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Gli spazi del sonno – Robert Desnos

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vallotton_clair_lune

di Ornella Tajani

Les espaces du sommeil, così come gli altri tre componimenti di Robert Desnos già tradotti qui, è tratto dall’antologia Corps et biens, pubblicata nel 1930 (oggi Gallimard, 1968). A questa traduzione ho avuto occasione di lavorare anche nel mese di marzo 2016, durante il primo ViceVersa italiano-francese, un laboratorio bilingue per traduttori editoriali promosso dalla Casa dei Traduttori di Looren, che è parte del più ampio programma del Laboratorio italiano.

Gli spazi del sonno

Nella notte ci sono naturalmente le sette meraviglie del mondo e il grandioso e il tragico e l’incanto.
Le foreste si scontrano confusamente con creature leggendarie nascoste tra le fronde.
Ci sei tu.
Nella notte c’è il passo del viandante, quello dell’assassino e quello della ronda, la luce del lampione e la lanterna dello straccivendolo.
Ci sei tu.
Nella notte passano i treni e le navi e il miraggio dei paesi dove è giorno. Gli ultimi afflati del crepuscolo e i primi brividi dell’alba.
Ci sei tu.
Un pianoforte, uno scoppio di voce.
Una porta sbatte. Un pendolo.
E non soltanto gli esseri e le cose e i rumori materiali.
Ma ancora io a inseguirmi o superarmi senza posa.
Ci sei tu l’immolata, che io aspetto.
A volte insolite figure nascono nell’attimo del sonno e poi svaniscono.
Quando io chiudo gli occhi, fosforescenti fioriture appaiono e appassiscono e rinascono come carnosi fuochi d’artificio.
Paesi sconosciuti che attraverso accompagnato da creature.
Ci sei tu forse, spia bella e discreta.
E l’anima palpabile della distesa.
E i profumi del cielo e delle stelle e il canto del gallo di due millenni fa e il grido del pavone dentro parchi in fiamme e i baci.
Mani si stringono sinistre in una luce livida e ruote stridono su strade pietrificanti.
Ci sei tu forse che io non conosco, che conosco invece.
Ma che, presente nei miei sogni, s’ostina a farsi indovinare e non si svela.
Tu resti inafferrabile nella realtà e nel sogno.
Tu mi appartieni per mia volontà di possederti dentro l’illusione ma solo accosti il viso tuo al mio con i miei occhi chiusi al sogno e alla realtà.
Tu a dispetto di una facile retorica in cui l’onda s’infrange sulla riva, la cornacchia vola sulle fabbriche in rovina, il legno scricchiola e marcisce sotto il sole a picco.
Tu sei alla base dei miei sogni e scuoti la mia mente colma di metamorfosi e mi lasci il tuo guanto quando ti bacio la mano.
Nella notte ci sono le stelle e il movimento tenebroso del mare, dei fiumi, le foreste, le città, le piante e dei polmoni di milioni di creature.
Nella notte ci sono le meraviglie del mondo.
Nella notte non ci sono angeli custodi ma c’è il sonno.
Nella notte ci sei tu.
Nel giorno anche.

Il testo in francese è reperibile in rete. Ne propongo qui una lettura di Marc Sayous, che può essere ascoltata sulle musiche dell’Ensemble European Music Project ispirate allo stesso componimento, cliccando contemporaneamente sul player audio e sul video.
 

Les Espaces Du Sommeil
Ensemble European Music Project


 

 

Da Radice d’ombra – Poesie scelte

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di

Roberta Ioli

(ed. Italic & Pequod, Ancona, 2016, pref. di Fabio Pusterla)

Mamma Boté

per Gregorio
Lei non sa rispondere
e guarda la fragile stella che ora attraversa la casa.
Come ti saresti chiamato
e chi eri, prima di essere un pensiero
di battermi nel sangue e nel respiro?
Mi chiedi dove stavi
prima di calciare regole e orari
prima di soffrire per chi non ti vede
o ti abbandona, prima di nascondere
il timido sonno dentro il libro della magia
e del bene possibile sempre.
Strana creatura, conosci
il volo degli uccelli
e più di noi sai leggere segni
per la gioia di chi ami.
Ma ti muovi in un regno inaccessibile
e ancora non so se lì vuoi essere raggiunto
o senza alleati ti appresti alla lotta
contro gli dei della solitudine antica,
tu che nel nome porti il risveglio
e la paziente preghiera.

* * *

Quale geografia

Nelle strade che da sempre calpesto
non trovo altro che fiori educati
a giardini gentili, sorrisi solleciti al nulla
tra i relitti della storia.
Mi pare ancora
di non avere mutato geografia
osato nuove mappe, inversioni,
frazioni di passi su cui ricalcare l’impronta.
Mi chiedo se sia questo
il destino che ho scelto – osservare dai bordi –
o non sia il caso ad avermi dimenticato
tra gli scarti del tempo
in un porto qualunque dove rara
è la tempesta, se non del cuore.
Nella cella della conservazione, nel silenzio
che ho scelto obbediente,
talvolta accelera rovina e rinascita
l’onda purissima di antiche ragioni:
il mio singolo stare nel mondo.

* * *

Non possiamo accarezzare

L’uomo è legno storto
io il legno storto
a cui appendo fragile
parvenza di corpo
le membra sono stecchi con tosco
ogni albero un occhio, ogni pena
una stilla di linfa e sangue.
Non è solo la malattia del tempo
è la peste che abbiamo unto
è la ruggine dei nostri mali pensieri
che mutila la selva solitaria.
Le nostre mani sono rami affilati –
perduta la tenerezza del palmo
le piccole rughe del dorso –
immobili nel bosco dei trafitti
siamo i violenti che ogni giorno
scacciano luce e amore
per un’antica colpa mai commessa.

* * *


Oltre le colonne

Mentre il buio è al suo principio,
nella terra boreale l’alba
schiarisce la notte
i galli puntellano il giorno
nell’aia azzurra, lungamente
la mula ragliando il suo roco lamento.
Tu dormi
tra l’angustia del cortile
e la solenne croce del sud.
Ha fatto ombra al tuo viaggio
la montagna del Purgatorio
nessuna ferita dai grandi serpenti marini
nessuna offesa dalla terra
senza uomini e senza ritorno.
Attraversi gli abissi con legno leggero.
E ancora mi chiedo
se solo a te si celino i mostri di Finisterre
o se semplicemente
con il pudore di un timido pifferaio
tu li abbia mutati in onde.

* * *

Come pietra senza voce

1.

In alto è la stanza in cui ti vedo
finestre grandi accolgono il cielo
e due camini accesi.
Sono il cuore e l’invenzione
i tuoi due fuochi, vivi
anche nel niente di parole.
Ritrovo i tappeti srotolati
il caffè caldo sul vassoio
e mi chiedo come puoi
muoverti con tanta cura tra gli oggetti
ora che non vedi.
Per un attimo
attraverso quest’ordine sacro
tu parli. Ma l’immobile presenza delle cose
ha il suono freddo dei cristalli
e subito si fa definitiva
sigillata nel corpo di una pietra.

2.

Come figlia mi hai curata
per tutto il tempo che ho vissuto nella casa
e anche dopo, quando una casa l’avevo
ma lo ignoravo.
Ti sono madre nell’ultima cena
tu passero che la tempesta caccia dal nido
il becco spalancato verso il cielo, gli occhi velati
senza memoria, neppure un pigolio
strozzato dalla gola.
Ma non è fame
questa tua muta preghiera
è grido di altro smisurato
che la bocca non può dire.

3.

Te ne sei andata senza peso
con voce piccola
per sottrazione di corpo.
Sul cuscino l’orma dei sogni:
così poco resta
di questo antico amore.
La morte si misura nel tempo
il dolore non da subito conosce, solo dopo,
quando si fa lago senz’onda
e nell’impossibile ritorno
allontana la prima riva.

* * *

Trilogia dell’acqua

per Gianluca

1.

Il sonno non si spezza
non si interrompe, si ammala invece di vertigini
nel martello della veglia.
Lì vedo il tuo volto
mi parla la tua lingua senza suono.
Sai sillabare in quella curva della notte
i tranelli di marinaio
gli apologhi di mitico viaggiatore
ma non puoi fermarti sulla soglia
né danzare, pallido contro il buio del tempo
dove altri sorridono forse delle tue acrobazie.

2.

Mi chiedo dove sei
ora che vorrei seguire il contorno delle tue dita
le grandi mani di indiano
dove sei nell’istante in cui mi affido al buio
e non so più se ti nascondi.
Finisterre mi avevi battezzato
tanto ero lontana e a picco sul precipizio
in cui natura d’acqua si impenna
e mai riposa. Lì forse tremò Arianna
davanti all’orca nera degli abissi.
Tu più irraggiungibile di me
ti sei nascosto sulla schiuma dell’onda
nell’insonnia del sale
e tra i gabbiani ti semini come un frutto.
Sei un solco, una terra ora
di fertile sonno, con le mani
aperte come due conchiglie
per il riposo del mare.

3.

Si fa così oggi
si sta come Giuseppe il fante
che accoccola gli stracci
nell’acqua dell’Isonzo. Ogni giorno rinnoviamo
quel battesimo di caduta, fino a quando
curvi come un fuscello sotto vento
ci ritroviamo guerrieri in disarmo.
Oggi non crediamo di meritare il cielo
ma il pascolo muto delle pene
la sincope del cuore nella sua colpa d’origine:
non si traccia resistenza
se il moto è senza posa,
senza felice compimento –
un destino d’uccello senza volo.

Angela Carter, la maga buona

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Angela Carter, Figlie sagge, Fazi Editore, 2016
Angela Carter, Figlie sagge, Fazi Editore, 2016

di Salman Rushdie

La prima volta che incontrai Angela Carter fu in occasione di una cena in onore dello scrittore cileno Jose Donoso, a casa di Liz Calder, che all’epoca era l’editrice di noi tutti. Il mio primo romanzo sarebbe uscito di lì a poco, mentre Angela aveva appena pubblicato il suo libro più oscuro La passione della nuova Eva. Io ero un suo grande fan. Donoso arrivò agghindato come un Buffalo Bill ispanico, con tanto di pizzetto brizzolato, giubbetto con le frange e stivali da cowboy, e continuava, come potei osservare, a trattare Angela in modo terribilmente condiscendente. Stupito dalla sua apparente ignoranza dell’opera della scrittrice, gli feci una lunga ramanzina informandolo che la donna con cui stava parlando era la più brillante autrice inglese. Angela rimase positivamente impressionata. Alla fine della serata ci piacevamo a vicenda. Fu la prima grande scrittrice che incontrai in vita mia, e un’amica fedele, sincera, una fonte continua d’ispirazione. 

A un bivio interpretativo

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 di Fabrizio Miliucci

Dei cerchi

 

A volte compaiono dei cerchi nell’aria, delle dolci sfere.
Hanno una superficie lucida, cangiante, specchiante. Sono le bolle di sapone, scoppiano.

Se invece fanno scoppiare l’incauto osservatore, essi sono gli alieni, sono provvisti di spietate armi laser.

Ci si trova a un bivio interpretativo.

(M. Giovenale, da Il paziente crede di essere)

 

* * *

 

 

Già dall’esergo Il paziente crede di essere (Gorilla Sapiens 2016) indirizza il lettore sul crinale della decostruzione. Anche lo statuto narrativo di questi quarantasette pezzi organizzati in tre sezioni (Sequenza, Differenze, Ultima) è un’approssimazione da cui bisogna ricavare l’idea di una forma nuova o rinnovata attraverso cui l’autore prova a penetrare una realtà che rimane sullo sfondo di una serie di frammenti; si tratta dunque di racconti, ma anche forme intermedie, prose (in prosa), inconvenienti, dissipazioni dopo.

La forma di partenza è quella narrativa, addirittura di fiction, ma il modo è quello di una logorazione che entra in conflitto con le trame del narrato (trama, p. 19; de finesse, p. 51) e del reale (Progressio 1, p. 57) cercando l’elemento di disturbo che rompa o disarticoli il sacro vincolo su cui ogni trama si fonda, ovvero il cosiddetto patto narrativo o patto con il lettore. Giovenale gioca con la sospensione dell’incredulità e prova a portarla in una zona paradossale in cui prendere coscienza e contrario della nostra grande credulità di fruitori di storie. Come è scritto nella conclusione di uno dei pezzi più incisivi (Dei cerchi, p. 97) spesso, di fronte a questi brevi racconti, “ci si trova a un bivio interpretativo”.

Giovenale conosce e interpreta l’orrore della sceneggiatura diffusa che si impone anche attraverso i nuovi mezzi di comunicazione e le peggiori filiazioni seriali di un intrattenimento artistico fatto di personaggi che lui parodia, ad es. descrivendo la mattina tipo di un personaggio da horror (Il primo, p. 61) che ha come priorità quella di indossare le pantofole appena sveglio perché il pavimento è cosparso di ossa, poi si deve arrampicare su una montagna di cadaveri per prendere il caffè in cucina, e infine, prima di andare al lavoro, si trova davanti a un rubinetto che inevitabilmente, matematicamente, farà scorrere sangue.

Ma si diminuirebbe di molto il valore de Il paziente se ci si fermasse solo alla polemica metanarrativa, perché essa è simbolo o sintomo di una critica, per quanto dissimulata, che si rivolge ad una interpretazione della realtà chiusa ad ogni possibile alternativa. Dallo spiraglio di un “libro di libri” Giovenale guarda fuori della fiction e vede eserciti di medici-zombies che visitano inermi pazienti fino allo smembramento, (Carme norreno, p. 99) cioè vede l’invadenza morbosa e apocalittica di quanto sarebbe utile alla vita.

Nel Paziente viene accolta e riutilizzata la lingua straziata e non-sense delle istruzioni IKEA, la paccottiglia dei notiziari e della pubblicità, fino all’orrore (horror, appunto) della reificazione di questi linguaggi-non morti: lo scarto forte di queste prose scatta nel momento in cui ci si rende conto che quel parlare mercificato e massificato evoca una realtà probabile: “All’inizio erano solo notizie alla tv, poi all’improvviso erano in strada, ovunque”: (p. 99) di quante cose ci toccherà prima o dopo fare una constatazione simile?

