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Panopticon

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di Michele Mari

panopticon

Io penso che una scienza nuova nascerà un giorno, non una scienza della
vista, ma delle visioni, che spieghi i sogni, le immagini, le apparizioni,
gl’incantesimi della pupilla e della memoria con la stessa precisione con
cui le leggi della riflessione e della rifrazione, e le ultime teorie sulla natura
della luce, rendono conto ormai della magia degli apparecchi naturali
Leonardo Sinisgalli, Furor mathematicus

 

L’idea mi venne a teatro, una ventina di anni fa. Era l’ultima sera in cui il grande Kean prestava il suo corpo e la sua voce ad Amleto, e io ero giunto a Londra quel giorno stesso per vederlo e ascoltarlo. Seduto nel mio palco, in compagnia di una dama di cui per discrezione non farò il nome, assistetti alla rappresentazione come in trance, tanto quell’uomo sapeva soggiogare gli spettatori in virtù del suo straordinario magnetismo. Tuttavia arrivò l’attimo – un attimo destinato a cambiare la mia vita per sempre – in cui fui bruscamente richiamato alla realtà. Fu all’inizio del quinto atto, quando il principe di Danimarca rivolge a Orazio quelle tremende e dolcissime parole sul teschio di Yorick, sulle labbra che avevano pronunciato un’infinità di motti e di scherzi, e che lui da bambino aveva baciato innumerevoli volte, e che erano state proprio lì, su quel punto del teschio, fu in quel precisissimo istante – «Here hung those lips that I have kissed I know not how oft» – che ebbi la netta sensazione che Amleto, voglio dire Kean, stesse guardando dritto verso di me, anzi che il suo sguardo cercasse il mio, intercettandolo e ricacciandolo indietro, come a voler invertire il nostro rapporto, o meglio come se in quel momento, nel palco, io fossi lo spettacolo, e lui, sulla scena, lo spettatore.

Non ci volle molto perché quella sensazione si trasformasse in intuizione, e l’intuizione in progetto. Il resto è noto: in capo a un anno avevo sottoposto i miei disegni ai gabinetti di giustizia di tutte le corti d’Europa, e quattro anni dopo, nell’isolotto di Santo Stefano, presso all’isola di Ventotene, veniva inaugurato l’edificio che tutto il mondo conosce con il nome di Panopticon. Sì, perché l’imponderabile capriccio che regola le cose umane aveva stabilito che le mie idee non venissero raccolte né dalla Francia dei Lumi e della Rivoluzione né dalla mia bella e civile Inghilterra, bensì dalla malfamata dinastia dei Borboni, alla cui signoria sottostavano appunto quelle isole.

Così oggi io, l’Ispettore, siedo al centro, e guardo. Tutt’intorno a me, alla distanza di un raggio di cinquanta metri, gira la circonferenza di un edificio formato da tre ordini di logge; ogni loggia si articola in trentatre celle: gli assassini in basso, i pazzi in mezzo, e i politici in alto, per un totale di novantanove reclusi. Dal mio scranno girevole li tengo tutti sotto controllo, e poiché li spio da una feritoia continua, nessuno di loro può sapere quando io sia di vedetta, né in quale preciso momento il mio sguardo sia orientato verso di lui. Questo incute in ognuno di loro l’idea di essere visto ininterrottamente, ciò che inibendolo e paralizzandolo ne fa un detenuto ideale. Ideale, voglio dire, al punto da trasformarsi nel proprio custode, poiché interiorizzando il mio sguardo ha finito con il sentirsi guardato in continuità da se stesso.

La guardia, il guardiano, è chi guarda: se solo l’uomo avesse un po’ più di coscienza etimologica, quanti inconvenienti si eviterebbero! Anche la cura delle anime si riduce a una questione ottica: chi ne dubitasse, si soffermi a ragionare sul significato della parola episcopo. Di più: non è forse ormai un luogo comune affermare che prevenire è meglio che punire? Ebbene, sfido chiunque a prevenire senza un’adeguata previsione; e prevedere il male non significa contemplarlo al di sotto delle apparenze, cioè, letteralmente, sospettarlo? Uno spirito contraddittorio potrà obiettare che, in relazione a uomini che la società ha definitivamente esiliato dal proprio cospetto, queste affermazioni non hanno senso: ricorderò allora che, a differenza dell’inferno di Dio, l’inferno degli uomini non impedisce al peccatore di reiterare il proprio peccato, sicché è statisticamente probabile che anche in prigione l’assassino ucciderà, il ladro ruberà, il sodomita peccherà contro la natura, quando non vogliano scambiarsi i ruoli e le competenze. Dunque, signori, è tutto molto semplice: i detenuti siano lo spettacolo, il carcere una sinossi, e l’intero corpo di guardia si riduca a una sola persona: un voyeur. Non siamo forse stati educati a sufficienza, quando da bambini venivamo ammoniti a non peccare perché – risento ancora la voce del parroco – «Dio ti vede»? Un occhio inscritto in un triangolo, ecco la religione; un occhio inscritto in un cerchio, ecco la riforma carceraria.

Un complesso sistema di tubazioni a raggera mi porta anche i suoni: basta che io tolga l’opercolo a uno dei novantanove ugelli che si affacciano alla mia specola per sentire le bestemmie e le preghiere di ognuno, il suo pianto, un tamburellare di dita, un colpo di tosse: per questo dopo qualche mese di detenzione i prigionieri più pavidi divengono pressoché muti, mentre i più facinorosi si abbandonano a ogni sorta di violenza verbale con accresciuto spirito di rivalsa. C’è stato un tempo in cui mi divertivo a provocare i primi e a minacciare i secondi, come un direttore d’orchestra che diriga i suoi strumentisti; ora, da tempo, lascio che ognuno segua la propria indole; una subdola sazietà si è da tempo impossessata di me, e l’unico modo per combatterla, o meglio per ritardarla, è stato escogitare sempre nuove migliorie al mio sistema. Per esempio ho fatto ricoprire la mia torretta di specchi (trentatre lastre che la sfaccettano come un diamante), in modo che guardando verso di essa ogni detenuto trovi la propria sagoma in miniatura, edificante memento della propria impotenza e della mia autorità. Ho aggiunto raggere che rendono la pianta dell’edificio simile a un fiore, aggetti che impediscono la vista laterale, gronde e balaustre che riducono la prospettiva al suo fuoco, e quel fuoco è quella piccola sagoma su quella piccola porzione di specchio. Finalmente, ho disposto la copertura dell’arengo, eliminando con la vista del cielo la speranza in un mondo migliore: infatti, come potremmo ancora dirci illuminati, se non instillassimo nella parte peggiore della società l’idea che i conti si regolano qui, su questa terra? Meno i prigionieri vedranno, più in proporzione crescerà il mio sguardo, come quello dell’orbo nel paese dei ciechi, ciò che ancora una volta conferma la nostra più radicata convinzione: non essere l’ottica se non una forma di filosofia (del resto, altrimenti, perché useremmo termini come speculare o riflettere?). Io, l’Ispettore, sono ad un tempo il legislatore e il sapiente, il sacerdote e il ministro; vedendo tutti so tutto, e in quanto onnisciente sono Dio. Il Dio di Santo Stefano, a un tiro di schioppo da Ventotene, nello sparuto arcipelago delle Isole Pontine, regno di sua maestà il Borbone. Panossi, sinossi… pansinossi, sinpanossi… sin-simpa-panossi… vedente ma non evidente, per niente… speculatore catafratto di spicchi di specchi, al centro di una corolla di trentatré petali, e poi trentatré e trentatré, come nella visione del sommo Dante, e io l’uno da cui tutto promana, o il cento che tutto completa, origine e fine, senso ultimo e primo…

Non più visto da tempo immemorabile, non ho più viso: se mi imbattessi in me stesso, non mi riconoscerei. Sono arretrato in me fino a perdere i miei contorni: nemmeno dei miei occhi ho coscienza, perché tutto è rappresentazione mentale, sovranamente libera dai sensi. Loro, i novantanove reietti, sono in me, inscritti nella mia entelechia come larve oniriche, pallide modulazioni dell’essere. Compresenti, tutti, al completo, oh quanto vorrei liberarmene! Rimanere solo con me stesso, almeno un istante, o Signore! O Borbone! O Jeremy Bentham! Aiutatemi! La ruota si è messa a girare, le celle vorticano come in una giostra, giro su me stesso per seguirne il moto e isolarle ma vanno troppo veloci, trascorrono l’una nell’altra in un’unica scia, tre scie sovrapposte come gli anelli di Saturno, e Saturno dunque son io, il pianeta dei melanconici e dei dissennati, il perno, d’inverno… del nostro discontento, l’inverno… o l’inferno, più interno… dove in asse con le celle fuggitive mi volvo, m’avvito su me stesso come una trivella intesa all’abisso, quello che ecco, adesso intuisco, io vedo, lo vedo! Laggiù, dove i miei novantanove compagni mi trascinano con il loro peso, nello sprofondo, dove è tale l’orrore che lo sguardo non regge, ma io sono l’Ispettore, e vedo… e vedo… e vedo. Vedo quello che non avrei mai voluto vedere.

E vedo che quello mi vede, e io sono suo.

Ventotene, 27 giugno 2014
(Il racconto è stato pubblicato in L’isola delle storie, ed. Ultima spiaggia, 2014)

 

 

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Nota al racconto
di Antonella Falco

Il Panopticon è una struttura architettonica, adibita a carcere, ideata dal filosofo e giurista inglese Jeremy Bentham nella seconda metà del XVIII secolo. Tale edificio presenta una pianta circolare nell’ambito della quale sono disposte le celle dei detenuti, munite tutte di due finestre, una rivolta verso l’esterno, per far entrare la luce, e l’altra verso l’interno, in direzione di una torre centrale nella quale siede il sorvegliante. Caratteristica peculiare  di questa tipologia di carcere è che al recluso non è mai dato di sapere quando e se sia sottoposto a sorveglianza, avendo il custode la potenziale facoltà di osservare tutti nello stesso momento. Proprio dall’impossibilità, per il detenuto, di stabilire quando e se sia effettivamente osservato e dalla consapevolezza della potenziale onniscienza visiva del guardiano deriverebbe secondo Bentham una sorta di interiorizzazione della disciplina: il mantenimento dell’ordine, l’ottemperanza delle regole e la docilità di comportamento diverrebbero per il recluso un atto pressoché automatico. L’Idea del Panopticon risale al 1791 (o meglio al 1791 risale la pubblicazione di Panopticon o la casa d’ispezione, scritto però nel 1786) e trova una delle sue prime applicazioni pratiche nel 1795, allorché il governo borbonico ordina la costruzione del carcere di Santo Stefano, sull’omonimo isolotto dell’arcipelago Pontino. Nel corso  degli anni questa struttura – l’unica in Italia ad ispirarsi compiutamente ai principi architettonici dettati da Bentham – ha ospitato non solo detenuti comuni ma anche dissidenti politici, accogliendo tanto i rivoluzionari dei moti del 1799 e del 1848 (tra questi Silvio Spaventa e Luigi Settembrini) quanto gli oppositori di Mussolini durante il ventennio fascista (nota è la detenzione di Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi e del futuro Presidente della Repubblica Sandro Pertini). Terminato il secondo conflitto mondiale il carcere torna ad accogliere criminali comuni per poi essere definitivamente dismesso nel 1965.

Contigua a quella di Santo Stefano è l’isola di Ventotene che ormai da quattro anni ospita il festival letterario Gita al faro: un drappello di scrittori e scrittrici approda su quello stretto lembo di terra che negli anni Quaranta vide nascere il primo manifesto di un’Europa libera e unita e vi trascorre una settimana, fra presentazioni di libri, laboratori di scrittura per i piccoli lettori e passeggiate alla scoperta del patrimonio paesaggistico, artistico culturale e storico dell’isola. Il festival si conclude con due serate di reading durante le quali gli scrittori leggono al pubblico i racconti inediti che hanno scritto durante il loro soggiorno, racconti ispirati all’isola e dall’isola.

Nel giugno del 2014 Michele Mari è tra gli autori partecipanti alla terza edizione del festival e il suo racconto, Panopticon,  nasce appunto dalle suggestioni di una gita al carcere di Santo Stefano compiuta durante quella settimana.

In Panopticon Mari descrive in modo accurato la conformazione architettonica del “carcere veditutto”, sottolineando come lo sguardo potenzialmente ininterrotto del sorvegliante trasformi ciascun prigioniero in un «detenuto ideale»: «Ideale, voglio dire, al punto da trasformarsi nel proprio custode, poiché interiorizzando il mio sguardo ha finito con il sentirsi guardato in continuità da se stesso», così si esprime l’Ispettore, incline ad abbandonarsi a sottili riflessioni sulla natura del proprio ruolo e a discettare di questioni etimologiche: «La guardia, il guardiano, è chi guarda: se solo l’uomo avesse un po’ più di coscienza etimologica, quanti inconvenienti si eviterebbero! Anche la cura delle anime si riduce a una questione di ottica: chi ne dubitasse, si soffermi a ragionare sul significato della parola episcopo».

