di Pasquale Vitagliano
Ogni mattina al caffè,
mi chiedo se esista
il colore concreto,
non dico il giallo, o il giallo
di questo pacchetto di tè,
e neppure tutti gialli che ho visto.
Questi sono i gialli particolari
di cui mi parla l’occhio.
di Pasquale Vitagliano
Ogni mattina al caffè,
mi chiedo se esista
il colore concreto,
non dico il giallo, o il giallo
di questo pacchetto di tè,
e neppure tutti gialli che ho visto.
Questi sono i gialli particolari
di cui mi parla l’occhio.
MM Il mare. Dalla Liguria dei costoni rivolti all’opaco, è lì ma è più dei turisti che tuo. Troppo facile. Il mare non si risolve mica così, con una battuta. Alla fine quelli come me non ci si mettono neanche, manca il coraggio. Provo a dirmi: sei stato mozzo sul Corsica Ferry, qualche mese… Ma il mare? Non è andarci noi, esplorarlo, è farlo emergere. Era questa la sfida, Giuseppe Conte, dopo aver scritto Il terzo ufficiale con i vascelli carichi di schiavi e dolore, e La Casa delle onde, l’aria inzuppata che hanno respirato Shelley e Byron? Era Il male veniva dal mare (NdR: Longanesi, 2013), il romanzo al quale lavoravi da anni per chiudere la grande trilogia del mare?
GC La Liguria ha due mari. Uno è quello dei turisti o peggio ancora dei bagnanti. Un mare qualunque, scialbo come la sagoma di un ombrellone, addomesticato, sempre un po’ freddo, totalmente insignificante. Poi ha un altro mare. È quello delle navi, della Repubblica di Genova, dei capitani di Porto Maurizio che partivano da qui per varcare Capo Horn, il mare grandioso e solitario che sta dirimpetto alle scogliere dei Balzi Rossi, che fronteggia le Alpi sino a Savona e poi il verde degli Appennini, che rende tutto verticale e fa di tutto una visione e un miraggio, un mare d’avventura e di metafisca, un mare interiore e terribile, che a noi non resta che guardare, contemplare, seguire nel suo movimento incessante. Io ho cominciato a capire il mare quando sono tornato in Liguria dagli anni passati nelle metropoli del Nord, a Milano soprattutto, e poi anche a Torino. Quando ero un adolescente, non me ne fregava niente del mare, come della campagna. I miei orizzonti erano esclusivamente urbani. Via Cascione a Porto Maurizio (allora era davvero una via viva) era la mia Oxford Street, il mio Boulevard Saint-Germain. Mi vedevo e sognavo in città. I miei parenti materni sono forse gli unici liguri che risiedendo in Liguria da più di quattro secoli non abbiano conservato un pezzo di terra. Poi, i terreni comperati da mio padre a Diano Arentino e a Baiardo e che ho ereditato li ho tutti venduti: ho commesso il sacrilegio di vendere gli alberi. Ma era fatale che prevalesse lo sradicamento. Io amo vincere la forza di gravità, avere radici verso l’alto. Il mare, come gli alberi e i fiori, li ho scoperti tornando. Allora mi aggiravo tra le ville di Sanremo a cogliere gli estremi sussulti di una vegetazione in splendore. Gli agapanti, gli acanti. Solo dei corrotti possono pensare che sono fiori e nomi preziosi, da bandire. Sono fiori comuni, democratici, selvatici alle volte, basta avere occhi selvatici per vederli. E poi pian piano la mia attenzione si è rivolta al mare. Mare padre, per il Montale di “Mediterraneo”. Mare madre, per chi pensa in francese. Mare delle origini, mare della vita. Nei miei romanzi , il mare c’è subito, penso al diario della mareggiata che corre lungo tutta la vicenda raccontata in Equinozio d’autunno ambientata a Baiardo. Una Baiardo che poteva anche essere in Irlanda, per me andava bene lo stesso. Ma certo nei miei ultimi romanzi il mare diventa davvero protagonista, non so se si tratta di una trilogia, caro Marino, ma tu hai colto bene il filo che passa dal Terzo ufficiale a La casa delle onde a questo Il male veniva dal mare. Un mare di libertà e di schiavitù (l’edizione greca del Terzo ufficiale ha intitolato: Schiavi della libertà), un mare scuola di vita, un mare rigurgitante di visioni e di miti, diventa il mare amato da Shelley e Byron, il mare dell’utopia e della bellezza. E infine questo mare, in Il male veniva dal mare, quello di oggi e di un futuro vicino, sempre più avvelenato, infestato da isole di plastica, teatro di morte e di distruzione. Il mare è il filo conduttore. Quello reale e quello fantastico, delle mitologie e delle visioni , che non può essere ucciso dalla avidità e dalla violenza dell’uomo. Il mio è un libro riparatorio. Un libro di resistenza. Senza moralismi e senza soluzioni pronte. Il mare è simbolo della stessa profondità, complessità, tempestosità dell’anima umana. Per chi crede che esista una corrente di energia spirituale che chiamiamo anima, e che esiste un fruitore di questa energia che chiamiamo essere umano.