Per raggiungere questo livello di significazione nel più vasto ragionamento sulla realtà infarcita di fiction commerciale e propagandistica, l’autore pone la crepa della sua discrasia fra oggetto e soggetto, ribaltando come nel già citato Dei cerchi, una prospettiva di preferenza doppia, speculare, in cui le dimensioni piatte si sovrappongono a creare il sospetto o l’illusione del vortice, della tridimensionalità (Interni, p. 133). Queste prose sono popolate di scene che sembrano essere tolte da un film (Filmetto ma solo una scena) e compongono un lungo blob dello scarto reale in un tripudio di gesti estremi e violenti dal senso deflazionato (abbondano gli smembramenti, le esplosioni, i colpi di scena fuori contesto) come in un cartoon senza limiti e senza confini. Uno degli espedienti più efficaci per calare il suo lettore in un solido sistema di non-referenze è quello dell’elenco, o delle istruzioni. (1-14, p.125)

Gli elenchi hanno la misura di una ellissi provocatoria, sono potenzialmente infiniti, come “infinite” sono le possibilità della vita che conosciamo, ma al tempo stesso il forte umore grottesco che li pervade mette in luce e in ridicolo l’insistenza di possibilità che non sono tali (nessuna di esse è davvero realizzabile, sono tutte perdibili, autoriferite, pubblicitarie). L’ellissi è dunque una ellissi inutile, del vano, del vacuo. Gli oggetti elencati da Giovenale sembrano situarsi esattamente all’opposto degli “oggetti desueti” descritti da Francesco Orlando, non sono un rimosso della nuova industrializzazione, ma ne rappresentano il volto più riconoscibile, ammesso senza alcun giudizio critico.

Allo stesso modo funziona la burocrazia, nell’immanenza di una realtà allucinante, distopica, in cui aderire al non-senso con altrettanto non senso. Nelle pagine del Paziente vediamo la costruzione di intere burocrazie del nulla in cui eserciti di impiegati condividono una realtà basata su fondamenti misteriosi (Ammi, p. 75), irrazionali e in cui ci si trova scaraventati come in un racconto di fantascienza ma senza la protezione o lo schermo di un autore che si mette fra chi legge e la rappresentazione. Giovenale vuole calarci in alcuni lacerti distopici senza preavviso o filtro per toccare la corda del nostro disorientamento e per suggerirci che non si tratta affatto di una rappresentazione fantastica (“A ogni ora le terrazze sono troppo alte per vedere esattamente chi stiamo acclamando”).

Come ha detto giustamente Guido Mazzoni, dalla lettura di queste pagine ci si rende sensibilmente conto di un evento accaduto che costituisce lo spartiacque per definire una prospettiva del “post”. Molti degli scenari del Paziente avvengono prima e dopo un evento che non si può né conoscere né nominare e intorno a questo, come in un racconto di Cortázar, si scandisce un ansioso conto delle ore.

La misura di questo libro è la dismisura, una specie di catalogo delle apocalissi possibili e quotidiane. In esso troviamo una ironia oscillante fra il grottesco ed una comicità a volte sinceramente divertita ma spesso anche dolente, qualcosa che non può fare a meno di ricorrere al grande statuto sovversivo dell’ironia per mantenere in sé quel contatto con la realtà che l’autore nelle sue pagine salva come un segreto del mondo in fiamme.

 

* * *

 

Carlo ​Bordini al ​Teatroinscatola, ​per Nat​halie Quintane || blitzvorlesungen / gammm

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|| 2006—2016 || BLITZVORLESUNGEN

PER I PRIMI DIECI (e i prossimi cento) ANNI DI
GAMMM

BLITZVORLESUNGEN = letture lampo _ in un numero imprecisato di date

SESTA DATA :
sabato 28 maggio 2016, alle ore 18:00 (puntuali)

Teatroinscatola
Roma, Lungotevere degli Artigiani 12-14 (qui)

Carlo Bordini
presenta

OSSERVAZIONI

di Nathalie Quintane

(Benway Series)

Con la partecipazione di

Marie-Ève Venturino

Un’altra scuola (un anno dopo)

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di Giovanni Accardo

Un_altra scuolaIl 5 maggio 2015, uno sciopero indetto da tutti i sindacati, dopo otto anni che non accadeva, ha fermato la scuola per protestare contro l’ennesima riforma, la cosiddetta “buona scuola”, che già dal nome sembra un’efficacissima trovata pubblicitaria. Chi è che potrebbe dirsi contrario alla buona scuola? Come ha scritto Walter Tocci, senatore del PD e membro della commissione che ha varato la riforma, nel libro La scuola, le api e le formiche (Donzelli): “Per coprire la mancanza di un progetto si è fatto ricorso alla comunicazione (…) gli stereotipi da talk-show applicati rozzamente all’ordinamento scolastico senza riguardo per la sua complessità.”
Il giorno successivo allo sciopero, per una curiosa coincidenza, Ediesse, nella collana Carta Bianca diretta da Angelo Ferracuti e con prefazione di Eraldo Affinati, ha pubblicato il mio libro Un’altra scuola. Diario verosimile di un anno scolastico. Il libro nasce dal desiderio di raccontare un’altra scuola, come recita il titolo, che non è solo quella dell’Alto Adige, provincia bilingue e autonoma, sempre più uno Stato nello Stato, con i suoi vantaggi (maggiori risorse) e i suoi svantaggi (isolamento, autoreferenzialità, un controllo politico più pressante), ma anche la scuola che viene narrata poco dai libri e dalle cronache dei giornali, ovvero quella che funziona, progetta, costruisce. Desideravo far conoscere una scuola diversa da quella sempre più stereotipata narrata da tanti libri e dalle cronache dei giornali, non la scuola degli insegnanti lavativi o psicopatici, e nemmeno quella degli studenti ignoranti, demotivati e bulli. Poiché la realtà comprende anche questa scuola, nel mio libro non mancano pagine in cui la metto in scena. Ma a me interessava raccontare la scuola degli insegnanti appassionati, quelli che progettano percorsi innovativi e che si sforzano in tutti i modi di coinvolgere gli studenti, che si mettono in gioco e che lottano per una scuola migliore, arrivando persino ad occupare il loro istituto (episodio realmente accaduto). E m’interessavano gli studenti autentici, non le caricature, coi loro problemi quotidiani, le loro solitudini, ma anche la loro energia, la loro vitalità e la loro intelligenza. Nel libro, infatti, ho dato la parola anche a loro, attraverso le lettere (tutte autentiche) che mi hanno scritto dieci ex studenti, ai quali ho chiesto di raccontare che ricordo conservavano di me, se ero stato un buon insegnante, se ero riuscito a lasciare un segno in loro, affinché mi dicessero anche cosa ho sbagliato e cosa posso migliorare nella mia professione. Ma di lettere, in questo diario che si può leggere come un romanzo, ce ne sono molte.
Ad un anno dall’uscita e dopo aver incontrato diversi insegnanti in giro per l’Italia, posso dire che lo stato d’animo più diffuso è la demotivazione, dovuta alle continue riforme che oramai si succedono da 25 anni. Ogni ministro, non fa neppure in tempo a prestare giuramento che annuncia la sua riforma epocale. Quasi sempre ignorando i problemi veri della scuola. Ecco perché una delle lettere l’ho indirizzata al futuro ministro dell’Istruzione.

Gentile signor Ministro,
quando sarà nominato responsabile della scuola, per prima cosa faccia dimostrazione di onestà e dica che le cosiddette riforme varate negli ultimi anni sono nate unicamente dalla mancanza di soldi e perciò altro non sono stati che tagli di spesa dettate dalla necessità di risparmiare. Solo se le parole saranno effettivamente collegate ai fatti potrà avere la fiducia degli insegnanti. Per troppo tempo l’inganno è stato alla base della politica scolastica.
Poi, prima di avanzare qualunque proposta, prima di annunciare riforme epocali e provvedimenti mirabolanti, prima di fare una brutta figura, proponendo soluzioni impossibili da realizzare o assolutamente inutili, si faccia un giro per le scuole d’Italia. Dedichi un anno ad incontrare insegnanti, studenti e dirigenti, assista alle lezioni, partecipi ai collegi docenti e ai consigli di classe, guardi gli spazi, soprattutto nelle scuole del Sud, in cui si svolgono le lezioni e in cui i ragazzi trascorrono ore della loro vita. Provi a sedersi nei banchi, ad andare in bagno, usi le palestre (dove ci sono) e i laboratori (quando ci sono). Controlli gli arredi, la loro funzionalità e la loro vetustà. E faccia tutto ciò in modo informale, senza scorta e giornalisti al seguito, lontano da fotografi e telecamere. Dopo, ma solo dopo, torni al Ministero, parli coi funzionari e i suoi collaboratori, riassuma problemi e proposte che ha ascoltato da chi a scuola ci vive tutti i giorni, confronti la loro concretezza con le teorie degli esperti di pedagogia e didattica che non mettono un piede in un’aula scolastica da decenni. Dopo, ma solo dopo, annunci le sue riforme. Vedrà che gli insegnanti e gli studenti le approveranno.

Gli insegnanti sono sfiniti dalle continue riforme. Credo non esista altra professione così pervicacemente sottoposta a continui cambiamenti, e spesso ogni riforma va in direzione opposta alla precedente. Il risultato sono infinite procedure burocratiche, inutili adeguamenti di norme e delibere, carte da compilare, circolari da leggere e inviare, sottraendo tempo prezioso allo studio, alla preparazione delle lezioni, alla correzione dei compiti. Tutto ciò è capace di annientare anche il più volenteroso degli insegnanti. Ho incontrato e incontro ogni giorno insegnanti che vorrebbero cambiar mestiere. E devo dire che anch’io in questi ultimi mesi ci ho pensato, per l’insensatezza delle norme che regolano e mutano ad ogni passo il nostro lavoro, scritte con quella che Claudio Giunta, su Internazionale del 23 dicembre, ha definito lingua disonesta [“è la lingua disonesta di chi non sa bene che fare, non ha le idee chiare, non vuole assumersi le responsabilità che gli competono (e che il discorso chiaro impone a chi lo pronuncia), e lascia a chi deve leggere (e soprattutto: a chi deve obbedire) il compito di decifrare, di leggere fra le righe, di stiracchiare le parole e i concetti dalla parte che vuole, anzi di interpretare le parole e i concetti come s’interpreta il Talmud, cercando d’indovinare le intenzioni di un padrone invisibile e capriccioso, che dice e non dice, che lascia agli altri il compito di riempire con qualcosa lo spazio che lui ha lasciato vuoto non per liberalità ma per inabilità a parlar chiaro, ossia a decidere, e cioè per codardia.”]
L’ufficio, scrive Kafka in una lettera a Milena, non è un’istituzione stupida, piuttosto appartiene al mondo del fantastico. Ecco cos’è la burocrazia: un mondo irreale, abitato dal non senso e amministrato da solerti funzionari che obbediscono ciecamente agli ordini superiori e non si pongono domande. E tutti noi siamo dei Josef K. in cerca di un giudice che ci spieghi qual è la nostra colpa.
Un insegnante di un liceo di Bologna ha definito mobbing le riforme scolastiche che si succedono con la stessa periodicità delle stagioni. Una collega di Padova mi ha detto che l’unica riforma che lei si auspica è la fine delle riforme per almeno un decennio. Un’altra insegnante, a Palermo, mi ha detto che l’unico modo per difendersi dalle riforme è continuare a fare il nostro lavoro in classe, ignorandole. Da cosa nasce questo rifiuto? Dal fatto che nessuna di queste riforme nasce dal basso, cioè da chi a scuola ci sta quotidianamente, ma nelle chiuse stanze del Ministero, da dove ogni giorno inondano le scuole di circolari, inviti e prescrizioni. Mariapia Veladiano, che oltre ad essere una scrittrice è una dirigente scolastica, in un suo articolo su Repubblica ha invitato il Ministero a ridurre la quantità di circolari che arrivano quotidianamente sui tavoli dei dirigenti e che rendono la scuola ingovernabile.
Dall’altra parte ho visto una gran quantità di insegnanti che costruiscono percorsi didattici innovativi, promuovono incontri con gli scrittori e la lettura di libri, invitano studiosi a scuola, progettano attività multidisciplinari, sperimentano e si mettono in gioco, si prendono cura dei loro studenti. Molti di questi insegnanti mi hanno scritto per ringraziarmi, dicendo che il mio libro ha spezzato la loro solitudine. Eccone una:

Gentile Prof., chi le scrive è una collega di Rimini.
Non voglio tediarla, né allarmarla: non sono una stolker, non ho MAI scritto ad alcuno scrittore, nemmeno ad un giornale, pur avendo dedicato alla lettura appassionata tutta una vita. Sono a tempo pieno una figlia, una sorella, una moglie, una mamma, ma soprattutto… una Prof.
Mi trovo a scriverle perché ieri sera ho finito, leggendolo di getto in due giorni, il suo diario Un’altra scuola (mi scuso, ma non trovo il corsivo per i titoli in questo vecchio tablet vintage).
Vorrei ringraziarla tanto per la sua testimonianza: l’ho letta con sincero trasporto e tanto piacere
e mi sono sentita in dovere di comunicarglielo, quasi come chi avesse raccolto un messaggio nella bottiglia.
Il messaggio é giunto forte e chiaro, e mi premeva dirglielo.
Grazie per lo stile asciutto e limpido, per le grandi e piccole verità quotidiane contenute nella sua testimonianza, per aver afferrato e fermato quei pensieri infiniti che vagolano nella mente di noi insegnanti durante tutto il giorno – e la notte!
Grazie per i numerosi spunti che mi ha fornito con la “Scuola d’autore”; grazie per aver dato corpo alle sensazioni, talvolta assurte a imperiosi sentimenti, di frustrazione e avvilimento che si provano di fronte ai colleghi enigmatici o esauriti; al ragazzo inadeguato; alla famiglia aggressiva; alla propria materia che sembra non “crescere”, non progredire per ore che a volte diventano giorni… Il tutto accanto agli entusiasmi ineffabili di quando certe tensioni si sciolgono, le applicazioni di un metodo danno risultati insperati persino a noi, i colleghi cooperano al bene comune, un progetto vince un concorso…
Solo a scuola (o nella buona letteratura) accadono queste cose. E intender non lo può chi non lo prova.