Un Ispettore compiaciuto del proprio ruolo e consapevole delle implicazioni voyeuristiche che esso comporta – «i detenuti siano lo spettacolo, il carcere una sinossi, e l’intero corpo di guardia si riduca a una sola persona: un voyeur» – e non immune alla tentazione di cedere al gioco sadico del gatto col topo, padroneggiando abilmente gli strumenti che la nuova tipologia di carcere mette a disposizione, come ad esempio il rudimentale telefono, costituito da «un complesso sistema di tubazioni a raggera» in grado di far arrivare all’orecchio del sorvegliante i pianti o le imprecazioni dei prigionieri, ma anche di farlo comunicare con loro, rendendo, attraverso provocazioni e minacce, ancora più incombente e onnipervasiva la propria presenza.

È interessante notare come lo stesso Bentham, non pago di aver progettato questo ampio apparato carcerario, abbia proposto a più riprese e con zelo a dir poco sospetto, di esserne anche il primo sorvegliante. Altro aspetto da non sottovalutare è che la torretta centrale, oltre ad essere la sede del custode, è aperta anche ad altri eventuali visitatori, non solo parenti di detenuti ma anche semplici curiosi. La rete voyeuristica ideata da Bentham è dunque molto più larga di quanto si possa immaginare in un primo momento e nella mente del filosofo utilitarista inglese può trovare applicazioni anche al di fuori del sistema carcerario. Infatti il panopticon si presta a divenire modello ideale di altre strutture atte a tenere sotto controllo un gran numero di persone entro uno spazio delimitato, quali ad esempio, ospizi, ospedali, manicomi, orfanotrofi e fabbriche.

Mediante il suo panopticon Bentham ha concepito una nuova forma di dominio dell’uomo sull’uomo, raffinata e moderna, che Michel Foucault, nel suo saggio Sorvegliare e punire, individua come paradigma del potere nell’ambito della società contemporanea, un potere che non incombe più dall’alto ma pervade il tessuto sociale dall’interno ramificandosi in esso e creando una fitta rete di correlazioni.

Ma come modello di un potere invisibile il panopticon oltre a far proseliti nel futuro – si pensi al Grande Fratello orwelliano –  presenta delle attinenze anche con un mito dell’antichità, ossia il noto episodio dell’Anello di Gige che Platone nel secondo libro della Repubblica mette in bocca al personaggio di Glaucone. Secondo questo mito Gige, pastore al servizio del re di Lidia Candaule, trova in una voragine apertasi in seguito a un terremoto, un gigantesco cavallo di bronzo contenente  il cadavere di un guerriero con al dito un bellissimo e prezioso anello. Gige se ne impadronisce e indossandolo scopre casualmente che girando il castone verso l’interno della mano l’anello conferisce a chi lo porta la facoltà di diventare invisibile, effetto che scompare semplicemente rigirando il castone. È proprio usando il potere dell’anello che Gige riesce a sedurre la regina e, con il suo aiuto, a uccidere Candaule, prendendone il posto. Nel dialogo platonico, Glaucone menziona il mito di Gige per dimostrare che nessun uomo, sebbene virtuoso, può resistere alla tentazione di compiere il male, se ha la garanzia di non essere visto dagli altri. Dunque la condotta morale non sarebbe che una costruzione della società, un vincolo che l’essere umano rispetta per il timore di incorrere in sanzioni e castighi. Ma se questi scompaiono, perché nessuno può vedere l’azione riprovevole, allora anche la morale viene meno. Secondo Glaucone, se questo anello venisse dato a due uomini, uno virtuoso e l’altro empio, questi, non più condizionati dall’obbligo di dover rendere conto delle proprie azioni, si comporterebbero allo stesso modo, perseguendo il proprio utile a spregio delle leggi della comunità.

A ben vedere la riforma carceraria di Bentham non fa altro che prendere tale principio e mutarlo di prospettiva: trovarsi incessantemente sotto lo sguardo invisibile di un sorvegliante è un deterrente che non solo costringe a non trasgredire le leggi ma addirittura cancella il pensiero stesso di volerlo fare. Concetto che Mari esprime nel suo racconto in una perfetta sintesi iconografica: «Non siamo forse stati educati a sufficienza, quando da bambini venivamo ammoniti a non peccare perché – risento ancora la voce del parroco – “Dio ti vede”? Un occhio inscritto in un triangolo, ecco la religione; un occhio inscritto in un cerchio, ecco la riforma carceraria».

Se si osserva dall’alto il carcere di Santo Stefano, ci si accorge che la sua forma a ferro di cavallo ne fa un panopticon perfetto e che il panopticon altro non è che un anfiteatro: «la circonferenza di un edificio formato da tre ordini di logge» può infatti idealmente tradursi in una serie di palchi che si affacciano tutti sulla stessa scena, ma nella dialettica infinita del vedere e dell’essere visti il gioco ottico si inverte e la rappresentazione del castigo e del controllo si sposta all’interno delle singole celle. Ogni cella, un piccolo teatro. Ogni detenuto, un attore che recita il proprio personale dramma. Non è un caso che Mari inizi il suo racconto collocando proprio in un teatro l’istante preciso in cui nella mente di Bentham sia balenata l’intuizione folgorante del panopticon: «l’idea mi venne a teatro, una ventina d’anni fa. […] Ebbi la netta sensazione che Amleto, voglio dire Kean, stesse guardando dritto verso di me, anzi che il suo sguardo cercasse il mio, intercettandolo e ricacciandolo indietro, come a voler invertire il nostro rapporto, o meglio come se in quel momento, nel palco, io fossi lo spettacolo, e lui, sulla scena, lo spettatore». Ma nel racconto di Mari quella che va in scena non è soltanto la punizione dei condannati ma anche, e soprattutto, l’ossessione del carceriere.

L’inconscio piacere perverso, a metà strada tra voyeurismo e sadismo, che deve aver ispirato Bentham e che Mari trasfonde nel protagonista del suo racconto si fa infatti accanimento e trascina il sorvegliante in una spirale di follia allucinata e fantasmatica fino a tradursi in una vera e propria discesa agli inferi.

Il finale di questo racconto – uno dei più efficaci che Mari abbia scritto – è di grande potenza immaginifica e mostra il sorvegliante soccombere al proprio stesso potere, sopraffatto dalla medesima ossessione di sopraffare gli altri spiandoli. Nel vorticoso delirio che ne consegue, la scena che si apre davanti agli occhi dell’Ispettore – e per conseguenza del lettore – è un possente affresco dantesco: le celle divengono gironi infernali rapiti in un turbinio incessante e sempre più rapido, in una ridda di immagini che si fanno via via più indistinte e «trascorrono l’una nell’altra in un’unica scia, tre scie sovrapposte come gli anelli di Saturno». È un’implacabile discesa all’inferno, una catabasi senza possibilità di ritorno. Che cosa attenda l’Ispettore laggiù, nell’abisso, Mari non lo dice espressamente ma lo lascia intuire. Eppure la vera domanda è cosa si cela dietro l’essere luciferino che attende il sorvegliante nello sprofondo? Non è forse la sua stessa follia, contemplata nell’atto preciso di compiersi? «L’istante in cui la mente delirante piomba per sempre nel buio», scrive Mari in un’altra sua opera, raccontando un’altra storia, che è pur sempre la storia di un faccia a faccia con l’Altro che abita in noi, il lato folle, oscuro, mostruoso, ossessivo.

Se nella visione di Foucault il panopticon di Bentham è inteso come modello del potere nella società contemporanea, nella visione di Mari è metafora del potere magnetico e perverso che può esercitare un’idea quando questa finisca per radicarsi in modo ossessivo dentro la mente di una persona, fino a pervadere la vita intera e sostituirsi ad essa. In questo racconto, infatti, il dominatore viene dominato dalla sua idea dominante. Essa, divenuta ossessione, innesca un processo di vampirizzazione dell’esistenza che svuotata di tutto si riduce a null’altro che alla reiterazione dell’Idea, libera ormai di contemplare se stessa senza più distrazioni: «Non più visto da tempo immemorabile, non ho più viso: se mi imbattessi in me stesso, non mi riconoscerei. Sono arretrato in me fino a perdere i miei contorni: nemmeno dei miei occhi ho coscienza, perché tutto è rappresentazione mentale, sovranamente libera dai sensi».

L’utile, la tecnica, e il capitalismo: alcune note su quello che scrive Severino

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di Domenico Talia

vitruvian-machine

In questo tempo esiste una sorta di ossessione verso l’«utile». Un’attenzione quasi molesta verso questo concetto che si è allontanato sempre più dal significato originale legato alle effettive necessità che le persone hanno per le cose utili. La definizione di ciò che è utile spesso non è sufficientemente ragionata. È guidata dal mondo della produzione e non dalle concrete esigenze della natura umana e questi due estremi sembra si allontanino sempre di più col passare del tempo e con l’affermarsi di logiche economiche sempre più globali e inafferrabili.

sporgersi e intrecciare

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di Giusi Drago
reti_pescatori_camogli

che cos’è un libro?

tante parole per un attimo sovrane
su diversi volumi di silenzio, in lotta
con l’interrogativo se da dire ci sia qualcosa

di vero e di vivo, senza troppo amore per l’ordine
del mondo, nel libro è scritto: vietato
il deposito di rifiuti ingombranti

***

che il mondo agisca in aderenza
al dato, invece tutto sporge avanza
si allunga, anche le parole: come esche sporgono
due tulipani rossi dalla terra, in punta di trapano si allunga
lo scoglio dentro l’acqua, avamposto violento e irregolare,
si tende nel vuoto un’edera pelosa, si allarga a macchia
un’erbaccia di tundra, le calle dipinte da julio paz
spingono foglie verso la donna nuda
con gli occhi tagliati via dalla cornice

***

finita la stagione della pesca, che la rete si disfi nell’acqua,
niente esche artificiali o dannose, solo reti
lasciate a degradarsi in mare

anche l’incontro e la separazione sono corde
intrecciate: non c’è incontro
se i due che si trovano vicini non sono amici,
non c’è separazione quando sono lontani

***

è la vita, è una rete umida
di benedizioni e rimproveri
che ci buttano addosso

nascosti sotto fino a che
la rete aderisce e soffoca

né mia né tua: niente di personale
nel tono di parole che si fanno giustizia
da sole, nelle lenti a specchio, nelle radici secche
del collettivo, nella monotonia delle lamiere
dove pioggia sporca batte

non c’è separazione non c’è incontro
se non si fa amicizia con occhi sessi e parole

L’esperienza di «Nazione Indiana» nella storia del web letterario italiano

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Le parole e le cose rilancia un lungo ed esaustivo articolo/saggio di Andrea Lombardi, uscito sul numero 19 dell’«Ulisse» dal titolo Forme e effetti della scrittura elettronica. Nei commenti si sta sviluppando un’interessantissima discussione.

L’esperienza di «Nazione Indiana» nella storia del web letterario italiano

Ma «Nazione Indiana» risulta l’esperienza cruciale del web letterario italiano anche per altri motivi. Non solo il blog degli ‘indiani’ è stato capace di costituirsi come fulcro del dibattito online e di costruire intorno ad esso una comunità, ma nel percorso che va dalla sua fondazione alla scissione del 2005 si sono manifestate tutte le peculiarità, positive e negative, tipiche dello spazio letterario del web.

 
 

Bracciate #4 – Gianluca Garrapa

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Il quarto racconto della rubrica  Bracciate è «Questo è il mondo», testo ingannevole e ipnotico di Gianluca Garrapa, nato nel 1975, in provincia di Lecce; conduttore radiofonico; comico; counselor all’ascolto ad orientamento psicoanalitico; collabora per Satisfiction e rivista Verde; sue cose su Gammm, Compostx, Nazione Indiana, Critica Impura, Il fatto quotidiano, Il sole24ore.

 

Questo è il mondo

di Gianluca Garrapa

Schillaci

 

  1. I tralicci segnano partiture elettriche, un organismo informe in via di definizione e di putrefazione. L’organismo informe è nella testa d’un uomo che pedala lungo l’argine destro del fiume. La pista ciclabile è la base minore d’un terrapieno idealmente trapezoidale, la strada provinciale a est, le campagne e i casolari, lappate dal fiume, a ovest.

Quanto all’uomo, la percezione d’essere organismo informe lo sfiora in questo momento: fermo, studia l’ansa del fiume persa a destra, nell’interiorità della campagna post-industriale: contempla il monocromatico prato, vasti orizzonti interrotti di gomiti, riallineati da una svolta opposta su un altro amplio orizzonte di strade. L’uomo spinge il pedale…

 

*hanno sistemato i cadaveri fuori. rifiuti di uomini morti. sillabe colorate, un tempo sguainanti sfumature, ora perse in una confusa regressione cromatica. materassi. matematica verticale del cencio. frasi rotte attorno a vestiti. erano vestiti. stracciati buchi ora. sono buchi. l’umano che non c’è. c’era. ci stava dentro. ora solo colori. colori, ma sempre buchi. mancanze. rifiuti cancerogeni travestiti di terra e fiori.*

 

  1. Il bottone nero del gilet, sembra vestito alla francese, secondo un gusto, però, che è più quello d’un francese che si figuri d’essere italiano. Non si può dire, per questo, che scimmiotti i francesi e, d’altra parte, il viso tradisce discendenze inglesi ma ciò non basta a farne un inglese e l’osservatore scrupoloso non tarderebbe a scoprire che razza di sempliciotto provinciale celi il suo sembrare raffinato straniero, e nemmeno questo renderebbe giustizia all’indefinibilità del suo modo d’apparire, eppure, tanto vistosa alla fine d’un’accurata indagine, quanto inosservabile a un’occhiata superficiale, da quest’uomo trapela un’intelligenza vivace, un lampeggiamento di spirito sovente equivocabile per pazzia, una pazzia piacevole però, che sembrerebbe pura follia se ci si fermasse a considerare la semplicità del portamento sgraziato, fuggevole, evanescente, incomunicabile. Il peggio di costui, a un più attento vaglio interiore, si trasforma nel meglio e il meglio, procedendo oltre, diventa il peggio del peggio, e il peggio del peggio, non si sa come, lascia il posto ad altro ed eccoti il meglio del meglio, cosicché, a voler scandagliare la psiche demiurgica di deliri&fobie, il profondo interiore inguainato nelle difese razionali della normalità, non si caverebbe un ragno dal buco se non cortocircuitando: dapprima un ragno che poi diventa un buco che poi diviene a sua volta un ragno. Un Hitler col cuore di Gandhi nel cui fondo di cuore c’è un Al Capone il cui recondito angolo cardiaco ospita una Madre Teresa di Calcutta che a sua volta è un Hitler e insomma non comprendi se le sue azioni si producano in seno a un’idea di bene o di male, non adegua la sua bontà o la sua cattiveria secondo l’interlocutore che ha di fronte: non è buono con i buoni, malvagio coi malvagi, né buono coi malvagi o malvagio coi buoni: costui agisce come gli pare, non per comodità, capriccio, utilità, o cosa, agisce e basta.

