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Tra i bicchieri del Boccaccio. L’invenzione borghese del vino di qualità

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di Giovanni Palmieri

Nel giugno del 1300 papa Bonifacio VIII invia a Firenze un’ambasceria guidata dal cardinale Matteo d’Acquasparta con lo scopo ufficiale di pacificare le fazioni rivali dei Bianchi (Cerchi) e dei Neri (Donati), i cui esponenti di spicco saranno di lì a poco esiliati. Tra questi, com’è noto, vi sarà anche Guido Cavalcanti. L’ambasceria aveva in realtà il vero scopo di favorire occultamente la fazione dei Neri, cercando una strada per l’annessione di tutta la Tuscia al Patrimonio di San Pietro, grazie anche a sapienti maneggi imperiali e ad alleanze economico-politiche in Firenze.[1]

Gli ambasciatori sono ospitati da messer Geri Spina, uno dei capi neri. Ruggero Spini[2] (? – morto già nel 1332), legato da lontana parentela coi Caetani, fu un nobile cavaliere fiorentino nonché ricchissimo banchiere al servizio di Bonifacio VIII. Che caso!

Un anno dopo (nell’ottobre del 1301) Dante partirà per Roma, per sondare i veri scopi dell’ultima missione del papa: quella militare di Carlo di Valois, il “paciaro”… Non tornerà più e nel 1302 sarà condannato all’esilio perpetuo e al rogo qualora fosse capitato tra le mani del governo cittadino ormai guidato dai Neri.

Questo l’importantissmo contesto storico della nostra novella intenzionalmente accennato dal Boccaccio per pochi tratti al solito eufemistici, sornioni e del tutto complici col lettore del tempo che (a circa sessant’anni di distanza) doveva certo conoscere la storia politica di Firenze in tutta la sua drammaticità.

 

   Dico adunque che, avendo Bonifazio papa, appo il quale messer Geri Spina fu in grandissimo stato, mandati in Firenze certi suoi nobili ambasciadori per certe sue gran bisogne, essendo essi in casa di messer Geri smontati, e egli con loro insieme i fatti del Papa trattando, avvenne che, che se ne fosse cagione, messer Geri con questi ambasciadori del Papa tutti a piè quasi ogni mattina davanti a Santa Maria Ughi passavano, dove Cisti fornaio il suo forno aveva e personalmente la sua arte esserceva.[3]

 

Su questo scenario storico, dovremmo tornare… Per ora mi limito a dire che Palazzo Spini (1289), un vero fortino blindato, si trovava e si trova a Firenze all’imbocco di via Tornabuoni presso il ponte di Santa Trìnita. Nel 1300 un “Cisti fornaio” (Bencivenisti) figurava tra gli elenchi dei confratelli della chiesa di Santa Maria Ughi.

Cisti è un fornaio diventato ricchissimo che vive splendidamente bevendo sempre “i migliori vini bianchi e vermigli che in Firenze si trovassero o nel contado”.[4] Un giorno ha l’idea di offrire “un suo buon vino bianco”[5] a Geri Spina e al suo seguito. Perché? Il testo non lo dice ma lo lascia intuire…

Non potendo per questioni di casta invitare direttamente alla degustazione Geri e gli ambasciatori, organizza una suggestiva operazione promozionale che nasconde una precisa strategia di marketing di lungo periodo. Nei pressi della sua bottega, dove passavano tutti i giorni i dignitari della legazione papale, davanti al suo uscio, fa portare un secchio d’acqua freschissima, delle belle panche, dei bicchieri di peltro lucidato (e non di terracotta) che parevano d’argento e “un picciolo orcioletto bolognese nuovo del suo buon vino bianco”.[6] Messosi poi a sedere in vista di Geri Spina e del suo seguito, dopo essersi spurgato la bocca rumorosamente, vestito con un bellissimo farsetto bianco e con un grembuilino di bucato, Cisti comincia a bere il suo vino sì ch’egli “ne avrebbe fatto venir voglia a’ morti”.[7]

La scena si ripete sino a quando, il terzo giorno, Geri non resiste e chiede  a Cisti se il vino è buono e questi glielo offre. Trovatolo ottimo, l’illustre bevitore lo raccomanda ai suoi ospiti ma quando i servi fanno per lavare i bicchieri, il nostro fornaio interviene dicendo che solo a lui tocca la mescita e che essi non devono sperare di poter assaggiare il suo vino… Come a dire che il vino in questione non è un “vino da famiglia” ma un vino d’élite.

Dopo di che, lavati quattro bicchieri, Cisti dà da bere a Geri e ai suoi compagni. Il vino avendo avuto gran successo, la bevuta si ripete quasi ogni mattina.

Un bel giorno, finita la missione, Geri fa invitare Cisti al suo magnifico convito di commiato. Avendo quest’ultimo rifiutato, il signorotto nero chiede a un suo servo di andare dal fornaio per chiedere del suo vino nella misura di un solo fiasco e in ragione di un “mezzo bicchiere per uomo alle prime mense”.[8] Il servo, invece, va da Cisti con un “gran fiasco” forse “sdegnato” – come precisa il testo – “perché niuna volta bere aveva potuto del vino”.[9] A questo punto Cisti si rifiuta di dare la sua merce affermando che non poteva certo essere messer Geri il mandante d’una tale richiesta. Riferito ciò a quest’ultimo, il servo torna da Cisti con le istruzioni del suo padrone il quale gli ha detto che se il fornaio avesse ancora affermato che non era Geri a mandarlo a lui gli domandasse a chi lo mandava… Tornato da Cisti, il servo si vede nuovamente rifiutata la richiesta con la spiegazione ironica che evidentemente Geri non mandava il suo servo a lui ma al fiume Arno.

A questo punto, fattosi mostrare dal famiglio il grande fiasco da questi scelto, Geri capisce… e affida al servo un fiasco di misura “convenevole”.[10] Solo allora Cisti lo riempie di vino e lo stesso giorno si reca al palazzo di Geri. Dice infatti il testo in sede conclusiva:

 

   E poi quel medesimo dì fatto il botticello riempiere d’un simil vino e fattolo soavemente portare a casa di messer Geri, andò appresso, e trovatolo gli disse:

– Messere, io non vorrei che voi credeste che il gran fiasco stamane m’avesse spaventato; ma, parendomi che vi fosse uscito di mente ciò che io a questi dì co’miei piccoli orcioletti v’ho dimostrato, ciò questo non sia vin da famiglia, vel volli staman raccordare. Ora, per ciò che io non intendo d’esservene più guardiano tutto ve l’ho fatto venire: fatene per innanzi come vi piace.

Messer Geri ebbe il dono di Cisti carissimo e quelle grazie gli rendè che a ciò credette si convenissero, e sempre poi per da molto l’ebbe e per amico.[11]

 

Considerazioni decisive

 

Diventato ricchissimo, Cisti, che continua a fare il fornaio e non diventa certo vignaiolo, decide di investire il suo capitale in un mercato che ancora non esisteva ma che cominciava ad avere una sua ragion d’essere: quello del mercante di vini e in particolare di vini di pregio che potevano provenire anche da posti lontani dalla città in cui sarebbero stati venduti.

Che Cisti si proponga a Geri Spina come mercante di vino è un dato oggettivo dato che, alla fine della novella, egli si premura di dire al suo futuro cliente che se non aveva riempito il grande fiasco non era certo perché si era spaventato per la quantità… Come a dire che lui di vino ne aveva eccome… E infatti gli porta in regalo un’intera botticella d’un altro suo vino “simile” a quello già offerto… Ed è significativo, dal nostro punto di vista, che si tratti d’un altro vino anche se, supponiamo, sempre di grande qualità.

Lo spazio commerciale specifico del mercante di vini non esisteva ancora. Non contando i doni occasionali, anche i magnati ricorrevano, infatti, o al proprio vino o a quello del monastero vicino o a quello dozzinale delle vigne di città. Insomma dal produttore al consumatore ma con tutti i vincoli e i limiti del mondo medioevale.

Grazie dunque ad una sapiente strategia di marketing, fatta di spettacolini promozionali e di riti enologici adeguati (bicchieri puliti, orcioletti nuovi di fabbricazione bolognese, mescita ecc.), Cisti propone se stesso come mercante di vini di pregio, come intermediario cioè d’una merce difficilmente raggiungibile anche dai potenti. E vince!

Vince perché c’è da supporre che dopo le varie promozioni gratuite, dopo i vari doni, la prossima volta che Geri chiederà del vino all’ “amico” Cisti lo pagherà, e lo pagherà molto salato. Insomma dietro al valore simbolico del dono, tipico dell’ideologia feudale, si sta prepotentemente affacciando nella società trecentesca il valore economico dello scambio tipico dell’ideologia moderna. I doni nascondono e preparano gli scambi.

È inutile che dica che il target di tale commercio è quello dei magnati o del populus grassus, cioè un target alto, perché ciò risulta evidente considerando le persone che Cisti sceglie per la sua efficace dimostrazione promozionale.

   È questa l’invenzione borghese del vino di qualità in contrapposizione al “vino da famiglia”(cioè per la servitù), che poi sarebbe il nostro vino da pasto. Una contrapposizione esplicitamente segnalata per ben tre volte proprio dal testo. Inoltre – come dice giustamente Savelli[12] – il vino di Cisti non è più quello, tipico in Boccaccio, della festa popolare, del Carnevale o della Cuccagna… Non è più il vino col quale ubriacare gli altri e ubriacarsi per divertimento. È un vino da intenditori, da gente che sa sorseggiare orazianamente. È un vino, insomma, in cui la qualità deve prevalere sulla quantità.

Ma c’è di più. C’è sempre di più in Boccaccio: il mercante, il futuro mercante, anche se è diventato ricchissimo, rispetta ancora le forme di reverenza nei confronti dei nobili magnati, ma morde il freno e, con l’arma arguta dell’ironia, comincia a rifiutare la mediazione dei servi, imponendo di fatto trattative e rapporti diretti tra lui e il compratore. Cisti non accetta infatti l’invito al convito di Geri soltanto perché questi non lo invita direttamente ma lo fa invitare dai servi (“fecevi invitare”,[13] non lo “invitò”).

Insomma, il borghese, arricchitosi, non solo vuole contare di più nella rappresentanza politica (cosa che gli riesce già), ma vuole anche essere socialmente riconosciuto. Cosa che ancora non gli riesce. È vero che i Bianchi sono l’espressione politica degli interessi dei nascenti borghesi, gelosissimi politicamente delle autonomie comunali e avversi al potere temporale della Chiesa… Ma lo sono ancora in prospettiva e gli interessi economici della nuova classe rimangono subordinati ai valori culturali della vecchia nobiltà feudale. Cisti, che politico non è né vuole essere, desidera innanzitutto essere socialmente riconosciuto da gente come Geri Spina… gente da cui è invidiato per la ricchezza ma disprezzato per lo status.

E Boccaccio, per bocca di Pampinea, ce lo dice affermando nella moraluzza introduttiva che spesso nelle arti e nei mestieri, reputati “più vili”, si nascondono “le cose più care”.[14] Sotto al velame di questa ennesima esaltazione dei valori della nobilitas animi in opposizione a quelli della nobilitas generi si trova proprio il discorso politico del riconoscimento sociale. Del resto, la diffusissima e stucchevole rivalutazione della nobilitas animi serve solo, a parer mio, a celare il vero problema che è il riconoscimento sociale e politico delle classi non nobiliari che sono in ascesa. Non quello di una loro generica rivalutazione letteraria e morale.

 

Dobbiamo ora tornare per un attimo al contesto storico della missione del cardinale Matteo d’Acquasparta: Boccaccio accenna, come s’è detto, ma suggerisce anche qualcosa. Qualcosa che non deve sfuggire al lettore attento. Scrive infatti ad un certo punto che Geri Spina cede alle lusinghe bacchiche ordite da Cisti o perché vinto dalla “qualità del tempo” (cioè dal caldo) o perché il “saporito bere” di Cisti aveva ingenerato in lui per suggestione la sete. Oppure perché (badate bene) Geri “affanno più che l’usato [aveva] avuto”.[15] Già… Come andava infatti la missione di Bonifacio VIII? Andava male… molto male. La nostra fonte è al solito Dino Compagni.[16]

Il legato pontificio arriva in città ai primissimi di giugno, dopo gli scontri di Calendimaggio nei quali i Neri avevano attaccato e ferito i Bianchi. Tra gli assalitori v’era anche il figlio di Geri Spina. Qualche mese prima i Priori avevano condannato alcuni banchieri neri, accusandoli di tramare contro gli interessi del comune. Tra questi figurava anche Simone Gherardi del banco Spini. La cosa aveva fatto infuriare Bonifacio che inutilmente aveva chiesto la revoca della condanna.

I Priori bianchi del governo cittadino, giustamente sospettosi, non conferiscono al legato pontificio alcuna delega per prendere decisioni operative. Il 23 giugno, però, alla vigilia di San Giovanni scoppiano violenti tumulti, a seguito dei quali i Priori decidono di inviare al confino i capi più facinorosi delle fazioni. Tra questi per parte nera vi era anche Geri Spini che come i suoi non si recò al confino. Forse anche da qui il suo affanno…

Giova a questo punto ricordare che Boccaccio[17] aveva commentato il canto VI dell’Inferno dove si trova la famosa profezia di Ciacco (vv. 64-66): “Dopo lunga tencione / verranno al sangue, e la parte selvaggia/ caccerà l’altra con molta offensione”. Con “verranno al sangue” Dante si riferisce agli scontri armati tra Bianchi e Neri cominciati presso la Chiesa di Santa Trìnita a Calendimaggio del 1300; scontri nei quali Ricoverino de’ Cerchi ebbe a spregio il naso tagliato dai Neri, pare proprio dal figlio di Geri Spina durante una scorribanda a cavallo. Altri scontri armati poi avverranno il 23 giugno durante la festa di San Giovanni. Quanto alla “cacciata” dei soli Neri da parte dei Bianchi (“la parte selvaggia”), Dante si riferisce al giugno del 1301 quando i Bianchi, avendo scoperto l’ennesima congiura dei Neri contro i Cerchi e i loro seguaci, bandiranno i Neri più faziosi dalla città; tra questi Corso Donati, Geri Spini, Pazzino de’ Pazzi, e Rosso della Tosa.

Proprio in seguito agli scontri di San Giovanni, il 27 giugno, Matteo ottiene dal Consiglio dei Cento la “balìa” con poteri però depotenziati. Ogni “atto” da lui deciso doveva ricevere infatti l’approvazione del Consiglio. Seccante….

Non ottiene successo neanche il suo tentativo di imporre una legge elettorale che avrebbe favorito l’ingresso al governo dei Neri.

Ormai la missione di Matteo d’Acquasparta, che ha scontentato tutti, è fallita. In queste circostanze, tra il 15 e il 18 luglio, un popolano con poco cervello scaglia una freccia di balestra contro la finestra del Palazzo vescovile dove risiedeva il legato pontificio. I priori cercano di sopire le ire del cardinale, offrendogli una coppa d’argento ripiena di duemila fiorini d’oro, ma Matteo rifiuta.

Scrive velenosamente Dino Compagni da testimone diretto e riferendosi al cardinale: “I Signori, per rimediare allo sdegno che  avea ricevuto, gli presentarono fiorini nuovi. E io gliel portai in una coppa d’ariento e dissi: ‘Messere, non li dísdegnate perché siano pochi, perché sanza i Consigli palesi non si può dare più moneta’. Rispose gli avea cari; e molto li guardò, e non li volle” (Cronica, I, XXI).

La reazione di Bonifacio è furiosa: egli ordina in pratica al suo delegato l’arresto di tutti i reggitori del comune con ogni mezzo possibile. Matteo si appella allora a Lucchesi, ostili a Firenze, cercando di ottenere milizie armate… I Priori, tra cui Dante, reagiscono chiamando in soccorso Bologna e si assicurano l’appoggio di Pistoia. Scongiurato lo scontro armato, l’iniziativa del cardinale non va in porto ed egli lascia la città tra il 28 e il 29 di settembre, non senza aver prima lanciato la scomunica su Firenze e “l’interdetto”.[18]

Alla scomunica, Bonifacio aggiunse inoltre la confisca dei beni di tutti i reggitori del comune. Va infine ricordato che, con ogni probabilità, l’attentato a Matteo d’Acquasparta, come anche i tumulti precedenti, furono organizzati ad arte solo per dare il pretesto a Bonifacio VIII di colpire ancora una volta i Bianchi.

 

Quale vino bianco?

 

Boccaccio non lo dice intenzionalmente ma si possono comunque fare delle ipotesi. Certamente un bianco secco, vista la stagione e il fatto che nel testo si fa espressamente riferimento alla sete. Ma quale tipo di bianco?

Nella seconda  novella della decima giornata del Decameron, Ghino di Tacco, come medicamento per il mal di stomaco, serve all’abate di Cluny “un gran bicchiere di vernaccia da Corniglia”[19] (nelle Cinque Terre).

Anche nella celebre novella di Calandrino e l’elitropia (terza dell’ottava giornata), Maso, descrivendo il paese del Bengodi, afferma che “ ivi presso correva un fiumicel di vernaccia, della migliore che mai si bevve, senza avervi entro gocciol d’acqua”.[20]  La “vernaccia” è citata infine anche nella sesta novella dell’ottava giornata.[21]

Questo vino, d’ascendenza ligure ma tanto celebre da essere diventato sinomimo d’un qualsiasi bianco, era del resto già stato ricordato da Dante (Pg, XXIV, 24) e sarà poi menzionato anche da Cecco Angiolieri, da Folgòre da San Giminiano, dal Buonarroti, dal Redi ecc.