Una delle ragioni per cui ho scritto il libro era proprio il desiderio di incontrare insegnanti e studenti, confrontarmi, ascoltarli, imparare e magari riuscire a dar loro voce, rendendo visibili i risultati. Le loro lettere hanno dato senso al mio libro.
Ad un anno dallo sciopero generale, ad un anno dall’entrata in vigore della “buona scuola”, approvata dal Parlamento con una quantità enorme di deleghe in bianco al governo, molte questioni restano drammaticamente aperte. Ne elenco alcune.

  1. Il preside manager, ovvero il potere del dirigente scolastico di scegliere i docenti dagli ambiti territoriali e non più dalle graduatorie, dove ogni insegnante ha un punteggio che risulta dai titoli in suo possesso, dal superamento di un eventuale concorso e dagli anni di servizio. Con la nuova legge i dirigenti potranno conferire un incarico triennale sulla base del curriculum del docente. Con quali criteri di trasparenza e correttezza? Nessuno. Di fatto la scuola diventa un’azienda privata. E questo nel Paese con la più alta percentuale di corruzione e clientele. Tra l’altro il curriculum non dice nulla delle competenze didattiche: io posso avere tre lauree e non sapere insegnare. Insegnare non significa soltanto conoscere la propria disciplina, ma anche e soprattutto saperla trasmettere, saper costruire una relazione con gli studenti, saperli ascoltare e saper valorizzare ciascuna potenzialità, motivarli e appassionarli. Ma insegnare richiede anche una serie di competenze che nessuno insegna e nessuno valuta: saper lavorare in gruppo, avere creatività e curiosità, saper progettare percorsi didattici.
  2. E difatti nulla prevede la riforma riguardo alla formazione e alla selezione degli insegnanti. Ancora una volta si punta sulle conoscenze disciplinari, a cui il nuovo concorso aggiunge una minima conoscenza dell’inglese. Al concorso cui ho partecipato nel 1999, di italiano mi hanno chiesto la trama di Todo modo di Sciascia. Vi rendete conto? La trama! Come ad un qualunque studente di liceo. E di storia hanno voluto sapere soltanto come si chiamava il ministro del governo italiano che ha firmato il patto di Londra con cui l’Italia ha deciso l’ingresso nella Prima guerra mondiale a fianco delle forze dell’Intesa. Non mi è stato chiesto nulla che dimostrasse, sia pure minimamente, che io ero in possesso di competenze didattiche e pedagogiche.
  3. Altro tema fortemente dibattuto e ancora una volta usato strumentalmente dalla classe dirigente è quello della valutazione degli insegnanti. Il messaggio che il governo ha voluto trasmettere è stato: cari genitori, con la nostra riforma licenzieremo gli insegnanti incapaci. Cosa naturalmente difficilissima da fare se un insegnante è vincitore di pubblico concorso ed è tutelato dal diritto pubblico. Avrebbe potuto parlare di valutazione formativa, cioè di segnalare ai docenti i loro eventuali deficit da colmare con appositi corsi di aggiornamento, ma l’effetto mediatico non sarebbe stato lo stesso. In linea di principio non ho nulla contro la valutazione degli insegnanti (nel mio libro racconto un piccolo esperimento che ho fatto nelle mie classi), ma penso che la vera valutazione sia la selezione in ingresso, ovvero fare arrivare in classe docenti veramente capaci di insegnare e veramente motivati, perciò capaci di motivare e appassionare gli studenti. Il problema è stabilire obiettivi e criteri della valutazione, cosa non propriamente facile, visto che la scuola non produce beni materiali, ma a si occupa dell’istruzione di bambini e adolescenti. È più bravo un insegnante che boccia tanto o uno che promuove tanto? Si può bocciare per severità, ma anche per incapacità didattica. Allo stesso modo si può promuovere per generosità o perché l’insegnante ottiene ottimi risultati. La riforma Renzi, attraverso il Rapporto di Autovalutazione che ogni istituto è obbligato a fare, darà un voto e un finanziamento proporzionale al risultato. Centrale in tale valutazione sarà il risultato dei test Invalsi, che però sono contestati dalla quasi totalità degli insegnanti, e misurano (non valutano) soltanto l’apprendimento di italiano e matematica, dunque una porzione minima del lavoro didattico. Più la tua scuola otterrà un buon risultato, maggiori saranno i finanziamenti, col paradosso che saranno sostenute le scuole che già funzionano e abbandonate quelle in difficoltà. Il secondo problema è chi valuta. E qui sono assolutamente contrario all’intromissione dei genitori, sia perché non hanno l’obiettività per farlo, sia perché non è detto che ne abbiano gli strumenti. Spesso, in presenza di risultati negativi dei loro figli, i genitori si sentono valutati e tendono a reagire emotivamente, a difendersi, direbbe la psicanalisi. Mi fido di più del giudizio degli studenti, ho infatti sperimentato che alla fine sono molto più onesti dei loro genitori. Il problema della valutazione è stato usato strumentalmente dalla politica, per avere il facile consenso dei genitori.

Ci sono tante altre questioni aperte, ad esempio l’alternanza scuola-lavoro, la revisione dei programmi scolastici (siamo l’unica nazione d’Europa che fa studiare 10 e talvolta 12 materie agli studenti e di ogni materia il programma comprende tutto lo scibile umano), le attività di aggiornamento, i testi Invalsi. Avrei bisogno di scrivere un altro libro per poterne parlare in maniera sensata. E questo dà la misura della complessità dei problemi della scuola italiana, problemi evidentemente non riducibili a slogan pubblicitari. Concludo dicendo, come ha opportunamente ricordato Tullio de Mauro, che quando si parla di scuola ci si dimentica che essa si compone di tre segmenti completamente diverse: elementare, media e superiore, a cui, in un’ottica di educazione permanente, andrebbe aggiunta l’educazione degli adulti. Pensate a quanti adulti farebbe bene un ripasso di storia e geografia e magari qualche nozione di diritto in un’epoca segnata da imponenti migrazioni dai paesi poveri del mondo e da quelli dilaniati dalle guerre.

Ornitorinco

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ornitorinco-in-cinque-passi_400

di Lorenzo Mari

Ornitorinco II

Ornitorinco, svìtati.

Ritorna papera o coniglio,
che poi nella ramaglia

corri a vedere ciò che non puoi
in ogni tratto, in ogni sbaglio:

immagine-immagine / immagine-parola / parola-parola

scorgi, ovvero discerni

(dormi)

Conto a mente delle guerre perse, mai combattute,
mai organizzate, e a scanso di ogni possibile dichia-
razione. Non compare nessuna Caporetto, nessuna
pasciuta linea gotica, nessuna foiba fonetica con fo-
bia, nessuna Marna. Conta che ti riconta, ci sono dei
numeri, li vedo, fuggono via. Ripassa bene con il fer-
ro caldo sulla ferita, per uncinarla, ma non inventare
fasci: questo è, nel giro del possibile, vederli, toccarli,
scambiarli con mazzi di cartavaluta. Lasciare, per con-
tro, una certa dose di soprannumero, quanto all’ansia.
Succede così, a un dipresso, nelle spiagge libere. Navi
di ferro, imbarcazioni di lattice, costruzioni incredibili,
nate in un soffio: ci sono comunque dei numeri, ma
a rigor di logica, o per volontà di incidere con lo stilo,
non c’è mai stato uno smacco tale per cui
questa poesia non possa esistere.

 

 

 

L’habitat dell’ornitorinco
si costituisce come spazio inventato

ma reale più del reale,
sempre prima della fine

o dell’ultima svolta – costituito,
è cosa ultima, è cosa certa

e cos’altro si può dire dell’impero
e del suo arco più potente

da una forma netta di silenzio
e da uno sguardo di sguincio.

L’habitat dell’ornitorinco
è più reale del reale

ma è stato costruito per un animale
che non parla, non è mai presente.

 

 

 

Le abitudini alimentari dell’ornitorinco
non cambiano da secoli, si ritorcono

contro lo stesso cibo, o la merce,
benché l’elettrolocazione possa ora

dar luogo ad alcuni progressi particolari –
per esempio, stanare più vittime, sul fondo,

muoversi meglio, nel reticolo,
e non soltanto buttare il becco a papera,

usare gli artigli di qualcun altro,
ghermire piccoli pesci colorati

(e altre biglie).

L’ornitorinco che si nutre solo in superficie
non sfrutta il potenziale concesso, e talvolta

chiama, con voce di papera, qualità
ciò che, per il coniglio, resta valore.

 

 

 

L’occhio dell’ornitorinco, se tace,
non si debilita, non sfarina:

soprattutto non accusa la retina,
che sia post o contro immagine…

Si chiude – lo segue l’orecchio –
perché a cosa serve ormai la musica,

non appena entrato in acqua?
Pelo più chiaro attorno all’incavo

e l’occhio resta per tutti un mezzo
aperto, a intimare lontananza

ma è questo l’unico indovino, in fondo,
per elettrolocazione e padronanza.

Gli insetti prede acquatiche lo irridono,
ma è già tutto distinto, non si vede critica:

lui – forse lei, per dimorfismo –
rinasce dall’acqua al fango all’aria,

lei – forse lui –
crede ancora, fermamente, nella dialettica.

 

 

 

*

 

Lorenzo Mari, Ornitorinco – in cinque passi, Prufrock 2016

 

Per cominciare: Ornitorinco in cinque passi non è un trattato di zoologia. È piuttosto un libro su quello che è rimasto dell’impero, che siano arnie, tunnel o archi a tutti sesto; oppure: è la guerra dei topi e delle api, ultimi superstiti tra le macerie. Così, nelle poesie che lo compongono, Lorenzo Mari cerca di sbrogliare la matassa (o quello che della matassa è rimasto) andando a cercare il senso dell’ornitorinco – che in fondo a tutti par bene d’averlo letto o sentito – che per stavolta non è la Bestia de Il Conte di Kevenhüller, e non è nemmeno lo snark. Allora, messe da parte l’ipocondria e le guerre perse, sì che se ne esce –/ lo dice di una crisi che non è affatto distinzione,/ parola che accende, resta sempre uguale –/ c’è sempre una via di uscita. Forse.

 

[Lorenzo Mari vive e lavora a Bologna. Ha pubblicato alcuni libri di poesia, tra cui Minuta di silenzio (L’Arcolaio, 2009) e Nel debito di affiliazione (L’Arcolaio, 2013). Insieme a Luigi Bosco, Davide Castiglione e Michele Ortore ha fondato il sito di critica letteraria IRLP. Traduce dallo spagnolo e dall’inglese.]

 

Una presentazione del libro avverrà

Mercoledì 25 maggio, ore 18.00
IBS.it Bookshop, Piazza dei Martiri, 5 – Bologna

a cura di Sergio Rotino

introduce Stefano Colangelo

 

*

 

 

mater (# 2)

6

di Giacomo Sartori

 

come facciamo con le sedie

 

come facciamo con le sedie

ci tenevi tanto

a regalarmele tu

ma poi mancava il tempo

per andare a sceglierle

veniva la festa successiva

avevo altre urgenze

l’anno seguente ero  via

Su Dopo Holocaust,1979: ricordi di uno spettatore

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di Giorgio Mascitelli

 

 

Nel 1979 la RAI trasmise il telefilm americano Holocaust, che sdoganava, per così dire, a livello di cultura di massa il tema della persecuzione nazista degli ebrei. Avevo dodici o tredici anni e, benché non mi avesse fatto particolare impressione,   mi ricordo di avervi assistito in compagnia dei miei genitori; che non mi avesse particolarmente colpito dipende forse dal fatto che a casa avevo già ricevuto succinte ma precise informazioni sulla shoah, che peraltro allora in Italia non si chiamava così, e verosimilmente avevo già letto qualche pagina del diario di Anna Frank,   come poteva capitare a un figlio di intellettuali di sinistra quale ero. Ho un ricordo nitido, tuttavia, delle accuse di semplificazione e banalizzazione della storia rivolte agli autori di Holocaust, che trovavano riscontro in parecchie perplessità dei miei genitori. Insomma ciò che venni a sapere, o quanto meno credetti di comprendere, era che esistevano due modi per trattare argomenti così tragici uno superficiale e scorretto e un altro profondo e veritiero.

Ciò che non potevo sapere è che la versione tedesca di Holocaust, trasmessa qualche mese prima, ebbe uno spettatore illustre in Gunther Anders , che nel suo diario ha lasciato alcune considerazioni sull’accoglienza che ebbe la serie in Germania, di recente pubblicate nel libro Dopo Holocaust, 1979 ( Bollati & Boringhieri, Torino, 2014, traduzione e postfazione di Sergio Fabian, introduzione di David Bidussa), che ho letto l’anno scorso con estremo interesse per la profondità di alcune considerazioni che vi ho trovato, ma spinto all’inizio più che altro dai motivi legati ai miei ricordi personali di spettatore, se posso confessare la leggerezza delle mie motivazioni nelle scelte delle letture. La tesi fondamentale di Anders, controcorrente rispetto alle critiche provenienti dal mondo intellettuale efficacemente documentate nella prefazione di Bidussa, è che Holocaust, proprio in ragione della semplificazione storica e della riduzione  di una tragedia di massa a vicenda di individui riconoscibile al grande pubblico, abbia scosso le coscienze più di molte forme rigorose di documentazione storica.  Così molti tedeschi, che avevano ipocritamente evitato di affrontare il sentimento morale derivante dallo sterminio, vi erano posti di fronte tramite l’empatia e il riconoscimento con i protagonisti dello sceneggiato, per usare la parola che allora in italiano indicava produzioni come questa.  Non che Anders si facesse particolari illusioni sulle conseguenze del fatto, come dimostra una sua osservazione sarcastica relativa alla circostanza che i tedeschi, maestri nel chiedere agli altri di fare la pulizie nel loro cortile di casa, a casa propria avevano lasciato l’incombenza a degli stranieri. Più in generale le sue considerazioni mi pare vadano lette sotto il segno dell’ ‘almeno’, cioè il sentimento scaturito da Holocaust è almeno qualcosa rispetto all’opera mancante di rifondazione morale che avrebbe dovuto essere compiuta. C’è naturalmente in queste considerazioni amare una sfumatura universale che non riguarda solo coloro che c’erano perché l’anestetizzazione collettiva non è un fenomeno riferibile solo a quell’epoca e a quella nazione.