MM È un mare che ci ha osservato, ci ha spiato (con le sue meduse, la grande invenzione del romanzo), e noi nel frattempo l’abbiamo sporcato. Una delle cose importanti di questo romanzo è stata quella di legare felicemente l’invenzione al grido di dolore oceanico: parlo tra l’altro dell’isola della spazzatura, la Great Pacific Garbage Patch.
GC Le meduse sono esseri misteriosi e bellissimi. Primordiali, dovevano essere sul pianeta alle origini dei tempi e della vita. Ci sono stupende immagini di meduse che flottano e pulsano in una sequenza enigmatica di The tree of life di Terence Malick. Io mi sono letteralmente innamorato delle meduse. Tutti le odiano sulle spiagge. Come se fossero loro ad attaccare l’uomo, e non l’uomo a sbattere contro di loro nello spazio che appartiene a loro. Mi sono innamorato della loro leggerezza, trasparenza, luminosità, capacità di pulsare e di danzare. Sono stato anche colpito dalla rapidità del loro degrado, un mutamento repentino dalla bellezza all’orrore è quello che capita a loro quando vengono catturate e gettate sulla sabbia; da creature splendide diventano orribili ectoplasmi. Come la Medusa della mitologia greca, ragazza dai capelli bellissimi che una maledizione degli dèi trasforma in mostruosi serpenti. Nel romanzo, le meduse portano notizie dalle profondità. Non solo dai fondali feriti dallo sversamento dei rifiuti tossici, ma anche dalle profondità dello spirito della vita. La vita è venuta dal mare. Se il mare muore, siamo tutti fottuti. E gli uomini, presi in un gorgo di corruzione, incoscienza, miseria spirituale, non se ne rendono conto. Allora una specie più evoluta di quella degli umani viene a ricordarci tutto. A farci pagare tutto. Certo, i due simboli chiave del romanzo sono le meduse e la meganave Sirena. La meganave che trasporta sedicimila anime e chissà quante migliaia di fusti di sostanza tossiche nel suo interno. Un Leviatano, una balena bianca senza nessun Capitano Achab, una che gli uomini stessi si sono costruiti, dopo avere cacciato e ucciso tutti i cetacei dal pianeta. La scoperta che nel Pacifico, ma ormai anche nell’Atlantico, esistono isole di rifiuti plastici, isole inabitabili e di morte, su cui si immolano a milioni uccelli di mare e pesci, grandi ormai come una parte degli stessi Stati Uniti, è stata capitale per la storia immaginata da questo romanzo. Che sembra un romanzo fantastico, forse lo è, ma contiene credo una dose di realtà superiore a quella ristretta di certi romanzi sedicenti realistici.
MM Siamo nel terzo decennio del secolo XXI, a Nizza, sulla spiaggia, un barbone, a poca distanza di tempo, s’imbatte in due cadaveri. Due giovani donne di colore, bellissime e mutilate. A Cavallero, un commissario che annega la sua malinconia ingozzando salumi e formaggi, toccano le indagini. A Nyamé, un giovane giornalista tocca scriverne sul suo giornale. Il mare luccica e ribolle come popolato da distese di famelici piraña. È luce di meduse. Si muovono non distante da una grossa nave, la più grande della storia marina, che ha gettato l’ancora nella Baia degli Angeli.
GC Sì, il romanzo contiene molti fatti, privilegia movimento e avventura, è una mia scelta precisa, antinovecentesca, meno ingenua di quello che i miei avversari credono (non si ricordano mai che a ventisette anni ho pubblicato un libro, La metafora barocca, che oggi è in tutte le biblioteche europee e americane, e che da allora la mia consapevolezza del manufatto letterario è particolarmente acuta, ma forse è per questo che i miei avversari mi attaccano, perché “rompo” come ebbe a scrivere una volta Aldo Nove (in fondo il più simpatico tra quelli che mi detestano). Mi interessano poi le trame come disegni del destino e i personaggi come grumi di movimenti dell’anima. Poi ai miei personaggi dò anche corpo, linguaggio idiolettico, coscienza etica, rilievo simbolico, un gran lavoro, insomma. Anche questa volta. Quattro anni, non so quanti rifacimenti, quante parti sacrificate, lavoro sempre come un Don Chisciotte, quello di Unamuno e Turgenev, l’incarnazione di un idealismo utopico, che avevo da ragazzo e ho mantenuto. A 16 anni sognavo di cambiare la letteratura italiana. A 67 continuo in questo sogno del cazzo, che non vale niente. Ma io sono fatto così. E, almeno in Francia e in America, qualcuno crede che dopo L’Oceano e il Ragazzo (1983) la poesia italiana un po’ è cambiata. Col romanzo ci provo ancora. Con romanzi “fuori schema e fuori legge”, come ha scritto di Il male veniva dal mare Sette del Corriere della Sera. Mi piace essere un fuorilegge. Aspetto che gli sceriffi della legalità romanzesca vengano a catturarmi. Se ce la fanno.