Il ragazzo lo ascolta seduto per terra, rannicchiate le gambe al petto per potervi poggiare il capo sulle ginocchia, le parole dell’uomo insonorizzano l’ambiente attorno all’anima del giovane: ora è natura. Il fuoco borbotta una viva partecipazione, sfaccetta ombre intorno, lingue di fotoni, barbagli stroboscopici farfuglianti, trasformisti, peduncoli brillanti, glitter di clorofilla, luna, fiume, schiocchi di carta stagnola a opera di ben nutriti ratti, il tronco, osserva il tronco e…

 

  1. Il ragazzo si sorprende a percepire, suo malgrado, un’immagine interiore del suo vissuto sovrapporsi al racconto dell’uomo…

Il volto dell’uomo, l’intero aspetto psicofisico, pure il mondo intorno, è cangiante, sembiante prima l’albero, poi il tronco, la corteccia, la forma, il colore, un ovale, un volto, un mare minimo di segni, un simbolo, un colore puro, poi nero, poi il marrone, poi il rosso, poi sangue, la morte, poi un’altra cosa, poi rosa, poi carne e uomo e poi la pelle d’un serpente, il seno della donna, poi la mamma, poi si confonde al cielo, poi terra, poi tutto, poi nulla e l’uomo, in giri di frasi più lunghi, in tempi più torniti, in sospensioni di luce verbale più dilatata, guida, visibilmente sciamanico, nel trauma del reale, dietro l’irreale, nell’infrareale: il ragazzo non s’accorge che l’albero è fermo, poi sinuoso, poi deciso, poi marezzato, poi sciolto in scaglie d’oro&sangue globulare, è il suo stesso esserci a divenire altro e a non ostacolare il guizzo folle dentro la persuasione.

L’uomo persuade.

Dissuade le forme, il contesto muta, muta pure il ragazzo nella deformazione del mondo, non s’accorge che l’albero è lì, muto, immobile, incurante a ogni presa di posizione onirica dell’uomo e l’uomo, eccolo lì, a scoppiettare informe: il nome dell’oggetto è tolto e rimesso: il ragazzo si figura casa e l’uomo parla magicamente e l’albero è una casa, la casa fa dell’uomo un padre e del ragazzo un figlio, poi il ragazzo è un ribelle.

Fuggire e disobbedire, e allora l’albero è una nave di primizie su un’isola lontana e l’uomo un allettante gran Lucignolo senza preveggenza asinina, senza colpa, né vendetta, né peccato, poi il ragazzo si pente in cuor suo e allora l’uomo diventa bonario e il ragazzo un prodigo figliol_ritornante e l’albero qualcos’altro per assecondare il ragazzo, lusingare, accompagnare, finire gli atti mentali e realizzarli, adeguarlo al…

Ecco, per farla breve: l’uomo e il tutto_intorno diventano ciò che il ragazzo desidera o teme suo malgrado; e come riesce l’uomo a trasformare il mondo adeguandolo alla mente del ragazzo? E come non si capacita il ragazzo che dietro le cose c’è uno specchio moltiplicato a esplodere le dimensioni? A confondere? L’uomo vede, è lo sguardo stesso del ragazzo, ecco: è un capacissimo medium, un parto continuo di visioni, indifferenti porzioni immaginarie di reale…

 

  1. Poi il momento giusto: il ragazzo scivola con naturalezza tra verità e falsità saltando da un luogo comune all’altro, il suo corpo prima coccolato, poi strappato.

I suoi amici hanno visto lo stesso uomo in altre miliardi di forme: era un padre, poi una madre, poi un fratello, poi un nonno, una donna.

Ecco il mondo: il buon padre è un criminale pedofilo ma pure un angelo custode, poi una cattivissima madre picchia_brucia_mordicchia le braccia minuscolo del cucciolo umano,

ma è una dolcissima madonna pietosa, certo sarebbe morta, infatti morì, per mano del figlio ormai d’ossa rotte e unghie tolte vie di netto, ecco: l’uomo ha trasformato tutto, non c’è nulla di vero e di falso, nulla di nulla.

Impossibile definire quello che sembra non accadere e avviene.

Il ragazzo scopre l’inganno.

L’albero è un albero indipendente dalla mente dell’uomo, perché le cose dementi e sprovviste d’anima e sogni non puoi manipolarle, l’albero sta lì, immobile, zitto, e il nodo della corda cricchia, corsoio lieve, e ondeggia.

Sì, l’albero non mente, l’impostore galleggia, però.

Gli altri ragazzi s’oppongono, vogliono farsi abbindolare, staccare l’uomo dal pendolo ipnotico del nodo scorsoio, piangerlo, pregarlo, aspettare un altro_costui che di nuovo trasformi per loro il posto che desiderano,

omologare alberi e pianeti: il ragazzo che sa, è un bailamme d’organi gettato in pasto ai cani.

 

  1. Non c’è significante e il significato indispone dispotico.

Chi ha ragione? L’uomo impostore? Il ragazzo era o non era impostore?

Non so se i ragazzi_assassini e tumulanti l’uomo, non sappiamo se quei ragazzi, adesso: stanno ingannando, deviando il significato del termine impostore e ora impostore significhi l’opposto di ciò che volevo dire poco fa… fatto sta che qualcuno usa i vostri occhi: potreste ammazzare allegramente vostra madre senza saperlo, tagliare i testicoli a vostro fratello senza volerlo, c’è il nulla in voi e nessuna via d’entrata: siete fuori e il corpo va, agisce e voi… aspettate semplicemente la morte vostra o altrui.

Viaggio in Bosnia (1/2)

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di Giovanni Accardo

Una domenica pomeriggio a Sarajevo

Il centro storico di Sarajevo, la nostra prima meta, non presenta tantissimi segni dei quasi quattro anni di assedio da parte dei serbi, anche la biblioteca nazionale incendiata nell’agosto del 1992 è stata completamente restaurata. Ogni tanto la facciata di un palazzo mostra i fori dei proiettili, mentre lungo i marciapiedi ci s’imbatte nei segni di una granata ricoperti di cera rossa: le chiamano le «rose di Sarajevo». Al ponte Latino una targa ricorda il punto in cui il 28 giugno 1914 il nazionalista serbo Gavrilo Princip attentò alla vita dell’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono dell’Impero austroungarico, causando lo scoppio della Prima guerra mondiale. Ecco, è più facile trovare targhe che ricordano i civili uccisi dai tanti cecchini che affollavano Sarajevo, attirati da tutte le parti del mondo. Negli anni della guerra c’era un’agenzia nelle Marche che organizzava week-end di guerra: partivi il venerdì, andavi in Bosnia a sparare, la domenica sera ritornavi a casa e il lunedì mattina andavi al lavoro, contento di avere partecipato ad una guerra e magari ammazzato qualcuno senza sapere il perché. L’atmosfera domenicale della città è rilassata, gli abitanti passeggiano o siedono nei caffè, l’architettura e le numerose moschee ricordano la lunga presenza turca, ma la vera natura di Sarajevo è multietnica e multireligiosa, come testimoniano le sinagoghe e la cattedrale cristiana. Sul tram che dopo cena ci riporta in albergo, osservo le ragazze che tornano a casa, non sono molto diverse dalle nostre studentesse, hanno gli stessi sorrisi e lo stesso abbigliamento; mi domando quanti morti ci sono stati nelle loro famiglie e cosa ha significato la guerra per loro. Noi ancora non ci siamo veramente entrati, abbiamo girato per Sarajevo come dei turisti in una qualunque capitale europea: potevamo essere a Istanbul o in un quartiere multietnico di Vienna.

 

Sarajevo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sarajevo tra guerra e pace

In periferia, dove ci spostiamo il giorno dopo, diversi palazzi appaiono ancora bucati dalle pallottole che i serbi sparavano quotidianamente dalle colline circostanti la città. Andiamo a visitare il tunnel che venne scavato clandestinamente sotto la pista dell’aeroporto su suggerimento di due iraniani andati a combattere al fianco dei musulmani; esso permetteva di far arrivare i rifornimenti attraverso l’unico punto della città non controllato dai serbi, di fronte al monte Igman. Se Sarajevo ha potuto resistere per così tanti giorni, è stato grazie al cibo, alle armi e alle truppe che passavano attraverso il tunnel, spesso in condizioni difficilissime, visto che era alto al massimo 160 centimetri e si allagava frequentemente, perciò spesso bisognava chiuderlo. Qui incontriamo Abid Jašar, dalla cui cantina partiva il tunnel, e vediamo le foto della sua complessa costruzione. Abid racconta agli studenti che gli hanno proposto più volte di entrare in politica, ma lui i politici non vuole neppure vederli, credo nelle persone, dice, ma non nei politici che parlano e fanno affari, senza preoccuparsi della gente comune. Poco prima di pranzo raggiungiamo il museo della Resistenza, dove una mostra fotografica documenta i lunghi mesi di assedio; a farci da guida è Elvir Mandra, scappato durante la guerra proprio attraverso il tunnel e arrivato, dopo un viaggio estremamente rischioso e senza un soldo in tasca, a Bolzano, dove venne aiutato dalla Caritas e dove per tre anni ha lavorato come operaio alla Finstral. Elvir, ritornato a vivere in patria, ci dice che il suo desiderio, come quello della gran parte dei suoi concittadini, è di vivere in pace e costruire un futuro per i propri figli. “Nessuno di noi pensava alla guerra, eravamo così immersi nella bellezza della vita che neppure ci preoccupavamo di capire cosa stava succedendo. Nessuno dei miei amici conosceva il nome di un politico, e i miei amici erano musulmani, cattolici, serbi, rom, eravamo fratelli, giocavamo a calcio e bevevamo acqua dalla stessa bottiglia, dividevamo il panino e qualche volta anche i vestiti. Se qualcuno ci avesse detto che sarebbe scoppiata una guerra e che Sarajevo sarebbe stata bombardata, nessuno di noi ci avrebbe creduto. Ora, invece, siamo senza soldi e senza lavoro, io sopravvivo facendo la guida, grazie alle offerte dei turisti cerco di crescere mio figlio, spero che diventi un bravo violinista.” Durante la guerra Elvir è stato ferito allo stomaco da un cecchino, mentre portava in ospedale il fratello ferito alle gambe. Sui cecchini ci racconta una storia terribile di cui è stato testimone: una mamma con un neonato in braccio stava per attraversare la strada, un cecchino ha mirato al neonato, facendogli saltare la testa con una tale precisione che la mamma quasi non si era accorta che il figlio era stato colpito; la mamma ha continuato a camminare, mentre la testa rotolava in terra. I ragazzi sono talmente inorriditi che non riescono neppure a fare domande.

Nel primo pomeriggio ci spostiamo nella parte collinare della città, qui ha sede l’associazione «L’educazione costruisce la Bosnia Erzegovina», fondata dal generale Jovan Divjak con lo scopo di aiutare i tanti orfani che la guerra ha causato. Il generale, che è stato membro della guardia personale di Tito e ha guidato la difesa di Sarajevo, ci racconta la sua storia; gli studenti si mostrano curiosi e affascinati dalla sua cordialità, lo tempestano di domande, vogliono capire come ha fatto la città a resistere tutti quei giorni senza cibo, acqua, riscaldamento e con armi di fortuna. I sarajevesi, dice il generale, non volevano permettere che la loro città venisse rasa al suolo dai serbi, e un ruolo fondamentale nella resistenza l’ha avuta la cultura. Durante l’assedio, infatti, si sono continuati a svolgere, in luoghi di fortuna e particolarmente protetti, concerti, spettacoli teatrali, mostre, rassegne cinematografiche per dare una parvenza di normalità, per far sentire che la città era ancora viva e credeva nella sua salvezza. Nonostante ciò i morti sono stati oltre 11 mila, di cui almeno mille bambini. Filippo gli chiede come mai, pur essendo serbo (Divjak è nato a Belgrado) ha difeso Sarajevo. “Che cosa avrei dovuto fare?”, risponde. “Vivevo qui da 27 anni e mi sentivo pienamente parte di questa gente. Credo che l’identità sia qualcosa che si costruisce giorno per giorno, vivendo in un posto e costruendo legami affettivi. Non la definisce la città in cui sei nato, magari per caso.” Stefania gli domanda se ha mai ucciso un uomo, Divjak si mette a ridere, mentre io temevo che si irritasse. “Non ho mai sparato neppure ad un animale”, confessa, “nell’esercito jugoslavo non ero molto amato, perché alle armi ho sempre preferito la musica, l’arte, la letteratura. Quello che amo più di tutto”, dice col suo tono affabile e a tratti scherzoso, “è la bellezza.” Alla domanda di Francesco, se non avesse avuto sentore dell’aria che tirava, risponde con sincerità: “Ricordo che un giorno, in occasione di una cerimonia ufficiale in Kosovo, il nostro presidente di allora, Milosevic, parlando di unità nazionale, disse che qualora fosse servito, saremmo ricorsi anche alle armi. Mi ricordo che pensai: ma cosa sta dicendo? Una guerra fra noi? Non può essere! Non avrei mai immaginato che il mio paese potesse vivere quello che poi ha vissuto, e ancora oggi me ne faccio una colpa.” Divjak spera che a costruire un futuro di convivenza sia la scuola, attraverso dei programmi condivisi tra le diverse etnie, anche se al momento esse sono rigidamente separate, l’unico esempio di scuole miste sono quelle cattoliche, ad esempio quelle dei francescani.