Nel 1985, frequentando l’ultima anno di liceo, in occasione di una viaggio di scambio culturale in Polonia, fui tra coloro che chiesero, in deroga al programma stabilito del viaggio, di visitare Auschwitz e lo ottennero grazie all’intervento del docente accompagnatore Carlo Oliva: sentivo sia pure confusamente un sentimento di dovere verso una sorta di pellegrinaggio laico, per usare parole che allora non sarei stato in grado di usare.  Non sapevo però dove mettere questo sentimento, in quale scomparto della mia vita morale e politica. Quell’anno tuttavia ciò che mi colpì di più fu un’intervista a Simon Wiesenthal, apparsa sul Corriere della Sera mi sembra, nella quale l’allora famoso cacciatore di criminali nazisti affermava che la shoah era stata resa possibile dall’acquiescenza di individui che svolgevano le proprie mansioni senza riflettere sulle conseguenze e dotati di una visione gerarchica e acritica del proprio dovere e  di un atteggiamento conformista nella società. Benché si tratti di idee che circolavano diffusamente  dopo l’elaborazione del concetto di banalità del male, esse mi colpirono perché le leggevo per la prima volta e mi fornivano una sorta di chiave anche verso il presente e verso quello che in qualche modo riguardava il dove mettere quel sentimento nella mia vita .

“Chi si presenta qui con criteri estetici è immorale” è la perentoria affermazione che si incontra già nella prima pagina del diario. Eppure Dopo Holocaust, 1979 pullula di osservazioni estetiche, spesso di straordinaria perspicuità, come la mise en abyme  dell’interdetto adorniano sulla poesia dopo Auschwitz.  Segno verosimilmente che l’estetico e l’etico, e già che ci siamo anche il politico e il mediatico, sono strettamente intrecciati in questa vicenda.  La tesi di fondo di Anders può essere espressa, rovesciando il celebre principio debordiano, dall’affermazione che il falso in questo caso costituisce un momento del vero: è infatti proprio la natura ‘finzionale’, e quindi riduttiva e semplificatoria, a colpire l’immaginario del pubblico e a produrre quell’effetto di turbamento, che è tutto il contrario del ritorno del rimosso di cui andava parlando la stampa, visto che un trauma vero e proprio in Germania non ci sarebbe mai stato. Bisogna allora dare atto a Holocaust, come nota Bidussa nell’introduzione, che ha dato un nome a ciò che prima non lo aveva presso la collettività, anche se il nome  il più corretto è un altro come sembrò ad altri in seguito con ragioni altre.

Secondo Anders , Holocaust ottiene addirittura sul pubblico quel tipo di effetti che aveva cercato di conseguire Brecht con il suo teatro didattico. Eppure  Holocaust ha suscitato, secondo lo stesso Anders,  il turbamento del pubblico tedesco tramite i meccanismi di identificazione con i personaggi e con la trama  in una linea grosso modo di tipo catartico, con tutto che a una vera e propria catarsi non si arrivi, mentre Brecht punta sullo straniamento perché il suo non è un teatro didattico in senso genericamente morale ,ma in senso politico ossia è un tentativo di politicizzazione del pubblico. Del resto i rimproveri di scarsa attendibilità storica che a suo tempo furono rivolti a ragione a Holocaust, avrebbero potuto essere fatti con ancora maggior ragione ai drammi brechtiani di argomento storico caratterizzati di solito da uno schematizzazione dei fatti. Eppure al drammaturgo non furono mai rivolti perché la sua semplificazione appare funzionale a cogliere e  mettere in scena un paradigma delle pratiche e della morale del potere. Insomma il fine degli autori di Holocaust è quello di suscitare un sentimento morale di orrore e, nei responsabili, di rimorso di fronte allo sterminio, fino ad allora ipocritamente ignorato, quello di Brecht è favorire una prassi politica, il cui significato etico si iscrive tutto nella categoria di ottimismo della volontà.

Nel 1994 ero un insegnante appena nominato in un liceo dell’hinterland milanese; la primavera di quell’anno, dopo le elezioni del 27-28 marzo, a scuola resterà a lungo impressa nella mia memoria, così come vi resterà a lungo la parola ‘riconciliazione’ usata in quei giorni nella singolare accezione di rivincita. Ricordo uno studente diciottenne che tra gli applausi generali in un’assemblea d’istituto spiegava che finalmente in Italia era caduto il comunismo e che ora occorreva fare la ‘riconciliazione’ e concludere il lungo dopoguerra. Frequentando ogni giorno quella scuola, la folla oceanica del piovoso 25 aprile mi sembrò la popolazione di un’isola e mi sentii improvvisamente di un’altra generazione, nonostante allora intercorressero meno di dieci anni tra me e gli alunni della quinta. In questo clima fu naturale per un gruppo di docenti democratici di quel liceo organizzare per le classi una proiezione di Schindler’s List, uscito in Italia proprio in quei giorni.

E’ superfluo precisare che Schindler’s List è un film di altro livello rispetto a Holocaust sia per la qualità del linguaggio filmico sia per la cura dei dettagli storici, anche se tramite il sublime eroico rappresentato dal protagonista cerca di produrre effetti di orrore morale, non dissimili a quelli di Holocaust. Bisogna riconoscere che dal film di Spielberg i miei alunni  ricavarono un’impressione di orrore del nazismo, tanto più importante perché vivevano in un contesto, in cui i rischi di una sorta di riduttivismo tra il negazionistico e il goliardico o dell’indifferenza morale, era reale; ma, concluso  il film con il suo carico emotivo, non restava nessuno stimolo verso ciò che da quell’epoca arrivava al presente, insomma non veniva proposto nessun paradigma da ricavare da quella storia. Non vorrei che si scambiasse questa mia considerazione per un intellettualismo iperpoliticista: per esempio in un film popolare come La vita è bella Benigni, senza per questo essere Brecht, nel primo tempo un paio di cose in questa direzione le dice.

E’ chiaro che in un libro come Dopo Holocaust, 1979 il discorso di Anders ha come referente preciso determinate generazioni, quelle del nazismo e del dopoguerra, e la tonalità emotiva delle sue osservazioni, affine a quella di un Kempowski, lo rivela;   ma un libro di questa potenza ha per forza di cose un  inevitabile destinatario nei posteri, ai quali per fortuna non è chiesta nessuna ardua sentenza, visto che la sentenza non era affatto ardua in questo caso ed è stata pronunciata a suo tempo. Il problema dei posteri, in quanto assenti ai momenti dei fatti, è quello della prospettiva, di come guardare a questo passato per conservarne memoria. Dico allora  per semplificare che ai miei occhi di spettatore appaiono due prospettive: l’una di carattere monumentale che difende l’unicità dell’evento contro ogni relativizzazione, ma che nel contempo richiama continuamente lo scarto con il presente, l’altro politico che scorge un paradigma in quell’evento che non si può ripetere letteralmente, ma che indica dei tratti comuni tra la shoah e altri fatti contemporanei magari, non così assoluti, attualizzando sempre il contenuto dell’evento e perciò modificandolo nella ricezione.

In linea di principio queste due prospettive sono conciliabili tra loro, ma nella bassa sociologia della contemporaneità, tra le urla dei media che scoprono ormai un nuovo Hitler all’anno e la depoliticizzazione diffusa, appare un processo difficile, forse ormai alla portata di poche minoranze. Del resto anche raggiungere una di queste due forme di memoria non è così scontato.  E’ probabile allora che nell’esperienza di un pubblico e nelle scelte di un artista il divario tra rappresentazione del sentimento morale derivante dall’unicità del fatto e la proposizione di un paradigma  valido per l’attuale si presenterà come un bivio decisivo.

Ho come l’impressione che da questa scelta dipenderà la direzione che prenderà quello che potremmo chiamare il dovere della memoria.

 

 

 

waybackmachine #01 Giacomo Sartori “Nuovi autismi 18 – Le bugie degli scrittori”

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29 marzo 2012

Giacomo Sartori” Nuovi autismi 18 – Le bugie degli scrittori

Nei miei testi cosiddetti narrativi ho scritto un mare di bugie. Ho scritto per esempio che mio padre è morto per aver mangiato molta verdura contaminata dall’incidente di Chernobyl, il che è una smaccata falsità. Certo mio padre ha mangiato tantissima verdura altamente radioattiva, perché aveva uno spirito di contraddizione assai sviluppato, che lo pungolava a fare l’opposto di quello che facevano tutti,

 
waybackmachine

Overbooking: Mirco Salvadori

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Schermata 2016-05-16 alle 17.17.24

 

 

Mix

(A proposito di Hazkarà)

di

effeffe

 

 

 

 

 

Incontrare con il proprio lavoro quello dei musicisti, dei pittori o degli scienziati è la sola combinazione attuale che non si riferisca né alle vecchie scuole né a un nèo-marketing. Sono tali punti singolari che costituiscono i focolai di creazione, delle funzioni creatrici indipendenti dalla funzione autore, distaccate dalla funzione autore. Il che non vale soltanto per gli incroci di campi differenti, è ogni campo, ogni pezzo di campo, per quanto piccolo esso sia, ad essere fatto di tali incroci.
I filosofi devono venire da ogni dove: non nel senso che la filosofia dipenderebbe da una saggezza popolare un po’ ovunque, ma nel senso per cui ogni incontro ne  produce, definendolo allo stesso tempo, un nuovo uso, una nuova posizione di connessione – musicisti selvaggi e  radio pirata. ( Gilles Deleuze, Contre le nouveaux philosophes   )

 

Schermata 2016-05-16 alle 17.37.59

 

https://www.youtube.com/watch?v=uh5-2N2dHY0

 

Schermata 2016-05-16 alle 17.38.10

 

Schermata 2016-05-16 alle 18.44.44

 

La vita, il pezzo che conta, il frammento, lo sprazzo di memoria, la compilation, a memory card, records, il battito, la pulsazione, beat generation, la puntina e i solchi, l’incisione, le tracce, le tracce che precedono i ricordi. Anamnesis vs Hazkarà. Grazie Mirco, per avercelo ricordato.

Scheda

HAZKARA’ è un progetto editoriale, musicale e fotografico pubblicato da 13/Silentes. Una release che raccoglie racconti introspettivi e intime liriche; testi scritti da Mirco Salvadori e scelti tra il materiale edito ed inedito prodotto dall’autore negli ultimi anni. Salvadori è conosciuto per il suo lavoro di storico dj radiofonico, giornalista musicale, non che attivo diffusore di nuove esperienze sonore nella veste di co-owner e art director dell’etichetta digitale indipendente Laverna. Gli scritti sono accompagnati dalla presentazione dell’amico Fabrizio Loschi artista modenese, dalle intense immagini firmate da Stefano Gentile e Monica Testa e dalle musiche composte e suonate da Gigi Masin che nell’accluso cd “Plays Hazkarà” propone 8 tracce inedite nell’inconfondibile stile del musicista veneziano già in coppia con Mirco Salvadori nel progetto artistico InfanToo… un percorso sonoro che parte da atmosfere ambient per raccogliere ritmi e sonorità che rivestono e interpretano alla perfezione, al pari delle immagini, la scrittura intensa dello scritto. Musica totale che esula da qualsiasi catalogazione. 

Si può ordinare qui

 

Pistoia è sul mare. Lo stupore e il rischio della proposta

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L’articolo è uscito, sia in forma cartacea che online, sul secondo numero del giornale bimestrale dell’Associazione Palomar. Qui il sito dell’Associazione politico-culturale, che ha sede a Pistoia, dove sono reperibili tutti i numeri del giornale, gli eventi e l’archivio delle attività (ndf).

di Nicola Ruganti

Pistoia è Capitale italiana della cultura 2017. Con l’assegnazione di questo riconoscimento è stata premiata la connessione tra storia della città e progetto di governo votato nel 2012. Il silenzio operoso dell’amministrazione ha dato i suoi frutti; il risultato è evidente e conferma che il lavoro sui pensieri lunghi è attuale ed ha senso. A pranzo di lunedì 25 gennaio ero con un amico alla trattoria San Vitale; ci interrogavamo su quale sarebbe stata la città designata; abbiamo commentato che Ercolano tra le candidate fosse molto esposta mediaticamente. Poco dopo, in consiglio comunale, il sindaco ha raggiunto la sala di Grandonio e ha annunciato il riconoscimento all’assemblea cittadina: emozione e tra i presenti anche qualche lacrima. Perché siamo stati colti dallo stupore? Perché tutti abbiamo festeggiato e tutti eravamo increduli? Che c’entra Pistoia Capitale della cultura se in Italia ci sono Firenze o Venezia? Prima informazione necessaria: non si partecipava alla selezione inviando una cartolina. Così l’incipit del bando per la Capitale italiana della cultura: “L’iniziativa di selezionare ogni anno la ‘Capitale italiana della cultura’ è volta a sostenere, incoraggiare e valorizzare la autonoma capacità progettuale e attuativa delle città italiane nel campo della cultura, affinché venga recepito in maniera sempre più diffusa il valore della leva culturale per la coesione sociale, l’integrazione senza conflitti, la conservazione delle identità, la creatività, l’innovazione, la crescita e infine lo sviluppo economico e il benessere individuale e collettivo.” Insomma si premiava il progetto e la capacità della città di sostenerlo. Quando queste informazioni si sono diffuse capillarmente la città si è attivata ma al tempo stesso non si è discostata dalla meraviglia unita all’atteggiamento brusco e guardingo che abbiamo mantenuto nel tempo. Un po’ come se ci avessero detto, e ce lo avessero detto da Roma, a Pistoia c’è il mare. Mi sono, così, ricordato di una bella poesia di Ingeborg Bachmann: La Boemia è sul mare.

[…]

Venite boemi voi tutti, gente del mare, puttane dei
porti e navi
disancorate. Non volete essere boemi, illiri, veronesi,
e veneziani voi tutti. Le commedie recitate che son
fatte per ridere
e inducono al pianto e cento e più volte sbagliate,
come me che tanto ho sbagliato e prove mai ho
superato
sì, l’una e l’altra volta le ho superate.
Come la Boemia le ha superate e un bellissimo giorno
il mare le fu donato e adesso è sul mare.
Io confino ancora con una parola e con una terra
diversa,
io confino, anche se poco, sempre più con tutto,
un boemo, un errante, che nulla ha, nulla trattiene,
capace ancora soltanto di vedere dal mare, che è
controverso, la terra della mia Elezione.