MM Racconta qualcosa dei personaggi, dei libri che amano.
GC Marlon, il senzatetto che sempre più lettori considerano centrale nel romanzo, legge soltanto due libri, Le metamorfosi di Ovidio e Foglie d’erba di Whitman. Una colossale enciclopedia di mitologie antiche e eterne e una colossale celebrazione della istantaneità della vita e dell’universo. Dice più volte che non ha bisogno di altro. Il commissario Cavallero, di origini piemontesi, legge Jean Giono. Mark Breton, il direttore del giornale dove lavora Nyamé legge Borges e ne tiene un poster in redazione. Il suo vice Zeno legge una scrittore immaginario, autore di un romanzo sulla crisi di impotenza creativa di un trentenne e un quarantenne che si chiama Franco Andrea Corti. Questo nome dovrebbe dire a qualcuno che l’autore è immaginario ma che forse rispecchia un autore reale, forse due.
Quanto alle mie letture , sinora le recensioni uscite hanno parlato di influenze di Borges,Verne, Conrad, Melville, Stevenson, Neihardt, Jack London, Philip Dick, Victor Hugo, Mario Soldati, Italo Calvino, Cormack McCarthy, Murakami.
MM Ci parli di cosa hai fatto per ripulire la costa da mafie, cemento, corruzione?
GC Non certo tutto quello che basta. Ci vorrebbe una pulizia ben più radicale. Una tabula rasa. Non sono per i compromessi, in questa fase storica, ma per la lotta frontale, anche durissima. Ho soltanto scritto editoriali per il quotidiano di Genova. Senza paura e parlando chiaro, da uomo libero e da libero scrittore. Ma mafie cemento e corruzione sono ancora lì. Certe volte penso che scrivere sia poco. Ma poi mi dico che è tantissimo. Almeno per me. Che ho sempre vissuto per scrivere. Qualunque cosa, ma scrivere, che per me è come respirare e nutrirmi. Scrivere. Contrapporre la propria scrittura alle brutture e alle barbarie della società. Farne intravedere una migliore. Lascia che i miei avversari (spesso sono linguaioli che davanti a qualunque potere se la fanno ampiamente sotto) ridano. Io rido più di loro. E sono in buona compagnia.
Georges Perec, Tentativo di esaurimento di un luogo parigino. TELP.1, a cura di Alberto Lecaldano, Voland, 2011.
Telp è l’acronimo di Tentative d’épuisement d’un lieu parisien. Telp è un piccola perla letteraria. Telp è un talismano per gli amanti di Perec. Ma ci sono due cose da fare prima di acquistarlo e di leggerlo. Non perché sia un libro difficile (“libretto”, ad essere precisi: appena 63 pagine, di cui 6 di postfazione e 14 di immagini), ma perché è un libro altrimenti incomprensibile. Insomma, ci vuole la chiave giusta. Con la chiave giusta, quella che può sembra un’elencazione ossessiva e apparentemente insulsa di oggetti, persone, azioni si fa magia. La magia di Georges Perec.
Due cose da fare a priori, dicevo. La prima, leggersi le 500 pagine di La vie mode d’emploi, vera e propria “opera mondo” che oltre a racchiudere 107 storie (non per nulla Perec utilizzò il sottotitolo romans, al plurale, in luogo di roman), un indice dei nomi di 50 pagine, un elenco di riferimenti cronologici veri ed inventati che vanno dal 1833 sino al 1975, è un grandioso tentativo di trasformare in un puzzle la storia di tutto uno stabile parigino con i suoi inquilini, e indirettamente l’intera storia dell’umanità.
La seconda cosa da fare, complementare oppure anche semplicemente alternativa qualora il potenziale lettore di La vie mode d’emploi avesse l’impressione di dover affrontare un Ulysses francese, è guardarsi i video dell’intervista che Viviane Forrester fece a Georges Perec il 22 marzo 1976. I video sono messi a disposizione dall’INA, l’ente nazionale francese incaricato di archiviare le documentazioni audiovisive. Il primo lo trovate qui. Non so di chi sia la regia. Perec appare in cima a una scalinata (oggi scomparsa) nel quartiere Belleville di Parigi, osserva le “cose” della sua città, compresa la vecchia porta in legno di quello che fu il negozio di sua madre, deportata in un campo di concentramento nel 1943 e mai più tornata (il padre era morto in guerra tre anni prima). Perec è un affabulatore straordinario. La Forrester, giornalista e scrittrice, scomparsa a ottantotto anni nell’aprile scorso, sembra affascinata dalle sue parole, dai gesti, da quello strano modo di reggere la sigaretta tra il medio e l’anulare (in Telp, pag. 21, Perec noterà per la prima volta un passante con la sua stessa abitudine). Perec, nel corso dell’intervista, arriverà a spiegare il progetto grandioso di La vie mode d’emploi, mostrando disegni, schizzi e schemi relativi all’andamento della narrazione: il movimento a “elle”, come il cavallo degli scacchi, con cui la voce narrante salta da un appartamento all’altro. Non occorre conoscere bene la lingua francese, basta ascoltare la sua voce, seguire la sua gestualità, e Perec vi darà la chiave per Telp.