Che la provenienza ligure della Vernaccia fosse conosciuta è testimoniato anche da Salimbene da Parma (1221-1288) nella sua Chronica, dove infatti possiamo leggere che “vinum de Vernacia […] nascitur in quadam contrata quae Vernatia appellatur” (‘il vino Vernaccia nasce in quel territorio ch’è chiamato Vernazza’).[22] Anche il Buti, l’importante glossatore di Dante Francesco di Bartolo da Buti (ca. 1324-1406), nel suo commento alla Commedia asserisce che la “Vernaccia è vino che nasce ne la riviera di Genova, millior vino bianco che si trovi”.[23] Negli Ordinamenti della Gabella del Comune di San Gimignano del XIII secolo, si trova l’imposizione di una tassa di “tre soldi” per ogni “soma” di Vernaccia fuori Comune e l’istituzione di un registro dei Provveditori comunali di quel vino, che dovevano sovraintendere alle gabelle e alla selezione delle migliori Vernacce.[24] Quindi almeno fin dal Duecento la Vernaccia aveva acquistato grande notorietà e valore presso le tavole dei nobili e dei magnati. Quelli che – appunto – riuscivano a procurarsela.

Mi piace dunque immaginare in sede conclusiva che il buon vino bianco di Cisti fosse proprio la Vernaccia ligure o quella di San Giminiano, trapiantata in terra toscana sin dal XIII secolo. Un’altra opzione? Il Trebbiano… ma è tardi e il discorso si farebbe troppo lungo.

testo dell’intervento tenuto il 28 marzo 2015 nell’ambito del primo bookpride di Milano)

 

[1] Tutti i dati storici del presente studio provengono dalle fonti primarie di Dino Compagni (Cronica delle cose occorrenti ne’ tempi suoi, a cura di Gino Luzzato, Einaudi, Torino 1968, c. I, 21; c. III, 19-sgg) e di Giovanni Villani (Nuova cronica, a cura di Giovanni Porta, Fond. Pietro Bembo, Guanda, Parma 1990-91, VIII, 43). Mi sono utilmente avvalso anche dello studio di Federico Canaccini, Bonifacio VIII e il tentativo di annessione della Tuscia, in “Bullettino dell’Istituto storico italiano per il medioevo”, n. 112, 2010, pp. 477-501. Sulla novella boccacciana di Cisti, vd. Giulio Savelli, La misura del privilegio: il vino di Cisti fornaio, in Soavi sapori della cultura italiana (Atti del Convegno dell’AIPI, Verona-Soave 27-29 agosto 1998), a cura di Bart Van den Bossche, Michel Bastiansen e Corinna Salvadori Lonergan, F. Cesati ed., Firenze 2000, pp. 189-195.

[2] Spini è il vero nome del casato di Geri. Non sappiamo perché Boccaccio lo chiami invece Spina.

[3] Giovanni Boccaccio, Decameron, a cura di Cesare Segre, Mursia 1987, p. 386-387. Da questa ed. tutte le citazioni del Decameron.

[4] Ivi, p. 387.

[5] Ibidem.

[6] Ibidem.

[7] Ibidem.

[8] Ivi, p. 388.

[9] Ibidem.

[10] Ibidem.

[11] Ivi, pp. 388-389.

[12] Giulio Savelli, La misura del privilegio: il vino di Cisti fornaio, cit., pp. 190-191.

[13] Decameron, cit., p. 388.

[14] Ivi, p. 386.

[15] Ivi, p. 387.

[16] Vd. qui n. 1.

[17] Vd. le boccacciane Esposizioni sulla Comedia, a cura di Giorgio Padoan, in Tutte le opere di Giovanni Boccaccio, a cura di Vittore Branca, Mondadori, Milano 1967, vol. VI, 1965.

[18] L’interdetto era una misura ecclesiastica che impediva a coloro che ne erano colpiti la partecipazione alla Messa e ai sacramenti. Impediva però (e ciò scontentava i banchieri, anche quelli neri) di riscuotere i debiti.

[19] Decameron, cit., p. 598.

[20] Ivi, p. 480.

[21] Ivi, p. 493.

[22] Salimbene da Parma, Chronica, a cura di Federico Bernini, Laterza Bari 1942.

[23] Commento di Francesco da Buti sopra la Divina commedia di Dante Allighieri, Fratelli Nistri in Pisa 1860, 2 vol., p. 537.

[24] Cfr. Orazio Bacci, La vernaccia dell’abate di Clignì, in “La Fanfulla della Domenica”, a. XXIX, n. 30, 1907.

Didascalie: Salvador Dalì

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Reminiscenza archeologica dell'Angelus di Millet (1936) S. Dalì

Reminiscenza archeologica dell’Angelus di Millet (1936), S. Dalì

di

Agnese Azzarelli

 

 

Maybe there’s a God above
And all I ever learned from love
Was how to shoot at someone who outdrew you
It’s not a cry you can hear at night
It’s not somebody who’s seen the light
it’s a cold and it’s a broken Hallelujah.

 Leonard Cohen

Una gelida sera ad attendere che lui arrivasse sul sagrato del duomo. “Fiat mihi secundum Verbum tuum”, parole pronunciate volgendo lo sguardo alle ardite guglie che si stagliavano su quel grigio cielo. Gelso e garofano, ardore e cimento, il tutto accompagnato da uno strenuo Hallelujah di Leonard Cohen. Era arrivato.

Non ci occorsero preamboli.

Ancora ignoro a quale assurda legge ci si debba appellare per mutare verso e direzione del percorso. A che pro adombrare il cielo di cuspidi, archi e pilastri, quando la verticalità non ci appartiene?

Ma allora, fervore e immaginazione, non mi impedirono di inoltrarmi in coda alla sequela delle possibilità.

Tu fosti sempre più accorto, salvo in principio, ancor prima che avesse inizio la nostra lunga corsa. Ma non ebbi molto tempo per assaporare i momenti in cui, impavido, lasciavi che le emozioni facessero il suo corso. Pensa: sarebbe scoppiato non so quale finimondo!

Offrimmo la nostra tenera scoperta in pasto alle teorie e alle loro confutazioni, lasciammo il nostro amore alla mercé dei fraintendimenti e di un errore di valutazione.

Che ogni linea retta sia delimitata da due punti è cosa nota, si sa, e questo vale sia che la retta sia tracciata sulla sabbia, sia che questa altro non sia se non il tracciato percorso da un uomo e da una donna. Ebbe inizio il nostro viaggio, al riparo dagli “scorni di chi crede che la realtà sia quella che si vede”, per citare un poeta a noi caro.

Lasciasti che fossi io a precederti. Fu a quel punto che intorno a noi presero a discettare sul chi sarebbe arrivato per primo e noi prendemmo presto ad interpretare il nostro viaggio come una competizione. Sarebbe bastato uno sguardo, ma da allora io presi a correre e la distanza tra me e te divenne incolmabile… O meglio, divenne incolmabile allorché qualcuno ti convinse che obiettivo sarebbe stato raggiungere l’altro capo della retta.

Ma che una retta sia un insieme infinito di punti è cosa altrettanto nota. Per quanto io mi attardassi, prendendo tempo, l’intervallo tra me e te sembrava farsi sempre più ampio e questo a dispetto di ogni previsione.

Ricordi? Esordisti una sera dichiarando che la distruzione sarebbe stata lecita a condizione di non confonderla con l’opposto dell’azione. Capivo poco, ma mi pareva che tra le parole che eri uso pronunciare, l’una di seguito all’altra – abolire, eliminare, salvare – intercorresse un fil rouge di cui eri estremamente competente, mi pareva facessero un tutt’uno.

Ora vorrei distruggere ciò che mi lega al percorso intrapreso e ripeto, tra me e me, queste tre parole – abolire, eliminare, salvare. Ne ho scoperto il segreto.

Ho dimenticato la ragione per la quale abbiamo intrapreso questo nostro viaggio, ma abolire il mio movimento decreterebbe l’impossibilità di giungere a destinazione. Eliminare ciò che a te mi lega sarebbe impossibile. Non mi resta che salvare questa nostra traccia, abolendo ed eliminando la destinazione a cui gli altri pensano sia consacrata, farne tesoro e sperare – forse questa era la quarta parola che allora ti rifiutavi di pronunciare – di incontrarti al capo opposto del mondo, quando la distanza incolmabile tra me e te sarà arrivata ad abbracciare, nello spazio di una circonferenza, l’intero globo.

 

 

«Il paradosso del controllore». Il romanzo metafisico di Hidalgo Bayal

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di Mario Sammarone

paradosso-del-controllore“Il paradosso del controllore” (ed. Socrates, 2014) è un romanzo di Gonzalo Hidalgo Bayal, filologo e scrittore spagnolo, pubblicato in Spagna nel 2006 e recentemente anche in Italia – grazie all’ottima traduzione di Simonetta Nove e Daniela Simula. Un’opera metafisica, costruita su una storia non storia, dalla trama pressoché inesistente ma dalla prosa colta, lenta, perfettamente ricercata e al tempo stesso condensata in fulminanti ed algide immagini.

È una sera di novembre, una stazione senza nome, il cielo freddo di una città di frontiera. Approfittando della fermata del treno, un uomo scende sulla banchina per comprare una bottiglia d’acqua. Gesto semplice, banale, su cui non si è meditato troppo, ma che proprio per questo nasconde un pericolo oscuro e quasi mortale. La breve fila davanti alla cassa del bar, un inutile sguardo al titolo di un giornale, una parola di troppo con un forestiero, l’uomo si attarda e il treno riparte senza di lui, lasciandolo solo, senza bagaglio, senza soldi e soprattutto senza la sua identità.

E allora nella vita di quest’uomo, che si intende come fosse stata banale, monotona e sbiadita fino ad allora, irrompe un’altra vita, aliena, maligna, in cui egli si trova come imprigionato e da cui non può più uscirne. E adesso cosa potrà fare quest’uomo che è rimasto senza il suo treno? Mettersi alla ricerca del controllore che gli possa dare le informazioni su come e quando ripartire. Ma il controllore è anch’esso misteriosamente sparito: l’uomo non riesce a trovarlo, nessuno glielo sa indicare e c’è addirittura chi nega la sua esistenza.

Inizia così la peregrinatio tra la stazione e la città vicina, misteriosamente anch’essa senza nome (nulla e nessuno ha un nome in questo libro), somigliante alle nostre città ma immersa in una estraniante realtà, probabilmente simbolo della vita decaduta del nostro Occidente. Come un eroe tragico, ma che a differenza di ogni buon eroe tragico è completamente immemore del suo Eden dal quale è stato estromesso, l’eroe-antieroe di Bayal, nella sua identità diluita, amebica tra l’essere viaggiatore, forestiero e controllore ad un tempo – per ironia della sorte, proprio il controllore, deus ex machina senza volto, definirà la nuova identità di quest’uomo – è “gettato” dentro una nuova vita in cui tutto sembra senza senso. Come in una letteraria e spiazzante Via Crucis, questo povero Ecce Homo tocca tutte le stazioni della sofferenza, bussando a ogni porta in cerca di aiuto, ma ottenendo solo cinico rifiuto o, al massimo, spocchiosa futilità.

Divenuto quasi un barbone, intesse relazioni con emarginati e personaggi di vario tipo, come il venditore di cialde, una specie di mago-principe, padrone per diritto acquisito della colonna della piazza, sotto la quale vende la merce ai passanti (uno stilita del V secolo sui generis creato dalla finzione letteraria), o ancora il giovane barista della stazione, un giovane compassionevole – il solo – che offre all’uomo caffè e brioche con cui si possa sfamare.

In una realtà occulta e sotterranea, separata dalla sua vecchia vita, il presunto controllore girovaga nell’abbandono, sopportando con stoica sopportazione ogni avversità tra personaggi che inaspettatamente sembrano tutte figure tragiche, sbalzate dentro un’esistenza che scorre in un mare che va controcorrente, ma che proprio per questo Bayal riesce a imprimere loro una solennità di carattere, tipicamente spagnolo, come il mondatore di frutta che, chiuso nelle sue ossessioni, ha i tratti di un nobile Hidalgo.

Il bisogno di stabilità e ordine nel tempo quotidiano, che pareva essere smarrito dopo la perdita del treno, è comunque cercato dal controllore ripristinando nuove abitudini, come la quotidiana passeggiata verso la stazione nella eterna e beckettiana speranza di trovare un treno sul quale partire, l’incontro mattiniero con il guardiano del casello del quale diventa amico, i giri per le osterie con un ciarlatano-predicatore perso anche lui in questa città fuori dal tempo. Perché in fondo ciascuno di noi è fatto della stessa sostanza delle proprie abitudini, e cerca di ancorarsi ad esse come a uno scoglio, prima che il disordine e il caos arrivino distruggendo quella parvenza di illusioni dietro cui ci siamo trincerati con tanta fatica.

La lettura è ipnotica e ci fa aggirare in atmosfere oniriche ed iper-realiste, con questa figura del protagonista che è un esiliato, vittima e capro espiatorio. Il controllore che sceglie sempre di non scegliere, di non essere nessuno e, per questo, di volere essere il nulla e, dunque, di essere-per-il-non-essere, variazione dell’essere-per-la-morte heideggeriano, ci affascina perché non è chiuso in alcuna identità e fa provare in noi la vertigine di chi non ha nessun abito mentale.

Eppure una traccia di luce, di speranza c’è, quando alla fine lo si sente pronunciare le parole “io credo nella bontà”. Questa è la sua sentenza (e la sua condanna), estrema prova di sventurata pazienza alle prove avverse che accetta, mentre decide di continuare a vivere – ed è questa una forma, anche se non desiderata, di immortalità. Poiché, recita un detto evangelico, chi vuole salvare la propria vita la perderà, e chi vuole perderla la salverà.

Tirando le conclusioni, cosa ci racconta questo romanzo metafisico di Gonzalo Hidalgo Bayal? Che forse quest’uomo, e la città cinica e decadente in cui vive, è immagine riflessa di quell’esistenza a cui tutti noi arriviamo da una stazione senza nome, quasi per caso, ma a cui restiamo attaccati, tenacemente e fino all’ultimo giorno, cercando quel senso che talvolta sembra non esserci.

(articolo già pubblicato su La Città, il 17 marzo 2015)

Esce L’Ulisse n.18. Poetiche per il XXI secolo.

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Doug Aitken New opposition  II - 2001

L’ULISSE n. 18. Poetiche per il XXI secolo.

 

INDICE

 

Editoriale, di Stefano Salvi

 

IL DIBATTITO

IDEE DI POETICA

Fabiano Alborghetti

Gian Maria Annovi

Vincenzo Bagnoli

Restare rinchiusi, i cattivi di Maurizio Torchio

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di Matteo Moca

Dal punto di vista etimologico, la parola “cattivo” viene dal latino captivus, parola che assumeva il significato di prigioniero. Poi la lingua con il suo corso ne ha mutuato pian piano la definizione, facendole assumere il significato morale di “malvagio, perverso e disposto al male”. Si può parlare appunto di sfumature di significato, perché prigioniero diviene chi è cattivo e chi è cattivo è giusto che diventi un prigioniero. Ecco dove questo collegamento semantico trova la sua ragione di essere ed ecco da dove può quindi essere interessante partire per una riflessione su tali argomenti.

È questo quello che fa Torchio e sembra infatti questa una delle domande che la lettura si trascina: chi sono veramente i cattivi?

La storia di “Cattivi” di Maurizio Torchio è la storia di un ergastolano, un carcerato che, inizialmente condannato ad una reclusione di due anni e due mesi per il rapimento della “principessa del caffè”, durante un trasferimento uccide in cortile con trentacinque coltellate la guardia che lo sta trasferendo, trasformando la sua pena nell’ergastolo, nel “fine pena mai” rappresentato dall’inserimento nei computer della metafisica data di fine pena “99/99/9999”. Questa finta eternità sarà trascorsa dal condannato in isolamento, la prigione della prigione “perché ogni posto deve avere una prigione. Se sei già all’ospedale e ti senti male, cosa fanno? Ti mettono in terapia intensiva, che è l’ospedale dell’ospedale. Se sei in prigione e vogliono punirti è uguale: dev’esserci qualcosa. Dev’esserci sempre qualcosa da togliere, altrimenti tutto si ferma”. E una delle tante declinazioni che assume la vita in carcere è proprio quella della privazione, una privazione che però presenta una forma del tutto particolare. Quando non si ha nulla, qualsiasi cosa diviene un tesoro ed è per questo che “a volte ti danno delle cose perché ti venga paura di perderle”. È la constatazione che nulla è scontato, tutto può essere tolto (e il prigioniero di Torchio fa l’esempio dell’acqua prima delle perquisizioni, “non la comandi più della pioggia che cade fuori”) perché bisogna sempre ricordare che la vita scorre dietro una saracinesca e tra mura alte e invalicabili, non c’è libertà se non quella concessa da altri, “in un carcere che funziona, i detenuti non decidono niente”.

