. Noi lo ammettiamo, vogliamo essere divinità, ma non divinità tutta, bensì divinità del settimo giorno, “il giorno del non-fare, un giorno in cui sarebbe possibile l’utilizzo dell’inutilizzabile5 come dice bene Byung-Chul Han e aggiunge:

Handke abbozza una religione immanente della stanchezza. La “stanchezza fondamentale” annulla l’isolamento egologico e fonda una comunità che non ha bisogno di parentele. In essa si risveglia un particolare ritmo che conduce a un’armonia, a una prossimità, a una vicinanza priva di ogni vincolo famigliare, funzionale.6

Questa società della Stanchezza noi vorremmo essere invano, NOI, ebbri di comunità, ma fra voi qualcuno ci ha scoperti, e ci ha detto, una volta per tutte, che “da sempre, quando manca qualsiasi forma narrativa, subentrano le fantasie più sfrenate a riempire il vuoto”7. Siamo in tempi di denarrazione e Douglas Coupland lo sa:

Qualcuno sostiene che noi, in quanto animali, ci differenziamo da tutti gli altri animali per un particolare, e cioè che abbiamo bisogno di rendere la nostra vita racconto, narrazione, ed è quando sentiamo svanire il nostro racconto di vita che ci sentiamo sperduti e diventiamo pericolosi, perdiamo il controllo e ci ritroviamo soggetti alle forze del caso. È questo il processo a causa del quale si perde il senso della propria vita come racconto: è la «denarrazione».8

La causa di questi tempi è la “supersaturazione informativa”9, un processo in continua espansione di cui noi, vittime passive, siamo sempre più protagonisti in massa. Tutti dicono qualcosa, TUTTI, e tutto può arrivare a chiunque. Noi non vogliamo, NOI non vi vogliamo, non CI vogliamo, noi siamo stanchi, STANCHI, e ogni giorno aneliamo alla Stanchezza e ogni giorno non la troviamo e ogni giorno moriamo un po’ di più.

Noi, alla fine, vogliamo divenire pietra, e non vi appaia bizzarro, ciò, quanto quell’uomo che vuole rinascere animale e non sa scegliere e ne nomina qualcuno o perché vola, o perché è forte, o perché è bellissimo. Noi non vogliamo nulla di tutto questo, siamo stanchi, STANCHI, e l’ultima cosa che vogliamo, l’unica, è divenire pietra, perché la pietra ci restituisce a una storia lunga e oscura, anteriore all’uomo, una storia che non lo riguarda per nulla e da cui noi siamo nati alla fine di un percorso tra innumerevoli germogli altrettanto effimeri e vani. Non ci spiace di ritrovarci soli, senza enciclopedia, né documenti né codice di fronte a un enigma probabilmente insignificante, la cui soluzione, in ogni caso, non potrebbe interessare un organismo sensibile, sessuato, mortale.10

Questo, tutto QUESTO, è il nostro testamento. Non è il primo, ogni giorno ne scriviamo uno, ogni giorno, tutti i giorni, da quando siamo morti per la prima volta, un giorno, imprevedibile, imprevisto, cui siamo sopravvissuti; ne scriveremo altri, ogni giorno, tutti i giorni, NOI, prima di dormire, prima di morire.

NOI, però, pur essendo mortali, siamo immortali, e questo, soprattutto, è il paradosso che ci scuote, ci angoscia, ci irretisce. NOI siamo umani, NOI siamo divini. NOI. “IO è un altro”.11 “Se esisto, non sono un altro”.12 IO. Dieci. Triangolo. Addio.

 

1 Handke P., Saggio sulla stanchezza (1989), trad. it. di Emilio Picco, Garzanti, Milano, 1991, p. 7.

2 Ivi, pp. 38-9.

3 Kerouac J., I sotterranei (1958), trad. it. di Anonimo, Feltrinelli, Milano, 1999, p. 29: «Ero una volta giovane e aggiornato e lucido e sapevo parlare di tutto e senza far tanti retorici preamboli come faccio ora; […].»

