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Azulejos e altre poesie #1. Adília Lopes

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pessoa
Tre giovedì in portoghese per tre poetesse contemporanee: Adília Lopes (Lisbona, 1960), Ana Martins Marques (Belo Horizonte, 1977) e Golgona Anghel (Alexandria, Romania, 1979). Una selezione di poesie – ancora inedite in italiano o già introvabili – presentate e tradotte da Serena Cacchioli e Nunzia De Palma.

Smartphoto di Nunzia De Palma.
[ot]

a cura di Serena Cacchioli

Ancora prima dell’opera di Adília Lopes, bisognerebbe studiare il lettore di Adília Lopes. Ne esistono varie tipologie. Lopes ha lettori appassionati di poesia, lettori che in genere non amano la poesia ma adorano la sua, lettori legati in maniera ombelicale alla propria infanzia e a quella degli altri, lettori poeti e lettori bambini. Ha anche lettori che sono famosi critici letterari: c’è chi la ama con alcune riserve e chi incondizionatamente. Certi critici la ignorano di proposito, altri la osannano. Lei continua sulla sua strada, apparentemente incurante, va in televisione, si affaccia sul pubblico con quel suo sguardo acceso, senza mai lasciare intendere quanto di lei sia personaggio e quanto invece è reale.
Il mondo immaginario di Lopes è spesso grottesco e primitivo, fatto di proverbi, detti popolari, di lessico legato all’infanzia e agli oggetti domestici. A volte, però, d’improvviso l’autrice lascia cadere tra le sue parole riferimenti letterari inaspettati e pieni di grazia. La sua forza espressiva sta esattamente in questo, nel saper mescolare con sapienza il colto con il popolare, il triviale con l’elegante, lasciando il lettore spiazzato e privo di riferimenti o punti cardinali su cui poter contare per costruire un’opinione sensata. Con Lopes il giudizio critico si sospende, i rimandi a una tradizione poetica portoghese o internazionale si fanno confusi e ingarbugliati, non resta che abbandonarsi al suono, alle immagini e al riso amaro della sua ironia.
Le poesie che propongo in italiano sono tratte dalla raccolta Obra (Opere) pubblicata dalle edizioni Mariposa Azual (Lisbona) nel 2000; per ogni poesia indicherò la data di composizione. In Italia finora è stato pubblicato un solo suo libro, Il poeta di Pondichéry, uscito nel 1988 per Empiria, a cura di Carlo Vittorio Cattaneo.

 

***

Elisabeth se ne è andata
(con alcune cose di Anne Sexton)

Io che sono già andata dalla colazione alla follia
io che mi sono già stufata di studiare il codice morse
e di bere il caffelatte
non posso stare senza Elisabeth
dottoressa, perché l’ha licenziata?
che male mi faceva Elisabeth?
a me piace che sia solo Elisabeth
a lavarmi i capelli
non sopporto che lei dottoressa mi tocchi la testa
io vengo qui dottoressa solo
per farmi lavare i capelli da Elisabeth
solo lei sa i colori gli odori la viscosità
che amo nello shampoo
solo lei sa come mi piace l’acqua quasi fredda
che mi scorre su tutto il capo
e non posso stare senza Elisabeth
non mi venga a dire che il tempo cura tutto
contavo su di lei per il resto della vita
Elisabeth era la principessa delle volpi
avrei bisogno delle sue mani nella mia testa
ah e se solo avessi un coltello per tagliarle la
gola dottoressa io non torno
al suo tunnel antisettico
sono già stata bella una volta ora sono io
non voglio essere chiassosa e sola
di nuovo nel tunnel che ha fatto a Elisabeth?
Elisabeth se ne è andata
ed è tutto quel che ha da dirmi dottoressa
con una frase così in testa
non voglio tornare alla mia vita

 

A Elisabeth foi-se embora
(com algumas coisas de Anne Sexton)

Eu que já fui do pequeno-almoço à loucura
eu que já adoeci a estudar morse
e a beber café com leite
não posso passar sem a Elisabeth
porque é que a despediu senhora doutora?
que mal me fazia a Elisabeth?
eu só gosto que seja a Elisabeth
a lavar-me a cabeça
não suporto que a senhora doutora me toque na cabeça
eu só venho cá senhora doutora
para a Elisabeth me lavar a cabeça
só ela sabe as cores os cheiros a viscosidade
de que eu gosto nos shampoos
só ela sabe como eu gosto da água quase fria
a escorrer-me pela cabeça abaixo
eu não posso passar sem a Elisabeth
não me venha dizer que o tempo cura tudo
contava com ela para o resto da vida
a Elisabeth era a princesa das raposas
precisava das mãos dela na minha cabeça
ah não haver facas que lhe cortem o
pescoço senhora doutora eu não volto
ao seu anti-séptico túnel
já fui bela uma vez agora sou eu
não quero ser barulhenta e sozinha
outra vez no túnel o que fez à Elisabeth?
a Elisabeth foi-se embora
é só o que tem para me dizer senhora doutora
com uma frase dessas na cabeça
eu não quero voltar à minha vida

[1988]

***

A proposito di stelle

Non so se mi sono interessata al ragazzo
perché lui si interessava di stelle
se mi sono interessata alle stelle perché mi interessava
il ragazzo oggi quando penso al ragazzo
penso alle stelle e quando penso alle stelle
penso al ragazzo siccome mi sembra
che mi occuperò di stelle
fino alla fine dei miei giorni mi sembra che
non smetterò d’interessarmi al ragazzo
fino alla fine dei miei giorni
non saprò mai se mi interessano le stelle
se mi interessa il ragazzo che si interessa
di stelle non mi ricordo più
se ho visto prima le stelle
se ho visto prima il ragazzo
se quando ho visto il ragazzo ho visto le stelle

 

A propósito de estrelas

Não sei se me interessei pelo rapaz
por ele se interessar por estrelas
se me interessei por estrelas por me interessar
pelo rapaz hoje quando penso no rapaz
penso em estrelas e quando penso em estrelas
penso no rapaz como me parece
que me vou ocupar com as estrelas
até ao fim dos meus dias parece-me que
não vou deixar de me interessar pelo rapaz
até ao fim dos meus dias
nunca saberei se me interesso por estrelas
se me interesso por um rapaz que se interessa
por estrelas já não me lembro
se vi primeiro as estrelas
se vi primeiro o rapaz
se quando vi o rapaz vi as estrelas

[1985]

***

L’insalata con la salsa rosa

1.
Conobbi Magda in spiaggia
in spiaggia è una metafora oscena
che come le altre metafore oscene
può essere usata sia come eufemismo
sia come insulto
conosco per esperienza personale
entrambi gli usi dell’espressione
in spiaggia

2.
A me piace farmi passare
per una ragazza ordinaria
Magda era proprio ordinaria
all’inizio era questo ciò che più
mi attraeva in lei poi fu questo
ciò che più di tutto mi disgustò in lei

3.
I miei rapporti con Magda
da deliziosi diventarono promiscui
mi successe
ciò che mi era successo
quando mangiai l’insalata con la salsa rosa
all’inizio
l’insalata era deliziosa per via della salsa
poi iniziai a capire
che era mille volte meglio
mangiare la verdura
senza la salsa piuttosto che con la salsa
la salsa m’impediva di mangiare la verdura
con gusto
mi faceva schifare la vita

4.
Vivevo con Magda
in una stanza con due letti
quando arrivavo nella stanza
Magda stava sdraiata nel mio letto
in una posizione da Maya desnuda
ma vestita
che era anche peggio
altre volte la trovavo
seduta sulla mia sedia
a sfogliare i miei libri
e a leccarsi le dita

5.
Magda era un’intrusa
dopo essere stata un essere envoûtant
sia come intrusa
sia come essere envoûtant
lei era per me
una fonte di turbamento

6.
Io non ero casta
non perché mi dessi
con Magda
(che anzi era una praticante professionista del saffismo)
a un piacere che alcuni dicono vizioso
(la toccai una volta soltanto
senza volere
e le chiesi automaticamente scusa)
ma perché con Magda
non provavo nessun piacere

7.
(Penso che il piacere sia casto
ciò che non è casto
è il simulacro del piacere
o la rinuncia al piacere
tanto il simulacro
come la rinuncia)

8.
Un giorno tornai nella stanza
e Magda era sparita
senza lasciare tracce
mi fece male non trovare
il porcilaio tipico della Magda
le mie sigarette fumate
il mio posacenere pieno di mozziconi
sporchi di rossetto
(che mi ricordavano dei
denti sputati dopo un litigio)
il Las Moradas
prima di Calculus I
sulla mia mensola
quando mi abituai
a mettere quei libri nell’ordine inverso

9.
Quel che mi fece male
fu che tutto era finito
com’era cominciato
come se nulla fosse successo
nel frattempo
ora quello che successe nel frattempo
ancora oggi mi disturba
e quindi dev’essere successo

 

A salada com molho cor-de-rosa

1.
Conheci a Magda na praia
na praia é uma metáfora obscena
que como as outras metáforas obscenas
pode ser usada quer como eufemismo
quer como insulto
conheço por experiência própria
os dois usos da expressão
na praia

2.
Eu gosto de me fazer passar
por uma rapariga ordinária
a Magda era mesmo ordinária
a princípio era isto o que mais
me atraía nela depois foi isto
o que sobretudo me desgostou nela

3.
As minhas relações com a Magda
de deliciosas passaram a promíscuas
aconteceu-me
o que me tinha acontecido
quando comi salada com molho cor-de-rosa
ao princípio
a salada era deliciosa por causa do molho
depois comecei a perceber
que era mil vezes melhor
estar a comer os vegetais
sem molho do que com molho
o molho impedia-me de comer os vegetais
com gosto
desgostava-me da vida

4.
Vivia com a Magda
num quarto de duas camas
quando eu chegava ao quarto
a Magda estava deitada na minha cama
numa posição de Maja desnuda
mas vestida
o que ainda era pior
outras vezes encontrava-a
sentada na minha cadeira
a folhear os meus livros
e a chupar os dedos

5.
A Magda era uma intrusa
depois de ter sido um ser envoûtant
quer como intrusa
quer como ser envoûtant
ela era para mim
uma fonte de perturbação

6.
Eu não era casta
não porque me entregasse
com a Magda
(que era aliás uma praticante profissional do safismo)
a um prazer que alguns dizem vicioso
(só lhe toquei uma vez
sem querer
e pedi-lhe automaticamente desculpa)
mas porque com a Magda
não tinha prazer nenhum

7.
(Acho que o prazer é casto
o que não é casto
é o simulacro do prazer
ou a renúncia ao prazer
tanto o simulacro
como a renúncia)

8.
Um dia voltei ao quarto
e a Magda tinha desaparecido
sem deixar marcas
custou-me não encontrar
o chiqueiro próprio da Magda
os meus cigarros fumados
o meu cinzeiro cheio de beatas
sujas de bâton
(que me faziam lembrar
dentes cuspidos após uma briga)
o Las Moradas
antes do Calculus I
na minha estante
quando eu me habituei
a pôr esses livros por ordem inversa

9.
O que me custou
foi tudo ter acabado
como tinha começado
como se nada se tivesse passado
durante
ora o que se passou durante
ainda hoje me incomoda
e portanto deve ter acontecido

[1985]

Considerazioni circa una poetica della relazione

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Biagio Cepollaro, DueSerpenti-1-2008

di Vincenzo Frungillo

[L’intervento di Vincenzo Frungillo sviluppa la discussione nata intorno alla critica nell’ ambito della rassegna Tu se sia dire dillo 2014. B.C.]