 

Pistoia è sul mare, dobbiamo prendere consapevolezza di ciò che è successo in questi anni: sono ormai in atto progetti che trasformano la città in modo radicale: la trasformazione dell’area del Ceppo e la Capitale della cultura fanno già parte della storia della città di oggi e di quella che sarà. E per quanto riguarda la parte economica? Con i finanziamenti si aggiusteranno le buche? Certo che sì; dovrà essere così. Tutto, in una città che si aggiudica un riconoscimento così importante e storico, deve tendere a far sì che Pistoia sia pronta anche dal punto di vista infrastrutturale, in centro, ma soprattutto in periferia, nella piana, in collina e in montagna. Il milione di euro di contributo per le attività del dossier Capitale 2017 era già finanziato dunque avremo soldi in più nelle casse del Comune, ed un milione in più, per gli enti locali di questi anni dieci, significa respirare. Quel milione attrarrà altri finanziamenti e parteciperanno molte persone: alle mostre, alle iniziative, alle manifestazioni. È importante leggere il dossier: rispecchia la città, è un modo per ritrovare ciò che si conosce e scoprire ciò che in città non si è mai incontrato. Guardandosi allo specchio ci poniamo alcune domande: cosa genera la cultura? Di quale cultura stiamo parlando? Negli anni novanta (gli anni sessanta, settanta e ottanta appartengono a un’epoca e a un’Europa troppo diverse) siamo stati governati da assessori alla cultura con notevole disponibilità di denaro per i progetti più variegati: da quelli che leggevano “la Repubblica” e pensavano fosse il modo per capire il mondo, a quelli più antagonisti che riciclavano estetiche degli anni, perduti e soffocanti, dell’orda d’oro del sessantotto eccetera. I finanziamenti di quel periodo e possibilità culturali più ampie hanno, però, reso possibile anche la nascita di realtà artistiche molto interessanti: compagnie teatrali, gruppi di cinema sperimentale, donne e uomini di letteratura, illustratori e fumettisti, fotografi… hanno trovato la strada, in alcuni casi anche recuperando le briciole, per veder sostenuta sia la propria poetica, sia il proprio lavoro culturale. Queste occasioni sono state rese possibili anche grazie a quegli assessorati. La Capitale italiana della cultura ci offre un’occasione: chiedere – all’amministrazione comunale e non alle fondazioni e neppure all’Europa – di essere il soggetto pubblico che dà alla cultura giovanile e ai progetti culturali e artistici non mainstream, nascosti, ma presenti nella nostra città, l’occasione per rappresentare il proprio pensiero le proprie idee e opere. Il progetto della Capitale fa e farà il suo corso ma può fare di più, può essere aggiornato alla luce di una possibilità economica superiore, sensibilmente, a tutti gli investimenti fatti negli ultimi anni in città. Uno dei tanti progetti dunque? No. Si tratta di aprire un concorso di idee e di prevedere, concretamente, la fattibilità economica di quei progetti, di quelle idee che risulteranno essere le migliori. Dobbiamo accorgerci prima, e non dopo, di ciò che possiamo fare, di quali condizioni possiamo creare perché in tutte le discipline artistiche si possa determinare la possibilità di vedere che cosa la città è in grado di proporre, trasversalmente; e tutto ciò riguarda, dal punto di vista artistico, sia chi sta crescendo, sia chi inizia adesso, sia chi lavora da tempo. In questo frangente si può cogliere l’occasione per costruire una commissione di artisti, critici, curatori e intellettuali che hanno lavorato tanto in questi anni affinché la cultura fosse la cultura della sperimentazione, che l’arte fosse l’arte che porta turbamento e non consolazione.

L’amministrazione potrebbe chiedere alla città, scrivendo un bando per l’occasione, progetti di interpretazione e trasformazione della città, chiarendo di non aspettare idee affette dal gigantismo, ma proposte che abbiano la possibilità di far respirare un’aria diversa da quella che si respira in tante città d’Italia. Sarebbe un segnale molto rilevante in un momento Pistoia è sul mare lo stupore e il rischio della proposta in cui l’artista Blu decide, con una scelta sofferta e spiazzante, di cancellare tutte i suoi disegni murali dagli edifici di Bologna. È da cogliere la sfida di far emergere alcuni progetti, almeno una decina, sostenuti economicamente e che si misurino con la città. Perché è una priorità? Perché siamo in una temperie culturale generale in cui sono rare le emersioni di diversità creative? In un periodo di omologazione forte e imperante la funzione pubblica, il Comune, deve cogliere il proprio compito nella produzione artistico culturale. Accade già per esempio nel caso dell’area ex ospedaliera del Ceppo, nelle scelte di politica urbanistica, di intraprendere la scelta di infrastrutturare con soldi pubblici: possiamo farlo anche nelle politiche culturali. Siegfried Kracauer in La fabbrica del disimpegno definisce l’importanza delle idee e del loro concretizzarsi, sono riflessioni che innescano la consapevolezza della necessità di essere conseguenti in ragione di ciò che viene stabilito come prioritario. “Il mondo sociale è sempre colmo di un numero incredibile di forze spirituali o idee che si possono definire brevemente idee. Movimenti politici, sociali, artistici, nei quali si incarnano alcuni determinati contenuti, un bel giorno si svegliano e imboccano il loro corso. Una caratteristica comune alle idee è che cercano di impregnare l’esistente, cercano di diventare esse stesse realtà; come un dovere materiale e concreto, spuntano all’interno della società umana con l’innata intenzione di realizzarsi. Ma solo quando cominciano ad agire nel mondo sociale mettendolo in subbuglio, invece di restare semplici chimere senza influenza sulla realtà, possono essere prese in considerazione da un punto di vista sociologico. Tutte le idee che crescono così nel mondo sociale per riscattarlo dalla sua rigidità, attraversano alcuni processi che si presentano non solo come fatti storici, ma sono caratterizzati anche dal loro aspetto formale e sociologico. Come il sasso lanciato in acqua produce cerchi di un genere di una grandezza legati non tanto alla sua forma e qualità specifiche, quanto piuttosto alla forza e alla direzione del lancio, così ogni idea che urta contro l’elemento sociale esistente suscita in esso uno stimolo il cui sviluppo è condizionato da fattori di ordine generale. Per comprenderli nella loro necessità, questi fattori dovranno essere dedotti dalla struttura dello spirito esaminata da una prospettiva fenomenologica.” Che cosa è la nostra cultura oggi? Quale arte è all’altezza dei conflitti e del confronto con la povertà? Che forza e che direzione diamo al nostro sasso lanciato in acqua? Che forza e che direzione diamo all’intenzione di aprire un concorso di idee, finanziato, per coloro che hanno visioni della città, di ciò che è o non è mainstream, delle contraddizioni del contemporaneo? L’istituzione ha il dovere di cimentarsi con la mutazione delle culture e delle arti: c’è uno spazio di azione possibile, c’è bisogno di discuterne a fondo e poi, di fare cultura dando spazio a ciò che dell’arte è contemporaneo; è un compito per Pistoia, è un compito per una città che sa prendersi la responsabilità di formulare una proposta che non serva solo qua. Ciò che la città è va connesso con ciò che la città può essere. Il compito che possiamo prenderci è quello di non perpetrare lo status quo ante perché in ciò che siamo stati, in ciò che siamo, si anima l’inizio della trasformazione in una città che non possiamo sapere. In una città con cui dobbiamo prenderci dei rischi e che dobbiamo mettere nella condizione di stupirci.

Una poesia d’aprile

2

di Fabrizio Bajec

 .

Stiamo arrivando

con i teloni le mani alzate

e una nuova costituzione

Stiamo arrivando

da ogni angolo di Paname-ville

sobborghi dalle campagne

con le casse le banderuole

La Romagna di Baldrati

1

di Mauro Baldrati

245_cover_fuga_DEFINITIVANel fiume Lepre c’è la “buca di Filippi”, un punto dove l’acqua è profonda e si può nuotare. Qui siamo sempre una ventina di bambini e di ragazzi già sviluppati tutto il giorno a fare bagni, lotte, immersioni, tuffi, a pescare “a manaccia”. Ci sono due posizioni per i tuffi, un grosso sasso che sporge dall’acqua per mezzo metro e un punto della sponda alto un metro e mezzo. Noi ragazzini ci tuffiamo dal sasso, mentre i ragazzi già sviluppati, e anche quelli abbastanza sviluppati, si tuffano dal punto più alto. E’ raro che un ragazzino si tuffi dal punto più alto, e se lo fa si butta sempre coi piedi. I ragazzi sviluppati, invece, si buttano anche dal sasso. I ragazzi sviluppati comunque, a parte qualche eccezione, si tuffano sempre di testa.
Noi ragazzini guardiamo spesso i pipiricchi dei ragazzi sviluppati. Guardiamo la loro sacchetta scura, i peli folti sul pube. Poi controlliamo i nostri piccoli pipiricchi senza l’ombra di un pelo, o nel migliore dei casi qualche pelucco isolato.  C’è qualcuno a cui stanno spuntando i primi ciuffi, ma la sacchetta non è ancora diventata scura. Noi questi bambini-ragazzi non li invidiamo, perché fanno i gradassi ma sono ancora molto indietro nello sviluppo. Invece giriamo intorno ai ragazzi completamente sviluppati, che sono i padroni assoluti del territorio. Tra di loro ci sono dei prepotenti, dei violenti, ma in complesso ci lasciano stare perché noi siamo molti, e loro pochi. Sono e restano i padroni, possono mandare via un ragazzino da un sasso se vogliono tuffarsi, mandarlo via se gli interessa il suo posto al sole, ma alla fine ci lasciano vivere, non sono dei tiranni. Alcuni sono dalla nostra parte, ci proteggono dagli attacchi esterni. Se per esempio alla buca di Filippi arriva qualche ragazzo sviluppato particolarmente prepotente, in vena di maltrattare qualcuno di noi senza motivo, se la deve vedere con qualche ragazzo sviluppato nostro protettore, che è disposto a lottare anche duramente per mantenere il controllo del territorio.
Tra i ragazzi sviluppati che vengono da fuori c’è il Corsarino, che è chiamato così perché i suoi genitori gli hanno comprato un Moto Morini Corsarino e lui ne va particolarmente fiero. E’ un tipo duro, solido, muscoloso. Ma è anche piccolo di testa, sembra che si trovi meglio con noi che con gli altri ragazzi sviluppati come lui. Fa lo sbruffone, ma si sente che è un po’ stupidottero. Non gode di molta stima, ma è temuto perché ha un fisico muscoloso, più potente degli altri ragazzi sviluppati. Potrebbero prenderlo in giro perché è più debole dentro, ma non lo fanno perché è forte fuori.
Il Corsarino non viene quasi mai alla buca di Filippi perché il suo ritrovo è la buca di Lolli, dall’altra parte del fiume rispetto al paese. E’ un posto che a me non piace perché il fondo è fangoso con le alghe mentre qui alla buca di Filippi c’è la sabbia.
Io il Corsarino non lo sopporto. Anzi, lo odio. Un giorno ero alle giostre e c’erano dei ragazzi che parlavano di certe belle ragazze. C’era anche il Corsarino che si è inserito nella discussione e a un certo punto salta su e fa: “C’è della gente che se ne è fatte un sacco e una sporta di gnette pensando a una sposa imperiale che va a fare la spesa da Gucci”, e si mette a guardarmi fisso. Io allora ho capito senza ombra di dubbio che stava parlando di mia madre. Infatti la mamma va sempre a fare la spesa da Gucci il droghiere. Mi sono sentito esplodere di rabbia e di impotenza. Il Corsarino ha rincarato la dose, ha detto: “C’è della gente che quando la vede passare questa sposa diventa matta e va subito a farsene un bigoncio così.” Per fortuna gli altri non hanno capito niente, ma io avrei voluto distruggerlo, bruciarlo vivo, ma cosa potevo fare contro quel gigante che mi avrebbe disfatto come un calzino? Me ne sono andato con lo stomaco pieno di pezzi di ghiaccio, distrutto per la mia vigliaccheria mentre il Corsarino, a voce alta, continuava a ripetere le sue nefandezze.
Arriva col suo motorino, si mette subito nudo e scende baldanzoso la sponda del fiume. Si ferma nel punto da tuffi alto, lancia occhiate spavalde intorno a sé e dice: “Allora? Dov’è che ci si tuffa qua? E’ lì?” e indica un punto alla sua destra. Io sono in acqua e sembro immerso fino alle orecchie, in realtà sono seduto sul ciglio della buca. Il punto che ha indicato il Corsarino è basso, l’acqua arriva appena sopra al ginocchio. D’altronde il fondo non si vede, perché l’acqua del Lepre è sempre torbida. Il Corsarino dice: “E’ lì che ci si tuffa, no?”, e guarda me. Io sono l’unico in bagno da quelle parti, gli altri stanno nuotando nella buca, o sono stesi sulla sabbia a prendere il sole. Annuisco, gli dico che il punto è quello. Allora Il Corsarino alza le braccia come un campione di tuffi, dice “vai” e si butta di testa. Plana sull’acqua, entra con le braccia, si sente il tonfo e il Corsarino si abbatte con le mani e con la testa sul fondale basso di sabbia. Vedo il suo corpo, che non è entrato in acqua neanche per metà, che rimbalza quando la testa colpisce il fondo. Il Corsarino scalcia, si contorce poi galleggia inerte sull’acqua, con una gamba che si muove e l’altra no. Un paio di bambini e di ragazzi, che hanno assistito alla scena, indicano il corpo e scoppiano in una risata. Ma qualcuno balza in piedi e corre verso Il Corsarino con la faccia sott’acqua. Io non mi muovo, lo guardo galleggiare con la gamba che scalcia alzando piccoli spruzzi.
Lo tirano a riva e lo rivoltano a pancia in alto. E’ svenuto, ha la bocca aperta e continua a muovere la gamba. I bambini e i ragazzi continuano a ridere, si buttano a terra e si tengono la pancia con le mani mentre ridono. Ma gli altri, alcuni ragazzi sviluppati in particolare, sembrano preoccupati. “Sei matto” dice uno, “gli hai detto di tuffarsi nell’acqua bassa.” Io guardo il Corsarino e penso che forse è morto, o forse no. La gamba scalcia, gli esce acqua dalla bocca. Il ragazzo dice “te Toni sei matto”, e lo tocca sul collo. Gli altri ridono e si tengono la pancia. Forse il Corsarino rinviene, si muove, apre gli occhi. Geme, si lamenta. Io non ho fatto nulla. Era lui che voleva buttarsi in quel punto, continuava a dire “è quello il punto, no?” E io gli ho detto che il punto era quello. Che ne sapevo che si sarebbe buttato di testa? Noi da lì ci buttiamo sempre di piedi!
Lo guardo che rinviene, geme, sputa acqua, viene da ridere anche a me e mi tuffo nella buca a nuotare.

