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Assioma 7: Lettori e no

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[Presentiamo un primo stralcio da Letteratura e controvalori. Critica e scritture nell’era del web, Roma, Donzelli, 2014.]

di Alberto Casadei

1. Nell’Italia di oggi, uno dei problemi principali per l’affermazione di opere letterarie di valore è la mancanza di un pubblico adatto a sostenerle che sia non solo preparato ma anche numericamente ampio.

2. Nel campo di forze culturali attuale, il primo modo per ridurre all’insignificanza autori e opere interessanti è quello di poterne constatare la scarsa o irrisoria diffusione: se di un buon poeta si vendono cento copie, la sua presenza nel campo di forze è ipso facto pressoché nulla. Ogni considerazione più raffinata è ritenuta inutile, o al massimo consolatoria per circoli ristretti di cultori.

La resistenza e la rivoluzione a Kobane (e dintorni)

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di Lorenzo Declich

La cittadina curdo-siriana di Kobane è stata sotto assedio per più di un mese.

A combattere erano gli assalitori di Daesh (IS, Stato islamico, Daesh, ISIS, ISIL chiamateli come volete), e i difensori curdi e arabi: YPG/YPJ e brigate dell’Esercito Siriano Libero.

A poche centinaia di metri dai luoghi dello scontro, in territorio turco, erano appostati diversi mezzi blindati dell’esercito regolare turco.

La maggior parte dei civili a Kobane era stata evacuata, ne restava in città un numero che, a seconda delle fonti, variava dalle poche centinaia (soprattutto vecchi, sembra) ai 5000-6000.

L’IS attaccava la città da tutte le direzioni eccetto quella nord, dove si trova la frontiera con la Turchia.

Lì, appunto, stanziavano i mezzi blindati turchi.

L’esercito turco è stato impegnato a sedare i tentativi di entrata in Siria di civili curdi e turchi che, appartenenti o meno a organizzazioni politiche di qualche genere, volevano andare a Kobane per unirsi ai combattenti che difendevano la città.

A un certo punto su Kobane hanno iniziato a volare bombardieri americani che hanno attaccato postazioni di Daesh in città e nelle retrovie.

Se la cosa fosse avvenuta un po’ prima gli obiettivi sarebbero stati di più facile individuazione, dicono diverse fonti.

Ma di fatto l’intervento dell’aviazione, anche se con una tempistica errata, ha spostato l’ago della bilancia in favore dei difensori, che hanno preso fiato e guadagnato terreno.

Negli ultimi giorni, poi, si è sbloccata la situazione a nord. I turchi hanno riaperto la frontiera selettivamente – hanno permesso ad altri curdi, i peshmerga iraqeni, di portare aiuti militari e umanitari.

Poco prima gli aerei dell’alleanza avevano iniziato a lanciare medicine e armi dall’alto.

***

Essendo uno dei luoghi di scontro più accesi con Daesh, l’assedio di Kobane ha ricevuto in Europa e negli Stati Uniti ampia copertura.

Vista la vicinanza con la frontiera turca i giornalisti hanno potuto assistere ai combattimenti da una distanza decisamente ravvicinata, anche se rare sono le testimonianze video “da dentro”.

In tempo reale abbiamo potuto assistere a eventi simbolici come l’imposizione della bandiera di Daesh sulla collina più alta e, a giorni di distanza, la sua successiva eliminazione.

Abbiamo potuto visualizzare decine di mappe che registravano il progresso dellla battaglia: l’avanzata di Daesh, il suo ritiro.

Abbiamo letto centinaia di tweet di persone che si trovavano lì.

Abbiamo toccato con mano la repressione turca, l’arrivo di diversi gruppi di persone, curdi o meno, che manifestavano e volevano entrare.

Abbiamo registrato il moto globale di solidarietà che in Turchia ha scatenato la repressione e ha  prodotto decine di morti.

Molti articoli e reportage hanno sottolineato le peculiarità delle enclave curde siriane.

Il toponimo “Rojava” ha fatto il giro del mondo così come l'”esperimento” di autogoverno e autonomia, sancito da una carta, da una dichiarazione di principi, lì messo in pratica.

Il mondo ha conosciuto i combattenti curdi dell’YPG, e soprattutto le combattenti curde dell’YPJ, bracci armati del partito curdo siriano del PYD.

Negli ultimi giorni sono state messe in campo diverse campagne volte alla raccolta di fondi e aiuti da destinare ai curdi del Rojava.

Ma per diversi motivi, prima di tutto a causa delle note e perniciose esigenze di semplificazione che affliggono gli operatori dei mezzi di informazione, l’opinione pubblica ha identificato Kobane col Curdistan.

L’attenzione si è concentrata su generici “diritti del popolo curdo”, quel “popolo senza Stato” che da un secolo subisce vessazioni di ogni genere.

In tanti hanno chiesto alla comunità internazionale di farsi carico delle responsabilità derivanti dall’aver “lasciato i curdi da soli”.

Il fatto è che fra quei curdi resistenti c’erano – come ho scritto all’inizio – degli arabi che erano accorsi in loro aiuto.

E come vedremo quelli lì erano degli arabi speciali che non avevano lasciato soli quei particolari curdi.

***

Sebbene i media abbiano dato ampio risalto alla vicenda di Kobane la copertura dell’evento è stata parziale, o meglio selettiva.

Alcuni elementi, di certo molto interessanti, sono stati messi in risalto, altri non sono stati presi in considerazione, o ignorati, o negati.

Il primo riguarda il combattimento vero e proprio o meglio l’identità dei combattenti.

Se da una parte c’erano degli indifferenziati ed efferati seguaci del Neocaliffo di Mossul dall’altra c’erano degli indifferenziati e generosi/coraggiosi curdi, aiutati talvolta da singoli o gruppi provenienti da mondi lontani e giunti in loco per dare il loro apporto.

Abbiamo incontrato “storie di solidarietà” antibarbarie: ad esempio quella di un americano, Jordan Matson, che “ha lasciato la sua ragazza, ha smesso di cercare lavoro ed è andato a Kobane”. O anche quella, un po’ meno decrittabile, dei bikers tedeschi e olandesi.

Molto meno abbiano sentito parlare della “cabina di regia” chiamata “Vulcano dell’Eufrate” (Burkan al-Furat), frutto di un accordo siglato nello scorso settembre dai curdi dell’YPG/YPJ e diversi gruppi di combattenti arabi locali o provenienti da aree ora occupate da Daesh, la maggior parte dei quali appartenenti all’Esercito Siriano Libero.

Parliamo di un numero di combattenti che oscilla dalle 300 alle 1000 unità. Un numero che può aver fatto la differenza in battaglia.

Cercando nel web si trovano le specifiche di questo accordo e diverse analisi riguardanti la sua natura.

La questione è controversa. YPG/YPJ e Esercito Siriano Libero si sono scontrati in passato, quando Daesh non esisteva.

L’Esercito Siriano Libero accusava i curdi siriani di collaborare col regime ed effettivamente per un lungo periodo le enclave curde hanno mantenuto rapporti stabili con l’amministrazione di Asad, in cambio di un’autonomia sempre più marcata.

Mentre il PYD costruiva l’autonomia, non senza compiere forzature per conquistare l’egemonia politica, l’Esercito Libero Siriano – che al contrario dell’YPG/YPJ era costantemente sotto il fuoco del regime – si andava sfaldando a causa di dissidi interni, mancanza di foraggiamenti, infiltrazioni di criminali comuni.

Si gonfiavano altri gruppi armati anti-Asad, quei gruppi come il Fronte islamico che, invece, ricevevano copiosi aiuti dai paesi del Golfo.

E si gonfiava anche la Jabhat al-nusra, che nell’aprile del 2013 rivelò la sua connessione con al-Qaida e nel cui corpo era germinata Daesh.

Nell’est della Siria, e attorno alle zone settentrionali a maggioranza curda, questa organizzazione era dominante.

Lì, come altrove, ciò che rimaneva dell’Esercito Siriano Libero si coordinava con la Jabhat al-nusra che si scontrava anche con i curdi.

Il paradigma cambiò con la nascita di Daesh, che rese la Jabhat al-nusra ininfluente in quelle aree e schiacciò l’Esercito Siriano Libero i cui combattenti, in parte, ripiegarono nelle aree curde, dove trovarono accoglienza.

Sono questi combattenti ad aver ricostituito un qualche coordinamento fra gruppi ormai allo sbaraglio dell’Esercito Siriano Libero, fra cui milita fra l’altro una brigata curda (Jabhat al-akrad), e ad aver inaugurato un nuovo corso.

C’è chi dice che questa cabina di regia esploderà nel preciso momento in cui Daesh sarà eliminato, sottolineando che i curdi del PYD in altre aree (ad esempio Hasake) si coordinano col regime contro Daesh.

E’ possibile, ma c’è chi racconta, invece, che le operazioni congiunte hanno messo in linea posizioni che fino a poco tempo fa sembravano inconciliabili e ha determinato nuove consapevolezze, nuove fratellanze.

