Adesso non lo so se questo possa interessare ma lui e lei poco prima che iniziasse il Calderón di Pasolini s’appassionavano a tutto un loro discorso sulle mozzarelle, che lei preferiva a treccia, non di bufala decisamente, “le migliori sono le pugliesi”, lui pochi istanti prima che si alzasse il sipario la informava che ne aveva ordinato un chilo, di mozzarelle cosiffatte, nel negozio di leccornie di X, e adesso che il sipario si alza sul Calderón e il buio ci prende tutti nella sala e azzittiamo, lui fa in tempo a sussurrarle: “ho comprato anche due soppressate”, poi due ore e mezzo di sogni, fascisti, franchisti, anarchici, borghesi, puttane, operai, padri madri e figlie, studenti, potere, fino all’ultimo risveglio di Rosaura nel lager dove ha sognato gli operai di Barcellona nell’atto di liberare il mondo con le bandiere rosse e urlare a tutti: siete liberi, ma Basilio, il marito, di nuovo a correggerla: “Un bellissimo sogno, Rosaura, davvero / un bellissimo sogno. Ma io penso / (ed è mio dovere dirtelo) che proprio / in questo momento comincia la vera tragedia./ Perché di tutti i sogni che hai fatto o che farai / si può dire che potrebbero essere anche realtà. / Ma, quanto a questo degli operai, non c’è dubbio: / esso è un sogno, niente altro che un sogno”, giù il sipario, addio Pasolini e, una fila dietro, lei, senza applaudire, prende a gridare quanto le sia piaciuto questo spettacolo “perché – spiega a lui – tutte le donne hanno un sogno, capisci? Lei aveva il sogno degli operai, l’altra aveva il sogno del figlio”, senza applaudire escono, c’è un episodio del film I mostri, i nazisti fucilano uomini, donne e bambini contro un muro che lui, spettatore nella sala del cinema (l’attore era Tognazzi), fumando col disincanto mostra alla moglie e le dice: “ecco, vedi, per la villa in campagna dovremmo costruire un muro così”, c’è una classe esistenziale, invincibile, attraversa la vita e la storia con la flemma subacquea di un sottomarino Seawolf, di ottusità inossidabile, cinismo e indifferenza extraduri, ha la coscienza inattaccabile inox, la sua resistenza al tempo fu forgiata negli altiforni di Martin Siemens, viaggia sotto il tempo, sotto la storia, ha il privilegio di possedere la coscienza che possiede la forma di un corpo, spesso quando emerge essa è un mammut calcarenitico, non friabile, forse di nichel, dopo la cementificazione, eppure elastico e invulnerabile, senza talloni, talmente elastico e invulnerabile da imporre il proprio senso al mondo che, poverino, vorrebbe avere altri significati, ma questo ceto esistenziale ha già i propri e, quando emerge nella storia, nella vita, impermeabile, idrorepellente alla storia, alla vita degli altri, esso getta i propri siluri con propulsione ammirevole, con cinismo incantevole sul mondo che ha guardato distrattamente, cinicamente dal periscopio, dando al mondo le forme che già conosce, e quindi il muro nazista per la villa in campagna, non ha la malizia o la conoscenza dei borghesi di Pasolini eppure, forte di una coscienza mammut che ha il privilegio di avere persino un corpo, la classe esistenziale è la più forte perché, unica al mondo, dura nel tempo e nella storia senza comprenderli, senz’averne bisogno, essa è nata probabilmente in una fonderia dove Efesto la combinò da due elementi, l’umano e il geologico, oppure bruciando alberi e terra in una melma che partorì questo Uruk-hai che non è scalfito dal mondo, dalle parole di Pasolini, dal petrolio che contamina il Mediterraneo, dalle case di cartapesta che cadono nel nostro Paese, dalla migliore gioventù massacrata in Egitto, dall’olocausto che avviene nel Mediterraneo, questa classe esistenziale è la sola al mondo che abbia la resistenza, è quasi immortale, geologica, chimica, metallurgica, il più delle ore è sommersa ma quando emerge il sottomarino, e proietta la sua coscienza in forma mammut, essa ribadisce che ha vinto, vince e vincerà sempre.
Bauhaus Ha quasi un secolo, il nonno materno mai conosciuto alla fine degli anni Venti la comprò sul modello Bauhaus per le sue natiche giovani, sode, per studiare, studiare, studiare ingegneria e laurearsi, fu ingegnere ferroviario trasmise la sedia alle due figlie per le natiche giovani loro, sode, per studiare, studiare, studiare una lettere e filosofia l’altra biologia e laurearsi, il nonno materno mai conosciuto morì su una via consolare in auto contro un pino, Barbalbero fermò la vita del nonno materno, la velocità dell’homo faber ingegnere uomo del treno volse all’epicedio, il legno del tergale è spesso un centimetro e mezzo, la seduta ha due centimetri e mezzo, la sedia la costruì a Roma la ditta Cova che aveva uno studio pure a Milano, nello studio e camera da letto della casa paterna, materna, le figlie crebbero, poi se ne andarono, la nonna materna rimase sola non usava la sedia non studiava aveva una consolle di mogano per il trucco e cento cassetti dove riponeva gli anni passati e scatole di cucito e fotografie, un ripostiglio dove stendeva i panni issandoli in alto su per un’architettura di spago e plastica come bandiere, la nonna materna viveva da sola, vedova temeva i furfanti senza immaginare la visita del ladro singolare che le entrò in casa un giorno non per rubarle i soldi e neppure un oggetto ma tutti i significati, i valori, ogni storia che animava gli oggetti, il ladro singolare portò via tutte le anime alla nonna materna, in seguito identificato nelle generalità del signor Alzheimer il ladro non è mai stato preso, la refurtiva mai recuperata, la nonna materna nel suo ultimo anno di vita siede con me al tavolo da pranzo e offrì la mano: Piacere, mi chiamo B., ho un nipote della sua età, a diciott’anni rincontro la nonna materna versata nella bara candida circondata da fiori, il suo naso limpido sale dal bordo, supera le ghirlande, quasi la punta di una freccia incoccata e tesa e pensai: morire non le ha cambiato la vita, ma non sempre è così, mi fu trasmessa la sedia in stile Bauhaus e negli anni dell’università la usai per studiare, studiare, studiare come morì Trockij, per dire, e i suoi figli e come morì il figlio di Wilhelm von Humboldt di malaria a Roma, per dire, come morivano i nobili in Francia quando la rivoluzione dilania i corpi, squartano il corpo del nobile, sradicano gli organi al nobile, presero il cuore e lo sollevano per una processione nel recinto del feudo, come morivano i commissari bolscevichi nei primi anni della rivoluzione, per dire, nella carestia, affamati, requisitori del comunismo di guerra, spediti dalle città a prendere l’eccedenza di grano dai contadini, il commissario bolscevico ritrovato ai piedi dell’albero col ventre aperto, le viscere esposte, strangolato nel suo intestino, studiai anche quello, per dire, mi laureai in storia della morte, la sedia in stile Bauhaus serve tutt’ora in questa postazione dove sono le grammatiche del tempo, della storia, un po’ della carta che serve per trattenere la storia, memorie e conoscere, conoscere, conoscere, connettere, imparare, ricordare, capire, questi sono i libri e c’è la sedia per leggerli, lo studio è l’arma contro il signor Alzheimer che si aggira qua intorno nel suo potere osceno di istupidirti, derubarti del significato, della historia, l’unica anima è connettere, conoscere, ricordare, conoscere connettere ricordare sono i tesori che ruba il signor Alzheimer, degno patologico figlio del secolo, la sedia ha quasi cent’anni, è ancora comoda, nidi di tarlo, orme di ruggine, impronte di natiche di nonni, figlie, nipoti, sullo schienale una targa di latta e un messaggio inciso: “Si accomodi, signor Alzheimer. Siamo pronti a sfidarla, noialtri istoriatori di fossili”.
Moi, tu le remarques bien, je ne parle guère le français. Pourtant, avec toi, je préfère cette langue à la mienne, car pour moi, parler français, c’est parler sans parler, en quelque manière, sans responsabilité, ou, comme nous parlons en rêve.
[Thomas Mann, La montagna incantata]
M. Toninelli, Dante, La Divina Commedia a fumetti, 2015
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Prime osservazioni a partire da Luca Salza, Il vortice dei linguaggi. Letteratura e migrazione infinita, Mesogea, Messina 2015.
1.”Nel film La terrazza di Ettore Scola, un gruppo di intellettuali vive una crisi senza ritorno, sul proscenio abusato di un salotto esterno tipicamente romano: gli anni ’80 sono alle porte; la complicità si è consumata; si può sperare nell’ironia e nell’assorbimento inavvertito delle novità più inquietanti del decennio precedente. Fino a poco tempo fa, su youtube si poteva godere di una scena-chiave del film, che arriva all’incirca a metà della sua durata (oggi il link non è più attivo per ragioni di copyright). Nella piazza davanti al palazzo romano in cui risiede uno dei protagonisti, Amedeo – Ugo Tognazzi, arriva il fruttarolo; la sora Lella, portinaia dello stabile dove si svolge il rito stanco dell’autorappresentazione – che porta dritto dritto alla Grande bellezza di Sorrentino – lo rimprovera perché la sua voce squillante disturba la scrittura dello sceneggiatore, già afflitto da crisi e fautore di promesse non mantenute.”
Lo scambio di battute è fulminante. La portinaia spiega al fruttivendolo che cosa sta scrivendo Amedeo – Ugo Tognazzi: «una vicenda sommaria e sciatta, che scade nel bozzettismo più vieto…». La sora Lella incespica sulla parola bozzettismo; così fa anche il fruttivendolo, che completa la battuta come leggendo un copione ininterrotto «inzeppata di battute di seconda mano, che non nascondono una sostanziale povertà di ispirazione…» Il secondo personaggio perde il ritmo all’altezza dell’accumularsi di nasali, incapace di evitare la pronuncia romanesca nun per non. Riprende la portinaia: e, prima di passare al «che, pe’ piacere, po’ tirà più in là», evidente recupero di un settore del linguaggio più idoneo al personaggio, conclude con un magnifico, e irrelato, «musiche di Armando Trovaioli.» L’effetto comico è qui derivato, sul piano orizzontale, dall’utilizzo successivo di due variazioni diastratiche (in sociolinguistica, quelle relative alla stratificazione sociale del parlante) dell’italiano, mentre sul piano verticale, nel momento della citazione, è evidentissima la mancata corrispondenza tra situazione comunicativa e livello di alfabetizzazione del parlante (si gioca, dunque, sul piano diafasico). Scola non è nuovo alla trovata: basta pensare alla scena dello psichiatra in Dramma della gelosia (tutti i particolari in cronaca), dove il dislivello linguistico viene giocato, piuttosto, sul piano dell’adesione al plot del setting psicanalitico da parte della fioraia del Verano Adele Ciafrocchi.
Nel caso de Laterrazza, il nucleo innovativo se non radicale è costituito, piuttosto, dalla balbuzie degli emittenti, incapaci – anche su un piano fonologico – di aderire agli stanchi argomenti da terza pagina di quotidiano che affollano le serate all’aperto dei protagonisti.
Questa mancata corrispondenza rappresenta un uso della lingua di tipo minore, che Gilles Deleuze ha descritto in più sedi, definendolo in Mille piani, e declinandolo poi alla prova di autori letterari (Kafka, soprattutto, ma anche Beckett) e teatrali (in particolare, Carmelo Bene): deterritorializzazione, politicizzazione immediata della parola e slancio collettivo rappresentano, per Deleuze, i caratteri di una possibile collocazione dell’uso del linguaggio fuori dal canonico-nazionale. È su questa base, per citare Kafka, che la letteratura diventa un affare del popolo, nel senso che, laddove lo scrivente non utilizza la sua lingua materna, o la utilizza da una posizione non identitaria (perché migrante, ad esempio) o linguisticamente non univoca (in regime di bi- e multilinguismo), si innesta la possibilità di un uso progressivo se non rivoluzionario della letteratura. Uno dei mezzi più riusciti per rendere minore la lingua è la balbuzie: praticata in senso stilistico da Carmelo Bene (e in una modalità che contempla l’integrazione con una mimica di tipo rinunciatario e non esibito), e nella direzione di una crescita concentrica, a partire dall’accumulo di elementi grammaticali, nel magnifico poema Comment dire di Beckett, la balbuzie, invece di essere segno tangibile di cattiva scrittura, diventa mezzo indispensabile per indagare e utilizzare i confini del linguaggio: «quando la lingua è così tesa da mettersi a balbettare… tutto il linguaggio raggiunge il limite e si confronta con il fuori», così nel breve Bégaya-t-il… di Critica e clinica (traduzione mia). In questa tensione, si tende a perdere anche la pregnanza delle categorie socio-linguistiche, che eviterò dunque di utilizzare, non solo per una maggiore chiarezza, ma anche perché negli esempi citati tenderò a passare costantemente da un livello all’altro dell’analisi.
La sora Lella e il fruttivendolo, in un doppio volutamente unitario, balbettano la lingua disarticolandola, denunciano i livelli oppressivi del linguaggio, mostrando le vie di fuga rispetto a una lingua non solo maggiore ma soprattutto falsamente univoca e unitaria. La scena è eccezionale perché il cinema italiano ha utilizzato il dialetto quasi unicamente in direzione della storpiatura a fine comico – tranne qualche caso di mimesi linguistica, che mi pare comunque limitata a Pasolini e Olmi– e quindi con il torto di costituire un parallelo del progetto di standardizzazione dell’italiano che andava ad allargarsi ad un numero di parlanti sempre maggiore (grazie, in particolare, alla televisione e alla scolarizzazione di massa). Con l’eccezione, significativa, di Totò, la cui inventività linguistica è effettivamente il risultato di un linguaggio che si ibridizza fin quasi alla diaspora: ne è l’essenza l’ambulante Lumaconi protagonista di Totò le Mokò, ambientato in un paese arabo di lingua francese. Lo ricorda – non senza un pizzico di orgoglio partenopeo – Luca Salza nel volume Il vortice dei linguaggi. Letteratura e migrazione infinita, dove, in 6 intensi capitoletti, si propone un viaggio affascinante attraverso un gruzzolo significativo di questi esempî di uso minore del linguaggio e della letteratura, che oggi, di fronte al flusso delle migrazioni, assume un significato nuovo e attuale. Parto da questo volume, proponendo un ragionamento laterale che si concentrerà, essenzialmente, sulla peculiarità dell’italiano come lingua-mondo dotata di un forte potenziale di ospitalità linguistica. Per ciò fare, metto da parte un’analisi ortodossa, preferendogli un percorso a ostacoli tra fonti diverse, che facciano slittare continuamente il ragionamento tra i diversi usi del linguaggio e le loro storie simboliche.
2. Salza scrive un saggio anomalo, bifocale, incentrato su due aree culturali precise – quella francese e quella italiana – proponendo un percorso che, partendo dalla tendenza migratoria dell’Homosapiens, descrive e mette alla prova un paradigma culturale secondo il quale lingue e culture vivono una tendenza irreversibile all’unità. Il processo di globalizzazione accelera da un punto di vista economico e sociale questo processo, contribuendo, tramite l’irresistibile ascesa dei fenomeni di migrazione, a ibridare continuamente lingue e culture. Teorizzazioni celeberrime e miti fondativi vengono ripresi e rielaborati in vista di una realizzazione di fatto di quella che Édouard Glissant, autore antillese e francese, aveva preconizzato come letteratura del Tout-monde: un progetto di creolizzazione totale del linguaggio, che impone la scrittura «in presenza di tutte le lingue del mondo» come risposta e trasformazione al caos della globalizzazione capitalistica: «La mia lingua la deporto e la scuoto non nelle sintesi, ma nelle aperture linguistiche che mi permettono di concepire i rapporti delle lingue fra di loro oggi sulla faccia della terra – rapporti di dominazione, di connivenza, di assorbimento, di oppressione, di erosione, di tangenza ecc. – come il fatto di un immenso dramma, di un’immensa tragedia da cui la mia lingua non può salvarsi né essere esente.» (Introduction à une poétique du Divers, Paris 1996, p. 40).
In maniera non del tutto esplicita, Salza suggerisce che questa prospettiva sia praticabile oggi, qui e ora, nel contesto europeo; il quadro che la rende possibile è la globalizzazione e la conseguente spinta allo spostamento di migliaia di persone. Ma il presupposto non è solo quello strutturale-economico; Salza, infatti, indica – ma sempre in una maniera fortemente irregolare, con un’argomentazione mai organizzata gerarchicamente ma che procede per frammenti e illuminazioni – quella che, con qualche approssimazione, si può indicare come una “genealogia” di tale spinta al métissage.