 

NdR: questo riportato è  il capitolo “Tutti al fiume” di “Avventure di un teppista”, di Mauro Baldrati, Transeuropa, 2016

La scelta dell’imam, la fine della lingua e la rivoluzione/2

0

di Antonio Montefusco

dante

M. Toninelli, Dante, La Divina Commedia a fumetti, 2015

[Qui la prima parte di questo contributo]

4. L’intreccio mortale tra Stato Nazione e Lingua è, si sa bene, un’invenzione: si tratta di un paradigma che si è intrecciato con l’idea di progresso tecnologico, e ha, talvolta, sforato il limite della dialettofobia. Ma se il Risorgimento, e in generale la cultura ottocentesca, ha incorporato l’intreccio come costitutivo dei nuovi spazi di indipendenza, è evidente che in Italia l’intreccio tra questioni linguistiche, problemi letterari e ossessioni politiche, sono assai difficili da sbrogliare. Nella forza normativa del De vulgari dantesco è presente una spinta – scoperta molto tardi in una maniera piena di fraintendimenti, com’è noto – la precisa individuazione dell’istituzione (la curia, la corte, la città di Firenze, la nazione) come elemento di ordinamento linguistico. Questo gesto anticipatore del giacobinismo linguistico, però, convive non solo con l’incompiutezza (il De vulgari eloquentia non fu mai terminato) ma anche con una prassi linguistica del tutto opposta nella Divina Commedia. Il paesaggio letterario italiano si disegna come un campo di tensioni irrisolto, nel quale l’artificialità del progetto nazionale si fonda su un ancora più artificiale progetto linguistico, che cova in sé le controspinte alla monoliticità della lingua. La celebre linea Dante-Gadda è stata un pungolo eversivo, che ha contribuito a fare della storia italiana l’esempio di una modernità linguistica alternativa. Vale la pena di chiedersi se questa constatazione si debba limitare al quadro letterario, o invece abbia influenzato la realtà dei parlanti della nostra epoca. A mio parere, la risposta è affermativa.

Bisogna ricordare che i linguisti, e in particolare, i sociolinguisti non credono all’esistenza di spazi “monolingui”: la situazione di un territorio in cui si parla una sola lingua è sempre meno una realtà e sempre più un’utopia che non resiste all’usura dell’analisi diretta. Allo stesso tempo, quella spinta all’unificazione e standardizzazione che Pasolini descriveva come incipiente morte dei dialetti, in realtà non si è verificata: quello che è successo, invece, negli ultimi anni è un deciso percorso di acclimatazione del dialetto accanto alla lingua standard come strumento di ampliamento delle risorse stilistiche ma anche semantiche. Questa tendenza alla compresenza del dialetto come integrazione dell’italiano è molto significativa (si vedano soprattutto le ricerche di Sobrero a proposito del post-italiano). Allo stesso tempo, gli studi sull’immigrazione dimostrano che le comunità straniere hanno, in Italia, una fortissima propensione all’integrazione linguistica, addirittura limitando l’uso dell’interlingua intermedia alla fase di apprendimento: non sembrano, per ora, crearsi dei pidgin (Matteo Gomellini and Cormac Ó Gráda, Outward and Inward Migrations, 2010: consultabile on-line https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/quaderni-storia/2011-0008/QESn_08.pdf).

Ciò significa che è molto difficile concepire, per ora, fenomeni di creolizzazione e métissage in un contesto di migrazione come quello italiano, dove le provenienze sono le più disparate (sono attestate più di 200 origini differenti); bisognerà forse aspettare le seconde generazioni per vedere lo sgonfiamento di meccanismi di prestigio culturale che hanno le loro conseguenze anche sul linguaggio; e tuttavia, il quadro linguistico italiano sembrerebbe meno affetto da una tendenza oppressiva e coloniale di ritorno come quella francese ma semmai intrinsecamente plurilingue –in senso spiccatamente linguistico e non solo letterario – perché intrinsecamente memore di essere stata, in molti luoghi dell’altrove della migrazione, lingua minore. L’esperienza dell’immigrazione, dunque, praticata dal parlante italofono può assurgere a strumento di ospitalità linguistica se nell’italiano permane uno statuto di lingua materna minore?

5. Il quadro che ho definito sopra – la tensione fra una nazione fondata sulla letteratura e una letteratura intimamente eversiva perché plurilingue – sembra modificarsi oggi. Se si analizza qualche linea della letteratura contemporanea si può trovare un corrispettivo di quanto avviene nel cinema: diminuisce la dialettofobia, e si procede dunque verso un superamento della diglossia gerarchica fra un High Level del linguaggio e un Low level dialettale e verso un più compiuto bilinguismo consapevole. Ma per realizzare questo, si va forse verso un superamento della sperimentazione stilistica che si poteva saggiare in Gadda e altri, dove comunque il pluristilismo è una polemica non priva di tratti elitari (lo può leggere Gadda un immigrato italofono?). Oggi si intravede una apertura dell’italiano a un suo uso “minore” o comunque ospitale. Si tratta della realizzazione e dell’aggiornamento di un’altra linea tradizionale e alternativa della nostra storia intellettuale, che si è incentrata sulla traduzione (da altre lingue) come costruzione di corridoi culturali che puntano a superare barriere e rimossi.

In altri termini, autori-cerniera come Luciano Bianciardi (e in parte, i poeti-traduttori come Fortini e Sereni) assurgono a esempio di attualità più di Pasolini. L’inquietudine di Bianciardi è vissuta nella figura di frontiera del traduttore, essenza del lavoro culturale contemporaneo e della sua riproducibilità: ma anche agente dispersivo del linguaggio letterario conformistico. Non è un caso se sono le traduzioni ad essere le ossessioni notturne del lavoratore intellettuale, che, scrittore ai margini dell’establishement e della lingua, cerca e non trova una pacificazione:

«Certe notti quando non riesco a prendere sonno mi sfilano in processione dinnanzi agli occhi Salvatore Giuliano e le donne artificialmente fecondate, il colonnello Maverick e il generale Sirtori, ciascuno recando una sua parola sorda e irridente, Virginia Oldoini, Carl Solomon, Gad Dov Ygal, la testa mozza del povero Languille, Beverly ragazza di vita, Nikita Kruscev, Teseo, Arthur Sears maniaco sessuale, Peloncillo Jack, Pop operaio anziano alla catena di montaggio, John Kennedy, Percepied, i ganzi di Germaine Necker, il tarsio animale fantasma, la conferenza di Locarno, MonaMara-June e la nana della Cosmococcic Telegraph Company, Albert Budd, il socialista Vandervelde, la legge settantacinque, socialista anche quella, che chiuse le case, Ivan Grozni, la Venere ottentotta, John Whistler al vecchio ponte di Battersea, il sacrificio di capodanno, la faglia, il neutrino, Marx giovane e il Lenin dei taccuini, Sìdi-bel-Abbès, l’Ondulata Otto, Jack Andrus, l’Astronomo Reale, i Cappellani, le Corone e i Giovani Turchi armati di pistole zip, mille idee per aumentare le vendite e Leonardo da Vinci detective ad Amboise. Ciascuno di loro mi ha portato via un pezzo di fegato e tutti insieme mi hanno dannato l’anima, mi hanno stravolto perfino l’infanzia.»

Nella Vita agra il personaggio è un traduttore: e in questa «pisciata» autobiografica, c’è l’inquietudine del Bianciardi storico, della sua collocazione sociale e del nuovo ruolo dell’intellettuale come lavoratore dell’industria culturale; ma c’è anche la proiezione di un lavoro di assimilazione – integrazione di una cultura – Bianciardi traduce soprattutto letteratura anglo-americana – a un’altra: in questo passaggio si spiegano anche la continua duplicità dei personaggi dei romanzi Lavoro culturale e L’integrazione, che solo nella Vita agra, allorquando si rinuncia al progetto di distruzione del torracchione, diventano unitari. Perché la lingua maggiore – l’inglese – si è ormai acclimatata nella lingua minore italiana; perché il lavoratore-traduttore ha trovato la sua sistemazione pacifica, il suo appartamento e il suo riconoscimento. Il prezzo, però, è altissimo: la condanna al silenzio dell’amico maremmano Tacconi Otello, fornitore dell’esplosivo per l’attentato e voce degli operai della Montecatini, morti nella strage di Ribolla del 1954 che il protagonista voleva vendicare. Ma l’esplosione si trasforma, come noto, in un gioco pirotecnico (qui nella versione filmica di Lizzani):

Niente è più distante dall’ottimismo antifascista dell’impresa di Americana di Vittorini (e Pavese): se là la letteratura americana è «letteratura universale a una lingua sola» capace di trasformare chi arriva dal vecchio mondo in qualcosa di «fresco, nuovo» (Autobiografia. Americanismo non solo per dispetto, in Diario in pubblico, Milano 1957, p. 89), la traduzione in Bianciardi è uno spazio di conflitto; testimonia da dentro la “mutazione”, ne mostra i limiti linguistici. Nella lettera al professore di Grosseto Gaetano Rabiti, Bianciardi ricorda i suoi incubi come incubi di intraducibilità: «dormendo sognavo in inglese e non riuscivo a tradurre quello che avevo sognato» (vedi Corrias, Vita agra di un anarchico, Feltrinelli, diverse edizioni). Nell’immaginare il personaggio-traduttore, infinitamente in bilico tra più mondi – la Maremma dei minatori, la Milano del grattacielo e l’America di Faulkner e Kerouac – Bianciardi trasforma la lingua allo stesso tempo in un terreno di conflitto socio-culturale e in un’allegoria del mondo contemporaneo.

6. Silenzio degli esclusi e dei migranti e usi delle lingue e loro gerarchie sono evidentemente i problemi posti dalla modernizzazione, dallo sviluppo senza progresso. In questo senso, i “dialetti” plurali dei testimoni dell’indagine sulla Milano degli anni ’50 nel volume di Alasia e Montaldi, Milano Corea (recentemente ristampato da Donzelli: memorabile Vermisat, che raccoglie vermi nei fossi per vivere: Mario Brenta vi ha dedicato un film, oggi introvabile) e quelli dei testimoni de La terra del rimorso di De Martino non sono il simbolo dell’arretratezza e dell’ignoranza, ma anche una inconscia ribellione alle scelte di assimilazione che il progresso ha offerto al migrante. Mi pare che, se Pasolini resta prigioniero di una visione tipica degli anni ’50 – lo sviluppo capitalistico permetterà il successo dell’italiano, ma standardizzandolo a danno dei dialetti – prendendo le parti dei perdenti – i dialetti come resti linguistici terzomondisti – la realtà va disegnandosi in maniera più complicata e stratificata. L’italiano, cioè, sembra configurarsi anche come una lingua ospite, di frontiera, intrinsecamente minore e usata continuamente in presenza di altre lingue. Certo: disponibile anche a un uso canonico e “maggiore”, ma sempre a prezzo di una sua stortura identitaria.

Anche nel recente romanzo Adua di Igiaba Scego, che ha lungamente riflettuto sul rimosso del colonialismo nella memoria nazionale, i livelli di lingua sono distinti, e direi non mescolati, ma vissuti sul terreno del conflitto di natura storica e generazionale. Il personaggio del nonno della protagonista è un somalo che usa una lingua materna ancora priva della sua forma scritta: la lingua somala si è grammaticalizzata ed è diventata lingua ufficiale solo in epoca post-coloniale. Il processo di scritturazione del somalo avviene proprio nel momento in cui la nipote, Adua, che usa un romanesco italianizzato, arriva in Italia: qui, femmina nera, diventa oggetto di desiderio in film soft-porno. La figura-chiave di questa epopea linguistico-familiare è Zappe, il padre, traduttore dal somalo all’italiano, che si trova implicato nella guerra fascista in una posizione complessa, in bilico tra il collaborazionismo e il patriottismo, mentre il giovane marito di Adua, Titanic, migrante dell’ultimissima generazione, sembra completamente privo di identità linguistica. In questo gioco di specchi, la caratterizzazione multilingue dell’italiano si predispone a rappresentare il rapporto di dominazione nella coppia Nonno-Adua, mentre il quadro di insubordinazione è rappresentato nella posizione ambigua di Zoppe e di Titanic.

7. Grazie a questa situazione di plurilinguismo costitutivo e caratteristico che può essere considerata come una potenzialità di uso minore anche della lingua maggiore, l’italiano può essere capace di incorporare anche l’esperienza (e)migrante – dell’italiano all’estero – e l’esperienza coloniale – come rimosso di violenza – rendendo la lingua immediatamente un vettore di cambiamento sociale. Su questo piano, più interessante del pluristilismo della linea Dante – Gadda, risulta il superamento delle lingue che Joyce imposta ed elabora in particolare sull’italiano, che egli stesso conosce e pratica. Verissimo che Beckett vede nel lavoro di Joyce una possibile vicinanza con il Dante del De vulgari; ma è anche vero che il progetto del De vulgari non è quello della Commedia, come abbiamo detto. Joyce ha attivamente collaborato alla traduzione italiana di quel monumento realmente plurilingue che fu il Finnegans Wake, di cui l’autore curò anche una parziale traduzione italiana – si tratta, in fondo, di un’auto-traduzione in una lingua non materna. L’operazione si è ripetuta – in forma un po’ diversa – di recente con uno strano e affascinante libro di Jhumpa Lahiri, uscito da poco in Italia, prima in dispense, come si faceva una volta, presso la rivista Internazionale, poi in volume. Jhumpa Lahiri è una scrittrice nata a Londra ma da genitori bengalesi. Risiede a New York da molti anni. La sua scrittura è inglese, la sua lingua materna – quella dell’affetto e del latte,– è bengalese. A un certo punto, in età avanzata, Jhumpa Lahiri, dopo un lungo e talvolta interrotto percorso di apprendimento, decide di imparare l’italiano. Se ne innamora, e decide di scrivere. In altre parole racconta di questo apprendimento adulto, difficile, che è però soprattutto la volontà di trovare un’altra voce:

«In questo periodo mi sento una persona divisa. La mia scrittura non è che una reazione, una risposta alla lettura. Insomma, una specie di dialogo. Le due cose sono strettamente legate, interdipendenti.