La critica è fatta di singole sensibilità letterarie che riescono ad ampliare la visione dei lettori. La capacità percettiva, la sensibilità, non è faccenda secondaria. A questa, va da sé, deve essere affiancata una conoscenza approfondita della produzione poetica o letteraria tout court, bisogna essere in possesso degli “strumenti umani”, per dirla con il titolo di un libro di Sereni. Preferisco parlare di critici, quindi, piuttosto che di critica, termine fin troppo astratto. Bisogna puntare in ogni caso sulla centralità del testo, e sulla domande che da esso nascono. Discutiamo quindi di una critica che cerchi di essere un luogo dell’interrogazione radicale. Per questo motivo la relazionalità tra testo e autore è di per sé problematica. Mettersi in relazione significa mettersi in ascolto. Interpretare un testo significa tradurre la cadenza temporale dell’autore in spazio condiviso. Ogni segno contiene la matrice di un intenzione più ampia. L’interprete deve a sua volta operare uno spostamento delle proprie strategie mentali, deve esporsi. Accettare il rischio. Questa prospettiva è stata ben sintetizzata da Glissant nel suo Poetica della relazione: «”L’Essere è relazione”: ma la relazione è al riparo dall’idea dell’essere. La Relazione è conoscenza in movimento dell’esistente, che rischia l’essere del mondo». Se si accetta questo presupposto, l’io non può più dirsi costituito di per sé. Non esiste un mondo, un sistema di codici, già dato. Impossibile quindi un lirismo ingenuo, privo della domanda sullo stesso mondo che lo accoglie. Non parliamo di realismo, che a sua volta prescinde da un’interrogazione della relazione tra soggetto e mondo, interpreta la mimesis come auto giustificazione del dato e del vissuto. Si allude piuttosto ad una messa in discussione del rapporto tra poeta e mondo. Tale relazione è nei poeti più avveduti il centro stesso del fare poetico. Questa relazione risulta essere estremamente incerta. Come si relazionano l’io e il mondo? In questa interrogazione c’è il senso stesso del fare poesia, il senso stesso dell’ermeneutica del testo.

Una risposta programmatica al problema viene dalla poesia oggettiva, in quanto quest’ultima metaforizza una fase dell’evoluzione degli individui occidentale, di individui che vivono una periferia oramai priva di centro. Anche trovandoci nel campo privilegiato di autori pienamente consapevoli dei propri mezzi espressivi, tuttavia, il paradigma sembra esso stesso consolatorio. La scrittura poetica o prosa poetica, non risolve il problema dell’io, lo sposta semplicemente sul polo opposto della rappresentazione del mondo. L’io è messo tra parentesi, sospeso, e le cose vengono mostrate senza che su queste venga espresso un giudizio apparente. L’azzeramento del dato simbolico lega il lettore ai significanti ponendolo di fronte ad una strettoia. Su carta sono riportati codici privi di senso, ossia privi di connotazioni emotive proprie. Il risultato è la sintomatologia di una depressione: l’incapacità del Sé di distinguersi dal mondo. Qui il rischio è manifestato nella sua massima evidenza: la sfera naturale fagocita quella simbolica e parla per sua bocca. Il risultato, nella sostanza, non cambia. Questa produzione letteraria ripropone i toni di una questione affrontata da Italo Calvino e Perlini ai tempi delle neoavanguardie. Calvino parlava del “mare dell’oggettività” per indicare quella scrittura che annullava, azzerava, il discrimine del soggetto. Il problema della relazionalità resta. Il merito della depressione letteraria, del grado zero della percezione, sta nel mettere in evidenza il rischio. Aldilà della strettoia di senso, ciò che conta però è una poesia che metta su carta la dinamica, la meccanica che alimenta il senso. Solo così evidenziare la possibilità dell’annichilimento di senso. La relazione interpretativa aiuta la messa in potenza di un mondo, offre spazio. Più che assecondare l’alienazione del soggetto nella presa di parola degli oggetti, ossia del mondo privo di senso, del mondo ridotto a feticcio, estrema conseguenza della profezia marxista sulla merce e debordiana sullo spettacolo, bisogna invece recuperare la faglia. Bisogna puntare lo sguardo sulla forbice natura-cultura. (La problematica della relazione io-mondo, può essere tradotta in relazione profonda tra stadio naturale e stadio simbolico/culturale). In questo modo la poesia, la scrittura in versi, la scrittura metrica, è una modalità di comprensione delle dinamiche complesse, un’ermeneutica della forma. La letteratura ha perso di certo la sua centralità nella casistica delle esperienze, ma proprio per questo motivo può essere uno dei paradigmi tra i più radicali. La poesia deve porsi come strumento di interrogazione radicale.

Recuperare la faglia significa quindi riconoscere la relazione tra cultura e natura. Tale relazione è il problema. Dopo l’ipertrofia dei significanti bisogna recuperare lo spazio della domanda. La scrittura ha il compito di liberare il senso in relazioni impreviste. Nessun esistenzialismo, che poi è una forma debole di coscienza dei fatti, piuttosto un utilizzo consapevole degli strumenti poetici oltre la resa meramente letteraria del proprio lavoro. Scrive Glissant: «Abbiamo detto che la Relazione non istituisce soltanto il ritrasmesso, ma anche il relativo, e ancora il relato. La sua verità, progressivamente accostata, si dà in una narrazione. Poiché, se il mondo non è un libro, è pur vero che il silenzio del mondo ci condurrebbe a nostra volta alla sordità. La Relazione, che agita l’umanità, ha bisogno della parola per editarsi, per perpetuarsi. Ma, giacché il suo racconto non procede da un assoluto, essa si rivela come la totalità dei relativi messi in rapporto e detti. […] In queste condizioni, il pensiero poetico è all’erta: sotto il fantasma della denominazione ha cercato il mondo realmente vivibile. Si è proiettato verso. Quasi ricominciasse il tragitto del vecchio nomadismo a freccia. Anche i movimenti di questa poetica sono reperibili nello spazio come altrettante traiettorie, in cui l’oggetto stesso della portata poetica sarà quello di condurli a compimento per poi abolirli. […] Giunge allora il tempo in cui la Relazione non si profetizza più attraverso una serie di traiettorie, di itinerari che si succedono o si contrastano, ma, da se stessa e in se stessa, esplode come una trama inscritta nella totalità sufficiente del mondo.» Da questo punto di vista la scrittura ha una funzione liberatoria. Libera in una relazione imprevista, ma allo stesso tempo concede lo spazio del riconoscimento, offre dei margini. Il movimento è opposto a quello di una cultura che asseconda la propria espansione, credendo in una illimitata potenzialità dei mezzi. Qui la natura è il limite necessario. La natura è aldilà di qualsiasi codificazione prestabilita. Liberare la potenzialità stessa della traiettoria di senso. Nella produzione metrica c’è il relato, il debito che abbiamo con la nostra sfera naturale. Ricordiamo quanto scriveva Wittgenstein: «Ogni segno, da solo, sembra morto. Che cosa gli dà vita? Nell’uso esso vive. Ha in sé l’alito vitale? O l’uso è il suo respiro? […] ”C’è già tutto in …” Com’è che la freccia “indica? Non sembra che, oltre se stessa, porti in sé qualcosa? –“No, non il morto segno; solo lo psichico, il significato, può farlo”. –Questo è vero e falso. La freccia indica solo nell’applicazione che l’essere vivente ne fa. […] Vogliamo dire “quando comprendiamo non c’è nessuna immagine morta di nessun tipo, ma è come se ci dirigessimo verso qualcuno”. Ci dirigiamo verso la cosa intesa. […] Sì, intendere è come dirigersi verso qualcuno». Ora questa possibilità di comprensione è impossibile in una chiusura egotica, è altresì compromessa dalla matrice computazionale del desiderio collettivo. Più ci si crede unici, isolati solipsisticamente, più si assecondano i desideri indotti dalla naturalizzazione del simbolico, ossia dalla rimozione effettiva della natura: è possibile eseguire delle mappature linguistiche dei desideri collettivi proprio su queste basi. (Si pensi alla La carta e il territorio di Michel Houellebecq).

Liberare la scrittura significa, provare la Relazione. E’ un discorso etico, anche se derivato, privo di costrizioni morali. La poesia e la critica hanno il compito di rielaborare dei codici, di ritrasmetterli e vivificarli nella traduzione. Un testo che sappia essere una pagina mondo, è un testo che non si esaurisce nel suo portato di senso. Il senso è messo continuamente in potenza. Se il nostro è un salto di paradigma, oltre l’umano e ancora oltre il post umano, bisogna pensare una scrittura ecologica e non più egotica. Il discorso di Glissant non fa che riportare su piano planetario una dinamica interna del Sé. Il mondo, ridotto a territorio rizomatico, è un testo. Qui comprendiamo le nostre possibilità e i nostri limiti, giochiamo la partita della presenza a noi stessi e agli altri. Questo che un tempo sarebbe potuto suonare eccessivo, oggi è vero in quanto lo spazio ha mostrato i suoi limiti. Il critico ha il compito di riconoscere i segnali e soffermarsi sulla parte viva e vivificante del testo-mondo. Operare in opposizione al processo di sottrazione; più che decostruire, allargare la faglia.

(Le citazioni qui comprese sono tratte da Édouard Glissant, Poetica della relazione. Poetica III, Quodlibet, 2007; e da Ludwig Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Torino, Einaudi, 1995)

Aggiornamento: Il caso Bilbolbul , ovvero la necessità di una decolonizzazione italiana

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BilBOlbul-2014-Manifesto

Carissimi lettrici e lettori di Nazione Indiana vi volevo aggiornare sugli esiti del dibattitto sull’articolo: Il caso Bilbolbul , ovvero la necessità di una decolonizzazione italiana https://www.nazioneindiana.com/2014/11/14/il-caso-bilbolbul-ovvero-la-necessita-di-una-decolonizzazione/.

Sono stati molti i commenti, le prese di posizione, le conclusioni.

Vorrei segnalarvi qui le risposte (due) che ci hanno inviato gli organizzatori della rassegna Bilbolbul e di seguito troverete anche una mia gentile replica. Io spero che questo articolo e questo fecondo scambio di opinioni possa portare ad un incontro e ad uno scambio ancora più fecondo.