 

Studenti e insegnanti col generale Divjak

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Manipolare la storia

Sul dramma della scuole separate e della mancanza di una storia condivisa concentra gran parte della sua conversazione con gli studenti la psichiatra di Tuzla Irfanka Pasagic, presidentessa dell’associazione «Tuzlanska Amica» che si occupa delle donne musulmane vittime degli stupri etnici e degli orfani che ne sono nati; è una delle più competenti psicoterapeute nella cura del Post-Traumatic Stress Disorder. Ancora una volta gli studenti domandano come sia potuta scoppiare una guerra così cruenta. La Pasagic accusa duramente il comportamento della stampa prima e durante la guerra, responsabile di una vera e propria disinformazione che ha fomentato l’odio e le violenze, attraverso articoli palesemente falsi e di parte che hanno stimolato l’irrazionalità delle persone. Le sue parole lasciano trasparire un forte pessimismo, soprattutto a causa delle scuole separate addirittura in dodici diversi distretti e con programmi completamente diversi. Il tema delle scuole etnicamente separate spinge gli studenti bolzanini a portare il discorso sulla nostra realtà, si domandano se in Alto Adige la convivenza è realmente raggiunta o se è possibile che un giorno possa esplodere un conflitto armato. Gli insegnanti li rassicurano. Io invece penso a quei partiti di lingua tedesca che lottano per l’autodeterminazione e la separazione dell’Alto Adige dall’Italia, ma non dico nulla. Penso ad Alexander Langer che per molti anni è stato giudicato un traditore del gruppo tedesco e perfino escluso dalla corsa a sindaco di Bolzano, perché si era rifiutato di dichiarare la propria appartenenza linguistica, ipocrita eufemismo per non chiamarla appartenenza etnica. Thomas chiede alla Pasagic se il tempo aiuterà a sistemare le cose. “Il tempo da solo non fa nulla”, risponde quasi seccata. Racconta poi di come serbi e musulmani abbiano iniziato a parlarsi dopo anni di silenzio. “All’inizio non avevano neppure il coraggio di guardarsi negli occhi”, dice. “Non è facile capire chi sta dall’altra parte, provare a vedere le cose dalla prospettiva dei carnefici. Non è facile ma bisogna lavorare affinché si possa parlarne. Noi ci siamo riusciti e abbiamo imparato i meccanismi che fanno parte di questo lavoro di riconciliazione, perciò adesso, quando osserviamo gruppi di altre nazioni farlo, ci viene da sorridere nel vedere che tutti si comportano nella stessa maniera: hanno le stesse reazioni emotive, dicono le stesse cose che dicevamo noi, fanno le stesse facce e le stesse espressioni. Poi, lentamente le cose cambiano, ci si riavvicina e si può ricominciare. Ma questo lavoro non lo fa lo scorrere del tempo, lo facciamo noi, col nostro impegno e la nostra consapevolezza. In tanti in Bosnia non credevano che sarebbe potuta accadere l’immane tragedia che poi si è consumata, la guerra fratricida che ha dissolto l’ex Jugoslavia”, continua, “ma l’uso manipolatorio della storia e della memoria, soprattutto da parte dei serbi, ha fatto sì che la tragedia covasse a lungo e infiammasse gli animi.”

 

Con Irfanka Pasagic

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ancora oggi non mancano esempi di manipolazione, come la grande croce nera eretta dai serbi nella zona di Kravica, lungo la strada che porta a Srebrenica, dove il 7 gennaio 1993 un loro battaglione venne colpito dall’esercito bosniaco. Nell’attacco morirono 44 serbi, ma nella lapide commemorativa non c’è alcuna traccia dell’episodio: né la data, né i nomi dei morti. C’è scritto, però, che dal 1992 al 1995 le vittime serbe sono state 3267 e che tra il 1941 e il 1945 sono stati uccisi 6469 serbi; facendo la somma si ottiene la cifra di 9736 vittime, molte di più degli oltre 8000 musulmani uccisi a Srebrenica nel luglio del 1995. Dunque, sommando episodi diversi della storia, si fa credere al viandante che va a Srebrenica, magari per visitare il memoriale del genocidio, che le vittime serbe siano state più numerose di quelle musulmane.

monumento a Kravica

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Lo scorso mese di marzo, Giovanni Accardo, insegnante di italiano e storia al Liceo “Pascoli” di Bolzano, in compagnia delle colleghe Valentina Mignolli e Maristella Partipilo, ha accompagnato in Bosnia Erzegovina gli studenti della classe quinta D/E. A far loro da guida Andrea Rizza della Fondazione Alexander Langer Stiftung che ha curato anche la preparazione dei ragazzi. Questo suo reportage è apparso, in forma ridotta, sul quotidiano “Alto Adige” del 02.04.2016.

Le prime tre immagini, in ordine di apparizione:
Sarajevo
Il gen. Divjak con gli studenti e gli insegnanti
Gli studenti con Irfanka Pasagic

 

I miei pezzi

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DSC02397 (2)

di Andrea Inglese

(Queste prose sono tratte dal volume EX.IT – Materiali fuori contesto, a cura di Marco Giovenale, Mariangela Guatteri, Giulio Marzaioli, Michele Zaffarano, La Colornese – Tielleci, 2013. Le considero una sorta di ramificazione (di quarta parte fantasma) di La grande anitra. Le immagini (mie) sono state inserite in occasione della pubblicazione in rete.)

 

Dopo la nascita è importante migliorare, questo me l’hanno detto senza equivoci. È importante migliorare, con le proprie forze, per la valutazione continua. L’ascoltare, ad esempio, deve essere correttamente migliorato alla perfezione.

Divenire pietra

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PIETRE-VIVEdi Antonio Russo de Vivo

È tutto finzione,
non Ci credete.

Un tempo conoscevo solo stanchezze da temere1dice Peter Handke, UN TEMPO-CONOSCEVO-SOLO-STANCHEZZE DA TEMERE, e indugiamo inebetiti su queste parole – le prime! – che iniziano una confessione/elogio della ‘stanchezza’, il Saggio sulla stanchezza (1989), e riscopriamo, nel fluire lento delle parole, che al di là delle diverse stanchezze ce n’è una, la Stanchezza, cui è lecito tendere con tutta la forza del disimpegno, un momento di pace e di comunione con il mondo:

il mondo, in silenzio, assolutamente senza parole, si racconta da sé […]; tutto il pacifico accadere era al contempo già racconto, e questo, a differenza delle azioni militari e delle guerre, che avevano bisogno di un cantore o di un cronista, nei miei occhi stanchi si strutturava da sé a epos, per di più – come mi parve lampante – a epos ideale: le immagini del mondo fugace inerivano di scatto, una via l’altra, e prendevano forma.2

Siamo da poco svegli, la vita ci si apre lenta e noi sentiamo ancora il peso rassicurante dell’immortalità, poiché il sonno è morte e da quella morte, ancora una volta, siamo tornati vivi, e tutto intorno si dipanano gli elementi, e noi godiamo ancora un po’, come stretti alle caviglie, tentati a tornare lì da dove siamo venuti, e invochiamo le nostre forze, ci risolleviamo, scacciamo i fumi della notte e ci sforziamo di riflettere, inebetiti, sulle parole di Handke affrontate al principio di tutto ciò che da quel momento accade.

Handke si volge indietro, SOLO, e poi ripercorre la sua vita e alla fine capisce. Lo sapevamo già, NOI, che ci sono stanchezze e c’è Stanchezza, l’abbiamo capito prima, quando eravamo giovani e aggiornati e lucidi e sapevamo parlare di tutto con nervosa intelligenza e con chiarezza e senza far tanti retorici preamboli come facciamo ora3, tante volte, allora, incontrammo il Mondo tutto e lo abbracciammo e ne ridemmo e ne piangemmo felici ma di quella felicità che non conosce causa, e così restammo sospesi, più e più volte, in estasi, perché la giovinezza ce lo permetteva, perché non urgeva volgere lo sguardo troppo avanti, oltre la punta dei piedi di mister Burroughs, perché NOI eravamo TUTTO, TUTTO, TUTTO.

Conoscete la malinconia? È quando non vi bastate più, e sentite di avere una ferita aperta da qualche parte, chissà dove, che non procura nessuna fitta, nessun bruciore, eppure sapete che c’è e sapete che resterà lì per sempre perché voi, da soli, non vi bastate, vi manca qualcosa, VI MANCA, VI MANCA, e sostituite, e vi affannate, e ricercate, ma NULLA.

Noi abbiamo perso la Stanchezza e siamo divenuti esseri malinconici, d’un tratto, senza preavviso alcuno. Non c’è speranza a tutto ciò, NON C’È SPERANZA, abbiamo capito come ci gira intorno il mondo, non volevamo farlo, è capitato, capire è una cosa che capita, la comprensione ti si scaglia addosso e tu non sai che farci, ti illudi un attimo che ciò è giusto e bello e importante, e poi scopri che nulla è peggio di capire, fai i conti con ciò che hai capito, di continuo. La maturità, quando viene, ha i connotati diabolici di Silvio, l’antagonista de La pistolettata di Puškin, colui che interruppe un duello quando sopraggiunse il suo turno, irritato dall’indifferenza alla morte dell’avversario, per poi riprenderlo dopo anni, al momento opportuno, quando l’avversario aveva abbastanza vissuto da temere, finalmente, di perdere tutto. Da giovani, al cospetto della morte, si mangiano le ciliegie e sdegnosi si sputano i nòccioli, eppure la maturità è lì, a pochi passi/pochi anni, e vi dice, irritata, “pare che adesso non abbiate il capo a morire” […] “fate colazione; non voglio disturbarvi”4. Noi non l’aspettavamo, essa è arrivata. Noi abbiamo avuto paura, essa ci ha risparmiati, purché, una volta giunta, essa sia per sempre impressa nella nostra testa. Non c’è speranza, non siamo più giovani, anzi una speranza c’è: è la demenza. Ma anche la demenza, ahinoi, giunge senza preavviso, e quando c’è non ci è più utile, non la riconosciamo, non ci riconosciamo, NON SIAMO PIÙ NOI.

Noi, da quando l’abbiamo conosciuta, aneliamo sempre alla Stanchezza, e lo sappiamo che il problema è tutto lì, nell’averla conosciuta, perché una volta conosciuta non può esserci più, eppure, sempre, la desideriamo, e il nostro desiderio, inevitabilmente, è una perpetua nostalgia. Noi lo ammettiamo, vogliamo essere divinità, ma non divinità tutta, bensì divinità del settimo giorno, “il giorno del non-fare, un giorno in cui sarebbe possibile l’utilizzo dell’inutilizzabile5 come dice bene Byung-Chul Han e aggiunge:

Handke abbozza una religione immanente della stanchezza. La “stanchezza fondamentale” annulla l’isolamento egologico e fonda una comunità che non ha bisogno di parentele. In essa si risveglia un particolare ritmo che conduce a un’armonia, a una prossimità, a una vicinanza priva di ogni vincolo famigliare, funzionale.6

Questa società della Stanchezza noi vorremmo essere invano, NOI, ebbri di comunità, ma fra voi qualcuno ci ha scoperti, e ci ha detto, una volta per tutte, che “da sempre, quando manca qualsiasi forma narrativa, subentrano le fantasie più sfrenate a riempire il vuoto”7. Siamo in tempi di denarrazione e Douglas Coupland lo sa:

Qualcuno sostiene che noi, in quanto animali, ci differenziamo da tutti gli altri animali per un particolare, e cioè che abbiamo bisogno di rendere la nostra vita racconto, narrazione, ed è quando sentiamo svanire il nostro racconto di vita che ci sentiamo sperduti e diventiamo pericolosi, perdiamo il controllo e ci ritroviamo soggetti alle forze del caso. È questo il processo a causa del quale si perde il senso della propria vita come racconto: è la «denarrazione».8

La causa di questi tempi è la “supersaturazione informativa”9, un processo in continua espansione di cui noi, vittime passive, siamo sempre più protagonisti in massa. Tutti dicono qualcosa, TUTTI, e tutto può arrivare a chiunque. Noi non vogliamo, NOI non vi vogliamo, non CI vogliamo, noi siamo stanchi, STANCHI, e ogni giorno aneliamo alla Stanchezza e ogni giorno non la troviamo e ogni giorno moriamo un po’ di più.