Adesso, però, scrivo in una lingua, mentre leggo esclusivamente in un’altra. Sto per ultimare un romanzo, per cui sono per forza immersa nel testo. Non è possibile abbandonare l’inglese. Tuttavia, la mia lingua più forte sembra già dietro di me.

Mi viene in mente Giano bifronte. Due volti che guardano allo stesso tempo il passato e il futuro. L’antico dio della soglia, degli inizi e delle fini. Rappresenta i momenti di transizione. Veglia sui cancelli, sulle porte. Un dio solo romano, che protegge la città. Un’immagine singolare che sto per incontrare ovunque.»

Direi che siamo di fronte a un esempio importante di “mondializzazione” di una lingua. Il fatto che questo processo avvenga con l’italiano è, secondo me, assai significativo. Il contrasto con il francese è evidente: basta pensare a L’analphabéte, in cui Agota Kristoff racconta l’apprendimento del francese come una violenza e un percorso di difficoltà. Viene dunque da chiedersi se non ci sia uno spazio di diaspora e libertà in una cultura – quella italiana – che ha conquistato solo fragilmente un’identità monolingue-nazionale, effimero intervallo in una lunghissima storia, al contrario, spiccatamente plurilingue ed europea.

8. Roberto Esposito è tornato in più sedi a insistere sulle peculiarità specifiche del pensiero italiano della modernità (e si veda almeno Pensiero vivente): sottolineando anche, tra le altre cose, che la filosofia italiana, restando ai margini e all’esterno dello Stato-nazione, resta positivamente al di fuori del quadro concettuale a esso sotteso. Viene da chiedersi se anche la lingua non debba essere considerata sotto questo punto di vista: innanzitutto perché la filosofia, nel pensiero italiano, cerca continuamente un linguaggio diverso da quello tecnicamente filosofico. Le pagine dedicate a De Sanctis da Esposito sono esemplari, perché ne fanno emergere le antinomie, sui due piani del disegno storiografico e della tesi nazionale. Nelle pagine del grande disegnatore del paradigma storiografico della nostra letteratura nazione, è evidente, da una parte, l’emergere di Dante e Leopardi e pochi altri (Machiavelli, per esempio) come elementi luminosi su un fondo d’ombra che delinea un distacco tra letteratura e realtà / vita che è essenziale alla tradizione nazionale: questi grandi scrittori si posizionano su un terreno di incontro tra poesia e filosofia che è rappresentativo dell’estroflessione della scrittura italiana. Dall’altra parte, De Sanctis non smette mai di oscillare tra l’esplorazione entusiasta della tendenza cosmopolita degli autori italiani come elemento positivo e la sua denuncia come punto di debolezza dello sviluppo nazionale. La dialettica tra nazione e deterritorializzazione è presente anche, in maniera irrisolta nelle pagine gramsciane sul popolo italiano come popolo “mondializzato” («Il popolo italiano è quel popolo che “nazionalmente” è più interessato a una moderna forma di cosmopolitismo, non solo l’operaio, ma il contadino e specialmente il contadino meridionale.», Quaderni del carcere, q. 19, § 5) che non a caso cita anche Salza. Un’altra coincidenza inavvertita tra il pensiero di Esposito e il ragionamento di Salza riguarda i “bestioni” vichiani: per il letterato, essi vivono una tendenza alla ricostituzione del senso e della storia grazie alla unificazione linguistica; in Esposito la storia dei “bestioni” costituisce l’esempio più evidente di un pensiero italiano che, rifiutando la tabula rasa e la soggettivazione tipici della French Theory, continua a riflettere sull’origine, costituendosi come pensiero eminentemente storico.

9. In altre parole: è opportuno vagliare la concreta possibilità di una indagine sulla differenza italiana che parta anche dalla lingua e dalla letteratura. Credo che il confronto con la politica linguistica giacobina francese sia, su questo piano, decisiva, e faccia emergere una storia dell’italiano come esempio di modernità linguistica “alternativa”. La cosa non deve sorprendere, perché, com’è noto, nello spazio geopolitico variabile che il Medioevo e l’Età Moderna hanno chiamato Italia, la lingua è stato il terreno di costruzione artificiale di un’unificazione e poi di una statalizzazione “pensata” e artificiale prima che reale. Nel 1861, al varo della prima seduta parlamentare, la lingua ufficiale della principale istituzione del nascente stato italiano era ancora il francese, lingua peraltro della casa regnante, a sua volta dominatrice storicamente di uno stato frontaliero e bilingue.

Per paradosso, la nostra indagine rizomatica ha messo in discussione uno dei capisaldi di questa modernità alternativa, e cioè il pluristilismo. Mi pare di poter affermare che quello specifico contraltare del monolinguismo nazionale si sia andato esaurendo. Il punto di non ritorno può essere indicato in Petrolio di Pasolini, dove l’abiura della polifonia dei romanzi romani degli anni ’50 è anche un superamento della sperimentazione stilistica in direzione di una messa in discussione della struttura letteraria romanzesca. Non è un caso se il romanzo successivo, e in particolare quello postmoderno, sposta la sperimentazione sul linguaggio sul terreno simbolico. Nell’Umberto Eco del Nome della Rosa, l’exploit plurilingue del monaco Salvatore, ex dolciniano e quindi eretico perseguitato, non è altro che una rappresentazione ironica non priva di un sottofondo di critica sociale sull’irrapresentabilità dell’escluso: « Penitenziagite! Watch out for the draco who cometh in futurum to gnaw on your anima! La morte est supra nobis! You contemplata me apocalypsum, eh? La bas! Nous avons il diabolo! Ugly come Salvatore, eh? My little brother! Penitenziagite!!».

La letteratura contemporanea si concentra in maniera più esplicita sul contenuto della narrazione, come dimostra in maniera chiara il manifesto del New Italian Epic [d’ora in poi Nie]: quando si tratta della lingua del romanzo contemporaneo italiano, il discorso degli autori del manifesto (Wu Ming 1 e 2) si sposta sul carattere mutante dei generi letterari e del confine tra prosa e poesia. Mai si fa riferimento alla linea Dante-Gadda. Un giro di boa tra le opere contemporanee legate all’etichetta del Nie confermano che questa assenza è qui motivata non da scarsa sensibilità storiografica, ma da consapevolezza progettuale: anche quando si disarticola coscientemente il linguaggio letterario (per esempio, in Giuseppe Genna), non vengono più proposte prassi di scrittura gaddiane o post-gaddiane – l’ultimo relitto, in Italia, di tale sperimentazione sono stati i cannibali, il suo capolavoro Woobinda – ma la perfomance di una lingua «mimetica» se non esplicitamente «media». Si ritrova, in questo nodo, un recupero dell’abiura dell’ultimo Pasolini rispetto al plurilinguismo e una pacificazione con l’inquieto confine di intraducibilità praticato da Bianciardi. Non a caso, secondo Wu Ming, la «prova del nove [del Nie] è quella della traduzione», perché in fondo la lingua del New italian epic deve essere un controcanto della lingua dei media che connotano al ribasso la lingua d’uso (New Italian Epic, p. 90) in prospettiva di debunking letterario – e quindi immediatamente politico. Ciò significa che, se il New italian epic è capace – credo che lo sia, anche se non ancora esplicitamente – di esprimere la differenza italiana, questo progetto deve essere articolato all’interno di un programma anche linguistico. E un italiano “medio” può essere una lingua “ospitale” e “mondiale” a patto che mantenga memoria della sua alterità e minorità, della sua situazione di compresenza linguistica e dialettale, e della sua potenzialità contenutistica intrinsecamente politica e critica.

Varie cose utili

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di Azzurra D’Agostino

Questo sasso è magico
perché non sarà mai il mattone
di un muro di prigione.

Questo ferro è speciale
perché da lui non si può trarre
la forma delle sbarre.

Questo legno è pregiato
perché è del tutto esclusa
l’idea che sia una porta chiusa.

Quest’aria è pura
perché si illumina all’aurora
e non dura solo un’ora.

Questa corda è bella
perché serve per saltare
e non solo per legare.

Questa terra è ricca
perché è piena di fiori
e non ha frontiere col dentro e col fuori.

Quest’acqua è buona
perché scorre senza sosta, se ne va via
e nessuno può dire “ora basta! Questa è mia!”.

Questo fuoco è sacro
perché è fatto per scaldare
e nessuna casa vuol bruciare.

Tutte le cose che ci sono al mondo
in tanti modi diversi le puoi pensare, sai?
Dipende dall’uso che te ne fai.

Amori e disamori di Nathaniel P.

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Adelle Waldman

di Gianni Biondillo

Adelle Waldman, Amori e disamori di Nathaniel P. , Einaudi, 2015 , 271 pag., traduzione di Vincenzo Latronico

Dopo la laurea ad Harvard, figlio della piccola borghesia di provincia, e una carriera da giovane scrittore che vive in un appartamentino scarrupato a Brooklin e si mantiene grazie agli articoli e alle recensioni che pubblica sulle riviste culturali (beato lui!), Nate ha finalmente raggiunto il punto del non ritorno che ogni intellettuale radical chic desidera nel profondo: ricevere un sostanzioso anticipo da un editore (beato lui, di nuovo!) per la pubblicazione del suo primo romanzo.

L’adolescente nerd oggi è un uomo sensibile, femminista, impegnato. Passa serate a discutere di politica e cultura con amici colti quanto lui, in locali cool, dove incontra coetanee belle e intelligenti che leggono Svevo o Bernhard.

Quello che scopriremo leggendo Amori e disamori di Nathaniel P. è che dietro tutta questa apparente umanità e sensibilità si cela un ragazzo senza nerbo, vacuo, narciso. Le origini giudee o l’esperienza dei genitori in fuga dall’Europa dell’Est sembra non abbiano lasciato nulla nello spessore umano di Nate, che pensa solo a sé o a come portarsi a letto le ragazze che conosce, evitando però di sembrare maschilista. Adelle Waldman ci racconta l’incontro di Nate con Hannah. Il loro amore nascente e lo sfiorire, nel volgere di pochi mesi, del rapporto nell’abitudine, nell’insofferenza, nell’incapacità di creare un progetto che non sia basato solo sull’apparenza o sul sesso.

Il romanzo in sé non ha un vero centro e Nate stesso, alla fine del percorso narrativo, non è cambiato di un millimetro. Sembra, in questo senso, un romanzo irrisolto. La triste verità sta nel mondo descritto, nel paesaggio umano raccontato: che noia mortale dev’essere fare l’intellettuale trendy a NYC!

(pubblicato su Cooperazione numero 14 del 30 marzo 2015)

gli orrori che i paesaggi europei ci nascondono

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di Martin Pollack

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Quando oggi scriviamo di una zona, di un paesaggio, sembra indispensabile tenere sempre conto anche del passato. Questo ci mette davanti a un compito difficile. Vogliamo cercare di scoprire che cosa successe qui settanta, ottanta o addirittura cento anni fa, anche se guardando di sfuggita, quando siamo di passaggio, in un’atmosfera rilassata di vacanza, non percepiamo niente che susciti la nostra diffidenza. Ciononostante dobbiamo sempre porci la domanda: il paesaggio ha qualcosa da nasconderci? E davvero cosi innocente, idilliaco come sembra? Che cosa troviamo se iniziamo a scavare? Vengono alla luce ossa marce? Possiamo metterle da parte con noncuranza, perche presumiamo che non ci riguardino, perche non abbiamo nulla a che fare con cio che successe qui? Perche ormai e passato tanto tempo? Non dobbiamo invece confrontarci con la storia, per quanto possa essere fastidiosa? Secondo me e imprescindibile rivolgersi anche ai lati oscuri di questi posti.
Non solo a Auschwitz e Treblinka, a Mauthausen e Ravensbruck, ma anche ai paesaggi senza nome, ai vasti boschi e alle paludi, alle steppe, che appartengono a quelle bloodlands che lo storico americano Timothy Snyder descrive in modo cosi vivido. Anche se le bloodlands di cui parlo io si estendono geograficamente su una superficie molto piu ampia che comprende anche l’Austria. E la Slovenia e l’Ungheria. E altri Paesi.

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Occuparsi dei paesaggi contaminati implica sempre la necessita di confrontarsi in modo critico con la lingua. Come le fosse dovevano essere al riparo da occhi illeciti, anche i comandi per uccidere erano spesso camuffati con termini apparentemente innocui o comunque non univoci.
A questo proposito ricordo la mia infanzia a Mitterberg, dove fummo evacuati. “Evacuati” e uno di questi termini. Per la deportazione degli ebrei dalla Germania e dall’Austria nei campi di morte all’Est, nella corrispondenza ufficiale si preferi usare il termine “evacuati”, capace di velare la brutale realta. “Evacuati all’Est” e una formulazione che sminuisce i trasporti dalla Germania e dall’Austria nei campi di annientamento.
Ingannare e mimetizzare.

Fatti violenti non cambiano solo la lingua e le persone che ne sono coinvolte, ma anche i luoghi in cui avvengono. Questo vale anche per i paesaggi. Nella natura, nella campagna vasta e senza edifici, la violenza assume una forma diversa da quella in un lager chiuso e circondato da filo spinato e torri di guardia. Nel paesaggio i colpevoli si comportano diversamente, si adattano alle condizioni del luogo e si muovono in base al terreno, allo spazio che trovano – a cui, viceversa, con le loro azioni, il loro scavare fosse, le esecuzioni, il gettare terra sulle fosse comuni e mimetizzarle, danno un volto nuovo. Soprattutto conferiscono allo spazio un significato nuovo, sinistro.