Questa genealogia è totalmente spuria: Salza si riappropria del mito babelico di dispersione linguistica secolarizzandolo in senso quasi operaista – ed è perlomeno necessario ricordare che già Dante aveva proposto un paradigma di corrispondenza tra lingua e mestiere quale effetto della costruzione della Torre – riallacciandola al progetto di torre cilindrica di Tatlin, ufficialmente incaricato dal novello dipartimento di Belle Arti dei soviet per dare una sede alla nuova Internazionale comunista. Il progetto non si realizza – e questo è un segno inquietante dell’insufficienza linguistica del progetto comunista per come si è andato a realizzare.
Altro mito fondativo è quello del primo popolo ferino, rappresentato dai “bestioni” di Giambattista Vico, che parlavano un’unica lingua destinata a individuarsi, localizzarsi e mescolarsi con gli spostamenti e la trasmigrazione. Il compito della Scienza nuova è quella di riunificare questa lingua mentale comune non nella direzione pangiacobina della lingua universale di Leibniz o della Weltliteratur di Goethe, quanto nel continuo lavorio intorno alla differenza linguistica, allo scarto di significato presente nel passaggio da una lingua all’altra. Esempio straordinario è quello del Dictionnaire européen des intraduisables diretto dalla specialista di sofisti Barbara Cassin, che propone in forma di dizionario una serie di parole che risultano intraducibili, ovverosia che perdono, nella traduzione, parte della loro consistenza semantica. Ciò significa che la loro lemmatizzazione in una lingua piuttosto che in un’altra è, in qualche misura, accidente significativo: esempio tra tutte, la parola russa “pravda”, con il suo significato sempre in bilico tra “verità” e “giustizia”.
Un ricco corpus di testi viene dunque messo alla prova di questa genealogia e di questa prospettiva: ma al centro di un canone distorto, che si nutre di letteratura e cinema, si installa ben in vista il plurilinguismo “socialista” di Joyce; nella filiazione italiana, si indica il pluristilismo antifascista del Pasticciaccio di Gadda quale erede di una linea tipica, originata con Dante, e produttiva anche oltreconfine: l’esempio dello scrittore della Martinica Chamoiseau, che unisce la lotta di Gadda (autore amato e ampiamente citato da Chamoiseau) contro l’unicità della lingua alla tendenza al Tout-monde di Glissant, è sorprendente. D’altra parte, su un terreno invece più prossimo alla stessa possibilità di parola dell’escluso dalla lingua, si misura l’incomunicabilità della lingua del terrorismo brigatista che il bimbo di nome Nimbo adotta ne Il tempo materiale di Vasta, e al quale la bambina creola risponde con il silenzio. Il silenzio della bambina creola rappresenta, evidentemente, l’esclusione dalla stessa possibilità di espressione che un certo ordine simbolico impone a una parte della comunità: i subalterni, dunque, sono privati di parola; da questa posizione si può, però, rispondere con la disarticolazione del linguaggio, come nella non-lingua di Charlot in Tempi moderni, che diventa, rispetto alla lingua nazionale, una lingua «federatrice e universale».
3. Salza propone, di conseguenza, una costellazione testuale in cui da una parte la posizione diasporica dell’emittente o del parlante rispetto alla lingua (che quindi viene usata da un non madrelingua o da un madrelingua non appartenente all’intreccio identità nazionale / identità linguistica) e dall’altra la tendenza all’unificazione linguistica nel quadro di una continua ibridazione sperimentata dalla condizione migrante così come dalle sperimentazioni letterarie pluristilistiche (da Dante a Gadda) fanno emergere una lingua non standardizzata ma continuamente disincarnata rispetto allo spettro dello Stato Nazione. In un tale approccio, convivono slancio politico e fenomeni linguistici e simbolici differenti.
Salza fa riferimento al film Dernier maquis del franco-algerino Rabah Ameur-Zaïmeche, in cui il padrone della fabbrica – di nome Mao – decide di costruire una moschea per i propri dipendenti. Mao decide anche, però, di nominare dall’alto l’imam, senza cioè la consultazione dell’assemblea dei fedeli che è necessaria: e a questo sopruso reagiscono con violenza gli operai, allacciando un inedito cordone di solidarietà con la vecchia guardia sindacale, utilizzando gli strumenti tradizionali del conflitto (lo sciopero), arrivando addirittura alla distruzione della fabbrica. Ovviamente, c’è qui la sorpresa e la capacità di “osare” di un regista che rovescia i paletti tradizionali che circondano il conflitto, e che una tradizione radicalmente occidentale e illuminista ha divaricato definitivamente dalla religione. Ma a parte la sorpresa di una moschea che diventa luogo di conflitto d’avanguardia, mi pare che il punto sia altrove. Nel film viene presentato come spazio cognitivo centrale nel conflitto la presa di parola. Intravedo in questa dislocazione un’allure tutta repubblicana, se pensiamo al fattore scatenante delle vicende rivoluzionarie del 1789: anche lì, è la concessione di uno spazio di espressione al Terzo Stato che scatena gli eventi – e più di una generalizzazione può farsi à rebours, su su fino all’episodio inquietante dei Ciompi, i lavoratori tessili fiorentini nel 1378, che conquistano un protagonismo nella scena a partire da una serie di “programmi” sempre più radicali. Il malheur – che Simone Weil spostava con decisione a fondamento di una mistica operaista («quelque chose de spécifique, irréductible à toute autre chose, comme les sons, dont rien ne peut donner aucune idée») – conquista un ruolo di cittadinanza. In questa prospettiva, il piano linguistico diventa allegoria del piano simbolico. Nel valutare la posizione del parlante – in questo contesto, dell’uomo animale politico parlante – emerge un conflitto tra religiosità e laicité, consustanziale al contesto francese ma anche trasposizione di un conflitto tra lingua materna e lingua francese nazionale. Nella destrutturazione dell’addentellato ideologico del monolinguismo nazionale, la Francia è esempio-clou del suo potenziale escludente.
Se pensiamo a Nuovomondo di Emanuele Crialese, questo conflitto ci è più famigliare perché l’emittente è italiano e emigrante. La lunga sosta a Ellis Island dei protagonisti è un interessante campionario linguistico su cui sarebbe interessante tornare: vi si mescolano lingua materna dialettale (semplifico, anche evitando tecnicismi eccessivi), lingua del traduttore e inglese. Si tratta del quadro linguistico-culturale che costituisce lo sfondo di esperimenti linguistici come Italy di Pascoli oppure le lettere inserite nel romanzo di Capuana Gli Americani di Rabbato (quindi, in una fase primitiva di mise en prose per dir così dell’emigrazione), ma che, nella Ellis Island di Crialese, mostra con ferocia il significato sociale della barriera. Questo confine è qui evidentemente doppio, perché è linguistico ma anche sociale. La distinzione tra chi può entrare e chi no si basa sull’idea che l’idiozia è contagiosa, e quindi va contenuta e respinta. Ma in questo caso l’idiozia è la mancanza di parola:
Non è un caso se in Nuovomondo Salvatore Mancuso può entrare negli Stati Uniti, mentre il figlio, muto, e la madre, ribelle alle nuove regole, saranno respinti: la lingua è uno strumento di addomesticazione e di prova per il migrante. Nel quale, tuttavia, rimane una possibilità affettiva e radicale, quella di mantenere la lingua materna come unico rimasuglio di affettività in un contesto di diaspora. La scena finale immerge il protagonista, Salvatore, con la affascinante figura femminile di Lucy, in un mare di latte nel quale compaiono i grandi frutti che erano all’origine della promessa del viaggio (comparivano, infatti, nelle foto americane del figlio all’inizio del film):
Nell’immersione c’è il recupero di una dimensione materna del linguaggio, che secondo Melanie Klein ripresa da Julia Kristeva costituisce un’origine presemantica del linguaggio legata alla fusione corporale, realizzata tramite la suzione, con il corpo materno. Secondo Manuele Gragnolati, questa dimensione è riconquistata da Dante nel Paradiso, dopo il ripensamento del proprio pensiero linguistico realizzata nel canto XXVI dove la variazione linguistica è accettata e ripresa, per bocca di Adamo, nella sua potenzialità positiva: viene superata, dunque, una dimensione grammaticale e normativa del volgare, che era stata espressa nel De vulgari eloquentia, e il volgare della Commedia si apre al plurilinguismo e pluristilismo (Amor che move, Milano 2013).
Crialese si colloca in una stagione cinematografica italiana in cui il dialetto è diventato di nuovo importante, e sembra conoscere una valutazione meno gerarchica e direi anche non espressionistica: è un intero sistema morale il napoletano di Gomorra di Garrone; è lingua vera e propria, immobile al passare del tempo, il salentino di Edoardo Whinspeare. Ma in questo senso, emerge una specificità dello spazio linguistico italiano, dove non è dato riscontrare quella dinamica, tutta francese, che vede il métissage più come risposta alla glottofobia tipica della violenza della République che come compiuto progetto imitabile altrove. Viene da chiedersi, in altri termini, se invece il paese mancato, quello dello sviluppo senza progresso (Pasolini), non sia lo strano luogo di una ospitalità linguistica peculiare, che forse può dialogare con l’eccezionale gesto filosofico dell’Italian theory.
Fine prima parte.
*Molti amici hanno letto versioni parziali di questa riflessione. Voglio ringraziare dunque Daniele Balicco, Dario Gentili, Manuele Gragnolati, Stefano Pezzè, Elena Sbrojavacca, Gaia Tomazzoli, Raffaella Zanni che mi hanno offerto idee, suggerimenti, punti di vista differenti, rendendo un po’ meno precarie queste pagine.
Devo scrivere di Anomalisa, l’ultimo film in stop-motion del regista Charlie Kaufman, uscito nelle sale italiane nel febbraio 2016. Mi occupo di critica letteraria, so poco di cinema e non ho mai osato finora cimentarmi nella recensione di film; eppure devo scriverne, se non altro per chiarirmi il più intenso, intimo e inatteso rapimento emotivo, terremoto interiore, provato da molti mesi a questa parte. Non per una poesia, non per un romanzo, nemmeno per una persona. Per un film. La stessa intensità che scattò per Blancanieve e per Mulholland Drive, ma nel caso di Anomalisa forse più introiettata, meno estetica.
A dar conto di questa intensità certamente c’entra, ma solo in parte, la mia fascinazione per il grottesco a sfondo tragico e per l’uncanny, esemplificati nella balena arenata sulla piazza di un villaggio in Werkmeister Harmonies, di Béla Tarr; certamente anche c’entra, ma ancora una volta solo in parte, la resa del sordido in chiave iperrealista, ma senza esibizione di sé, come uno Edward Hopper trasposto nella pellicola. Più ancora e finalmente c’entra il fatto che il protagonista, Michael Stone (fredda pietra, nome-emblema che può forse richiamare lo Stoner di John Williams), è un me-ombra potenziale, l’accademico che ha interrato la propria freschezza intellettuale per obbedire alla logica del successo che quella freschezza (o spregiudicatezza, non sappiamo – di Michael conosciamo il presente, non il passato) gli ha garantito. In Michael ho intravisto insomma quello che a tratti mi è sembrato di avvertire in me, perlomeno in forma embrionale e da almeno un anno a questa parte.
Michael è come avvolto da uno schermo isolante, appare morto alla vita e riduce lo scambio con gli altri al minimo indispensabile per le questioni di logistica (l’invito a una conferenza, l’alloggio…). Del linguaggio lui ha dimenticato non solo gli aspetti espressivi, ma anche quelli simbolici e di rappresentazione dell’esperienza. Ironia atroce per un motivational speaker di successo come lui, aspetto che necessiterebbe di altri paragrafi ma che si commenta già da sé. Paradossalmente, e quasi per una forma di difesa personale, Michael conserva invece un rudimento di sensibilità per l’aspetto meno strumentale del linguaggio, quello al tempo stesso più esteriore (fisico) e interiore (psicologico): la musicalità – tono, timbro, intonazione – che scorge solo in Jennifer, la protagonista femminile non troppo appariscente. In questo senso, credo, va letta l’ardita ma efficacissima scelta di Kaufman di omologare tutte le altre voci, con effetto dapprima straniante ma che poi va sinistramente assimilandosi nello spettatore. Questa iper-sensibilità per l’aspetto musicale della lingua tradisce tuttavia un grado ennesimo di egoismo, sussunto in una forma quasi autistica: a Michael non interessa cosa gli altri abbiano da dirgli, non prova interesse per la loro storia e meno che mai per la loro sfera emotiva (troppo banale, prevedibile… o forse troppo compromettente?).
Ma Michael è prima di tutto e platealmente disinnamorato di se stesso, è nauseato dai discorsi e dalle ricette per il successo che egli stesso ha sviluppato e che persino ora codardamente si accinge a promuovere. Lo fa come una coercizione a ripetere, un’impotenza di fronte al proprio stesso successo misurato su parametri esteriori, quantificabili in copie vendute e inviti spesati. Il risultato, questa volta, è penoso: il motivational speaker Michael pronuncia un discorso incoerente e claudicante davanti a un pubblico pronto a pendere dalle sue labbra; il regista non concede sconti al suo poco amabile ma in fondo troppo umano protagonista.
L’incubo dell’essere voluti e richiesti (per la propria immagine pubblica, certamente, poiché quella privata Michael la nasconde anzitutto a se stesso) si concretizza, mi sembra, verso i tre quarti del film, nella sequenza onirica in cui Michael è letteralmente inseguito e accerchiato dai suoi ammiratori. La solitudine nella folla, forse la peggiore, la stessa che magistralmente Iac McEwan in Amsterdam tratteggia a proposito del direttore editoriale Vernon Halliday preso d’assalto dai suoi redattori. La stessa che Montale confessò di aver provato a Firenze, quand’era a capo del Gabinetto Viesseux (cito a memoria da un’intervista: “a Firenze ho conosciuto anche troppe persone, e la mia solitudine non era meno intensa che a Genova”).
Interessante notare che tutti questi personaggi sono uomini, e mi chiedo se questa forma della solitudine (altera, amara, scostante; non eroica, non poetica) insidi di preferenza il sesso maschile, che nel suo agonismo tende a recidere i rapporti o coltivarli solo per servirsene, anziché tenerli cuciti per la bellezza del fatto in sé (insiste sul tema Virginia Woolf in Gita al faro, nel centrale episodio della cena). Mi trovo d’un tratto a pensare – dopo un mio breve ma vivificante viaggio in Sicilia – che questo film non sarebbe potuto nascere in terre comunitarie, perché è sintomo e denuncia di un capitalismo avanzato che riduce gli individui a monadi. Bersaglio di Kaufman è dunque, indirettamente, l’ossessione degli Stati Uniti per la produzione di manuali sul come parlare, come comportarsi e come vivere, salvo che è poi il vivere come processo e scoperta bastanti a sé stessi a essere accantonato… l’Inghilterra, dove vivo da quasi cinque anni, non sembra poi troppo distante da questa sottile distopia già presente.
Nemmeno più si sforza, Michael, di essere gentile, benché tutti o quasi lo siano nei suoi confronti – questa è anzi la sua gabbia, la sua condanna. Al tempo stesso però gli manca la tempra per essere a tutti gli effetti un burbero interessante, per abbracciare interamente la causa dell’antipatia. Il suo scansare gli eccessi in negativo e in positivo è vòlto a scoraggiare l’empatia dello spettatore; la sua mancanza di intelligenza emotiva non gli viene perdonata perché compensata da chissà quali altre doti. Certo, intuiamo qualcosa della sua intelligenza libresca dal modo in cui viene riverito (“professore”), ma questo sembra un residuo di glorie passate, un’immagine di sé che egli rispolvera senza farci davvero più i conti. Come un attore chiamato a ripetere una parte che una volta doveva essere vibrante, autentica, e infatti questo Sé precedente e sepolto ritorna fugacemente nell’incontro con Jennifer, dove Michael si trasforma in adolescente innamorato ancorché con tendenze a ipostatizzare la donna davanti a sé in un’idea, a non lasciarla respirare per quello che lei è. Michael insomma abitò profondità che nessuno sembra saper smuovere più in lui, lo dicono l’estrema lentezza dei suoi gesti e i minimi (ma per questo tanto più significativi) movimenti del suo volto. Ecco, io credo di essere stato, per brevi istanti ma più volte, un Michael con trent’anni e con molto successo in meno. La breve prosa che riporto qui sotto l’ho scritta qualche mese prima della visione del film, a riprova di una sensibilità in potenza comune, una convergenza indesiderabile che dovrebbe agire come un allarme:
È un genio triste, nei suoi momenti migliori. Quando no, gli si spalma addosso una stoltezza sensoriale a prova di tutto fuorché del tempo, che la conosce e l’infiltra, minando il sottostante. Messo di fronte all’evidenza del cielo stellato, constata che è in alto, buio e assai grande. Al limite, detto cielo gli ricorda una giacca gravata di forfora, ma lo humour non è il tempo e pertanto non passa. Stira i muscoli facciali in una smorfia di meraviglia perché nel contesto appropriata. Distinguere gli aerei dalle stelle cadenti è facile fino alla noia.
