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Il fraintendimento del reale

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Il fraintendimento del reale, tra pressapochismo e mancata autocritica: l’anteprima del numero 4 (anno III) del semestrale “Laboratori critici”, edito da Samuele e pubblicato in occasione dell’ultimo BookCity Milano. Un estratto trasversale della rivista che mette volutamente in relazione l’editoriale di Matteo Bianchi, Per una critica meno assertiva e una poesia più incisiva, con l’intervento firmato da Tommaso Di Dio sulla deriva narcisistica – consapevole quanto no – dei poeti contemporanei, La coda del pavone terminale.

Vanitas vanitatis, dall’editoriale di Matteo Bianchi

Un dialogo intergenerazionale è stato favorito da Poesie dell’Italia contemporanea 1971-2021 (Il Saggiatore, 2023) di Tommaso Di Dio, che da mesi arroventa i dibattiti tra i beati ammessi e i dannati esclusi, confermandosi un esperimento antologico, poiché non risponde a un’esigenza legittima di canonizzazione autoriale, bensì propone un racconto plausibile di paesaggi testuali, tentando di disinnescare il narcisismo soffocante che pervade l’ambito poetico, ma di più, l’intero sistema culturale italiano. Il curatore ha eliminato la soglia dell’autore quale primo ingresso nel panorama poetico contemporaneo, offrendo così una prospettiva disturbante proprio perché inconsueta. Di Dio, che ha iniziato il percorso non da una serie di nomi che aveva in testa, ma dalla scansione di testi che a suo avviso testimoniavano l’epoca e, più precisamente, la decade in cui erano apparsi: da una parte riconoscendo quelli capaci di descrivere la ricchezza polifonica di linguaggi, perciò gli sperimentali convivono coi lirici, dall’altra causando dolorose esclusioni – e assai polemizzate – che non rientravano nella struttura narrativa del paesaggio ponderato, per conservare la coesione delle sequenze decennali articolate secondo una progressione esemplificativa.

Tuttavia Poesie dell’Italia contemporanea non è stato l’unico casus belli dell’ultimo triennio: hanno scaldato gli animi pure L’ultima poesia (Mimesis, 2021) di Gilda Policastro e Mappa immaginaria della poesia italiana contemporanea (Il Saggiatore, 2021) di Laura Pugno, senza tralasciare il precursore La poesia italiana degli anni Duemila (Carocci, 2017), a cura di Paolo Giovannetti. E sono i titoli presi in esame da Alberto Fraccacreta per formulare la fatidica domanda che ha contrassegnato lo speciale dedicato al 24esimo festival di Pordenonelegge; domanda sottoposta a una pletora di docenti e critici, alcuni dei quali hanno risposto nelle pagine seguenti senza indugi, né esclusione di colpi: «oggi è veramente possibile definire dei criteri univoci e condivisibili per tracciare dei percorsi? O l’entropia è ormai tale che sta arrivando a soffocare l’identità autoriale?»

A definire la critica “embedded”, cioè una “non critica” addomesticata dalla cordata di colossi editoriali e mezzi di informazione, e finalizzata non alla qualità della prova poetica, dell’opera d’arte, ma a una risultante borghese, nell’accezione di compiacente e decorativa al pari del Keith Haring brandizzato sugli scaffali dei centri commerciali, è stato ancora Matteo Marchesini nella puntata di “Critica e militanti” dello scorso 13 ottobre, su “Radio Radicale”. Squadernare le controversie del caos più attuale, contro i compromessi stilistici che si sostituiscono ammiccanti ai punti di riferimento onestamente scomodi, e contro il conseguente personalismo mediatico dilagante, resta uno degli intenti della redazione di “Laboratori critici” sin dal numero Zero.

La coda del pavone, dall’intervento di Tommaso Di Dio

Il re è nudo: da almeno cinquant’anni, nessuno studioso serio può parlare di poesia, al singolare, se non in cattiva coscienza. Dopo il Duemila, dopo la radicale diffusione della libertà di presa di parola e dei dispositivi di cattura, di creazione e di riproduzione estetica (social network, YouTube, smartphone ecc.) le tradizioni sono moltiplicate esponenzialmente, multimedializzate e ibridate, in modo talmente vertiginoso e acritico che nessuno può più pretendere di avere la Poesia, né che la lotta per la propria “Poesia SVG” (Sola Vera Giusta) possa avere più valore di quella per un’altra. È questo «l’astro esploso» di cui parlava profeticamente Berardinelli, alla cui luce tutti oggi scriviamo. Ormai esistono così tante tradizioni, fra loro divergenti, che le poesie non si riconoscono più. Ma attenzione: non solo, in molti casi, non si riconosce più la poesia da ciò che poesia non vuole essere (si prenda il caso limite del rapporto fra poesia e prosa, in autori come Anedda e Neri, Broggi e Bortolotti), ma intendo la frase in un senso forse meno radicale, ma le cui conseguenze sono e saranno forse più dirompenti: ciò che un poeta fa il poeta accanto non lo sa.

Nel saggio introduttivo di Parola plurale, dal titolo 1975-2005: Odissea di forme, già si parlava apertamente come da tempo ormai (proprio dalla metà degli anni Settanta) ci si trovasse in una dimensione di convivenza caotica fra scritture diverse, che si trovavano a condividere la dicitura “poesia”, «pur ignorandosi bellamente» una con l’altra. Mazzoni ha provato a descrivere questa condizione evocando il terribile verso di Eugenio Montale («ognuno riconosce i suoi»). Mazzoni scrive che a animare la poesia moderna è «il desiderio di parlare a chi condivide certi presupposti, il desiderio di stare con chi ci assomiglia». La tensione alla frammentazione, al clan, all’idioletto di micro-comunità, così tipico dell’estetica moderna, però, ha assunto una misura radicalmente nuova negli ultimi vent’anni: ormai esiste una pluralità di tradizioni divergenti e la memoria culturale non è più “una”, ma divisa in mille rivoli a cui i mille di rivoli della scrittura contemporanea si appella, ciascuna dalla propria parte, l’una ignorando del tutto i presupposti e i risultati della scrittura dell’altra, tanto da apparire l’una all’altra sostanzialmente incomprensibile.

Da qui nascono due tendenze della poesia contemporanea, da osservare con la massima attenzione. Da un lato, in un contesto di così divergenti e intricati rimandi, la carne umana e sociale del poeta occupa tutto lo spazio di riconoscibilità, a discapito dei testi. Il narcisismo totalizzante e totalitario di questi anni, se non affonda qui le proprie radici, trova in questo terreno il nutrimento per crescere a dismisura: nell’impossibilità di riconnettere i testi a una tradizione, l’uomo, la sua storia singolare, il suo carisma, assolve a ciò che il testo da sé non sa più fare. O meglio: da ciò che i lettori di un testo non sanno più fare. Quasi nessuno sa riconoscere le storie sottese al testo, nessuno sa più codificare le sottili trame di rimandi e di allusioni, di riconoscimenti (se non una ristretta cerchia di affiliati) e tutto si risolve facilmente nella “storia di una vita”: le sue amicizie, i suoi incontri, le sue frequentazioni prendono il posto dell’analisi stilistica. Dunque la necessità di compiere uno sforzo di ritorno al testo, di stare sui testi, di racconto delle modalità attraverso cui il dispositivo testuale può essere attraversato e messo in funzione.