In esergo al testo Torchio pone una citazione tratta da “Sogno sul monte della scimmia” di Derek Walcott che recita: “Gli storpi, gli storpi. Sono gli storpi a credere nei miracoli. Sono gli schiavi a credere nella libertà”. Ma come possono i carcerati, e in particolar modo un ergastolano come il protagonista, pensare alla libertà? Fin dove si può spingere una riflessione in tal senso e a quali conclusioni può arrivare? La grandezza del libro di Torchio sta nella capacità di raccontare in maniera corale la storia di un singolo, un singolo che rappresenta tutti i prigionieri delle carceri. Il racconto di chi è in fondo, di chi vive in isolamento con la sola compagnia dei suoni che vengono dall’esterno, in un posto dove non c’è più neanche la luce (ma quando poi si vive nel buio e gli occhi sognano attraverso i colori che dietro le palpebre colano, “quando arrivano le cascate di colori, loro accendono la luce. E la lasciano accesa per sempre. Le cascate spariscono. Emerge il vuoto nella tua cella, con la lampadina blindata”); è un racconto che prende vita da una capacità di osservazione che si sublima, che porta a riconoscere i passi di chiunque cammini nel carcere, a riconoscere dall’atmosfera l’arrivo di una perquisizione o di una punizione delle guardie e che permette di riconoscere il passo dei cani nel cortile. Si crea un potenziamento dei sensi che porta a vivere in simbiosi con il carcere che sembra assumere una forma umana. Ed è grazie a tutto questo che si diventa conoscitori di tutto quello che succede e l’isolamento, nel fondo del carcere, dà la paradossale possibilità di vedere tutto quello che succede fuori da quella stanza. Così il narratore può raccontare tutto: le gerarchie e le pratiche sadiche che si svolgono tra quelle mura, le storie di Piscio e di Toro e la nuova corrente criminale rappresentata dagli Enne (“gli Enne hanno continuo bisogno di ammazzare e venire ammazzati”).

Questo diario di un prigioniero condannato all’ergastolo vive di un paradosso avvertibile alla semplice lettura: nonostante la sicurezza di una condanna al carcere fino alla morte, la prigione, con le sue dinamiche e il suo annientamento che non diviene mai totale ma che si spinge comunque fino alla sua soglia, porta sempre a pensare ad un dopo. Il pensiero, nonostante la morte del corpo fisico dei carcerati, poveri di allenamenti se non i fanatici Enne descritti dal narratore, continua a lavorare, a riscattare l’immobilità del corpo. Ed è la struttura stessa del carcere che ha bisogno di questo moto del pensiero; per continuare ad esistere il carcere deve dare la possibilità di poter pensare ad uscire ed è per questo che, seppure nella realtà non ci sono possibilità di lasciare il carcere, esso “ti costringe a continuare a pensare al dopo”. Questa fuga in avanti del cogito è ciò che porta poi il narratore a dimenticare la vita precedente, inesistente quasi del tutto all’interno del suo racconto se non per quei frangenti che riguardano il rapimento che lo ha portato in questa situazione. La mancanza di un’innocenza precedente al reato, è chiaro simbolo di un’assenza, o meglio di una

rimozione: la vita è nel carcere, non esiste nulla se non collegato ad esso e al pensiero, un giorno, di lasciarlo. In questo diario intimo l’infanzia non è mai richiamata (se non per un brevissimo accenno), né l’atmosfera di quell’età della vita. Eppure, raccogliendo il carcere tutta la vita e rinchiudendola tra quattro mura, dall’isolamento lo studio dei reclusi mostra che esiste anche un ritorno all’infanzia, nell’assurda dimensione di privilegio che si vede per esempio nei regalini, che fanno letteralmente impazzire i prigionieri: “In carcere ho visto rivolte sventate distribuendo caramelle. Giuro, caramelle: Da prigioniero hai gli sbalzi di umore dei bambini, perché qualsiasi cosa, anche la più piccola, ti occupa subito tutto il campo visivo”.

“Le persone sono fatte così. Tenere qualcuno chiuso in un posto, anche solo per un paio di mesi, colpisce la loro immaginazione. Soprattutto i poveri. Ci sono poveri che se sanno che un ricco è costretto a fare una brutta vita per un paio di mesi piangono, perché pensano che non è abituato. Piangono per le principesse. Piangono perché pensano sia importante che qualcuno viva bene dall’inizio alla fine”. Questo racconta il protagonista del romanzo di Torchio quando ricorda il rapimento ai danni del re del caffè, illustrando il suo ruolo di carceriere e il cedimento umano, di fronte ad una vita rinchiusa. Leggendo tra le righe di questa citazione, è come se l’ergastolano inserisse un messaggio dentro una bottiglia, chissà se arriverà, eppure il tentativo necessita di essere fatto: l’immaginazione di tutti viene colpita pensando a persone rinchiuse in un posto, “anche solo se per un paio di mesi”, e per chi lo è per sempre?

Questo è uno dei motivi che rende il libro di Torchio uno dei più belli mai scritti sulla condizione carceraria; con il suo stile scarno e asciutto, a tratti anche disturbante per il suo realismo, Torchio crea una narrazione che, partendo dall’osservazione di un prigioniero speciale verso gli altri prigionieri ordinari, tratteggia dall’interno un mondo intero, mostrando tutto il uso dolore e la sua incapacità di guarire.

Miti Moderni/14: esposizione

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Rinko Kawauchi
Rinko Kawauchi
Rinko Kawauchi

di Francesca Fiorletta

La devastazione che si posa, con calma, davanti. Prendi sotto braccio gli idranti e sguinzaglia i cani da alleggerimento, sono già scattate le manette, mentre fervono gli ultimi preparativi per la festa, restano blindati gli ingressi, la regressione è stupefacente, che sia chiara la nostra determinazione, nel cuore degli scontri si scambiano di fretta i vestiti, abbandonano il campo di battaglia, i giovanili concorrenti, ma la replica arriva celere, a mezzo stampa: sei uno sciacallo!

Apriti sesamo

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Musica e poesia nei luoghi d’arte della Provincia di Ancona

sesamo

Sabato 9 Maggio\ Arcevia
Galleria d’arte contemporanea

“La ricerca della bellezza”

– Cristiano Godano (Marlene Kuntz)

– Giancarlo Onorato

con Luigi Socci

Le interviste possibili: Raul Montanari

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MONTANARI

di

Bernardo Zannoni

Ho iniziato a leggere il Regno degli Amici che avevo poco da fare; tenevo il telefono staccato, non avevo appuntamenti, non volevo sentire nessuno, tantomeno me stesso.

Siccome fuori c’era anche un ottimo sole, ho pensato bene di lasciarlo a chi avesse il sorriso abbastanza facile da festeggiarlo, il silenzio di casa mia era il più bello degli amanti.

È un libro che non si perde in fronzoli, in arcuati giri di parole, dopo due pagine si viene scaraventati nella già scialba Milano degli anni ottanta e nell’arsura della sua estate, le facce dei protagonisti emergono dalle parole e ti si incollano agli occhi così come le situazioni a cui si prestano.

Ha un ritmo veloce, compatto, regolato da una punteggiatura ferrea; ogni frase lascia posto all’altra così come un capitolo incalza il seguente, si viene costretti su due binari che non possono finire che nella riga successiva e in quella dopo ancora.

Se all’inizio si vive l’esperienza dell’amicizia tra un semplice gruppo di ragazzi, il ritorno a quel mondo segreto e pieno di scoperte che è l’adolescenza, la vera polveriera del romanzo è data dal personaggio di una ragazzina. Se infatti in un primo momento mi ero trovato più tra i vortici delle mie memorie giovanili che sulla storia in sé , il libro si riprende l’attenzione del lettore con un personaggio vivo, autentico, talmente genuino per come viene descritto, per come viene fatto parlare, muovere, agire all’interno della storia, che non si può non provare le stesse emozioni dei protagonisti. Lo stesso personaggio poi sarà il medesimo che spezzerà l’equilibrio della storia, che farà precipitare la trama in una lenta e dolorosa serie di eventi, che porterà ad un finale inatteso, clamoroso, ai limiti del surreale. Montanari con questo libro si dedica per la prima volta al mondo della pubertà, e se non in maniera delicata, lo fa in un modo tutt’altro che banale.

Rispetto ai tuoi libri precedenti, nel Regno degli Amici ti dedichi interamente al mondo dell’adolescenza. Perché hai scelto di far muovere dei ragazzi nella tua storia?

 Anzitutto perché considero l’adolescenza l’età decisiva per la formazione dell’identità personale; penso che durante la pubertà ci si incontri con se stessi una volta per tutte, nasce il nostro vero Io, lo identifichiamo per la prima volta.

In secondo luogo perché è l’età metafisica: in nessun’altra stagione della vita ci poniamo domande così radicali su noi stessi, sul destino, sulla vita. Quando si è più piccoli non si ha la lucidità necessaria, mentre da adulti il nostro rapporto con il mondo è scandito da una molteplicità di minuzie che ci distraggono dal porci delle questioni fondamentali.

Per finire, l’adolescenza è anche il terreno di scontro fra l’amicizia e l’amore; la prima è basata sulla condivisione e sull’equità, il secondo invece ha una forza dirompente e si propone come sentimento di possesso esclusivo. Nel romanzo infatti, Demo vive l’amore per Valli clandestinamente, come un tradimento verso il gruppo, e questo porterà ad un evento traumatico che cambierà il tono della narrazione.

Rispetto ai personaggi e alla trama, appunto, si potrebbe definire il tuo libro come un’opera post-noir, ovvero il distaccarsi dalle figure tipiche del giallo per far vivere la storia a personaggi più ordinari. Quali sono i vantaggi di uscire da certi schemi?

 Non sento un particolare bisogno di staccarmi dalle figure del giallo, perché dopo aver pubblicato qualche romanzo noir negli anni novanta, mi sono dedicato a tutt’altro. La critica però ha insistito a definirmi sotto quest’etichetta, e allora ho coniato il termine post-noir proprio per indicare un superamento del genere.

Il giallo, come tutta la narrativa del genere, presuppone l’eccezionalità già nei personaggi (detective, assassini…) oltre a seguire schemi ben fissati (enigma-indagine-soluzione…); io racconto storie di persone normali che si ritrovano a vivere situazioni d’eccezione, dove la violenza fisica è uno dei possibili sbocchi a rapporti che oltre un certo limite diventano ingestibili. Cosa rimane del noir? Quello che storicamente l’ha preceduto: la tensione narrativa, il gusto di incollare il lettore alla pagina.

Ecco, a proposito della violenza fisica, della tensione crescente nei tuoi racconti: perché fare sfociare una trama che si evolve sulle note di un amore giovane in tragedia? Perché hai scelto di far perdere l’innocenza di Demo con il sangue, piuttosto che con la scoperta del sesso?

 Mi interessava che questa perdita dell’innocenza fosse collettiva e non individuale. Data la sua inesperienza e insicurezza, Demo vive la sessualità come qualcosa di attraente e al contempo di minaccioso, e sulla pagina il risultato di questo atteggiamento è una scrittura che rasenta il comico pur essendo legata a sentimenti profondamente personali del protagonista. Quando invece avviene il trauma è affascinante vedere la reazione del gruppo, il suo ricompattarsi intorno a quello che in fondo è il tradimento di uno di loro verso tutti gli altri. Oltre a questo ci sono dimensioni della maschilità e dell’adolescenza che sentivo il bisogno di mettere in scena: la violenza, la rabbia, il desiderio di vendetta che supera ogni calcolo delle conseguenze. Sono meccanismi narrativi che potevano scattare solo nel modo in cui ho raccontato gli eventi.

Il personaggio della ragazzina, Valli, ribalta completamente il senso dl romanzo. È una figura palpabile, viva, ammalia tanto i protagonisti quanto il lettore. Si nota che, rispetto alle descrizioni degli altri, non ti soffermi solo ai connotati e al carattere, scendi molto più in profondità. Ti sei ispirato a qualcuno? Magari ad un amore passato…

 Per la verità mi sono ispirato ad un amore presente, Valli infatti è la mia fidanzata. Naturalmente non ha l’età del personaggio del libro, anche se la prima volta che l’ho vista aveva giusto un anno di più della ninfa della Martesana; ancora oggi il suo aspetto fisico ha dei tratti adolescenziali per cui non si fa nessuna fatica ad immaginarla pescare le tinche con la rete come nel romanzo. Come dice Stevenson, è rarissimo creare un personaggio dal nulla: di solito si copia dal vero oppure si combinano elementi di più persone reali. Un’eccezione a questa regola invece è Ric Velardi, figura decisiva comparsa anche in due miei libri precedenti; non ho idea da dove sia uscito, non assomiglia a nessuno che io conosca.

Un ultima domanda allora, Raul: nei tuoi racconti ci si imbatte spesso nella tematica del destino, nel dilemma della fede e sulla probabilità dell’esistenza di un disegno superiore dal quale è impossibile sottrarsi. Qual è il tuo rapporto con questi elementi?

 Se ti riferisci a Dio, un sentimento di nostalgia. Per me, come del resto per la maggior parte delle persone, era molto più facile vivere quando avevo quella fede ingenua da bambino, che proprio all’affacciarsi nell’età di cui abbiamo parlato è crollata sotto l’attacco simultaneo dei primi dubbi intellettuali e delle tempeste ormonali. Io ho nostalgia di Dio, è un dolore indimenticabile arrivare a credere che non esista, un danno atroce. Per questo, fra l’altro, ho una speciale simpatia per chi è riuscito a mantenere questa fede anche nel mondo problematico dell’età adulta, sempre l’abbia fatto con intelligenza.

Se invece ti riferisci al destino in senso proprio, penso che lo scontrarsi del libero arbitrio con il fato sia una grande tematica narrativa, il tema topico della tragedia greca. Trovo che la narrativa sia molto superstiziosa: perfino quando il narratore, come persona, è devoto al rapporto causa effetto dell’universo newtoniano, spesso non può fare a meno di inserire nella storia anticipazioni, presagi destinati ad avverarsi, divieti la cui trasgressione conseguirà una punizione inevitabile. È normale per uno scrittore credere che esista un copione già scritto a lato delle nostre vite, perché è esattamente quello che lui crea per i suoi personaggi; non a caso in una pagina del romanzo Demo osserva: “anche i personaggi di un libro credono di essere liberi, in fondo”.

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Notebook

di

Francesco Forlani

Due tre cose che mi piacerebbe dire a proposito dell’ultimo libro di Raul Montanari

Ci sono dei libri da camera da letto, da leggere al chiuso e altri da panchina, assolutamente da sfogliare all’aperto. La cosa non dipende tanto dal contenuto, né tanto meno dalla voluminosità, quanto dal ritmo, dal passo che lo stile dell’autore porta sulla pagina. Tale andatura si associa, nella maggior parte dei casi, a una vera e propria “diagnostica” del lettore. Se alla lettura al chiuso corrisponde il campo della malattia, senza fare distinguo tra anima e corpo, dando per scontato quanto tutti sanno già della loro assoluta adesione ad una sola e unica natura, a quella all’aperto direi che si lega il terreno della convalescenza.
Ho appena finito di leggere l’ottimo romanzo, il regno degli amici, su una panchina di fronte alla Dora, e quasi immediatamente mi si sono poste due domande. La prima, da cosa derivasse una così forte attenzione da parte dei romanzieri al tema dell’adolescenza e dall’altra se si potesse definire quell’età come “dell’eterna convalescenza”. Non voglio qui riprendere le magnifiche considerazioni di “baffone” Niietzsche sul tema, ma lasciare parlare i personaggi del romanzo, intervistarli quasi, inventando domande cui gli stessi rispondessero attraverso i tic, le fobie, le ossessioni di una consorteria tutta adolescenziale. Che cosa ci raccontano loro, senza dire, nella loro mutezza e mutevolezza dei corpi di fronte ai grandi cambiamenti della storia, a una mutazione antropologica tanto inarrestabile quanto inevitabile?

Molte, tantissime cose che la sincerità della narrazione, il rigore mimetico dell’autore, offrono al lettore attraverso un uso intelligente della composizione, l’alternarsi dei fatti con la loro elaborazione che l’io narrante inscena senza mai cadere nella tentazione dell’onnipotenza di tanti narratori odierni. C’è un luogo, la casa abbandonata, un tempo, l’estate dell’82, una storia che è quella di un ristretto circolo di sognatori costretti al risveglio da incubi che l’irrazionale violenza del male riserva loro mettendo a dura prova ogni più autentica purezza. Perfino l’anima sanguina in queste pagine, nelle rêverie dei protagonisti, come quando ai ragazzi sanguina spesso il naso, ma si diverte anche, inventa ipotesi di cielo pure quando tutto sembra avvolto nel mistero, nel buio senza stelle. Nella convalescenza c’è innanzitutto il ricordo della malattia, la paura delle ricadute, la ripetizione dell’esperienza del dolore e come ognuno di noi sa, la trappola mortale è non capire fino in fondo quanto l’epoca della malattia possa alla fine rivelarsi come la più breve e intensa parentesi di autentica felicità.

 

Al lavoro

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La mappa

di Davide Orecchio

I – RICORDARE IL LAVORO

Qualche anno fa. Anzi molti anni fa. Anzi moltissimi. Insomma nel 2003. Mi trovavo in Molise. Nelle campagne di quella regione piccola. A poca distanza da Campobasso. Condotto a borghi terremotati da strade avvolte come cime. Sorvegliato da eserciti di pale eoliche. Spinto verso storie escoriate, crepe sulle mura delle chiese, campanili in frantumi, case butterate; a comunità sfollate e in lutto. Pochi mesi prima, nel sisma del 2002, era crollata persino una scuola. Decine di ragazzi erano morti.

Qualche anno fa. Anzi molti anni fa. Anzi moltissimi.

Non sembrava un’epoca felice. Eppure indossavo le scarpe da ginnastica! E la felpa comoda, ed ero leggero, perché avevo dodici anni di meno. Questo lo penso adesso che sono pesante, che ero leggero. Invece allora non so cosa pensavo. Non so chi pensavo di essere, né quale peso mi attribuissi. Forse non mi attribuivo una consistenza ma un movimento. Non ero mica tanto giovane. Non ero mica tanto vecchio. Però andavo.