Il sostrato emotivo, psicologico, è estremamente affine. La mia mente intertestuale non può a questo punto non viaggiare (terremoto emotivo della stessa qualità, per la stessa identica estraneità là veicolata) fino al Lupo della steppa di Hesse (anche qui, il protagonista Harry è un intellettuale di mezza età) nonché al Gabriel intellettuale disadattato de I morti di Joyce, cui sembrano far da eco emotiva questi versi di Sereni: “si pensa ad essi [i versi] mentendo / ai trepidi occhi che ti fanno gli auguri / l’ultimo giorno dell’anno”). In sostanza, si perde la meraviglia del mondo: inizialmente perché si è creativi e si ha in odio la ripetizione, ma poi in realtà perché non si è in grado di affinare lo sguardo, di trovare e accettare il bello al di fuori dell’eccezionale, come a Michael è parsa la voce di Jennifer nel tempo fuori dal tempo di una conferenza, nell’anonimo sfondo di una città che per una volta non è né New York, né Los Angeles, ma soltanto Cincinnati, tra l’anonimia e l’anomalia del titolo. L’idillio inaspettatamente e bruscamente si infrange (la voce di Jennifer torna uguale a tutte le altre in uno dei momenti più amari di tutto il film) proprio quando lei inizia a innamorarsi e a desiderare di condividere il suo quotidiano con Michael: una colazione, progetti per il futuro… Cosa è andato per il verso sbagliato? Che la realtà si è presa la sua rivincita sulla mente tirannica e infantile di Michael, che Jennifer si è rivelata per quella che è – una persona a tutto tondo, molto più del timbro di una voce in cui le manie depressive o l’estasi estetica di Michael avrebbero voluto confinarla. E Jennifer, personaggio positivo del film in crescendo e fino alla fine, si mostra infine assai più matura di Michael, capendo e accettando la natura di lui e superando la propria inevitabile delusione amorosa. A Michael al ritorno dalla conferenza resteranno i visi amici e forse un po’ pressanti dei parenti che l’aspettano, che non lo capiscono e che lui ricambierà non capendoli, proprio come il Gabriel de I morti.
Come sarebbero stati i romanzi di Friedo Lampe (li ho letti nella splendida e introvabile traduzione di Giovanni Nadiani) se avesse vissuto ancora o se scrivesse ora? Erano romanzi che raccontavano la Bremen prima della guerra, o il mondo visto da una mongolfiera, romanzi scritti con tecniche cinematografiche, si diceva, allora molto all’avanguardia. Come se l’io narrante fosse la telecamera che si sposta lentamente e, mentre ci consegna pezzi di mondo e narrazione, un occhio esterno si prenda la briga di vedere
Stava appoggiato al muro
vicino ai rifiuti il materasso
(buttato in così buone condizioni)
che noi lentamente trascinammo
per il suo lato lungo
la scia delle lumache rifletteva
il plenilunio ci mostrava la via
per il campus per la nostra calda stanza
dove lo mettemmo sul pavimento
ci serviva per fare all’amore
anche se ci era morto qualcuno.
Il nonno
Quando russava
dalla bocca aperta
sbirciavo
le verità inconfessabili
che a me solo
aveva raccontato.
In fondo al suo baule
ho scovato
una rivoltella
che imparai a
smontare.
Frammento di vita
Ah, questo porcaio d’esistenza, che guscio
per i sogni in questa stanza in affitto
solo letto e bidet. In proporzione
diretta con i seni che vanno giù calano i prezzi.
Ormai tosto il pane
con il phon sull’antenna
dei vicini appendo mutandine.
Fragment jete. Ah thinija e ekzistencës, ç’zhguall ǀ për ëndrrat te kjo dhomë me qira ǀ vetëm shtrat e bidè. Në përpjestim ǀ të drejtë me rënien e sisëve bien cmimet. ǀ Tani bukën thek ǀ me phon tek antenna ǀ e fqinjëve ndër breçkat.
[La casa era divisa]
La casa era divisa
con un muro
dal cimitero di notte
sentivamo fruscii
passi sospetti ululati
strozzati il giorno dopo
qualcuno se ne andò
in albergo ma a me
piaceva questa promiscuità
con i morti anzi proposi
di aprire una finestra
sul muro comune
cosa che non si avverò
per inghippi burocratici.
[La nostra idea del sesso]
La nostra idea del sesso
era atavica animistica
credevamo per esempio
che certe donne
dopo il dovuto allenamento
potessero schiacciare
noci con la vulva
che altre ancora
riuscissero perfino a fischiare
non ricordo bene
se con o senza dita.
Taglialegna
Masi scure
ha spaccato
il nocciolo del legno.
Siamo scomparsi
per questo
malinteso della scure.
Perché come
in amore
servono solo
mazza e cunei.
Tu lo sai, o Picchio…
Il raccoglitore di ferro
Con lo scalpello tu stacchi lo scalpo al Bunker
con il martello tu spacchi il cranio al Bunker.
Quando lo scalpello scotta, si fa incandescente
strizzi gli occhi:
i tuoi sogni – schegge di metallo nel corpo tenero.
Le tue dita sono pali
per il touch screen delle nostre signorine.
O silicio folle
o nudo ferro!
Che tu non possa mai arrugginire
ragazzo con mani da uomo:
dischiudici il teschio strappa il Bunker dentro noi.
*
Fiera del Libro, Torino
Domenica, 15 maggio, ore 10.30
Spazio Babel – Libreria Internazionale
La Scrittura come passaPorto: oltrepassare le porte del proprio paese, oltrepassare le porte di se stesso tramite la scrittura.
Il terzo racconto della rubrica Bracciate è « Le veneziane gialle » di Silvana Lorenzi, un testo breve ambientato a Berlino. Lorenzi, invece, è nata a Milano, dove oggi vive; Milano segue e copia i suoi stati d’animo, e viceversa; per questa ragione, forse, litigano spesso.
LE VENEZIANE GIALLE
di Silvana Lorenzi
Quello era il momento della telefonata serale in cui la furia iniziava a batterle sulle tempie. In quel momento avrebbe ucciso per non morire soffocata da legami che, attorcigliati su per il collo, stringevano.
Invece si aprì una birra, voleva si sentisse dall’altra parte.
Continua pure, bla bla, ti ascolto, glu glu.
Se non stai alle regole mi farai ammalare. Se muoio la colpa sarà tua.
L’amore che conosciamo è ricatto.
Se infrango la legge potrei finire vecchia su una panchina, sola con una birra e un carrello di stracci e colpe.
Cercò conforto nella casa, vuota, ma calda.
Meglio tornare alle regole e rispettarle. Sempre meglio del ricordo del tuo profumo che a suo guizzo e pericolo mi si abbatterebbe addosso come l’ascia su un tronco.
In fondo ti devo tutto.
Quando stavo a Berlino ricordo lo struggimento che provavo nell’aprire i pacchetti che mi mandavi.
Una volta da un paio di jeans, ormai importabili, hai cucito una minigonna che mi stava a pennello.
Non riuscivo a spiegarmi come facessi a cucirmi i vestiti senza prendermi le misure.
Davanti alla minigonna ho pianto, chiusa nella stanza con le veneziane gialle che filtravano di giallo gli esterni spenti.
Daggy era in cucina in una delle sue rare apparizioni diurne, ascoltava gli Smiths e preparava i suoi adorati Zuckerspaghetti. Anche gli Zuckerspaghetti di Daggy mi provocavano nodi alla gola, l’idea dello zucchero appiccicato ai fili di pasta mi ricordava la lontananza da casa.
Non ho mai avuto il coraggio di chiedertelo. Non avrei sopportato la risposta. Non riuscivo neppure a formularmi la domanda.
C’era chi pensava che lo studio della lingua fosse solo un pretesto, che fare le ore piccole servendo birre un divertimento. Per me era stata una fuga.
Non avrei potuto scegliere città più adatta. Le intimità inconfessabili la notte, il non saluto di giorno.
La mancanza sempre.
Mi mancava l’ironia.
Imparare una lingua da adulti permette la conversazione nel tempo delle strutture, ma preclude l’ingresso alle stanze salvifiche dell’ironia.
Era per questo che alla fine avevo deciso di tornare?
Non so mai perché faccio ritorno, non avevo motivo per tornare.
O forse sì, volevo risentire il rumore della chiave che gira e avere il bisogno di guardare fuori.
Oggi è il 12 aprile, una giornata di sole, ma un vento fastidioso di libeccio non la rende piacevole, benché sia bello vedere il cielo terso e il mare di un blu scuro intenso, solcato da un’infinità di creste biancheggianti di spuma.
Sto qui in un bar al porticciolo di Santa Marinella e non riesco a togliermi dalla testa la drammatica vicenda di Daniela.
Ha ucciso il padre, che, all’età di 9 anni, dopo la morte della mamma, l’aveva costretta ad essere la sua schiava sessuale e gli abusi non erano mai cessati per 12 anni consecutivi. La mente di Daniela, per lungo tempo, fu invasa da un coacervo di sentimenti contrastanti, dove, però, a prevalere erano il terrore e la vergogna, finché un giorno trovò la forza di denunciare la relazione incestuosa, che aveva subìto sin dalla fanciullezza come una profonda, immedicabile ferita.
Dai carabinieri fu da subito considerata una malata. Nel verbale si riferisce: “Uno stato emozionale poco controllato, infatti le tremano vistosamente le labbra e le mani, inoltre l’eloquio è impacciato e caratterizzato da carenza di parole significative” (sic). Quando, poi, il padre esibì un foglio sottoscritto da uno psicoterapeuta, dove si parlava di fantasmizzazione, vale a dire di una cosa non vera, ma vissuta psicologicamente come vera, per la tenenza dei carabinieri non ci furono dubbi: “una povera ragazza presumibilmente malata, molestata solo dalla sua morbosa fantasia”.
Passarono ancora sei mesi, ma al fin della licenza…
Il delitto fu perpetrato, nottetempo, durante uno dei tanti amplessi, col taglio netto di un vecchio rasoio nella vena giugulare del turpe amante.
La ragazza si presentò per denunciarsi, presso il presidio dei carabinieri, alle sei del mattino.
Al processo, per la difesa, si presta volontariamente una mia amica, una persona di alto livello professionale e senso profondo della morale.
Questa signora, avvocato penalista, si chiama Marta. Ci conosciamo dai tempi dell’università. Le ho parlato: “ Marta, tu pensi che questa cosa della fantasmizzazione sia una bufala?”
“Si, sicuramente. Innanzi tutto, questo sedicente psicoterapeuta l’ha formulata senza neanche vedere la ragazza, sulla base di un colloquio col padre, una sorta di memoria per un progetto di terapia, infatti dice: ”Il soggetto potrebbe essere affetto da forme psicotiche, con sintomatologie fantasmatiche e maniaco- depressive” Capito? “Potrebbe”.I carabinieri si sono accontentati di questa cartuscella, esibita dal padre, anche perché ‘sto signore si presentava ben vestito, calmo, sorridente, parlava un italiano corretto, quasi forbito, non era brutto, direi che poteva essere considerato un piacione, il che induceva a pensare che non gli sarebbero mancate le possibilità di avventure erotiche fuori casa. Ma nel processo ci vuole qualcosa di più consistente. Io sono sicura che ha mentito. E lo dimostrerò!
Tra l’altro, questo sedicente psicologo terapeuta, a parte la targhetta sulla porta, messa appena laureato, è un ragazzino inesperto e presuntuoso e dovrà rispondere di questa cartuscella scritta su carta intestata e basata su un’ipotesi ricavata dal colloquio col padre, una cosa fuori da ogni deontologia professionale. Poi è significativo che un padre, sentendo ipotizzare che la figlia è malata e ha bisogno di una psicoterapia, non dà seguito per la ragazza a nessuna cura, né con questo imbecille, né con altri psicoterapeuti. La cartuscella porta una data risalente a quasi due anni prima dell’omicidio. Mi sembra evidente che il padre scelse proprio questo cretino per procurarsi una carta, con la parvenza di un documento clinico, da esibire, nel caso di denuncia, cosa che avvenne in realtà. Ti rendi conto?
Pare, poi, ci sia anche la testimonianza di un’amica di Daniela, che ha avuto la confidenza di una donna di servizio. Una che, pare, abbia involontariamente visto qualcosa di strano e inquietante in quella casa. Non so ancora niente di preciso. Devo sentire le due donne domani o dopodomani.”
Marta mi è parsa ferma e convinta e credo che la sua tesi prevarrà, ma le relazioni tra morale e giustizia, morale e legalità restano, a mio avviso, ambigue e sono perplesso su che cosa augurarmi per la sorte di Daniela.
Se prevale la tesi dell’abuso sessuale, quella che noi crediamo essere la verità, la ragazza sarà comunque condannata, perché si è fatta giustizia da sola. Se prevale la tesi che l’omicidio è dovuto a una malattia della mente, quella che noi crediamo essere una menzogna, Daniela sarà, più o meno, salvata da “un’adeguata terapia e ospedalizzazione”, così ho letto sulla cronaca di un giornale locale. “Salvata”? Mi pare quanto meno semplicistico.
Ieri Marta mi ha mandato un messaggio sul cellulare: ”Parlato con signora Assunta, la collaboratrice domestica, grosse novità. Oggi non possiamo vederci. Ti lascio la chiavetta con la copia della registrazione da Nico, qui al bar del Tribunale. So che muori dalla curiosità”….
Marta ha la buona abitudine di registrare, con certi sofisticati strumenti da agente segreto, ogni colloquio che riguardi il suo lavoro, non chiede l’autorizzazione agli interlocutori, ma sa che non ne farebbe mai usi impropri, se ne serve esclusivamente da efficientissimi pro memoria. Quando può, come in questa circostanza, mi rende partecipe. Ho ascoltato il colloquio di Marta con la domestica sul mio iPad:
“Dottoressa che le devo dire? Si, è vero che andavo da Daniela per i lavori domestici, ma solo una volta la settimana, la mattina, quando il padre non c’era, perché lui stava al ministero, che non lo so che faceva là. Cioè doveva essere un pezzo grosso.”
“ Ma lei, signora, in quella casa ha visto o sentito qualcosa che l’ha turbata e che può essere utile alla difesa di Daniela?”
“No, e che dovevo vedere? Cioè niente di …Dottoressa, io ho paura a parlare”.
“Perché ha paura? Di che? Si apra, non si tenga tutto dentro! Avanti! Io so che lei si è confidata con Mariacarla, l’amica di Francesca”.
“Si, dottoressa, e lei mi giurò che non l’avrebbe detto a nessuno”.
“E, infatti, Mariacarla ha mantenuto il segreto. Aveva capito che lei era terrorizzata all’idea che il padre di Daniela venisse a conoscenza che lei sapeva e aveva capito. Ma quel signore è morto e non può farle del male. Ripeto, Mariacarla ha mantenuto il segreto anche adesso, ha solo detto che lei, signora, sa qualcosa e se vuole dire finalmente la verità e liberarsi la coscienza di un peso…lo può fare tranquillamente”.
“Dottoressa, io ho 36 anni e sono vedova e madre di due gemelli, lo so che non corro rischi, ma ho paura lo stesso”.
“Non deve aver paura di me… Io sono solo l’avvocato difensore di Daniela, capisce? E so anche che lei è affezionata a questa ragazza, so che le vuol bene. Su, mi dica, che cosa sa?”
“Si, a Daniela voglio un bene dell’anima e, sapete che vi dico, quello era un demonio e la fine che ha fatto se l’è meritata. Dottoressa un giorno… E’ una cosa brutta….”
“Un giorno?”
“Un giorno andai a fare i servizi di pomeriggio, perché di mattina c’era stata la messa di suffragio per mio marito, buonanima. Lui, il padre di Daniela, venne che potevano essere le sette, non lo sapeva che stavo in casa. Appena entrato, si buttò nella sua poltrona in salotto e chiamò la figlia, due volte e disse gridando una cosa brutta”.
“Che cosa disse?”
“Disse…. Troietta, sto arrapato,vieni a farmi… Dottoressa lei ha capito? Non mi faccia ripetere…”
“Si, certo, ho capito.”
“Daniela stava con me in cucina, mi fece cenno col dito di tacere e mi sussurrò di andarmene senza far rumore. Se scopre che sei qui ci ammazza”.