L’altra conseguenza è l’effetto “coda di pavone”. Mi riferisco alla teoria di un matematico,  studioso di evoluzione darwiniana, Ronald Fisher (1890-1962) che tentò in un celebre saggio di spiegare l’origine del vistoso dimorfismo sessuale presente nei pavoni. Come è noto, il tema tormentava Darwin. Si domandava lo scienziato: perché il maschio è capace di mostrare la fenomenale bellezza della sua ampia coda, mentre la femmina si accontenta di un banale moncherino? La coda del pavone rappresenta un evidente handicap nell’implacabile lotta per la vita. Non è certo di aiuto contro i predatori, né aumenta la fitness alimentare, anzi rende senz’altro più difficoltosi i movimenti dell’animale e la sua capacità di fuga. Per quale procedimento evoluzionistico si è affermata una caratteristica così inutile e dannosa? La risposta di Fisher è interessante: la colpa è stata inizialmente la preferenza sessuale, che ha fatto sì che la scelta delle femmine premiasse la variante, a discapito della sua utilità; il fenomeno, rinforzato dalla base genetica e dal feedback positivo (la continua scelta delle femmine), ha sostenuto la variante e anzi l’ha potenziata anche quando la sua fitness ha iniziato a calare e l’ha sostenuta a tal punto che l’effetto di deriva genetica è divenuto “a cascata”. Questo effetto evolutivo è stato appunto chiamato Runaway selection, selezione “a fuga”. È un meccanismo meraviglioso: la coda di pavone è un organo di straordinaria bellezza, una meraviglia di ingegneristica genetica. Ma attenzione: è un meccanismo tremendamente pericoloso. Se si supera un certo limite, la pressione selettiva non è più controbilanciata dalla preferenza sessuale e quello che è divenuta la principale attrattiva di una classe di individui (e quindi il meccanismo attraverso cui si promuove il proprio patrimonio genetico nella prole) diviene, al contrario, la causa della propria estinzione.

Che la poesia rischi lo stesso pericolo? Dopo un Novecento di estrema selezione a cascata, la poesia è divenuta una meravigliosa, raffinatissima, bizzarria contro-intuitiva, estremamente poco adatta al contesto mediale in cui ci troviamo. Oggi la sua complessità crescente e le sue criptiche, imprevedibili e disseminate tradizioni, ne fanno una straordinaria e incomprensibile coda di pavone che sempre meno esperti riescono a apprezzare, perché la tradizione non è più unica e condivisa, ma segmentata sempre più. Se le tradizioni non dialogano fra loro, se non si moltiplicano gli strumenti per condividere i rami delle tradizioni e le rispettive evoluzioni significative, il numero delle preferenze sostenute dai lettori dei vari rivoli potrebbe non sostenere più il limite della fitness ambientale. Rotto l’equilibrio, la sopravvivenza della poesia così come l’abbiamo tramandata fino a oggi sarebbe a rischio: altri rami evolutivi dell’esperienza linguistica dell’umano – più orali, più semplici, più visivi, più multimediali – sono già pronti a invadere la sua nicchia ecologica, a prendere il suo posto.

Ma tutto questo forse è solo un incubo.

Esporre l’assenza. La mostra di Sophie Calle a Parigi

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di Ornella Tajani

Lo dice in apertura, Sophie Calle, e in modo chiaro: ciò che le interessa è «exposer l’absence», evocando presenze fantasmatiche, giocando con la dissimulazione, con l’invisibilità.

Tre piani del museo Picasso di Parigi per la mostra À toi de faire, ma mignonne, prorogata fino al 28 gennaio: il primo è dedicato al vedere e contiene a mio avviso la chiave di comprensione dell’opera di Calle, ossia la sua dialettica presenza/assenza. Il percorso si apre con dei “Picasso fantasma”, quadri normalmente in esposizione in questi spazi, ora velati da teli sui quali sono riportate le frasi con cui gli addetti del museo hanno provato a descriverli mentre erano stati prestati ad altre sedi: c’è chi ne ricorda colori e dettagli, chi racconta di emozionarsi nel guardarli, chi pensa solo ai chiodi cui agganciarli. Il telo semi-trasparente che li ricopre lascia indovinare il profilo dei soggetti pittorici: è già un esempio emblematico dell’arte di Calle, della sua poetica del vedo/non vedo.

“La grande baigneuse au livre”, visibile qui: https://musees-rouen-normandie.fr/fr/oeuvres/grande-baigneuse-au-livre

 

Si passa poi ad alcuni dei suoi lavori più famosi: Voir la mer, in cui l’artista ha filmato abitanti di Istanbul, anche anziani, nel momento in cui si ritrovano per la prima volta davanti al mare. Grandi schermi alle pareti di una piccola sala: uomini e donne prima di spalle, sulla riva – li vediamo muoversi appena, una si asciuga lacrime di commozione, in sottofondo il frangersi delle onde. Poi si voltano, guardiamo il riflesso dell’esperienza del mare nei loro occhi: qualcuno è serio, qualcuna sorride, un vecchio buca lo schermo con uno sguardo d’intensità lancinante, come se in quei pochi istanti avesse attraversato oceani e forse secoli. Infine, uno dopo l’altro, scompaiono dallo schermo, lasciando il posto al bianco dell’assenza, con solo la risacca in sottofondo. La potenza evocativa dell’opera colpisce ancor di più se si pensa al rapporto di Istanbul con le sue acque – un estuario, un canale e due piccoli mari – e all’espansione mostruosa di una città così profonda da poterci vivere per buona parte della vita senza mai arrivare sulla costa.

Uscendo dalla sala si trovano alcuni scatti della serie Aveugles: come descrivono la bellezza o i colori dei non vedenti dalla nascita («Ogni volta che mi piace qualcosa, mi dicono che è verde: l’erba è verde, gli alberi, le foglie, la natura… mi piace vestirmi di verde»); o qual è l’ultima immagine trattenuta da chi ha perso la vista in seguito a un incidente («Tre bambini seduti uno accanto all’altro, di fronte a me, sul divano dove lei è seduta adesso»).

 

 

Visibile, invisibile. Fin qui Calle ha mostrato l’assenza dei quadri per dire cos’è l’arte; l’assenza del mare, portando a chiedersi cos’è il paesaggio, quale la sua fruizione; l’assenza della vista, da cui muove un’interrogazione sui sensi e sul concetto di esperienza. A questo proposito, clamoroso leggere su un muro la seguente citazione di Jean Cocteau:

Picasso mi ha raccontato che ad Avignone, sulla piazza del palazzo dei papi, aveva visto un vecchio pittore mezzo cieco che dipingeva. La moglie, in piedi accanto a lui, osservava il palazzo col binocolo e glielo descriveva. Dipingeva seguendo la moglie. Picasso dice spesso che la pittura è un mestiere da ciechi. Lui non dipinge ciò che vede, ma ciò che prova, il racconto che fa a sé stesso di ciò che ha visto.

Difficile non associare questo aneddoto al racconto Cattedrale di Raymond Carver, in cui il protagonista disegna insieme a un cieco il profilo di una cattedrale per fargli capire com’è fatta, ma poi è la mano del cieco che finisce per guidare la sua.

Torniamo a Calle, e all’assenza, stavolta, della madre e del padre, cui è dedicato il piano successivo: la prima, in particolare, è variamente presente in molti suoi lavori (ne parlavo anche qui). Una delle ultime parole pronunciate dalla madre è “souci”, nel momento in cui chiede ai propri cari di non preoccuparsi per lei: lo apprendiamo in una sorta di anticamera, prima di entrare in una sala molto grande in cui il termine «souci» campeggia dappertutto, composto da farfalle, dipinto in un quadro, impresso sulla stoffa; la ripetizione ossessiva testimonia la mancanza dell’assente e il tentativo disperato di fissare le ultime tracce della sua presenza. Sul muro l’artista ha annotato a matita: «merci de ne pas filmer ou photographier ma mère dans son cercueil»; si riferisce a una foto della madre nella bara, con dentro la Pléiade di Proust, una bottiglia di vodka e altri oggetti amati.
L’immagine, per Calle, è sacra: non deve stupire, per un’indole irriverente come la sua, una performer che non disdegna di farsi fotografare mentre un toro le lecca i capezzoli (fu una sua proposta, geniale, per la celebre marca di formaggini “La vache qui rit”, che le aveva chiesto un’opera nell’ottica di pubblicizzare il prodotto; proposta bocciata dall’azienda). Non deve stupire perché il gioco con l’assenza e la presenza è per lei serissimo, soprattutto se c’è in ballo la morte di chi ama: lo stesso avvertimento scribacchiato in un angolo ritorna per un’altra foto della madre defunta, dal titolo «Pas pu saisir la mort».

Con la propria, di morte, il rapporto di Calle è invece molto più décomplexé: se è vero che ha già comprato un loculo in un cimitero californiano, lì dove ha scattato le sue prime foto, si chiede però che fine faranno le sue cose quando non ci sarà più, dato che non ha figli; la risposta è che andranno probabilmente all’asta. Perché allora non chiamare due commissari dell’Hôtel Drouot e fargliele inventariare sin da ora? Assistiamo al tutto in un gustoso video: «Comportatevi pure come se non ci fossi», li esorta Calle – salvo poi naturalmente farsi onnipresente, sedersi sul divano mentre i due lo misurano, stendersi sul pianoforte mentre loro lo studiano; quando i commissari entrano in bagno per proseguire il lavoro lei se ne sta placidamente seduta sulla tazza. In un’operazione che presupporrebbe la sua assenza, insomma, appare di continuo.