E’ possibile anche questo. Fra le certezze che abbiamo c’è il comunicato del comando generale dell’YPG su Kobane del 19 ottobre scorso, un testo che sottolinea l’apporto dell’Esercito Siriano Libero e la collaborazione dell’YPG/YPJ con esso.

I maligni farebbero notare che i turchi qualche giorno prima avevano chiesto all’YPG/YPJ di confluire nell’Esercito Siriano Libero come pre-condizione per l’apertura delle frontiere. Questa dichiarazione, dunque, potrebbe essere niente altro che una strizzatina d’occhio a Erdogan. Ma non si può non tener conto dell’atteggiamento americano che, oltre a dare una mano dall’alto, ha sviluppato un’iniziativa diplomatica volta a convincere i turchi a cedere su Kobane, cosa che in una certa misura, come abbiamo visto è avvenuta.

E, inoltre, non bisogna dimenticare che i turchi, oltre a bloccare la frontiera e a reprimere con la violenza tutte le manifestazioni di solidarietà nei confronti dei resistenti di Kobane, hanno negli ultimi giorni bombardato alcune postazioni del PKK, il partito dei lavoratori curdi di Turchia, descritto da molti come “la madre” del PYD ma soprattutto, di fatto, organizzazione omologa al PYD dal punto di vista ideologico (da notare, in questo quadro, che lo stesso PYD al suo interno ha una propria dinamica di sviluppo nella quale, affermano alcuni, le nuove generazioni prendono sempre maggiore influenza, allontanandosi dalla vecchia guardia, più legata al PKK).

Sembra dunque che il tributo dell’YPG all’Esercito Siriano Libero non sia un esercizio di cerchiobottismo, non sia un modo per tenersi buoni i turchi.

***

Ma nel comunicato c’è molto di più, c’è qualcosa che ci fa aprire lo sguardo su uno scenario finora non colto né raccolto e che il lettore medio di notizie su Kobane probabilmente non ha mai nemmeno immaginato:

Combattere il terrorismo e costruire una Siria libera e democratica sono la base dell’accordo che abbiamo firmato con le fazioni dell’Esercito Siriano Libero. Come è evidente, il successo della rivoluzione dipende dallo sviluppo di queste relazioni fra tutte le fazioni e le forze del bene in questo paese (cit.).

In queste due frasi troviamo una rivoluzione, un’idea di futuro e un paese, la Siria, in cui questa rivoluzione e questa idea di futuro si proiettano.

Troviamo un piano di solidarietà interetnico, interlinguistico, interreligioso che sfugge ai reticoli nei quali sono stati imprigionati molti dei dispacci provenienti da Kobane.

Non si ringraziano i fratelli curdi di Iraq, di Iran, di Turchia.

Non c’è un Curdistan libero e democratico nel comunicato dell’YPG.

Al curdocentrismo del quale si è intriso il nostro mondo dell’informazione, che rende i curdi tutti uguali ed esclude dal racconto tutti gli altri, fra cui quei curdi che in Siria e in Iraq combattono o parteggiano per la parte opposta – ossia con Daesh – questo comunicato oppone un’altra realtà, della quale dovremmo parlare.

***

Ho sotto gli occhi l’immagine di due curdi risalente agli inizi del ‘900. La didascalia recita: “Mesopotamia – tipi di curdi massacratori”. Perché massacratori? Perché i primi massacri di armeni, in Turchia (1894-1896), li fecero anche i curdi.

I curdi, insieme a turchi, arabi, turkmeni e yörük, furono al tempo inquadrati da irregolari in una cavalleria sultaniale, la Hamidiye, che prendeva di mira le comunità armene.

Passo a un’altra immagine, risalente al 1908. Siamo nella piazza principale di Urfa, l’antica Edessa, ma oggi Şanlıurfa, per gli arabi ar-Ruha, per i curdi Riha, per gli armeni Urha, per gli assiri Urhoy, una città che si trova a meno di 60 chilometri da Kobane, in quello che oggi definiamo “Curdistan turco”.

La pluralità di denominazioni della città riflette la sua storia “mista”. E’ il 24 luglio, il giorno della restaurazione della costituzione in Turchia da parte del sultano. Nella piazza ci sono persone di lingue, culture e religioni diverse. Turchi, curdi, armeni, assiri, tatari, arabi e così via.

Ora Şanlıurfa è una città mista, ma molto meno mista di prima. Negli anni 1915-1916 fu toccata dal massacro degli armeni (e degli assiri): il 40% della popolazione (che allora era di 75.000 persone) fu sterminata. Non ci sono più armeni a Urfa, almeno non quelli di una volta. Erano circa 25.000.

La cosa iniziò con una “resistenza armena”. Un’ immagine, risalente al 1915, ritrae “civili armeni di Urfa che si difendono dai turchi e dai curdi, luglio 1915”.

Oggi diverse associazioni curde riconoscono le responsabilità curde nei massacri degli armeni, ma se mettete a confronto le mappe “storiche” del Kurdistan e quelle dell’Armenia vedrete che si sovrappongono un bel po’.

Con questo non voglio dimostrare quanto siano illegittime le rivendicazioni dei nazionalisti curdi o quelle degli armeni della diaspora, né il contrario.

Vorrei far riflettere sul fatto che tutti i nazionalismi sono escludenti e non si vede il motivo per cui un nazionalismo possa essere più valido e meno potenzialmente genocida di un altro.

Di certo i curdi sono stati perseguitati in diverse forme e a più riprese in ognuno dei paesi nei quali si sono ritrovati a vivere dopo i trattati che seguirono alla conferenza di Parigi del 1919-1920, che non diedero loro uno Stato.

Ma ancora nel 1908 i curdi semplicemente “non erano”, o meglio “non erano riconosciuti come qualcosa a sé nell’impero ottomano”.

Nelle elezioni che seguirono alla promulgazione della costituzione turca nel 1908 nessun seggio parlamentare andò specificamente a curdi.

Il nuovo parlamento era composto di 147 turchi, 60 arabi, 27 albanesi, 26 greci, 14 armeni, 10 slavi e 4 ebrei.

Forse, ma dovrei controllare, fra quei 146 turchi c’era qualche “turco di montagna”.

Insomma, voglio inserire la questione curda in un quadro problematico ma, soprattutto, ricordare che, se la questione è dire sì a uno “Stato curdo” come “risarcimento” per i torti subiti, apriamo il vaso di Pandora di contenziosi centenari.

E, contestualmente, voglio ricordare che non tutti i curdi sono nazionalisti, anzi: come in un qualsiasi altro contesto linguistico-culturale vi è chi non ha la minima voglia o il minimo interesse a promuovere l’idea di uno Stato indipendente.

Diverso, e ancora una volta molto complesso, si fa il discorso se parliamo di autonomia, un concetto che coinvolge la possibilità di esprimere una identità e anche un certo patriottismo che può superare le frontiere degli Stati.

Guardando alla distribuzione delle comunità curde nei diversi paesi vediamo che ognuna di esse ha una corrente autonomista che si articola anche in base alla risposta che le rivendicazioni ricevono in quei paesi.

In Iran l’autonomia curda è negata, in Iraq è sancita, in Turchia è (o era dopo i recenti eventi) in discussione, in Siria è stata negata fino alla rivoluzione del 2011 quando Asad, per “tenere buoni” i curdi l’ha promessa, insieme alla concessione di una cittadinanza fino a quel momento semplicemente ignorata.

In tutti questi paesi, e la comunità internazionale non è da meno, l’idea di uno Stato curdo indipendente non è neanche presa in considerazione.

***

Fra i gruppi certamente autonomisti ma non nazionalisti ci sono evidentemente i curdi siriani del PYD. Ma, appunto, sarà bene specificare di quale autonomia parliamo.

In Iraq l’autonomia dei curdi si è tradotta, in breve, nella gestione del potere nelle zone di pertinenza, alle dipendenze dal governo centrale iraqeno, con una conseguente lotta fra potentati, più o meno intensa.

In Siria, come hanno sottolineato da più parti, il modello – prodottosi in tempo di guerra – è diverso sotto molti punti di vista.

Il procedere del processo di autonomia ha segnato, anche grazie al disinteresse crescente del regime di Asad nei confronti delle aree curde, un cammino di autogestione meno controllato dall’alto, anche se egemonizzato dal PYD.

Si tratta di un modello che trova il suo più diretto parallelo a pochi passi dal Curdistan siriano, in altre zone della Siria, sebbene queste siano state esperienze immensamente più difficili viste le “attenzioni” (cioè i bombardamenti) ricevute dal regime.

Negli anni seguenti alla rivolta del 2011 molti territori in Siria sono stati gestiti con metodi e mentalità profondamente simili a quelli che ritroviamo a Kobane.

Quelle frasi, sopra riportate, del comando dell’YPG suonano molto familiari a molti siriani, soprattutto a quelle migliaia di attivisti che in Siria hanno costruito forme di autoorganizzazione e autogoverno omologhe a quelle che ritroviamo a Kobane.

Suonano invece “uniche” e “isolate”, oltre che molto esotiche, nel resto del mondo, dove la rivoluzione siriana, citata dal comando dell’YPG, è quasi completamente sconosciuta o disconosciuta.