Ecco la prima lettera degli organizzatori:

Ci sembra giusto rispondere all’interrogativo posto da Igiaba Scego che ci ha chiamato in causa sulla scelta di utilizzare Bilbolbul come riferimento della nostra manifestazione. Non crediamo infatti che la questione sia relativa all’immagine di Sarah Mazzetti che come tutti gli artisti delle edizioni precedenti si è trovata a riattualizzare, facendolo brillantemente, un personaggio di inizio secolo, un’icona che è data in partenza da una nostra committenza.
È quindi sull’opportunità di questa committenza che ha più senso replicare. Ci dispiace che questa possa ferire la sensibilità e toccare l’esperienza individuale di qualcuno, ma davvero crediamo che i messaggi razzisti oggi passino per immagini di questo tipo? Se ancora ben esiste un immaginario coloniale, conscio e inconscio, nel nostro modo di vedere e di vivere dubitiamo proprio che si espliciti in un repertorio di questo tipo. Ben altri sono i pericoli, come ci sembra di leggere nelle stesse parole di Igiaba Scego. A partire dal fatto di giocare sempre di rimessa nei confronti di un immaginario che muovendo per dati assodati, per punti di riferimento incontrovertibili, è di per sé sempre a rischio del rifiuto dell’altro, e di rimettersi in discussione. I linguaggi artistici hanno sempre avuto, tra le altre, anche la funzione implicita di lavorare ai fianchi un immaginario di questo tipo, perché si costruiscono sull’ambiguità e complessità di senso, sul ribaltamento delle aspettative, sulle fratture del fantastico, sul gioco delle metafore. Esattamente quello che faceva, e per chi lo legge, continua a fare Bilbolbul di Attilio Mussino.
Per chi fosse interessato – perché Igiaba Scego già è al corrente del lavoro della nostra associazione – noi stessi abbiamo parlato sul numero 35 (http://hamelin.net/hamelin-35-il-migrante ) delle problematiche che affrontano ogni giorno i popoli migranti.

Ecco la seconda lettera degli organizzatori:

 

 

Cara Igiaba, cari tutti,

scusate anche voi la risposta lunga, ma come immaginerete i giorni del post festival sono ancora pienissimi di mail e decisioni da prendere.

 

Continuiamo a rispecchiarci nella risposta che vi abbiamo mandato, risposta che non vedevamo e continuiamo a non vedere inserita nella lunga e a tratti poco centrata trafila dei commenti. Non siamo contrari alla pubblicazione della risposta, ma alla sua pubblicazione in un commento che non pensiamo offra davvero spazio al dialogo.

 

Ci dispiace, ma non saremo al convegno: parte di noi è a Tokyo per la mostra di Iela Mari e altri a Montreuil per il Salone del libro. Però ci piacerebbe in futuro fare una chiacchierata per conoscerci meglio e confrontarci.

 

Intanto un saluto.

 

 

Ecco la mia risposta (con la speranza mia di un futuro incontro tutti insieme)

Carissimi organizzatori del festival Bilbolbul, sono Igiaba Scego e mi scuso per il ritardo con cui vi rispondo alla vostra mail.

Volevo innanzitutto ringraziarvi per la risposta. Trovo sempre apprezzabile ricevere risposte su quello che si scrive.

Però carissimi rimango ferma nella mia opinione, quella ribadita nell’articolo pubblicato su Nazione Indiana sull’iconografia di Bilbolbul. Non vi ho accusato di “razzismo”, non mi permetterei mai di lanciare un’accusa così infamante. Conosco il vostro lavoro e come ho detto nell’articolo vi considero in gambissima. Sono anche al corrente dello spazio che date ai temi interculturali nei giorni del festival. Insomma seguo il vostro lavoro da vicino e non ultimo amo molto i fumetti. 

Proprio per questo, per il vostro essere così in gamba, mi fa male “bilbolbul” e in particolare il manifesto di quest’anno. Io  (e non solo io) credo che l’immaginario giochi oggi un ruolo non secondario nella costruzione delle dinamiche discriminatorie. Ne hanno parlato con più sapienza di me persone come F.Fanon o E.Said, per non parlare dei vari Appadurai e Ngugi Wa Thiong’o. Sono temi trasversali che in altre parti del mondo sono stati discussi, analizzati e in parte superati. In Italia invece siamo purtroppo ancora lontani da una discussione che metta davvero in gioco. L’immagine stereotipata porta ai deliri xenofobi di Salvini o all’intolleranza di zone di confine, periferie sempre più abbandonate a se stesse. Anche chi non crede in quei deliri lì diventa inconsapevolmente portatore di stereotipo. C’è un filo rosso che lega tutto. In una situazione italiana delicata e sempre pronta a sfociare nello scontro violento dobbiamo cominciare anche (oltre ai tanti salvagenti sociali) occuparci di quale immaginario condiziona la nostra vita e il nostro sguardo.

è fondamentale lavorare anche sullo sguardo e soprattutto su quello che è offerto allo sguardo.

Non è un discorso intellettualoide il mio, ma so (provato sulla mia pelle nera) quanto gli stereotipi facciano soffrire e inferiorizzino i soggetti colpiti.

L’iconografia non è la sola colpevole. Infatti ci sono anche le parole dell’odio. Pensate solo alla parola clandestino, non significa niente, ma appiccica addosso a chi la subisce quasi lo stigma dell’untore. Per questo è stato creata la Carta di Roma (purtroppo poco applicata) il codice deontologico contro il razzismo che i giornalisti dovrebbero teoricamente applicare. 

Ecco credo che anche il fumetto e voi come organizzatori non vi potete tirare indietro in questa discussione.

Per questo carissimi vi invito ad un convegno performativo PRESENTE/ IMPERFETTO che si svolgerà a Roma il 27/28 Novembre presso casa della Memoria, Via Francesco di Sales. Il convegno è un primo step nella via che ci porterà ad una (spero vicina) decolonizzazione italiana.

Davvero sarebbe non solo gradita la vostra presenza, ma anche a questo punto necessaria.

Io ve l’ho scritto nell’articolo, ma ecco quello che cerco io (e non solo io) è un confronto su questi temi. Non una mera polemica da consumarsi nella realtà virtuale.

Ecco i dettagli del convegno: https://www.facebook.com/events/363753383784052/

spero di vedervi.

Se così non fosse mi piacerebbe che io come redazione di Nazione Indiana, altri redattori di Nazione Indiana, le organizzatrici del convegno Viviana Gravano, Giulia Grechi potessimo vederci da qualche parte, discutere e scambiarci opinioni. Dove? Non so, possiamo deciderlo insieme.

Io penso che da questa situazione possa nascere una feconda esperienza di collaborazione e ascolto reciproco.

Un caro saluto, Igiaba Scego.

 

L’idea di funzione #2

1

di Antonio Sparzani

funzioni2

Ed eccoci – dopo quanto visto qui  – all’ultimo passo del cammino che porta a una definizione di funzione che finalmente ci soddisferà.

D. Quarto passo. Già nel XVIII, e poi più decisamente nel XIX secolo comincia ad affermarsi la tendenza a generalizzare la definizione di funzione, svincolandola dall’esigenza di una sua rappresentazione analitica, cioè dalla necessità – formale – di rappresentarla con una formula; la prima vera formulazione di questo tipo è dovuta a Eulero e suona così:

«Se alcune quantità dipendono da altre quantità in modo tale che se queste ultime vengono cambiate allora le prime anche cambiano, allora queste sono dette funzioni delle seconde. Questa denominazione è della più ampia natura e comprende ogni metodo per mezzo del quale una quantità può esser determinata da altre. Se perciò x denota una quantità variabile allora tutte le quantità che dipendono dalla x in un qualsiasi modo, o sono da questa determinate, sono dette funzioni di x.

Quest’idea non fu immediatamente condivisa dai matematici europei, ma dopo qualche decennio cominciò ad affermarsi definitivamente, nelle opere di Lagrange, Lacroix, Fourier e – infine – di Lobačevskij e Dirichlet.

Questi schematici accenni dovrebbero suggerire che l’idea che sta alla base del concetto di funzione è quella di dipendenza di una grandezza da un’altra, o da varie altre. Notate però che la parola ‘dipendenza’ può alludere a due situazioni differenti: la prima – connotativa – ad un modo causale formalmente esprimibile nel quale una grandezza y è determinata da un’altra grandezza x , esempio: la direzione di marcia di un’auto dipende strettamente dai movimenti dello sterzo; la seconda – denotativa – e dunque più astratta e casuale – esempio: se associate ad ogni intervallo di un minuto della notte dal 10 all’11 agosto 2014 il numero di stelle cadenti visibile a occhio nudo in un fissato quadrante del cielo boreale, è chiaro che ottenete una funzione perfettamente definita e determinata, ma è molto meno chiaro come si possa in qualche modo risalire dal valore della variabile indipendente (il generico intervallo di un minuto) a quello della funzione (il numero di stelle cadenti apparse in quel minuto), l’unico modo è quello di una accurata osservazione. È chiaro che in questo caso la funzione è data in modo squisitamente estensivo: si osserva – e si trascrive poi eventualmente in un grafico – il valore corrispondente ad ogni minuto; mentre nell’esempio dello sterzo c’è sicuramente modo di calcolare – e quindi anticipare – la direzione di marcia in termini dell’angolo di rotazione dello sterzo.

Allora la funzione c’è quando una cosa dipende da un’altra: al variare di questa varia quella, in un qualche modo che può essere il più vario possibile. Si tratta di metter tutto questo in una forma razionalmente corretta e comprensibile. Per farlo occorre che nella definizione sia contenuta da un lato la presenza di una quantità che può variare (e che sarà detta variabile indipendente) all’interno di un certo ben precisato ambito di possibilità – e che è detto dominio della funzione – e dall’altro la descrizione di un ambito, in generale diverso dal primo – detto codominio, o anche range, della funzione – in cui può variare la quantità (detta variabile dipendente) che dipende dalla prima; oltre a ciò occorre che sia esattamente precisata questa dipendenza. Come s’è detto questa “precisazione” può essere formale – analitica, cioè esprimibile con formule – o invece fornita dall’osservazione dei fatti. Nell’idea di funzione c’è dunque qualcosa di profondamente non simmetrico, c’è una grandezza che varia arbitrariamente all’interno di un certo ambito e ce n’è poi un’altra che varia al variare della prima. Questa non simmetria si evidenzia anche da questa caratteristica di ogni funzione, che viene detta la sua univocità: dato un valore della variabile indipendente, dunque appartenente al suo dominio, uno e un solo valore della variabile dipendente gli corrisponde. Per ogni valore dell’età di Alice è univocamente determinata la sua altezza: ad una determinata età Alice non può avere due altezze diverse. Ma se invece fissate un valore dell’altezza (dunque del codominio della funzione che stiamo considerando) esisteranno certamente molti valori dell’età di Alice cui quel valore corrisponde: Alice non continua a crescere per tutta la sua vita, né a decrescere.