Seguono stanze piene di suoi oggetti, foto, libri – dalle Pléiade di Zola e Tolstoj a volumi improbabili intitolati “Perché le mogli dei ricchi sono belle”. Si sale poi al terzo piano, dove si ha la misura della prolifica capacità creativa dell’artista: tutto è dedicato all’inachevé, all’incompiuto. Decine di progetti abbozzati, con una lapidaria spiegazione del perché non siano andati in porto. Una fucina infinita, che soddisfa anche il gusto oggi marcatissimo, in Francia particolarmente, per l’esplorazione degli archivi.

Durante tutto il percorso Picasso, per l’occasione relegato nei sotterranei, non sparisce, ma viene più volte evocato come una presenza intermittente: è davvero il fantasma chiuso in cantina, col quale però Calle dialoga, giocando un po’ con le sue opere. Addirittura ha la premura, a beneficio degli inconsapevoli visitatori che fossero venuti da lontano per lui e non per lei, di allestire una specifica “salle de consolation”, ovviando così ai propri sensi di colpa: un piccolo spazio in cui propone un tête-à-tête con il suo quadro La Célestine.

C’è sempre qualcosa di poliziesco nei lavori di Calle: la psiche (degli altri, ma sua innanzitutto) si fa terreno d’indagine. Però, se è vero che tre indizi fanno una prova, Calle preferisce sempre trovarne soltanto due, e dalla coincidenza cominciare a ricamare, così come vuole la letteratura. I due indizi consentono di spalancare il campo a ogni possibilità, anche al sovrannaturale: così l’assenza, che è il deposito di fantasmi per eccellenza (sto citando una definizione di Giuseppe Merlino), diventa anche una riserva prodigiosa di presenze più o meno fantasmatiche da raccontare.

 

Omaggio ad Alessandro Spina a dieci anni dalla morte (con una lettera inedita)

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di Massimo Morasso

Dieci anni fa è morto Basili Khouzam alias Alessandro Spina. Malnoto ai più per via della sua ardua inattualità stilistica, e di un’appartatezza che si potrebbe dire quasi anacoretica, oltre che “snob”, con ogni probabilità Spina è il più notevole prosatore in lingua italiana degli ultimi decenni.

Nato a Bengasi nel 1927, libico di stirpe siriana, figlio di un agiatissimo imprenditore tessile dal quale ereditò, per oltre un ventennio, le responsabilità di gestione dell’azienda famigliare in Nord Africa, il ragazzino e poi giovin signore Khouzam aveva vissuto in Italia dal 1940 al 1953, laureandosi in Lettere con una tesi su Alberto Moravia. Dall’Africa, incominciò a farsi conoscere nella nostra società letteraria con il nom de plume di Alessandro Spina.

Fu il racconto Giugno ’40, pubblicato da Anna Banti su “Paragone” nel 1960, ad accendere su di lui i numinosi occhi-riflettori di Vittoria Guerrini alias Cristina Campo, che gli scrisse, d’acchito, con incoraggianti parole d’encomio. Da allora, questi due sommi araldi dell’ospitalità intellettuale sotto pseudonimo furono legati da una lunga e profonda amicizia in prevalenza epistolare, testimoniata dalla pubblicazione del carteggio, ahinoi dal solo “lato” campiano, Lettere a un amico lontano (Scheiwiller 1989).

In Italia Khouzam è poi tornato in pianta stabile una volta superati i cinquant’anni, in rotta col sistema di potere di Gheddafi & co., per chiudersi in un lussuoso “buen retiro” a Padergnone di Rodengo in Franciacorta, a poche decine di metri di distanza dalla villa del suo miglior amico, il gran musicista Camillo Togni. A due giorni dalla sua scomparsa nell’ospedale di Rovato, l’11 luglio del 2013, Nazione Indiana ha parlato di Alessandro Spina grazie a Flavio Marcolini, autore di “Staccare la Spina”, un informato e appassionato coccodrillo che vale la pena di rileggere ancora oggi, per incominciare a inquadrare la figura umana e la statura storica di «uno dei più incisivi (almeno sub specie aeternitatis) quanto appartati maître à penser dell’Italia contemporanea», come ne ha detto bene Marcolini in quel pezzo.

All’interno dell’ampio, variegato corpus di scritture di Spina, spicca il macro-ciclo de I confini dell’ombra. Si tratta di un vasto affresco narrativo coloniale, che getta illuminante luce letteraria su parte dei fatti e dei misfatti imperialisti italiani in Cirenaica. Al vaglio dell’italo-libico (e siriano) Khouzam-Spina, qui i libici aggrediti e gli aggressori italiani non sono, in fondo, che i deuteragonisti sulla scena di un’immane tragicommedia, che Spina ha saputo rendere epopea con l’autorevolezza stilistica, e l’apertura naturalmente dialogica e transculturale, del gran signore-scrittore dalla doppia anima – l’araba di cultura maronita e l’europea, innanzitutto franco-tedesca e poi anglo-russo-italiana – avvezzo ai modi e alle cadenze del più intelligente decadentismo internazionale.

La lunga parabola gestativa di questa sorta di recerche spiniana si è conclusa a fine secolo, quattordici anni prima della morte dello scrittore. Ciò che Spina ha pubblicato dal 2000 in poi fa parte di un sapido ripensamento, in massima parte indistinguibile da un autocommento in margine all’opus maior. Sedata la compulsione costruttiva, sono nate le pagine che danno traccia più manifesta delle idee che avevano sostenuto, per decenni, l’articolato progetto romanzesco (gli intriganti Diario di lavoro: Alle origini de I confini dell’ombra, L’ospitalità intellettuale e Elogio dell’inattuale, tutti e tre editi da Morcelliana).

Nel carteggio (finora inedito) che abbiamo intessuto dal 1993 al 2010, a latere rispetto a quanto andavamo dicendoci l’un l’altro durante i nostri incontri in quel di Padergnone o per telefono, c’è una lettera nella quale Spina mi informava di aver posto la parola fine all’ultimo nodo del suo arazzo narrativo (si esprimeva proprio così, con la parola “nodo” al posto di “libro”, facendo implicita equazione fra scrittura e tessitura del tappeto della vita nell’Opera, à la Stefan George).

Anche di questo evento, atteso e importantissimo, si è compiaciuto di darmi notizia in modo obliquo e come di sfuggita, assecondando l’estro del suo abituale, elegante understatement. Lo ha fatto dentro a un giro di frasi sintomatiche, dove, fra le altre cose, ci s’imbatte in un’affermazione e una notizia molto rilevanti, che il tempo a venire si è incaricato, tuttavia, di rendere falsità. Giacché le 13 lettere del valente filosofo Andrea Emo a Cristina Campo, delle quali Vanni Scheiwiller gli aveva appena annunciato il ritrovamento, sono uscite a stampa nel 2001, ma per le cure editoriali di Gianni Scalia e della sua rivista “In forma di parole”, e non di Scheiwiller. Mentre L’oblio – la serie postrema di storie coloniali a firma Alessandro Spina, cioè, insomma, la raccolta che Khouzam-Spina nella sua lettera mi confessava d’aver finito di scrivere – e, soprattutto, l’intera saga cirenaica de I confini dell’ombra, Spina si è poi convinto dell’opportunità di pubblicarli, per sua e nostra fortuna, e per il profitto dei lettori, storici futuri compresi; con buona pace del passato, il “più costante” e “terribile” dei committenti, come nel messaggio al mio indirizzo lo definisce. Complici Cesare Cavalleri e Ilario Bertoletti, il librino (stupendo) di racconti e il tomo di quasi 1.300 pagine fitte fitte (ormai fuori catalogo) cui Spina ha dedicato tanta parte della sua esistenza, sono usciti rispettivamente con Ares, nel 2004, e con Morcelliana, nel 2006. La chiusa del discorso, dalla constatazione “Oggi piove” alla domanda “Ci vediamo a Bose?”, per me (che sono di Genova: da qui gli ammicchi, per due volte, alla Liguria) vale anche da sola un urrà, e un deferente inchino:

Padergnone, 27 marzo 1999

Caro Morasso,

[…] Un momento fa mi ha telefonato Vanni Scheiwiller. Sono state trovate le minute del filosofo Emo a Cristina, una quindicina, molto lunghe, e, non so quando, Scheiwiller ne farà un libretto. Potranno essere utili, sicuramente in una direzione non futile.