Ecco, la registrazione si ferma qui. Mi sembra tutto esplicito. Marta ed io non avevamo dubbi.
Io non ho le attrezzature culturali per districarmi nella filosofia della morale e del diritto e approfondire questi rapporti, ma, guardando in una fotografia, il volto di Daniela, il suo sguardo limpido e dolcissimo, ho provato una stretta al cuore e un’istintiva partecipazione al delitto. Sì, una partecipazione come unica e terribile forma di solidarietà.
La mia birra scura sta per finire. Forse ne ordinerò un’altra. Il vento sembra sia aumentato di intensità, lo vedo dall’agitarsi straziante delle petunie di tanti colori nei vasi qui, davanti al bar.
Ma si può essere solidali con un assassinio? Le mie idee del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto sembrano immerse in una valle piena di nebbia, dove mi è impossibile accedere. Mi assale un’angustia, uno strano turbamento, un senso di impotenza, di incapacità a gestire i pensieri che arrivano e scompaiono come piccoli stizziti fantasmi. Il naufragare in questo mare, oddio, non mi è dolce…
«Velocità della visione» vuol dire essere in grado di rappresentare il proprio tempo. È un moto situazionale, provocato da forze contrastive e convergenti: quelle della tradizione e quelle della sperimentazione. Sperimentare a favore della tradizione, perché la continuità si risolva pure nelle inevitabili fratture della storia.
Signa de rerum jattura vociferantur, inchiostro e gesso su carta, 2014
(da KROWTEN, omaggio ad Alfio Fiorentino, catalogo, edizioni Offerta Speciale, Torino 2014)
Mankind is superior, collage, 2016 (inedito)
Stile
Lo stile è stato, per secoli, il fattore umano dell’arte, la sintesi ideale tra esigenze espressive dell’individuo e consapevolezza partecipe del divenire storico di un gusto comune. Poi l’arte ha smesso di raccontare la realtà in maniera univoca, e l’opera ha preso a rappresentare la complessità della visione, moltiplicando le prospettive fino alla disgregazione dell’identità stessa dell’artefice. Il grimaldello di quanti oggi, in questa maniera, si provano a riscrivere artisticamente la storia collettiva non può essere, pertanto, che l’abbandono dello stile. Al suo posto, l’inciampo, l’interruzione e il ricominciamento permettono ai più audaci di sperimentare una pluralità di materiali e di forme nella più grande libertà, ma a prezzo di una svalutazione d’intenti e di una perenne precarietà di risultati.
Eugenio Lucrezi (1952) è di famiglia leccese e vive a Napoli. Ha pubblicato quattro libri di poesia: Arboraria, Altri termini, Napoli 1989; L’air, Anterem, Verona 2001; Cantacaruso : Lenonosong (con Marzio Pieri), libro + CD musicale, La finestra, Lavis 2008; Mimetiche, Oèdipus, Salerno-Milano 2013; e i libri d’artista Freak & Boecklin (con Marzio Pieri), Morra-Socrate, Napoli 2006, Nimbus, Eureka, Corato 2015 e Sapìa, Il laboratorio di Nola, 2016. Ha pubblicato il romanzo Quel dì finiva in due, Manni, Lecce 2000. Suona nel quartetto “Serpente nero blues band”, il cui ultimo disco, intitolato Frieda e altre storie, è uscito nel 2013. Già redattore della rivista di letteratura Altri termini, diretta da Franco Cavallo, è attualmente direttore della rivista di poesia e arte Levania.
[ Auto-antologie prosegue con Eugenio Lucrezi e il suo percorso poetico. Appartengono alla stessa rubrica gli spazi dedicati a Francesco Tomada , a Vincenzo Frungillo , a Francesco Filìa e a Viola Amarelli. Sul lavoro di Eugenio Lucrezi è possibile leggere un mio intervento qui B.C.]
Rassegna internazionale di scritture di ricerca a cura di Mariangela Guatteri e Giulio Marzaioli
Per comprendere la realtà EX.IT è necessario entrarvi, farne un’esperienza, attivare modalità di lettura del territorio libere dall’incombenza di difenderlo; predisporsi a uno sguardo fluido, idoneo alla percezione delle aree più frammentate, ma non solo.
«In un certo senso l’exit, l’esodo, la defezione, è una sottrazione intraprendente, cioè non ci si può sottrarre se non fondando qualcosa di nuovo o, per prolungare il richiamo biblico, se non abbandonando l’Egitto inoltrandosi nel deserto e sperimentando lì forme di autogoverno che prima non erano neanche immaginabili.»
Diversi anni più tardi sono al matrimonio dello Staderini, ormai stabilmente texano. Si sposa con un’ingegnera indiana del suo dipartimento e il matrimonio è in India.
Dopo una prima fase in un resort ci spostiamo su traballanti autobus fino alla giungla del Kerala, dove abita la famiglia della sposa. Ci danno dei bungalow che sono di fatto delle palafitte senza pareti. Cavallette grandi come gattini solcano l’aria e atterranno sull’impiantito e sulle persone. Non tutti apprezzano. Mi informo se ci siano ragni. La padrona di casa mi dice che c’è una tarantola in bagno, dice che le piace lì, perché è più caldo. La guardo negli occhi e capisco che sta scherzando, che fa dell’ironia sul panico che ha colto molti degli invitati occidentali. Eppure, quando rientro, racconto della tarantola agli altri ospiti, serissimo.
Ma se ne sta buona nella sua tela, compa’?, fa un ingegnere elettronico di Gravina (e Houston).
Magari! È una predatrice notturna. Mobile. Rapida.
Aggressiva, compa’?
Forse mi sbaglio, ma credo sia pure di quelle che scagliano gli aculei…
Il ragno che ho creato passa di bocca in bocca, acquista sostanza. C’è chi va in bagno col cappello e chi portandosi dietro una rivista arrotolata o uno scacciamosche; in capo a qualche giorno c’è chi giura di averla vista passare tra il cesso e la doccia. Se ne parla: c’è chi ne descrive i balzi, chi ne approssima le dimensioni con le mani. Mai visto niente del genere, compa’.
Io stesso mi scopro a pisciare a occhi chiusi – io! – e allora apro gli occhi, ridacchio tra me, eppure, lì al buio, in un angolo di quel vespasiano tropicale, forse…
✴
Deserto tra il Portogallo e la Spagna, lago di Idanha-a-Nova, terzo o quarto giorno di un festival goa. Mattina colorata di psicotomimetici, di luce che passa attraverso il nylon della tenda dove già si disegnano motivi aztechi, frattali, volti autoricombinanti, mentre apro gli occhi dopo quello che a stento può essere definito sonno. Sole alto sull’isola, lo si vede bianco attraverso il nylon, i battiti della pista principale una emanazione sintetica che non si slega dall’acqua del lago, dalla sabbia, dalle voci che si chiamano qua e la, dalle ragazze dai capelli colorati che fanno il bagno, dal mio svegliarmi. Irraggiante sulla parete dove c’è la zip, enorme un ragno. Guardo sulla tenda quella tegenaria portoghese che si gode l’umido caldo del mio interno tenda, della mia febbre enteogenica. Cerco un pezzetto di carta; non ce ne sono.
Allora apro la zip, la raccolgo con le due mani, la metto fuori e la guardo sgambettare via; poi tiro un grido al mio compare nella tenda di fronte:
( Do qui un’anticipazione del romanzo Per sempre partigiano di Pino Tripodi, ed Derive e Approdi, 2016, euro 16,g.m.)
la storia inizia per caso. tutto comincia quando decido di fare una vacanza collinosa sul belbo in quel tratto di fiume incastonato tra le province di cuneo asti e alessandria prima che le sue acque ancora giovani si perdano nel tanaro.
il belbo anche lui muore giovane come tutte le vite – suicide o meno – inghiottite da fiumi più grandi di loro.
la politica e i partigiani contano un fico secco in quella decisione. c’entrano invece l’ottimo vino la viranda del mio amico claudio solito e l’idea di rivedere i luoghi pavesiani.
prenoto un albergo e smacchino pigramente da quelle parti. giunto in hotel ho giusto il tempo di sistemare le cosettuole che mi seguono e di chiedere un caffé in camera.
la vita cambia direzione appena mi metto a sfogliare i racconti di cortazar.
quell’11 aprile 1998 il primo tocco – solitario subito soffocato – delle campane a morto mi desta un’immediata curiosità. il suono a bicchiere quello riservato per le celebrazioni solenni annuncia la fine di una persona particolare.
smetto subito di leggere. mi alzo di scatto. dispongo istintivamente l’orecchio sinistro verso la finestra da cui arriva la musica. sette secondi distante il secondo tocco mi indubbia. poi qualcosa prendo a intuire.
dalla memoria inatteso affiora un ricordo che spenso di aver mai registrato. l’annuncio dell’agonia di mio padre con i tre tocchi delle campane a distesa ripetuti più volte tanti anni prima.
dalla musica delle campane s’intuisce che il morto è del posto. si tratta di un uomo di 77 anni. appartiene a qualche confraternita. ma qualcosa rimane oscuro. perché le campane finito il concerto ricominciano a suonare senza attendere le pause canoniche che precedono il rito funebre? a chi vogliono far sapere che qualcuno qualcuno di certo importante se ne anda? quei suoni sembrano smaniosi di infiltrarsi nei padiglioni auricolari di chi non vuole ascoltarli.
dopo quarantacinque minuti con gli orecchi incollati alle campane decido di verificare di persona di che morto si deve vivere quel giorno.
abbandono l’albergo. percorro quel centinaio di metri che mi separa dalle campane. davanti alla chiesa non c’è nessuno. niente parenti niente catafalco. anche le panche e i confessionali dell’interno sono vuoti. guardo nella cantoria oltre l’altare e in sacrestia. nessuno. non rimane che chiedere informazioni al campanile sonante. inizio correndo la scalata ma devo presto accorgermi che le gambe mi diventano lignee. passo passo freno l’ascesa non contando gli scalini. nell’ansia di raggiungere la sommità mi sembrano più dei quattrocento del campanile di giotto.
finalmente arrivo alle campane. si ostinano ad annunciare il transito ben oltre il tempo concesso normalmente ai morti. mi aspetto di incontrare il sacrestano. vedo invece un vegliardissimo sacerdote solennemente vestito con cotta e stola bianca sopra l’abito talare ricoperto dal velo omerale. gli faccio segno più volte. passano più minuti poi finalmente non so se per le mie insistenze o perché quel sistema di concerti funebri termina le campane si tacciono. chiedo al parroco a che ora inizia la funzione.
oggi non c’è alcuna funzione funebre dice con mia enorme sorpresa.
se non oggi quando si svolge in chiesa il funerale della persona di queste campane?
mai.
mai? perché è morto altrove?
è morto a cento metri da qui.
forse non si trova il corpo?
no.
è morto suicida?
cosa c’entra.
c’entra che mi piacerebbe conoscere la ragione di un concerto funebre senza fine per un funerale che non ha luogo.
il funerale sta per iniziare non in chiesa.
dove?
direttamente al cimitero.
è perché mai?
perché il morto pensa di non credere.
mi sta dicendo che lei suona le campane così solennemente per un uomo che non è cattolico.
per un uomo che pensa di non esserlo.
perché lo fa.
anche se un uomo è incapace di riconoscere i meriti di dio dio sa riconoscere i meriti dell’uomo.
ma non si suonano le campane per un miscredente.
dio non suona a comando perché così si usa fare.
il mio interesse per il morto cresce.
dove si trova il cimitero?
a cinquecento metri dalla chiesa.
allora andiamoci.
lo dico a me stesso ma il sacerdote lo accoglie come un incoraggiamento a fare quello che la testa sua fino a quel momento non gli ordina. affronto la discesa con gli occhi incollati ai piedi. quei gradini che in salita sembrano solo numerosi ora mi appaiono anche dislivellati smussati bucherellati. l’ideale per capitombolare. giunto in piano mi metto lesto a camminare. la testa ora può occuparsi del mondo senza limitarsi al pensiero piccino di salvare se stessa. dietro di me a passo molto più vecchio il prelato.
il cimitero arriva coi dodici gradini dell’ingresso. oltre a sinistra si presenta subito la camera mortuaria. dentro appoggiata sul marmo una bara già sigillata e tre persone due anziane e una giovane a onorare il defunto. arrivano i becchini uno in più dei congiunti del morto. fanno scivolare il feretro su un carrello. seguiti dai tre da me e dal sacerdote lo conducono presso un loculo. lacrimoso il più anziano improvvisa una brevissima orazione leggendo male da un foglio manoscritto non bene. poi la bara si infila nella sua angusta dimora. presto un manovale cementa l’ingresso del loculo. in attesa del marmo sul cemento ancora fresco uno dei tre il più giovane illacrimabile con un temperino scrive 1921-1998. per sempre partigiano.
mi appunto nome anno di nascita e di morte. è lo stesso nome pronunciato spesso in casa. un partigiano leggendario. ma qualcosa non torna. credo faccia parte del pantheon dei vincitori ma a vederlo ridotto così solingo non capisco.
prima che quel mancato corteo funebre si sciolga provo a chiedere come mai un partigiano tanto importante muore in una solitudine così estrema. di solito gli eroi si accompagnano al viaggio ignoto con bande fanfare gagliardetti e discorsi oceanici.
la storia ha l’altalena mi risponde il sacerdote.
la solitudine e la vita di quel partigiano da allora mi diventano un’ossessione. comincio a chiedermi perché la storia è così capricciosa. perché lascia che alcuni facitori di mondo muoiano tanto soli. perché li usa come schiavetti decidendo alla fine di cancellarli dalla sua vita.
perché gli uomini possono fare a meno della loro storia.
non so dare spiegazioni logiche. amico d’infanzia dell’uomo solo il vegliardissimo sacerdote che da quel giorno accompagno alla morte prima di sparire me ne bisbiglia una.
quel partigiano non possiede il dono della viltà della vita.
da quando la viltà è diventata un dono.
giovanotto forse non ha senso intendere il mio parlare e certo è ancora più vano che io tenti di spiegarlo. non si fermi alla realtà addomesticata delle parole.
mi dia un appiglio.
l’esistenza è fatta di piccole viltà. senza è impossibile vivere. l’esistenza che sfida le viltà della vita è insopportabile agli uomini normali. meglio che venga seppellita fino a quando un mito non le restituisce un briciolo di ghignante beffarda verità.
In portoghese, desencontro è una parola dolceamara, scivolosa e però irresistibile, che contiene la dolcezza di qualcosa che è passato e l’impossibilità amara di restare nell’incontro. «La vita, amico, è l’arte dell’incontro», cantava Vinicius de Moraes in Samba delle benedizioni, sebbene anche lui sottolineasse che l’esistenza è costellata di mille disincontri. Nella versione italiana il termine fu tradotto con «disaccordo», che è solo una delle accezioni possibili, forse la più piatta, quasi che all’epoca dell’album, frutto della collaborazione tra de Moraes, Ungaretti e Sergio Endrigo, fosse sembrata prerogativa linguistica tutta portoghese quella di racchiudere, in una sola parola, molti mondi possibili.
Il disincontro contiene il bene e il male, «meu bem meu mal», canta ancora Gal Costa, e Lisa Ginzburg non manca di ricordarlo nel suo ultimo romanzo Per amore (Marsilio, 2016), un libro di amore e morte, come è stato detto, che è anche la cronaca di un desencontro – sentimentale, culturale, sociale, geografico. Vitulca, documentarista italiana, si innamora di Ramos, un ballerino brasiliano sulla via del successo, incarnazione del carisma, della gioia di vivere e della jouissance, e seguace del Candomblé, religione afrobrasiliana. I due si sposano a Parigi, dove lei vive, nella mairie del XVIII arrondissement: si scattano le foto di nozze in place Jules Joffrin, accanto alla giostra, e in quel momento, quasi vi fosse salita per un giro, Vitulca volteggia fra la propria felicità e gli sguardi scettici degli invitati al pensiero che la loro relazione non durerà.
Col matrimonio inizia anche la giostra di tentativi per reggere un rapporto che costringe ad attraversare di continuo le frontiere (oltre alla Francia e al Brasile, anche Birmingham, Roma, Bitonto, Siviglia), fra voli intercontinentali, telefonate Skype, sfiancanti altalene fra il vuoto e il pieno di una storia a distanza; dopo un po’ anche la presenza diventa faticosa, decisamente troppo piena se per Vitulca passare due mesi in Brasile con Ramos, nel bairro popolare dove lui vive, significa essere quasi costantemente circondata dalla sua tribù, composta da una famiglia numerosa e da un corteo di gente varia, amici, conoscenti opportunisti, ammiratori sempre pronti a «vampirizzare» la sua allegria. Ma è ai sentimenti che Vitulca bada, e in fondo lo ha sempre saputo che «un amore da lontano le si addice»; se è vero che, da documentarista, è abituata a osservare il dato di realtà, dall’altro conosce la regia e il montaggio, strumenti prodigiosi dell’ambiguo: così, l’inquadratura che sceglie di privilegiare vede lei e Ramos in primo piano, il resto sullo sfondo.