E ora veniamo a Telp. La suggestione comincia dalla copertina grazie a una fotografia scattata nel 1974 dall’amico Pierre Getzler: Perec chino sulla penna a un tavolino del Café de la Mairie, sigaretta nella sinistra, tazza di caffè o tè da cui spunta il cucchiaino. Resterà lì, in place Saint-Sulpice, per tre giorni consecutivi, spostandosi ora al Bar tabacchi Saint-Sulpice, ora al caffè Fontaine Saint-Sulpice, ora sedendosi su qualche panchina della piazza. Perec cambia il punto di osservazione, osserva ed elenca ciò che vede: animali, persone, atteggiamenti, azioni, mezzi di trasporto, variazioni atmosferiche, luci, ombre. Talvolta cerca di catalogarli, di dare un ordine all’apparente casualità. Elenca “quello che generalmente non si nota, quello che non si osserva, quello che non ha importanza: quello che succede quando non succede nulla, se non lo scorrere del tempo, delle persone, delle auto e delle nuvole”.
Alberto Lecaldano cura la postfazione (chiamata semplicemente Appendice) fornendo quelle informazioni indispensabili e contagiando il lettore con il suo entusiasmo. Nel risvolto di copertina, le immagini eleganti (a colori) e utili di alcuni oggetti ormai scomparsi che Perec cita nel testo, come la Due-cavalli verde mela, vecchio modello Citroën, evocazioni apparentemente prive di nostalgia che ritorneranno in Je me souviens, 1978. Anche il progetto grafico, curato dallo stesso Lecaldano, è in perfetta sintonia con il testo. Onore dunque, ancora una volta, al vecchio diavolo di estrazione bulgakoviana, Voland, che a trent’anni dalla morte di questo straordinario scrittore francese ci regala, per soli 12 euro, un autentico gioiellino letterario.
Due poesie di Seamus Heaney tradotte da Franco Buffoni
Antaeus
When I lie on the ground
I rise flushed as a rose in the morning.
In fights I arrange a fall on the ring
To rub myself with sand
That is operative
As an elixir. I cannot be weaned
Off the earth’s long contour, her river-veins.
Down here in my cave
di Jacopo Ramonda
L’ELABORAZIONE DEL LUTTO (uno)
Quando finalmente riconosciamo di doverci delle spiegazioni, è – con ogni probabilità – già troppo tardi. Ci sediamo a parlare, ai due lati del tavolo, come schieramenti avversari. Le attenuanti che ognuno di noi riconosce a se stesso si trasformano negli artigli con cui ci feriamo a vicenda, in modo involontario.
Chi si interessi ai movimenti degli anni 1960-1970, con o senza rimpianti, per personale coinvolgimento o meno, condividerà forse le reazioni contrastanti che ho avuto scoprendo il catalogo Controcultura in Italia. Libri giornali, fotografie, documenti (con relativi prezzi), pubblicato nel 2012 dallo studio bibliografico l’Arengario: http://www.arengario.it/homepage/_hp-pdf/catalogo-controcultura.pdf
Passata la curiosità e la piacevole scoperta di materiali che non conoscevo (copertine di Re Nudo o di Ombre rosse, testi di volantini, slogan), alcuni dei quali di un’inventività straordinaria; passata l’emozione, suscitata per esempio da foto di Tano D’Amico che riportano con forza nell’Italia di quegli anni; passata anche – con più difficoltà – l’irritazione di veder messo in vendita il tutto a caro prezzo, sono rimasta in sospeso su un paio di questioni. Perché così commercializzati, questi sono cimeli, articoli da collezionista, da musei, da biblioteche, ossia attestazioni frammentarie e parziali di un passato considerato chiuso; in sostanza, la controcultura (femminismo, pacifismo, antimilitarismo, antiautoritarismo, lotta di classe, movimenti giovanili, internazionalismo, etc.), diventa materia per amatori, conservatori, ricercatori di vari campi e discipline, e sarà (probabilmente già lo è) esposta, scandagliata, commentata, annotata. Quando e come si storicizza la vita? Quanta distanza e quali strumenti ci vogliono per ricontestualizzare e interpretare correttamente il vissuto? Non è troppo presto per mettere sotto teca il ’77? Per farne preziose anticaglie? Si è esaurito del tutto lo spirito della controcultura? E poi, che ha senso ha (ossia che senso si produce a) mettere insieme i cortei femministi e le P38, gli indiani metropolitani e Lenin, i prigionieri di Rebibbia in rivolta e la rivista freak Il minestrone? Che certo appartengono allo stesso periodo (purtroppo passato alla storia solo come anni di piombo), e certo rientrano nell’area dei “contro”, ma per il resto poco altro hanno in comune.