Avevo carta, penne, un registratore. Il sindacato di là mi aveva assegnato l’agiografia di un vecchio dirigente locale, Nicola Crapsi (1899-1965), così amato dalla sua gente da sopravvivere in un quadro: lo espongono come un santo laico ogni Primo di maggio nel corteo che attraversa il suo paese di origine, Santa Croce di Magliano. Lo portavano, lo portano, lo porteranno per sempre lungo le strade del paese, quand’è il Primo maggio.

1 maggio 2003 a Santa Croce. Quello nel cerchio giallo sono io (foto di Giacomo Barberio, santacroceonline.com)
1 maggio 2003 a Santa Croce. Quello nel cerchio giallo sono io (foto di Giacomo Barberio, santacroceonline.com)

Che storia incredibile. Nicola Crapsi come un santo! Io poi la sua vita non l’ho scritta proprio come mi avevano chiesto di scriverla. Ma questa è un’altra storia. Qui invece la storia è che quella primavera del moltissimo – dall’odierno me – lontano 2003 incontrai un grappolo accorante, coriaceo, moribondo e vitale di vecchi vecchissimi. Contadini, braccianti, ottuagenari, centenari: i testimoni; custodi di scioperi alla rovescia, occupazioni di feudi e latifondi, scaramucce coi fascisti…

Ometterò nomi e cognomi, con una sola eccezione. Temo che siano tutti morti. Spero di no. Erano malati nelle loro scoppole, sui loro bastoni, tra le flanelle che li coprivano e io ad adorarli, assai conquistato dalla vita, mi deprimevo pure, però, al pensiero che stessero finendo, questi partecipi della legione che mi si mostrava, gli ometti del Novecento, il popolo di ieri.

Il primo che mi parlò, e l’unico che nomino, era stato sindaco di Santa Croce. Aveva 93 anni. Flaviano Iantomasi.

Dai miei appunti di allora:

«È il più vecchio di tutti. Il viso più bello di tutti: radioso, tra le rughe, e gli occhi sempre lucidi (nel senso di coscienti). Mi offre un ovetto di cioccolata e succo di frutta. Sediamo al tavolo. La moglie, minuscola e vestita di nero, circola attorno. Iantomasi mi mostra la sua “biblioteca”. Sale al piano di sopra per prendere il libro di D’Ambrosio. Piange al ricordo del funerale di Crapsi: la donna che venne da Casacalenda per piangere Crapsi».

Iantomasi aveva dettato un manoscritto di memorie: Il mercato della carne umana. Ricostruiva la vita bracciantile e i rapporti di forza nella campagna di Santa Croce del primo Novecento. Qui ne allego qualche immagine:

I braccianti: un mercato di carne umana si allestisce a Santa Croce ogni otto di settembre, dove in piazze e «bettole» «tra un bicchiere di vino e l’altro» padroni e chi si offre raggiungono «il costo di una vita per un anno di lavoro». «Lamerce che stava invendita erano uomini adulti tutti qualificati per ogni specie di lavoro in agricoltura e pastorizia» e poi ragazzi dai sette ai sedici, «mercia messa sul mercato» dal prezzo stabilito a strette di mano. «Chi comprava la mercia messa sulmercato per un anno erano i proprietari terriere opure gli affittuarie di terreni seminativi e pascoli. Per stabbilire il prezzo di una vita umana per un anno intero 24 ore su 24 […] avveniva un faccia a faccia […] Non si facevano scritture bastava la presenza di uno o due testimoni […] La sunzione effettiva si faceva il giorno nove settembre alle ore 6 si presentavano per prendere consegna del proprio lavoro che avevano trattati per poi raggiungere la zienta in campagna…»

Ma i diritti erano pochi:

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***

Poi Iantomasi mi raccontò del Secondo dopoguerra (questa e altre trascrizioni sono grezze):
D: Mi hanno parlato dei cantieri-scuola. Cos’erano?
Iantomasi: Sempre una cosa che solo i mesi di inverno…
D: Ah, i cantieri-scuola erano una forma di sopravvivenza durante l’inverno!
Iantomasi: Sì.
D: E furono ottenuti dopo gli scioperi alla rovescia?
Iantomasi: Sì. Poi siamo passati a costruire delle strade interpoderali con quel lavoro del cantiere.
D: Cioè tra un podere e l’altro?
Iantomasi: La contrada che aveva una strada di campagna e si cercava di… bianca si faceva allora, con la breccia.
D: Grazie al cantiere-scuola.
Iantomasi: Sì. E proprio in quello di Melanico che è stato portato dal bivio di Piana Moscato fino alla proprietà di Piccirilli, proprietario che non era di Santa Croce ma foggiano.

***

Un’altra testimonianza

X: Sì, sì, figurati. Nel dopoguerra lavoro non ce ne stava, la fame ci stava, gente che aveva mogli e figli e non aveva lavoro, un macello. E dietro le lotte che abbiamo condotto noi, sai quante volte sono venuti a Roma con le corriere? Scioperi per tante cose. Io facevo due corriere per venire a Roma per fare le manifestazioni. Quindi non è che siamo stati fermi qua, siamo stati sempre scioperanti. Di Santa Croce avevano paura. Basta che dicevi Santa Croce e avevano paura.

***

Ancora dai miei appunti:

«V.: Influenzato. Sordo. Seduto al tavolo del tinello. La paura di non comprendere le mie domande. Mi si è avvicinato più volte. Ma le risposte, e i racconti, le rivolgeva al mio accompagnatore, non a me: timido, intimidito. Tocca il registratore (anche altri l’hanno fatto). Vive in un edificio moderno, molto alto, più alto della media a S.Croce. I bambini di là che studiano. La figlia e la moglie insieme a noi nel tinello».

«M.: un viaggio nella deprivazione della vecchiaia. Deprivazione di arti: entrambe le gambe amputate da 15 giorni (diabete, problemi di circolazione). La moglie anche a letto non si può muovere. Ma è lucido. Socialista da sempre, ha una copia dell’Avanti sul tavolo, quella del Primo maggio (30 aprile). Ha preso appunti sul Primo maggio. Mi offre un caffè e parla dei suoi mali».

«C.: il più intelligente e cattivo di tutti. “Non può registrare, deve scrivere”. Ha capito fino in fondo la storia del partito. Divora noccioline mentre racconta. “Faccia altre domande, abbiamo tempo”. “Funziono dall’ombelico in su”: gli hanno messo un bypass all’altezza del bacino».

***

Cosa mi disse M.

M: Io ho sempre un po’ lamentato veramente, anche quando stavo in attività, che di questo benedetto Primo maggio tutto si sa fuorché che cosa rappresenti. Per esempio, se io vado a chiedere a un giovane, i miei nipoti per esempio, figli di mio figlio, ditemi qualcosa del Primo maggio. Nonno, che ne sapete te e il Primo maggio. Non so se ho reso l’idea. E secondo me non va bene perché la storia è storia, la storia deve avere una continuità anche se aggiornata perché certo non possiamo rifarci all’epoca dei martiri di Chicago che hanno creato il Primo maggio, però io credo che parte di quel Primo maggio deve esistere nella continuità della storia. Adesso è proprio completamente dimenticata, non se ne parla più per niente.
D: Ai giovani non interessa?
M: Assolutamente no. Io veramente l’ho sempre lamentato, e io credo che siano inutili le feste e le festarelle. Sì, le feste e le festarelle vanno bene, però fin quando non creiamo sul vero senso della parola un sistema di sicurezza sociale che va, come diceva Pietro Nenni, dalla culla alla tomba, noi non abbiamo risolto i problemi sociali nel nostro paese perché ci troviamo sempre di fronte la disoccupazione, l’occupazione fittizia, il precariato, ma non abbiamo una stabilità…

***

Qualche anno fa. Anzi molti anni fa. Anzi moltissimi.

Il corteo del Primo maggio uscì da Santa Croce e prese la strada per San Giuliano di Puglia: lì, nel baraccamento, dopo la forra, dopo i licustri, dopo la morte di ventisei bambini e una maestra, si tenne il comizio e il pranzo della festa. In un prato conversai con una giovane donna. Parlammo di Roma, dove lei aveva studiato. Parlammo del terremoto. Mi sembrò che il terremoto le avesse lasciato sulla gota un solco simile agli squarci che non riuscivano a deturpare la bellezza di chiese antiche, edifici rustici, municipi. Una ruga che avrebbe voluto essere uno sfregio, e aveva fallito. Quella bella giovane donna mi disse che uno dei ventisei bambini morti era suo figlio.

***

II – TROVARE UN LAVORO

Trovare, offrire, cercare un lavoro. Tutti verbi legati al desiderio. O al bisogno. Ma oggi cosa desideriamo? Di cosa abbiamo bisogno? Quel viaggio molisano nel ricordo del Lavoro, quella rammemorazione del Novecento, fu anche un tour tra assi cartesiani, nello strumentario: conflitto, associazione, partito, sindacato, liderazgo, pensioni, direzione, progresso.

Qui lo strumentario è appassito. Ma davanti non c’è nulla. Oggi in Italia il 40% dei giovani non lavora. E chi lavora, come Giulia (neolaureata al Dams, inserita nel progetto europeo Garanzia Giovani, una sorta di apprendistato e avviamento al mondo del lavoro), è piuttosto una vittima:

«Lavoro 8 ore al giorno – racconta a rassegna.it (qui l’articolo integrale) –, sto in ufficio dalle 9 alle 17, vengo pagata 500 euro al mese. Il pagamento però arriva ogni due mesi. Dicono che il mio è un tirocinio formativo: ma lavoro dalla mattina alla sera, non ho tempo per fare altro. A me sembra un lavoro vero. […] A ottobre ho avuto un colloquio con una cooperativa di Roma che si occupa di turismo. Poi mi hanno richiamato: ‘Ti prendiamo ma devi iscriverti a Garanzia giovani’, hanno detto. Così la Regione Lazio paga 400 euro al mese, l’azienda ci mette 100 euro e ricevo il mio stipendio. […] Lo stipendio ufficialmente viene pagato ogni due mesi dalla Regione, tramite l’Inps. Io lavoro due mesi, finito il bimestre mando per raccomandata alla Regione una serie di documenti, in cui certifico che ho svolto quel monte di ore. Poi aspetto che mi arrivi a casa un assegno postale. Questo ci mette un’altra ventina di giorni. Infine devo andare alle Poste per incassare l’assegno. […] Pago l’abbonamento dell’autobus, mi preparo il pranzo a casa per non comprarlo fuori. Sto spendendo molti più soldi di quando non lavoravo, ne ho di meno visto che non sono passati 80 giorni e ancora non mi hanno pagato. Per ora lavorare è solo un costo».

Questo post esce il Primo maggio. Che non si dovrebbe lavorare. Questo post è a modo suo uno sciopero alla rovescia. E, come tutti gli scioperi, esprime un desiderio: reddito minimo di cittadinanza.

Un'offerta di lavoro nell'ambito di Garanzia Giovani
Un’offerta di lavoro nell’ambito di Garanzia Giovani

Qualche settimana fa sono tornato nel mio ex liceo, dove c’era da spiegare il “mestiere di scrivere” agli studenti del penultimo anno, quelli che devono orientarsi al “dopo di qui” per l’università. Un’intera mattinata nell’aula magna. Ha parlato una giornalista, e ha spiegato il suo mestiere di scrivere. Poi ha parlato uno sceneggiatore, e ha spiegato il suo mestiere di scrivere: per gli sceneggiatori è un momento buono – ha detto –, si producono molte serie tv, la qualità aumenta, gli investimenti anche.

Quand’è toccato a me, io non sono stato bravo. Cioè, io lo sapevo che non potevo essere bravo. Cioè, io non volevo neppure essere bravo. Insomma, quale mestiere? Le attività degli altri due “docenti” hanno una dimensione economica; la mia no (non abbastanza). Scrivo questo e quest’altro, ho fatto un po’ di questo e un po’ di quest’altro, ma alla fin fine, cari ragazzi, se proprio v’interessa il mio sentiero, la prima cosa da fare è:

TROVARE UN LAVORO
CERCARE UN LAVORO
trovare un Lavoro qualsiasi
sì, Cercare, e troVare, un LaVoRo.
[e se vi dicono che il lavoro non c’è, sputategli nell’occhio]

Mentre parlavo mi deprimevo perché li deprimevo, e scoraggiandoli mi scoraggiavo. Ma vacci tu a raccontare cazzate ai ragazzi di 16 anni. Come fai a raccontare cazzate a uno studente? Bisogna essere proprio cinici, no? Dunque non ero positivo, non ero ottimista. A un certo punto (il più basso) gli ho anche detto che Carver faceva il taglialegna in un posto che si chiama Eureka.

Allora uno studente s’è alzato e m’ha rimproverato:

«Io non capisco. Lei non è stato incoraggiante. Noi abbiamo bisogno di fiducia. Dobbiamo scegliere. Lei non ci dà fiducia».

Aveva individuato l’anello debole. Questo era OK. Questo vuol dire che io ero stato OK. Perché il mio compito era proprio mostrare l’anello debole, cioè io [sic], che ero lì per non diseducare, per non illudere.

A casa mi chiesero: beh, com’è andata?

E io [sic]: ho fatto schifo.

Poi il tempo è passato; e si dimentica.

Fino a oggi.

Oggi m’è arrivata questa notizia: il figlio di una conoscente frequenta il mio ex liceo, e ha raccontato alla madre di aver partecipato con la sua classe a un incontro sul mestiere di scrivere, qualche settimana fa. C’erano uno sceneggiatore, una giornalista e uno scrittore. Sostiene il ragazzo che lo scrittore gli è piaciuto:

«Ci ha detto che dobbiamo trovare un lavoro».

Il solito dittatore
Il solito dittatore

III – UN SOGNO DI PASQUA

Questa notte, dalla quale apro gli occhi, ho sognato che una sedicente regista filmava un documentario sui miei luoghi; mostrava un bosco ripariale lungo l’ansa di un fiume; sabbia, ghiaia e depositi di argilla denunciavano una valle fluviale; un sentiero era contornato da pioppi bianchi, roverelle, cerri, alberi di Giuda dalle fioriture violacee. Lungo il sentiero passa una carrozza. È lentissima e il suo portamento ricorda la discesa del secchio in un pozzo. Dondola in silenzio. Tardi raggiungerà la prossima stazione, dove ci si confronta col dolore. Nelle sue tappe colleziona giorni di pioggia, bare, smacchi, malattie, divorzi, fallimenti. Ha ruote di legno cigolante, solo tre: una davanti e due dietro. Il cocchiere è un manichino nudo nel legno con la testa calva e forata sulla teca e l’onda dei seni visibile. Il cavallo non c’è, le briglie strisciano per terra davanti al cocchio e lo tirano. Mai stato laggiù, dove non c’era nulla di mio. Eppure la regista veniva a incassare. Inviava un contratto sulle cui pagine, molte, leggevo le mie firme, e nel quale m’impegnavo a versare novecentomila euro in mille rate da novecento.

Quel bosco era forse il Novecento?

Chiedo consiglio a mia madre, opportunamente resuscitata per il sogno di Pasqua: «Che faccio? È un furto. Non dovrò mica pagare?». E lei, già arresa: «Paga le prime rate, poi vedremo». «Ma come? Ma cosa dici!» «Devi pagare, Davide, è la tua vita».

Poi il sogno deviò in questioni di rabbia presente, nella veglia della contingenza e la coscienza era uno scivolo, oppure scivolavo verso la coscienza e affiorava una protesta ad alta voce e solo la fata del rispetto notturno, della pastiera infornata, della pioggia sussurrata, del letto incorniciato, del cuscino saldato, della veilleuse fredda, del libro chiuso, dell’acqua immobile, dell’armadio sedato, del bambù assopito, fu in grado di pronunciare le parole giuste per chiudere.

***

IV – LETTERA DI PRESENTAZIONE

Gentile Dottore,

voglia prendere in esame la mia offerta di collaborazione. Come potrà leggere nel curriculum Europass che Le allego, al momento esercito nel settore dei peraccotai. Sì, c’è scritto “peracottaro” (al Settore). Tuttavia l’attività che più amo e so svolgere è vendere il ghiaccio, che smercio in primavera e d’estate. Ma quando viene l’autunno, e poi l’inverno, a nessuno più serve il mio ghiaccio; per questo nei mesi freddi io vendo le pere cotte e le mele. Ad ogni modo col primo caldo o tepore io torno al ghiaccio, che è la mia vera passione; difatti ho condotto per anni un esercizio, anche, di grattacheccaro (veda sempre il curriculum alla pagina due). Ora però – e vengo alla ragione del mio scriverLe – sento crescere in me un desiderio di cambiamento. Lei penserà: «Non è ragionevole! Se ama tanto il ghiaccio, perché cambiare mestiere o anche solo desiderarlo?». Il fatto è che la realtà non solo circonda come una cornice me e Lei, gentile Dottore, ma ci modifica e bagna come un mare forte e profondo; e ne veniamo su umidi, asciutti mai più.

Così mi succede di voler cambiare, seppure io ami il ghiaccio e non odii le pere, gentile Dottore, perché il tempo mio e Suo è di innovazioni e rottamazioni. Mi spinge il vento del modificarsi, più forte di me, con le sue leggi che il Governo impone e le Camere approvano (m’informo anch’io) e che non m’ispirano alcuna fiducia (al contrario, diffidenza e terrore) e assieme m’ipnotizzano e costringono a essere nuovo, forse diverso, meno felice. Ma no, cosa c’entra l’infelicità? Non cancello la riga soprascritta giusto per la schiettezza e sincerità che Le voglio, Dottore; ma io sarò felice, non ho dubbi, e sono ben consapevole d’essere felice di voler cambiare, al di là della legge, non ostanti le norme. Dunque eccomi a Lei col mio desiderio di lasciarmi il ghiaccio alle spalle, e la frutta matura. Spero che Lei saprà cogliere, gentile Dottore, una scintilla delle mie capacità, un piccolo lampo delle possibilità mie nel CV Europass che Le allego.