O nascosta dietro a stereotipate guerre etcniche e/o religiose.

***

Consiglio qui alcune letture:

SYRIA: The life and work of anarchist Omar Aziz, and his impact on self-organization in the Syrian revolution

The struggle for Kobane: an example of selective solidarity

We need to support forms of liberation struggle unconditionally

#‎Important‬ ‪#‎Our_Waar_Is_Burning‬

Fortemente intrecciare terra e cielo: Paola Febbraro

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di Viola Amarelli

Paola Febbraro
Paola Febbraro

[ Comincio qui a documentare per appunti gli incontri della rassegna di Tu se sai dire dillo 2014. Una della serate era dedicata alla poetessa prematuramente scomparsa Paola Febbraro (1956-2008). Grazie a lei, tra l’altro, mi era stato possibile pubblicare nel 2006 un inedito di Amelia Rosselli, Lezione sulla metrica, che è qui. Oltre a due sue poesie, vi è l’intervento di Viola Amarelli che con Giusi Drago e Anna Maria Farabbi, purtroppo impossibilitata ad arrivare a Milano per l’occasione, hanno contribuito, in modi diversi, a mettere a fuoco la sua figura. B. C.]

 

Queste stanze che diventano locande

sono le mie poesie

 

 le lascio con una leggerezza tale

da farmi godere

 

 perché non si dice mai che si gode a sparire

 

Da Stellezze, a cura di Anna Maria Farabbi, LietoColle 2012

Francesco Targhetta, Le cose sono due – Premio Ciampi «Valigie Rosse» 2014

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Francesco-Targhettadi: Francesca Fiorletta

Come molti dei migliori poeti suoi coetanei, Targhetta accompagna alla denuncia la rappresentazione, o meglio denuncia rappresentando, e lo fa con una fedeltà al reale e una salutare ingordigia di particolari che raramente – e la cosa può risultare curiosa – avviene nella nostra narrativa attuale.

Così, Paolo Maccari, nella postfazione a “Le cose sono due” di Francesco Targhetta, vincitore del Premio Ciampi «Valigie Rosse» 2014. E sono effettivamente due le sezioni che compongono questa breve e vivacissima raccolta poetica, venata dal barlume di un atavico contrasto sociale e intrisa di ossimori logici, lessicali e soprattutto interiori.

FRANCIS PONGE [ *ronron poétique ]

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di Orsola Puecher

 

1ponge 2ponge
2ponge 4ponge

 
FRANCIS PONGE
La Rage de l’Expression [1946]
Poesia/Gallimard, 1976 pag. 7-11

 
Ponge_Berges de la Loire
Argini della Loira

Roanne, li 24 maggio 1941.

  Che niente ormai mi faccia recedere dalla mia decisione: mai sacrificare l’oggetto del mio studio per dar valore a qualche trovata verbale che avrò scovata su di esso, né a trasformare in poesia un po’ di queste trovate.
  Riferirsi  sempre all’oggetto in sé, a ciò che ha di grezzo, di differente: differente in particolare da ciò che ho già, (al momento), scritto su di esso.
  Che il mio lavoro sia una rettifica continua del mio modo di esprimermi (senza preoccuparmi a priori della forma di questa espressione) in favore dell’oggetto grezzo.
  Così, scrivendo sulla Loira da  un punto  degli argini di questo fiume, dovrò senza tregua di nuovo immergervi il mio sguardo, il mio spirito. Ogni volta che si sarà inaridito su una espressione, lo ritufferò nell’acqua del fiume.
  Riconoscere il più grande diritto dell’oggetto, il suo diritto che non può cadere in prescrizione, che può far causa a qualsiasi poesia… Mai nessuna poesia scamperebbe a un processo d’appello con il minimo della pena da parte dell’oggetto della poesia, né all’incriminazione per contraffazione
  L’oggetto è sempre più importante, più interessante, più capace (pieno di diritti): non ha nessun dovere nei miei confronti, sono io che ho tutti i doveri nei suoi riguardi.
  Quello che le righe  precedenti non dicono abbastanza: di conseguenza, non fermarmi mai alla forma poeticadovendo essa dunque essere utilizzata in un momento del mio studio perché predispone un gioco di specchi che può far apparire certi aspetti rimasti oscuri dell’oggetto. Il cozzare delle parole, le analogie verbali sono uno dei mezzi per scrutare l’oggetto.
  Mai provare a trasformare le cose. Le cose e le poesie sono inconciliabili.
  Si tratta di sapere se si voglia scrivere una poesia o descrivere una cosa (nella speranza che lo spirito ne guadagni, faccia qualche passo in avanti  riguardo a essa. )
  È il secondo termine dell’alternativa che il mio gusto (un gusto violento delle cose, e dei progressi dello spirito) mi ha fatto scegliere senza esitazione.
  La mia decisione è presa dunque…
  Poco m’importa dopo che si voglia chiamare poesia ciò che ne risulta. In quanto a me, il minimo sospetto di ronron poetico mi avverte solamente che rientro nella truffa, e mi provoca un  colpo di reni per uscirne.

La rage de l’expression [1946] Poesia/Gallimard, 1976 pag. 7-11
  
  

differente

La differenza fra le cose e le parole, fra le espressioni per descriverle e le cose stesse, non è una differenza di tipo sentimentale, un’impossibilità romantica di penetrare spiritualmente la sostanza del mondo, ma è una questione di metodo di lavoro: il rapporto intrinseco del testo e delle sue parti con il metodo del suo farsi crea un rapporto rigoroso e profondo con ciò a cui si riferisce, con il mondo esteriore.

Mai più sonetti, odi, epigrammi: la forma stessa del poema sia in qualche modo determinata dal suo soggetto.
Francis Ponge My creative method 1947 I pag 33

Contrariamente alla prosa le forme fisse impongono le loro regole di formazione all’oggetto, il verso regolare non si adatta alla descrizione quanto la prosa, perché reclama per se stesso un eccesso di attenzione. Queste esigenze di metrica e rima che sono trascurabili rispetto alla vera ispirazione, ma forse eccitanti per un virtuoso, non possono far altro che distrarre e accaparrare l’interesse.

a priori

sulla

L’oggetto della scrittura deve essere sempre presente nella sua diversità e peculiarità.
Le forme fisse si sostituiscono all’oggetto del mondo con loro proprie leggi, cristallizzate in oggetti del linguaggio. Bisogna trovare di volta in volta una forma adeguata al richiamo particolare che ciascuna cosa presume, al suo lamento silenzioso.
inaridito

il minimo
 
della pena

Un’ironica e surreale causa legale fra mondo muto e parole, un immaginario tribunale semantico che ne istruisca il processo, dei piccoli delitti e delle piccole pene, da cui poche scritture uscirebbero senza le manette ai polsi per il reato di ronron poetico continuato.
ronronpoetique

[(il vero) *ronron (è molto) poetico (di per sé) ]

Anche una dichiarazione di poetica può seguire una specie di metodo scientifico di procedere, un movimento di speculazione epistemologica:
evento —-> descrizione —-> spiegazione —-> legge
di conseguenza

poetica – dovendo

Dopo Il partito preso delle cose i testi di Ponge sono composti da note, ricerche lessicali, frammenti poetici, riflessioni filosofiche, ripetizioni, appunti, come fossero bozze in chiaro del testo che sta scrivendo ed esemplificazione in diretta del suo metodo di lavoro.
Non un solo mezzo ma molti mezzi possono far parte del lavoro di scrittura e del suo metodo.
 

Bene. Allora, per prima cosa, rispondo alla vostra prima domanda. Come è successo che sia passato dalla forma chiusa ( de L’Ostrica” ad esempio) alla forma aperta che avete rilevato nel testo de La rage de l’expression, e soprattutto ne Il garofano. In primo luogo ne avevo abbastanza di fare sempre la stessa cosa, il che mi annoia moltissimo, e non è perché Il partito preso delle cose ha avuto un certo successo, che io voglio rinchiudermi la dentro. Ciò che m’importa è cambiare, cambiarmi, ed è anche perché mi è sembrato utile mettere sul tavolo, come avevo già detto in un’intervista precedente, di mettere sul tavolo il modo di procedere intellettuale, il lavoro.
in VII Entretien da Entretiens de Francis Ponge avec Philippe Solliers pag. 114 Gallimard [1970]

uno

trasformare
 
le cose

Forse solo una nuova scienza poetica, rigorosa ma sognante, può riunire poesia e cose, senza trasformarle e tradirle.
 