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A Hrastovec ci sono perlomeno degli elenchi delle vittime, incompleti, ma almeno qualcosa. Il nome della mia prozia è in un elenco: Drolc Pavla, Laško, umrla Hrastovec 26.8. (1945). Drolc era il cognome del marito sloveno. Era la quarantanovesima dell’elenco scritto a mano. Su innumerevoli altre fosse non ci sono informazioni così dettagliate. È questo ciò che contraddistingue l’essenza dei paesaggi contaminati, che i morti che vi giacciono sono quasi sempre senza volto e senza nome. Che nella maggioranza dei casi non sappiamo nulla delle vittime, tranne qualche volta la provenienza, ma anche quella solo approssimativamente: ebrei, rom e sinti, perseguitati e uccisi in quanto zingari, polacchi, prigionieri di guerra sovietici, bielorussi, domobranci sloveni, tedeschi, ecc. In genere non abbiamo fotografie né documenti delle vittime.
Perciò è particolarmente difficile chiudere con questi fatti in modo definitivo. Rimane sempre qualcosa di aperto, la domanda logorante e assillante di chi fossero le persone che furono sepolte così in quella parte di bosco, le cui spoglie vengono trovate solo molti anni dopo. Qual era la loro storia? Da dove venivano? Erano da sole o insieme alla famiglia, all’amato/a, ai genitori, ai fratelli e alle sorelle, agli amici, agli ultimi abitanti del paese o dello shtetl, quando morirono con violenza? Del farmacista Jenö Kohn, che un giorno del gennaio 1945 a Polianka, nei  pressi di Donovaly, fu ucciso con la moglie e i due figli dagli uomini comandati da mio padre, sono venuto a sapere per caso. E ho addirittura ricevuto una sua foto. Ora so chi era Jenö Kohn. Un uomo di bell’aspetto, ancora giovane, con i capelli pettinati all’indietro e gli occhiali di corno tondi, che gli davano un’aria da intellettuale. È serio, forse anche malinconico, mentre guarda nella macchina fotografica.

 

NdR: gli estratti sono tratti dal magnifico Paesaggi contaminati, letto il quale la visione del paesaggio dell’Europa non è più la stessa, pubblicato (2016) da Keller Editore

les nouveaux réalistes: Mario Schiavone

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marius

B come Batman, K come Ken il Guerriero

di

Mario Schiavone

 Oggi, giorni miei: Aversa.

Alcuni giorni vado da un bravo orologiaio che di professione aggiusta le lancette che segnano l’ora buona o cattiva nell’anima delle persone. Un giorno, questo bravo dottore dalla testa calva liscia e luccicante come quella del Professor Charles Xavier (Padre degli X Men), fissandomi con i suoi occhi lucidi e pungenti ben piazzati sul suo volto glabro mi ha guardato a lungo e con aria attenta; prima di farmi una domanda precisa:
C’è un incubo ricorrente che lei fa quando sta male?
Io l’ho guardato negli occhi, prima di muovere altrove lo sguardo. Qualche attimo dopo l’ho immaginato levitare nell’aria, mentre mi sentivo come un allievo mutante della Scuola-Casa Xavier per Giovani Dotati degli X-Men. Solo lasciando le mura dell’edificio X-Men (Graymalkin Ln, Westchester County 1407 North Salem, NY 10560) sono riapprodato con la mente nel suo studio medico per rispondere alla domanda.
Certo, dottore. Anche io faccio incubi, un po’ come tutti… però ora le chiedo scuso, davvero non ricordo l’incubo più frequente.
L’orologiaio non mi ha creduto ed è rimasto di nuovo in silenzio a guardarmi, cercando di leggermi nel pensiero. Io invece avevo la testa altrove, precisamente dalle parti in cui la mia mente ha conservato parte dell’immaginario onirico relativo al mio ultimo incubo notturno. Un vero e proprio film drammatico. In qualità di giovane “ospite” di un manicomio civile, un Joker travestito da medico legale(con quel sorriso marcio largo largo sulla bocca che tagliava la sua faccia colorata) mi leggeva il mio referto medico. Diceva qualcosa come: Il corpo qui presente è spirato in seguito a sopraggiunto infarto.
Poi la sua voce s’interrompeva e risate forti accompagnavano il resto del mio viaggio con il mio corpo che sottoforma di vapore usciva dalla finestra di quella casa di matti quasi volando come uno spirito. Me ne andavo girando per una città che non conoscevo, fino a fermarmi davanti a un piccolo cinema. Lì ridiventavo umano e vestito da spiderman, costume completo ma con piedi scalzi, entravo senza fare il biglietto come unico spettatore di una grande sala cinematografica in cui veniva proiettato il mio funerale.
Le immagini mostravano una bara con dentro la mia salma vestita da boy scout, mentre le grandi mani di Hulk in persona fissavano le viti del coperchio che stava per essere chiuso (si trattava di Joe Fixit, Hulk in versione grigia). Subito dopo ben quattro dei miei super eroi preferiti a trasportarla sulle spalle, durante la processione dalla chiesa al cimitero: L’Uomo Ragno e Flash, nei loro costumi stirati e luminosi, a reggere la parte in cui posavano i miei piedi e Superman e Batman dietro dalla parte delle spalle a portarmi con tanto di mantelli che sventolavano al vento. Poi, quella notte, qualche ingranaggio si rompeva, la proiezione si bloccava ed io mi risvegliavo nel mondo reale tutto sudato, con il cuore che faceva quindicimila chilometri l’ora pulsando come il motore di un’astronave supersonica.
Anche se all’orologiaio-dottore non l’ho mai detto, fin da piccolo ho sempre creduto nell’esistenza dei super eroi.

Giorni di ieri l’altro, ormai trascorsi: Agropoli.

Tutto ha avuto inizio con la scoperta dell’Uomo Ragno verso i cinque anni, poi c’è stata una virata religiosa con San Francesco a dieci anni (agli scout ci avevano spiegato che parlava agli animali e alle piante e per me uno così non poteva che essere un vero super eroe) e a quindici anni l’amore rinvigorito per i “super eroi” giapponesi, prima con il muscoloso Ken Il Guerriero di Tetsuo Hara e Buronson e in seguito con l’astuto e preciso Jotaro Kujo di Hirohiko Araki.

Giorni di ieri, a me più vicini: Torino

Superato il momento del fascino per gli scontri corpo a corpo, i veri turbamenti dell’anima sono arrivati intorno ai venti anni quando ho scoperto un’edizione italiana del Batman di Frank Miller “reinventato” (e tratto dall’edizione usa degli anni ottanta) nell’albo che presentava il ciclo a fumetti il “Ritorno del Cavaliere Oscuro”.
Una storia in cui, come molti sanno, Batman perde tutto e ricomincia da capo la sua lotta personale. Da lì in poi, da quell’albo così speciale, ho preso a immaginare tante volte di incontrare (e parlare) con quel Batman diviso fra il bene e il male; non più capace di ogni gesto, pur di affrontare le ingiustizie di questo mondo, ma di essere un Cavaliere Oscuro pensante e “gettato nella vita” come l’uomo heideggeriano.

Anni fa quando abitavo a Torino, e vivevo un periodo davvero difficile per un comune mortale, nelle mie passeggiate solitarie lungo il fiume Dora, a lungo ho conversato con il Cavaliere Oscuro-Filosofico intrattenendo con lui amabili (e poco amabili ) discorsi sull’importanza di non sentirsi soli al mondo quando non si ha una famiglia alle spalle.

Giorni intermedi dopo Agropoli, Torino e Berlino: quartiere di Tor Pignattara, Roma.

Per qualche anno,vivendo a Roma nel quartiere Tor Pignattara, ho fatto incontri miracolosi e osservato da vicino super eroi metropolitani capaci di compiere gesti divini.
In una calda sera primaverile, verso l’ora del tramonto molto cara ai super eroi che si preparano per l’uscita notturna, ho conosciuto la doppia vita di Aurelio (così si faceva chiamare) il super eroe di origini indiane che aveva sei dita per mano. Di giorno usava le sue dita in più per riempire a gran velocità i sacchetti di frutta che le casalinghe, con tanta fretta e poco garbo, gli chiedevano nel negozio in cui lavorava. Di notte, quando indossava il suo costume, lavorava in una officina meccanica in cui assemblava motori rombanti da montare su bolidi dai colori sgargianti. Ero venuto a conoscenza della doppia vita di Aurelio in una lavanderia a gettoni col pavimento a scacchi e le pareti rosse. In quel luogo magico alcuni suoi assistenti, indiani anche loro, avevano messo a lavare il suo grembiule da fruttivendolo, la sua tuta da meccanico e dei guanti speciali che mostravano sei dita per mano. Considerati i miei orari di lavoro (sveglia alle cinque del mattino e rientro all’ora del tramonto) non era stato difficile osservare Aurelio e scoprire il divenire della sua vita segreta in orari insoliti.
Un giorno si era presentato di persona in lavanderia, a ritirare i suoi abiti asciutti e a controllare le condizioni di alcune giacche da poco stirate.
Io avevo guardato le lavatrici, per finta, cercando di spiare lui per davvero.
Dopo una sua strizzata d’occhio furtiva, imbarazzato, avevo detto qualcosa come:
-Ma quanti lavori fai tu, che ogni volta lavi tutti questi abiti?

Lui mi aveva guardato senza dire niente. Si era avvicinato per rispondermi a bassa voce:
-Io come fratellino di quello che vola come pipistrello. Fare tanti lavori per aiutare famiglia mia molto grande.
-Fratellino di Dracula?
-Scemo che sei. Dracula è cattivo. Io come fratellino di Batman, quello che si chiama Robertino.

Giorni senza tempo, perché lunghi e pericolosi: Agropoli.

Squilla il cellulare in piena notte.
-Pronto.
-Pronto, ma sei tu? Vieni subito in ospedale.
-Ma chi sei?
-Sono Giusy, la mamma del tuo amico forzuto.
-Scusami Giusy, che succede?
– Il tuo Capitan America ha avuto un serio problema all’intestino, a causa di un incidente sul lavoro. Vieni, corri subito in ospedale. Ti aspettiamo al pronto soccorso.
Quando arrivo all’ospedale il mio Capitan America è a letto in una stanza singola riservata solo a lui. In attesa, mi spiegano i suoi familiari, di un intervento d’urgenza allo stomaco.
Saluto la madre Giusy e il fratello Fabio, poi mi avvicino e prendo la mano destra di Capitan America per stringerla nella mia. Mi viene quasi da piangere a vedere il mio amico, dopo anni di palestra e doppia vita segreta, ricoverato in un letto d’ospedale. Lui0 mi fa segno di avvicinarmi, poso l’orecchio dalle parti della sua bocca e con un filo di voce mi dice:
-Non dire mai a nessuno il tuo segreto. Siamo tutti speciali, ma nessuno capirebbe. Se campo stavolta mollo lo scudo e continuo solo a fare le pizze.

Giorni colmi di un tempo fatto di scoperta: 10 Maggio 2008, Ginevra.

-Stiamo per dimetterla. Vedrà che si troverà bene fra la gente comune. Non dovrà fare altro che pensare a quanto è speciale e fortunato. Non diverso, se lo ricordi bene.
-Dottore è sicuro di quanto sta dicendo?
-Il nostro gruppo di lavoro ha avuto l’onore di incontrarla e aiutarla in un momento molto difficile. Crediamo di aver fatto un ottimo lavoro con lei. Ora può tornare lì fuori, e combattere ogni giorno. Solo una cosa ancora.
-Mi dica. Che c’è?
-Mantenga il segreto.

Tempo che vola via veloce: qui e ora; Aversa.

Oggi, dopo tutti i super eroi amati da piccolo, dopo quelli incontrati intorno ai vent’anni e dopo l’incidente del 2008 a Berlino, con conseguente ricovero a Ginevra, davvero non posso svelarvi il mio segreto. Negli anni, per custodirlo gelosamente, ho cambiato più volte casa e città. Gettato via mantelli; e zainetti pieni di invenzioni speciali. Ho provato a rinnegare – per difendermi e non avere problemi di privacy- i contatti con ogni super eroe incontrato. Da quelli fatti di carta (americani o giapponesi) a quelli di carne e nervi (i veri super eroi che operano dalle mie parti). Ho dovuto seguire terapie riabilitative in Italia e all’estero. Ho incontrato medici che fino all’ultimo mi hanno dato per inguaribile. Solo negli ultimi tempi è pervenuta la diagnosi definitiva. Non è grave: stabilisce che io ho un super potere.

Oltreoceano – One Poem Books

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di Francesca Matteoni

Lo scorso autunno ho avuto modo di conoscere a Firenze Kate Jordahl, artista e docente di fotografia californiana e di vedere il suo progetto editoriale: piccoli libri di fotografia, costruiti attorno a un testo poetico di un autore vivente di lingua inglese o in traduzione. Le pubblicazioni sono biennali ed è possibile abbonarsi oppure ordinare libri singoli. L’idea, come nella migliore tradizione di incontro fra le arti, è quella di un dialogo che origina dalla parola poetica, ma può poi svilupparsi autonomamente nelle immagini. Tema di fondo è il rapporto con il paesaggio e con la dimensione naturale della vita umana. Non a caso troviamo incluso il poeta ambientalista e agricoltore Wendell Berry, originario del Kentucky, di cui in italiano sono stati tradotti i saggi e i romanzi legati all’ecologismo, alla cura consapevole della terra, dalla casa editrice Lindau. Si entra in silenzio nei tronchi, in casupole nella foresta invernale, nel legno scrostato delle porte, si diventa spettro lungo un binario, si affonda nel ritorno dell’acqua, ci si siede in attesa.

Eccone qui alcuni esempi.

 

Elementary Geography (poesia del norvegese Paal-Helge Haugen tradotta in inglese da Roger Greenwald).

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Crystal Day (poesia di Kate Jordahl)

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Wild Geese (poesia di Wendell Berry)

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Forecast (poesia di Carol Henrie)

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Sito personale di Kate Jordahl

Blog di True North Editions