[…] Quanto a me, ho finalmente terminato un’opera… ciclopica (l’autoironia è l’unica scappatoia), durata un numero spaventoso di anni. Naturalmente (Cristina ed Emo insegnino) non ho nessuna intenzione di pubblicarla. Chi ne è il committente? Il più costante (committente), terribile e a suo modo amico, ovvio: il passato! Nessuna committenza se non da lui, lo insegna la religione (con divagazioni sulla coscienza) e poi Freud (con saggi ieri felicemente indiscreti, oggi, ahimé, sciupati dall’uso).

Terminato il lavoro, mi sento liberato da un incubo, sereno. Traffico in giardino. Ah l’eterno ritorno, che si beffa di noi “uomini effimeri”, della storia, di ciò che avviene una sola volta eccetera eccetera.

(Circa le due parole fra virgolette, cito D’Annunzio, ma lui forse usava una sola effe, non ricordo.

Eros nella pugna invitto
Eros, che precipiti le fortune,
che sulle molli gote
delle vergini ti poni in agguato,
che erri oltremare e per le capanne agresti!
E nessuno tra gli Immortali può fuggirti
e nessuno fra gli uomini effimeri*, e chi ha è furente
.

Mica male, eh? Nessuna testa mi interessa meno, ma il dettato di colui, talvolta, è d’oro).

* Ho controllato il testo, scrive: efimeri (non rinunzia insomma a una smorfietta neppure di fronte alla maestà di Sofocle!).

Oggi piove e il doppio giardiniere è in festa, afflitto e finalmente liberato dalla siccità africana. Ma le giornate invernali, chiare, erano anche qui stupefacenti, non è bella solo la Liguria! Nel Nord Africa ci sono coste altrettanto varie e incantatrici delle liguri, con in più, ciò che c’è di meno: disabitate, incolte, tutto come cadde dalle mani di Dio. Poi, capitò a me, momento indimenticabile, dopo cento chilometri senza incontrare anima viva, su uno stretto promontorio, due colonne piccole (altezza d’uomo) candide in terra, i resti di chi sa quale monumento greco, sicuramente funerario; mille anni fuggiti come un giorno solo. Sembravano i kolossoi che si fingevano per il morto insepolto, perito chissà dove. Ecco ricomposta la coppia, per l’eternità – diciamo con commozione invincibile.

Ci vediamo a Bose?

Un cordiale saluto

“Le mancuspie”, una nuova collana di poesia

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“Le mancuspie” è una nuova collana di poesia diretta da Antonio Bux per le Edizioni Graphe.it di Perugia. Il progetto editoriale si annuncia particolarmente serio e attraente. Tra il 2022 e il 2023, sono usciti i primi quattro titoli: Parabola sub di Luciana Frezza (prefazione di Walter Pedullà), Un uomo pieno di morte di Giorgio Manganelli, Sonetti d’amore per King-Kong di Gino Scartaghiande e L’udito cronico di Cristina Annino. Ne ho parlato con Antonio Bux, che ci ha permesso di pubblicare anche alcuni testi e le notizie relative ai singoli volumi già pubblicati. Andrea Inglese

Come è nata l’idea di questa nuova collana di poesia?

Conoscevo l’editore Graphe.it per via di qualche sua pubblicazione di saggistica breve, settore a cui dedica la maggior parte del suo lavoro, ma anche per via di una pubblicazione della sua precedente collana di poesia (Calligraphia), che non mi era dispiaciuta, soprattutto per l’oggetto libro. Lo contattai, dunque, per proporgli una mia antologia e lui (Roberto Russo), devo dire, fu entusiasta della mia mail perché mi conosceva e stimava e dunque era felice di poter fare un lavoro con me. Una volta uscito il mio libro, e constatando la serietà e la professionalità di questo piccolo editore umbro che ragiona però da grande, gli ho proposto l’idea di una nuova collana di poesia da me diretta.

Che regime di produzione avete previsto (quanto titoli l’anno)?

L’idea alla base era semplice: due titoli l’anno (uno in febbraio e uno in settembre) che avrebbero rappresentato la collana di punta della poesia per questo editore. Russo accettò con entusiasmo la proposta, e, dato che in precedenza nelle altre tre collane di poesia che ho il piacere di dirigere ho sempre più o meno trattato con autori esordienti o nuovissime e poco conosciute voci, ho pensato di puntare a una collana che facesse confluire al suo interno voci già note al pubblico della poesia.

Quali sono i criteri che ti hanno guidato nella scelta dei titoli?

Il progetto è andato costruendosi dunque da sé, pubblicazione dopo pubblicazione, l’idea di base iniziale era proporre sia antologie che libri fuori catalogo di autori viventi e non. Per quanto riguarda il primo volume, Parabola sub di Luciana Frezza, posso dire che ero già da tempo in contatto con la figlia della poetessa scomparsa nel 1994 (avevo collaborato, infatti, all’uscita dell’opera omnia Comunione col fuoco, edita da Editori Riuniti ma già da tempo fuori commercio), perciò è stato semplice pensare di iniziare la collana con una pubblicazione del genere. Stesso discorso vale per il secondo volume, ovvero l’antologia Un uomo pieno di morte di Giorgio Manganelli, omaggio che abbiamo pensato di fare al grande autore grazie alla figlia Lietta, ben disponibile ed entusiasta della proposta, data l’occasione del centenario dalla nascita del babbo. Anche i successivi due volumi pubblicati, ovvero Sonetti d’amore per King-Kong di Gino Scartaghiande (uscito per la prima volta nel 1977) e L’udito cronico di Cristina Annino (comparso solo in precedenza nell’antologia einaudiana “Nuovi poeti italiani 3” a cura di Walter Siti nel 1984), sono stati scelti per via dell’importanza dei due autori e per l’amicizia e la stima che mi legavano da anni ad essi. Ma la collana non si occuperà solo di ripescaggi di libri fuori catalogo o di omaggi ad autori scomparsi, e lo testimoniano le prossime pubblicazioni (i prossimi tre volumi sono infatti inediti di autori viventi già abbastanza riconosciuti; senza anticipare troppo, posso annunciare che nel febbraio del 2024 uscirà il nuovo libro di Gianfranco Lauretano). Insomma, l’idea è innanzitutto quella di puntare sulla qualità, offrendo uno spaccato sobrio, date le sole due uscite annue, ma preciso su cosa offre la poesia di oggi ma anche quella che è stata la poesia in tutto il secondo novecento italiano. Nel magmatico panorama attuale dell’editoria poetica del nostro paese che, all’asfittica e politicizzata condizione delle medie e grandi case editrici alterna la iper-produttività, spesso deleteria, degli editori piccoli e indipendenti, ho pensato di creare un piccolo “porto sicuro” per il lettore. Pochissimi libri ma buoni, sobri ed eleganti, riconoscibili però ognuno scelto per una propria cifra speciale. Insomma, nessun solito “scambio di figurine” (come spesso avviene tra addetti ai lavori) né mero sciacallaggio culturale; solo l’insindacabile scelta estetica di un curatore che si assume le responsabilità del caso.

Le mancuspie n. 1

Parabola sub, di Luciana Frezza

Prefazione di Walter Pedullà; 2022

 

Euridice

Se fossi caduto dal sonno

là fuori sull’erba

nel solco del serpente

mi avresti visto Orfeo

varcato senza peso

il divieto dei Luoghi

sorriso senza voltarti

raggiunto in un lampo

 

nel sogno unico

della vicinanza

vivo due volte

te lo dice una

due volte morta

 

Le mancuspie n. 2

Un uomo pieno di morte, di Giorgio Manganelli

2022

 

Signore,

un volto definito e chiaro,

altro non vorrei;

non so se mio destino

sia parole o musica o silenzio;

o sempre stare accanto

all’aperta finestra ad aspettare

di saper chi sia;

non so quale la via, quale la casa

che in così vasto intrico di destini

tu hai dato.