Con stima e cordialità, e in attesa di un riscontro Suo, La saluto (per questa sera e per sempre).

Le belle di Maggio

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L’Abécédaire de Gilles Deleuze: E comme Enfance

“A proposito di ferie pagate mi ricordo la spiaggia di Deauville il primo anno delle ferie pagate. Uno spettacolo che per un regista di cinema doveva essere un capolavoro, con tutta questa gente che vedeva il mare per la prima volta, è prodigioso. Ho visto qualcuno che vedeva il mare per la prima volta nella sua vita. È splendido. Era una ragazzina della regione di Limousin, era con noi. Se c’è una cosa di inimmaginabile quando non la si è vista è proprio il mare. Si può dire il mare è qualcosa di grandioso, di infinito, e non vuol dire niente. Ma quando vedi il mare… e quella ragazza è rimasta 4 o 5 ore davanti al mare, completamente inebetita come un’idiota dalla nascita, e non smetteva di guardare uno spettacolo così sublime e così grandioso.

La spiaggia di Deauville era sempre stata riservata ai borghesi, era loro proprietà. Quando sono arrivate le ferie pagate e la gente che non aveva mai visto il mare… è stato grandioso. Se l’odio di classe vuol dire qualcosa… mia madre che pure era la migliore delle donne parlava dell’impossibilità di stare su una spiaggia con della gente così. Era dura. Il maggio ’68 non è stato niente in confronto!

La paura, non si poteva fermare tutto questo. Se si davano le vacanze agli operai scomparivano tutti i privilegi borghesi. Un manovale che veniva sulla spiaggia era come il ritorno dei dinosauri. Come un’aggressione. Era peggio dei tedeschi.

Quello che succedeva nelle fabbriche i padroni non lo hanno mai dimenticato. Credo che abbiano ancora una paura ereditaria. Più spaventoso del ’68 che pure ha fatto paura e ancora ne fa.

Quindi dicevo siamo rimasti con mio fratello a Deauville ed è allora che ho smesso d’essere un idiota.”

 

https://youtu.be/DR7lYynyCDA

Le culture del precariato

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di Silvia Contarini

“Pensare il precariato e le differenze nell’Italia della globalizzazione”9788897522973

L’articolo è incluso nel volume Le culture del precariato. Pensiero, azione, narrazione, a cura di Silvia Contarini, Monica Jansen e Stefania Ricciardi, Verona, ombre corte, 2015.

 

Questo nostro saggio intende contribuire a pensare l’interazione tra precariato e differenze, con riferimento specifico alla situazione italiana attuale. Procederemo per giustapposizione di problematiche allo scopo di mostrare come una riflessione sul precariato non possa ignorare fattori quali l’appartenenza sessuale, la questione razziale e il fenomeno migratorio: “La precarietà della condizione salariale riguarda alcuni gruppi sociali più di altri: le donne e gli immigrati, a cui generalmente erano riservati settori specifici nel mercato del lavoro, sono generalmente i più colpiti. Sessismo e razzismo si combinano infatti […] per mantenere una parte della popolazione in posizioni subordinate nel mercato del lavoro”[1].

Premettiamo che su questi temi si interrogano da anni femministe di orientamenti diversi, tra cui quelle che fanno capo al cosiddetto femminismo postcoloniale, come Talpade Mohanti, che riflette sulle “connessioni esistenti tra strutture sessiste, razziste e classiste a livello internazionale” nonché sul “lavoro da donne”[2]. Anche il femminismo italiano si interessa alle nuove configurazioni e accezioni del “lavoro femminile” in connessione con precariato e migrazioni, nel più generale contesto della globalizzazione e della decolonizzazione[3].

  1. Somali a Roma

Nel suo romanzo Madre piccola, Cristina Ali Farah, scrittrice di madre italiana e padre somalo, vissuta fino a diciotto anni a Mogadiscio poi fuggita in Italia a causa della guerra civile, racconta le vicissitudini della diaspora somala, in particolare della comunità romana. Una delle protagoniste, Barni, da anni immigrata a Roma e piuttosto felice di viverci, di professione ostetrica, così commenta la situazione: “In fondo per noi donne è molto più semplice, non è forse vero che facciamo la stessa vita ovunque ci troviamo? Non continuiamo forse a occuparci, a prenderci cura di qualcuno?”[4]. Barni afferma insomma che uomini e donne non vivono l’e/im/migrazione nello stesso modo, le donne si adattano meglio grazie a un’atavica abitudine al sacrificio di sé e alla dedizione; inoltre, il tipo di attività che esse svolgevano in patria (lavori domestici o di cura) è lo stesso nel nuovo paese di residenza. Questo succede nella fiction romanzesca[5], come nella realtà: Nuruddin Farah, scrittore somalo di lingua inglese, descrive una situazione simile in Rifugiati, Voci della diaspora somala[6], un libro composto da riflessioni personali e interviste a somali in diaspora. Come un leit motif, le donne somale intervistate gli raccontano che sono costrette a lavorare per mantenere mariti, figli, fratelli, cugini; tuttavia così si emancipano e si integrano e perciò “se la passano meglio degli uomini” o addirittura “stanno godendo di un certo successo economico”[7]; gli uomini, invece, non si abbassano a fare lavori umilianti, e bighellonano nei luoghi di ritrovo comunitari, restano tra loro, e “per sopravvivere, contano esclusivamente sul sudore delle donne, piuttosto che su quello della propria fronte”[8]. C’è di più: benché alla fine dipendano dalle donne, gli uomini continuano a considerarle loro subordinate e pretendono di essere serviti. Dice una somala che ospita numerosi “ragazzi” della sua famiglia:

“Pur essendo padrona di me stessa, non sempre riesco a mantenere il controllo sulle cose […]. Io indosso la veste di donna di servizio sei giorni a settimana, per guadagnare da vivere, e il mio stipendio mi serve per dare da mangiare a degli uomini che pretenderebbero fossi io a mettere in ordine il loro caos, dopo che ritorno a casa mia. In quanto donna, sono perennemente soggetta a recriminazioni e rimproveri, se non servo gli uomini in tutto e per tutto”[9].

 

Va subito osservato che questi comportamenti maschili e femminili, lungi dall’essere imputabili a una cultura specifica somala, riproducono strutture patriarcali dominanti su scala transnazionale. Ma va osservato anche che alle donne immigrate, doppiamente subordinate, vengono doppiamente assegnati lavori di domesticità, di cura. Il cosiddetto fenomeno delle domestiche della globalizzazione, già oggetto di studi[10], assume particolare rilievo in Italia[11] dove l’immigrazione fin dagli anni Novanta è caratterizzata da una forte presenza femminile, spiegabile in gran parte con l’invecchiamento della popolazione e le carenze del welfare[12]. Le donne immigrate sono dedite in grandissima maggioranza a tre attività: lavori domestici o di assistenza familiare (colf, badanti, infermiere, etc.), lavoro casalingo (donne arrivate per ricongiungimento familiare), lavoro nell’industria del sesso (il commercio sessuale è svolto in percentuali superiori all’ottanta per cento da immigrate)[13]. Le immigrate rimangono quindi confinate a lavori di cura e di prostituzione, ossia attività convenzionalmente femminili. Si osservi anche il divario che si instaura tra le donne italiane, che svolgono fuori casa attività socialmente riconosciute, e le donne immigrate, che le sostituiscono nei lavori domestici: l’emancipazione delle une si fa grazie al mantenimento delle altre in ruoli subordinati[14]. Secondo i punti di vista, alcuni notano che in questo modo due donne lavorano, altri che due madri non si occupano dei propri figli…

Un’ulteriore osservazione va a rimarcare che il lavoro di cura diventa fonte di reddito: se tra le immigrate si perpetuano ruoli di genere tradizionali, il lavoro, sia pure quello domestico, umile e precario, rappresenta un momento di autodeterminazione e uno strumento di autonomia economica; di conseguenza, l’immigrazione crea una possibilità di svincolo dalle strutture familiari e dalla cerchia comunitaria, crea una possibilità di transizione da una condizione, certo stabile ma ancestrale e fissa, a un’altra certo precaria ma autonoma e in movimento. E, come nota Campani, “il cambiamento di ruoli tra uomini e donne, nei più recenti flussi migratori, è percepito all’interno dei gruppi immigrati e non manca di provocare tensioni, crisi, difficoltà”[15].

Un’ultima osservazione, trattandosi nel caso preso in esame di immigrazione dalla Somalia, riguarda il fattore postcoloniale, poiché le eredità del colonialismo “hanno giocato un ruolo fondamentale nel controllo, nella etnicizzazione e nella discriminazione delle donne migranti nell’Italia contemporanea”, afferma Sabrina Marchetti nel suo recente Le ragazze di Asmara. Lavoro domestico e migrazione postcoloniale[16], libro dedicato all’immigrazione femminile in provenienza da un’altra ex-colonia, l’Eritrea. Marchetti si interroga sulle relazioni tra soggettività migrante postcoloniale, lavoro domestico e di cura, e storia del colonialismo e della decolonizzazione; come suggerisce, si potrebbe vedere nelle colf e badanti del corno d’Africa oggi in Italia una variante neo-coloniale delle donne a servizio nelle famiglie italiani ai tempi del colonialismo. Anche su questo punto, la fiction fornisce rappresentazioni suggestive; basti pensare al romanzo Regina di fiori e di perle, dell’italo-etiope Gabriella Ghermandi, nel quale leggiamo la storia di Woizero Bekelech: era meno sfruttata quando lavorava come domestica in una famiglia italiana di Addis Abeba, di quanto lo sia ora che fa la badante in un paesino emiliano, presso una famiglia che le fa subire anche umiliazioni di stampo razzista e colonialista[17].

  1. Femminilizzazione del lavoro

Queste osservazioni, che pertengono alla questione del precariato in rapporto a immigrazione e genere, ci hanno permesso di entrare in materia. In una prospettiva diversa, focalizzata sulla valorizzazione del care, si situa invece il recente saggio di Cristina Morini, Per amore o per forza. Femminilizzazione del lavoro e biopolitiche del corpo, pubblicato con una prefazione di Judith Revel nella collana UniNomade di ombre corte[18]. Morini sviluppa diverse osservazioni sulle donne e il care labour, i lavori di cura alle persone, formulando la proposta originale di incrociare i due concetti di differenza e precarietà, per definire la condizione del soggetto precario-differente, un soggetto multiplo, dice, senza identità fissa né sostanza stabile, soggetto transitorio e in trasformazione[19]. Nel primo capitolo intitolato Razza precaria, Morini spiega che la transizione è lo status comune del soggetto contemporaneo, e perciò occorre far leva sull’alterità piuttosto che sull’identità[20]. Precisa però che il concetto di differenza è di per sé insufficiente per spiegare le trasformazioni del mondo del lavoro, in particolare la sua femminilizzazione. Nel secondo capitolo, intitolato appunto La femminilizzazione del lavoro nel capitalismo cognitivo, Morini precisa che per femminilizzazione intende non tanto un aumento quantitativo della popolazione attiva femminile[21], quanto piuttosto una modificazione qualitativa del lavoro contemporaneo, di cui il lavoro femminile diventa paradigma: le condizioni normalmente riservate alle donne (assoggettamento, precarietà, bassi livelli salariali, disvalore sociale) si estendono agli uomini; nel contempo, la manodopera a basso costo, flessibile, ricattabile, ricercata a livello mondiale con le delocalizzazioni, si trova anche in loco, in Occidente, grazie alla presenza sul mercato di donne e immigrati. Infine, per femminilizzazione del lavoro intende anche l’estensione del care labour, concetto inclusivo del cognitive labour, in correlazione al disfacimento di un sistema welfare che assicura sempre meno prestazioni sociali.

Nel seguito del saggio, Morini riporta una sua inchiesta di terreno, condotta a Milano, tra lavoratori della conoscenza precari (giornalisti free lance). Ora, a nostra sorpresa, le interviste di Morini danno risultati curiosamente simili a quelli delle interviste alla comunità somala condotte da Nuruddin Farah. Le giornaliste italiane free lance, come le immigrate somale, confrontate a una nuova situazione, hanno maggiore capacità di adattamento degli uomini, i quali “mostrano più difficoltà ad adattarsi alle nuove dimensioni polivalenti e qualitative richieste dalla nuova impresa nel nuovo mondo”[22]. Questa dimensione polivalente e qualitativa introdotta dalla femminilizzazione del lavoro includerebbe una generalizzazione dell’oblatività, ossia la richiesta di totale disponibilità e dedizione da parte del soggetto. Ne traiamo la seguente conclusione: proprio la capacità di adeguarsi e consacrare se stesse che rende le donne appetibili per il mercato del lavoro, rende il lavoro non più appetibile a chi non voglia adattarsi e dedicarsi, ossia femminilizzarsi… Insomma, il mondo del lavoro attuale richiede requisiti (sacrificio di sé, disponibilità totale, predisposizione alla cura) di cui le donne si avvarrebbero senza sentirsi svalorizzate, o perché già tali.

Il saggio di Morini indurrebbe a osservare che la precarietà sembra contribuire alla de/ricostruzione identitaria, degenerizzando il lavoro; in altri termini, la precarietà andrebbe contro la dicotomia, anche fordista, uomo/donna, produzione/riproduzione; il lavoro oggi andrebbe “oltre il genere”, oltre la classica divisione sessuale del lavoro[23]. Ne consegue, per Morini, che uomini e donne, entrambi precarizzati nel mondo globalizzato, subiscono le stesse condizioni e devono portare avanti la stessa lotta e le stesse rivendicazioni; per esempio, nell’immediato, la richiesta di un basic income (reddito garantito), il quale permetterebbe il recupero dell’autonomia del soggetto, l’autodeterminazione, il diritto alla scelta del lavoro. Un’ulteriore affermazione di Morini si pone sotto il segno della volontà di cambiamento: rivalutare e riappropriarsi del care può indicare “un fare comune”, la costruzione di un modo diverso di pensare e vivere nel mondo[24].

Sebbene le analisi proposte da Morini siano stimolanti e individuino con precisione molti nodi problematici, né l’una né l’altra delle conseguenze che ne trae sono del tutto convincenti, e anzi sollevano perplessità. Nell’affermare che nel mondo globalizzato e precarizzato donne e uomini, italiani e immigrati, bianchi e neri, subiscono le stesse condizioni, si appiattiscono proprio quelle differenze poste inizialmente alla base della riflessione sul soggetto precario-differente; e l’invito di unirsi rivolto ai precari rischia di riattualizzare la vecchia diatriba sulla priorità della rivoluzione di classe rispetto ai movimenti di liberazione. Ma le maggiori perplessità vengono dall’altra conclusione di Morini, l’incoraggiamento a rivalutare il care, ossia il prendersi cura degli altri, prerogativa culturalmente e storicamente assegnata al genere femminile, per farne la base di un nuovo modo di vivere comune, senza interrogarsi sul fatto che così si estenderebbero agli uomini (o piuttosto, a certi uomini, disoccupati, immigrati) i valori su cui si è costruita nei secoli la condizione di assoggettamento e sottomissione delle donne. Noi non saremmo così sicuri che il sacrificio di sé, l’oblatività, la domesticità, il curare anziani, malati e bambini, la mutua assistenza siano le migliori fondamenta per un cambiamento positivo.

  1. Connessioni precarie

Alle lotte contro il precariato sono dedicati diversi siti e progetti[25], ma di connessione tra differenze e precariato, con attenzione specifica ai fenomeni migratori e alle problematiche di genere, si parla soprattutto su connessioniprecarie.org, un sito fondato da precari e migranti, ricco di materiali a carattere politico, sociale e culturale, condivisibili o meno. La dichiarazione di intenti che figura in home page è particolarmente interessante; leggiamo: “∫connessioni precarie è un’area di uomini e donne, precari e non, migranti e italiani che hanno assunto come motivo centrale del proprio intervento la condizione globale e complessiva del lavoro contemporaneo. La nostra scommessa è quella di rompere l’isolamento dei lavoratori e delle lavoratrici a partire dalle differenze che li dividono. Si tratta di portare alla luce il legame globale tra le figure della precarietà”. Un “legame globale” personificato dai migranti, “il pezzo di globalizzazione soggettivamente presente in Italia e in Europa”[26], così definiti in un altro articolo, dedicato al basic income, la cui attribuzione, secondo gli autori, vedrebbe opposti lavoratori precari italiani e immigrati con difficoltà di regolarizzazione.

I fondatori e animatori di questo sito ritengono quindi che le diverse forme di precarietà e le diverse lotte non vadano pensate al di là delle specificità, ma proprio a partire da queste. Leggiamo, in un altro editoriale, che “il lavoro è sempre più frammentato, solcato da differenze e gerarchie che sono contrattuali, sessuali, razziali, di cittadinanza”[27]. Le connessioni tra migrazione, precarietà e genere, sono ribadite anche nel testo-manifesto, I diritti e qualcosa di più: Verso una Precarious’ Charter, diviso in dieci “comandamenti”. Recita il quinto comandamento: “Precario ricorda che sei migrante. Il lavoro migrante è una forma paradigmatica di precarietà”, insistendo sulla ricattabilità del precario, sulla precarietà del permesso di soggiorno, e sul razzismo istituzionalizzato.