Altre considerazioni riguardano i prezzi, esorbitanti ai miei occhi, forse normali per esperti conoscitori. Mi sono chiesta se il tariffario sia giustificato da una forte domanda istituzionale o accademica, o se gli acquirenti potenziali non siano piuttosto nostalgici “ex”, oggi danarosi abbastanza per comprarsi un vecchio numero di Lotta Continua a 40 euro o un numero di Re Nudo a 250. A meno che non siano di moda, accanto alla planetaria icona del Che, anche insensate massime, tipo quelle di A/Traverso (“Il desiderio giudica la storia. Ma chi giudica il desiderio?”) o più minacciose scritte (“Pagherete caro, pagherete tutto”). Facciamo anche l’ipotesi che le tracce fisiche della controcultura stiano diventando un bene prezioso perché gli allora protagonisti, il più spesso giovani effimeri precari pendolari, erano poco “conservatori” per indole, necessità, ideali; rari sarebbero gli originali rimasti in circolazione, e c’è chi, come gli antiquari dell’Arengario, ne ha capito il valore. Valore economico, certo, ma anche valore storico, culturale, testimoniale e affettivo. Nonostante le remore, ho trovato questo catalogo straripante di vitalità ed è stato un piacere scorrerlo.
[PS catalogo esaurito, consultabile online; lo stesso editore-antiquario ha pubblicato altri volumi del genere]
di Orso Tosco

Crolla la pioggia e il vento fa un suono di topi e ferro.
L’acqua che scende si raccoglie nel centro del tetto, tagliato da una crepa. Andrà tutto bene: il tetto è solido, il cielo continuerà a cadere e Mr. Brody non mi troverà.
trad. isometra di Daniele Ventre
Noi dalle Muse Eliconie incominceremo a cantare,
che l’Elicona, il gran monte posseggono, chiaro di dèi,
e con i morbidi piedi intorno a una cupa sorgente
danzano e intorno all’altare del figlio possente di Crono;
e non appena lavate le tenere membra al Permesso,
o presso il Rio del Cavallo o all’Olmeio chiaro di dèi,
sull’Elicona, sul picco più alto, disegnano cori
desiderabili, belli, si muovono svelte coi piedi.
di Antonio Sparzani
«O padrone non lo fare
siamo in pochi ma a lottare
e per farla scomparire
la maledetta proprietà».
[Giovanna Marini, “Se ci avessi cento figli”, 1966]
Volevo ben dire che in questo paese ci fosse permesso di tenere una tassa sulla proprietà. Vi rendete conto? Ho detto una tassa sulla proprietà, che è sacra e inviolabile: non saremo per caso pazzi, o, per dire, tutti kommunistacci e kommunistacce senza ritegno e rispetto per le cose sacre. Adesso l’ordine è stato ristabilito, alleluja.
Andrea Bajani, Mi riconosci, Feltrinelli editore, 143 pag.
Che Mi riconosci sia la storia del legame fra Andrea Bajani, l’autore del romanzo, e Antonio Tabucchi non renderebbe in sé interessante la lettura del libro. Non è tanto l’aspetto testimoniale, il mémoire intellettuale che attira il lettore. Mi riconosci è, su tutto, un lungo discorso attorno a temi e concetti che innervano il senso stesso dell’esistenza: amicizia, vita, morte. Temi, cioè che farebbero tremare le vene ai polsi ad ogni scrittore che si rispetti.
Quindi è la lettura metaforica del libro che rende giustizia a questo breve ma densissimo libro di Bajani. I due attori protagonisti diventano perciò metafore, e il loro rapporto particolare, grazie alla capacità che ha l’arte di trasfigurare, universale.
Andrea e Antonio. Un’amicizia nata grazie alle corrispondenze d’amorosi sensi, grazie al rispetto nato sulle pagine scritte e lette l’uno dall’altro. La storia insomma della generosità di uno scrittore affermato anche oltre confine che, curioso, scopre un suo fratello e/o figlio di penna, il giovane Andrea. Che qui ci racconta come incontrò per la prima volta Antonio. E come lo vide per l’ultima.
Mi riconosci non è neanche un romanzo, ad essere precisi. Il passo è quello del monologo teatrale. La voce è quella attonita dell’autore che cerca, frugando nella memoria, il suo disperato modo di elaborare il lutto, di superare la perdita. Antonio (Tabucchi, ma tutti gli Antonio che abbiamo conosciuto nella vita) verrà consumato da una malattia senza scampo. Non c’è pace, non c’è soluzione, non c’è giustizia, nel ricordo di Andrea. Solo, proustianamente, il desiderio di eternare le cose che non durano, di impartire con l’unica arma a disposizione dello scrittore uno scacco alla morte.
La lingua di Bajani è levigata e precisa, anche nelle sue parti più allegoriche, ma per assurdo sono proprio le pagine bianche, quelle che dividono di continuo i brevi capitoli del libro, ad abbacinare. Come a dirci che non tutto, mai, si può dire per davvero di fronte al ricordo di un dolore, di fronte alla perdita di un amico.
(pubblicato su Cooperazione, numero 16 del 16 aprile 2013)
William Kentridge, Automatic Writing, 2003.
Ho curato una piccola antologia di poesia italiana contemporanea per la rivista Free Verse.
Enjoy.