[…] la scienza fa appello a una cosa come l’ipotesi, per esempio, vale a dire a qualcosa che dipende dallo spirito umano nel suo funzionamento più segreto, più profondo, vale a dire del sogno, volendo, della fantasia, del sonno (quando Newton ha fatto la sua scoperta? Quando se ne stava sdraiato sotto un melo. Evidentemente, aveva molto riflettuto prima, ma è al momento del suo riposo che egli ha trovato; e si può dire altrettanto di Archimede, che era nella vasca da bagno, pare, quando fece la sua scoperta. E assolutamente non quando era al suo tavolo da lavoro), se dunque, dobbiamo fare appello alle facoltà intuitive (e la divisione dello spirito in ragione e in intuizione è una delle antinomie significative del mondo occidentale, da moltissimo tempo, ed è questa che dobbiamo eliminare, insieme a molte altre antinomie) e dunque! se la scienza ammette che l’ipotesi sia importante, allora perché non tutto il resto?
in VII Entretien da Entretiens de Francis Ponge avec Philippe Solliers pag. 124-125 Gallimard [1970]

 


da ⇨ Jean-Daniel PolletDieu sait quoi [ 1994 ]
[ ispirato a Ponge – nel commento molti suoi testi ]

IL GAROFANO
da La rage de l’expression
[1946] Poesia/Gallimard, 1976 pag. 55-72

 
    Rilevare la sfida delle cose al linguaggio. Per esempio questi garofani sfidano il linguaggio. Non avrò tregua finché non avrò assemblato qualche parola alla lettura o all’ascolto della quale uno debba gridare necessariamente: è di qualche cosa come un garofano che si tratta.
    E’ questa la poesia? Non lo so e poco importa. Per me è un bisogno, un impegno, una collera, una questione d’amor proprio ecco tutto.
 

*

 
      Non pretendo di essere un poeta. Credo che la mia visione sia molto comune.
    Data una cosa – la più ordinaria possibile – mi sembra che essa presenti sempre delle qualità veramente particolari sulle quali, se queste fossero chiaramente e semplicemente espresse, ci sarebbe un’opinione unanime e costante: queste sono quelle che io cerco di liberare.
    Che interesse ha liberarle? Fare guadagnare allo spirito umano queste qualità, di cui egli è “capace” e di cui solo la sua abitudine gli impedisce di impadronirsi.
    Quali discipline sono necessarie al successo di questa impresa? Quelle dello spirito scientifico senza dubbio, ma soprattutto molta arte. Ed è perché io penso che un giorno una tale ricerca potrà essere legittimamente chiamata “poesia”.
 

*

 
    Si intravedranno attraverso gli esempi che seguiranno quale importante lavoro di scavo ciò suppone (o implica), a quali utensili, a quali procedimenti, a quali rubriche uno deve o può fare appello. Al dizionario, all’enciclopedia, all’immaginazione, al sogno, al telescopio, al microscopio, a due lenti di ingrandimento, alle lenti da presbite o da miope, al gioco di parole, alla rima, alla contemplazione, all’oblio, alla volubilità, al silenzio, al sonno, ecc.
    Si vedrà anche quali scogli si devono evitare, quali altri bisogna affrontare, quali navigazioni (quali bordate) e quali naufragi – quali cambiamenti di punto di vista.
 

*

 
    E’ molto probabile che io non possieda le qualità richieste per portare a buon fine una tale impresa – in alcun modo.
    Altri verranno che utilizzeranno meglio di me i procedimenti che indico. Saranno gli eroi dello spirito del domani.
    (Un altro giorno.)
    Cosa c’è di particolare, insomma, nell’ingenuo programma (valido per tutte le espressioni autentiche) esposto solennemente qui sopra?
    Senza dubbio solamente questo, il punto seguente : … dove io scelgo come soggetti non dei sentimenti o delle avventure umane ma degli oggetti i più indifferenti possibile… dove mi appare (istintivamente) che la garanzia della necessità dell’espressione si trova nel mutismo abituale dell’oggetto.
    … al tempo stesso garanzia della necessità di espressione e garanzia di opposizione alla lingua, alle espressioni comuni.
    Evidenza muta opponibile.
 

I

 
    Tetragono: fortemente attaccato alla sua opinione.
    Farfallette , farfalle, papille: stessa parola di vacillare.
    Lacero: dalla parola tedesca skerron. Lacerato.
    Denti e merletti .
    Chiffons. Crema, cremoso.
    Garofano: Linneo lo chiama mazzo perfetto, mazzo completo.
    Satin.
    Festoni: “Queste belle foreste che decorano con un lungo festone mobile la sommità di queste coste”.
    Sbattuto: crema sbattuta, che a forza di essere sbattuta diventa tutta schiuma.
    Starnutire.
    Gracchiare e Giocasta.
    Jabot: appendice di mussolina o di pizzo.
    Sgualcire: spiegazzare, fare prendere pieghe irregolari. (l’origine è un rumore)
    Increspare (un tovagliolo): piegare in modo che faccia delle piccole onde.
    Stropicciare, nel senso di spiegazzare. Si confonde con fespe, da fespa, che vuol dire chiffon e anche frangia, una specie di peluche.
    Frange: etimologia sconosciuta. 2° termine anatomico: sinonimo di sinoviale.
    Lacerare: tagliare a brandelli, facendo diversi tagli. Lacerarsi, farsi dei tagli.
 

2

 
    In contrapposizione ai fiori calmi, rotondi: calle, gigli, camelie, tuberose.
    Non che lui sia folle, ma è violento (sebbene bello folto, assemblato in limiti ragionevoli).
 

3

 
    In cima al gambo, fuori da un oliva, da una ghianda morbida di foglie, si sbottona il lusso meraviglioso della biancheria.
    Garofani questi meravigliosi chiffon.
    Come sono se stessi.
 

4

 
      Ad annusarli si prova un piacere il cui rovescio sarà lo starnuto.
    A guardarli, ciò che si prova vedendo delle mutandine frastagliate a dentelli, di una ragazza cha ha cura della sua biancheria.
 

5

 
       Per “sbottonarsi”, vedi bottone. Vedi anche cicatrice.
    Bottone: visto che, non si possono accostare punta e bottone, né sbottonare nella frase, perché è la stessa parola (di appiccare , spingere).
 

6

 
    E naturalmente tutto non è che movimento, e passaggio, altrimenti la vita, la morte, sarebbero incomprensibili.
    Sebbene abbiano inventato la pillola da sciogliere nell’acqua del vaso per rendere il garofano eterno – nutrendo di succhi minerali le sue cellule – nonostante egli non sopravvivrà per lungo tempo in quanto fiore, il fiore non è che un momento dell’individuo, che gioca il suo ruolo come la sua specie gli ingiunge.
    (Questi primi sei pezzetti, la notte del 12 al 13 giugno 1941, in presenza di garofani bianchi del giardino di Madame Dugourd.)
 

7

 
    Sulla punta del gambo si sbottona fuori da un’oliva morbida di foglie uno jabot meraviglioso di satin freddo con un vuoto d’ombre di neve verde, dove c’è ancora un po’ di clorofilla, e il cui profumo provoca all’interno del naso un piacere quasi al limite dello starnuto.
 

8

 
Farfalletta straccetto arricciato
Strofinaccio di lusso dentellato
Chiffon arricciato di raso freddo
Fazzoletto di lusso smerlato
Stracci di lusso in raso freddo
Di smalto
 

9

 
Jabot farfalletta o fazzoletto
Strofinaccio di lusso smerlato
Chiffon
Di raso freddo smerlato
Odoroso montato a neve fuori di sé
Sulla punta del gambo di bambù verde
Un rigonfiamento d’unghia lucida
Si gonfia una ghianda morbida di foglie
Sacchetti multipli odorosi
Da cui scaturisce il vestito montato a neve.

13 giugno

 

10

 
Faro da asola
Proiettore
Lampada portatile
Magondo
 
Jabot chiffon farfalletta o fazzoletto
Cenci stracci brandelli
 
Sbuffi di biancheria o ruche
Di raso freddo
Ricco opulento assemblaggio
Competizione associazione
Manifesto riunione
Di petali di un tessuto umido
Freddamente satinato
 
Folla uscente ad ala a delta dalla comunione
O mutandine dai bei smerli di fanciulle che hanno cura della loro biancheria
 
Spandendo profumi di un tipo per ogni istante
Che rischiano quel piacere di mettervi sull’orlo dello starnuto.
 
Trombette piene gole ostruite.
Per la ridondanza della loro propria espressione
 
Gole interamente ostruite da lingue
 
I loro padiglioni le loro labbra strappate
Per la violenza dei loro gridi delle loro espressioni
 
Arricciature spiegazzate crespe sgualcite
Frange merlettate montate a neve
Stracciate ricciolute insellate
A cannolé goffrate arricciate
Ritagliate strappate piegate frastagliate
A ruche storte ondulate dentellate
 
Cremoso spumoso bianco nevoso
Omogeneo unito
Mazzo perfetto mazzo completo
Fuori dalla ghianda morbida dell’oliva morbida e appuntita
 
Che si fa socchiudere che si fende
Alla fine del suo gambo fine bambù verde
Dai rigonfiamenti distanziati lucidi
E languidi il più semplicemente possibile
 
Così fino all’approssimarsi di luglio
Si sbottona il garofano
 

14 giugno

 

11

 
    All’estremità del suo gambo fine bambù verde dai distanziati rigonfiamenti lucidi da dove si dipartono due foglie simmetriche molto semplici piccole sciabole si gonfia con successo una ghianda un’oliva morbida e aguzza che si forza di socchiudersi che fende un occhiello da dove si sbottona
    un jabot di raso freddo meravigliosamente increspato una ruche a profusione di linguette storte e strappate dalla violenza dei loro propositi:
    specialmente un profumo tale e quale produce sulla narice umana un effetto di piacere quasi starnutatorio

15 giugno

 

12

 
Il gambo
di questi magnifici eroi – segue esempio –
è un fine bambù verde
dagli energici rigonfiamenti distanziati
lucidi come unghia
 
Su ciascuno di essi si sguainano questa è la parola
due o tre semplici piccole sciabole
simmetricamente inoffensive
 
All’estremità destinata al successo
si gonfia una ghianda una oliva morbida e appuntita
 
Che improvvisamente da luogo a una modificazione
sconvolgente
la forza di socchiudersi che la fende
e si sbottona?
 