Recita il sesto comandamento:

“Precaria ricorda che sei donna […]. La femminilizzazione del lavoro non riconosce alcuna qualità specificamente femminile, ma è una modalità di messa al lavoro e di sfruttamento di tutti i precari e ancor più delle donne. Nel privato le donne pagano – spesso con il proprio salario – altre donne perché svolgano il lavoro domestico e di cura; nel pubblico, il welfare che ancora sopravvive fornisce contributi monetari perché si paghi – ancora privatamente – lavoro domestico e di cura. Le donne non sono solo un segmento del lavoro tra gli altri, ma occupano una posizione che permette di mostrare i modi specifici attraverso i quali la precarietà diventa la forma contemporanea di tutto il lavoro”[28].

Insomma, le due categorie che più subiscono il precariato e lo sfruttamento sono gli immigrati e le donne[29]; gli uni perché ricattabili e oggetto di disprezzo a connotazione razziale, le altre perché storicamente confinate a lavori di cura. L’analisi qui sopra, vicina a quella di Morini, se ne distingue per due sfumature che teniamo a sottolineare e sviluppare: la prima è che la cosiddetta femminilizzazione del lavoro non rimanda a qualità specificamente femminili, col rischio di naturalizzarle, è una modalità di sfruttamento radicata in secolari rapporti di dominazione. La seconda è che riflettere sulla posizione delle donne (ovvero: la sedicente predisposizione femminile alla cura, al dono e al sacrificio, sfruttata dalla società patriarcale) permette di pensare la posizione attuale del precario, sfruttato dalla società neoliberale.

  1. Connettere le disconnessioni

Nel presentare in un primo capitoletto, attraverso un romanzo e un libro di interviste, la situazione delle donne somale in Italia e più in generale la situazione delle domestiche della globalizzazione tra emancipazione e precariato; in un secondo capitoletto, lo studio di Cristina Morini sulla femminilizzazione del lavoro e sull’influenza e la diffusione del care; e in un terzo, un sito web di lavoratori precari dall’emblematico nome connessioni precarie, in cui si afferma l’importanza delle differenze per affrontare la riflessione sulla precarietà, abbiamo operato anche noi un collegamento, forse temerario, di problematiche e materiali disparati, con l’intento di “attraversare” le differenze, farle dialogare. Così operando abbiamo voluto soprattutto mettere in rilievo non tanto l’evoluzione del mercato del lavoro e della precarizzazione nello specifico italiano, quanto lo stretto legame su scala mondiale tra migrazione, femminilizzazione, precariato, e quindi affermare la necessità – quando si vogliano pensare le trasformazioni in corso nel mondo globale attuale, e quindi in Italia – di non sottovalutare le interazioni tra fattori di differenti soggettività.

Per concludere, vorremmo citare ancora Morini, quando afferma che “il potere non disdegna di ‘femminilizzare’ anche gli uomini, se questo significa abbassarne le condizioni e ridurne i diritti. Li femminilizza anche nella richiesta di partecipazione e di oblatività”[30]. Leggendo questa giusta osservazione, ci siamo chiesti: allora, hanno ragione gli uomini somali quando rifiutano di accettare la condizione di migranti e precari, rigettando lavori di cura o schiavizzanti (come la raccolta di pomodori), perché così esprimono il rifiuto di una condizione degradante, quella riservata alla donna e al servo, una condizione di doppia sottomissione? Il loro rifiuto della femminilizzazione di sé, in questo senso, è rifiuto della subalternità nella sua forma neocoloniale. Ma ci si può chiedere anche se non abbiano ragione le donne (somale, eritree, italiane, etc.) che, accettando la disponibilità e l’abnegazione insite nel care, accettano anche la transitorietà e il cambiamento, facendo propria una nuova condizione in cui vedono l’opportunità di autodeterminazione e autonomia.

Una prima risposta la possiamo dare insistendo sulla necessità di non semplificare la complessa articolazione dei rapporti di dominazione, in particolare l’interazione dei fattori di genere, etnia, classe, rinviando al dibattito, tuttora in corso in ambito femminista, sul concetto metodologico di intersezionalità, che permette di pensare la difficoltà dell’articolazione dei rapporti di discriminazione ed esclusione[31].

Una seconda risposta ci permette di tornare su una precedente considerazione. Quando si propone di rivalutare il care per farne la base della costruzione di un “fare comune”, o quando si parla di degenerizzazione del lavoro come superamento positivo della divisione sessuale del lavoro, si rischia di sottovalutare il radicamento della polarizzazione femminile/maschile, la determinazione di prerogative che culture secolari hanno assegnato a donne e uomini: perché di fatto il femminile resta fortemente ancorato alla negatività (degrado, subordinazione, passività) squalificando qualunque soggetto ne porti il segno, sia esso donna o uomo; mentre il maschile resta il polo positivo, che implica affermazione, forza, intelletto, dominio. Vogliamo dire, ricordando queste ovvietà, che il fattore di genere come quello di razza rinviano – oltre a divisioni di ruoli sociali – anche a categorie ideologiche (e non naturali), a interiorizzazioni di valori; e queste sono molto più insidiose, molto più profonde di quanto si pensi, e perciò molto più difficili da scardinare.

In altri termini, una riflessione sul precariato che ignori l’impatto delle differenze è inevitabilmente parziale, nel duplice senso di incompleta e di parte. Come ricorda Talpade Mohanty, “Proprio come le idee di ‘maternità’ e di ‘domesticità’ sono costrutti storici e ideologici piuttosto che ‘naturali, l’idea di un ‘lavoro tipico da donne del Terzo mondo’, in questo contesto particolare trova il proprio fondamento nelle gerarchie sociali strutturate da sesso/genere, dalla razza e dalla classe”; e ancora: “Le ideologie della clausura e della domesticità delle donne sono di chiara natura sessuale, essendo la derivazione diretta delle nozioni maschili e femminili di protezione e proprietà. Si tratta anche di ideologie eterosessuali, basate sulla definizione normativa delle donne in quanto mogli, sorelle e madri – mai slegate dalla relazione matrimoniale e dalla ‘famiglia’”[32].

[1] Giovanna Campani, Genere, etnia e classe. Migrazioni al femminile tra esclusione e identità, ETS, Pisa 2005, p. 136.

[2] Chandra Talpade Mohanti, Femminismo senza frontiere. Teoria, differenze, conflitti, trad. it. di G. Giuliani, ombre corte, Verona 2012, p. 102. Ai fini del presente studio, si rimanda soprattutto ai capitoli Cartografie della lotta, pp. 63-114, e Lavoratrici e politica della solidarietà, pp. 137-175.

[3] Menzioniamo almeno: Sara Ongaro, Le donne e la globalizzazione. Domande di genere all’economia globale della ri-produzione, Rubettino, Roma 2001; Beatrice Busi, Il lavoro sessuale nell’economia della (ri)produzione globale, in Teresa Bertilotti, Cristina Galasso, Alessandra Gissi, Francesca Lagorio (a cura di), Altri femminismi. Corpi, culture, lavoro, manifestolibri, Roma 2006, pp. 69-83; Alice Mattoni, La questione femminile nelle lotte contro la precarietà in Italia, in “Inchiesta”, luglio-settembre 2008, pp. 102-115; Laura Fantone (a cura di), Genere e precarietà, Scriptaweb, Napoli, 2011, scaricabile in formato PDF su https://www.academia.edu/7204504/Genere_e_Precarieta. Benché non riguardi direttamente la situazione italiana, si veda anche Silvia Federici, Il punto zero della rivoluzione. Lavoro domestico, riproduzione e lotta femminista, trad. it. di A. Curcio, ombre corte, Verona 2014.

[4] Cristina Ali Farah, Madre piccola, Frassinelli, Milano 2007, p. 264.

[5] Vedi anche il romanzo di Igiaba Scego, Rhoda, Sinnos, Roma 2004, in cui una delle tre protagoniste, Barni, “faceva la domestica a ore e si doveva scapicollare per diverse zone di Roma a lavare cessi rosa molto sudici” (p. 21).

[6] Nurrudin Farah, Rifugiati. Voci della diaspora somala, Meltemi, Roma 2003, trad. e intr. di A. Di Maio.

[7] Ivi, p. 212 e p. 238.

[8] Ivi, p. 105.

[9] Ivi, pp. 108-109.

[10] Vedi per esempio Rhacel Salazar Parreñas, Servants of Globalization Women. Migration, and Domestic Work, Stanford University Press, Stanford 2001; Ruba Salih, Mobilità transnazionali e cittadinanza. Per una geografia di genere dei confini, in Silvia Salvatici (a cura di), Confini: costruzioni, attraversamenti, rappresentazioni, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005, pp. 153-166; Silvia Cavallini, Il lavoro domestico delle donne immigrate in Italia, in Maria I. Macioti, Vitantonio Gioia, Katia Scannavini (a cura di), Migrazioni al femminile. Protagoniste di inediti percorsi, EUM, Macerata 2007, pp. 65-86.

[11] Tuttavia, anche in altri paesi, si assiste a fenomeni simili; si veda per esempio Maria Kontos, Donne migranti in Germania e mercato globale del lavoro domestico, in Giovanna Campani (a cura di), Genere e globalizzazione, ETS, Pisa 2010, pp.159-175.

[12] I dati Istat aggiornati al primo gennaio 2013, confermano la tendenza: le straniere residenti sono 2.327.968, gli stranieri 2.059.753 (http://dati.istat.it/Index.aspx?DataSetCode=DCIS_POPSTRRES1&Lang=). Cfr. anche Antonio Ricci e Franco Pittau, La presenza femminile nella immigrazione: famiglia, matrimoni e coppie miste, in Migrazioni al femminile, cit., pp. 17-63; Asher Colombo e Giuseppe Sciortino, Gli immigrati in Italia, Il Mulino, Bologna 2004, p. 20.

[13] Sui settori di attività delle donne immigrate, rinviamo a Campani, Genere, etnia, cit., pp. 112-146. Sul lavoro sessuale, rinviamo a Busi, Il lavoro sessuale, cit.

[14] Non è questa la sede per attardarsi sul punto, ma vorremmo attirare l’attenzione sul pericolo insito nell’idea di una di emancipazione “colpevole” delle donne occidentali, quale emerge, per esempio, dalla Presentazione di Renate Siebert al volume di Ongaro, Le donne e la globalizzazione, cit., pp. vi-vii.

[15] Ivi, p. 141. A cura della stessa Campani, meno incentrato sulla situazione italiana e sul mercato del lavoro, si veda anche Genere e globalizzazione, cit.

[16] Sabrina Marchetti, Le ragazze di Asmara. Lavoro domestico e migrazione postcoloniale, Ediesse, Roma 2011, p. 26.

[17] Gabriella Ghermandi, Regina di fiori e di perle, Donzelli, Roma 2007. La Storia di Woizero Bekelech e del signor Antonio è alle pp. 243-277.

[18] Ricordiamo anche il precedente: Cristina Morini, La serva serve. Le nuove forzate del lavoro domestico, DeriveApprodi, Roma 2001.

[19] Cristina Morini, Per amore o per forza. Femminilizzazione del lavoro e biopolitiche del corpo, ombre corte, Verona 2010, p. 38.

[20] Ivi, p. 48.

[21] Sul punto, ma con prospettive diverse, si veda Ongaro, Le donne e la globalizzazione, cit., la quale analizza il “processo di femminilizzazione della produzione sia a livello concreto che metaforico” (p. 47) nei mutamenti globali in corso. E si veda anche Judith Revel, Féminisation du travail et précarisation de l’existence: deux paradigmes superposés, in Silvia Contarini e Luca Marsi (a cura di), Précariat. Pour une critique de la société de la précarité, Presses Universitaires de Paris Ouest, Nanterre 2014, pp. 125-136; Revel osserva anche che nel processo di femminilizzazione delle condizioni di lavoro (ossia di degrado) le donne, inizialmente preposte a questo genere di lavori, vengono sostituite da immigrati e precari. Si veda infine Gruppo Sconvegno, Un’istantanea della precarietà: voci prospettive dialoghi. Focus group su Donne, Lavoro e Precarietà, in Fantone (a cura di), Genere e precarietà, cit., pp. 117-133.

[22] Ivi, p. 70.

[23] Ivi, p. 124.

[24] Ivi, pp. 20-21.

[25] Cfr., per esempio, http://www.precaria.org/ e http://www.universitadelledonne.it/precas.htm.

[26] Costellazione precaria: riflessioni minime sul reddito garantito, 12 gennaio 2012, in http://www.connessioniprecarie.org/2012/01/12/costellazione-precaria-riflessioni-minime-sul-reddito-garantito/ (senza firma).

[27] Dai precari alla precarietà: per dire addio a entrambi, 22 settembre 2011, in http://www.connessioniprecarie.org/2011/09/22/dai-precari-alla-precarieta-per-dire-addio-a-entrambi/ (senza firma).

[28] I diritti e qualcosa di più: verso una Precarious’ Charter, 19 marzo 2012, in http://www.connessioniprecarie.org/2012/03/29/i-diritti-e-qualcosa-di-piu-verso-una-precarious-charter/.

[29] Sulla precarietà lavorativa e esistenziale delle donne, cfr. anche saggi e testimonianze raccolti da Clotilde Barbarulli e Liana Borghi (a cura di), Forme della diversità. Genere, precarietà e intercultura, CUEC, Cagliari 2006.

[30] Morini, Per amore, cit., p. 125

[31] Cfr. tra i vari studi, in lingua italiana, Sabrina Marchetti, Intersezionalità, in Caterina Botti (a cura di), Le etiche della diversità culturale, Le Lettere, Firenze 2013, pp. 133-148. Si veda anche Elsa Dorlin, “Sexe” “race” et “classe”: comment penser la domination?, in Sexe, genre et sexualités, PUF, Paris 2008, pp. 79-88.

[32] Talpade Mohanti, Femminismo senza frontiere, cit., p. 102, la prima citazione, p. 152 la seconda.

Musica nell’orto: note a margine di una grammatica del sapere.

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di Tina Nastasi

musica vegetale

Giorgio, 11 anni: “la mia prof di musica non è normale. Fa cose di arte e poi ci fa fare anche l’orto. Cosa c’entra l’orto con la musica?!”

Non è una vera domanda, naturalmente. Mi suona subito come una protesta. Ecco – mi dico – un altro ragazzetto di scuola media cresciuto a supponenza,  che già alla fine del primo anno è pronto alla sassaiola contro chi gli insegna. Ne ho visti almeno di tre future generazioni differenti. Il modello non è cambiato, malgrado tre riforme.

 

Lo sfido: “prova a farti davvero la domanda, è molto buona, sai? Prova a ragionare per assurdo, sai come si fa in geometria?” – Sono una prof di italiano, storia e geografia e devo spesso farmi perdonare i miei sconfinamenti epistemologici nelle altre discipline, specie le scientifiche, ma questo non sembra preoccupare Giorgio, al momento –  “Prendi un’affermazione e prova a dimostrare, in tutto e per tutto, che è vero il suo contrario. Dunque, sei convinto che musica e orto non abbiano nulla a che vedere”. “Sì”, – replica lui – “niente!. Tutto è nato dal fatto che il mio zaino è cascato sul piede della prof e a lei è sembrata una zappata”. “Va bene”, dico io, “prova lo stesso a concentrarti e vedere se ci sono collegamenti possibili tra musica e orto”.

Sembra entrare nel gioco per una frazione di secondo, poi ne esce subito: “io non ne trovo”, ammette. “Ben diverso non trovarne dal non essercene”, dico io.

Mi viene in mente la storia della chiesa di Rosslyn, sulla cui pietra hanno scoperto scolpita in figure un’intera partitura di musica rinascimentale. “Cosa ha a che fare la musica con i capitelli delle colonne di una chiesa”, gli chiedo. Gliela racconto. Mi godo il suo silenzio. Poi ci salutiamo. E mi chiedo: quando finirà questa nostra contemporanea vivisezione del sapere che educa al “divide et impera”?

La ministra Giannini afferma, in un’intervista sul quotidiano Repubblica, che la Buona scuola sarà legge a metà giugno: in Senato non ci saranno problemi, ne è convinta.

Sinceramente non ho trovato da nessuna parte, nel testo della legge, parole che sappiano di educazione e cultura del sapere.

Anzio, 26 aprile 2015.

Storie (quattro inediti)

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di Damiano Sinfonico

 

 

Mi telefona nei momenti sbagliati.

Sempre, chiunque.

Non rispondo più. Lo faccio apposta.

Appare il numero sul display, e mi secca.

Lascio correre gli squilli, me ne infischio.

Richiamerà più tardi, nel pomeriggio, o alla sera.

Chiamerà quando ci sarà qualcuno in casa, non io.

La casa diventa una conchiglia.

Squilla, squilla, come fosse disabitata.

Io mi avvolgo nelle sue pareti bianche, e resto in ascolto.

A volte ho la tentazione di staccare la corrente.

*

Ci tocca questa trafila di vetrine, di manichini spogliati.

Allungano la mano, con borse e foulard sgargianti.

Dal magazzino scendono e salgono come fiocchi di neve.

Sorridono, scintillano, oscillano, bevendo la luce del mattino.

*

In libreria, si presentano due poeti.

Hanno l’aria tranquilla.

Parlano di dolore, impudicamente.

Resto perplesso.

Il cielo è grigio, si sta bene fuori.

Lascerò questa grotta sanguinante.

Il brillio di una postuma adolescenza.

*

alla P.

Che stupida !

Sì sì proprio stupida !

Ah ah mi dicevo.

Ma poi la tua insipienza si trasformava.

E usciva la farfalla della perspicacia.

“Fuori, vicino, attraverso”. Festa di Nazione Indiana a Pistoia

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9-10 MAGGIO, Circolo Le Fornaci, Pistoia

Fuori, vicino, attraverso.

SABATO 9 MAGGIO

Ore 14.30  Inizio della Festa e presentazione del programma.