Prima che l’ora venga tarda,

– quando ogni ombra lunga

davanti a noi si stende come strada –

fa’ che più non cerchi, o mio Signore;

perché io so

che alcuni si salvano vivendo;

ma destini diversi

si spiegano soltanto col morire.

 

Le mancuspie n. 3

Sonetti d’amore per King-Kong, di Gino Scartaghiande

2023

 

Il conto delle sere

Son contento che stai bene.

In quanto a me, mi rapisce

a tratti alterni. Ieri mattina

mi piacquero molto gli occhi

di un ragazzo. Non ti va più

di parlare, lo so. È strano almeno,

non ti sento. Siamo diventati

più reticenti entrambi.

Non mi urli più nell’animo, né io

alzo la voce contro di te.

Che cosa ancora, quale altra

intromissione dovremo accettare?

L’accetteremo?

Erano belli i nostri discorsi

di una volta. Io ti amo.

O mio Kong, mio re dell’isola

sperduta, mio occhio io ti amo.

 

Le mancuspie n. 4

L’udito cronico, di Cristina Annino

2023

 

Caos

Premettendo

ch’è sempre doloroso impalare

l’anima in un discorso, scrivere

un diario, lettere, versare

iride nella tinozza di un colloquio.

A quest’età e con i tempi che corrono,

io siedo al bordo dell’orecchio

universale; dico

«biondo, marziale cieco cielo

dove il tempo è rotondo: la verità

è orrendo cannocchiale».

Poi mi rivolto, ascolto chi parla,

annuso odore di vero nel parziale

gesto di chi mi appaia. Credo

a tutto; a quest’età si è un cimitero

abbastanza paziente.

Per ulteriori approfondimenti, si possono consultare i seguenti link:

I tetti a mantella

1

 

 

 

 

I tetti a mantella

di Patrizia Fistesmaire

“La prossima volta che riòmprà i mmirtilli glielo ficco ner culo!”

“Oh Kevin, mah che ti viene in mente stamani?”

C’era la nebbia a mantella sui tetti della Via Amendola.

Ganzo, se ti giravi di scatto, a seconda del punto; se stavi più basso o più alto con le gambe, l’incrocio con la Via Alcide, proprio in quel punto, dove quelle due case a ics erano attaccate per le mura, lì in mezzo, tra i tetti, rimaneva un cono vuoto. Un cono di luce. Lì la nebbia si sfaceva. Tipo la neve: si sfaceva sul serio, si polverizzava, finiva, insomma.

“Kevin, affacciati! E dai, ‘un t’incazzà di mattinata, fammi il piacere. Guarda che spettacolo che c’è laggiù! Vieni, vieni a vade’, dai!”

La suola grignata aspettò quei tre secondi di pestare la sigaretta per terra, sul pavimento di grès bianco grigio; colore del cazzo, oltretutto: le piastrone di grès bianco grigio le scelgono le donne. Al cento per cento, le scelgono le donne, con l’idea che rendono pulito. Quella scelta del cazzo la fa sempre una donna.

Se qualcuno s’immagina il godimento più fondo per un uomo, oltre alle seghe, sappiate che è spengere per terra le sigarette dove le donne ci passano il cencio. Anche subito dopo, o durante, mentre lei sta china, col culo ritto e la sottana rialzata, anche senza strizzare una chiappa (non occorre), a un uomo gli viene duro se la guarda mentre struscia; e lì, ci spenge il mozzicone. Nel punto preciso dove struscia in terra. Ohh sì!

Gli venne un pò duro anche ora. Era a lavorare, sicché gli venne duro poco. S’era alzato all’alba per andare a fare questo trasloco. Lavoro completo: smonta e rimonta entro le diciannove.

Questa storia di comprare i mirtilli, per via degli occhi, non gli andava giù: meno di tre euro non costavano. In due manciate finivano e alla figliola gli occhiali andavano pagati lo stesso. È vero che li mangiava tutti la figliola, ma se poi fosse venuta voglia anche a lui? Se garbavano alla moglie, poi?

Era roba a cui non ci si deve abituare. Invece la moglie erano già due o tre volte che li portava a casa, ci stava prendendo il vizio.

Nel mentre ragionò su come batterla, perché la smettesse una volta per tutte, gli occhi gli andarono fuori dalla finestra, dove indicava di guardare quel ragazzo.

La stanza era vuota. Il pavimento di grès bianco grigio, freddo.

Fuori dal vetro poteva sembrare mattina, sera o l’Inghilterra.

Col silenzio del dentro e fuori le bollicine d’acqua, col vapore, che saliva o scendeva, quel taglio di luce accecante all’incrocio delle due strade, poteva sembrare nientemeno che: l’ingresso del paradiso.

“Madonna d’un troiaio! Oh Luciano! Oh Luciano…!” Kevin non s’impressionava mica più di nulla ormai, ma stavolta era uno spettacolo.

La vita se l’era ciucciato nei sogni, come diceva ogni tanto: “‘Un c’è più nulla di brutto che ‘un abbia già visto, la vita m’ha ciucciato nei sogni”.

Kevin aveva interrotto un certo tipo di esistenza dopo il quinto anno di scuola media. L’epoca dell’infanzia: imbambolata, senza la gente che ti gonfia per strada, i debiti a giro.

Se Dio vuole, l’avevano trattenuto fino a quindici anni prima che la vita se lo risucchiasse. Queste sono le decisioni di qualche professoressa dal cuore grande, che conosce la lotta di classe e sa bene che la sfida non è insegnare ai più bravi, ma a quelli come Kevin, che a scuola ce li mandano per non rubare o finire in galera, prima del tempo giusto di farsi uomini.

Stavolta, mannaggia, s’impressionò d’un cono di luce con la nebbia. Come un bischero.

Accipicchia, era davvero fantastico quel panorama visto da lassù!

La nebbia, che avvolgeva le case intorno, sfumava proprio in quel cono a vortice: un effetto delicato e potente, come la scena d’un film; pareva impossibile che lì, nel mezzo alle case, ci passasse la luce; il sole per giunta, pareva tutta una finzione.

Dovette per forza accendersi un’altra sigaretta.

“Kevin, ma quante n’hai fumate?!”

Eh no. Eh no…

Se c’era una cosa che proprio non gli sia doveva dire era cosa fare o non fare; o cosa aveva fatto.

Eh no, eh no!

Gli venne quasi da allungargli una ciaffata su quella guancia senza peli, poi gli si mossero a pietà le budella, per via che era un ragazzino. Era stato giovane anche lui. Meno cretino di lui, ma i ragazzi di oggi non hanno ricevuto l’educazione giusta per stare al mondo.

“Luciano, Luciano…” disse. E bastò così.

Luciano aveva fatto tre anni di scuola professionale. Sembrava scemo, ma non era. Capì al volo che era bene si facesse gli affari suoi e che a lui, che poteva essere giusto suo padre, se avesse scopato da bischero a diciott’anni; a lui, Kevin Andreini, certe cose non si doveva permettere di dirgliele.

Era un ragazzotto intelligente, intendeva al volo quando c’aveva da smettere.

“E fuma, fuma, dai, scherzavo”. Ridisse infatti.

Finì presto lo shock romantico verso il cono d’ombra tra le due case a ics. All’improvviso, come richiamati dalla casa vuota, si voltarono dalla finestra, verso quella che doveva essere stata una sala da pranzo.

Come non l’avessero mai fatto. Erano appena arrivati, gli mancava ancora tutto. Quel casino di scatole e di mobili, ancora da smontare, li fissava zitto, fermo, vuoto, come fa un handicappato quando te lo ritrovi davanti e tu sei normale.

Kevin pesticciò di nuovo sul grès il mozzicone; il tabacco si sparse, da tanto che era forte di polpacci. Ormai il pavimento era pieno, pareva una lastra di marmo sporca di matita. Gli tornò un poco duro, ma poco. Allora si mise la mano in tasca per levarselo da lì, caso mai quel ragazzino ci buttasse l’occhio. E poi l’uccello sul costato della cucitura non lo sopportava. Ce l’aveva così grosso che bisognava se lo aggiustasse spesso. Era un problema.

Cioè, era un problema in quei frangenti di lavoro. Per il resto è ovvio che non era un problema.