Un meraviglioso chiffon di raso freddo
un jabot a profusione di faville fredde
di linguette dello stesso tessuto
storte e strappate
per la violenza dei loro propositi
 
Una trombetta colmata
dalla ridondanza dei suoi stessi gridi
dal padiglione strappato dalla loro stessa violenza
 
Finché per confermare l’importanza del fenomeno
si spande continuamente un profumo tale che provoca nella narice umana
un effetto di piacere intenso
quasi starnutatorio.
 

13

 
All’estremità di una stoppia energica
le trombette di cencio
strappate dalla violenza dei loro propositi:
un profumo d’essenza starnutatoria
 

*

 
L’erba dalle rotule immobili
 

*

 
Il bottone di una stoppia energica
si fende in garofano
 

14

 
O tagliato in OE
O! Bottone di una stoppia energica
tagliato a OCCHIELLO!
L’erba, dalle rotule immobili
ELLA oh vigore giovanile
L dagli apostrofi simmetrici
O l’oliva morbida e appuntita
spiegata in OE, I, due L, E, T
Linguette strappate
Dalla violenza dei loro propositi
Raso umido raso freddo

ecc.

    (Il mio garofono non doveva poi essere una gran cosa: devo insinuare due dita per poterlo tenere)
 

15

 

Retorica risoluta del garofano.

 
    Fra i godimenti che comportano le lezioni da trarre dalla contemplazione del garofano ce ne sono di molti tipi e io voglio, graduando il nostro piacere, cominciare dalle meno eclatanti, le più terra a terra, le più basse, le più vicine al suolo e le più solide forse, quelle che escono dallo spirito e nello tesso tempo fanno uscire dalla terra la piccole pianta stessa…
    Questa pianta all’inizio non differisce molto dalla gramigna. Si aggrappa al suolo che pare in quel punto di volta in volta laminato e sensibile come una gengiva che sente dei canini appuntiti. Se cerchiamo di estirpare il piccolo ciuffo non ci riusciamo se non con difficoltà, perché ci accorgiamo che esso ha là sotto una specie di lunga radice che segue orizzontalmente la superficie del suolo, una lunga volontà di resistenza molto tenace, relativamente molto considerevole. Si tratta di una specie di corda molto resistente e che sconcerta chi la estirpa, lo costringe a cambiare la direzione dei suoi sforzi. E’ qualcosa che assomiglia molto alla frase con la quale io cerco “attualmente” di esprimerla, qualche cosa che si srotola meno di quanto essa non si strappi, che si tiene al suolo con mille radichette avventizie – e che è probabile che si spezzerà di netto (sotto i miei sforzi), prima che io abbia potuto estrarne la principale. Conoscendo questo pericolo io rischio viziosamente, senza vergogna, a più riprese.
    Basta così, non è vero? Lasciamo la radice del nostro garofano.
    – La lasceremo, certo, ma ritornati a uno stato d’animo più tranquillo, ci domanderemo pertanto, prima di lasciar risalire i nostri sguardi verso il gambo – seduti sull’erba per esempio non lontano di là, e contemplandolo senza più toccarlo – le ragioni di questa forma che essa ha preso: perché una corda e non un perno o una semplice arborescenza sotterranea come sono di solito le radici?
    Non dobbiamo cedere in effetti alla tentazione di credere che questo sia soltanto per provocarci questi arrovellamenti che io vengo a descrivere che il garofano si comporta così.
    Ma si può scoprire forse nel comportamento di un vegetale una volontà di abbracciare, di legarsi alla terra, di esserne la religione, i monaci – e di conseguenza i maestri.
    Ma torniamo alla forma di queste radici. Perché una corda piuttosto che un perno o una arborescenza come sono di solito le radici?
    Può aver avuto, per la scelta di questo stile, due ragioni, valide l’una o l’altra a seconda se si decida che si tratti d’una radice aerea o al contrario di una radice rampicante.
    Forse, se si tratta di un arbusto atrofizzato, di un arbusto stanco e senza forza e senza abbastanza forza per elevarsi verticalmente dal suolo, forse qualche esperienza millenaria gli avrà insegnato che gli conviene meglio riservare la sua altezza al suo fiore.
    O forse questa pianta deve condurre attraverso una vasta distesa di terreno la ricerca dei rari principi convenienti alla nutrizione dell’esigenza particolare che ha portato al suo fiore?
    L’ampiezza stessa di questi paragrafi consacrati alla sola radice del nostro soggetto risponde a una preoccupazione analoga, senza dubbio… ma ora ne abbiamo abbastanza.
 

*

    Così, ci siamo, il tono è stato trovato, dove l’indifferenza è stata raggiunta.
    Era questo l’importante. Tutto a partire dalla collera della radice… un’altra volta.
    E posso anche starmene zitto.

 

Roanne, 1941, Paris-1944.


da ⇨ Jean-Daniel PolletDieu sait quoi [ 1994 ]
[ ispirato a Ponge – nel commento molti suoi testi ]


 

E resta, infine, come in una favola di La Fontaine, che Ponge molto amava, la lezione della chiocciola, felice in solitudine, saggia ma fiera, occhi sensibili su antenne vibranti, con il suo guscio, la sua opera, il suo monumento parte di lei, ma staccato da lei, che le sopravvivrà, come le opere artistiche ai loro autori.


 

*traduzioni dei testi di Orsola Puecher

Profugo / richiedente asilo / diniegato / clandestino: sequenze dell’identità migrante

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di Davide Biffi

Cosa ne è della persona quando tutto il suo senso di sé, della sua storia ed esperienza, è in balia di etichette che ne riducono l’umanità?

A seguito delle rivolte negli Stati del Nord Africa, dall’inizio del 2011 sono giunte in Italia circa 62 mila persone, prevalentemente dalla Libia e dalla Tunisia. Venti di loro, cittadini nigeriani giunti dalla Libia via mare, furono inviati in un centro di accoglienza creato appositamente a Limbiate (MI), dove tra il 2011 e il 2012 lavorai come educatore. La ricerca etnografica da me portata avanti in quell’occasione, assieme alla mia esperienza in corso da aprile 2014 con i richiedenti asilo inseriti nel progetto di assistenza legale dell’Arci Monza e Brianza nell’ambito dell’operazione Mare Nostrum, sono alla base di questo intervento, dove analizzo come la procedura di riconoscimento di protezione internazionale contribuisca sia alla costruzione identitaria del richiedente asilo, sia alla percezione e alla produzione di categorie sociali all’interno del discorso sulle migrazioni forzate. Per un migrante che viene ‘smistato’ da una categoria all’altra, cosa significa essere oggi richiedente e domani diniegato, poi ricorrente e alla fine, forse, clandestino?

cinéDIMANCHE #01 FRANCO PIAVOLI “Al primo soffio di vento”

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cd Nella pausa delle domeniche, in pomeriggi verso il buio sempre più vicino, fra equinozi e solstizi, mentre avanza Autunno e verrà Inverno, poi “Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera“, riscoprire film rari, amati e importanti. Scelti di volta in volta da alcuni di noi, con criteri sempre diversi, trasversali e atemporali.
 

soffiodiventoErano muti, senza parole, l’uno accanto all’altra,
come le querce e i grandi pini che hanno radici nei monti,
e stanno, senza vento, vicini e immobili,
ma poi al primo soffio di vento si agitano
e sussurrano senza fine: così a quel modo
stavano per parlare a lungo, ispirati da Amore.

Apollonio Rodio Argonautiche LIBRO III [967-972]


 

 
Antonio Sparzani

Comincia con le solenni cicale Al primo soffio di vento di Franco Piavoli. E poi lo sguardo trasognato ma intensissimo del regista, che è anche fotografo, su poche vite semplici. Come sempre nei film di Piavoli non avvengono fatti notevoli, avviene però la vita genuina, quella di tutti i giorni, qui ripresa con quella lenta acutezza che te la fa gustare in ogni dettaglio: le rughe dei volti, gli occhi della civetta, le formiche su un caco. Stavolta anche qualche dialogo, molto elementare, e qualche fantasia di Antonio, il protagonista principale; e poi la danza in riva al fiume dei lavoranti africani, un vero pezzo di bravura, tra i tanti.

caco
danza

 
gatto
piano

Mariasole Ariot

Poi, come nel Nocturama di Sebald, tutto diventa sguardo, e lo sguardo diventa rumore.
E’ domenica ed è agosto.
Gli occhi degli animali restano fissi come gli occhi degli uomini alle finestre : i primi calori, una pittrice di foglie, i corpi nudi dei lavoratori di campagna, un amore ormai spento di quercia.
Piavoli si fa sguardo e ce ne rimanda la voce.
Non accade nulla ma tutto è registrato in una memoria che non ha memoria.
Ed è allora Satie, suonato di spalle, a parlare la voce di questo silenzio : la Gnossienne diventa l’unico volto privato degli occhi, che si stacca dal resto per farsi traccia e contenuto : un capovolgimento. Non il sonoro ad accompagnare il visivo, ma una musica che, diventata protagonista, fa da sottofondo a questo nostro muto rumore umano.