Noi, alla fine, vogliamo divenire pietra, e non vi appaia bizzarro, ciò, quanto quell’uomo che vuole rinascere animale e non sa scegliere e ne nomina qualcuno o perché vola, o perché è forte, o perché è bellissimo. Noi non vogliamo nulla di tutto questo, siamo stanchi, STANCHI, e l’ultima cosa che vogliamo, l’unica, è divenire pietra, perché la pietra ci restituisce a una storia lunga e oscura, anteriore all’uomo, una storia che non lo riguarda per nulla e da cui noi siamo nati alla fine di un percorso tra innumerevoli germogli altrettanto effimeri e vani. Non ci spiace di ritrovarci soli, senza enciclopedia, né documenti né codice di fronte a un enigma probabilmente insignificante, la cui soluzione, in ogni caso, non potrebbe interessare un organismo sensibile, sessuato, mortale.10

Questo, tutto QUESTO, è il nostro testamento. Non è il primo, ogni giorno ne scriviamo uno, ogni giorno, tutti i giorni, da quando siamo morti per la prima volta, un giorno, imprevedibile, imprevisto, cui siamo sopravvissuti; ne scriveremo altri, ogni giorno, tutti i giorni, NOI, prima di dormire, prima di morire.

NOI, però, pur essendo mortali, siamo immortali, e questo, soprattutto, è il paradosso che ci scuote, ci angoscia, ci irretisce. NOI siamo umani, NOI siamo divini. NOI. “IO è un altro”.11 “Se esisto, non sono un altro”.12 IO. Dieci. Triangolo. Addio.

 

1 Handke P., Saggio sulla stanchezza (1989), trad. it. di Emilio Picco, Garzanti, Milano, 1991, p. 7.

2 Ivi, pp. 38-9.

3 Kerouac J., I sotterranei (1958), trad. it. di Anonimo, Feltrinelli, Milano, 1999, p. 29: «Ero una volta giovane e aggiornato e lucido e sapevo parlare di tutto e senza far tanti retorici preamboli come faccio ora; […].»

4 Puškin A. S. La pistolettata, trad. it. di Leone Ginzburg e Alfredo Polledro, in Opere, a cura di Eridano Bazzarelli e Giovanna Spendel, Mondadori, Milano, 1990, p. 699.

5 Byung-Chun Han, La società della stanchezza (2010), trad. it. di Federica Buongiorno, Nottetempo, Roma, 2012, p. 73.

6 Ivi, pp. 73-4.

7 Coupland D., Taccuino di Brentwood (1994), in Memoria Polaroid (1996), trad. it. di Marco Pensante, Marco Tropea, Milano, 1997, p. 188.

8 Ivi, p. 183.

9 Ivi, p. 184.

10 Caillois R., Tre lezioni delle tenebre (1978), a cura di Tomaso Cavallo, Zona, Lavagna (GE), p. 76: «La pietra mi restituisce a una storia lunga e oscura, anteriore all’uomo, una storia che non lo riguarda per nulla e da cui io sono nato alla fine di un percorso tra innumerevoli germogli altrettanto effimeri e vani. Sono sconcertato da questo cippo stemmato. Esso mi fa conoscere meglio la mia condizione di essere frazionato e caduco, ma d’una origine così lontana e preparato da un numero così sterminato di casi. Non mi spiace di ritrovarmi solo, senza enciclopedia, né documenti né codice di fronte a un enigma probabilmente insignificante, la cui soluzione, in ogni caso, non potrebbe interessare un organismo sensibile, sessuato, mortale (mi sorprende improvvisa l’idea che ogni essere sessuato, vale a dire destinato alla riproduzione, è necessariamente mortale)».

11 Rimbaud A., Rimbaud a Georges Izambard – 13 maggio 1871, in Opere, a cura di Diana Grange Fiori, Mondadori, Milano, 1997 (I edizione, 1975), p. 450.

12 Lautréamont I. D. comte de, I canti di Maldoror (1869), introduzione, traduzione e note di Lanfranco Binni, V, 3, p. 307.

Overbooking: Luigi Sardiello

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IlPcheNconosco

Un Tango à trois temps

di

Francesco Forlani

«Che cos’è?» chiese Carmen. Alonso si avvicinò ancora. Si piegò verso la pianta e involontariamente sfiorò Carmen. Quando lei lo guardò in viso, le parve che quel piegarsi e quello sfiorarla portassero con sé il bagaglio di dolore di Alonso, un dolore che all’improvviso lo aveva trafitto. «È un cappero» le disse Alonso. «Un cappero? Non l’ho mai visto». «Eccolo qui». «Ma non è una pianta argentina» insistè Carmen. Alonso non replicò. Si spostò verso il cappero, carezzando i filamenti della pianta come per cullare il proprio dolore e rigirando il piccolo frutto tra le dita come si rigira una lama affilata. Carmen attese per un po’ la risposta, poi le fu sufficiente leggerla nella muta scrittura degli occhi di lui. Si rialzarono insieme. Lui disse: «È una pianta bellissima. È forte. Può crescere dappertutto. Ha solo bisogno di sole». E finalmente tornò a sorriderle.

Comincia così Il punto che non conosco, il romanzo di Luigi Sardiello, con una scena limpida, cristallina, dove al di là dei personaggi messi in campo e perfino dello stesso campo, l’Argentina, in cui per lo più la storia si svolge, vero protagonista è “le je ne sais quoi”, il non so che, alla base di ogni autentica Enquête, la non so cosa che si sta cercando e su cui ci s’imbatte d’improvviso ; come un prologo, la scena descritta ci sta dicendo, che senza immaginazione non sarà possibile cogliere la verità delle cose, che in un mondo dominato dalla incerta geometria solo l’esattezza della fantasia potrà permettere di arrivare fino in fondo. Con una straordinaria delicatezza Luigi Sardiello, dalle prime battute porge la mano della protagonista, Carmen, al lettore, come a stabilire un patto senza il quale arrivare fino alla fine della storia potrebbe non valere neppure la pena.  

Fantasia. Per ben diciannove volte ritroviamo questa parola, perfino in uno dei titoli dei capitoli. Immediatamente pensiamo al suo significato più ricorrente, ovvero di cose che non stanno né in cielo né in terra, e si considerano Frutto di fantasia, cose del tutto prive di fondamento. Però c’è un’altro senso possibile da dare a una parola così complessa ed è quella della fantasticheria, della rêverie, del sogno a occhi aperti, sola percezione in grado di far vedere le cose sotto una luce diversa, deviando dai percorsi segnati, rinunciando ai piani stabiliti, accedendo così, come per un’esperienza mistica al senso del proprio viaggio. Il viaggio di Carmen\Gezia è un Tango à trois temps. Certo, il tango generalmente è a due o quattro tempi, ma nel caso di Carmen saranno proprio tre i tempi in cui i suoi passi risuoneranno nello spazio mentale dell’unico uomo, Valter Ossuni, a cui tenterà di ridare vita. I tre tempi, parti, sono: la fuga, la ferita, progetto. Nella prima parte solo la frivolezza dell’attrazione tra un uomo e una donna scardina un pericoloso dispositivo piazzato in una società di comunicazione, nel suo comparto più sensibile, quello delle risorse umane, con lo scopo di scatenare una guerra tra impiegati. Solo il timido amore appena confessato. filtrato da un telefono, mette colore alla grigia esistenza di funzionari presi nel vivo di quella trasformazione del privato nel pubblico, del partito azienza nell’azienda partito, rivoluzione che negli anni novanta ha la sua capitale, Milano, e il suo leader. Un colpo di scena chiude l’avventura di Valter in società e un altrettanto colpo di scena la storia con Gezia.

Cambia lo spazio, il tempo, e nel secondo e terzo tempo, altri personaggi , e altri registri stilistici, raccolgono il testimone con un continuo gioco di specchi in cui le storie si inseguono, tra verità e menzogna, storie grandi, più dei protagonisti, con una costante, sempre lei la fantasia, e un fiore imprendibile, quello del cappero. E chi potrà cogliere quel fiore se non gli italiani d’Argentina?

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Scrive lo scrittore Valerio Evangelisti: Luigi Sardiello è uno stilista. Non una parola fuori posto, un aggettivo ridondante, una frase che non sia tersa e necessaria. Ma l’eleganza non esaurisce i meriti di questo romanzo, che non somiglia a nessun altro. Si passa tra diverse situazioni geografiche e temporali guidati dalle psicologie – credibili, solide, raffinate – che sovrastano i paesaggi e guidano nei loro labirinti. E c’è profondità persino nella sconcertante ultima parte, onirico-fantascientifica, dove la critica sociale sembra prevalere. In realtà prevale la maestria del narratore, che ha creato una storia inclassificabile. Dal mio punto di vista, il più grande dei complimenti.

Martedì 31 maggio alle ore 19, presenteremo il libro di Luigi Sardiello alla Libreria Trebisonda  in via S. Anselmo 22, Torino. Interveniamo da lettori, amici e compagni della Nazionale Scrittori: Emiliano Audisio, Francesco Forlani, Fabio Geda, Carlo Grande, Enrico Remmert, Paolo Sollier.

Sciami

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di Mario De Santis

 

…ci sono cose che restano per anni sotto il peso
di un crollo senza data. Sono un cumulo di forza
perché la casa ha vinto lasciando che la distruzione
compisse il nuovo mondo di macerie, un equilibrio
da sortilegio. Vince chi fa più vuoto alla violenza
la casa crolla e il muro non separa più dal cielo
e questo deposito di stelle
spente, ora è gloria
dimenticata che abita la terra
ma non è inganno, è solo cosa. 

***

(la notte dentro)

È nel muro di calce viva la telecamera che sgrana
volti e luci in cui rifletto e vivo, in cui sconfino:
è un panorama bianco di feste all’improvviso, di bar, di frenesia
con la città d’estate che si circonda di incendi periferici.
Le conseguenze mai capite di una vita che si allontana,
come una fuga senza inseguitori, sta nella pace dei ritratti
conservati negli archivi di controllo: i visi sconosciuti,
malcerti nello sguardo, pallidi e senza febbre
lì durano per essere scordati, lì solo siamo noi.
Ed è su questo muro illuminato che mi fermo,
stretto dal suo calore postumo, la sera.
Divento anch’io di fumo e d’ombra moltiplicata,
un taglio di fotogrammi. Tutte queste vene scollegate,
come un museo di elenchi telefonici, la folla unita
in una mappa casuale che non trattiene un solo nome:
i sogni pure sono lasciati al vago ormai
e se ascolto il mio, so che è l’assurdo mormorìo
che viene dal fondo della via, dalla porta appena schiusa
dell’uscita d’emergenza.

(Christian Boltanski, “Les abonnés du téléphone”, 2000, installazione)

 

***

1.
per Adriano Sofri
12 (?) ottobre 1992 -2012

Per oggi aloni di ammazzati, rimasti ognuno
con la distanza scritta dentro gli occhi
disegnano misero l’oriente delle foreste nude
e i solchi ovunque in aria, a terra tra le fosse, terra
ormai superflua vista in cielo, solo sfondo tra le mani
dei colonnelli d’aeronautica; oggi soltanto piove fuoco
per oggi l’urto di pressione provocherà maltempo,
mentre la terra si ritrae
costretta nel mirino. Di là c’è la fontana
ma il pericolo sarà la grandine di piombo, il fumo delle case.
C’è un uomo con la tanica e solo la sua corsa.
Il bollettino è incerto, povero Bernacca,
ecco le tue correnti dei Balcani, nel gelo che si nega
sull’Europa, mio caro colonnello.
Domani che sarà? La febbre che si scioglie via dal corpo,
scossa di piuma soffiata, sciame di gocce immobili, domani
che sarà domani, occhio di belva, che sarà,
questa mia vita che sarà? Nella provvista d’acqua
si annuncia solo un passo, mille formiche pazze
e solo una promessa di bersaglio, che sarà.

2.

Come nulla si vede guardando nei tombini
aperti, così cade la vista verso il vuoto,
fuori-campo; sulla cartina Sarajevo è già l’oriente
muto, ma l’emergenza ha invece un suono,
del mondo-shock e inciso obliquo ha tutto
il farfallìo di piccoli bracieri, la fede in nulla
che sia lontano dalla strada e a questo brivido
si arrende; e nella piazza vuota al cielo
lo sguardo asciutto, lontano dai suoi liquidi, dal corpo,
dalle geminazioni e già-marcite
provviste quotidiane, il tempo è solo orario
e va da un’alba all’altra, uguale.
Guardo luci a intervalli e penso al viaggio
quello migliore, quello di  sola andata
ma dalla fontana stavolta si ritorna.

***

( Milano piazza Gramsci )

La distanza tra me e una coppia di cinesi
è la minima innocenza che adesso chiede il mondo.
Loro che hanno fame di abitare
io invece mi perdo nella sosta, la pausa della noia.
Loro chiudono in corpo un amore senza accordi
ma con passi di precisione studiano le mappe
invece io sono immondo e illusionista
dimentico dell’afasia, dei giorni che mi aspetto;
loro al telefono cercando  un posto dove stare;
ed io, che sarò quello che perdo il mio, sto via dalla mia vista.