Un modo standard usato dai matematici pignoli per scrivere tutto questo è questo:

funzione notazione

 

Dove D indica il dominio della funzione f , W indica il codominio, x il generico elemento di D e le freccette alludono in qualche modo alla asimmetria della situazione.

Nel formicaio degli incipit

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Le forme della brevità, Franco Angeli, Milano 2014
Le forme della brevità, Franco Angeli, Milano 2014
Le forme della brevità, Franco Angeli, Milano 2014

di: Milly Curcio

Se davvero ci sono, come sosteneva Henry James, cinque milioni di modi diversi per raccontare una storia, quanti modi diversi ci sono per cominciarla? Tanti, tantissimi, persino ora, in questo momento, ne stanno nascendo in gran numero e sicuramente tagliati su modalità differenti: da qui l’impossibilità di darne una classificazione esauriente. Lo chiarisce bene Pasquale Guaragnella che in L’incipit e la tradizione letteraria italiana, nel capitolo introduttivo dell’opera in quattro volumi (secondo una ripartizione cronologica da Dante a oggi), afferma che «l’incipit costituisce, dunque, un capitolo importante dell’ars rhetorica: si tratta di un difficile problema, non solo formale, nel quale ogni scrittore s’imbatte e che deve risolvere»; di fatti i quattro volumi in questione raccolgono i commenti agli incipit di testi di grandi autori senza per questo tentare di definire un canone o di delineare un profilo di storia letteraria.

In epoca contemporanea, nella commistione di generi e linguaggi, nella totale assenza di canoni e di regole, proporre una classificazione si rivelerebbe di per sé un’operazione arbitraria, sterile, comunque parziale. I manuali di scrittura, che talvolta hanno cercato di fornire alcuni esempi delle varie tipologie di incipit, si sono presto arresi di fronte alla difficoltà di fornirne una casistica attendibile ed esauriente. Senza contare che a volte l’arbitrarietà, come si vedrà, consiste nel far rientrare tout court un incipit in una sola tipologia, così come, nella narrativa cosiddetta postmoderna, talvolta si stenta a circoscrivere una narrazione in un genere specificamente connotato.

Non esiste separazione

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di Francesco Borrasso

20141120_153314Non riesco ad uscire da questo disordine. Un laccio mi tiene stretto al ricordo.
Da allora, le mie giornate sono inerzia, secondi che seguono secondi, il mio compito è riempire, senza consapevolezza.
C’era il dolore bambino che ha cercato con un’imposizione di mettermi una benda sugli occhi, era il dolore che si fermava in un angolo della stanza e mi osservava, con i suoi argomenti provava a convincermi che la cosa accaduta non la potevo accettare, non la potevo elaborare. Era un bambino capriccioso, con il grembiule blu, il colletto bianco, le scarpe da ginnastica, la gomma da masticare, i palloncini colorati che faceva esplodere con il fiato; non riesco a ricordare la sequenza esatta, se è arrivato prima il lutto e poi il panico, o viceversa.
La certezza è che ci sono entrambi, e mi tengono al caldo.
Il dolore bambino era formato da tutti i ricordi bianchi, tutte le scene, gli odori, tutti i sapori, i vizi, tutti i sorrisi, le giornate di sole, e la pioggia che non serviva; ho provato con una mano ad accarezzargli i capelli, è scappato via, rifugiato sempre con le spalle contro il muro, sempre immobile nel suo angolo, a puntare il dito contro un’accettazione che non riteneva giusta; mi ha svegliato di notte, nel mezzo del sonno, mi ha impedito di mangiare, sporcandomi il cibo; ha sabotato il mio lavoro, ha provato a soffocarmi, mi premeva le mani contro il petto, stringeva forte sulla gola, non respiravo; ha tentato di manomettere il mio equilibrio, faceva rotolare la terra sotto i miei piedi, mi obbligava a stare seduto.
Sono andato da una maestra che conosceva bene questi bambini dolore; questa maestra mi ha obbligato a non ascoltarlo, c’erano della gocce che facevo cadere sulla superficie argentata di un cucchiaino da caffè, a volte era quindici, a volte venti; erano delle gocce trasparenti, dolci, con un retrogusto amarognolo; bene, queste gocce mi aiutavano ad essere irrispettoso nei confronti del bambino, creavano una barriera; riuscivo a dormire di notte, riuscivo a mangiare senza conati di vomito; la maestra mi ha detto poi di ascoltare le pretese del bambino e vedere cosa c’era sotto il sintomo dei suoi capricci, delle lacrime, delle urla. Siamo stati seduti nella mia camera per giornate intere, lui con la faccia paonazza a forza di gridare, io con il sudore sulla pelle per tutta la resistenza; l’avevo convinto a venire al centro della stanza, a lasciare libero il suo angolo di protezione; adesso eravamo entrambi con le spalle scoperte, giocavamo per la prima volta ad armi pari. Mi sono reso conto che quel bambino dolore cercava di vomitarmi addosso la sua sofferenza, la sua disperazione; aveva gli stessi bisogni emotivi che avevo io, solo che non conoscendoli, li respingeva come sostanza estranea. Mi ha parlato di suo padre, morto in una una notte straniera, sotto i colpi di un male alla testa, di un sangue impazzito, di una vena spezzata.
L’ho riconosciuto; quel bambino era il passato, il ricordo di me; con il tempo è rimasto solo il dolore, il bambino è diventato una compagnia, un’accettazione.
Il dolore uomo è stato più feroce ma meno teatrale; più rapido, più servizievole. Ci siamo riconosciuti subito; nella certezza di avere dei limiti, nell’approvare le nostre debolezze, nell’affrontare una perdita facendoci aiutare dal corpo. Abbiamo imparato insieme che la mente ed il fisico sono un unico pezzo; che le emozioni cadono a valanga sugli organi, affogano i muscoli, e che il gioco di equilibrio tra corpo e mente è quello più difficoltoso da trovare.
Addomesticare il corpo è stato come vivere dentro una casa sconosciuta, ogni giorno, dietro ogni porta, si nascondeva in una stanza mai vista, un odore sconosciuto, una luce irreale.
Io e il mio dolore uomo abbiamo cercato patti di alleanza, schierati dalla stessa parte, per la stessa crociata; divisi da un punto di vista differente, da un limite che non ci teneva in accordo.
Oggi, ancora, il corpo sente  paure che la mente sa riconoscere ma non gestire.  A giorni il mio corpo è una macchina che funziona male, un difetto, un errore di trasmissione tra pensiero e azione.
Le gocce sono meno presenza, sporadicità, paracaduti aperti in momenti terrore.
Non ricordo se sono arrivati prima gli attacchi di panico o la morte di mio padre; non mi va di starci troppo a pensare; so che il ricordo è una macchina magica, è un luogo dove tutte le cose continuano ad accadere; ancora, ancora, io e mio padre siamo sempre sulla stessa spiaggia a battagliare con le onde, io e mia madre sempre allo stesso tavolo a soffrire la perdita, io e il mio primo bacio riaccadiamo tutte le volte che accendo il ricordo.
Dal ricordo non esiste una separazione, vive a prescindere da me, vive fuori da me.

 

*foto Mariasole Ariot

Ne vale la pena?

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Park Hotel Lugano 1904
Park Hotel Lugano 1904

di Gianni Biondillo

Spesso, troppo spesso, quando viene presentato un nuovo progetto su una rivista di settore non ci viene fatto vedere cosa c’era prima. Cosa fatta capo ha: ciò che c’era prima, in situ, non c’è più. Amen. Se è stato “sacrificato” è perché era, implicitamente, “sacrificabile”. Anzi, peggio, è come se prima non ci fosse stato nulla. Un vuoto che aspettava solo d’essere colmato dall’umano genio creativo. L’osservatore accetta la cosa come avesse fatto un patto implicito col progettista. Non chiedere, non dubitare. C’era bisogno del nuovo, criticalo per quello che è, ma non fare troppe domande su ciò che lo precedeva. Era tabula rasa o poco più. Sappiamo tutti che non è così, soprattutto in una realtà fortemente antropizzata quale quella delle città europee. Il mito del nuovo per il nuovo, mito che ci viene con la rivoluzione industriale e che ha avuto il suo massimo splendore nella società delle macchine, della velocità, delle “magnifiche sorti e progressive” incarnata nel Novecento, oggi, forse, andrebbe rivisto, rimodulato. Il territorio non è mai tabula rasa, non è mai un foglio bianco. Ogni progetto andrebbe valutato quasi redigendo una partita doppia: conoscere intimamente cosa stiamo perdendo, per poter valutare meglio cosa stiamo guadagnando. Altrimenti la gara è truccata.

Oggi. Foto Enrico Minasso
Oggi. Foto Enrico Minasso

Lo so, parlare di conservazione architettonica puzza sempre di tradizionalismo, di cultura reazionaria, passatista, antimoderna. Ma il “moderno”, di suo, è pure lui ormai cosa del passato. Siamo persino ben oltre la società postmoderna, forse alcuni punti fissi, alcuni tabù progressisti andrebbero se non abbandonati quanto meno rivisitati. Non sto dicendo che tutto ciò che ci viene dal passato è di suo, per statuto, “bello”. Ogni discorso che lancia l’allarme sulle brutture dell’architettura contemporanea scivola sempre in una china pericolosa e impraticabile. Ogni edificio è stato nuovo al suo nascere. Ogni novità è diventata storia comune, condivisa, negli anni. Però è vero che in certi casi le dimensioni contano. La quantità può fare la qualità, o la perdita di qualità, di un contesto. Il Novecento è stato un secolo invasivo, ha mutato in modo radicale, univoco, il paesaggio, l’ha, in molti aspetti, omologato.

Teatro Apollo e Kursaal Lugano 1987
Teatro Apollo e Kursaal Lugano 1987

Conservare quello che resta del passato – perché ormai spesso sono solo residui – è anche un modo per contrapporre forme alternative al pensiero unico dominante. Ci permette di dare la corretta dimensione del contemporaneo, confrontandolo con l’idea di urbano che ci viene dalla storia. Se ormai oltre il 90% di ciò che è costruito è irrimediabilmente moderno, perché continuare ad accanirsi con quel poco che resta di precedente a noi? Che paura ci fa? Non sto semplicemente parlando di conservare gli insigni monumenti identitari di un popolo. Sarebbe un luogo comune. La qualità di un monumento sta nella coerenza, nella stratigrafia, nel palinsesto dell’incasato, nella costruzione umile, nel dispositivo prospettico, nella soluzione formale del contesto. Il monumento in sé smette d’esistere se la cultura materiale della civiltà che lo ha ideato viene spazzata via.