 

Franco Piavoli
Una giornata con Franco Piavoli

 

da Il passaggio del tempo

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di Maddalena Vaglio Tanet

Lungo Skalitzerstrasse tornavo una sera,
le foglie bagnate come corpi di lumaca
coprivano l’asfalto nuovo della strada.
A passo lento accanto ai prati,
alla loro capigliatura d’erba rada,
cercavo di vedere la volpe di città
che una volta in pieno inverno
incontrasti a tarda notte,
i fari contro gli occhi accesi dalla luna.
Era sparita nel cantiere, forse la sua tana.
Sentivo sciabordare alle mie spalle
sacchi della spesa, un respiro
e le unghie di un cane come pioggia
sul selciato. Da una macchina lontana
coscienziosamente usciva fumo
con il braccio di qualcuno e briciole
attese da passeri e cornacchie.
Il buio del parco contro un fianco,
gli spasmi della strada contro l’altro,
andavo stretta tra erbe e luci
con le fronde di altre voci
a fare ombra alla bassa mia.
Così andando e ripetendo
parole tedesche da non dimenticare,
pensai di dirti l’ho incontrata,
fulva e magra, spaventata,
a caccia di cornacchie e passeri distratti,
come un presagio di neve,
di selvatichezza.
Avrei deposto la visione della volpe
nel racconto di giornata,
un dono piccolo, non sensazionale,
per dire altro
dividendo la nostalgia di un animale,
moltiplicando nei dettagli la nostra comunione,
come due seduti al buio
nella stessa macchina, a fumare.

*

Il lago di Lindow

Avanziamo dentro la foresta
tra filamenti verdi di ombra,
le radici aggrottano il sentiero e i sassi
sviano le ruote della bici. Ancora un tratto
un gocciare di fronde,
la resistenza minima delle ragnatele,
un breve volo di gazza, infine il lago.
Lunghe frasi di sabbia preparano all’acqua,
tutta un limo, opaca,
con un fondo d’alghe sotto i piedi.
Nuotiamo lontani dalla riva
verso il centro,
ma arrivare all’isola è impossibile
– fa d’anello a un altro lago
dicono le guide del Brandeburgo.
Anche qui ci sono correnti,
intervalli di subacqueo gelo,
pesci nascosti, movimenti di carpe
e lucci maculati tra pietre sommerse,
bracciali, elastici per capelli, molte cose
perse, lentigginose di muffa e terra.
Intorno a noi bagnanti si muovono creature
con gli occhi o senza,
organica, inorganica vicenda.

 

 

Alla riscossa stupidi, che i fiumi sono in piena

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di
Francesco Forlani

Due fotografie una immagine

Nel post dedicato alla spinosa questione del rapporto tra volontariato e lavoro culturale, avevo usato la fotografia dei giovani accorsi a Firenze nel novembre del ’66, dopo l’alluvione, per salvare i beni della comunità. Giorni fa, sfogliando la rete, mi sono imbattuto nel servizio dedicato da Repubblica ai nuovi angeli del fango, ovvero a quei ragazzi e ragazze andati a Genova per prestare il proprio aiuto. A loro deve andare tutta la nostra gratitudine.

angeli

Non mi piace l’espressione “Angeli del fango”. Dico il suono della parola. Preferisco quella inglese, Mud Angels, per i giovani venuti da tutto il mondo a mettere in salvo le opere di un patrimonio culturale sentito come universale, portare a braccio  i libri dalle cantine in cui il fango rischiava di ridurre all’oblio la memoria della comunità. Credo che in molti di noi la parola si associ quasi naturalmente alla sequenza della ragazza che suona il pianoforte nel film “La meglio gioventù”; la sequenza suggeriva anche la tesi verosimile della prossimità di quell’aggregazione spontanea con i fatti del ’68 che seguirono poco dopo.

Se volessimo trovare una risposta alla domanda sulle più remote ragioni che spingono un giovane dei nostri giorni a “partire e andare” difficilmente potremmo definirne una soltanto, valida per gli uni e per gli altri. Certamente il desiderio di condividere con altri qualcosa dove quel qualcosa è sicuramente l’esperienza e la consapevolezza di essere utile a qualcuno; l’idea di appartenere a una comunità. Qualcosa di simile all’euforia che ben conosce chi abbia partecipato a delle lotte politiche, studentesche o operaie, ai movimenti per la pace o per una qualsiasi altra causa abbastanza forte da travalicare il semplice tornaconto personale. Avviene come un distacco dalla ragione economica perfino quando il senso della mobilitazione si basa su delle istanze salariali, per esempio, o di costi del diritto allo studio. Ecco perché non vedo nessuna differenza tra un giovane d’oggi accorso a Genova per l’alluvione e il giovane che nel 2001 aveva raggiunto la città in occasione del G8. Questa gratuità che determina il lavoro di un volontario o di un militante è la stessa di cui parlo quando dico che la cultura sarà salvata dal volontariato.

Volontaires et bénévoles

Ce qui compte
ne peut pas toujours
être compté,
et ce qui peut
être compté
ne compte pas forcément. »
[Albert Einstein]

La frase di Einstein posta ad esergo di uno studio del 2011 sul bénévolat, sostenuto dal Ministère de la ville, de la jeunesse et des sports francese, suggerisce la traccia che vorrei mantenere lungo tutte queste riflessioni. “Quando ciò che conta non può essere contato, e quel che può essere contato non necessariamente conta,” la prima cosa da fare è capire fino a che punto il mondo cultura vada identificato con l’industria culturale ma soprattutto in che misura è nutrito da attività non retribuite.

Il grande Battiato nel 1980 cantava “mandiamoli in pensione i direttori artistici gli addetti alla cultura” proprio attaccando l’industria culturale di tutte le epoche, le spesso inutili e autarchiche frange del potere culturale messe a difesa dello status quo del paese. Ma poi siamo sicuri che cultura sia soltanto l’industria culturale? Siamo proprio così certi che letteratura sia sinonimo di editoriale? Nello scorso post dedicato a questo argomento non mi ha affatto meravigliato la levata di scudi di alcuni professionisti della cultura,  travet del mondo editoriale, in difesa della propria dignità e proprietà intellettuale da contrapporre ai “dilettanti” delle lettere. Lobbisti contro hobbysti, mi è venuto da pensare leggendoli; come se scrivere fosse un hobby per uno scrittore e un lavoro per quanti, dal direttore editoriale fino alla telefonista della casa editrice, passando per la stagista addetta alle fotocopie e lo stagista assegnato all’ufficio stampa, avrebbero trasformato quell’hobby nel proprio lavoro. E lo dico con piena cognizione della necessità e del valore di ogni singolo ruolo all’interno di un progetto editoriale avendo piena esperienza di quanto un progetto, un romanzo, un libro, guadagni in qualità grazie al concorso di ogni singola competenza e capacità. E la qualità va pagata, tutta e subito. Quando dico cultura però io parlo anche d’altro. Dico tradizione di pensiero e idee che coprono quasi l’intero arco della nostra storia culturale strappando anno dopo anno alla ferrea legge dei copyright, dei settant’anni dalla morte dell’autore, capolavori dimenticati o diffusi in modo insufficiente. Quando dico volontario non intendo un lavoro che doveva essere retribuito e poi non lo è, nè tantomeno l’ancora più odiosa ambiguità di certi rapporti di lavoro, contratti, che di fatto legittimano forme di schiavismo tutte moderne.

Proprio per evitare malintesi ho pensato di sostituire alla parola volontario, di per sé ambigua, quella di bénévole e di rimettermi, quanto al suo significato, a quello che, per esempio, i francesi ci dicono a tale proposito in un rapporto di tre anni fa.

Le rapport du Conseil économique et social présenté par Marie-Thérèse Cheroutre définissait en 1993 le bénévole comme celui qui s’engage librement pour mener à bien une action non salariée, non soumise à l’obligation de la loi, en dehors de son temps professionnel et familial.

En tant que tel, le bénévolat constitue un enjeu économique évalué à environ 935 000 emplois équivalents temps plein (ETP) dans les associations, concentré dans un petit nombre de secteurs dont quatre bénéficient de l’essentiel de la ressource bénévole, un quart assumant des fonctions d’animation ou d’encadrement d’activités :
Sports 29%
Culture et loisirs 28%
Action sociale, santé, humanitaire 23%
Défense des droits 10%
Économie, développement local 4%
Éducation, formation, insertion 4%
Autres 2%

Ipotizzando che tali cifre possano funzionare anche nel caso italiano la prima cosa che colpisce è come il settore culturale sia tra quelli più toccati da questo tipo di attività. Certo vengono accorpati culture et loisirs. Ma cos’è un loisir?