Sotto l’abbagliante bagliore della sua vitalità, del suo intenso desiderio di godere della vita, Ramos nasconde però un segreto forse taciuto anche a se stesso, una tragedia intima, un destino «fatale» nel senso di oggetto di interesse da parte del fato, il quale com’è noto solo s’interessa a esseri straordinari. È questo destino che l’autrice ripercorre, con una sintassi a tratti sincopata che rende bene il faticoso lavorio della ricostruzione, il viaggio a ritroso nel tempo che la protagonista s’impone per ricomporre i tasselli di una relazione durata anni. Ricostruire, leggere i segni che in passato si sono trascurati, è un’operazione ossessiva, perché nella realtà i segnali del fato si palesano solo a tragedia già avvenuta, e nondimeno danno luogo a ipotesi diverse, verità molteplici – vari mondi possibili, come detto in apertura.
La tour di Montparnasse, dove Vitulca e Ramos trascorrono uno degli ultimi momenti insieme, è un palcoscenico perfetto per il disincontro: pur offrendo uno dei più bei panorami parigini, è un luogo immensamente tetro, non felice; come se la bellezza lì davanti agli occhi fosse già passata, già ricordo. Nel disincontro però restano, già etimologicamente, i frammenti dell’incontro che è stato, e che in quanto incontro è fondativo, determinante a livello umano, emotivo e identitario. «In fondo, le nostre vite sono i nostri morti»: la splendida citazione di Jesmyn Ward posta in esergo al libro è anche il sigillo ideale di questo romanzo appassionato eppure ostinatamente lucido, il cui ritmo nel finale precipita, stringendosi in una spirale quasi soffocante, subito prima di sciogliersi in una scena tinta di serenità e di cauta, silenziosa speranza.
Non credo di ricordarmi come riuscii a trovarla. Non fu facile, comunque; soprattutto perché non la stavo nemmeno cercando. Tutte le sere andavo a piedi alla radio dove allora lavoravo: gli studi non erano vicini, ma mi piaceva camminare ed ero abituato a percorrere chilometri senza difficoltà, provando anche diversi tragitti attraverso la periferia per rendere meno noiose quelle mie passeggiate. Talvolta azzardavo anche qualche «deriva metropolitana» psicogeografica, lasciando che fossero i miei passi a guidarmi: ma quella volta dovevano avermi tratto in inganno, perché la strada sembrava molto più lunga del solito, più faticosa, e più rigida del normale la sera invernale. C’era qualcosa che non tornava. Un po’ disorientato, mi ero fermato a un incrocio, quando la scorsi.
Si trovava in un seminterrato, sul fianco di un palazzo un po’ discosto dalla via che stavo percorrendo. L’insegna, dipinta a mano e priva di illuminazione, recava scritto solo «La boutique du diable»; non si vedeva quasi dalla strada, nel lungo e fioco crepuscolo metropolitano; ma qualcosa mi aveva indotto a sporgermi sul cortile esterno che, sotto il piano stradale, dava accesso ai garage, come se avessi già saputo che doveva essere lì. Scesa una breve scaletta, notai anche la piccola vetrina, un riquadro grande quanto una finestra, in cui stava la scritta in neon rosa «cartomanzia» e, su un fondale optical a larghe righe bianche e nere, erano esposti vecchi fumetti di Brunner, Steranko e Druillet, romanzi erotici e di fantascienza del secolo scorso, LP e singoli degli anni Settanta: Led Zeppelin IV, The Idiot, Voyage of the Acolyte, Over-Nite Sensation, Quicksand, Tubular Bells. Sul fondo, le gambe di un manichino con calze a rete, abbastanza volgari.
La porta lì accanto, una normale porta di legno verniciata di nero e piena di graffiti, non offriva invece nulla allo sguardo di chi avesse voluto curiosare all’interno; nemmeno lasciava intuire se il negozio fosse chiuso o aperto. Malgrado questa sua refrattarietà (o forse a causa di questa), non esitai a spingerla e a farmi avanti, senza annunciarmi o chiedere permesso, un po’ stupito di questa mia sfrontatezza.
Appena entrato, non vidi nessuno nella quasi oscurità: l’unica sorgente luminosa era uno stretto finestrino a vasistas posto così in alto, vicino al soffitto, che mi era impossibile capire se affacciasse all’esterno o su una bocca di lupo. A terra e sui banconi che riempivano tutto lo spazio c’era quello che mi aspettavo di trovare: pile di albi a fumetti, di cassette vhs, di dischi a 33 giri, a 45 giri, pacchi di cartoline; alle pareti scaffali carichi di libri e libri, un grande specchio dall’aria antica e su un espositore, accanto al quale pendeva appeso un poster di Apocalypse Now, alcuni cofanetti e piccole scatole. Senza sorpresa mi trovai a sfogliare affascinato e felice una rivista per ragazzi in cui avevo letto da piccolo le storie bizzarre di Redipicche. Molte altre figure ammiccavano dalle copertine, ognuna allusiva di una storia, più o meno nota; e ogni storia richiamava ricordi della mia infanzia. Ma più di tutto ero attratto dall’espositore. Mi avvicinai per esaminare il contenuto di quei cofanetti, sapendo già cosa aspettarmi: dovevano essere carte da gioco. Avevo ancora le ossa gelate e la stanza non era riscaldata: così, mentre cercavo di aprire una delle scatole, un brivido rese i miei movimenti goffi e il mazzo mi cadde a terra. Raccolsi in fretta le carte e, dopo averle rimesse in ordine, ne girai una. Erano tarocchi e la carta riproduceva il Bagatto.
«Una mano fortunata, la sua», mi dice la voce della Regina di Cuori alle mie spalle, «proprio come quella del caro Athanasius. Il Bagatto è un buon inizio: “vidi me stesso in lui riflesso come in uno specchio, e credetti di osservarmi attraverso i suoi occhi”».
Trasalendo per la sorpresa, poiché il locale mi era parso deserto, mi volto per cercare di guardare la mia interlocutrice in viso, nell’incerto chiarore che filtrava appena nel seminterrato. È seduta mollemente a un tavolo, posto nell’angolo da cui si può tenere d’occhio l’ingresso e l’intero locale, e mi sorride; davanti a lei è seduta un’altra donna, dall’aria austera, che in grembo tiene un libro aperto, come se stesse leggendo, ma pare invece concentrata sulle carte che stanno sul tavolo, quasi fosse intenta a una partita.
«Athanasius? Lei allude a Kirchner?», domando, mentre mi accosto di qualche passo, nel tentativo di trarmi d’imbarazzo con un’arguzia.
«Ma no», mi spiega paziente l’altra donna: «il signor Athanasius era un cliente, un affezionato cliente…».
«Che proprio come questo signore aveva i suoi momenti d’impaccio. È vero, Madame Sosostris?», chiede ironica la Regina di Cuori, raccogliendo da una pila accanto a sé un LP e mettendosi poi a leggere con attenzione le note sul retro della copertina.
«Non hanno proprio la destrezza di un prestidigitatore, certi signori», replica divertita l’altra, sempre fissando le sue carte: «avranno forse intuito, come dicono di avere, una qualche sveltezza d’occhio. Ma non di mano».
«Gli uomini spesso presumono da loro stessi più di quanto si dovrebbe…», sospira la Regina posando ai suoi piedi l’album: è Aquila, del 1970, una rarità.
L’altra commenta, con una punta di asprezza: «spesso presumono di sapere anche quello che li aspetta, quello che troveranno dietro l’angolo, piombando in una casa, in una storia…».
Tento allora di giustificare tanto la mia presenza quanto la goffaggine con il freddo patito.
«C’è freddo», ammette Madame Sosostris, che ha l’aria di non essere proprio in salute; si aggiusta l’ampio scialle per coprirsi meglio, poi aggiunge in modo vago:
«Il cielo promette qualcosa…».
«Neve?» chiedo io; ma dallo sguardo che ottengo per risposta mi rendo conto che è una domanda fuori luogo e abbasso vergognosamente gli occhi. Dalla copertina di una rivista musicale David Tibet, con l’immancabile gatto in braccio, e un severo John Balance mi fissano con silenzioso rimprovero.
«Io direi piuttosto… come una notte di brina e un presagio di sgomento», obietta, prendendomi del tutto alla sprovvista, una voce maschile di cui non riesco ancora a scoprire la provenienza.
Davanti al mio muto smarrimento, la Regina di Cuori torna a prendere la parola e declama con posa teatrale:
«Domande, domande… “L’intera vita altro non è che una serie di domande divenute forme”…». Poi, nel tono di una confidenza: «Vede, noi stiamo qui – qui sotto – come domande che contengono già la loro risposta».
«Così come è sopra è anche sotto», proclama l’altra, con il timbro perentorio di chi affermi una verità assoluta, e con solennità chiude il libro: prima che lo metta da parte faccio in tempo a scorgere sulla costa il nome di Jodorowsky. Incuriosito, vorrei indagare su quella lettura, ma vengo per la terza volta colto di sorpresa da un altro intervento:
«Lo sa che in ogni vita c’è una storia, vero?», mi avverte da una poltrona poco discosta da noi la voce di un lettore, intento a sfogliare le vecchie riviste e i libri della pila al suo fianco: «E ogni vita può essere anzi raccontata attraverso una serie d’immagini ricorrenti, sempre le stesse, incredibilmente, spaventosamente simmetriche, che comprendono l’intero arco dell’esperienza».
Northrop Frye
La Regina di cuori lo guarda compiaciuta. Quasi cogliendone un gesto o un desiderio inespresso, una ragazzina bionda esce sollecita dall’ombra per versare da una teiera d’argento un tè caldo, che poi raffredda con il liquido contenuto in un altro bricco; quindi pone la tazza sul coffee table davanti alla poltrona del lettore. Mentre lui si piega in avanti per posare il libro e prendere la tazza, cerco di scoprire che cosa stesse leggendo, e nella poca luce del crepuscolo che appena cominciava a rischiararsi del plenilunio intravedo l’inquietante Book of Job di William Blake.
«E cosa c’è, dunque, in questo racconto?» gli chiede la voce maschile che avevo sentito prima. Ora che i miei occhi si stanno abituando alla penombra distinguo l’uomo cui appartiene: siede con le gambe accavallate su una poltrona più in disparte, nell’altro angolo, davanti a una nicchia nel muro – una specie di finestra chiusa, forse il retro della vetrina – e tiene lo sguardo fisso su quella, quasi cercasse di guardare fuori. Un altro lettore, penso, ma poi mi accorgo che quello che tiene in mano con noncuranza, poggiato sul ginocchio, è in realtà un disco: riconosco la copertina dorata di Hunky Dory.
«Una varietà di elementi e funzioni», gli risponde il lettore, riprendendo con la mano libera il suo libro, «ma ricorrenti: tanto che dalle nostre storie si potrebbe tracciare un alfabeto di figure, un mazzo di illustrazioni che copra l’intero arco dell’immaginazione…».
«Molto di più ancora», argomenta l’altro, con lo sguardo ancora rivolto al muro, come per attraversarlo: «se proviamo a concentrare la nostra attenzione allo strato più profondo, possiamo scoprire che dietro quelle figure vi sono forme primordiali, capaci di raccontare la sua esperienza, la mia, e quella degli uomini vissuti millenni fa o che devono ancora nascere. Prototipi universali per le idee che dentro ognuno di noi si manifestano attraverso fantasie e immagini simboliche…».
La discussione s’interrompe quando, da una porta sul retro che pare immettere nelle cantine, entra salendo da una ripida scala un vecchietto magrissimo e curvo, dai grandi occhiali da vista, accompagnato dal frastuono di un macchinario che si spenge non appena richiude dietro di sé l’uscio, facendo piombare la stanza nel silenzio. Il suo grembiule grigio fa pensare che possa essere il portinaio o un custode: senza dire una parola posa la lampada con cui si faceva luce nel sotterraneo su una pila di LP, in cima alla quale noto una copia di Force the Hand of Chance, degli Psychic TV. Poi, sempre tenendo lo sguardo a terra, brandisce la scopa come un’arma antica e si mette a spazzare il pavimento nei pressi dello specchio, andando qua e là, con movimenti obliqui, senza ordine logico, come un rabdomante.
Mentre tutti tacciono provo allora a guardare quali immagini ci siano in me.
c’è una gita scolastica a Vienna c’è il sonno le MS e la sindrome di Stendhal al Kunsthistorische Museum i postumi della Vecchia Romagna c’è questa notte da solo conosci te stesso coca cola e aspirina le prime tracce di una vita che vivrai il mangiacassette poi cut to
c’è una stanza al pianterreno lontana dalla città sperduta nel grigiore di una strada suburbana l’alba e una pioggia che dura da giorni l’odore di caffè di umidità pena fino al quaranta per cento lontana da tutti eppure vicina alla fine e all’inizio della storia cut to
c’è un sole rosso che scende in estate e l’ombra scura in fondo alla valle di alta montagna all’orlo del mare ci sono due bambini in un giardino c’è l’aria di città del nordeuropa e un cielo vuoto il vento veloce ci sono giorni deserti e binari gli arpeggi elettrici nell’autoradio ci sono strade polverose cut to
c’è un marciapiede ruvido alla fine di un pomeriggio di ottobre c’è il cinema la nebbia vaga risalita lungo la fondovalle il grigio dei tetti in fondo allo spazio alla fine del mondo c’è il double-feature negli anni teneri schegge di vetro un gioco al massacro tutti i racconti di Lovecraft cut to
c’è il giradischi la camera al buio la città vista dall’alto il rumore della puntina che cade e cerca il microsolco frusciando l’attacco di batteria il sintetizzatore che disegna la colonna sonora di quelle ore di sera le note del basso che increspano appena la superficie con piccole onde la copertina dei dischi l’odore del vinile le note a calare con cui finisce Atmosphere o Christine i titoli di coda fade to black
A spezzare il silenzio è questa volta Madame Sosostris, che riprende il discorso interpellando il lettore:
Carl Gustav Jung
«Chi può dirlo, davvero, cosa ci sia, in queste storie? Forse solo ombre, forse solo i “suoni e furori” senza senso dell’idiota, che non significano nulla, come dice il suo poeta… Noi viviamo sommersi dalle parole senza nemmeno capire il senso di quello che ci diciamo, ombre a nostra volta, come quelle dei racconti».
«“La vita è un’ombra che cammina e che si pavoneggia”…», ricorda pensieroso il lettore, seguendo il filo dell’allusione di Madame, con la tazza in mano e lo sguardo perso della semioscurità. Anche la sua voce, mi viene da pensare, è quella di un’ombra, uguale alle ombre del racconto: un’ombra fra le ombre.
Sorseggia il tè, poi continua, esitante, quasi parlando fra sé:
«Quindi… ogni storia che possiamo raccontare è l’ombra di quell’ombra… uno spettro, l’ombra di un vuoto, fatto di lontananza e assenza…»
«…come lo spazio nero che fra poco riempirà nel cielo la distanza fra una stella e l’altra», sentenzia l’altro uomo, con un gesto vago in direzione della nicchia
«“Del nulla versato nel vuoto”», cita sarcastica Madame Sosostris, per rivolgersi poi a me con un cenno d’intesa: «Come vede anche il saggio ermeneuta finisce talvolta col trovarsi in qualche impaccio… così come forse i professori suoi amici spesso s’ingannano molto».
Il lettore scrolla le spalle e torna immergersi nel libro; nella penombra della stanzetta non lo vedo quasi più, confuso nella poltrona, ma lo sento borbottare per tutta risposta:
«Crede di essere più furba, lei, che non ha nemmeno il coraggio di portare il suo nome?»
«E chi lo ha, questo coraggio? Lei forse…?», lo canzona Madame, mentre il lettore poggia anche la tazza, che continuava a tenere in mano, per nascondersi meglio dietro il libro: «E poi di nomi ne ho avuto fin troppi: mi hanno chiamato Sibilla, Lenormand, Osmond, Hyde Lees, Blavatsky…».
Quindi, voltandosi di nuovo verso di me, ritorna seria:
«Tu puoi credere di essere in questi nomi, e nelle tue parole, ma quella che racconti è la tua ombra: non credere in te stesso».
Come recitando l’antifona, subito la Regina di Cuori canticchia:
«Don’t deceive with belief».