______________

Poesie tratte da Sciami (Landolfi, 2015)

Edward Hopper e il cinema

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In occasione della mostra di Palazzo Fava dedicata a Edward Hopper, una rassegna che esplora le molte ricche suggestioni e influenze del grande artista americano sul cinema. Da Siodmak a Hitchcock a David Lynch passando per il ‘calco’ animato di Gustav Deutsch. È soprattutto questione di luce, di impalpabili atmosfere, di cromatismi accesi, di paesaggi americani che dal grande schermo riverberano o palesemente rimandano ai dipinti hopperiani.

 

Programmazione

1-8 giugno 2016

Gli spazi del sonno – Robert Desnos

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di Ornella Tajani

Les espaces du sommeil, così come gli altri tre componimenti di Robert Desnos già tradotti qui, è tratto dall’antologia Corps et biens, pubblicata nel 1930 (oggi Gallimard, 1968). A questa traduzione ho avuto occasione di lavorare anche nel mese di marzo 2016, durante il primo ViceVersa italiano-francese, un laboratorio bilingue per traduttori editoriali promosso dalla Casa dei Traduttori di Looren, che è parte del più ampio programma del Laboratorio italiano.

Gli spazi del sonno

Nella notte ci sono naturalmente le sette meraviglie del mondo e il grandioso e il tragico e l’incanto.
Le foreste si scontrano confusamente con creature leggendarie nascoste tra le fronde.
Ci sei tu.
Nella notte c’è il passo del viandante, quello dell’assassino e quello della ronda, la luce del lampione e la lanterna dello straccivendolo.
Ci sei tu.
Nella notte passano i treni e le navi e il miraggio dei paesi dove è giorno. Gli ultimi afflati del crepuscolo e i primi brividi dell’alba.
Ci sei tu.
Un pianoforte, uno scoppio di voce.
Una porta sbatte. Un pendolo.
E non soltanto gli esseri e le cose e i rumori materiali.
Ma ancora io a inseguirmi o superarmi senza posa.
Ci sei tu l’immolata, che io aspetto.
A volte insolite figure nascono nell’attimo del sonno e poi svaniscono.
Quando io chiudo gli occhi, fosforescenti fioriture appaiono e appassiscono e rinascono come carnosi fuochi d’artificio.
Paesi sconosciuti che attraverso accompagnato da creature.
Ci sei tu forse, spia bella e discreta.
E l’anima palpabile della distesa.
E i profumi del cielo e delle stelle e il canto del gallo di due millenni fa e il grido del pavone dentro parchi in fiamme e i baci.
Mani si stringono sinistre in una luce livida e ruote stridono su strade pietrificanti.
Ci sei tu forse che io non conosco, che conosco invece.
Ma che, presente nei miei sogni, s’ostina a farsi indovinare e non si svela.
Tu resti inafferrabile nella realtà e nel sogno.
Tu mi appartieni per mia volontà di possederti dentro l’illusione ma solo accosti il viso tuo al mio con i miei occhi chiusi al sogno e alla realtà.
Tu a dispetto di una facile retorica in cui l’onda s’infrange sulla riva, la cornacchia vola sulle fabbriche in rovina, il legno scricchiola e marcisce sotto il sole a picco.
Tu sei alla base dei miei sogni e scuoti la mia mente colma di metamorfosi e mi lasci il tuo guanto quando ti bacio la mano.
Nella notte ci sono le stelle e il movimento tenebroso del mare, dei fiumi, le foreste, le città, le piante e dei polmoni di milioni di creature.
Nella notte ci sono le meraviglie del mondo.
Nella notte non ci sono angeli custodi ma c’è il sonno.
Nella notte ci sei tu.
Nel giorno anche.

Il testo in francese è reperibile in rete. Ne propongo qui una lettura di Marc Sayous, che può essere ascoltata sulle musiche dell’Ensemble European Music Project ispirate allo stesso componimento, cliccando contemporaneamente sul player audio e sul video.
 

Les Espaces Du Sommeil
Ensemble European Music Project


 

 

Da Radice d’ombra – Poesie scelte

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di

Roberta Ioli

(ed. Italic & Pequod, Ancona, 2016, pref. di Fabio Pusterla)

Mamma Boté

per Gregorio
Lei non sa rispondere
e guarda la fragile stella che ora attraversa la casa.
Come ti saresti chiamato
e chi eri, prima di essere un pensiero
di battermi nel sangue e nel respiro?
Mi chiedi dove stavi
prima di calciare regole e orari
prima di soffrire per chi non ti vede
o ti abbandona, prima di nascondere
il timido sonno dentro il libro della magia
e del bene possibile sempre.
Strana creatura, conosci
il volo degli uccelli
e più di noi sai leggere segni
per la gioia di chi ami.
Ma ti muovi in un regno inaccessibile
e ancora non so se lì vuoi essere raggiunto
o senza alleati ti appresti alla lotta
contro gli dei della solitudine antica,
tu che nel nome porti il risveglio
e la paziente preghiera.

* * *

Quale geografia

Nelle strade che da sempre calpesto
non trovo altro che fiori educati
a giardini gentili, sorrisi solleciti al nulla
tra i relitti della storia.
Mi pare ancora
di non avere mutato geografia
osato nuove mappe, inversioni,
frazioni di passi su cui ricalcare l’impronta.
Mi chiedo se sia questo
il destino che ho scelto – osservare dai bordi –
o non sia il caso ad avermi dimenticato
tra gli scarti del tempo
in un porto qualunque dove rara
è la tempesta, se non del cuore.
Nella cella della conservazione, nel silenzio
che ho scelto obbediente,
talvolta accelera rovina e rinascita
l’onda purissima di antiche ragioni:
il mio singolo stare nel mondo.

* * *

Non possiamo accarezzare

L’uomo è legno storto
io il legno storto
a cui appendo fragile
parvenza di corpo
le membra sono stecchi con tosco
ogni albero un occhio, ogni pena
una stilla di linfa e sangue.
Non è solo la malattia del tempo
è la peste che abbiamo unto
è la ruggine dei nostri mali pensieri
che mutila la selva solitaria.
Le nostre mani sono rami affilati –
perduta la tenerezza del palmo
le piccole rughe del dorso –
immobili nel bosco dei trafitti
siamo i violenti che ogni giorno
scacciano luce e amore
per un’antica colpa mai commessa.

* * *


Oltre le colonne

Mentre il buio è al suo principio,
nella terra boreale l’alba
schiarisce la notte
i galli puntellano il giorno
nell’aia azzurra, lungamente
la mula ragliando il suo roco lamento.
Tu dormi
tra l’angustia del cortile
e la solenne croce del sud.
Ha fatto ombra al tuo viaggio
la montagna del Purgatorio
nessuna ferita dai grandi serpenti marini
nessuna offesa dalla terra
senza uomini e senza ritorno.
Attraversi gli abissi con legno leggero.
E ancora mi chiedo
se solo a te si celino i mostri di Finisterre
o se semplicemente
con il pudore di un timido pifferaio
tu li abbia mutati in onde.

* * *

Come pietra senza voce

1.

In alto è la stanza in cui ti vedo
finestre grandi accolgono il cielo
e due camini accesi.
Sono il cuore e l’invenzione
i tuoi due fuochi, vivi
anche nel niente di parole.
Ritrovo i tappeti srotolati
il caffè caldo sul vassoio
e mi chiedo come puoi
muoverti con tanta cura tra gli oggetti
ora che non vedi.
Per un attimo
attraverso quest’ordine sacro
tu parli. Ma l’immobile presenza delle cose
ha il suono freddo dei cristalli
e subito si fa definitiva
sigillata nel corpo di una pietra.

2.

Come figlia mi hai curata
per tutto il tempo che ho vissuto nella casa
e anche dopo, quando una casa l’avevo
ma lo ignoravo.
Ti sono madre nell’ultima cena
tu passero che la tempesta caccia dal nido
il becco spalancato verso il cielo, gli occhi velati
senza memoria, neppure un pigolio
strozzato dalla gola.
Ma non è fame
questa tua muta preghiera
è grido di altro smisurato
che la bocca non può dire.

3.

Te ne sei andata senza peso
con voce piccola
per sottrazione di corpo.
Sul cuscino l’orma dei sogni:
così poco resta
di questo antico amore.
La morte si misura nel tempo
il dolore non da subito conosce, solo dopo,
quando si fa lago senz’onda
e nell’impossibile ritorno
allontana la prima riva.

* * *

Trilogia dell’acqua

per Gianluca

1.

Il sonno non si spezza
non si interrompe, si ammala invece di vertigini
nel martello della veglia.
Lì vedo il tuo volto
mi parla la tua lingua senza suono.
Sai sillabare in quella curva della notte
i tranelli di marinaio
gli apologhi di mitico viaggiatore
ma non puoi fermarti sulla soglia
né danzare, pallido contro il buio del tempo
dove altri sorridono forse delle tue acrobazie.

2.

Mi chiedo dove sei
ora che vorrei seguire il contorno delle tue dita
le grandi mani di indiano
dove sei nell’istante in cui mi affido al buio
e non so più se ti nascondi.
Finisterre mi avevi battezzato
tanto ero lontana e a picco sul precipizio
in cui natura d’acqua si impenna
e mai riposa. Lì forse tremò Arianna
davanti all’orca nera degli abissi.
Tu più irraggiungibile di me
ti sei nascosto sulla schiuma dell’onda
nell’insonnia del sale
e tra i gabbiani ti semini come un frutto.
Sei un solco, una terra ora
di fertile sonno, con le mani
aperte come due conchiglie
per il riposo del mare.

3.

Si fa così oggi
si sta come Giuseppe il fante
che accoccola gli stracci
nell’acqua dell’Isonzo. Ogni giorno rinnoviamo
quel battesimo di caduta, fino a quando
curvi come un fuscello sotto vento
ci ritroviamo guerrieri in disarmo.
Oggi non crediamo di meritare il cielo
ma il pascolo muto delle pene
la sincope del cuore nella sua colpa d’origine:
non si traccia resistenza
se il moto è senza posa,
senza felice compimento –
un destino d’uccello senza volo.

Angela Carter, la maga buona

0
Angela Carter, Figlie sagge, Fazi Editore, 2016
Angela Carter, Figlie sagge, Fazi Editore, 2016

di Salman Rushdie

La prima volta che incontrai Angela Carter fu in occasione di una cena in onore dello scrittore cileno Jose Donoso, a casa di Liz Calder, che all’epoca era l’editrice di noi tutti. Il mio primo romanzo sarebbe uscito di lì a poco, mentre Angela aveva appena pubblicato il suo libro più oscuro La passione della nuova Eva. Io ero un suo grande fan. Donoso arrivò agghindato come un Buffalo Bill ispanico, con tanto di pizzetto brizzolato, giubbetto con le frange e stivali da cowboy, e continuava, come potei osservare, a trattare Angela in modo terribilmente condiscendente. Stupito dalla sua apparente ignoranza dell’opera della scrittrice, gli feci una lunga ramanzina informandolo che la donna con cui stava parlando era la più brillante autrice inglese. Angela rimase positivamente impressionata. Alla fine della serata ci piacevamo a vicenda. Fu la prima grande scrittrice che incontrai in vita mia, e un’amica fedele, sincera, una fonte continua d’ispirazione. 

A un bivio interpretativo

1

 di Fabrizio Miliucci

Dei cerchi

 

A volte compaiono dei cerchi nell’aria, delle dolci sfere.
Hanno una superficie lucida, cangiante, specchiante. Sono le bolle di sapone, scoppiano.

Se invece fanno scoppiare l’incauto osservatore, essi sono gli alieni, sono provvisti di spietate armi laser.

Ci si trova a un bivio interpretativo.

(M. Giovenale, da Il paziente crede di essere)

 

* * *

 

 

Già dall’esergo Il paziente crede di essere (Gorilla Sapiens 2016) indirizza il lettore sul crinale della decostruzione. Anche lo statuto narrativo di questi quarantasette pezzi organizzati in tre sezioni (Sequenza, Differenze, Ultima) è un’approssimazione da cui bisogna ricavare l’idea di una forma nuova o rinnovata attraverso cui l’autore prova a penetrare una realtà che rimane sullo sfondo di una serie di frammenti; si tratta dunque di racconti, ma anche forme intermedie, prose (in prosa), inconvenienti, dissipazioni dopo.

La forma di partenza è quella narrativa, addirittura di fiction, ma il modo è quello di una logorazione che entra in conflitto con le trame del narrato (trama, p. 19; de finesse, p. 51) e del reale (Progressio 1, p. 57) cercando l’elemento di disturbo che rompa o disarticoli il sacro vincolo su cui ogni trama si fonda, ovvero il cosiddetto patto narrativo o patto con il lettore. Giovenale gioca con la sospensione dell’incredulità e prova a portarla in una zona paradossale in cui prendere coscienza e contrario della nostra grande credulità di fruitori di storie. Come è scritto nella conclusione di uno dei pezzi più incisivi (Dei cerchi, p. 97) spesso, di fronte a questi brevi racconti, “ci si trova a un bivio interpretativo”.

Giovenale conosce e interpreta l’orrore della sceneggiatura diffusa che si impone anche attraverso i nuovi mezzi di comunicazione e le peggiori filiazioni seriali di un intrattenimento artistico fatto di personaggi che lui parodia, ad es. descrivendo la mattina tipo di un personaggio da horror (Il primo, p. 61) che ha come priorità quella di indossare le pantofole appena sveglio perché il pavimento è cosparso di ossa, poi si deve arrampicare su una montagna di cadaveri per prendere il caffè in cucina, e infine, prima di andare al lavoro, si trova davanti a un rubinetto che inevitabilmente, matematicamente, farà scorrere sangue.