La Conférence internationale du travail di Ginevra, del 1924 afferma nelle sue conclusioni: « La Conférence générale ha avuto per oggetto l’assicurare ai lavoratori, oltre alle ore di sonno necessarie, un tempo sufficiente per fare quel che gli piace, così come la indica l’origine etimologica del termine loisir ( dal latino licere, permettere)

nd.11420Questa apparente divagazione in realtà ci permette di identificare da subito tutto il “paradosso” del lavoro culturale che consiste nel volersi rappresentare come un lavoro vero e proprio nonostante il piacere che si provi nel farlo. Se nel mondo del lavoro manuale o tecnico, il piacere che si prova  nello svolgere una certa professione, la passione che si nutre dell’esercizio di un’attività sembra, e a torto, un optional, nel mondo culturale è difficile che quella voglia manchi. In altri termini ci sono in Italia migliaia di giovani e meno giovani  che giocoforza non potranno mai accedere a un lavoro, retribuito, regolare, di tipo culturale e non perché gli manchino talento, devozione, capacità, ma perché l’industria culturale non ha bisogno di tantissima gente e la poca di cui ci sarebbe bisogno, tolti i figli di, le amanti di, gli amici di, e i fortunati che erano al posto giusto nel momento giusto, non basta ad assorbire tutti. E poi, che follia pensare addirittura di fare un lavoro che piace! Così la nostra esperienza ci dice che sono tante, troppe le persone uscite da Lettere e Filosofia, Conservatorio, Accademia delle Belle Arti, Architettura, Sociologia, per non parlare della ricerca scientifica tout court, a gettare prima la spugna e poi il sangue in lavori spesso poco retribuiti, abbastanza infami ma soprattutto lontani anni luce dalle proprie aspirazioni, dalle competenze acquisite per passione.

Per fortuna nostra e loro queste migliaia di persone nonostante tutto questo non si sono arrese; continuano a leggere, tradurre, recensire libri, presentarli, partecipare a convegni, festival, collaborare a riviste. Qualcuno dirà che lo fanno nel loro tempo di loisir, da bénévoles, esattamente come Primo Levi, James Joyce, Franz Kafka, Roberto Bolaño, ecc ecc.

E allora? Allora io vorrei che qualcuno mi dicesse a quanto tutto questo corrisponda in termini percentuali sul lavoro culturale e soprattutto in che modo incida sulla qualità della produzione il fatto di essere sostanzialmente libera dal mercato. Per il momento di questa energia ne sento soltanto il profumo.

Concludo con un documento che mi sembra importante condividere per due ragioni. La prima per rimandare al mittente l’accusa di farmi promotore dello sfruttamento della forza lavoro culturale nelle imprese commerciali e dall’altra per ben marcare il passo su cosa non si deve assolutamente accettare che accada in una società civile.

Volontariato e profitto: appello di Sergio Bologna ai volontari dell’Expo di Milano

La vera lotta di classe non è quella di chi è dentro ma di chi è fuori

Se me li sono persi: “Le sillabe della Sibilla”

2

di Eugenio Lucrezi

TOTI SCIALOJA, Le sillabe della Sibilla, Scheiwiller, Milano, 1988. «Sì, ritengo di essere un pittore che scrive poesie, e non il contrario. Un pittore, perché il mio impegno quasi “sgradevole” nella ricerca della pittura, le lotte che sostengo e che ho sostenuto sono le lotte della mia esistenza. La poesia mi è sempre apparsa come un gioco, anche se è un gioco che può investire dei sentimenti tragici, ma per me resta un gioco».

Hanno scelto l’ignoranza

2

di Antonio Sparzani

non tagliare la scienza1

Scienziati di diversi paesi europei descrivono in questa lettera come, nonostante una marcata eterogeneità nella situazione della ricerca scientifica nei rispettivi paesi, ci siano forti somiglianze nelle politiche distruttive che vengono seguite. Quest’analisi critica, pubblicata contemporaneamente in diversi quotidiani in Europa, vuole suonare come un campanello d’allarme per i responsabili politici perché correggano la rotta, e per i ricercatori e i cittadini perché si attivino per difendere il ruolo essenziale della scienza nella società.

I responsabili delle politiche nazionali di un numero crescente di Stati membri dell’UE hanno completamente perso contatto con la reale situazione della ricerca scientifica in Europa.
[senza però mitizzare minimamente la Scienza, per carità, leggetevi un buon antidoto, a.s.]

Fabio Pusterla, da: Argéman

74

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di: Fabio Pusterla

Rappresentazioni del signor nessuno 

 

I

“nel senso che va bene essere educati
vanno bene le buone maniere, però, cazzo,
possibile che non ti scaldi mai, che non
ti arrabbi? cioè non è che per finire
facendo così ti pari anche un po’ il culo?
Scusa se te lo dico…”

C’è ben altro. Criticare il capitalismo oggi a cura di Enrico Donaggio

1

 

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di Giorgio Mascitelli

  Il volume C’è ben altro. Criticare il capitalismo oggi (a c. di Enrico Donaggio Milano-Udine, Mimesis, 2014, euro 18) raccoglie dieci interventi di critica del capitalismo contemporaneo di giovani filosofi,  molti attenti anche al campo delle scienze sociali. 
Le tematiche spaziano dalla gestione della crisi finanziaria attraverso i debiti all’analisi dell’antropologia del consumismo, dalle antropotecniche manageriali allo spazio globalizzato della metropoli capitalista, dall’analisi dell’ideologia del denaro alle differenze di genere all’interno del capitalismo attuale, senza tacere delle analisi delle forme di soggettivazione dentro il sistema capitalista e dell’ideologia neoliberista come forma di falsa coscienza.  La varietà dei testi rende questo libro interessante e utile per lettori non specialisti in quanto i singoli contributi possono essere letti come voci particolarmente articolate e documentate di un’enciclopedia indispensabile e pur non ancora redatta sul capitalismo contemporaneo.

Può darsi che mi sbagli, ma un libro collettivo di critica al capitalismo, soprattutto se dovuto a giovani, fino a dieci anni fa non sarebbe stato nemmeno pensabile: certo qualche singola voce critica non è mai mancata, così come analisi di temi specifici che comportavano implicitamente una critica del capitalismo, ma l’affermazione esplicita di una prospettiva di critica generale anche nel titolo dell’opera non si vedeva dagli anni settanta. Effetto della lunga crisi? Probabilmente sì, ma anche di un cambio di prospettiva culturale più profondo.
 Mi sembra che la pervasività della ragion economica neoliberista e la sua dimensione biopolitica diventino evidenze incontestabili anche in quegli aspetti della vita un tempo protetti dalle dinamiche economiche più brutali. Sarebbe però limitativo leggere questo libro solo come l’attestazione di una rivincita di Marx. Certo i riferimenti a Marx e più in generale agli autori della teoria critica sono centrali (e tra questi un Foucault finalmente letto in maniera più concreta che nella fase hard del postmodernismo), come è naturale che sia, ma molti di questi giovani studiosi non rinunciano a intrecciare i temi classici con prospettive e letture di vario genere, per rendere all’altezza delle sfide del presente la loro critica.
Insomma il principio, metodologico e politico al tempo stesso, esplicitato da Simona De Simoni nel suo saggio sullo spazio globale del capitalismo, secondo il quale “là dove si assiste a un mutamento dimensionale, si impone anche una rivoluzione concettuale” (p.50), sembra essere fatto proprio da molti degli interventi. Proprio De Simoni ne offre un esempio interessante quando respinge l’idea di una semplice organizzazione dall’alto delle forme dello spazio globalizzato senza che spinte dal basso, conflittuali e cooperative, giochino un ruolo. Si tratta dunque di leggere lo spazio globalizzato sia nella sua base materiale sia nella sua costruzione simbolica mettendo in luce come i flussi reali, per esempio dei migranti o anche dei soldi, mettano in crisi la rappresentazione astratta e tradizionale degli spazi.
L’analisi di Davide Gallo Lassalle risulta altrettanto significativa perché nel rivelare il rapporto feticistico del capitalismo finanziario oggi al potere con il denaro come fine assoluto, mette in guardia anche dai pericoli di un’opposta concezione romantica, che del resto non manca anche nella tradizione marxista, che vede in esso una sorta di materializzazione del male, sottolineando invece come campo di lavoro quelle pratiche che cercano di riportarlo al suo ruolo di veicolo e strumento per un’economia dal volto umano.  Dario Consoli, a partire da un’escursione in quella ricca letteratura a metà tra new age e pseudoscienza che promette vie miracolose al successo personale attraverso un cambiamento interiore, coglie un riflesso del progetto neoliberista di costruzione di un uomo nuovo, che incarni le virtù dell’homo economicus, con tutti i rischi possibili connessi con una simile prospettiva. Taccio di altri interventi di pari livello e interesse ( e dunque il lettore potrà legittimamente lamentarsi della vanità del recensore)perché il genere recensione impone uno spazio limitato che non vorrei esaurire senza aver aggiunto un’osservazione che indica nel contempo una mancanza e una linea di riflessione potenziale.
Non è un caso, infatti, che in tutto il volume non compaia mai un riferimento a  uno dei cardini del pensiero marxista quale la lotta di classe, salvo in una citazione del finanziere statunitense Warren Buffet (p.69 nel testo di Leonardo Mazzone, che si occupa della gestione ideologica della crisi economica), che parla però della lotta di classe vincente che la sua classe sta conducendo contro quelle subordinate.  Non si tratta, ritengo, di una presa di posizione teorica, ma più tristemente di una constatazione di una realtà che vede appunto come uniche forme di lotte le Blitzkrieg delle classi dirigenti globali contro i ‘poveri’. D’altra parte,  anche se la critica non può che registrare i dati della realtà, una riflessione sui soggetti e le forme di lotte non può essere più a lungo rimandata, se non si vuole cadere in quel supplizio della speranza con la cui menzione  Enrico Donaggio apre la sua introduzione ricordando  come  fosse riservato dai carcerieri della Serenissima ai loro prigionieri, che venivano indotti ad affrontare una prova che non potevano in nessun caso superare in cambio della promessa della loro liberazione.