4 Puškin A. S. La pistolettata, trad. it. di Leone Ginzburg e Alfredo Polledro, in Opere, a cura di Eridano Bazzarelli e Giovanna Spendel, Mondadori, Milano, 1990, p. 699.

5 Byung-Chun Han, La società della stanchezza (2010), trad. it. di Federica Buongiorno, Nottetempo, Roma, 2012, p. 73.

6 Ivi, pp. 73-4.

7 Coupland D., Taccuino di Brentwood (1994), in Memoria Polaroid (1996), trad. it. di Marco Pensante, Marco Tropea, Milano, 1997, p. 188.

8 Ivi, p. 183.

9 Ivi, p. 184.

10 Caillois R., Tre lezioni delle tenebre (1978), a cura di Tomaso Cavallo, Zona, Lavagna (GE), p. 76: «La pietra mi restituisce a una storia lunga e oscura, anteriore all’uomo, una storia che non lo riguarda per nulla e da cui io sono nato alla fine di un percorso tra innumerevoli germogli altrettanto effimeri e vani. Sono sconcertato da questo cippo stemmato. Esso mi fa conoscere meglio la mia condizione di essere frazionato e caduco, ma d’una origine così lontana e preparato da un numero così sterminato di casi. Non mi spiace di ritrovarmi solo, senza enciclopedia, né documenti né codice di fronte a un enigma probabilmente insignificante, la cui soluzione, in ogni caso, non potrebbe interessare un organismo sensibile, sessuato, mortale (mi sorprende improvvisa l’idea che ogni essere sessuato, vale a dire destinato alla riproduzione, è necessariamente mortale)».

11 Rimbaud A., Rimbaud a Georges Izambard – 13 maggio 1871, in Opere, a cura di Diana Grange Fiori, Mondadori, Milano, 1997 (I edizione, 1975), p. 450.

12 Lautréamont I. D. comte de, I canti di Maldoror (1869), introduzione, traduzione e note di Lanfranco Binni, V, 3, p. 307.

Overbooking: Luigi Sardiello

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IlPcheNconosco

Un Tango à trois temps

di

Francesco Forlani

«Che cos’è?» chiese Carmen. Alonso si avvicinò ancora. Si piegò verso la pianta e involontariamente sfiorò Carmen. Quando lei lo guardò in viso, le parve che quel piegarsi e quello sfiorarla portassero con sé il bagaglio di dolore di Alonso, un dolore che all’improvviso lo aveva trafitto. «È un cappero» le disse Alonso. «Un cappero? Non l’ho mai visto». «Eccolo qui». «Ma non è una pianta argentina» insistè Carmen. Alonso non replicò. Si spostò verso il cappero, carezzando i filamenti della pianta come per cullare il proprio dolore e rigirando il piccolo frutto tra le dita come si rigira una lama affilata. Carmen attese per un po’ la risposta, poi le fu sufficiente leggerla nella muta scrittura degli occhi di lui. Si rialzarono insieme. Lui disse: «È una pianta bellissima. È forte. Può crescere dappertutto. Ha solo bisogno di sole». E finalmente tornò a sorriderle.

Comincia così Il punto che non conosco, il romanzo di Luigi Sardiello, con una scena limpida, cristallina, dove al di là dei personaggi messi in campo e perfino dello stesso campo, l’Argentina, in cui per lo più la storia si svolge, vero protagonista è “le je ne sais quoi”, il non so che, alla base di ogni autentica Enquête, la non so cosa che si sta cercando e su cui ci s’imbatte d’improvviso ; come un prologo, la scena descritta ci sta dicendo, che senza immaginazione non sarà possibile cogliere la verità delle cose, che in un mondo dominato dalla incerta geometria solo l’esattezza della fantasia potrà permettere di arrivare fino in fondo. Con una straordinaria delicatezza Luigi Sardiello, dalle prime battute porge la mano della protagonista, Carmen, al lettore, come a stabilire un patto senza il quale arrivare fino alla fine della storia potrebbe non valere neppure la pena.  