«La conoscenza arriva con la liberazione della morte…», conclude l’altro uomo, sempre guardando la finestra che non c’è: «ossia quel momento in cui puoi vedere la tua ombra sulla riva dell’al di là e riconoscere l’altra parte di te, quando puoi prendere coscienza del tuo essere anche un’ombra fra le ombre, e non il sole che immagini di essere dentro di te, ma piuttosto un “conquistatore che non ha ancora conquistato sé stesso” ed è trascinato dagli eventi…».
Da fuori risuona il latrare insistente di un cane; come un richiamo, come un allarme. «Dev’essere la luna piena che agita i cani», suggerisce la Regina di Cuori.
«I cani ci avvertono delle insidie che ci aspettano al varco», la corregge l’uomo col disco, fissando la sua finestra chiusa, quasi cercasse di avvistare attraverso di essa quelle insidie.
«Il cane è amico dell’uomo: è appunto per questo che bisogna guardarsi da lui», ammonisce beffarda Madame Sosostris.
«E perché?», si stupisce l’uomo che continua a tenere lo sguardo sul muro: «Non bisogna temere l’incontro col cadavere. Siddhartha Gautama, mentre viaggiava incontro al destino sul carro guidato da Cianna, ne trasse un fondamentale insegnamento. Come dicevo, accettare la morte significa superare la limitatezza del proprio io, l’insensatezza dei suoni e furori di cui ognuno di noi, come il folle da voi menzionato, riempie la vita. Perciò non bisogna temere di presentarsi sulla sponda d’Acheronte a incontrare le ombre, come hanno fatto anche Gilgamesh, Orfeo…».
«E Dante!», aggiunge il lettore, riscuotendosi: «Anche lui ha dovuto fare quel viaggio per riconoscersi, per ritrovarsi, sulle orme di tanti eroi antichi: Ulisse, Enea, Paolo…».
«In effetti ogni iniziazione passa attraverso l’esperienza della tomba», riconosce Madame Sosostris.
«Come il mio dolce Lucio…», cinguetta affettuosamente la Regina di Cuori.
L’uomo col disco continua con convinzione:
«E non bisogna certo temere d’incontrare la propria stessa ombra. Anzi, è necessario incontrarla, come Medardo incontra Vittorino, perché non si può lasciarla sola, ignorarla: quanto più è nascosta, tanto più diventa nera e densa».
Anche il lettore sembra animarsi:
«A Goethe di solito avveniva d’incontrarsi su un ponte, o altre volte lungo un sentiero che portava da una riva all’altra di un fiume. E Apollinaire, frequentatore di ponti a sua volta, quando era in attesa d’incontrarsi per conoscersi, vede sfilare un corteo di tutti coloro che non sono lui, e che pure lo compongono: coloro che ama, i giganti coperti di alghe, abitanti di città sommerse nelle profondità di mari che sono il sangue delle sue vene, e mille altre tribù… “tutti quelli che sopraggiungevano e non erano me / portavano a uno a uno i pezzi di me stesso / A poco a poco fui costruito come s’innalza una torre”».
William Burroughs
Senza nemmeno alzare la testa, anzi continuando con cura meticolosa nella sua occupazione, fa udire la sua voce (più distinta e forbita di quanto mi aspettassi) anche l’anziano inserviente:
«Ma in quei casi non si trattava che di una proiezione della coscienza e non del vero doppio».
L’uomo alla finestra che non c’è annuisce:
«Esatto, non era propriamente ciò che i cabalisti chiamano il “soffio delle ossa”, Habal Garmin, del quale si dice che come discese incorruttibile nella tomba, così risorgerà il giorno del giudizio universale. E invece per vederci chiaro ci è necessario proprio compiere quella discesa, ci è necessario il rigore della morte!».
«E anche noi ce ne stiamo sepolti qui sotto, “dans la nuit du tombeau”, non per non vedere, ma per dissolvere le apparenti superfici, secondo quel ben noto metodo suggerito da Blake…», mi spiega con fare complice Madame Sosostris.
«Lo stesso metodo usato dai suoi colleghi…», propone l’uomo col disco al lettore, che approva:
«Da chi vuole operare sull’insieme di corpo e anima, per usare le parole del poeta: quindi anche dai suoi».
«Già: ed è operazione, che si compie appunto nel mondo infero…», conferma l’altro.
«Oh ma che immagine sinistra…», geme a disagio la Regina di Cuori.
«“Dev’essere il diavolo”….», ridacchia il lettore.
«In fin dei conti, è questa la parte che dobbiamo accogliere, a volte, ed è anche la parte della gioia», arguisce l’uomo posando solo per un attimo su di me lo sguardo, per poi rivolgere di nuovo verso la finestra chiusa il viso.
«Non lo giudichi male, per questa stranezza», mi sussurra premurosa la Regina di Cuori: «il nostro amico è una persona per bene. Certe volte ha degli scatti, dei momenti di rabbia, ma non ha malvagità. Ed è solido il suo intelletto…».
«Come la sua casa… finché reggerà!», insinua malignamente il lettore.
«Penso che abbia saputo cavarsela meglio di altri suoi conoscenti, non crede?» controbatte Madame Sosostris: «Meglio di Roderick, col suo Scorpione obliquo e Sagittario retrogrado; meglio del signor K., con tutti i suoi problemi con la giustizia… E meglio di quel giovane cavaliere… il tenente Willi si chiamava?».
«Sì, sì, mi pare, Willi… poveretto!», le risponde subito la Regina: «Le loro case non erano molto solide, per una ragione o per l’altra, e sono andate in rovina».
«La vostra ossessione per cose materiali come gli edifici è ammirevole», brontola il lettore.
«Mai quanto la sua e quella dei suoi amici, principi della “tour abolie”…», ribatte ridendo Madame Sosostris: «Oltre a quello che ha appena menzionato, era per esempio un emulo di Hiram un altro ‛maestro Guglielmo’ ancora, quello che pose la torre al centro della sua ‘visione’; e Antonin ci ha rimesso la salute mentale, quando scese alle fondamenta del tempio di Emesa per erigere fino al cielo il fallo…».
Ma s’interrompe quando l’uomo seduto in disparte, sempre senza degnarci di un’occhiata, sbuffa, irritato. Allora il lettore le domanda incredulo:
«E che vuole giudicare da queste disavventure? Tutta la vita è una lotteria di Babilonia? O una partita a carte con l’inferno? Chi crede questo…»
«Lo credeva in un certo senso Gherman, ricordate?», prorompe divertita la Regina di cuori.
«Ah, la regina di picche lo ha tratto in inganno!», esclama Madame Sosostris.
«Ma con ragione… e il tre, il sette e l’asso: un bello scherzo, davvero», sogghigna l’altra.
«Davvero credete che ci sia solo questo caos?» sbotta il lettore: «Che non si abbia diritto di mettere ordine, o almeno di cercare un ordine? Allora – parlando di diavolo – perché non tornate a invitare il vostro vecchio padrone, Edward? Lui apprezzava il caos e un certo procedere a ruota libera…».
«Oh, quel brutto muso!» mugola la regina di cuori, versandosi costernata un’altra tazza di tè.
Madame Sosostris si affretta a rispondere, ma in modo pacato:
«Apprezzo la delicatezza che ha voluto usarmi nel non ricordare l’altro nome con cui voleva farsi chiamare. Ma lei comunque sa bene che su questo negozio non può ormai vantare alcun diritto, quindi non lo chiami nemmeno padrone. E comunque, mio caro, i suoi sforzi ai miei occhi sono sempre encomiabili: di certo ne è avvertito».
«E d’altronde anche lei non fa che fare questo», nota conciliante l’altro: «“comunicare con Marte conversare con gli spiriti”, eccetera eccetera… e soprattutto “sfidare l’inevitabile / con carte da gioco” significa tentare interpretazioni».
L’uomo che continua a guardare la nicchia precisa: «Certamente non è solo un gioco di carte. Chi gioca cela la morte interiore. Invece quello che vogliamo fare tutti noi in fondo è proprio “to explore wombs, or tombs, or dreams”»
«“I consueti passatempi e droghe”, lo concedo», dice Madame Sosostris. E poi, rivolta al lettore: «ma è la freddezza con cui lei e altri, per esempio quel suo amico italiano, pensate di poter arrivare ad avere sempre ragione che mi rende inquieta. E inquieta in generale io resto sul futuro, né penso che si possa avere calcolato tutto con esattezza… l’essere umano è un materiale oscuro, opaco. Un corpo nero: difficile calcolarne con esattezza la massa».
Mi guardo nell’antico specchio opaco: anche il mio doppio, nell’oscuro riflesso, non è che un corpo nero, un’ombra.
A quel punto interviene la Regina di Cuori, garrula: «A me non dispiace vederla così: la vita è una partita a carte e a ogni giocatore capitano carte diverse, ma chi manovra come si conviene gli atout, vince…», e accenna maliziosa all’angolo in cui sta un separé decorato con figure liberty. Mi accorgo solo allora, tanto erano immobili e silenziosi, che dietro a quello, sotto a un bizzarro lampadario rococò nel quale non brilla nessuna luce, vi sono un uomo e una donna immersi nell’ombra che si tengono per mano e si guardano negli occhi. Con la mano libera lui regge un curioso bastone da passeggio, decorato con una testa di fanciullo come pomo e due serpenti intrecciati lungo l’asta; lei tiene invece un ombrellino belle époque appoggiato sulla spalla.
«Loro, vede, non prestano neanche più attenzione ai libri, alle storie, presi come sono l’una dell’altro…», continua soddisfatta la Regina di Cuori. «André, sapete, l’ha cercata per tutta la città», aggiunge materna: «prima quando veniva qui s’interessava molto alle nostre cose…».
«Anche Nadja è una dei nostri!», taglia corto l’altra, infastidita: «Se non l’avesse conosciuta qui, non avrebbe mai potuto trovarla!».
«Eh, forse nemmeno cercarla…», sospira il lettore.
Le due donne lo guardano. Il lampadario spento continua a pendere inutilmente e come quello resta sospeso anche il discorso.
Gustav Meyrink,
«Ma tutte queste chiacchiere dove ci porteranno?» chiede spazientita la Regina di Cuori.
«Da nessuna parte, dovresti saperlo», replica bonariamente madame Sosostris: «è un libro che non comincia e non finisce questo che stiamo leggendo, un libro che cambia ogni volta che lo apriamo…»
«Non sono forse così tutti i libri?», constata il lettore senza nome.
Madame Sosostris si volge soddisfatta dalla sua parte, sorridendo:
«E non è così la tua stessa vita, lettore?».
Dall’angolo in penombra, dove pure non posso vederlo distintamente, non giunge risposta; ma sono sicuro che ha ricambiato il sorriso.
«Bisogna saper accogliere il mistero del torrente che scroscia dalle cime verso le valli», suggerisce allora l’uomo con il disco.
«E quello della nuvola che dal vuoto della valle sale alle cime», conclude l’anziano dal grembiule grigio.
Noto solo adesso che sull’ultimo bancone, il più vicino all’uomo seduto in disparte presso la nicchia, c’è un giradischi acceso. Il piatto sta girando ipnoticamente: sembra quasi invitarmi ad avvicinarmi, prendere dalle sue mani l’album di cui sembra dimentico e provare ad appoggiarvi la puntina, per sentire la voce di Bowie cantare della «warm impermanence». Ma non sono sicuro che l’apparecchio sia collegato a un amplificatore, e soprattutto non sono sicuro che gli altri gradirebbero.
«È tardi», mi avverte Madame Sosostris, come se avesse letto il mio pensiero: «è quasi sera».
«Brilla già la stella di Venere», dice l’uomo alla finestra che non c’è, sempre come se vedesse attraverso di essa.
«Questa è l’ora del giorno in cui si muore…», cantilena Madame Sosostris con aria assente: «e poi si torna a vivere in corpi composti da una muta alchimia con cenere e metano, neve e fango, nel gelo dei colori all’orizzonte….».
«È l’ora del giorno senza parole», seguita l’uomo, «e senza nome per il suo segreto. È qui che si combatte, in vista delle verità addolorate dell’alba, la battaglia contro i suoni e i fantasmi che ci abitano, per l’ascesa al trono del proprio ‘io’»
«Un vigile silenzio intenso e grigio… accettare, andare avanti, durare. Non c’è corona o manto bianco», soggiunge il lettore mentre fissa l’anziano, sempre intento a spazzare nel suo modo bizzarro: «e l’incoronazione può avvenire solo qui, sotto un sole oscuro, nell’ombra in cui il futuro dorme “come il mare nel raggio sanguigno della luna”…»
«…sotto il sole rosso del profondo, l’enigmatico sole della notte, che risplende nel punto più profondo della corrente scura di fiumi sotterranei, dove sono il nero scarabeo e il sangue dell’eroe ucciso…», fa di rimando l’altro uomo.
«Vorrei versare anche per lei una tazza di tè», mi dice premurosa la Regina di Cuori, «ma credo che il mondo là fuori la aspetti».
«Da Kether a Malkuth», sentenzia Madame Sosostris, riprendendo il suo volume. È un’altra citazione? Le sue parole mi ricordano qualcosa che è rimasto sospeso in me, ma non riesco a ricordare cosa. La sento mormorare, mentre rivolge la sua attenzione alle figure sul tavolo: «in questa carta un viaggiatore stanco: cammina, ma fino a quando non so… germe di sole piantato la sera all’equinozio e sotto la luna che schiude promesse lontane e note, sempre in sospeso e sempre mancate, nel segno di stelle ormai tramontate. Fante di spade davanti all’ignoto, poi cavaliere per una regina, sempre sospeso e al bivio di vie…»
Il vento fa sbattere la porta d’ingresso che avevo lasciato socchiusa alle mie spalle: dopo aver urtato sullo stipite, questa torna adaprirsi, come se una mano l’avesse spinta e fosse poi sparita al mio volgere lo sguardo. È un richiamo?
«Si è alzato il vento», osserva la Regina di Cuori: «mi piace questo vento che soffia all’improvviso nei giorni d’inverno, carico di promesse».
«The trumpet of a prophecy», mormora Madame Sosostris, di nuovo assorta nelle sue carte.
Il lettore immerso nell’ombra sembra anche stavolta coglierne l’allusione e recita a memoria:
«O tu / che porti sul tuo carro i semi alati / al loro cupo invernale letto / dove giaceranno freddi e sepolti / come un cadavere nella sua tomba / finché la tua azzurra sorella di primavera suonerà / la sua squillante chiarina sulla terra sognante e riempirà / di vive tinte e odori ogni collina e piano».
È un richiamo anche questo? Un invito ad andare? È ora di uscire da qui?
Vai, ammicca scanzonato John Foxx dalla prima pagina di un numero del «New Musical Express», con la giacca sulla spalla, l’asta del microfono in mano e lo sguardo rivolto in alto.
«Vai», mi dice una voce alle spalle: «ti aspetta la tua ombra».
All’uscita Venere splendeva davvero, ormai bassa sul luminescente orizzonte urbano che non lascia vedere molte altre stelle; presto sarebbe stata cancellata dal fulgore del plenilunio. Per la strada solo la corsa incessante delle automobili, come trascinate da una corrente continua. Nessun essere umano, tranne me stesso, rimasto là ad attendere la mia ombra, appoggiato alla ringhiera sul cortile, lo sguardo rivolto all’ultimo piano di un grattacielo, dove un’unica finestra era illuminata.
Fonti:
G. Apollinaire, Corteo (1913)
L. Apuleio, Le metamorfosi (II sec.)
A. Artaud, Eliogabalo (1934)
Asvagoşa, Le gesta del Buddha (II sec.)
W. Blake, Il matrimonio di cielo e inferno (1790-93) e Il libro di Giobbe (1823-26)
A. Breton, Nadja (1928), L’amour fou (1937)
W.S. Burroughs, Lettere dello yage (con A. Ginsberg, 1953-1963) e Il pasto nudo (1959)
L. Carrol, Alice nel paese delle meraviglie (1865)
P. Celan, Corona (1952)
Guy Debord, Théorie de la dérive (1956)
G. Deleuze e F. Guattari, Mille piani (1980)
T.S. Eliot, La terra desolata (1922), Quattro quartetti (1943)
N. Frye, Fearful Symmetry: A Study of William Blake (1947)
G.I. Gurdjieff, Incontri con uomini straordinari (1960)
E.T.A. Hoffmann, Gli elisir del diavolo (1815-16)
A. Jodorowsky, La via dei tarocchi (con M. Costa, 2004)
C.G. Jung, Anima e morte (1934), Liber novus/Libro rosso (1913-30) [p. 274]
F. Kafka, Il processo (1914-17)
Lao Tsu, Daodeching (IV-III sec. a.C.)