Ore 15.00 “Strani confini mobili”: traduzione & poesia

Tradotte e pubblicate per la prima volta in Italia, le opere di due tra le più influenti voci poetiche statunitensi contemporanee saranno presentate dalle rispettive traduttrici in un dialogo sull’esperienza e le sfide della traduzione: Dieci Bozze di Rachel Blau Du Plessis, trad. di Renata Morresi (Premio Nazionale per la Traduzione MIBAC 2014 e Premio Naz. Achille Marazza 2014 per la traduzione poetica) e Pastorali di John Taggart, trad. di Cristina Babino (Premio Naz. Achille Marazza 2014 per la traduzione poetica) pubblicati dall’editore Vydia.  Ne discutono Renata Morresi e Cristina Babino. Modera Francesca Matteoni.

Ore 16.10: break.

Ore 16.30 Gender & suoi derivati. Presentata da più parti del mondo cattolico (incluso la sua massima autorità) come uno spauracchio collettivo, la cosiddetta “ideologia del gender” corre sulle bocche e sulle tastiere di molti, con spot e testi a difesa dell’eteronormatività toccando picchi certamente caricaturali. L’anatomia patologica di una teoria inesistente che cela paure omofobe e visioni stereotipate della relazioni uomo-donna ci introduce, invece, ad una ricerca mobile dei concetti di identità e desiderio. Ne discutono Pina Caporaso, Renata Morresi, Daniela Brogi e Tiziana de Rogatis.

Ore 17.50: break.

Ore 18.00 Incontro su Letteratura sudamericana. Da Borges a Bolaño, passando per García Márquez, Cortázar, Neruda, Onetti, Sepulveda e molti altri: dalla mitologia al disincanto? Una storia sentimentale della letteratura ispanoamericana degli ultimi decenni (e dei suoi labirinti) attraverso le traduzioni di chi, come Ilide Carmignani, più di tutti l’ha scoperta e svelata. Ne discutono Ilide Carmignani, Roberto Gerace, Helena Janeczek.

Ore 19.30 “Fuggire per le fessure dei denti”: Incontro su Gian Giacomo Menon. Gian Giacomo Menon (Medea 1910 – Udine 2000), dal 1939 al 1968 ha insegnato storia e filosofia nel liceo classico Stellini di Udine. Ha scritto centomila poesie, ma non ha pubblicato quasi niente. Individualista, solipsista, pragmatico, strenuo sostenitore della isostenia dei logoi, indicava così i suoi «segnali di vita»: casualità, nudità, paura. Dal 1957 Menon abbandona ogni forma di vita mondana per una «decisione di assenza» che perseguirà con determinazione trascorrendo oltre metà della vita ‘nascosto’ in casa «a consumare un’amara invenzione», evitando ogni contatto pubblico escluso l’insegnamento. Tra il 1970 e il 2012 dieci compositori hanno scritto musiche ispirandosi ai suoi versi. Un canzoniere d’amore di Menon è stato pubblicato da Aragno nel 2013, nel volume Poesie inedite 1968-1969. Ne parlano Cesare Sartori e Giacomo Trinci.

Ore 22.00 a cura di Lorenzo Dechlich

#Tessuto
Immagini e visioni di una ragazza in cerca di sua madre in un paese straniero compongono uno spettacolo basato sull’interazione fra recitazione, disegno dal vivo e musica live. I tre aspetti sono a tal punto compenetrati che non possono sussistere l’uno senza l’altro e creano un equilibrio sottile che attraversa l’azione teatrale, l’improvvisazione e la performance visuale. Con #Tessuto, opera di regia collettiva, frutto dell’incontro di persone dedite ad attività artistiche diverse e con background differenti, la compagnia Cascina Barà ha girato l’Italia e il Brasile (stato di S. Paolo) negli ultimi due anni.

DOMENICA 10 MAGGIO

Ore 11.00 Presentazione dell’ebook su Charlie Hebdo. Ne discutono Ornella Tajani e Giorgio Mascitelli.

Ore 12.00  “L’islam nudo: le spoglie di una civiltà nel mercato globale” di Lorenzo Declich
L’identità islamica, nel tritacarne della globalizzazione, è in via di ridefinizione. “L’islam nudo”, in equilibrio fra cronaca e divulgazione, racconta alcuni aspetti sorprendenti e inaspettati di questo processo, concentrandosi infine sul nascente “islam del mercato” i cui effetti sulla vita dei singoli credenti e delle diverse comunità musulmane sono spesso dirompenti. Le prime vittime di quella che in Europa e Nordamerica viene spesso percepita come una minacciosa invasione islamica sono infatti i musulmani stessi che, sempre più, sono pensati e gestiti dagli attori del mercato globale come muti e manipolabili “consumatori islamici”.

Ore 15.00 Le bambine nei fumetti.

Bambine dai capelli azzurri sperdute in una landa immaginaria, bambine giramondo nei luoghi e nelle vite altrui, bambine crudeli e ingenue, bambine che imparano a seguire l’anima, ovunque essa le porti, oltre  ogni convenzione e ricordando agli adulti che il reale non è il mondo dell’ordinario, ma delle varie possibilità che riusciamo a immaginare. Bambine che non temono di essere se stesse. Attraverso la fiaba, il dolore, la meraviglia ne parlano insieme Simona Binni, autrice di Amina e il Vulcano (Tunué) e Francesca Matteoni.

Ore 16.00 Incontro con Vanni Santoni  sul suo ultimo libro Muro di casseche inaugura la nuova collana “Solaris” di Laterza. Dalla quarta di copertina: Perché sognare un quarto d’ora di celebrità se potevi prenderti dieci o venti ore al centro dell’universo? E la bellezza. Potevamo creare ovunque la bellezza: in ogni angolaccio, sotto a ogni cavalcavia, poteva sgorgare una fonte di meraviglia. Ogni periferia, ogni cittadina di provincia senza più guizzi poteva tornare a splendere e ribollire per una notte. E non parlo solo dei posti dove andavamo: il fatto che andassimo in alcuni faceva sì che tutti, in potenza, custodissero la bellezza. Quindi, la speranza. Ne discutono l’autore e Roberto Gerace.

Ore 17.00 Cinema e Videoclip. In collaborazione con Presente Italiano.

Nel 1979 il mondo fu solcato da una profezia. “La tv”, diceva una canzone, avrebbe ucciso le “star della radio”. Ma tutto questo non accadde. Nel 1981, il videoclip di Video kill the radio star inaugurò la programmazione di MTV e rilanciò in modo decisivo la hit dei Buggles. Era la dimostrazione perfetta che la tv, e l’innumerevole proliferazione di video che sarebbe seguita, non avrebbe distrutto il paesaggio musicale, ma lo avrebbe profondamente trasformato. Molta della musica che ascoltiamo oggi proviene da quella mutazione. E i video, conquistando parte della rete e delle piattaforme digitali, sono diventati qualcosa di più di un semplice strumento di marketing. Smarcatisi molto presto dalla funzione accessoria di lanciare i singoli o promuovere l’immagine delle celebrità musicali, i video non solo sono diventati il banco di prova di registi che si sarebbero affermati nelle sale cinematografiche, ma hanno assunto lo statuto di opera d’arte. Per loro natura fulminei, ellittici, surreali, paradossali, sperimentali, abbracciando quasi tutte le strategie della narrazione e della messa in scena, i video sono ascrivibili alla categoria dei “pensieri in movimento”. Con Luca Pacilio autore di Il videoclip nell’era di youtube (Bietti), Giulio Sangiorgio (Film Tv) e Giuseppe Zucco. Introduce Michele Galardini.

Ore 18.00 break.

Ore 18.15 Settant’anni di Resistenza. Raccontare la Resistenza

Chi racconta, a 70 anni dalla Liberazione dell’Italia, la Resistenza partigiana come la racconta? E com’è stata raccontata nel passato? La domanda tocca trasversalmente sia le narrazioni documentaristiche che quelle finzionali, la letteratura e la storiografia, insomma tutto ciò che contribuisce a formare l’immaginario e la memoria collettiva. Ne discutono Stefano Bartolini, storico dell’Istituto Nazionale della Resistenza di Pistoia, Federico Bertoni, ordinario di Critica Letteraria dell’Università di Bologna e Helena Janeczek, scrittrice.

El amigo del desierto

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di Pablo d’Orsd'ors_cover-dors-deserto-mv

 

 

 

 

 

 

 

Dalla casetta in affitto a Béni Abbès vedevo più o meno quel che si immagina debba essere il paesaggio dopo una grande guerra: un orizzonte vuoto, uno specchio del nulla di cui consiste l’uomo, per quanto si sforzi di sembrare il contrario. Sentivo che da quel nulla che mi circondava poteva nascere qualcosa di nuovo e autentico.

les nouveaux réalistes: Silvia Bortoli

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Un uomo

di

Silvia Bortoli

Quello che è veramente buono, dice spingendo col taglio la salsa contro il bordo del piatto, è il sugo.

L’argomento di oggi è il caramello.

Se con la crema ci vogliano le uvette sul fondo dello stampo o non ci vogliano, o ci voglia magari il pan di spagna era invece l’argomento di ieri. I brusii di dissenso non lo turbano mai. È lui il padrone, e può dire quello che gli pare e gli altri hanno sempre torto. E se hanno ragione è da prima, perché lui, da prima, a suo arbitrio, gliel’ha riconosciuta.

Deve il silenzio che accompagna quelle divagazioni culinarie al suo carattere autoritario. L’unica che ha osato dar voce alla ridicolaggine, oltre che al disgusto, per il pan di spagna nella crema, e figuriamoci poi le uvette, è stata punita col silenzio e la disattenzione.

Le disquisizioni sulla crème caramel sono ricorrenti. Vengono fuori ogni volta che Olga, dopo che lui le sventola sotto il naso il risultato di esami quasi accettabili, cede e gliene fa un poco. Guarda qui, dice aggressivo, transaminasi, colesterolo, globuli bianchi, snocciola cifre e dati. Ma il caramello non è mai come lo vorrebbe lui. Quello del passato gli sembra sempre migliore e attribuisce la decadenza del cibo alla generale decadenza del mondo.

Dal regno animale è scomparsa la felicità e i suoi cibi, suoi di lui, che di quella felicità faceva parte, non sono che pallidi simulacri.

La crème caramel è diventata così un cibo mistico. Un cibo sulla cui inadeguatezza si accanisce, che lo innervosisce, come lo innervosisce la nostra presenza perché contrastiamo quel suo andare verso la morte scomposto e irascibile, legandogli intorno lacci d’affetto che non apprezza e che pure gli sembrano naturali e dovuti. Una zavorra, ma irrinunciabile. Le donne sono noiose, ci ha detto ieri guardandoci torvo, sua moglie ha alzato le spalle. Che scemo, ha detto lasciando la stanza. La sua reazione mi ha sorpreso.

Ieri si è fatto portare in giardino. È stato sollevato di peso e sistemato su una sedia, si è fatto caricare un fucile. Ha deciso di ammazzare le civette sul tetto, di sparare così, indifferente a ogni norma e legge. Dice che le sente respirare e gli dà fastidio il rumore. A nessuno è venuto in mente di chiedergli se scherzava, di opporsi. Un colpo ha grattato rumorosamente l’intonaco. Si è innervosito, ha fatto ricaricare sbottando in tutta la sua irascibilità sulla nostra pochezza e le mani tremanti hanno lasciato cadere il fucile per terra, ha preso in pieno una coperta stesa al sole. La rosa dei pallini l’ha quasi distrutta. Ha avuto un tale attacco di rabbia che abbiamo dovuto chiamare il medico e far finta che passasse per caso. Il dottore ci ha chiesto se siamo matti a mettere a rischio la vita di tutti per le stramberie di un vecchio bilioso, se viene a sapere di nuovo che lo lasciamo sparare va dai carabinieri e lo fa mettere dentro, e noi con lui.

Il medico è un vecchio amico. È il nostro fedele e mediocre dottore da quando ha cominciato a esercitare. Ma è una persona ragionevole e noi, se mai lo siamo stati, non lo siamo più. Ci prende un’angoscia a non poter far girare il mondo all’indietro, oltre che per amore credo per vigliaccheria. Non siamo all’altezza di questa vecchiaia irruenta. Non abbiamo medicine, consolazioni, rimedi.

Mia figlia è di corvée. Quando torna da scuola deve andare da lui ancora con la cartella sulla schiena, a raccontargli le novità, novità scolastiche di una bambina di terza media. Ci va volentieri. Pare, a sentir lei, che lui ascolti con attenzione e faccia domande e si beva le sue storielle. Solo un paio di volte il loro infantilismo non ha coinciso, si è innervosito e l’ha trattata male. Il cinismo di lei è però solo a nostro uso, è affascinata dal vecchio signore e se inventa, è solo per arricchire le poche cose che gli offre, perché sul fatto che siano poche lui non le lascia illusioni.

In un certo senso la disprezza, e nel disprezzo per lei disprezza se stesso, un povero vecchio, buono solo a star coi bambini, immobilizzato, legato, impotente.

È spesso torvo. Ignobilmente, dice il suo figlio maggiore, vede negli altri ogni genere di ignobiltà. Dove chi lo circonda si augura una fine armoniosa, che li riconcilii con lo specchio della propria morte, lui smania e ne mostra l’orrore, una continua crescente impotenza senza speranza né scampo.

Oggi ha un ginocchio gonfio e il dottore lo ha messo a dieta. Ha la gotta, il diabete, e ogni tanto sragiona. È convinto che se non mangia non vivrà a lungo e vivere a lungo per lui è indispensabile. È sicuro che il medico sia un cane e lo voglia uccidere per fame. Non vuole accettare la morte. Accettare la morte è come cedere lo scettro. Se lo facesse diventerebbe forse mite, o forse solo distratto. Cerca di non mostrare crepe, esibisce la sua vitalità di forte mangiatore, l’unica che gli sia rimasta.

Ogni volta che si parla di qualche centenario, cosa che vedendolo cupo facciamo volentieri, ci guarda con occhi fieri e allarmati. Sono fratelli suoi, i centenari, esemplari di una razza che è la sua, ma anche, per lui che ha sempre voluto vincere, antagonisti e nemici, e forse, se non starà attento, più fortunati.

Ogni tanto leggerissimamente svanisce e mi chiama Bruna. Succede per pochi minuti. Giorni fa ha gridato forte in tedesco, con ira, e aveva il viso corrucciato, rimpicciolito, infantile. Quando sono entrata mi ha guardato e ha girato la testa verso la finestra. Piangeva. Su se stesso, ho pensato.

Gli sono andata vicino e gli ho preso una mano. La sua è grande e asciutta, calda. Ha stretto leggermente, rispondendo. Mi sono seduta vicino a lui tenendogliela stretta e ascoltando mentre ripeteva le sue frasi senza senso. «È questo?» chiede con fervore fissando la parete al suo fianco. È questo, questo, questo, questo? Gli ho chiesto «questo cosa?», ma non mi ha risposto. Continua a tenere la testa girata e interroga il muro al suo fianco come se la risposta potesse venirgli dalla tappezzeria a righe, leggermente macchiata da uno spruzzo di soluzione sfuggito a una siringa che in uno scatto d’ira ha fatto volar di mano a un’infermiera.

È questo, questo, questo? continua a chiedere al muro, finché chiude gli occhi esausto e io lo lascio, esausta anch’io, desiderosa che muoia e ci lasci liberi.

Ieri ero in giardino e sarchiavo un’aiuola e ho sentito Olga che correva e sua moglie che correva più lenta dietro a lei. Ho pensato che stava per morire e ho aspettato, paralizzata dalla paura e dal sollievo. Ma aveva solo buttato per terra il vassoio della colazione, furente perché il brodo non sapeva di nulla. Di nuovo lui, di nuovo irascibile e ostile.

Non morirà, non morirà, lo sento. Per anni ancora ci terrà qui immobilizzati, legati dall’amore e dal bisogno, tutti dipendenti da lui, tutti in attesa della sua morte che ci permetta di vendere e separarci. Lo vogliamo pagare questo prezzo, ci ha costretti all’amore, ci ha umiliati con la sua generosità, ci ha comandati a bacchetta, ci ha abituati a dipendere da lui, non c’è mondo per noi se non il suo, regolato dalle sue leggi, anche adesso, amministrato com’è da donne armate di siringhe e biancheria pulita, che lo lavano, lo sollevano, mettono le mani tra le sue cose, fanno ordine nei suoi cassetti, neppure un angolo più di intimità, neppure i pochi centimetri quadrati del suo comodino gli appartengono oramai, la sua virilità umiliata, il suo dominio sospeso. Ma quella vuota scatola di leggi che ha promulgato funziona ancora e il padrone è lui e le sue grida a sproposito sono le grida di chi sa.

Oggi è di nuovo lucido. O forse no. Forse è un altro se stesso quello che mi chiama nella stanza, un suo doppio addolcito, il vecchio che avrebbe potuto essere se non fosse stato tanto attaccato alla propria forza.