Oggi. Foto Enrico Minasso
Oggi. Foto Enrico Minasso

Il progettista del XXI secolo deve rendersi conto che la gloria, che l’ansia edificatoria modernista dei suoi padri è cosa del passato. Oggi a lui tocca lavorare negli interstizi. Il suo deve essere uno sguardo olistico, capace di inserire il nuovo là dove occorre e saper rimettere in gioco l’antico là dove è possibile. Rendendolo, perciò, ancora contemporaneo, pronto a una vita futura.

Osservo queste fotografie che confrontano la Lugano contemporanea con quella di non molti decenni fa e mi chiedo: ne è sempre valsa la pena? Ogni scelta è stata dettata dalla necessità comune o solo dall’interesse privato? È questa l’idea di sé che la società ticinese vuole lasciare alle generazioni future? L’architettura che va a sostituire edifici carichi di un gusto magari inattuale ma di certo portatore di un’idea del decoro in fondo condivisibile (perché simbolicamente partecipato), questa nuova architettura non è che sia in sé brutta. O bella. È un’architettura che non osa. Tecnicamente ineccepibile – non è certo l’edificato caotico e trash di molta urbanistica spontanea mediterranea – racconta una visione della città sostanzialmente anonima, tecnocratica. Non è neppure uno stile internazionale. È un “global style”. Banche, uffici o civili abitazioni che potrebbero stare ovunque nel mondo, incapaci di farsi stimolare dal contesto, o di stimolarlo. Una architettura che assolto il compito di coprire la massima cubatura, ottenere la massima rendita di posizione, si disinteressa del bene comune della città. Fa il suo dovere senza passione. Sembra una minestra, magari cucinata con cura, con i soliti ingredienti freschi, ma senza alcuna nota peculiare, creativa, senza cipolla, o sale eliminando odori o sapori rilevanti che possano, non sia mai!, infastidire il consumatore. C’è da chiedersi allora: ne vale davvero la pena?

 

(testo redatto per Il nostro paese, n° 320, aprile-ottobre 2014, riferito alla mostraLa grande Bruttezza“, Casa Miler, Capolago, CH)

La stufa a parabola + una nota su Ponge

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radiateur lilor eclate  di Francis Ponge

traduzione collettiva*

Questo intero quartiere della città quasi deserto dove m’inoltravo non era che uno degli angoli monumentali della sua altissima muraglia minuziosamente lavorata, rosea al sole che tramonta.

Alla mia sinistra si apriva una via di case basse, secca e sordida ma inondata da una luce ammaliante, semi spenta. All’angolo, con l’albero un poco di traverso, si ergeva una sorta di giostra minuscola, non molto più alta di un piccolo pero, dove giravano diversi bambini uno dei quali indossava un maglioncino d’un puro color limone.

La regina della neve (seconda parte)

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nella versione quasi fedele di Viviana Scarinci

(la prima parte si può leggere qui.)

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Christian Birmingham

Principi, principesse e ragazze virili

Per farla breve Gerda, grazie all’aiuto del corvo e della sua fidanzata viene condotta a una verifica per lei emotivamente distruttiva: il ragazzo che ha sposato, come le ha riferito il corvo, la più intelligente delle principesse disponibili sul mercato delle fiabe, è Kay? A differenza di quel che si dice in giro, non è che ci sia tutta questa disponibilità di vere principesse e Gerda questo lo sapeva bene. Possibile che proprio Kay avesse trovato quel favoloso connubio di intelligenza e nobiltà in una donna, e che ciò lo avesse reso principe?

La scena che conduce Gerda a questa verifica è di una bellezza pari solo a quella raccontata nel mito di Eros e Psiche: condotta furtivamente nei pressi della stanza più segreta del castello che custodisce il talamo dei neosposi, Gerda deve attraversare uno  strano e popolato corridoio, prima di entrare nella camera da letto. Sono i sogni degli sposi a popolare quel corridoio limitrofo al sonno: cavalli purosangue, cacce, dame, cavalieri da cui Gerda fu circondata in un attimo. Oddio, pensò, i sogni di Kay potrebbero essere questi … Ma quando Gerda alzò la lampada, esattamente come fece Psiche per finalmente vedere  se il suo uomo fosse un mostro o l’amore, lei sapeva già in cuor suo che quelli non potevano essere i sogni di Kay. E infatti principe e principessa erano solamente principe e principessa: due giovani gentili e generosi che quando seppero, invece di cacciare a pedate quella strana ragazza  che si era introdotta nottetempo nei loro sogni, la rivestirono di tutto punto e le regalarono una carrozza per andare dove volesse, e ai suoi due fratelli di volo, corvo e cornacchia, ritennero giusto restituire pari libertà.

cinéDIMANCHE #08 FOROUGH FARROKHZAD “La casa è nera” [1963]

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Forough Farrokhzad [5 Gennaio 1935 — 13 Febbraio 1967] può essere considerata la più rilevante voce poetica femminile persiana del secolo scorso. Morì molto giovane in un incidente stradale. Nell’autunno del 1962 si recò a Tabriz per girare un documentario sulla vita all’interno del lebbrosario diBehkadeh Raji. Durante i dodici giorni delle riprese Hosein Mansouririuscì a entrare in completa sintonia con il luogo e con le persone: si affezionò molto aHossein Mansouri, un bimbo figlio di due lebbrosi, e lo adottò e lo porto con se a Teheran. Aveva 27 anni e non aveva mai girato un film. Ancora oggi commuove e sorprende la sua abilissima contrapposizione di immagini attraverso il montaggio di piccole sequenze, l’uso di luce, ombra, inquadrature, ritmo, suono e poesie recitate dall’autrice. Gli intensi lirici 20 minuti di La casa è nera precorsero e ispirarono la successiva New Wave del cinema iraniano, che ha prodotto alcuni dei più acclamati registi del XX secolo, come Abbas Kiarostami, Mohsen Makhmalbaf, Majid Majidi e Bahram Beyzaie.
 


[ sottotitoli tradotti dall’inglese da Orsola Puecher]

 
Nadia Agustoni
 

Immagini e parole
 
“Non vedrò la primavera. Queste parole sono tutto ciò che rimane” e il muro. Un uomo lì davanti cammina, forse sa la pausa tra le parole, ma tra i giorni non c’è pausa. Il tempo lì è sempre uguale e nessun elenco lo cambia. Dove c’è solo l’elenco dei giorni l’uomo invoca Dio perché tutto è troppo vuoto. Mancano gli uomini il cui volto è intero e le loro voci che dovrebbero dire qualcosa senza preghiera e senza canto. Invece la sola risposta è nel proprio canto, in una festa che viene per dimenticarsi, dove si ride come dietro a una maschera. Il volto che non puoi riconoscere è il tuo, ma non sei più tu: solo l’inferno conosce l’infermo, ma se sei ancora un po’ uomo cosa conosci? Per alcuni di noi viene solo la polvere, ma non so se parla.
 
Dal mio silenzio urlo tutto il giorno”; Il volto della bambina e la sua bambola e le voci dei bambini che giocano: non c’è vento là ancora, la polvere non arriva fino alla bocca anche se istintivamente i bambini possono sapere che la malattia è la terra dei sepolti o il mezzo per apprendere un’altra lingua. Allora il gioco e la festa sono rivolta? E guardare quei volti è rivolta al male della malattia? Cos’è quella prigione dove qualcuno pare resistere?
 
Il maestro che insegna in un’aula spoglia resiste al mancare del mondo. I suoi occhi interrogano ognuno e sono vivi. La vita è di chi guarda e vede. La paura non è tutto. La paura è la grande malattia dove smettiamo di conoscere gli altri. Gli altri sono un confine, Forugh Farrokhzad lo attraversa. In una poesia scriveva: “mai stata separata dalla terra/ né mai amica delle galassie…”. Il mondo dovrebbe essere la nostra casa: “Sulle pareti della mia casa che è la mia vita…”. Immagini e parole: la casa è nera. Si resiste alla follia con i nomi. Pronunciando le cose belle col bambino che può credere in quelle cose: la luna il sole i fiori il gioco.
 
* I versi di Forugh Farrokhzad sono tratti dalla poesia Sulla terra; in E’ solo la voce che resta ; antologia a cura di Faezeh Mardani 2009

 
muro
festa
bambina
maestrp
bambino


 
 
 
 
specchio
classe
maglia
capelli
lacasaenera
 
Orsola Puecher
 

La piccola bellezza
 
Nei primi fotogrammi neri di La casa è nera una voce maschile fuori campo ci avverte che: Su questo schermo apparirà un’immagine della bruttezza, ed ecco una donna di spalle avvolta in stoffe damascate, bellissime, che osserva la sua immagine in uno specchio con un fiore inciso, di fianco una piccola teiera. Una doppia delicata distanza di sicurezza obbiettivo/specchio quella che Forough ci propone, senza mai guardare direttamente questa “bruttezza“. Solo qualche battito di ciglia sono il linguaggio dell’occhio sano, che contempla quello semichiuso dalla pelle rugosa del viso devastato.
In una classe di scuola una lunga carrellata mostra i diversi gradi della malattia. Ogni volto è unico. I bambini ringraziano il Creatore per ciò che non hanno o hanno perso: Oh Dio ti ringrazio per avermi creato, Ti ringrazio per avermi creato una madre premurosa, un padre gentile. Ti ringrazio per la creazione dell’acqua, degli alberi e delle piante da frutto. Ti ringrazio per avermi dato le mani con cui sono capace di lavorare. Ti ringrazio per avermi dato gli occhi per vedere le meraviglie di questo mondo. Ti ringrazio per avermi dato le orecchie per godere di dolci canzoni. Ti ringrazio per avermi dato i piedi per andare dovunque voglia. Fuori campo la voce di Forough: Chi e’ che ti loda nell’inferno, o Signore? Chi nell’inferno?
La bellezza che sopravvive all’ingiuria della lebbra, anche solo per qualche tratto, e che si conserva negli sguardi, nei sorrisi, nella quotidianità dei gesti piccoli come fare la maglia ai ferri, filare la lana, pettinarsi, fumare una sigaretta fra le dita deformi, convive armoniosamente con la bruttezza. Non vi è la contrapposizione fra bellezza e bruttezza di quel mediocre sopravvalutato film che pretendeva di identificare La grande bellezza nel paragone fra una muta città monumentale, sontuosa, pubblicitaria e leccata, vuota di corpi, con la volgarità e la mostruosità etica dei suoi abitanti. Non esiste nemmeno una lotta e una vendetta dei mostri sui belli e sani come in Freaks di Tod Browning.
E neppure può esistere una grande bellezza assoluta, ma c’è una tensione segreta fra bruttezza e bellezza, che lottano sui visi e sui corpi e i grani di residua armonia, che riescono a brillare nei volti deturpati, splendono ancora di più nella loro piccola traccia, nella disarmonia per il ricordo dell’armonia perduta, nella dolcezza vittoriosa di occhi e sorrisi, nella gioia del movimento nel gioco, nel diritto alla felicità della musica e della danza nella festa. Flauti e tamburi e liuti a dieci corde vincono, là, sulla mostruosità dell’escluso per antonomasia, il lebbroso che doveva avanzare incappucciato, suonando una campanella per allontanare da sé chiunque, anche se nell’ultima scena, alla richiesta del maestro di comporre una frase con la parola casa, mentre la porta pesante del lebbrosario si rinchiude sulla processione dei malati, un vecchio/bambino scriverà, senza speranza, con il gesso sulla lavagna “La casa è nera“.