Ma si diminuirebbe di molto il valore de Il paziente se ci si fermasse solo alla polemica metanarrativa, perché essa è simbolo o sintomo di una critica, per quanto dissimulata, che si rivolge ad una interpretazione della realtà chiusa ad ogni possibile alternativa. Dallo spiraglio di un “libro di libri” Giovenale guarda fuori della fiction e vede eserciti di medici-zombies che visitano inermi pazienti fino allo smembramento, (Carme norreno, p. 99) cioè vede l’invadenza morbosa e apocalittica di quanto sarebbe utile alla vita.

Nel Paziente viene accolta e riutilizzata la lingua straziata e non-sense delle istruzioni IKEA, la paccottiglia dei notiziari e della pubblicità, fino all’orrore (horror, appunto) della reificazione di questi linguaggi-non morti: lo scarto forte di queste prose scatta nel momento in cui ci si rende conto che quel parlare mercificato e massificato evoca una realtà probabile: “All’inizio erano solo notizie alla tv, poi all’improvviso erano in strada, ovunque”: (p. 99) di quante cose ci toccherà prima o dopo fare una constatazione simile?

Per raggiungere questo livello di significazione nel più vasto ragionamento sulla realtà infarcita di fiction commerciale e propagandistica, l’autore pone la crepa della sua discrasia fra oggetto e soggetto, ribaltando come nel già citato Dei cerchi, una prospettiva di preferenza doppia, speculare, in cui le dimensioni piatte si sovrappongono a creare il sospetto o l’illusione del vortice, della tridimensionalità (Interni, p. 133). Queste prose sono popolate di scene che sembrano essere tolte da un film (Filmetto ma solo una scena) e compongono un lungo blob dello scarto reale in un tripudio di gesti estremi e violenti dal senso deflazionato (abbondano gli smembramenti, le esplosioni, i colpi di scena fuori contesto) come in un cartoon senza limiti e senza confini. Uno degli espedienti più efficaci per calare il suo lettore in un solido sistema di non-referenze è quello dell’elenco, o delle istruzioni. (1-14, p.125)

Gli elenchi hanno la misura di una ellissi provocatoria, sono potenzialmente infiniti, come “infinite” sono le possibilità della vita che conosciamo, ma al tempo stesso il forte umore grottesco che li pervade mette in luce e in ridicolo l’insistenza di possibilità che non sono tali (nessuna di esse è davvero realizzabile, sono tutte perdibili, autoriferite, pubblicitarie). L’ellissi è dunque una ellissi inutile, del vano, del vacuo. Gli oggetti elencati da Giovenale sembrano situarsi esattamente all’opposto degli “oggetti desueti” descritti da Francesco Orlando, non sono un rimosso della nuova industrializzazione, ma ne rappresentano il volto più riconoscibile, ammesso senza alcun giudizio critico.

Allo stesso modo funziona la burocrazia, nell’immanenza di una realtà allucinante, distopica, in cui aderire al non-senso con altrettanto non senso. Nelle pagine del Paziente vediamo la costruzione di intere burocrazie del nulla in cui eserciti di impiegati condividono una realtà basata su fondamenti misteriosi (Ammi, p. 75), irrazionali e in cui ci si trova scaraventati come in un racconto di fantascienza ma senza la protezione o lo schermo di un autore che si mette fra chi legge e la rappresentazione. Giovenale vuole calarci in alcuni lacerti distopici senza preavviso o filtro per toccare la corda del nostro disorientamento e per suggerirci che non si tratta affatto di una rappresentazione fantastica (“A ogni ora le terrazze sono troppo alte per vedere esattamente chi stiamo acclamando”).

Come ha detto giustamente Guido Mazzoni, dalla lettura di queste pagine ci si rende sensibilmente conto di un evento accaduto che costituisce lo spartiacque per definire una prospettiva del “post”. Molti degli scenari del Paziente avvengono prima e dopo un evento che non si può né conoscere né nominare e intorno a questo, come in un racconto di Cortázar, si scandisce un ansioso conto delle ore.

La misura di questo libro è la dismisura, una specie di catalogo delle apocalissi possibili e quotidiane. In esso troviamo una ironia oscillante fra il grottesco ed una comicità a volte sinceramente divertita ma spesso anche dolente, qualcosa che non può fare a meno di ricorrere al grande statuto sovversivo dell’ironia per mantenere in sé quel contatto con la realtà che l’autore nelle sue pagine salva come un segreto del mondo in fiamme.

 

* * *

 

Carlo ​Bordini al ​Teatroinscatola, ​per Nat​halie Quintane || blitzvorlesungen / gammm

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|| 2006—2016 || BLITZVORLESUNGEN

PER I PRIMI DIECI (e i prossimi cento) ANNI DI
GAMMM

BLITZVORLESUNGEN = letture lampo _ in un numero imprecisato di date

SESTA DATA :
sabato 28 maggio 2016, alle ore 18:00 (puntuali)

Teatroinscatola
Roma, Lungotevere degli Artigiani 12-14 (qui)

Carlo Bordini
presenta

OSSERVAZIONI

di Nathalie Quintane

(Benway Series)

Con la partecipazione di

Marie-Ève Venturino

Un’altra scuola (un anno dopo)

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di Giovanni Accardo

Un_altra scuolaIl 5 maggio 2015, uno sciopero indetto da tutti i sindacati, dopo otto anni che non accadeva, ha fermato la scuola per protestare contro l’ennesima riforma, la cosiddetta “buona scuola”, che già dal nome sembra un’efficacissima trovata pubblicitaria. Chi è che potrebbe dirsi contrario alla buona scuola? Come ha scritto Walter Tocci, senatore del PD e membro della commissione che ha varato la riforma, nel libro La scuola, le api e le formiche (Donzelli): “Per coprire la mancanza di un progetto si è fatto ricorso alla comunicazione (…) gli stereotipi da talk-show applicati rozzamente all’ordinamento scolastico senza riguardo per la sua complessità.”
Il giorno successivo allo sciopero, per una curiosa coincidenza, Ediesse, nella collana Carta Bianca diretta da Angelo Ferracuti e con prefazione di Eraldo Affinati, ha pubblicato il mio libro Un’altra scuola. Diario verosimile di un anno scolastico. Il libro nasce dal desiderio di raccontare un’altra scuola, come recita il titolo, che non è solo quella dell’Alto Adige, provincia bilingue e autonoma, sempre più uno Stato nello Stato, con i suoi vantaggi (maggiori risorse) e i suoi svantaggi (isolamento, autoreferenzialità, un controllo politico più pressante), ma anche la scuola che viene narrata poco dai libri e dalle cronache dei giornali, ovvero quella che funziona, progetta, costruisce. Desideravo far conoscere una scuola diversa da quella sempre più stereotipata narrata da tanti libri e dalle cronache dei giornali, non la scuola degli insegnanti lavativi o psicopatici, e nemmeno quella degli studenti ignoranti, demotivati e bulli. Poiché la realtà comprende anche questa scuola, nel mio libro non mancano pagine in cui la metto in scena. Ma a me interessava raccontare la scuola degli insegnanti appassionati, quelli che progettano percorsi innovativi e che si sforzano in tutti i modi di coinvolgere gli studenti, che si mettono in gioco e che lottano per una scuola migliore, arrivando persino ad occupare il loro istituto (episodio realmente accaduto). E m’interessavano gli studenti autentici, non le caricature, coi loro problemi quotidiani, le loro solitudini, ma anche la loro energia, la loro vitalità e la loro intelligenza. Nel libro, infatti, ho dato la parola anche a loro, attraverso le lettere (tutte autentiche) che mi hanno scritto dieci ex studenti, ai quali ho chiesto di raccontare che ricordo conservavano di me, se ero stato un buon insegnante, se ero riuscito a lasciare un segno in loro, affinché mi dicessero anche cosa ho sbagliato e cosa posso migliorare nella mia professione. Ma di lettere, in questo diario che si può leggere come un romanzo, ce ne sono molte.
Ad un anno dall’uscita e dopo aver incontrato diversi insegnanti in giro per l’Italia, posso dire che lo stato d’animo più diffuso è la demotivazione, dovuta alle continue riforme che oramai si succedono da 25 anni. Ogni ministro, non fa neppure in tempo a prestare giuramento che annuncia la sua riforma epocale. Quasi sempre ignorando i problemi veri della scuola. Ecco perché una delle lettere l’ho indirizzata al futuro ministro dell’Istruzione.

Gentile signor Ministro,
quando sarà nominato responsabile della scuola, per prima cosa faccia dimostrazione di onestà e dica che le cosiddette riforme varate negli ultimi anni sono nate unicamente dalla mancanza di soldi e perciò altro non sono stati che tagli di spesa dettate dalla necessità di risparmiare. Solo se le parole saranno effettivamente collegate ai fatti potrà avere la fiducia degli insegnanti. Per troppo tempo l’inganno è stato alla base della politica scolastica.
Poi, prima di avanzare qualunque proposta, prima di annunciare riforme epocali e provvedimenti mirabolanti, prima di fare una brutta figura, proponendo soluzioni impossibili da realizzare o assolutamente inutili, si faccia un giro per le scuole d’Italia. Dedichi un anno ad incontrare insegnanti, studenti e dirigenti, assista alle lezioni, partecipi ai collegi docenti e ai consigli di classe, guardi gli spazi, soprattutto nelle scuole del Sud, in cui si svolgono le lezioni e in cui i ragazzi trascorrono ore della loro vita. Provi a sedersi nei banchi, ad andare in bagno, usi le palestre (dove ci sono) e i laboratori (quando ci sono). Controlli gli arredi, la loro funzionalità e la loro vetustà. E faccia tutto ciò in modo informale, senza scorta e giornalisti al seguito, lontano da fotografi e telecamere. Dopo, ma solo dopo, torni al Ministero, parli coi funzionari e i suoi collaboratori, riassuma problemi e proposte che ha ascoltato da chi a scuola ci vive tutti i giorni, confronti la loro concretezza con le teorie degli esperti di pedagogia e didattica che non mettono un piede in un’aula scolastica da decenni. Dopo, ma solo dopo, annunci le sue riforme. Vedrà che gli insegnanti e gli studenti le approveranno.

Gli insegnanti sono sfiniti dalle continue riforme. Credo non esista altra professione così pervicacemente sottoposta a continui cambiamenti, e spesso ogni riforma va in direzione opposta alla precedente. Il risultato sono infinite procedure burocratiche, inutili adeguamenti di norme e delibere, carte da compilare, circolari da leggere e inviare, sottraendo tempo prezioso allo studio, alla preparazione delle lezioni, alla correzione dei compiti. Tutto ciò è capace di annientare anche il più volenteroso degli insegnanti. Ho incontrato e incontro ogni giorno insegnanti che vorrebbero cambiar mestiere. E devo dire che anch’io in questi ultimi mesi ci ho pensato, per l’insensatezza delle norme che regolano e mutano ad ogni passo il nostro lavoro, scritte con quella che Claudio Giunta, su Internazionale del 23 dicembre, ha definito lingua disonesta [“è la lingua disonesta di chi non sa bene che fare, non ha le idee chiare, non vuole assumersi le responsabilità che gli competono (e che il discorso chiaro impone a chi lo pronuncia), e lascia a chi deve leggere (e soprattutto: a chi deve obbedire) il compito di decifrare, di leggere fra le righe, di stiracchiare le parole e i concetti dalla parte che vuole, anzi di interpretare le parole e i concetti come s’interpreta il Talmud, cercando d’indovinare le intenzioni di un padrone invisibile e capriccioso, che dice e non dice, che lascia agli altri il compito di riempire con qualcosa lo spazio che lui ha lasciato vuoto non per liberalità ma per inabilità a parlar chiaro, ossia a decidere, e cioè per codardia.”]
L’ufficio, scrive Kafka in una lettera a Milena, non è un’istituzione stupida, piuttosto appartiene al mondo del fantastico. Ecco cos’è la burocrazia: un mondo irreale, abitato dal non senso e amministrato da solerti funzionari che obbediscono ciecamente agli ordini superiori e non si pongono domande. E tutti noi siamo dei Josef K. in cerca di un giudice che ci spieghi qual è la nostra colpa.
Un insegnante di un liceo di Bologna ha definito mobbing le riforme scolastiche che si succedono con la stessa periodicità delle stagioni. Una collega di Padova mi ha detto che l’unica riforma che lei si auspica è la fine delle riforme per almeno un decennio. Un’altra insegnante, a Palermo, mi ha detto che l’unico modo per difendersi dalle riforme è continuare a fare il nostro lavoro in classe, ignorandole. Da cosa nasce questo rifiuto? Dal fatto che nessuna di queste riforme nasce dal basso, cioè da chi a scuola ci sta quotidianamente, ma nelle chiuse stanze del Ministero, da dove ogni giorno inondano le scuole di circolari, inviti e prescrizioni. Mariapia Veladiano, che oltre ad essere una scrittrice è una dirigente scolastica, in un suo articolo su Repubblica ha invitato il Ministero a ridurre la quantità di circolari che arrivano quotidianamente sui tavoli dei dirigenti e che rendono la scuola ingovernabile.
Dall’altra parte ho visto una gran quantità di insegnanti che costruiscono percorsi didattici innovativi, promuovono incontri con gli scrittori e la lettura di libri, invitano studiosi a scuola, progettano attività multidisciplinari, sperimentano e si mettono in gioco, si prendono cura dei loro studenti. Molti di questi insegnanti mi hanno scritto per ringraziarmi, dicendo che il mio libro ha spezzato la loro solitudine. Eccone una:

Gentile Prof., chi le scrive è una collega di Rimini.
Non voglio tediarla, né allarmarla: non sono una stolker, non ho MAI scritto ad alcuno scrittore, nemmeno ad un giornale, pur avendo dedicato alla lettura appassionata tutta una vita. Sono a tempo pieno una figlia, una sorella, una moglie, una mamma, ma soprattutto… una Prof.
Mi trovo a scriverle perché ieri sera ho finito, leggendolo di getto in due giorni, il suo diario Un’altra scuola (mi scuso, ma non trovo il corsivo per i titoli in questo vecchio tablet vintage).
Vorrei ringraziarla tanto per la sua testimonianza: l’ho letta con sincero trasporto e tanto piacere
e mi sono sentita in dovere di comunicarglielo, quasi come chi avesse raccolto un messaggio nella bottiglia.
Il messaggio é giunto forte e chiaro, e mi premeva dirglielo.
Grazie per lo stile asciutto e limpido, per le grandi e piccole verità quotidiane contenute nella sua testimonianza, per aver afferrato e fermato quei pensieri infiniti che vagolano nella mente di noi insegnanti durante tutto il giorno – e la notte!
Grazie per i numerosi spunti che mi ha fornito con la “Scuola d’autore”; grazie per aver dato corpo alle sensazioni, talvolta assurte a imperiosi sentimenti, di frustrazione e avvilimento che si provano di fronte ai colleghi enigmatici o esauriti; al ragazzo inadeguato; alla famiglia aggressiva; alla propria materia che sembra non “crescere”, non progredire per ore che a volte diventano giorni… Il tutto accanto agli entusiasmi ineffabili di quando certe tensioni si sciolgono, le applicazioni di un metodo danno risultati insperati persino a noi, i colleghi cooperano al bene comune, un progetto vince un concorso…
Solo a scuola (o nella buona letteratura) accadono queste cose. E intender non lo può chi non lo prova.

Una delle ragioni per cui ho scritto il libro era proprio il desiderio di incontrare insegnanti e studenti, confrontarmi, ascoltarli, imparare e magari riuscire a dar loro voce, rendendo visibili i risultati. Le loro lettere hanno dato senso al mio libro.
Ad un anno dallo sciopero generale, ad un anno dall’entrata in vigore della “buona scuola”, approvata dal Parlamento con una quantità enorme di deleghe in bianco al governo, molte questioni restano drammaticamente aperte. Ne elenco alcune.

  1. Il preside manager, ovvero il potere del dirigente scolastico di scegliere i docenti dagli ambiti territoriali e non più dalle graduatorie, dove ogni insegnante ha un punteggio che risulta dai titoli in suo possesso, dal superamento di un eventuale concorso e dagli anni di servizio. Con la nuova legge i dirigenti potranno conferire un incarico triennale sulla base del curriculum del docente. Con quali criteri di trasparenza e correttezza? Nessuno. Di fatto la scuola diventa un’azienda privata. E questo nel Paese con la più alta percentuale di corruzione e clientele. Tra l’altro il curriculum non dice nulla delle competenze didattiche: io posso avere tre lauree e non sapere insegnare. Insegnare non significa soltanto conoscere la propria disciplina, ma anche e soprattutto saperla trasmettere, saper costruire una relazione con gli studenti, saperli ascoltare e saper valorizzare ciascuna potenzialità, motivarli e appassionarli. Ma insegnare richiede anche una serie di competenze che nessuno insegna e nessuno valuta: saper lavorare in gruppo, avere creatività e curiosità, saper progettare percorsi didattici.
  2. E difatti nulla prevede la riforma riguardo alla formazione e alla selezione degli insegnanti. Ancora una volta si punta sulle conoscenze disciplinari, a cui il nuovo concorso aggiunge una minima conoscenza dell’inglese. Al concorso cui ho partecipato nel 1999, di italiano mi hanno chiesto la trama di Todo modo di Sciascia. Vi rendete conto? La trama! Come ad un qualunque studente di liceo. E di storia hanno voluto sapere soltanto come si chiamava il ministro del governo italiano che ha firmato il patto di Londra con cui l’Italia ha deciso l’ingresso nella Prima guerra mondiale a fianco delle forze dell’Intesa. Non mi è stato chiesto nulla che dimostrasse, sia pure minimamente, che io ero in possesso di competenze didattiche e pedagogiche.
  3. Altro tema fortemente dibattuto e ancora una volta usato strumentalmente dalla classe dirigente è quello della valutazione degli insegnanti. Il messaggio che il governo ha voluto trasmettere è stato: cari genitori, con la nostra riforma licenzieremo gli insegnanti incapaci. Cosa naturalmente difficilissima da fare se un insegnante è vincitore di pubblico concorso ed è tutelato dal diritto pubblico. Avrebbe potuto parlare di valutazione formativa, cioè di segnalare ai docenti i loro eventuali deficit da colmare con appositi corsi di aggiornamento, ma l’effetto mediatico non sarebbe stato lo stesso. In linea di principio non ho nulla contro la valutazione degli insegnanti (nel mio libro racconto un piccolo esperimento che ho fatto nelle mie classi), ma penso che la vera valutazione sia la selezione in ingresso, ovvero fare arrivare in classe docenti veramente capaci di insegnare e veramente motivati, perciò capaci di motivare e appassionare gli studenti. Il problema è stabilire obiettivi e criteri della valutazione, cosa non propriamente facile, visto che la scuola non produce beni materiali, ma a si occupa dell’istruzione di bambini e adolescenti. È più bravo un insegnante che boccia tanto o uno che promuove tanto? Si può bocciare per severità, ma anche per incapacità didattica. Allo stesso modo si può promuovere per generosità o perché l’insegnante ottiene ottimi risultati. La riforma Renzi, attraverso il Rapporto di Autovalutazione che ogni istituto è obbligato a fare, darà un voto e un finanziamento proporzionale al risultato. Centrale in tale valutazione sarà il risultato dei test Invalsi, che però sono contestati dalla quasi totalità degli insegnanti, e misurano (non valutano) soltanto l’apprendimento di italiano e matematica, dunque una porzione minima del lavoro didattico. Più la tua scuola otterrà un buon risultato, maggiori saranno i finanziamenti, col paradosso che saranno sostenute le scuole che già funzionano e abbandonate quelle in difficoltà. Il secondo problema è chi valuta. E qui sono assolutamente contrario all’intromissione dei genitori, sia perché non hanno l’obiettività per farlo, sia perché non è detto che ne abbiano gli strumenti. Spesso, in presenza di risultati negativi dei loro figli, i genitori si sentono valutati e tendono a reagire emotivamente, a difendersi, direbbe la psicanalisi. Mi fido di più del giudizio degli studenti, ho infatti sperimentato che alla fine sono molto più onesti dei loro genitori. Il problema della valutazione è stato usato strumentalmente dalla politica, per avere il facile consenso dei genitori.

Ci sono tante altre questioni aperte, ad esempio l’alternanza scuola-lavoro, la revisione dei programmi scolastici (siamo l’unica nazione d’Europa che fa studiare 10 e talvolta 12 materie agli studenti e di ogni materia il programma comprende tutto lo scibile umano), le attività di aggiornamento, i testi Invalsi. Avrei bisogno di scrivere un altro libro per poterne parlare in maniera sensata. E questo dà la misura della complessità dei problemi della scuola italiana, problemi evidentemente non riducibili a slogan pubblicitari. Concludo dicendo, come ha opportunamente ricordato Tullio de Mauro, che quando si parla di scuola ci si dimentica che essa si compone di tre segmenti completamente diverse: elementare, media e superiore, a cui, in un’ottica di educazione permanente, andrebbe aggiunta l’educazione degli adulti. Pensate a quanti adulti farebbe bene un ripasso di storia e geografia e magari qualche nozione di diritto in un’epoca segnata da imponenti migrazioni dai paesi poveri del mondo e da quelli dilaniati dalle guerre.

Ornitorinco

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ornitorinco-in-cinque-passi_400

di Lorenzo Mari

Ornitorinco II

Ornitorinco, svìtati.

Ritorna papera o coniglio,
che poi nella ramaglia

corri a vedere ciò che non puoi
in ogni tratto, in ogni sbaglio:

immagine-immagine / immagine-parola / parola-parola

scorgi, ovvero discerni

(dormi)

Conto a mente delle guerre perse, mai combattute,
mai organizzate, e a scanso di ogni possibile dichia-
razione. Non compare nessuna Caporetto, nessuna
pasciuta linea gotica, nessuna foiba fonetica con fo-
bia, nessuna Marna. Conta che ti riconta, ci sono dei
numeri, li vedo, fuggono via. Ripassa bene con il fer-
ro caldo sulla ferita, per uncinarla, ma non inventare
fasci: questo è, nel giro del possibile, vederli, toccarli,
scambiarli con mazzi di cartavaluta. Lasciare, per con-
tro, una certa dose di soprannumero, quanto all’ansia.
Succede così, a un dipresso, nelle spiagge libere. Navi
di ferro, imbarcazioni di lattice, costruzioni incredibili,
nate in un soffio: ci sono comunque dei numeri, ma
a rigor di logica, o per volontà di incidere con lo stilo,
non c’è mai stato uno smacco tale per cui
questa poesia non possa esistere.

 

 

 

L’habitat dell’ornitorinco
si costituisce come spazio inventato

ma reale più del reale,
sempre prima della fine

o dell’ultima svolta – costituito,
è cosa ultima, è cosa certa

e cos’altro si può dire dell’impero
e del suo arco più potente

da una forma netta di silenzio
e da uno sguardo di sguincio.

L’habitat dell’ornitorinco
è più reale del reale

ma è stato costruito per un animale
che non parla, non è mai presente.

 

 

 

Le abitudini alimentari dell’ornitorinco
non cambiano da secoli, si ritorcono

contro lo stesso cibo, o la merce,
benché l’elettrolocazione possa ora

dar luogo ad alcuni progressi particolari –
per esempio, stanare più vittime, sul fondo,

muoversi meglio, nel reticolo,
e non soltanto buttare il becco a papera,

usare gli artigli di qualcun altro,
ghermire piccoli pesci colorati

(e altre biglie).

L’ornitorinco che si nutre solo in superficie
non sfrutta il potenziale concesso, e talvolta

chiama, con voce di papera, qualità
ciò che, per il coniglio, resta valore.

 

 

 

L’occhio dell’ornitorinco, se tace,
non si debilita, non sfarina:

soprattutto non accusa la retina,
che sia post o contro immagine…

Si chiude – lo segue l’orecchio –
perché a cosa serve ormai la musica,

non appena entrato in acqua?
Pelo più chiaro attorno all’incavo

e l’occhio resta per tutti un mezzo
aperto, a intimare lontananza

ma è questo l’unico indovino, in fondo,
per elettrolocazione e padronanza.

Gli insetti prede acquatiche lo irridono,
ma è già tutto distinto, non si vede critica:

lui – forse lei, per dimorfismo –
rinasce dall’acqua al fango all’aria,

lei – forse lui –
crede ancora, fermamente, nella dialettica.

 

 

 

*

 

Lorenzo Mari, Ornitorinco – in cinque passi, Prufrock 2016

 

Per cominciare: Ornitorinco in cinque passi non è un trattato di zoologia. È piuttosto un libro su quello che è rimasto dell’impero, che siano arnie, tunnel o archi a tutti sesto; oppure: è la guerra dei topi e delle api, ultimi superstiti tra le macerie. Così, nelle poesie che lo compongono, Lorenzo Mari cerca di sbrogliare la matassa (o quello che della matassa è rimasto) andando a cercare il senso dell’ornitorinco – che in fondo a tutti par bene d’averlo letto o sentito – che per stavolta non è la Bestia de Il Conte di Kevenhüller, e non è nemmeno lo snark. Allora, messe da parte l’ipocondria e le guerre perse, sì che se ne esce –/ lo dice di una crisi che non è affatto distinzione,/ parola che accende, resta sempre uguale –/ c’è sempre una via di uscita. Forse.

 

[Lorenzo Mari vive e lavora a Bologna. Ha pubblicato alcuni libri di poesia, tra cui Minuta di silenzio (L’Arcolaio, 2009) e Nel debito di affiliazione (L’Arcolaio, 2013). Insieme a Luigi Bosco, Davide Castiglione e Michele Ortore ha fondato il sito di critica letteraria IRLP. Traduce dallo spagnolo e dall’inglese.]

 

Una presentazione del libro avverrà

Mercoledì 25 maggio, ore 18.00
IBS.it Bookshop, Piazza dei Martiri, 5 – Bologna

a cura di Sergio Rotino

introduce Stefano Colangelo

 

*

 

 

mater (# 2)

6

di Giacomo Sartori

 

come facciamo con le sedie

 

come facciamo con le sedie

ci tenevi tanto

a regalarmele tu

ma poi mancava il tempo

per andare a sceglierle

veniva la festa successiva

avevo altre urgenze

l’anno seguente ero  via