Fantasia. Per ben diciannove volte ritroviamo questa parola, perfino in uno dei titoli dei capitoli. Immediatamente pensiamo al suo significato più ricorrente, ovvero di cose che non stanno né in cielo né in terra, e si considerano Frutto di fantasia, cose del tutto prive di fondamento. Però c’è un’altro senso possibile da dare a una parola così complessa ed è quella della fantasticheria, della rêverie, del sogno a occhi aperti, sola percezione in grado di far vedere le cose sotto una luce diversa, deviando dai percorsi segnati, rinunciando ai piani stabiliti, accedendo così, come per un’esperienza mistica al senso del proprio viaggio. Il viaggio di Carmen\Gezia è un Tango à trois temps. Certo, il tango generalmente è a due o quattro tempi, ma nel caso di Carmen saranno proprio tre i tempi in cui i suoi passi risuoneranno nello spazio mentale dell’unico uomo, Valter Ossuni, a cui tenterà di ridare vita. I tre tempi, parti, sono: la fuga, la ferita, progetto. Nella prima parte solo la frivolezza dell’attrazione tra un uomo e una donna scardina un pericoloso dispositivo piazzato in una società di comunicazione, nel suo comparto più sensibile, quello delle risorse umane, con lo scopo di scatenare una guerra tra impiegati. Solo il timido amore appena confessato. filtrato da un telefono, mette colore alla grigia esistenza di funzionari presi nel vivo di quella trasformazione del privato nel pubblico, del partito azienza nell’azienda partito, rivoluzione che negli anni novanta ha la sua capitale, Milano, e il suo leader. Un colpo di scena chiude l’avventura di Valter in società e un altrettanto colpo di scena la storia con Gezia.

Cambia lo spazio, il tempo, e nel secondo e terzo tempo, altri personaggi , e altri registri stilistici, raccolgono il testimone con un continuo gioco di specchi in cui le storie si inseguono, tra verità e menzogna, storie grandi, più dei protagonisti, con una costante, sempre lei la fantasia, e un fiore imprendibile, quello del cappero. E chi potrà cogliere quel fiore se non gli italiani d’Argentina?

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Scrive lo scrittore Valerio Evangelisti: Luigi Sardiello è uno stilista. Non una parola fuori posto, un aggettivo ridondante, una frase che non sia tersa e necessaria. Ma l’eleganza non esaurisce i meriti di questo romanzo, che non somiglia a nessun altro. Si passa tra diverse situazioni geografiche e temporali guidati dalle psicologie – credibili, solide, raffinate – che sovrastano i paesaggi e guidano nei loro labirinti. E c’è profondità persino nella sconcertante ultima parte, onirico-fantascientifica, dove la critica sociale sembra prevalere. In realtà prevale la maestria del narratore, che ha creato una storia inclassificabile. Dal mio punto di vista, il più grande dei complimenti.

Martedì 31 maggio alle ore 19, presenteremo il libro di Luigi Sardiello alla Libreria Trebisonda  in via S. Anselmo 22, Torino. Interveniamo da lettori, amici e compagni della Nazionale Scrittori: Emiliano Audisio, Francesco Forlani, Fabio Geda, Carlo Grande, Enrico Remmert, Paolo Sollier.

Sciami

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di Mario De Santis

 

…ci sono cose che restano per anni sotto il peso
di un crollo senza data. Sono un cumulo di forza
perché la casa ha vinto lasciando che la distruzione
compisse il nuovo mondo di macerie, un equilibrio
da sortilegio. Vince chi fa più vuoto alla violenza
la casa crolla e il muro non separa più dal cielo
e questo deposito di stelle
spente, ora è gloria
dimenticata che abita la terra
ma non è inganno, è solo cosa. 