Se uno degli indiscutibili meriti di questo libro è quello di dimostrarci con chiarezza che sono prodotti storici alcune delle cose che secondo le idee dominanti del nostro tempo sono così per natura, è lecito aspettarsi una riflessione anche sul tema di quali vie il pensiero critico debba prendere per arrivare alla società, perdipiù  in crisi e in preda a pulsioni sempre più regressive.  Naturalmente questa riflessione non può essere compito specifico degli autori di C’è ben altro,  ma di tutti coloro che non vogliono rassegnarsi a vivere in un mondo di ordinaria ingiustizia, ossia di ordinaria barbarie.

Pietro Tripodo. La critica oltre gli amici

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di Tarcisio Tarquini

(Conservatorio Licinio Refice di Frosinone. Sala Paris. Settimana della Contemporaneità: Memorie. La musica della poesia di Pietro Tripodo. Frosinone, Giovedì 16 Ottobre, 2014)

Pietro TripodoPietro Tripodo ha avuto una sorte e un talento singolari: di essere diventato già in vita un autore di culto di un cenacolo di intellettuali, critici, scrittori e poeti che lo amarono come poeta ma lo fecero anche loro amico e che lo considerarono da subito, come ha scritto qualche tempo dopo Emanuele Trevi, “un grande poeta sconosciuto”. A cominciare da Gabriella Sica, che lo fece esordire sulla sua rivista Prato Pagano, agli inizi del decennio Ottanta del secolo scorso e che, da docente universitaria, con Bianca Maria Frabotta, propose la sua poesia – intorno al 2004-2005 – a una giovane studiosa, Flavia Giacomozzi, come argomento di una tesi di laurea da cui nacque poi un libro, edito da Castelvecchi, Campo di battaglia, che ricostruisce con accuratezza il profilo poetico di alcuni dei protagonisti della stagione, appunto, di Prato pagano e Braci, e cioè, insieme con altri, Tripodo, soprattutto, e Beppe Salvia, poeta che Tripodo non conobbe direttamente ma sul quale, nel 1988, scrisse un saggio. Un altro amico è Raffaele Manica, che ha curato nel 2007 un volume di Donzelli che pubblica il primo e l’ultimo volume (ma a pensarci sono solo due) di poesie che Tripodo pubblicò in vita, il primo – Altre Visioni – nel 1991 e il secondo – Vampe del Tempo – nel 1998.

DONNE (2/2) (elenchi # 1)

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di Giacomo Sartori

donne svenevoli

donne svenute

donne svenate

donne bennate

bullette imbellettate

bullette imbollettate

donne con gli occhi lucidi di pena

donne con gli occhi lucidi di birra

donne che si tengono bene

Prossimità

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animale

[È uscito il n° 8 di “Atti impuri”, a cura di Sparajurij, intitolato Un sogno svolto silenziosamente. Ne fa parte una piccola serie di testi. Tre di essi appaiono qui.]

di Andrea Inglese

Vedrai, potremo scrivere, se smettiamo
di parlare, potremo, verranno
fuori, sopra fogli o schermi,
si faranno materia le parole,
rallenteranno gli spasmi
della gola, e fermeranno il mondo,
nella frase, fermeremo paesaggio
e cose, logge e fiori di passiflora,

Proprio qui, tra stato di natura e stato di grazia

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di Giuseppe Zucco

Un’intervista-dialogo con Nicola Lagioia su La Ferocia

tipica

Al contrario dei tuoi precedenti romanzi, Occidente per principianti (Einaudi, 2004) e Riportando tutto a casa (Einaudi, 2009), dove mettevi in scena dei racconti di formazione, formazione sia individuale sia generazionale, tra le pagine de La ferocia dai corpo alla storia di un crollo,

La quasi morte dell’autore: Near Death Experience

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di Alberto Brodesco

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Impiegato di un call center si dirige in tenuta da ciclista verso le montagne per suicidarsi. Sta tutta qui la trama di Near Death Experience, film di Benoît Delépine e Gustave Kervern. A interpretare l’impiegato, in un film in cui gli altri personaggi sono solo comparse, è Michel Houellebecq. Si tratta di una presenza decisiva, che attraversa gli spazi del film conferendo massa alle componenti elementari che strutturano la narrazione. Il corpo di Houellebecq, tutto gira lì intorno: i registi girano il loro film intorno al corpo e a sua volta il corpo gira, ballando sgraziato sulle note di War Pigs dei Black Sabbath. In quasi tutte le sequenze del film lo scrittore francese si rende ridicolo come in questa: quando rimane per interi minuti, impacciato uomo ragno, appeso a una parete di roccia; quando si muove alla Nosferatu proiettando la sua ombra fra le rupi al tramonto; quando infine si disseta con l’acqua di una piscina benché una voce lontana glielo sconsigli. “Me ne frego, sono morto”, le risponde Houellebecq.
L’autore, dunque, è morto. O meglio, per correggere Roland Barthes, è quasi-morto, visto che nemmeno il suicidio gli riesce davvero bene. Houellebecq passa attraverso una “Near Death Experience”, l’esperienza ai confini della morte che i racconti new age illustrano con la figura dell’uscita luminosa in fondo a un tunnel. In un film che affronta il rapporto fra scrittore, autore e personaggio, questa luce fatale sembra essere quella dei riflettori. Houellebecq è l’interprete ideale per ragionare sul tema del divismo letterario, visto che, oltre che sulla forza della scrittura, ha costruito la sua fortuna sulla provocazione, sul piacere dello scandalo, sul gusto dell’antipatia, ovvero sulla confusione tra arte e vita, tra fiction e auto-fiction, tra voce del personaggio e voce dell’autore.

Per suicidarsi in montagna Houellebecq indossa letteralmente i panni del pennivendolo da quattro soldi. La sua divisa da ciclista rossa e bianca porta come sponsor la Bic, produttrice delle più economiche fra le penne. Il distacco dal mondo del personaggio si sovrappone alla catarsi dello scrittore: Houellebecq scompare fra le montagne anche per suicidare il suo personaggio letterario. La sua partecipazione a un film che concentra lo sguardo sulla miseria del corpo nello spazio è un’auto-caricatura, una near death artistica. Avvicinarsi alla morte così, vestito da ciclista marchiato Bic, è in definitiva un modo per ancorarsi al corpo, e quindi per restare vivo, dentro il tunnel, per rimanere scrittore. Come afferma Houellebecq in voice over, i nostri corpi sono tute spaziali che ci consentono di sopravvivere goffamente in un pianeta inospitale.

È davvero stupefacente osservare infine un altro aspetto legato alla sfera del corpo, ovvero come Houellebecq stia assumendo sempre più la forma fisica di alcuni dei suoi progenitori letterari: Céline in primis, poi Artaud da vecchio, poi dei riflessi dai ritratti immaginari di Sade. Questa metamorfosi non è certo frutto di uno spirito di emulazione alla Zelig ma pare rispondere a una volontà totalmente somatica di andare ad abitare il grande edificio della letteratura del Male.
Benoît Delépine e Gustave Kervern scelgono di utilizzare una videocamera obsoleta e a bassa definizione, che monda di tutto il suo potenziale artistico-turistico il luogo in cui il film è girato, la Montagne Saint-Victoire resa iconica dai quadri di Cézanne. Per molti versi i registi si avvicinano all’intenzione del pittore, ne ricalcano il lavoro di sottrazione di paesaggio al paesaggio, nel verso della forma pura, della geometria, manifestando un bisogno di fuga dall’impero dell’HD. La conquista estetica si raggiunge solo nel rifiuto dell’estetismo – altra negazione ostinata, altro modo per restare al riparo nel buio del tunnel.

Near Death Experience, presentato nella sezione Orizzonti alla 71esima mostra del cinema di Venezia, è uscito nelle sale francesi. Non è al momento prevista una distribuzione italiana.