di
Cécile Brusson
traduzione di Francesco Forlani
Mentre noi eravamo a teatro, uno sconosciuto aveva portato in rue Amélie un pacchetto che aveva consegnato al vecchio Georges, dopo la chiusura degli uffici. Quando torna a casa, Denoël, come suo consueto, passa per il suo ufficio. Io salgo su. Trascorre del tempo, e lui sempre al piano di sotto. Lo chiamo.
– Sto arrivando, mi grida.
Passa ancora un bel po’ di tempo. Di Denoël nessuna traccia. Lo chiamo di nuovo.
– Sì, sto salendo!
E arriva, con un enorme manoscritto sotto il braccio, il volto raggiante. “Formidable!” Mi dice semplicemente. E getta il manoscritto sul letto. Mentre si spoglia, io inizio a leggere. Robert si mette a letto e riprende la lettura passandomi i fogli man mano. Di tanto in tanto, ci lanciamo uno sguardo, senza proferire parola.

Eravamo appassionati, sorpresi, stupiti, letteralmente soggiogati. Non avevamo mai letto qualcosa di simile. Eravamo straordinariamente impressionati, una rivelazione pari a quella che si può provare davanti a un dipinto di Brueghel, Hieronymus Bosch. La stessa esplosione di luce, o meglio di verità, di sincerità, quella stessa precisione nei dettagli della vita, della morte, l’angoscia, la speranza. Questo lampo di verità in cui la bruttezza raggiunge il culmine del sublime; il tutto tradotto in parole vere, sincere e dirette. Avevamo l’impressione che il testo fosse stato scritto a denti stretti con una virulenza, una durezza del tutto simili a quella che Denoël utilizzava quando parlava dell’ambiente borghese della sua infanzia e che lui aborriva.
Trovavamo in quel manoscritto la giustificazione della nostra fuga. Vi trovavamo ciò che ci aveva fatto lasciare le nostre famiglie, ci aveva spinti in Francia, ciò per cui avevamo scelto di essere editori. Finalmente! avevamo trovato quello che cercavamo: qualcuno che aveva spezzato le catene della falsa morale, delle false convenzioni, dell’ipocrisia che ci aveva imprigionato per delle generazioni. Qualcuno osava dire merde! se ne aveva voglia e chiamava le cose con il loro nome. La nostra lettura silenziosa ma esaltante proseguì durante tutta la notte.
L’indomani, Steele è arrivato di buon’ora. Denoël lo aveva sicuramente chiamato. Gli parlò della necessità di pubblicare quel libro immediatamente. In fretta. Molto in fretta. Meritava il Goncourt e non c’era tempo da perdere. Tuttavia, mancava un dettaglio. Un semplice dettaglio apparentemente senza importanza: il manoscritto aveva un titolo: “Viaggio al termine della notte”, ma il nome del suo autore non era da nessuna parte. Abbiamo allora chiesto a Georges.
– Un signore alto, sul suo tipo, alto e magro, con una palandrana come la sua ….
– Ma non le ha detto niente?
– No. Stavo per andarmene quando qualcuno ha suonato. Ho aperto. Questo signore mi ha chiesto se lei era in ufficio. Ho detto di no. Poi mi ha detto: “Beh, non importa, gli dia questo. “Ho allora domandato da parte di chi e lui ha risposto: ” Non ha nessuna importanza. “E se n’ è andato. Ho messo il pacchetto nel suo ufficio.
– Ma adesso che ci penso, la carta in cui era avvolto … l’avevo lasciata qui.
Le pulizie erano state fatte. Georges aveva sicuramente preso la carta per metterla insieme al resto in caldaia come faceva ogni mattina. Scendiamo in cantina. Tutte le cartacce erano lì, pronte per essere bruciate, e così trovammo quella che aveva avvolto il manoscritto. Una carta stropicciata su cui si leggeva appena appena un nome. Quello di una donna che, poco tempo prima, aveva portato un altro manoscritto. Buono o cattivo che fosse, non lo so, ma troppo lezioso per essere pubblicato da noi. Uno dei nostri collaboratori incaricato di redigere cortesemente la lettera di rifiuto trova l’indirizzo. Denoël si fa carico della telefonata.
Con una voce tra le sue più fascinose – e solo Dio sa quanto affascinante sapesse essere ! – si scusa con la signora per non aver avuto il piacere di riceverla di persona, assicurandole che il suo libro è eccellente, ma che non può far parte del programma per l’anno in corso ma che per il prossimo forse .. e arriva al vero motivo della sua telefonata:
– A proposito, abbiamo appena ricevuto un altro manoscritto, senza nome o l’indirizzo dell’autore, ma è stato impacchettato con della carta su cui è scritto il suo nome. Si tratta di un altro suo manoscritto? … Anche se a prima vista lo stile mi sembrerebbe molto diverso.
– Un altro manoscritto a mio nome? chiede la donna.
– No. Solo la carta che lo conteneva porta il suo nome. Uno dei suoi amici, forse …
– Non saprei. Davvero. Ma aspetti un attimo … Sul mio pianerottolo abita un pazzo che mi ha mostrato un giorno qualche pagina di un suo manoscritto appena terminato … Però non mi dica che lo pubblicherete! Un orrore, è disgustoso! ripugnante!