«Vieni qui» mi ha detto. Mi ha chiamato con la mano, non gli hanno ancora fatto la barba e quei pochi millimetri di peli bianchi che gli spuntano sulle guance gli danno un’aria dimessa. «Ho una cosa per te» mi dice. Io so che non può darmi niente. Ogni cosa che regala va portata a sua moglie e lei decide se la si può accettare o no, lui però non lo sa. È una regola non detta, adottata tacitamente da tutti quando ha cercato di regalare la casa a Olga. Olga è andata da sua moglie scuotendo la testa. «Attenti al prete», ha detto. È sicura che un frate del convento vicino che ogni tanto lo viene a trovare cerchi di farsi lasciare qualcosa. «Ho una cosa per te» mi dice ancora e indica l’armadio. «Apri, apri». A gesti mi fa cercare in una scatola di carte e fascicoli, poi si irrita e me la fa portare sul letto. Cerca alla cieca con la mano e tira fuori un piccolo cartone arrotolato. «Apri» mi dice spingendolo con l’indice verso di me. Un indice dai polpastrelli solcati, leggermente adunco per l’artrite. Sciolgo il nastro e lo srotolo con delicatezza. C’è una testa di bambino disegnata a matita. Una piccola testa rotonda. Sorride con aria d’intesa. «È tua». Gli prendo la mano e mi piego a baciargli la guancia, ma si è già girato contro il muro, di nuovo chiuso in se stesso. Sua moglie dice che posso tenerlo. È lui da piccolo, dice, e io sono la moglie del suo figlio maggiore. È un disegno di nessun valore. Garbato, piacevole, posso tenerlo.

Olga gli ha fatto di nuovo la crème caramel. È il suo compleanno, ci sorride, da qualche giorno parla a fatica, gli brucia la gola, fa capire senza emettere suoni, noi lo accusiamo di pigrizia. Siamo arrivati tutti insieme nella stanza con fiori e caramelle e piccoli regali di cui non sa cosa fare, una bottiglia d’acqua di colonia, un volume sulle architetture rustiche della sua regione, abbiamo contrabbandato come regalo persino un nuovo pigiama. Si fa mettere ogni cosa sul letto, è calmo, è dolce. Tocca i pacchetti con le mani senza sollevare le braccia, solo le dita si muovono a destra e a sinistra a cercare, come se fosse cieco. Quando Olga entra con il dolce ci fa la grazia di un oh quasi muto, sa che Olga se lo aspetta. Ma è un oh terreno. Fa appoggiare il piatto sul comodino, dice che lo assaggerà più tardi. Improvvisamente a Olga tremano le mani, stringe le labbra e scuote appena la testa. Ha colto qualcosa in lui e subito lo sentiamo tutti, il caramello non ha più alcun senso. Non è più l’oggetto di quell’unico vizio che gli è rimasto, la gola, non è più un chiodo piantato sull’impervia parete della memoria, un termine di paragone, un’occasione di disprezzo per i tempi nuovi, i nostri, da lui non voluti né amati. Il caramello è un cibo come un altro, ormai, al quale un vecchio invalido fa le feste perché alle feste si risponde così, festeggiando, esclamando anche senza voce, rispondendo con un faticoso entusiasmo di vecchio alla fatica degli altri.

«Ha mollato» dice Olga uscendo dalla stanza con gli occhi lucidi. E improvvisamente sappiamo che è vero.

Il medico viene tutti i giorni, d’un tratto più efficiente e gentile, preoccupato soprattutto di sua moglie. Dà a qualcuno di noi consigli pratici, parla con Olga che vorrebbe sfuggirgli. Perché dovrebbe essere proprio lei, che più di tutti gli altri, priva com’è di legami di sangue, è una sua creatura, a dimostrarsi la più dura e più pratica? Si rifugia nelle vicinanze di mia suocera, cerca riparo, rifiuta le responsabilità. Noi la capiamo, vorremmo scappare tutti e invece, giorno dopo giorno aspettiamo, ci affacciamo alla stanza, entriamo a baciargli la fronte, gli teniamo la mano e lui sorride distratto, apre gli occhi uscendo dal suo sonno leggero, muove le dita e richiude gli occhi. I due figli lontani sono stati avvertiti e saranno qui tra poco. Io passo ore e ore seduta vicino a lui. Pensano che sia per affetto. Ma io non ne sono sicura. Sento invece un senso di dipendenza, mi chiedo come sarà la vita dopo di lui, non più regolata da lui. Ne sono curiosa, ne sono addirittura avida. Mentre lo guardo, le occhiaie sempre più incavate e pallide, il profilo sempre più trasparente, come se questo lungo sonno lo purificasse e imponesse una quarantena alle sue passioni, io mi chiedo soltanto come sarà la vita senza di lui. Fantastico. Non ho vergogna di me, non mi sento meschina. La verità è che in fondo al cuore non ci credo.

I giorni passano in silenzio, lunghi e privi di dolore, pieni come sono di una disciplinata laboriosità. Abbiamo preso un’altra infermiera perché ci sembra terribile che possa morire da solo, vogliamo che qualcuno corra subito a chiamarci, sentiamo che è male che muoia durante il nostro sonno, pensiamo che non ce lo permetterebbe, il suo egoismo vorrebbe la nostra attenzione, non è una cosa privata la sua morte.

E così una notte l’infermiera ci chiama. Sentiamo che ci trova assurdi, che sarebbe stato meglio per tutti scoprirlo all’alba. È morto nel sonno, avrebbe detto. È morto nel sonno, in pace, avremmo detto.

E adesso dunque lo vegliamo, nessuno osa dormire e domani saremo esausti. Come il dottore aveva suggerito, inavvertitamente, Olga prende delle decisioni, porta a letto mia suocera, si occupa di lei, si dà da fare, è attiva. È morto in pace, dice. Sì, diciamo tutti, siamo contenti che ci sia riuscito. Siamo sollevati che alla fine si sia calmato.

E alla fine capisco la sua domanda. È questo, mi dico, che cercavamo e che cercava anche lui nelle macchie del muro. Mi pare di capire finalmente la sua fatica, l’irascibilità di chi si concentra e viene sempre distratto, dalle sue proprie forze, da quelle degli altri, dal caotico e casuale brulicare degli affetti che trattiene irragionevolmente nella vita e costringe alla disarmonia.

 

 Nota

Il racconto, in una versione leggermente diversa, è presente nel volume Percezioni variabili, Piero Manni, 2005.

 

 

 

 

Stoner

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Finalmente ho letto Stoner, di John Edward Williams (1922 – 1994), pubblicato da Fazi Editore nel 2012, nella collana Le strade, con la postfazione di Peter Cameron.

Dico finalmente perché è un libro che in pochissimo tempo è diventato quasi un oggetto di culto, (tanto che il blog della casa editrice ha addirittura preso il suo nome!)

Storie indipendenti

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(Gli amici di Doppiozero hanno un progetto in testa che mi sembra molto interessante e condivisibile. E’ per questo che vi chiedo di leggere il post che ne parla. G.B.)

Nel 1999 la radio americana NPR invitò Paul Auster a raccogliere “storie vere”, scritte dagli ascoltatori, e a raccontarle con la sua voce. Nasceva così il National Story Project, presto composto da alcune migliaia di lettere tra cui Auster scelse quelle lette alla radio ogni domenica mattina. Dalla trasmissione lo scrittore trasse un libro, Ho pensato che mio padre fosse Dio, uno dei suoi più belli e meno noti, una raccolta di centoventisei racconti autobiografici di straordinaria forza espressiva e suggestione poetica…

Continua qui

25 Aprile. Resistenza o resilienza?

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di Jamila Mascat 

A due giorni dalla Festa della Liberazione, tornare a parlarne ha meno del post e più della considerazione inattuale. Ma tant’è. La parola resilience mi pare che ricorra più spesso in inglese, forse come conseguenza dei dibattiti in voga nelle scienze sociali anglofone, dalla psicologia del lavoro alla sociologia ambientale. In italiano salta subito agli occhi quanto pericolosamente i due sostantivi resistenza e resilienza si somiglino. Il primo, non c’è dubbio, gode di un’eufonia che l’altro se la sogna, anche se solo per poche lettere di differenza. A livello semantico, a prima vista e grossolanamente, i due termini potrebbero parere altrettanto affini: in fondo tanto i resistenti quanto i resilienti possono essere rubricati nel novero degli individui alle prese con una situazione di difficoltà a cui devono sapere far fronte con coraggio. Solo che il coraggio dei resilienti consiste nella capacità di adattarsi ai cambiamenti e reagire positivamente ai traumi, mentre quello dei resistenti consiste nella determinazione a lottare contro. (Che poi “la resistenza al mondo, creduta eroica, – scriveva Fortini –  sembra per attimi, con orrore, infantile rifiuto dell’arido vero”, è un altro discorso che non c’entra con la Resistenza al maiuscolo). La distinzione, quindi, non è di poco conto. Ma per farla breve: un’impresa preferisce impiegati resilienti; invece resistenti sono i partigiani – e i combattenti per la libertà di ogni tempo e luogo.

In mezzo alle tante manifestazioni romane, come ogni anno da quattordici a questa parte, il comitato Quell@ che il 25 aprile ha organizzato la giornata della Liberazione al Pigneto, durante la quale, tra la altre cose, si rendeva omaggio alla memoria degli abitanti resistenti del quartiere attraverso il percorso guidato Pigneto ’44 – Ribelli”.

Mentre a fine pomeriggio sul palco si discuteva dell’esperienza della resistenza curda di Kobane, ricevo su whatsapp una vignetta in bianco e nero che recita: “Antifascism is the worst product of fascism”, firmato “A. Bordiga”. Nel dire che “il più disgraziato e pernicioso prodotto del fascismo è l’antifascismo”, Bordiga combatteva quelli che riteneva essere i limiti macroscopici di una risposta democratico-borghese al fascismo. Nonostante le attenuanti – trattasi di un’espressione malamente estrapolata che meriterebbe in ogni caso di essere discussa e compresa nel suo contesto – una frase del genere risuona profondamente blasfema e difficilmente condivisibile. Eppure dice qualcosa, suo malgrado, rispetto a un pericolo  che minaccia e anzi già incrina la cultura della Resistenza, cioè quella costellazione di discorsi, riflessioni e commemorazioni che mettono a tema la storia e l’eredità dell’antifascismo e si condensano intorno alle celebrazioni del 25 aprile.

Finemente raccontata e tramandata dagli storici specialisti, la storia della Resistenza italiana (gli esperti obietteranno che ce ne sono più d’una, ma la semplificazione è d’obbligo in questo post, e per la complessità è bene leggere altrove, in particolare i contributi originali di D. Broder e F. Giliani) è nel bene e nel male patrimonio di tutti. Nel bene (è ovvio) e nel male (per quell’effetto “intramontabile” – a dispetto dei tentativi osceni di scrivere storie diverse, brutte e revisioniste – che ha il sapore del navy blue per i completi da uomo: buono per tutte le stagioni). 

Quel che lascia perplessi, del resto, non è il paradosso ecumenico per cui, solo per fare un esempio, il sindaco Marino e i centri sociali che l’amministrazione romana si diverte sgomberare da mesi, celebrino, ciascuno a suo modo, la Giornata del 25 aprile. Piuttosto, quel che lascia perplessi è che si possa convertire il capitale simbolico della Resistenza in una sorta di invariante metafisico, invocato e santificato ovunque, e tuttavia indeclinabile e perciò condannato a essere conservato solo in luoghi (istituzionali) freschi e asciutti.

Ma se si vuole evitare di trattare la Resistenza come un salume pregiato, allora non si tratta semplicemente di conservarla. Si tratterebbe invece di consumarla e mobilitarla al presente – “Ora e sempre Resistenza”, recita la famosa poesia di P. Calamandrei –  perfino in luoghi afosi e bagnati di sangue come i Territori Palestinesi, a qualche mese di distanza dall’operazione Protecting Edge contro Gaza.

Pochi, e tra questi Moni Ovadia sul manifesto, hanno risposto per le rime al presidente della Comunità ebraica di Roma, Riccardo Pacifici, che ha annunciato qualche settimana prima delle celebrazioni previste per il 25 aprile che la sua organizzazione avrebbe disertato i festeggiamenti, dopo che anche l’Aned e le Brigate ebraiche avevano confermato di non prendere parte al corteo di Porta San Paolo, storico raduno antifascista della Capitale. “Dato che sarà Shabbat non saremo presenti – ha dichiarato Pacifici – ma non ci saremo anche perché i palestinesi, che saranno al corteo, durante la guerra erano alleati dei nazisti”.

Risponde Ovadia che: “il gran muftì di Geru­sa­lemme Amin al Hus­seini, mas­sima auto­rità reli­giosa sun­nita in terra di Pale­stina fu alleato di Hitler, favorì la for­ma­zione di corpi para­mi­li­tari musul­mani a fianco della Ger­ma­nia nazi­sta e fu fiero oppo­si­tore dell’instaurazione di uno stato Ebraico nel ter­ri­to­rio del man­dato bri­tan­nico. Men­tre la bri­gata ebraica com­bat­teva con gli alleati con­tro i nazi­fa­sci­sti. Tutto vero, ma il muftì nel 1948 venne desti­tuito e arre­stato: oggi vedendo una ban­diera pale­sti­nese a chi viene in mente il gran muftì di allora?”. Piuttosto – continua Ovadia – “oggi la ban­diera pale­sti­nese parla a tutti i demo­cra­tici di un popolo colo­niz­zato, occu­pato, che subi­sce con­ti­nue e inces­santi ves­sa­zioni, che chiede di essere rico­no­sciuto nella sua iden­tità nazio­nale, che si batte per esi­stere con­tro la poli­tica repres­siva del governo di uno stato armato fino ai denti che lo opprime e gli nega i diritti più ele­men­tari ed essen­ziali. Un governo che lo umi­lia esco­gi­tando uno stil­li­ci­dio di vio­lenze psi­co­lo­gi­che e fisi­che e pseudo legali per ren­dere esau­sta e irri­le­vante la sua stessa esistenza”.

Ecco, forse, affinché la memoria della Resistenza non affoghi nel magma della resilienza, bisognerebbe continuare a resistere e non solo resilire (in questo caso, appunto, “pervertire” il senso della Resistenza). Ricordando e celebrando, insieme a (e non contro) gli ex-deportati e i  partigiani rossi e neri, generazioni di palestinesi resistenti contro i crimini israeliani.

Extraterrestrial Activity #1 : Confessione

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di Bob Perelman

pulp-fiction-space-abduction1

Gli alieni abitano la mia estetica
da decenni. Praticamente dagli anni Settanta.

Prima che iniziassi a scrivere come
il me attuale, ma giovane. Eppure

qualcosa deve essermi accaduto alla memoria,
allo spirito di giudizio – è evidente:

sono stato condizionato. Le vecchie cose,
il bivio nella testa, il mio

primo casa base, papà che cade
dalla macchina. Io ricordo le parole

ma non so tornare indietro. Penso
proprio che stiano monitorando le mie

sensazioni. È certo: le mie categorie
sono state scompigliate. Osservo le antologie

nelle grandi catene librarie, sugli scaffali
delle università, persino i piccoli editori

come case d’oppio, tutte quelle stanze
sullo spazio bianco: sembrano giusto modelli

usciti dai cataloghi. I modelli hanno
braccia e gambe e una testa,

le poesie solitamente no, ma a parte
questo, è dura, almeno per me,

distinguerle. C’è la poesia tipo biancheria
sexy, quella in tuta da lavoro

da indossare a una festa mascherata
in caso di necessità, la piccola

blasfema sottoveste in versi. C’è varietà,
dici: lo stile Oxford chiusa con

lacci intrecciati a mezza-rima; l’epica toga
che lascia scoperta qualche caviglia antica;

la Guarda! Il mondo è cambiato!
E infine vesto fluente casual con

gli shorts; poi il nudo integrale;
il disintegrato… Sì, suppongo ci sia

varietà, ma gli sguardi, quelli avanzano
e mi leggono dal di dentro

il tu rinchiuso insieme al mio
dispositivo facciale di Riconoscimento Capitale Culturale!

No grazie, Jay Peterman! No grazie,
“Sera qualunque a New Haven”! Sto

solo aspettando il biglietto di ritorno
per avere un qualche senso, aspetto

che calino le nuvole-a-padella! Le autorità
negano ci siano incursioni, non sorprende.

E io stesso le nego, pensate.
Cosa potrebbe motivare un gruppo di

tentacolosi viscidi estetisti dalle teste oblunghe
con tecniche molto oltre le nostre

a visitare la terra, rapire ingenui
poeti e inculcare in loro forme

ultramondane che sono persino, se credi
ai tabloid, lascive? E questi rapimenti

sembrano sempre aver luogo in qualche
ambientazione di provincia: non risulta più

che sospetta la cosa? Perché mai
non si manifestano sul tetto di

un editore newyorchese? Non sarebbe male
avere delle risposte soddisfacenti a riguardo…

potremmo imparare qualcosa, sulla poesia se
non altro, ma io non sono

di grande aiuto, essendo un rapito,
almeno in teoria, sebbene, come ho

già detto, non ricordi molto. Eppure
questa scrittura sembra abbastanza normale:

frasi complete; punti e virgola; blabla.
Pare che abbia perso il mio

abbonamento all’avanguardia nei panni da lavare.
Dicono sia tipico. Bene, dovrete usare

il vostro metro di giudizio, terrestri!
Giudizio: compito vostro! Al lavoro! Come

se poteste partire! E voi pensavate
che fosse la gravità il problema!

 

*

 

“Confession” è il primo testo di The Future of Memory, di Bob Perelman (1998), leggibile in lingua originale qui. La traduzione è di Renata Morresi.

 

Il pallone, la Citroën, l’antifascismo involontario

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di Helena Janeczek
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L’imminenza del 25 aprile mi ha fatto tornare in mente una storia. Non è una storia italiana, neppure una storia di resistenza in senso stretto. La trovo sorprendente, anzi bella, proprio perché è ambivalente e di profilo basso. Una storia tedesca. E di calcio.
L’aggancio per scoprila è stato un amico di mia madre, anche lui ebreo polacco di quelli scampati per miracolo, che gufava con tanta foga contro la Nationalmannschaft quanto tifava sfegatatamene per il Bayern. Non ci si poteva azzardare di allontanarlo dal televisore quando “i rossi” giocavano e qualche volta andava persino allo stadio con suo figlio.