H:P. Lovecraft, La chiave d’argento (1929) e Attraverso le porte della chiave d’argento (1932)
G. Meyrinck, Il Golem (1913-1914)
G. de Nerval, Chimere (1853)
A.S. Puskin, La dama di picche (1833)
A. Schnitzler, Gioco all’alba (1927)
W. Shakespeare, Macbeth (1606)
P.B. Shelley, Ode al vento dell’ovest (1820)
P.D. Uspenskij, Il simbolismo dei Tarocchi (1913)
W.B. Yeats, La torre (1928)
Aquila, Aquila (1970)
D. Bowie, Hunky Dory (1971)
Coil, Horse Rotovator (1986)
Current 93, Thunder Perfect Mind (1992)
C. Debussy, La chute de la maison Usher (1908-17)
S. Hackett, Voyage of the Acolyte (1975)
House of Love, The House of Love (1988)
Iggy Pop, The Idiot (1977)
Joy Division, Licht und Blindheit (1980)
Led Zeppelin, IV (1971)
M. Oldfield, Tubular Bells (1973)
Psychic Tv, Force the Hand of Chance (1982)
F. Zappa, Over-nite Sensation (1973)
L. Bottaro, Redipicche («Corriere dei Piccoli», 1972)
F. Brunner, Doctor Strange («Marvel Premiere», 1973-74; «Doctor Strange: Master of the Mystic Arts», 1974)
P. Druillet, Lone Sloane (Le Mystère des Abîmes, 1966; «Pilote», 1970-72; «Metal Hurlant», 1975-80)
J. Steranko, Nick Fury Agent of S.H.I.E.L.D. («Strange Tales», 1965-69, 1972)
I primi cinque anni della pubblicazione Congiungimenti (2010-2015) raccolti in un unico volume.
Testi di Domenico Brancale, 32 disegni di Hervé Bordas. A cura di Silvia Soliani, con una nota di Vito M. Bonito. Tiratura di 200 esemplari.
Edizioni Prova d’Artista, Venezia, Galerie Bordas, 2016
ESECUZIONE 1
in te riposto il segreto… non una nudità
se non ci fosse la parola che costringe
al silenzio… in te seppellito il seme…nel
nome la carne… ora non siamo più noi
se non è l’altro che comincia a parlare…
Ho conosciuto Giuseppe Acconcia grazie a un incontro che si è svolto a Torino durante la presentazione del suo libro, Egitto Democrazia Militare pubblicato dall’eccellente editore Exorma. Conosciuto di persona perché in realtà eravamo entrati in contatto qualche tempo prima per cominciare una proficua collaborazione con Nazione Indiana in merito a quanto succedeva in Medio Oriente. Giuseppe è infatti corrispondente per il Manifesto e da anni porta avanti un discorso poco prudente in merito ai più recenti avvenimenti, rompendo l’onda delle opinioni correnti piuttosto che cavalcarle, come nella sua presa di posizione a dir poco critica nei confronti dell’autunno abbattutosi in medio oriente dopo le primavere ricche di democrazia e speranza per i popoli del Mediterraneo. Tali posizioni sono state anche attaccate, polemicamente, salvo poi rivelarsi mesi dopo, alla luce di terribili fatti come l’assassinio di Giulio Regeni in Egitto, a dir poco realiste rispetto a quanto sta accadendo in questa nostra parte del mondo.
Introdurre una raccolta di poesie con una nota sulla produzione letteraria e giornalistica del suo autore mi è sembrato giusto per due ragioni almeno. La prima è che in Italia abbiamo soprattutto in questi ultimi anni dei poeti che da anni lavorano in campo politico e sociale con estremo rigore e con eccellenti risultati dal punto di vista teorico e militante. La seconda è che non v’è affatto anomalia nel rilevare tale esperienza della poesia in ambiti che sembrano troppo prosastici e realistici per lasciare spazio alla forma poetica, perfino al credere ancora in essa come azione letteraria sul mondo. Delle poesie di Giuseppe Acconcia sono allora lieto di condividerne con voi una breve selezione tratta dal libro e soprattutto l’approfondita analisi che ne ha fatta Eleonora Rimolo.
L’unghia che entrava nella carne del mio dito
veniva curata ogni giorno con acqua e sale,
filamenti bianchi lunghi sguazzavano nella piccola
[conca blu,
la pelle bagnata era libera da un peso, il dito respirava,
ma il liquido giallo fluorescente crostoso
di un intenso odore di cicatrice perenne
ricompariva pochi minuti dopo,
fu in una di quelle notti che avvistammo
il cadavere di un uomo alto, coperto da foglie,
[sulla salita vicino casa,
sospeso sulla terra con un cappello,
nessun segno di colluttazione,
ma le ferite della pelle, come di Marina de Van,
squarciavano le sue gambe.
Poco prima era stato visto in un bar
senza gabinetto dietro alla stazione di Bologna,
buio, frequentato soprattutto da chi spazza,
[banconi pieni di pane,
sul fondo il rumore di una diligenza formata
[da carrozze sconnesse,
aperte e con due passeggeri, insospettabili:
bread, cantante dalla faccia sfigurata
[come fette di pane,
e una donna trafitta da frecce che ne attraversavano
[la carne senza ucciderla,
entrambi avevano appena assistito alla salita
di una cosca di uomini malfattori alla tavola
[alta della Mafia.
Pare che l’uomo sia entrato nel bar per pochi minuti
e per due battute azzeccate abbia ottenuto in regalo
una bottiglia di vino della Valpolicella,
[ancora intatta nelle sue tasche.
Poco prima era stato visto in un retrobottega
mentre amava una donna ninfomane
e veniva travolto dal suo ardore
con il suono di una chitarra
ed una voce impaurita e stentata a vibrare sulle corde,
immersi in un’estasi profonda
sfondarono le doghe del letto
mentre la donna moriva di febbre gialla a trent’anni.
Quella stessa sera fu visto su uno schermo
tra le vie di Ocklahoma City mentre interpretava
[Rusty James.
I ponti della città diventavano templi.
Padre e figli giocavano su un letto,
coinvolti in un’orgia sublime,
piccoli specchi riflettevano la scena.
Nel pomeriggio fu visto mentre chiedeva lavoro
a vecchi signori che lo scoraggiavano a vivere
mentre lui si sforzava di mostrare perfetto
[piglio anglosassone,
tradito da vaghi tentennamenti
e dal dubbio che nessun ufficio fosse fatto per lui.
Uno dei vecchi raccontò che quel ragazzo,
le visiteur du soir lo chiamò,
aveva il volto di chi strappa le foglie per strada,
che di per sé non vuol dire niente,
ma che lui associava a chi vuole giocare non lavorare,
a chi vuole vivere senza tempo,
persino la quotidianità precisa dei giornali era forse
[per lui un’oppressione,
a chi vorrebbe essere espansivo, ma si ferma
[per reticenza altrui,
a chi sarebbe morto solo se lo avesse deciso lui stesso.
Evidentemente il vecchio non aveva capito granché
vista la morte improvvisa dell’uomo.
Attorno a noi la folla cominciava ad arrivare
e le storie più assurde percorrevano le labbra:
una finestra lasciata aperta per trent’anni
avrebbe provocato la morte del giovane
oppure il pugnale amichevole
del fratello di infanzia avrebbe colpito alle spalle.
Da quel giorno, cresceva un bambino
nel mio petto destro. Sentivo formarsi
le prime radici dei suoi nervi duri e la pelle liscia
[del suo volto.
*
Le luci di Belgrado
Quel colore di sole
che ricorda la terra, ma
non quella coltivata,
penso piuttosto alla mai
toccata da piede di uomo,
sabbia indurita, suolo di Marte.
La luce di Belgrado
è di polvere gialla,
stesa sulle strade, lungo i tranvai,
tra negozi, baracche e alberi verdi
conformi ai suoi raggi.
La luce di Belgrado
è negli occhi segnati
di uomini e donne per strada,
sono sguardi di altro pianeta
sembrano fissi, immobili, spenti
senza riflessi o bagliori improvvisi,
sono di terra mai coltivata e
di polvere lasciata.
Le luci di Belgrado
sono ad Ada Ciganljia
la Sava incontra il Danubio,
gialla-verde-marrone,
macchiata di terra, di polvere, di luce del sole,
a lungo guardata da occhi immobili tanto da
darle un nuovo colore,
formaggio di burek o zuppa di pesce,
barconi sul fiume,
pelle gitana come jelen pivo.
*
Non inciampare nei giornali
Sono un mucchio
lì accatastati
tra riviste e giornali.
Sono centinaia di migliaia
formano grattacieli altissimi
raccontano, come si dice, notizie.
Sono carta coperta di inchiostro
distribuita nei piccoli
chioschi aperti all’alba.
Sono pieni di discorsi di nominati giornalisti
i più brillanti, i migliori dei migliori
accozzaglie di parole imprecise.
Sono comunicatori come altri
ma veramente artefatti,
per lo più capaci di parlare
di ogni argomento
senza alcuna conoscenza.
Un’intervista campata in aria,
un fatto nuovo,
un collegamento magistrale
entra in scena il comunicatore
per distorcere quella piccola storia.
Chi come me voleva raccontare,
era affascinato dalle notizie,
metodo infallibile per entusiasmarsi
a qualsiasi cosa,
ma adesso non può far finta di niente.
Non è stato difficile,
è bastato guardare le facce dei chiamati giornalisti,
nessuna serenità, nessuna verità,
ingabbiati loro stessi in cumuli
di parole inutili ed inventate,
ripetute all’infinito, intuizioni errate,
racconti distorti, fatti senza fondamenti
che acquistano ogni giorno potere essenziale.
Guardateli i contabili della scrittura
affaticarsi nei resoconti, nei prospetti, negli schemi,
negli stati patrimoniali,
nelle strutture linguistiche efficaci di comunicazione.
Non farti incantare dall’aria oscura,
dalle cartine ingiallite, dal volto del guru indonesiano
della libreria Odradek, dai vecchi mobili
[di una cantina, da redazioni postpseudocomuniste,
neppure quelle sono eccezioni,
è la velocità che rovina, la tecnica
[che ha colpito definitivamente,
senza alcun segnale di ripresa possibile.
Non pensare che gli esteri siano meglio,
se distingui l’uniformità del discorso politico
[bipolare del tuo paese,
allontanandoti da questioni politiche
tendenti monotonamente verso un infinito
[limite destro,
perché dovresti descrivere altri paesi
solo parlando dei loro altrettanto oligarchici
[affari politici?
Non pensare che i critici siano meglio,
se hai ben chiaro il vuoto della lettura
tra le righe o tra le immagini
senza vedere le righe e le immagini,
come puoi occuparti di raccontare trame o giudicare?
Non pensare che le cronache locali siano migliori,
gli affannati cronisti del mercato bovario
o dei funerali assassini che
facce toste devono avere per fare domande?
Non voglio denigrarvi,
ma non è necessario sapere le cose che raccontate,
anzi, quasi sempre, le poche verità necessarie
[sono altrove,
non serve recarsi a quel chiosco
né accendere lo schermo,
consiglio di mille professori.
Non perdiamo altre forze,
per favore, scavalchiamo quei mucchi di giornali.
Nota di lettura
di
Eleonora Rimolo
Per ricostruire il volto caleidoscopico di Liberi tutti vorrei partire da alcuni versi polemici rivolti da Giuseppe Acconcia nei confronti dei giornalisti, suoi colleghi, definiti i contabili della scrittura˗quasi questi fossero degli attenti burocrati interessati a tutto tranne che alla scrittura, che è l’opposto della burocrazia e della contabilità˗ e nei confronti dei critici letterari. I critici che giudicano e raccontano, (o meglio pretenderebbero di farlo) il vuoto della lettura tra le righe di un testo poetico. Mi sento per tale ragione chiamata in causa, dovendo intervenire criticamente sulle poesie dell’autore. Sappiamo, tuttavia, che la poesia parla soprattutto con i silenzi: le sue pause sono fondamentali, il ritmo non è scandito da ardite narrazioni da ordinare logicamente ma da sussurrate intuizioni inspiegabili, indomabili, afferenti ad una dimensione parallela a quella del naturale vivere comune, ma non udibile, non visibile.
Il mio proposito, dunque, non sarà quello di giudicare e/o raccontare i versi di Giuseppe Acconcia ma di ripercorrere, sulle tracce poetiche dell’autore, i suoi chiari e semplici (cerca di essere chiaro e semplice) sentieri del vuoto tra un verso e l’altro, considerando, come punti cardinali della sua opera, che la poesia è silenzio e menzogna (le bugie della poesia) e il poeta è un ragazzo alla sua lotta costante contro la dittatura della nascita, come se il nascere, leopardianamente, fosse per l’uomo la prima vera, incontestabile ed incontrovertibile imposizione nefasta della Natura maligna.
Considero, fin dalla prima lettura integrale di Liberi tutti, questo titolo, e di conseguenza globalmente questa raccolta, un grido di anarchica istigazione al Desiderio, dove per Desiderio intendo, alla maniera di Lacan, un’esperienza indistruttibile di apertura verso l’alterità che rigetta ogni solipsismo della psiche. Il Desiderio invoca dunque l’Altro, che è radice ultima dell’esperienza del nostro inconscio. E Giuseppe Acconcia cerca disperatamente l’Altro in diversi modi e sotto diverse forme. Cercherò, dunque, di esaminare quelle più persistenti, più rilevanti.
Il poeta riferisce apertamente, fin dalla sua primapoesia, di essere un apolide, poiché non riesce a trovare la propria collocazione nel mondo: mentre gli altri si affannano in mille inutili occupazioni (alcuni ragazzi entravano nella metropolitana puntuale […] altri vivevano in comune, segregati tra le montagne […] alcuni si affannavano alla ricerca/di un lavoro qualsiasi […] altri si immergevano in un lavoro lento,/perenne, immutabile, felicità […]alcuni trentenni si agitavano/e sospiravano nell’attesa del bambino […] altri, più vecchi, raggiungevano cerchi/per passare il loro tempo coccolati […]) il poeta è pronto a rimanere solo, come è giusto che sia per coltivare il silenzio precedentementeinvocato. Nonostante ciò, però, per quanto si ci sforzi di rimanere soli e in silenzio, qualche rumore giunge ancora alle orecchie come elemento disturbante che denuncia una realtà sbilanciata, inadeguata: anche se solo, in assenza di ogni rumore,/sento sempre il sibilo assordante di un acufene.
Giuseppe Acconcia considera la scrittura un accessorio del mondo, e le sue parole sono fatte della stessa materia del suo lardo (come se il mio lardo/fosse fatto di parole): la poesia ha dunque un peso, una corporeità, una materialità che non si può ignorare, poiché non galleggia nella leggera vaghezza di un mondo ultraterreno, ma si àncora alla terra e mette le sue radici via via nel corpo di chi la compone. La corporeità è un elemento essenziale della sua poesia, ed è il primo nucleo tematico: ne è un lampante esempio il grido d’invocazione della poesiaAggrappati al tuo corpo!. Sentire la propria corporeità è necessario per preservare la sopravvivenza, per gettarsi nel mondo e nello stesso tempo restare ancorati alle proprie radici, che si rivelano, però,prima o poi, sempre fragili e fittizie, perché si sta come su un balcone abitato senza parapetto, precari e illusi dell’invincibilità del nostro corpo mortale. Ma a cosa serve questa massa grassa di parole? E a cosa non serve?Sicuramente serve ad invocare ascolto: Ora parlami per favore è, ad esempio, una preghiera perentoria, poiché tutti i rapporti sociali e familiari sembrano, per la peculiare struttura interna del poeta, essere logorati da insopportabili tensioni interne (la tensione/del nucleo familiare/è incontrollabile). Di certo però la poesia non serve come sfoggio di un’erudizione che Giuseppe Acconcia non ha e non vuole avere: mi mancano troppe letture per essere pronto,/troppi film, troppo teatro./I libri sono lì,/sono pronto per leggerli. Perché è inutile affannarsi/dietro vivi che in un batter d’occhio/sono morti? Probabilmente il sospetto della finitudine, che man mano con l’esperienza del tempo assume sempre più i contorni netti della certezza, genera nel poeta un’angoscia che annichilisce, annientando ogni slancio vitale.Certo è che l’esigenza dello scrivere prescinde per Giuseppe Acconcia dalla dimostrazione e dallo sfoggio sterile di una conoscenza presunta, tutta nozionistica e teorica, perché spesso, quando ci si impegna troppo ad apparire, si ci dimentica di essere, e gli elementi che si pensa di conoscere in realtà non vengono interiorizzati e compresi appieno, ma solo accumulati ossessivamente e sterilmente. In questo splendido discorso metapoetico, Giuseppe Acconcia profetizza che prima o poi arriverà un uomo a cui basterà un rigo (Arriverà un uomo a cui basterà un rigo. Quello non farò fatica a leggerlo.), un rigo per spiegare ogni cosa. E se fosse già accaduto? Penso immediatamentead un unico, breve, apparentemente banale verso di Edoardo Sanguineti:E, lo vedi: è la vita. Niente da aggiungereal di fuori di quel che la vita ci mostra a chi è in grado di vedere e di accettare quel che è, nella sua infinita miseria e nel suo profondo mistero.