– Certo che no, mia cara signora, la rassicura Denoël. Non abbiamo neanche avuto il tempo di leggerlo, tutto questo è successo ieri sera. Si tratta semplicemente di compilare una scheda, come si è soliti farlo per qualsiasi manoscritto che ci viene affidato. Credo che lei lo conosca bene visto che le ha chiesto della carta …
– Per carità! sbotta la signora che non vorrebbe per nessuna ragione al mondo avere a che fare con quel mezzo matto. Per carità! ma abbiamo la stessa donna delle pulizie e ha l’abitudine di prendere qualsiasi cosa per avvolgerci le pantofole, forse è lei che ha lasciato la mia carta intestata in casa del medico.
– Il dottore? Ah! lui è un dottore?
– Oh! in un ambulatorio di periferia.
– Bene, bene! Ma sa, per la scheda, mi potrebbe dire il suo nome?
– Destouches. Dottor Destouches.
– E l’ indirizzo è lo stesso suo , credo.
– Ahimè, sì, signore, 98, rue Lepic.

Denoël si perde in ringraziamenti e scuse per aver disturbato, le assicura che le sue prossime opere riceveranno in futuro un più caloroso benvenuto, poi ancora, sempre per telefono, un paio di sviolinate e finalmente riattacca. Pazzo di gioia, esplode con una grassa risata. Mi racconta la conversazione telefonica che gli ha rivelato l’identità dell’autore del “Viaggio”.
– Sempre a giocarti la carta del fascino tu, eh?
– Per fortuna, mi risponde lui sorridendo, è un metodo che mi riesce sempre!
Ma non c’era tempo da perdere. Steele aveva letto qualche pagina. Ne era stato letteralmente stomacato ma aveva una totale fiducia nel gusto e nel fiuto di Robert e si è sempre trovato bene.
Fu convocato d’urgenza il dottor Destouches e non si fece attendere. Denoël gli disse che voleva far uscire il suo libro senza indugio e in fretta per presentarlo al Goncourt. Destouches lo guardò sorpreso e poi con voce burbera, lasciò cadere: “Ma se non ha avuto il tempo di vederlo. ”
– Oh! ma certo che sì. Abbiamo trascorso tutta la notte, mia moglie e io a leggerlo e credo che meriti il Goncourt, rispose Denoël . Ma perché lo ha portato qui piuttosto che altrove?
– L’ho ripreso da Gallimard, che non mi ha dato segni di vita per diversi mesi, per poi a conti fatti, rifiutarlo.
– Beh, io lo prendo.
Destouches era allo stesso tempo incredulo e stupito dalla rapida decisione di Denoël. Il libro fu immediatamente messo in produzione. L’autore ne seguiva il percorso passo dopo passo, imponendo le sue idee per la presentazione, la copertina, urlando quando Denoël avrebbe voluto tagliarne un passaggio o due, cambiare una parola … “Di grazia, scriveva, non aggiunga una sillaba … ”
In ogni occasione mandava delle lettere, ci scriveva delle note veloci che spesso ci portava di persona, poi rimaneva a cena. Il suo posto era sempre apparecchiato. Una grande amicizia ci legava già.
– Dovrò trovare un nome, ci disse un giorno.
– Ma, Destouches, va più che bene.
– No. Non voglio mischiare il medico con lo scrittore. Eppure, c’è un nome che mi avrebbe fatto piacere … Céline.
– Un nome di donna? Non credo di capire …
– Forse, ma è il nome di mia madre.
C’era nella sua voce tanta di quella tenerezza contenuta che ne fummo commossi. Così nacque Louis-Ferdinand Céline.
Rinaldo Censi
Uno degli aspetti più affascinanti della Land Art è oggettivamente legato alla sua incidenza cartografica. Tenendo sotto i nostri occhi una mappa degli Stati Uniti risulta facile constatare come molte delle “sculture” moderne realizzate da Michael Heizer, Robert Smithson, Nancy Holt e Walter De Maria siano circoscritte nella zona Sud-Ovest del territorio americano: la zona segnata dai grandi spazi aridi e desertici. Basterebbe ricordare il Nevada e il Double Negative realizzato nel 1969 da Michael Heizer (ma anche Complex City e Dissipate), proprio a due passi dal Las Vegas Piece di Walter De Maria, realizzato nello stesso anno. Di fianco, nello Utah, potete trovare la Spiral Jetty di Robert Smithson (1970) e i Sun Tunnels (1973-76)di Nancy Holt, sua moglie. Sotto lo Utah si trova l’Arizona e il Roden Crater (1992) di James Turrell. Al suo fianco, sulla destra, nel New Mexico, Walter De Maria ha elaborato il suo Lightning Field (1977).