 

prima  quarta
terza  seconda

Forough Farrokhzad

 
Saluterò di nuovo il sole
 
Saluterò di nuovo il sole,
e il torrente che mi scorreva in petto,
e saluterò le nuvole dei miei lunghi pensieri
e la crescita dolorosa dei pioppi in giardino
che con me hanno percorso le secche stagioni.
 
Saluterò gli stormi di corvi
che a sera mi portavano in offerta
l’odore dei campi notturni.
Saluterò mia madre, che viveva in uno specchio
e aveva il volto della mia vecchiaia.
E saluterò la terra, il suo desiderio ardente
di ripetermi e riempire di semi verdi
il suo ventre infiammato,
si, la saluterò
la saluterò di nuovo.
 
Arrivo, arrivo, arrivo,
con i miei capelli, l’odore che è sotto la terra,
e i miei occhi, l’esperienza densa del buio.
Con gli arbusti che ho strappato ai boschi dietro il muro.
 
Arrivo, arrivo, arrivo,
e la soglia trabocca d’amore
ed io ad attendere quelli che amano
e la ragazza che è ancora lì,
nella soglia traboccante d’amore, io
la saluterò di nuovo.
 
[da: Un’altra nascita – in italiano nell’antologia La strage dei fiori, a cura di Domenico Ingenito, 2008 OXP editore]
 
 
Conquista del giardino
 
Il corvo che volò
al di sopra della nostra testa
e scese nel torbido pensiero di una nube vagabonda
e la cui voce come una lancia
percorse la vastità dell’orizzonte
porterà in città nostre notizie
 
Tutti sanno
tutti sanno
che io e te da quella fessura fredda e cupa
vedemmo il giardino
e da quel ramo alto e giocoso
cogliemmo la mela
 
Tutti temono
tutti temono ma io e te
giunti all’acqua, allo specchio, alla luce
non tememmo
 
Non si tratta
dell’effimero legame di due nomi
e di due corpi
nelle vecchie pagine di un registro
si tratta della mia chioma felice
e gli arsi papaveri dei tuoi baci
dei piccoli furti ingenui dei nostri corpi
nel luccichio della nostra nudità
come le squame dei pesci nell’acqua
si tratta di vita argentea del canto
di una piccola fontana all’alba
 
In quella fluida selva verde
noi, una notte, chiedemmo alle lepri
e in quel mare tempestoso e incurante
alle conchiglie colem di perle
e in quel nome strano e dominante
agli aquilotti
cosa dover fare
 
Tutti sanno
tutti sanno che noi
siamo giunti al sonno freddo e quieto di Simorgh
e abbiamo trovato la verità
nel timido sguardo del fiore ignoto
in una piccola aiuola,
e l’eternità in un istante interminabile
quando si guardano incantati due soli
 
Non si trattasi pavido mormorio nell’oscurità
si tratta del giorno e di finestre aperte
d’aria fresca
di un focolare dove ardono le cose futili
di terra fecondata da un’altra semina
di nascita, pienezza, orgoglio
si tratta delle nostre mani innamorate
che hanno gettato un ponte
di profumo e luce e brezza nella notte
Vieni sui prati,
su distesi prati
e chiamami oltre gli aliti dei fiori serici
come il cervo chiama la compagna
 
Le tende sono pregne di un rancore celato
e le candide colombe
dall’alto della torre bianca
guardano la terra
 
 
Dono
 
Io parlo dall’estremità della notte
 
Dall’estremità della tenebra
dall’estremità della notte
io parlo
 
Se verrai a casa mia, oh mio caro
portami una luce
e una piccola finestra
per guardare
la stradina affollata e felice
 
[Da Un’altra nascita in italiano nell’antologia E’ solo la voce che resta a cura di Faezeh Mardani, 2009 Aliberti editore]


 
cinéDIMANCHE

 
cd Nella pausa delle domeniche, in pomeriggi verso il buio sempre più vicino, fra equinozi e solstizi, mentre avanza Autunno e verrà Inverno, poi “Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera“, riscoprire film rari, amati e importanti. Scelti di volta in volta da alcuni di noi, con criteri sempre diversi, trasversali e atemporali.
 

I due mondi di Maaza Mengiste

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di Igiaba Scego

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foto di Juergen Bauer

Maaza Mengiste ricorda ancora la prima parola inglese di cui ha imparato a fare lo spelling: T-H-E. Erano gli anni Settanta, era una bambinetta tutta riccia che insieme ai suoi genitori si trovava in Kenya, in fuga dalla terribile dittatura di Mengistu Haile Mariam, quel Derg di cui gli etiopi si ricordano ancora con terrore. Maaza era tutta eccitata e ripeteva al padre quell’articolo appena imparato, quelle lettere appena acquisite. «Il mondo – dice con grande dolcezza la scrittrice – si aprì per me proprio quel giorno. Come se d’improvviso si fosse espanso». È il mondo delle parole, della letteratura, delle storie. La aiuterà a resistere quando, ancora minorenne, sarà mandata negli Stati Uniti a costruirsi un futuro.

Oggi Maaza Mengiste è considerata una delle promesse della nuova letteratura statunitense. Il suo Lo sguardo del Leone (edito in Italia da Neri Pozza) nel 2007 è stata definita un «New Literary Idol» dal New York Magazine. Lavora alla New York University come insegnante di scrittura creativa, prima di andare all’università scrive un paio d’ore. Quando non lavora si concede “un po’ di più”. È da sempre appassionata di storia, non è un caso che una delle sue letture preferite sia l’Illiade di Omero, letta svariate volte nella traduzione inglese di Robert Fagles. «Una storia di guerra, ma anche molto di più. Una storia di amicizia e fedeltà, di arroganza e umiltà. Una storia d’amore e sul significato profondo del mantenersi integri». È quello che inconsciamente ripete nella sua scrittura: il dottore Hailu protagonista di Lo sguardo del leone è di fatto un personaggio integro e umile precipitato nella paradossale violenza di una dittatura che predicava il bene del popolo, ma di fatto lo stava ammazzando con ferocia.

Mengiste è sempre stata attratta dai vuoti e dai silenzi della storia. Ed è questo che l’ha portata ad occuparsi del colonialismo italiano. Grazie ad una borsa di studio Fulbright ha passato un anno in Italia tra archivi, documenti e contraddizioni. Ha visto un’Italia accogliente: «molti mi hanno aperto le porte di casa con amore». Ma anche chiusa: «Le cose che non mi piacciono dell’Italia, sono le stesse che detesto dell’America: il razzismo e gli atteggiamenti razzisti di parte della popolazione. Oggi con l’influenza dei migranti e il numero sempre più alto di figli di migranti nati o cresciuti in Italia il paese deve ridefinire se stesso». In questa ridefinizione la scrittrice mette al centro la riappropriazione del colonialismo, in Italia poco studiato e conosciuto. «Da piccola ho ascoltato molti racconti sull’invasione italiana e sulla successiva vittoria etiope contro i fascisti. Conoscevo storie di eroismo etiope, quelle che si raccontavano in famiglia. Ma diventando adulta mi sono fatta molte domande. Ho fatto ricerche, letto moltissimo e lentamente ho cominciato a realizzare che la storia di quella guerra era molto più complessa di quello che pensavo. Ci sono tante storie di quella campagna militare che non sono state raccontate. Gli eroi di cui avevo sentito parlare erano uomini etiopi, ma ho cominciato a chiedermi cosa poteva essere quella guerra dal punto di vista di una donna. E poi mi interessava anche il punto di vista di un soldato italiano. Il mio libro sul colonialismo è nato dalle domande che mi sono fatta e da tutti i silenzi contenuti in quella storia». Non c’è ancora una data di uscita americana del romanzo. «Sta per arrivare presto», dice. Non si preoccupa delle reazioni in Etiopia e in Italia di questa sua nuova opera: «Non scrivo per creare polemiche. Scrivo solo per raccontare».

Poesie da La voce delle cose

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di Carla de Falco

la secca

tra carcasse arancio di granchi
le cui chele sono inutili per sorte
cammino a passo fermo e piedi nudi
lungo una cerniera limacciosa.
una lunga, umida ferita
tra due franti, lacerati lembi azzurri:
uno torna vinto alla sua terra
l’altro vola libero alla vita.

* * *


L’odore dell’uva

io ricordo l’odore dell’uva
che apriva il cuore all’estate
raccontando del giorno più chiaro
della luce fino dentro ai filari.
gravidi chicchi ricurvi
e foglie larghe a ventaglio
nell’ombra a proteggere i cirri.
e nel grappolo coi chicchi stretti
agganciati fin dentro al cuore
al loro raspo contorto
io vedevo l’umana famiglia
attaccata con grande fatica
a un cosmo assolato e durissimo.

* * *

la luce morta delle stelle

ci fermammo sdraiati sulla sabbia
sopra un letto di cenere e coralli
a guardare come sotto un incantesimo
quegli occhi che fissavano la terra.
la prepotenza della loro luce
piazzata come un faro su di noi
ci spinse, giovani entusiasti,
a scommettere di non addormentarci
e viaggiammo da svegli quella notte
sognando di tornare fino al mittente
passando per un varco dentro il vuoto
tra pianeti, satelliti e comete.

per foreste di costellazioni
arrotolate come capelli argento
nello chignon delle antiche donne
arrivammo in un mondo lontanissimo
che vive parallelo eppur presente
e nel quale noi siamo già passati.

come riflessi ingannevoli di astri
già da secoli spentisi per sempre.

* * *


brandelli di nebbia

nell’orrore di un piccolo frammento
di esistenza che cede alla tortura
nella terra che si apre in crepa dura
e la vita rapisce con un soffio
mi ferisce una forma di sgomento
un dolore mai nuovo, tenebroso
ed invoco pietà per ogni cosa.

vivo in una notte senza arrivo
e prego di contrarre un’amnesia
lenta, assoluta e, per dio, definitiva
che laceri per sempre in nebbia fitta
la vista lenta e atroce della vita
che soccombe al vuoto dell’inferno.

* * *

oltre la linea d’orizzonte

emerse da un lento mare morto
grandi avare mani di orco
hanno spezzato come pane fresco
le ali acerbe dei nidiacei in volo.
né di qua né di là sorge più alba
per l’ondivago, confuso e sgangherato
stormo sospinto da un miraggio:
innocente la preda vive ancora
oltre la linea d’orizzonte.