“Bimbo, l’armadio smontalo tu, io parto dalla cucina”.

Kevin era il capo.

“Ok”.

Luciano ubbidiva.

Stava per dire: “ok capo”, lo pensò e basta.

Quella ditta di traslochi del Marcheschi, il padrone, anzi, quel coglione pieno di corna, con la moglie troia, aveva fatto un mucchio di soldi con la crisi economica. Il Marcheschi, gran cornuto, se la girava per Cascina con una Lamborghini senza tettuccio. Se la Madonna fosse stata meno mignotta, anche a lui qualche possibilità gliel’avrebbe offerta. Invece gli toccava spaccarsi la schiena nelle case, mentre la moglie del Marcheschi lo prendeva in bocca tutto il giorno e il marito, almeno speriamo, andava a puttane.

Fosse stato pure finocchio, al Marcheschi, gli sarebbero rimasti solo i soldi. Ci sta pure, che gli garbassero gli uomini: i ricchi non hanno regole.

Ci rise.

Perlomeno il Marcheschi lo avrebbe preso in culo più di lui e di quel povero giovanotto di Luciano.

Rise di nuovo.

Le sue battute erano fini.

Kevin si spaccava la schiena per il Marcheschi da quando aveva poco più di vent’anni: traslochi su traslochi, pacchi, scale, funi, bolle, fatture, gente col muso, sportelli che gli erano cascati in testa, tonfi sui piedi, infortuni durati un giorno e il giorno dopo di nuovo a smontare e rimontare.

Ogni tanto, se gli veniva in mente una battuta delle sue gli saliva il baffo a destra. Così come suo padre, quel grande puttaniere, anche lui aveva il solito ghigno.

Stette attento alla figura di merda, perché non era solo. I traslochi si fanno sempre in due e non si poteva mettere a ridere da solo di fronte a questo ragazzo.

Nelle case dove andava a fare i traslochi o c’erano i proprietari tra i piedi oppure, se erano vuote come stavolta, sentiva i fantasmi, la gente che c’aveva abitato. Kevin aveva il sesto senso. Li sentiva girare per le stanze: “salve!” “Devo andare al lavoro!” “Mamma vieni!” “Passami il sale”; tutte queste frasi fatte, qualcuno, almeno una volta l’avrà pure dette.

Ormai era esperto. Sapeva riconoscere chi c’aveva abitato in meno di dieci secondi.

Più o meno, nelle case con due camere c’erano sempre dei figlioli. Sicché una mamma ci stava sempre, a meno non ci fosse stata una disgrazia. Poi, il sale, c’è sempre. Lavorare si lavora quasi sempre. La gente che aveva abitato le case diceva più o meno sempre le stesse cose.

A seconda della situazione dei mobili, dei pavimenti e, soprattutto dei muri, capiva al volo anche il tipo di persone che c’aveva abitato: ricchi, poveracci, sudici, gente ammodo o comunisti.

Gli toccò appicciare un’altra sigaretta.

Anche solo per un attimo, il pensare ai comunisti, gli prudeva dappertutto.

Dopo codesta sigaretta avrebbe cominciato a lavorare. Via, su, oggi era meno incazzato del solito. Era ben disposto.

Questa era una casa con poca roba, tutto sommato. Allora, gli venne in mente di sfruttarla, questa casa, per passare un po’ di mestiere a quel ragazzo. Unire l’utile al dilettevole. Fare un’opera di bene.

Ma come avrebbe fatto quel povero ragazzo, senza uno come lui che ci si perdesse un po’…

Kevin sapeva di avere un cuore più di una femmina, a volte. È che in fondo gli faceva pena: pareva rintontito, quel ragazzo.

“Aiutami bimbo via, su, viemmi a aiuta’!”

Kevin lo chiamò di là.

Luciano lasciò a metà l’armadio e andò di là a smontare la cucina.

Ma quanto aveva ragione Kevin…

“Questa cucina è una cucina bona”. Disse a voce alta, mentre staccava la base di ferro laccato e già dai gambi s’era capito che era una cucina da minimo cinque mila euro, o anche di più. “Vieni a vedè bimbo! Vieni!” Chiamò quel ragazzo perché imparasse. “Vedi bimbo, quando ci sono gambi così, col pezzo sotto” gli prese il dito, grasso sulle nocche, per fargli toccare il gambo con le sue mani: “senti bimbo? Senti questo materiale qua? Non è di Mondo Convenienza. Questo qui, se ci tiri una martellata o se passano vent’anni, ma anche cinquanta, non s’arruginisce, non si piega, non cambia. Per fa’ questo mestiere devi impara’ a vede’ le cose. Le cose bone e le cose meno bone”.

Luciano sporgeva il labbro inferiore con la bocca appena aperta. Se non fossero stati lui e Kevin, se non fossero state le sei di mattina, se non fossero stati in quella casa della Via Amendola e…se qualcuno lo avesse visto con la bocca all’aria in quel modo, poteva pure farsi un mezzo pensiero che stesse aspettando un bacio con la lingua.

Luciano era quasi felice di andare al lavoro. Quasi…perché la sera era troncato e gli toccava dormire col Brufen. Felice, perché con uno come Kevin gli pareva di aver ritrovato il suo babbo.

Non l’aveva mai conosciuto il suo babbo. Purtroppo la mamma gli aveva confessato la verità: era figlio d’una scopata a caso. Però amen. Era stato bene anche senza.

Quanto imparava da Kevin! Lui aveva pazienza, gli interessava davvero che capisse.

“Leva i cosi, su!”

Kevin indicò col mento i cosi.

Si girò per aspettare cosa doveva levare, la fine del discorso.

“Moviti bimbo, dai, che a mezzogiorno c’ho mangiare pronto”.

Kevin s’era accesso un’altra sigaretta e con la schiena dritta, i capelli vuoti nel centro, scrutava l’orizzonte.

Pareva il capitano d’una nave.

Luciano aspettava carponi, guardava i gambi della cucina, guardava sopra, i cassetti ancora incastrati, i pensili, l’acquaio, e sperava di capire al volo cosa fossero i cosi. Gli tremava la pancia, a stare giù, gli tornava a gola il caffellatte. Cosa erano i cosi? Era consapevole che se Kevin non parlava anche lui doveva stare zitto.

Doveva fare bella figura e capire subito.

Ma non aveva capito.

Inarcando la schiena a gatto entrò sotto la cucina, acciuffando la polvere tra le dita. Fossero stati lì sotto i cosi?

“Ma che cazzo fai??”

La voce di Kevin gli arrivò dal culo, come un tuono. E dal nervoso picchiò la testa sul sotto della cucina e starnutì e starnutì uscendo fuori del tutto.

“Mah che cercavi?”

Kevin non era incazzato. Per fortuna.

“Mmh…Mmh…” si fece venire in mente qualcosa di svelto: “m’era parso di ave’ visto un anello”.

La piega lunga del baffo di Kevin lo ripagò più di una sega.

“Sei un ragazzo d’oro, Lucià”.

Se Kevin gli faceva un complimento gli pareva che il suo babbo fosse in vita, che lo avesse portato alle giostre come quell’altri babbi, che lo avesse imparato sulla bicicletta senza pedali, che lo avesse portato la prima volta a Migliarino, alla Costanza. Sì, che, suo padre, ce lo avesse portato con la macchina, alla Costanza, che lo avesse aspettato al benzinaio, orgoglioso, mentre quel trans gli faceva il suo primo pompino.

Ci sono cose che solo un padre può apprezzare.

“Leva i cosi dagli sportelli e mettili qui”.

Adesso era finalmente tutto più chiaro.

Luciano prese il cacciavite per smontarli ammodo ma sentì da dietro il polso bloccato.

“Oh sei grullo?” Gli sputacchiò il fiato di fumo nell’orecchio. Era Kevin.

“Fai così, guarda me bimbo!” e iniziò a stringere e a girare le viti con due dita come avesse uno svitatore in mano. “Che portento” gli venne da pensare e rimase incantato, sempre con la solita bocca a pesce. “Vedi bimbo, i cacciaviti gli usano le fie o i vecchi. Te sei un omo, come me. Lo devi fa’ con i diti”. E durante parlava, svitava in modo impressionante tutta la cerniera e poi quell’altra e, se non avesse avuto da perdere tempo con lui, di certo avrebbe svitato tutta la cucina in meno di un battibaleno.