Le “sculture” qui indicate sono degli Earthwork. Utilizziamo il termine nell’accezione cara a Lawrence Alloway, e cioè «contributi decisivi al paesaggio, manifestazioni solide, luoghi (fisici)». Anche se alcune di queste opere sono a rischio sparizione (Spiral Jetty che – a volte – si inabissa nelle acque del lago salato vicino a Salt Lake City, Utah) o sono definitivamente scomparse, mangiate dal paesaggio e dal deterioramento fisico (Dissipate). La loro realizzazione rovescia il concetto tradizionale di “museo” tanto che per visitarle è necessario partire e affrontare un viaggio impervio in mezzo al nulla, nella wilderness, a stretto contatto con agenti atmosferici decisamente proibitivi. E’ quello che ha fatto nel 1976 lo stesso Alloway. Chi fosse interessato, può trovare il resoconto del suo viaggio attraverso lo Utah, l’Arizona, il Nevada, e il Texas su un vecchio numero di Artforum uscito nel 1976 e intitolato – guarda caso – Site inspections.
Tra gli Earthwork visitati da Alloway, oltre al Double Negative di Heizer e Spiral Jetty di Smithson, troviamo il First Lightning Field di Walter de Maria, situato all’epoca nell’Arizona, nei pressi del Chilson Ranch, tra il Meteor Crater e la zona vulcanica delle San Francisco Mountains. Ci sono voluti due anni a De Maria per trovare questo luogo simile a un pianeta sconosciuto. Lì ha piantato le prime High Energy Bars, barre metalliche in grado di catturare l’energia elettrica sprigionata dai fulmini. In un secondo tempo, il sito e l’opera sono state spostate nel New Mexico, sotto l’egida della Dia Art Foundation, e oggi ancora lì si trovano. Chi fosse interessato a visitare l’Earthwork deve contattare la Dia Art Foundation, evitando di perdersi nel nulla del New Mexico, tra zone desertiche e praterie. Si parte da Quemado e alle tre del pomeriggio si viene portati sul luogo da un’automobile della Dia, presso il Cabin Lodge, e lì si resta fino alle undici della mattina successiva, quando un’altra automobile passa a prendervi. Dentro al Cabin Lodge troverete cibo sufficiente per una cena e una colazione. Il sito dista almeno tre ore d’automobile da Albuquerque, quattro ore e mezza da Phoenix (Arizona) e cinque da Flagstaff. Non è una passeggiata.
(Sarà stata la purezza dell’aria del New Mexico, la sua consistenza, ad aver fatto cambiare sito a Walter De Maria? Sono caratteristiche fondamentali per ottenere un effetto conduttore maggiore. L’Arizona, posta appena sopra, era dopotutto il luogo prescelto da Tesla verso la fine dell’ottocento per i suoi esperimenti elettrici. Colorado Spring, anzi, Pikes Peak, è il luogo dove Tesla scopre che la terra è scossa da vibrazioni elettriche, prima di lasciare la città al buio per aver utilizzato troppa energia. Un lampo e un boato annunciano il black-out.)
Non c’è tempo per segnalare come l’esperienza minimalista (e concettuale)abbia segnato il percorso della Land Art. Ma fu lo stesso Walter De Maria a coniare il termine, e vale almeno la pena segnalare come due suoi lavori minimalisti degli anni ’60, 4 6 8 Series (1966) e Bed of Spikes (1969) preannuncino, in scala ridotta, e negli spazi chiusi di una galleria, Lightning Field, come se quelle installazioni di punte metalliche fissate su una base unica funzionassero paradossalmente da modellino per l’Earthwork. Eppure una galleria non è lo spazio sterminato del deserto. Nel passaggio, c’è un intero modo di fruire l’arte che finisce sotto sopra. I rapporti di scala saltano. Le dimensioni pure. Diventano monumentali.
E noi? Che ci facciamo in mezzo alla sterminata prateria del New Mexico, a tre ore di auto da Albuquerque? Facciamo esperienza di un luogo? Oppure, come era capitato a Tony Smith sulla New Jersey Turnpike, sperimentiamo i limiti dell’arte, forse la sua fine così come tradizionalmente veniva intesa? E dov’è l’opera? La possiamo solo fissare in alcune istantanee in grado di raggelare i fulmini attratti dalle barre metalliche? Una specie di minaccioso concerto elettrico? E’ il senso del luogo a mutare, mentre ci spostiamo tra le barre, come se l’orientamento, la prospettiva, la dimensione geometrica venissero messe in discussione? E infine, è solo dall’alto, grazie a una veduta aerea che possiamo cogliere l’opera nella sua interezza?
Raggiungere luoghi desolati immersi nel nulla, ispezionare siti, farne esperienza. Tutto questo, lo affermiamo senza timore del ridicolo, può anche sfiorare il concetto di sublime, magari una sua versione corretta e contemporanea. Deserto, polvere, freddo o calore, barre metalliche, lampi improvvisi, capricci dei fulmini: è tutto quello che ci è dato sentire. Una specie di fenomenologia di un luogo. Da parte sua, De Maria tace. Non ha mai commentato le sue opere, mantenendo un riserbo quasi zen.
(Apparso il 31/07/2013 sulle pagine de il Manifesto)