***

(la notte dentro)

È nel muro di calce viva la telecamera che sgrana
volti e luci in cui rifletto e vivo, in cui sconfino:
è un panorama bianco di feste all’improvviso, di bar, di frenesia
con la città d’estate che si circonda di incendi periferici.
Le conseguenze mai capite di una vita che si allontana,
come una fuga senza inseguitori, sta nella pace dei ritratti
conservati negli archivi di controllo: i visi sconosciuti,
malcerti nello sguardo, pallidi e senza febbre
lì durano per essere scordati, lì solo siamo noi.
Ed è su questo muro illuminato che mi fermo,
stretto dal suo calore postumo, la sera.
Divento anch’io di fumo e d’ombra moltiplicata,
un taglio di fotogrammi. Tutte queste vene scollegate,
come un museo di elenchi telefonici, la folla unita
in una mappa casuale che non trattiene un solo nome:
i sogni pure sono lasciati al vago ormai
e se ascolto il mio, so che è l’assurdo mormorìo
che viene dal fondo della via, dalla porta appena schiusa
dell’uscita d’emergenza.

(Christian Boltanski, “Les abonnés du téléphone”, 2000, installazione)

 

***

1.
per Adriano Sofri
12 (?) ottobre 1992 -2012

Per oggi aloni di ammazzati, rimasti ognuno
con la distanza scritta dentro gli occhi
disegnano misero l’oriente delle foreste nude
e i solchi ovunque in aria, a terra tra le fosse, terra
ormai superflua vista in cielo, solo sfondo tra le mani
dei colonnelli d’aeronautica; oggi soltanto piove fuoco
per oggi l’urto di pressione provocherà maltempo,
mentre la terra si ritrae
costretta nel mirino. Di là c’è la fontana
ma il pericolo sarà la grandine di piombo, il fumo delle case.
C’è un uomo con la tanica e solo la sua corsa.
Il bollettino è incerto, povero Bernacca,
ecco le tue correnti dei Balcani, nel gelo che si nega
sull’Europa, mio caro colonnello.
Domani che sarà? La febbre che si scioglie via dal corpo,
scossa di piuma soffiata, sciame di gocce immobili, domani
che sarà domani, occhio di belva, che sarà,
questa mia vita che sarà? Nella provvista d’acqua
si annuncia solo un passo, mille formiche pazze
e solo una promessa di bersaglio, che sarà.

2.

Come nulla si vede guardando nei tombini
aperti, così cade la vista verso il vuoto,
fuori-campo; sulla cartina Sarajevo è già l’oriente
muto, ma l’emergenza ha invece un suono,
del mondo-shock e inciso obliquo ha tutto
il farfallìo di piccoli bracieri, la fede in nulla
che sia lontano dalla strada e a questo brivido
si arrende; e nella piazza vuota al cielo
lo sguardo asciutto, lontano dai suoi liquidi, dal corpo,
dalle geminazioni e già-marcite
provviste quotidiane, il tempo è solo orario
e va da un’alba all’altra, uguale.
Guardo luci a intervalli e penso al viaggio
quello migliore, quello di  sola andata
ma dalla fontana stavolta si ritorna.

***

( Milano piazza Gramsci )

La distanza tra me e una coppia di cinesi
è la minima innocenza che adesso chiede il mondo.
Loro che hanno fame di abitare
io invece mi perdo nella sosta, la pausa della noia.
Loro chiudono in corpo un amore senza accordi
ma con passi di precisione studiano le mappe
invece io sono immondo e illusionista
dimentico dell’afasia, dei giorni che mi aspetto;
loro al telefono cercando  un posto dove stare;
ed io, che sarò quello che perdo il mio, sto via dalla mia vista.

______________

Poesie tratte da Sciami (Landolfi, 2015)

Edward Hopper e il cinema

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shirley

In occasione della mostra di Palazzo Fava dedicata a Edward Hopper, una rassegna che esplora le molte ricche suggestioni e influenze del grande artista americano sul cinema. Da Siodmak a Hitchcock a David Lynch passando per il ‘calco’ animato di Gustav Deutsch. È soprattutto questione di luce, di impalpabili atmosfere, di cromatismi accesi, di paesaggi americani che dal grande schermo riverberano o palesemente rimandano ai dipinti hopperiani.

 

Programmazione

1-8 giugno 2016