Gli venne in mente che invece la sua era proprio fortuna: lavorare con una persona del genere, un uomo come Kevin, era più che andare a scuola. Da quell’uomo avrebbe preso il mestiere, la vita. A quell’uomo, doveva la vita.

“Metti i pezzi di legno di qua e le viti lì dentro il sacchetto. Poi il sopra, mettilo sopra. Così, quando si rimonta, si sa subito dove deve anda’ e ‘un si diventa matti. Sai figliolo quanti ne ho fatti, io…!”

Fece perfetto tutto quello che Kevin gli aveva detto. In un venti minuti, in due, smontarono tutta la cucina.

Poi, mentre Kevin fumava la sigaretta, si mise a guardare fuori.

Il sole finalmente era salito. La nebbia scomparsa in tutta la strada. Le voci dei bambini dei piani sotto si preparavano per la scuola. Erano già quasi le otto.

S’inumidì la guancia con una mezza lacrima. Ma immediatamente col dorso del braccio fece per asciugarsi.

Gli tornava in mente quando era piccino, che sua mamma cucinava il toast con la sottiletta per colazione. L’odore. Sentiva proprio l’odore del formaggio fuso che era colato nel tostapane, oltre le gratelle. Sentì il sapore tondo e salato. S’immagino la polverina bruciata sulle righe. Sentì le bestemmie della sua mamma imprecare: “e ora come ci pulisco dentro, Dio di un…”. Ma non lo ripetè. Manco nella testa.

Era peccato e lui c’aveva da lavorare.

Dopo la cucina c’era da fare l’armadio nella camera grande e quello della camera piccola. Poi, smontare i sanitari, qualche altra piccola cosa, e poi: fine.

Gli dispiaceva che Kevin andasse sempre a pranzo a casa. Lui avrebbe mangiato un panino qui. Un’oretta di buco e poi c’era da caricare e portare tutto nella casa nuova.