Contro l’occhio. La scrittura del dolore vero

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di Giacomo Verri

In un piccolo volume del 2006, La Letteratura dell’inesperienza, Antonio Scurati rifletteva su quanto la società di plastica in cui viviamo abbia sostituito l’esperienza diretta del mondo (com’è, per antonomasia, quella vissuta da chi ha fatto la guerra) con una sorta di cognizione del dolore indiretta, asettica, disinfettata e interrotta da assidui diaframmi che sono prima di tutto gli schermi attraverso i quali giunge a noi la realtà, a pillole, frammentata, amplificata e voltata in evento per far fronte all’insufficienza del nostro presente: in sostanza, cioè, esperiamo quotidianamente l’inesperienza; la quale non solo crea una letteratura incapace di poggiare i piedi per terra, ma genera un cortocircuito che impedisce di gettare ponti verso il passato e verso il futuro. L’uomo finisce così per mancare, nel campo delle cose narrabili, di quel copioso materiale che ebbero per la testa i nostri nonni. Ed è ovviamente un problema letterario, sì, ma prima di tutto psicologico e morale; è un buco nella coscienza, colmato talora, e tragicamente, dal piombare furioso dell’evento eccezionale: un terremoto, un’alluvione, un disastro della natura. E quando accade, gli scrittori aggrediscono il caso anomalo e terribile, lo accerchiano e se ne lasciano invadere come la terra riarsa accoglie il fortunale.

Il bosco che ci contiene (per il paese di Torri)

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di Francesca Matteoni

imagesTorri è un borgo della Sambuca Pistoiese a 912 metri di altezza sul livello del mare, dove termina una strada asfaltata che dal torrente, dalla Limentra Orientale, sale tra gli antichi castagneti. Quando arrivi lassù da bambino pensi che dopo non c’è davvero nulla, solo le valli che si aprono dagli scogli assolati, uscendo dagli alberi quando vai per more e lamponi d’estate. Certo non è così e di sentieri e vie non asfaltate ve ne sono altre, ma è per quella deviazione della Riola che da Pistoia, da Prato o da Firenze e perfino da Porretta e dal bolognese, entri in questo paesino dei fiori e della pietra, da quando ti ricordi. È un viaggio incantato in ogni mese dell’anno e di notte è un viaggio tra animali che fuggono all’avvicinarsi dei fari. Perché quando abbuia, è noto, i paesi dormono e i boschi si svegliano. E tu, nel passarci in mezzo, senti sempre qualcosa che non sai nominare, ma che è molto importante, immutato dalla prima infanzia.

Da “Canti di un luogo abbandonato”

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di Azzurra D’Agostino

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Chi era qui, chi zappava e mungeva
chi insomma c’era non l’avrebbe voluto
il crollo del fienile e neanche, inutile dire,
questo scrostarsi di pareti, la gramigna
tra le fessure del selciato e tutto sommato il mondo
l’intero mondo spopolato. Il mondo quello lì, che c’era
e pensava alla primavera come a una promessa,
la terra del campo spessa come una preghiera.

Cosa accade ad un paesaggio quando muore

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di Mariasole Ariot

L’assenza di rilievi montuosi e le nebbie
velano a volte gli occhi

F. Pusterla

Parole di terra

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Rahbi_013-PAROLE, COPERTINA med copiadi Pierre Rabhi

(dall’introduzione dell’autore a “Parole di Terra”, per gentile concessione dell’editore Pentagora)

Il personaggio di Tyemorò è nato dalla mia immaginazione e rappresenta tutto ciò che provo, in termini di amore, compassione e ammirazione, per i contadini autentici. Sono loro, al nord come al sud, quelli che impastano la terra che li ha impastati, e che spesso ne hanno incarnato la forza e il silenzio. Ora e ovunque, ne esprimono la sofferenza e l’abbandono. Questo racconto, anche se con tonalità africana, vorrebbe essere universale. Ecco perché né l’etnia Batifon né il suo territorio possono essere individuati su una carta geografica.

 

Dopo alcuni decenni nei quali la scienza e la tecnica hanno fatto credere di essere onnipotenti, il disincanto s’insinua e prende vigore. Tutta la frenesia chiassosa di questo secolo, tutte quelle orge in omaggio alla materia minerale a scapito di ciò che vive di sensibilità, d’intuito e di nervi, sembra concludersi con un immenso equivoco. Il mondo angosciato si frantuma. La barbarie è lì, in agguato nei cuori, così come la morte, sorniona e implacabile, è in agguato negli arsenali atomici. Ed è proprio questo uno dei grandi prodigi di cui l’umanità potrà gloriarsi: aver fatto il dono più grande e mostruoso alle forze della distruzione.

Forse la forma di questo racconto potrà sorprendere, ma il lettore non si faccia ingannare. Qui, sotto l’apparenza di una favola, si cerca di mettere in allerta ogni coscienza sulle violenze subdole commesse contro questa terra e, per la legge irrevocabile che ci lega a essa, contro noi stessi.

Questa iniziazione è tanto concreta quanto lo è la terra nutrice e, tuttavia, non può essere compresa fuori dalla dimensione spirituale che ne è la radice. Il nostro secolo di razionalità materialista, di pesantezza minerale, di sostanze tossiche sparpagliate ovunque, di scienza quasi del tutto asservita al profitto, ha colpito il mondo sensibile che costituisce l’involucro vivente e vitale del nostro pianeta. Sembra che il metro del sacro sia l’unico in grado di misurare l’ampiezza della nostra responsabilità. E con sacro, intendo quel sentimento umile nel quale la gratitudine, la conoscenza, la meraviglia, il rispetto e il mistero si alleano per ispirare le nostre azioni, illuminarle e fare di noi degli esseri ben presenti al mondo, ma liberi dalle vanità e dall’arroganza che rivelano non tanto la nostra forza quanto le nostre angosce e fragilità.

Parole di terra vorrebbe perciò essere un piccolo contributo alla fondamentale causa della sopravvivenza alimentare degli esseri umani, dovunque sia minacciata. Queste parole vorrebbero anche essere un pretesto per tornare a meditare sulla fertilità della terra e sul patto nuovo e vitale che dobbiamo stabilire con lei.

Si tratta di una realtà oggettiva, concreta e vivente, legata a un’esperienza reale dove i problemi riguardano ciascun essere umano, perché si tratta della terra nutrice, della terra madre, alla quale dobbiamo la nostra vita e la nostra sopravvivenza.

Pierre Rabhi, la terra, l’agroecologia, i Colibrì

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images di Massimo Angelini
(sempre per gentilissima disponibilità di Pentagora, pubblichiamo la biografia di Rabhi, che chiude il volume “Parole di terra”)

Agricoltore, scrittore e pensatore, Pierre Rabhi nasce nel 1938 nel Sud dell’Algeria. Dopo la morte della madre, è affidato a una coppia francese; in seguito alla Guerra d’Algeria, lascia gli studi e, a vent’anni, si trasferisce a Parigi, dove lavora come operaio specializzato. Qui inizia a mettere in discussione i valori e i ritmi competitivi della modernità. Trasferitosi con la moglie Michelle – con la quale avrà cinque figli – in Ardèche, si dedica all’agricoltura, diventando uno tra i pionieri del metodo biologico. Si batte per una società più rispettosa dell’uomo e della terra e sostiene lo sviluppo di pratiche agricole che siano alla portata di tutti, soprattutto dei più poveri, e che, nello stesso tempo, assicurino il mantenimento della fertilità naturale. Negli anni Settanta inizia a prendere una sempre più netta posizione contro la logica produttivistica applicata all’agricoltura, le cui conseguenze devastanti si mostrano oggi in tutta la loro ampiezza, e, nella sua fattoria, affina i metodi e le tecniche che negli anni successivi insegnerà e divulgherà sotto il nome di ‘agroecologia’.

Nel 1978 è formatore presso il Centre d’étude et de formation rurales appliquées (Cefra).

Dal 1981 inizia a diffondere la sua esperienza e mette a punto diversi percorsi di formazione in Francia e nei paesi aridi dell’Africa.

Su invito del Burkina Faso, organizza il primo programma di agroecologia offrendo un’alternativa ai contadini alle prese con la siccità e il dissesto ecologico ed economico provocato dall’uso sempre più massiccio dei fertilizzanti industriali e dei pesticidi. Nel 1984 a Gorom Gorom fonda il primo centro africano di formazione agroecologica, con lo scopo di ridare alle popolazioni locali l’autonomia alimentare erosa dalla cosiddetta ‘Rivoluzione verde’ e in seguito al disastroso impatto con l’agricoltura industriale.

In questi anni, per rispondere alla desertificazione umana, economica e morale, lancia il movimento Oasis en tous lieux, fondato sulla riappropriazione di pratiche di vita semplici, sulla riacquisizione di competenze per l’autosussistenza e per la ricostruzione di legami sociali fondati sulla condivisione dei beni comuni. Il movimento entra a fare parte della rete europea degli ecovillaggi e oggi unisce un rilevante di numero di associazioni e piccole comunità votate a uno stile di vita semplice ed ecologicamente sostenibile.

L’applicazione dei metodi dell’agroecologia ha interessato nel tempo anche alcune comunità religiose, come, già dal 1992, il monastero di clausura di Solan nel dipartimento del Gard, suscitando un modello di convivenza religiosa attento anche ai valori dalla sostenibilità ambientale e della biodiversità, in seguito ripreso nei monasteri ortodossi della Romania.

Nel 1994, Pierre fonda l’associazione Terre & humanisme per coniugare ecologia e solidarietà e rinforzare i legami tra gli uomini e tra questi e la terra nutrice, la madre terra, anche attraverso la diffusione dell’agroecologia, intesa come alternativa globale che unisce la pratica agricola all’etica. ‘Davanti ai crudeli bilanci di una terra isterilita, l’agroecologia propone soluzioni naturali per rigenerarla nel rispetto della vita, uomini inclusi, integrando tutti gli aspetti sociali, sanitari, economici e ambientali’. Dal centro propulsore nella cascina di Beaulieu, nell’Ardèche, le attività dell’associazione nel corso degli anni diramano su scala internazionale, anche attraverso programmi sviluppati in Burkina Faso, Camerun, Mali, Niger, Senegal, Tunisia, volti a migliorare l’autonomia delle popolazioni, a salvaguardare i patrimoni alimentari locali, a lottare la sterilità e la desertificazione delle terre. Nel tempo, dall’associazione gemmeranno organizzazioni locali impegnate nella diffusione dell’agroecologia, tra le quali Terre & humanisme Maroc (2005), dalla quale a Marrakech nascerà il Carrefour International de pratiques agroécologiques, e Terre & humanisme Roumanie (2009) nella Moldavia romena.