Giuseppe Acconcia rivela in più punti della raccolta di essere un genuino poeta flâneur, il viandante che attraversa le città, cogliendone gli aspetti più torbidi, più lerci, più interessanti, e osserva con lo spirito critico acuto che lo contraddistingue per deformazione professionale, gli accadimenti e i personaggi che animano le città che visita. Così in Gente 06Roma è animata in modo inquietante da una festa dove le folle confluiscono nelle piazze più grandifinché non arriva l’alba che spegne tutto. Le ambientazioni ricordano con prepotenza mnestica il tumulto delle città colossali descritte dal poeta flâneur per eccellenza, Dino Campana.
Atmosfere cupe su sfondo cittadino sono presenti anche in Quanto è alto Nero Wolfe, dove i ponti diventano templi in una città quasi trasfigurata da un delitto, un vero e proprio inferno cittadino˗sempre citando Campana˗.Un analogo inferno cittadino è anche descritto neGli assassini di Limerick, poesia ricca di presenze demoniache e colpevoli, mentre in Non ti perdereil poeta raccomanda al lettore di non perdere la via alla festa di Locri, o per i vicoli di Toledo, perché la città è, e lo dico di nuovo attraverso un verso di Dino Campana, una perfida Babele e se ci si perde poi si rischia di non sapere più se si ci è persi nel posto giusto o in quello sbagliato (Quali sono i due persi/e quali i due nel posto giusto?/chi può mai dirlo).
E ancora descrizioni cittadine le troviamo in Le luci di Belgrado, in La metropolitana di Mosca e in Le sponde del fiume, in cui il poeta sdoppia le città del mondo e le dispone su due diverse sponde: in una regna l’anarchia e nell’altra una democrazia, che poi si rivelerà una democrazia fantoccio.Queste due sponde sono dunque opposte e non complementari; sono due possibilità che contemplano in sostanza il contrario di ciò che il loro nome dichiara, che rivelano il gioco del rovescio implicito nell’esistenza umana, e anche, e soprattutto, nella Storia.
La città è protagonista anche della poesia senza titolo (Dicono…), insieme alla donna, personaggio cardine dei versi di Giuseppe Acconcia.Troviamo in questa sede un dialogo fittizio tra un Io e un Loro: esso svela un parallelo tra la città e la donna, non di certo estraneo alla storia della lirica˗basti pensare a Trieste e una donna di Umberto Saba, ad esempio, raccolta poetica in cui la città e la donna sono associate e amate per quello che hanno di proprio e d’inconfondibile˗. Tuttavia, per Giuseppe Acconcia, la città, da buon apolide quale ha dichiarato di essere, e di conseguenza da buon migrante, non può essere una sola: lui è affamato di visioni, di terre nuove, di volti diversi, tutti da possedere, da penetrare con il cuore, con l’anima, con tutti e quattro i sensi. Vagare da una città all’altra, nutrirsi di questo poliamore che si chiama cosmopolitismo, non può essere paragonata come esperienza all’esclusività che l’amore erotico per una donna porta con sé: quando si ama –in modo sano˗ una donna si vuole attingere a quella sola fonte. Ma per la città è diverso: è necessario scoparle tutte.
D’altra parte la donna è una presenza forte nella poesia di Giuseppe Acconcia ed è bene osservare che la sua descrizione procede sempre per vie spiazzanti, connotandosi di negatività, di minaccia occulta. I volti delle donne del poeta sono sfigurati, sfumati, intrisi di morte, febbre gialla, grasso nerastro, esoteriche abilità profetiche, mostruosità di varia natura, autoritarismi. La poesia più esplicativa di tutto questo discorso è Gli assassini di Limerick: volto di donna orribile,/baffi e sorrisi di denti nerastri,/morta o mai nata, assassina/incallita.
La città, la donna, la materia. A questa triade argomentativa associo un’ultima, grande presenza della poesia di Giuseppe Acconcia, che insieme riassume, ingloba e completa le precedenti: il mostruoso. Molti sono i personaggi e le situazioni mostruose che il poeta inserisce nei suoi versi, e il mostro si fa presenza del Perturbante in letteratura di freudiana memoria. L’inconscio del poeta rielabora gli accadimenti, e alla spietata ricerca di una logica che non c’è, partorisce mostruosità deformi con le quali categorizza il reale.
Il mostro più terrificante di tutti, il padre di tutte le altre mostruosità, è sicuramente il micrantropo, ossia il piccolo uomo, che dà titolo e voce ad una significativa poesia della silloge. Il micrantropo è un uomo piccolo, non naturalmente in senso fisico, ma in senso del tutto traslato: è colui che non si interessa di niente, non è capace di prendere una posizione, parla con le parole di altri, dipende con le idee dalla massa, o da chi lo sovrasta; è insomma quello che Lacan definisceun uomo senza inconscio: ossia un soggettoin grado solamente di rispondere ciecamente alle sue pulsioni alimentando così un desiderio egoico che non si apre all’Altro ma ripiega solo su se stesso. PerGiuseppe Acconcia questo non può che essere un mostro, il mostro dei mostri, quello che li racchiude tutti e di tutti gli altri è creatore: dei mostri deformi (ti hanno visto/circondato da mostri deformi), deI mostri della notte, e dei mostri descritti ne La spiaggia delle deformità (due nani dalle teste quadrate […] la vecchia violastra […] cinque donne sfigurate in volto […] donne pelate con/occhi e labbra ricurve […] bambini malfermi/legati agli ombrelloni/da fili di orrore). La descrizione di questa spiaggia terrifica, in particolare, ricorda un racconto di Hoffman, ed è quindi un esempio limite di quello che il Perturbante riesce ad evocare in un’opera letteraria attraverso l’attività inconscia del poeta. È un delirio onirico, una suggestione che tenta di dare una collocazione circoscritta a tutto ciò che del reale è avvertito come incongruo. Elementi onirici perturbanti emergono con prepotenza anche nella lirica Il sogno del cieco, in cui la reversibilità inquietante della Storia e della realtà viene denunciata da questi esaedri che si confondono in triangoli/fluorescenti e intermittenti, e lo sforzo interpretativo (esplicito negli ultimi versi) si risolve da parte del poeta in un nulla di fatto, in un’oscurità totale, in un’intempestanocte(richiamata anche neI mostri della notte, in apertura:in principio l’oscurità trasformava ogni cosa […] in un lampo la notte. Assenza di senso e spiazzanti presente inferiche(corvi, gufi, civette, megere, lupi) sono presagi terribili della legge del rovescio, che tutte le cose del mondo sono costrette ad osservare per natura, con i loro volti molteplici, multi prospettici.
Il poeta questi volti vorrebbe conoscerli tutti, sia perché la conoscenza è l’unica cosa che riesce ad eliminare totalmente ogni residuo di paura e di sospetto, sia per una congenita spinta al sapere, per quella curiositasimplicita e quasi ovvia che muove la professione di Giuseppe Acconcia. Ho fame di nuovo, invoca il poeta, e la sua fame di vivere aderisce a quella Legge del Desiderio che non è iperattivismo/mania di avventura,/ossessione esotica, erotomania, ma semplicemente capire il mondo, studiarlo/[…] scoprendo cose nascoste senza pensare/di traversare l’oceano in un giorno. Tutte attività che richiedono tempo, riflessione, ripiegamento su se stessi, attitudine alla lentezza, alla pazienza, alla consapevolezza e all’ammissione dei limiti umani. Ma da un uomo senza inconscio come quello da cui siamo circondati, da un micrantropo insomma, non ci si può attendere tutto questo. D’altrondese non esiste l’uomo vero/a che serve la psicologia?: se, dunque, non c’è attività inconscia, come potrebbero intervenire sul vuoto la psicologia o la psicoterapia? È con questi versi che Giuseppe Acconcia chiude la sua raccolta: prosegue poi, nell’ultima poesia, affermando con estrema limpidezza e incontrovertibilità che ci vuole autocoscienza. Perché, e qui viene citatoHegel,la ragione è la certezza di essere ogni realtà, ma il micrantropo non ha Ragione, e nemmeno potrebbe rendersi conto, cosa che invece sistematicamente tenta di fare il poeta con i suoi versi, che ogni realtà è materia plasmabile, malleabile, camaleontica, possibile.
Eppure la stanchezza è in agguato, e la solitudine ne aggrava i sintomi: i dolori che sento in tutto il corpo/mi ricordano che ho corso per mille chilometri/in una stanza silenziosa senza muovermi di un passo. È quello che, con altre parole, o meglio, con quello che potremmo definire tranquillamente come un solo verso, quell’unico rigoauspicato dal poeta in precedenza, Pessoa afferma inflessibile: Non si è mai vissuto tanto come quando si è pensato molto. E Giuseppe Acconcia è certamente uno che ha vissuto tanto. E noi con lui, leggendone i versi. Cosa rimane quando il suo libricino si richiude? Anche questa risposta è da ricercare nel testo: posizionati circa nella metà del testo leggiamo, infatti, lapidarie, queste poche parole: dopo aver letto/tutto, sentivo freddo.
In un monastero dell’Italia centrale, Renacavata, realmente esistente, si celebra questa piccola epopea personale situata in un tempo che però sembra del tutto metastorico. In realtà, leggendo, ci accorgiamo da alcuni particolari di trovarci ai nostri tempi, ma la vicenda potrebbe svolgersi nel Medioevo come pure nell’Ottocento: il protagonista, un ventenne senza nome che potrebbe essere ognuno di noi, vive il suo anno di noviziato in questo convento, in un esilio volontario dal mondo che non sappiamo se sfocerà nel perfezionamento del percorso fino ai voti, oppure sarà solo un episodio di un tratto di vita. In questo convento, fondato nel 1531 da Matteo da Bascio, riformatore cappuccino staccatosi dal tronco principale dei minoriti osservanti francescani, vivono la loro vita frati vecchi, che sembrano fatti di legno come gli stalli del refettorio, e frati giovani, ospiti per l’anno di noviziato, frati primaverili, fatti di nuova linfa vitale e accoccolati nel convento come in un ventre materno pronto ad accoglierli.
Il protagonista è fuggito da una vita insana, terribile e senza senso, da un lavoro in fabbrica che gli chiedeva l’esistenza in cambio di una perdita di memoria e di sé che lo perdesse ad ogni speranza. Si rifugia in questo che chiama il “Giardino”, prefigurazione dell’Eden come egli stesso con i suoi compagni sono prefigurazione della “glossolalia finale”, periodo nel quale ognuno parlerà nella sua lingua autentica e sarà capito, così come a sua volta intenderà quella degli altri. Un anticipo escatologico dunque, questo gruppo di ragazzi che vivono di dubbi e di meraviglie, di fede e capacità di vedere oltre, con un “Fervore”, appunto, come dice il titolo di questo libro di Emanule Tonon (Mondadori, 2016), che dovrà bastare loro tutta la vita, che dovrà essere come un’acqua da mettere da parte per la traversata del deserto che sarà la vita vera fuori del convento, arida e piena solo dell’infinita vanità del tutto.
Nel Giardino tutto è rivissuto in una dimensione estatica, che trasfigura ogni cosa o evento che accada, rendendo tutto poesia e fede assoluta, in un anelito ad impossessarsi di dio prima che Egli sparisca dalla loro vita, di assaporarne la presenza prima di perderlo, quando saranno usciti dal tepore di quel noviziato vissuto come un assoluto, un’occasione che mai più avranno di addomesticare il sacro, il loro Dio.
La via di Damasco del protagonista è stata una gita al santuario di Castelmonte, alla Madonna nera, dove un culto quasi misterico, catacombale, lo colpisce e lo chiama verso qualcosa che non sia più la sua fredda vita incatenata. Scopre una religiosità furiosa – come furiosa era la santità di Francesco, che aborriva la pompa mondana e la sapienza dei dotti per arrivare diritto fino a Dio senza mediazione. Trova nel convento i vecchi frati legnosi, arcaici, ignari della loro stessa santità, burberi ed innocenti, sporchi e sprezzanti di ogni concessione al mondo. Sono gli ultimi santi, disperati per questo, ma felici di avere Dio stretto a loro. Anche i giovani novizi vogliono farsi fontanelle di Grazia, sgorgare in un oceano d’amore, ossessionati di non lasciare da solo Cristo nel Getsemani, invocando una Parusia attesa, vivendo il calendario liturgico come tappe del tempo per arrivare ad essa.
Vivono una vita quotidiana fatta di preghiere mattutine, immersi ancora nel sonno non finito, in notti passate a combattere con un pensiero del peccato da cui sono attratti e respinti, umore tra gli umori primaverili della terra che lavorano in silenzio, rugiada tra le rugiade mattutine. Sono figli di contadini, che sono pagani per istinto, proni alla terra, ma loro vogliono vestire i panni di un’altra povertà. Cantano e pregano, tesi verso l’alto per non entrare troppo nell’abisso dell’anima, in cui la notte cela ogni incubo. Vivono ogni cosa con innocente gravità, nella nostalgia del Paradiso perduto, della Gerusalemme celeste: il Carnevale, con le sue vestizioni in cui ci si traveste per gioco compagni femminili, diventa l’occasione per creare l’essere androgino, l’unità dei sessi primigenia; le vipere, a cui dedicano una specie di culto bambino, che al pari degli angeli vegliano benevole su di loro, per morderli ai calcagni mentre giocano a pallone, per donare loro così in anticipo una scorciatoia per il cielo, vipere amiche perché in questo modo risparmierebbero loro il perdersi nella vita esterna, in balia del Signore di questo mondo.
Sono fraticelli ortolani, lavorano la terra inchinandosi ad essa, come poi nel coro si inchinano a Lui nel canto e nella preghiera. Le due Sante – con il nome di Teresa, d’Avila e di Lisieux, sono lette e meditate dal novizio protagonista nel silenzio della sua cella, frequentate in ore impensate, alle 5 del mattino così come la sera rubando tempo al sonno, e così questi giovani vivono una specie di continua trance, un dormiveglia in cui il loro bisogno adolescenziale di riposo vira verso un delirio continuo di allerta mistica, di ardente abbandono al Tutto, di essere solo un pensiero di Dio senza necessità di una coscienza di sé, in un delirante ardore di preghiera.
Francesco, lo “stregone medioevale” e certamente non ancora il Santo con le stimmate, funzionale alla Chiesa regnante, aleggia su tutto, presenza ed esempio, desiderio di tutti loro in un unico sogno collettivo che copre il convento come una coltre onirica. Quel convento, nascosto nel segreto dei boschi, come Francesco nelle grotte, dovrà essere abbandonato dopo l’anno di noviziato, il “ragazzo vestito di sacco” deve uscire dal “Giardino”, uscire dalla porta della sua cella che è Porta Santa, dalla culla segreta, dal suo Sabato del tempo e dal suo universo dove c’è tutto ed ogni cosa, e andare verso lo svelamento, verso il mondo. Oppure decidere di restare. Continuare a lavorare la terra con la stessa devozione che hanno verso Dio, sfinendosi di fatica perché tutto deve farsi pane. Non lasciare che la vita disperda il loro goffo, innocente fervore. Restare protagonisti della narrazione cosmica, immemore e necessaria affinché essa si racconti. Essere l’epifania inconsapevole, nel tempo, di ciò che è fuori del tempo. Essere trottole nelle mani di un Dio bambino. Tracciare, come piccole lumache, un segno di bava nel Giardino sicuro, accordati alla voce di Dio. Farsi vita allo stadio puro, iniziale, che crea il mondo e gli dà forma. Rimanere nel saio come in una nuova pelle. Essere carità e profezia fatte carne, fuoco sacro che arde senza bruciare, come il roveto ardente di Mosè. Restare nel ritmo divino, impresso al mondo all’inizio dei tempi: “Così fu sera, e poi fu mattina”.
Questa stupenda “storia di un’anima” scritta come un diario per concessione di Padre Gianni al protagonista, è un commovente ed intenso percorso mistico degno degli scritti di Teresa di Lisieux. La prosa di Tonon, visionaria e poetica, è in pieno accordo con il contenuto, che diventa esso stesso preghiera. Uno scritto raro nel panorama nel panorama letterario, è una vera “dossologia” narrativa che porta alla meditazione e ci dona una storia “laterale”, insolita, ma necessaria per ripensare ciò che siamo stati come comunità e, forse, non sappiamo più essere.