Dal pensiero e dalle posizioni etiche di Rabhi, alla fine degli anni Novanta nasce la Ferme des enfants, dove il metodo di Maria Montessori è applicato alle scuole materna, primaria e secondaria, e orientato su quattro indirizzi pedagogici: l’educazione alla vita e alla conoscenza di sé; l’educazione alla pace e alla convivialità; l’educazione all’ecologia e agli stili di vita semplici e improntati al rispetto dell’ambiente; l’educazione sociale all’incontro e alla interculturalità. A partire dal 2004, in una tradizionale cascina di La Blachère (Hameau des buis), la scuola dà vita a un laboratorio dov’è possibile sperimentare un modo alternativo di coabitazione, consumo, alimentazione e spostamento.

Dal 1988, è riconosciuto quale esperto internazionale per la sicurezza alimentare e la lotta alla desertificazione, definita come tutto ciò che minaccia l’integrità e la vitalità della biosfera, e le sue conseguenze per gli esseri umani: in questa veste, è protagonista di programmi attuati su scala mondiale e sotto l’egida delle Nazioni Unite.

In particolare, nel 1997-98, su invito dell’Onu partecipa all’elaborazione della Convention de lutte contre la désertification (Ccd) ed è chiamato a formulare proposte concrete per la sua applicazione.

Incoraggiato dagli amici, nel 2002 Pierre si lancia in una campagna elettorale ‘non convenzionale’ con la proposta di rimettere l’Uomo e la natura al centro. La sua campagna suscita in poco tempo una mobilitazione eccezionale, raccogliendo il sostegno di molti parlamentari e costituendo più di 80 comitati regionali di sostegno: i colibrì.

Da questo impegno, nel 2003 nasce il movimento Appel pour une insurections des consciences (Mapic), presente in numerosi distretti francesi, per una trasformazione profonda della società, a partire dai cambiamenti individuali e con il sostegno dell’azione collettiva.

Fa parte del comitato editoriale del mensile ‘Décroissance’ ed è vice-presidente dell’associazione Kokopelli, impegnata a favore della biodiversità.

Dal Mouvement pour la terre et l’humanisme, nel 2007 nasce il movimento Colibris per incoraggiare la nascita e l’attuazione di nuovi modelli di società fondati sull’autonomia, l’ecologia e l’umanesimo nel segno della decrescita e di una ‘sobrietà felice’. Il movimento trae il nome da una leggenda amerindiana.

Un giorno ci fu un immenso incendio nella foresta. Tutti gli animali, terrorizzati, ossevavavo impotenti il disastro. Solo il piccolo colibrì si diede da fare andando a raccogliere qualche goccia d’acqua col suo becco per gettarla sulle fiamme.

Dopo un po’, l’armadillo, infastidito da tanta agitazione, gli disse: ‘Colibrì, ma sei matto?! Non è con quelle gocced’acqua che spegnerai il fuoco!’

E il colibrì gli rispose: ‘Lo so, ma faccio la mia parte’.

 

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Tra le sue opere: Du Sahara aux Cévennes: itinéraire d’un homme au service de la Terre-Mère, 1985, 2002; Le Gardien du feu : message de sagesse des peuples traditionnels, 1986, 2003; L’Offrande au crépuscule, 1989,2001; Paroles de terre, 1996 (Parole di terra, Pentàgora, 2014); Conscience et environnement, 2006; La Part du colibri : l’espèce humaine face à son devenir, 2006 (La parte del colibrì, Lindau 2013); Manifeste pour la terre et l’Humanisme, 2008 (Manifesto per la terra e per l’uomo, Add, 2011); Vers la sobriété heureuse, 2010 (La sobrietà felice, Add, 2013).

La terra, il paesaggio, la letteratura

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di Angelo Ferracuti

imagesGirando parecchio l’Italia, negli ultimi periodi mi sono reso ancora di più conto di come il paesaggio marchigiano, fermano, mi appartenga interiormente in modo molto forte per intima consonanza. Come questo condizioni il mio umore, un’idea estetica in generale, persino lo stile, la scrittura che adopero, l’organizzazione dello spazio, e come non riesco a staccarmene, nonostante poi la vita di provincia sia in realtà abbastanza claustrofobica e fisiologicamente noiosa.

Sono nato in una famiglia contadina, e di quel mondo ho ancora molta nostalgia. Quindi sono un assiduo frequentatore dei “luoghi persi” di cui parla il poeta Umberto Piersanti, amo molto la terra, la natura, gli alberi, e vado spesso in cerca di silenzio in un mondo frastornante, dove i rumori di sottofondo sono una parte del dominio, del caos, della confusione, e confondono le idee. Nelle nostre campagne ritrovo l’armonia, l’ordine e il disordine naturale, la quiete.

Quando vado in un’altra regione, la prima cosa che mi viene da fare è un paragone di paesaggi, e anche di abitudini, di riti quotidiani, quali sono le diversità tra il luogo di residenza, e quello dove sono arrivato. Spesso mi accorgo che il mio occhio si è in qualche modo allenato su queste colline marchigiane, sui paesi arroccati, nei piccoli luoghi, che basta spostarsi di pochissimi chilometri e si scorge oppure si arriva direttamente al mare. Almeno dalle mie parti. Certo nel nord delle Marche non è sempre così, se penso a Falconara, con quel Moloch orribile della raffineria dell’Eni, una città di mare dove il mare non si vede mai. Ma il paesaggio della Sardegna, per esempio, è più impegnativo da un punto di vista strettamente naturalistico, più selvatico e roccioso, a volte soffoca, la stessa cosa vale per quello abruzzese, tanto per fare degli esempi tangibili, mentre in Calabria in pochi chilometri si passa dall’alta montagna al mare, in modo molto netto, quasi violento, e le speculazioni edilizie, gli sfregi della ‘ndrangheta, hanno irreparabilmente violentato cittadine e costa, molti luoghi da quelle parti sono inguardabili.

Il nostro paesaggio è assolutamente conservato meglio, anche se sulla costa non c’è più un tratto di spiaggia libera, tutti i piccoli chalet degli anni ’60 dalle tinte pastello si sono quadruplicati di dimensioni, diventando spesso ristoranti, campi di calcio, luoghi del brutto, del cattivo gusto e del consumismo di massa in salsa spettacolar-televisiva, dove gli zombie saltellano nell’acqua. La costa marchigiana che si vede dal treno è spesso così, e non è un bello spettacolo.

Anche da noi ormai vince l’idea che il paesaggio non deve essere tutelato ma sfruttato come le persone, il consumo di suolo della nostra Regione è tra i più alti d’Italia, si cementifica molto. Sono tutt’altro che uno specialista di queste cose, ma nel 1998, in occasione del bicentenario leopardiano, proprio per onorare questo illustre antenato, scrissi un racconto che uscì in un libro (gli altri scrittori erano Gilberto Severini, Claudio Piersanti, Eraldo Affinati e Laura Pariani) al quale tengo molto e la dice lunga su come la penso. La letteratura può dire tutto ciò che in genere non si può dire, e resta una forma, una rappresentazione del mondo spesso avversa che si materializza rispetto a quella del potere. La letteratura mostra cose che possono esistere, che possono accadere, e anche i loro paradossi. E’ un altro modo di vedere il mondo, spesso di chi è stato sconfitto ma non ha perso la speranza di cambiare. In realtà nella società dell’eterno presente, dove l’esperienza di molte vite si gioca sull’attimo, così come suggerito dalle culture neoliberiste che con impeto necrofilo, una idea di distruzione, cavalcano il mito del consumo, credo che l’attenzione per il paesaggio, per lo sviluppo compatibile delle città, dei paesi, e dentro questo il recupero di una socialità, interessi davvero una minoranza di persone e venga percepito come qualcosa di anacronistico. La maggioranza vede ormai tutto come qualcosa da consumare, dal sesso a una gita in barca, annullando tutto quel sentimento del tempo che ci hanno insegnato gli antichi. Quindi, siccome lo spettacolo deve continuare, è questo che vuole il potere, tutto deve essere consumato, da una funzione religiosa a un film pieno di rapporti anali con protagonisti uomini e animali, la suora che canta il rock e il festival di musica sacra, la religione di questo tempo è non fermare “lo sviluppo”, “la crescita”. Ma nella foga avevo dimenticato il mio racconto, che si intitola “Un barbaro”, al quale sono molto legato, e l’antologia, “La città raccontata”, curata da Daniele Garbuglia. Ebbene a Recanati, nel natio borgo selvaggio, questo vecchio impazzisce, prende in mano lo schioppo, si barrica in casa e dal balcone comincia a sparare contro i manovali che stanno costruendo un palazzo di fronte alla sua casa colonica e stanno cancellando “la vista” dell’ermo colle. Arrivano i carabinieri, e il figlio, che vive in un comune vicino, avvertito da questi ultimi, e, nonostante da fuori tutti cerchino di convincerlo alla resa, il vecchio leopardiano continua a combattere finché non resta ucciso nel conflitto a fuoco con i militari. Ovviamente non è un invito ad imbracciare le armi, come dicevano una volta i cattivi maestri, ma a non smettere di lottare e di pensare con quelle pacifiche del pensiero, di cui anche la letteratura è parte.

I colori della terra

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imagesdi Vincenzo Pardini

Aristide, d’estate, aveva preso a tornare nella sua terra. Calzati i vecchi scarponi che teneva nella casa nativa, si inerpicava lungo la mulattiera di infanzia e adolescenza. Era cambiata. Cespugli e alberelli si stavano impossessando dell’impiantito di sassi e di pietre, le selve dei castagni s’erano infittite, alcuni di quelli antichi erano crollati come guerrieri sconfitti. Anche la terra che traspariva tra i sassi del percorso era diversa; da rossiccia e compatta, era divenuta scura, e non ospitava più l’andirivieni delle grosse formiche nere.

Bambino, Aristide aveva sempre osservato la terra, specie quando suo padre la rivoltava con la vanga, e le zolle erano d’un marrone umido, analogo a quello del cioccolato, e sapeva di radici. D’estate, verso sera, osservava i grilli nell’erba. Gli pareva emanassero odore di pulviscolo bruciato dal sole. La stesso che sollevavano le vacche al rientro dai pascoli; i muli, invece, parevano calpestarlo, tanto comprimevano il terreno con gli zoccoli. Scomparse le atmosfere di infanzia e adolescenza, la terra aveva assunto un’altra fisionomia. Una sera, all’inizio del tramonto, si spinse fino all’orlo dei precipizi, sotto i quali si estendeva la pianura. Erano anni che non vi era andato e ne rimase stupefatto e smarrito. La pianura non aveva più i colori della terra, ma quelli grigi, uniformi e artificiali dei capannoni dell’industria, dai quali fuoriuscivano volute di fumo bianco e compatto che, lento e inesorabile, si sollevava verso la montagna. Arrabbiato e deluso, Aristide si sentì vecchio, molto vecchio. La terra era ormai prigioniera e ammalata; malattia che si stava trasferendo a all’intero Creato.