La circolarità del tempo in Eos di Bruno di Pietro

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di Daniele Ventre

Un immagine degna del Virgilio delle Georgiche, evocatore dell’ossessivo canto delle cicale, apre il quadro meridiano di Elea nei versi di In limine, incipit e portante melodica di sottofondo di Eos, ultimo sviluppo della poesia di Bruno di Pietro, di quella densa maniera breve che connota già altre sue recenti opere, come Baie e Frammenti.
Non è casuale che la silloge esordisca con l’evocazione di un rumore bianco (“i grilli normalmente molesti”), di per sé connotato come assenza di segnale, ma subito trasformato in una sorta di messaggio implicito e latente (un “parlare” più che un “frinire”): è il rumore bianco di fondo dell’essere parmenideo, con la sua staticità mobile, tale da prefigurare il divenire a prescindere dal gioco di paradossi che esso implica. La conclusione di In limine con la sua terna temporale, “è”, “sarà”, “è sempre stato”, evoca, tramite il verbo chiave dell’eleatismo squadernato in un poliptoto di estrema trasparenza, i tre aspetti del verbo della lingua greca che dell’ontologia di Parmenide è matrice: la durata del presente e il termine puntuativo del futuro, entrambi sussunti nello stato del perfetto. A questa fissità di fondo del rumore bianco dell’essere si contrappone l’ “io invecchio” clausola in parentesi (una caratteristica ricorrente nella poesia di Di Pietro, ma qui usata con estrema parsimonia), appercezione trascendentale del consumarsi del tempo. Sin dall’inizio l’aporia eleatica viene messa in poesia e lasciata in bella evidenza, nello sfrigolio contrastivo fra la staticità dell’essere e l’autofagia temporale dell’esistere.
I diciotto frammenti che dipanano il discorso poetico dopo l’esordio, ne declinano in varia maniera, senza presunzione di sistematicità, senza completezza, con deliberata parzialità, le sfaccettature visibili. Così al primo passaggio del testo, il cammino fino alla cima del tempo e della conoscenza si conclude circolarmente nella scoperta dei primordi (“l’infanzia della terra”) e delle acque primeve della creazione-parto (“serbatoi-di acqua/ della luna”) a cui il “noi” autoriale-fruitoriale si abbevera. Segue un apparente ritorno al fenomenismo del paesaggio di Elea, ma a giocare il ruolo essenziale è ancora lo scavo nella natura profonda del tempo: dei dieci versi del secondo frammento, otto sono dominati da una assoluta presentificazione, mentre il movimento del futuro -“le stelle faranno notte/(e io con loro)”- arriva in clausola, giustapposto, senza giustificazione tematica, presenza attuale contro futura assenza, in un mutuo scambio di ruoli che è davvero più eracliteo (o da Parmenide in dubbio, o convertito, sul divenire), che eleatico. La chiusa, saffica (“le stelle faranno notte” evoca i v. 2 s. del fr. 168 b Voigt, anche nel ritmo, un ottonario “logaedico” con accenti di 2a 5a e 7a sillaba, che del fr. 168 b ricalca, per semiconscia abilità di performer/praticante della scrittura poetica, gli ipponattei acefali), fa da contrappunto tonale lirico (vale a dire: di tradizionale connotazione lirica) ai contenuti decisamente mistici, orfici, dei versi centrali (“una torcia/illumina la Porta”) ulteriormente marcati da una rima difficile (torcia/accorcia) e dall’assonanza ricorrente del suono cupo arrotondato (/o/, /u/, /ɔ/), frequente in posizione forte, non solo in fin di verso, sin dall’inizio (in tutto il secondo frammento le vocali posteriori arrotondate si ascoltano sub accentu rythmico almeno nel 75% dei casi, diciannove volte volte su ventiquattro battute). L’intera poesia ha tutta l’aria di una nékyia, di un dialogo latente con il silenzio delle ombre (di cui ai vv 4 s.). Applicando a questi versi un occhio accademico da scienza normale, e quindi in linea di massima, visti i tempi, acriticamente classificatorio, sarebbe facile liquidare il tutto come ritorno al lirismo neo-orfico da Campana a Quasimodo e dintorni, non fosse la filologia che serpeggia sottotraccia. Qui non si ascolta l’ennesima riedizione di un neo-orfismo à la Dino Campana, né si riecheggiano lirici greci filtrati da poetiche allotrie di sapore neo-ermetico. Si riscontra piuttosto il tentativo, peraltro in sé riuscito, di costruire una poetica altra, connessa alla natura effettiva dei frammenti originari delle lamine orfiche e dei frustuli di papiro dei lirici, ascoltati con un metodo analogo a quello con cui una scrittura di ricerca, o non assertiva, o post-poetica, si rapporta ai processi espressivi a essa congeniali di riferimento, d’oltralpe o d’oltreoceano che siano. Ovviamente, l’attenzione dell’autore di Ἔως si rivolge ai mýstai sporti ai parapetti dell’esistenza sotto l’assedio delle tenebre ctonie, o punta ai lyrikoí figli di una scrittura ultra-performativa, permeata di oralismo: una strada rischiosa, anche sul piano della ricezione, non fosse l’immediatezza del dettato poetico, che è estranea alle retoriche pseudo-antiche variamente declinate dalla poesia della prima metà del Novecento. I frammenti dell’antico, normalmente percepiti come molesti, si lasciano parlare per sé stessi, secondo i loro principi, più che secondo la loro parechesi moderna, falsa amica di un linguaggio frainteso. I testi 3 e 4 lasciano a questo punto intendere come tale dialogo con le ombre vibri dello spazio bianco e del tacere della parola come del suono recepito, del frammento sopravvissuto come del molto che il cut up involontario delle catastrofi della tradizione manoscritta, papiracea e di reperto archeologico, ha invece cancellato: si assiste così a una sorta di dottrina non scritta dell’essere nella poesia/mondo. In tale ottica, il frammento come testimonianza residuale insiste in una dimensione liminare all’orlo del non essere (testo 3, v. 3 s.), così che il tutto, umanità primordiale e dèi insieme, si consegna spontaneamente alla Notte del popolo dei sogni e al Tempo del Sogno, cioè al cronotopo anomalo del mito (testo 3, v. 7 s.), con immagine tesa fra lo sciamanismo degli aborigeni e la cosmogonia parmenidea della doxa plausibile, in cui sono protagoniste luce e tenebra, visualizzazioni dell’essere e relativa penombra. Complementare a questa rappresentazione meta-poetica è l’alone notturno del testo 4. Il mare, che campeggia al primo verso di quest’altra lassa, è ben nota immagine dell’essere nel suo complesso: localmente appare fluido e mutevole; nel suo insieme si manifesta nella sua compattezza e inamovibilità. La nube di vapore notturna ne è, in termini di logica fuzzy, la penombra, la sfumatura della verità in doxa. Si è già alluso a come in questi versi si riecheggi il modo in cui Parmenide articola la doxa plausibile in una compenetrazione di luce e oscurità: tale struttura della parvenza è latente nei cerchi luminosi che avvolgono le parvenze degli ulivi, della terra e del cielo, dei cicli naturali e del ciclo vitale (testo 4, vv. 3-5). Al culmine del paesaggio ontologico così delineato, la rotonda luna, che ancora una volta evoca un ampio ventaglio di immagini legate alla tradizione lirica, dalla “bella luna” di Saffo (fr. 34 LP v. 1) al selenismo leopardiano che ne è l’eco, si fa evidente simbolo del parmenideo saldo cuore della verità rotonda (PARM. fr. 1 DK v. 29). Si ha qui un’inversione delle consuete analogie solari legate all’essere, o all’uno, e la loro sostituzione con immagini notturne, lunari. Che sotto traccia continui ad agire l’altra immagine lunare, quella dei “serbatoi di acqua della luna” (testo 1. v. 6), è evidente dalla prima terna di versi brevi che apre il testo successivo: “si mischiano le acque/ del cielo e del fiume/ con il mare alla foce” (testo 5. vv. 1 ss.). Le acque superiori e inferiori, di cui questi versi ci parlano, sono venute da cosmogonie ancestrali, fra l’eco dei primi versetti del Genesi, i miti cosmogonici della Mesopotamia e l’Omero di Ξ 245 s., che vide nell’Oceano l’origine di tutto e fu una delle basi mitologiche tradizionali della visione di Talete, di cui si coglie un richiamo nei versi centrali della poesia (testo 5. vv. 4 s.), in tema di addensamento e compattamento della “terra… agli argini”. La tecnica della giustapposizione (ontologica/divina indifferenza vs. esistenza ordinaria) ripropone qui la platonica immagine dello stagno di rane (vv. 6 ss.), non senza una punta di ironia, ed è in tal modo che viene delineandosi un Einblick in cui l’essere (costellato di immagini atipiche, selenitiche, di penombra) affiora per frammenti di tempo e di esistenze, come nella pagina i versi, frustuli di voce nel silenzio dello spazio bianco. In questo dipanarsi della visione, pur nella loro asistematicità di sfaccettature, che come si è detto, è voluta, le diverse micro-lasse si legano nei modi più vari: così il testo 6 si collega al precedente tramite una rima sdrucciola difficile (v. 1, “margini”, in responsione con “argini”, testo 5. v. 5). L’atmosfera tuttavia è ancora diversa: la scena al confine del campo di fave evoca il fotogramma finale della vita di Pitagora; qui la condizione del filosofo di fronte alla verifica escatologica della morte culmina in una altrettanto escatologica frustrazione, se l’assoluto, l’essenza, quod quid erat esse, ciò che l’essere era, ovviamente al passato, non si rivela (“il passato/ deve ancora arrivare” – corollario implicito a un’idea che Bruno Di Pietro ha espresso per tempo in un’altra, meno frammentistica, opera: “il passato non passa ma è indecente/ che qui non passi nemmeno il presente”). La settima lassa riprende questo nucleo tematico e contrario: “il presente è ricordo”, ma a ribadirsi è lo stesso tema, lo sbiadimento della doxa del divenire, il silenzio che l’accompagna, mentre sullo sfondo l’unico rumore, un rumore bianco, è quello del mare. Verrebbe fatto di citare il Pagliarani della maniera breve: “Ma dobbiamo continuare / come se / non avesse senso pensare / che s’appassisca il mare”, non fosse che il messaggio è tutt’altro. L’essere di cui qui si parla non è un disperato als ob, una fizione alla Vaihinger, perseguita stoicamente: è ovviamente il paesaggio ontologico degli eleati, accanto a cui il mondo della doxa si manifesta come un’aurora pallida (“scialbo mattino”), con i suoi inganni sul tempo, frutto di un divenire conglobato in cui l’oggi e l’ieri sono due punti sulla stessa linea di sviluppo. L’idea del mutamento conglobato, in cui ogni fase diacronica è in realtà incistata nella precedente e nella successiva, si fa esplicita nell’immagine che chiude il testo 8, che del testo precendente è l’inversione speculare: nei fiori del vecchio pruno sono di fatto il passato e il futuro, o se si vuole un’entelechia esaurita e una potenza in boccio, a convivere nella stessa struttura, mentre il tutto è candito in una luce che crea, per ominosa paretimologia (testo 8, v. due: “illumina illusioni”), il mondo delle parvenze. Lo snodo di simmetrie speculari fra i testi 7 e 8, posto al centro della struttura di Ἔως, enuclea sul piano poetico l’intrinseca soluzione dell’aporia eleatica: di tale soluzione è simbolo il mitologema della ninfa Yele, eponima di Elea-Velia, e legata alla sorgente che alimenta la città. Il testo 9 riattiva poeticamente la formula omerica stereotipa “del fiume disceso dal cielo” (διιπετὴς ποταμός). I correlativi oggettivi acquorei dell’essere, alcuni tradizionali, da Parmenide stesso a Dante, come il mare, altri indotti da associazioni di idee sui materiali archetipici fra mito e inconscio collettivo, come le acque della luna, forniscono qui un’altra chiave di rappresentazione estetica dell’aporia e del suo superamento, suggerendo implicitamente che la proliferazione del divenire (i trifogli intorno al fonte della ninfa) sia una spontanea emanazione/permeazione dell’essere, o per converso (testo 10, vv. 1 ss.) una lenta, sfumata sgranatura dei cocci d’argilla, cioè degli uomini terreni, terragni e terrestri, tracce di ostracismi dalla polis dell’esistente. Il bisticcio del distico conclusivo di questa decima lassa (un’isola/dalle spiagge rosa), gioca sull’omofonia parziale fra “rosa” colore, e “rosa” participio passato di rodere, talché quest’isola è nel contempo una plaga dello spirito sotto la specie di una sponda di sabbie di grani rosati, e la stessa esistenza, erosa dai confini del suo divenire e del suo sgranare nella fissità dell’essere. In quest’ottica, l’essere si rivela coincidente con il nulla, in una dimensione di ambiguità ed equivocità strutturale, che indurrebbe a richiamare l’atmosfera ontologica della terna dialettica (essere/non essere/divenire) con cui si inaugura il Logos hegeliano, non fosse, ancora una volta, l’onnipresente monito della frammentarietà del logos (narrazione/ragione/discorso), così che la poetica del frammento si rivela apertamente come la voce della frammentazione dell’esistente. Le lasse centrali, dall’ottava alla decima, costituiscono così una sorta di proemio al mezzo, in cui ragioni metapoetiche, correlati oggettivi e referenti metafisici si intersecano, seguendo l’intreccio dei piani temporali agglomerati. Quello che si delinea è un essere torbido, notturno, ctonio e celeste insieme, da cui l’esistente cerca con fatica di differenziarsi, come parvenza, nella sua fissità aurorale, senza riuscire del tutto nell’intento di nascere, stante la persistenza, sia pur al grado minimo, di un cordone ombelicale impossibile da recidere in quanto non visibile, sfuggente, esso stesso fluido. La figura del filosofo Parmenide, che ha scoperto l’essere al principio della storia della logica occidentale, figura così nel testo 11 come quella di colui che cerca di bonificare, riducendola a criterio trasparente, la motosa problematicità dell’ente. Queste ambiguità e opacità equivoche si dipanano ora, tappa dopo tappa, in un percorso discontinuo, di atomi-momenti senza tempo-durata, nei testi dall’11 al 18. Così la ierogamia terra-cielo sotto i venti meridionali, celebrano questa comunione fra essere e fenomeni, ma in assenza del logos, tanto che il binomio parmenideo νοεῖν-εἶναι è sradicato proprio nel momento in cui il reale celebra il suo ricompattamento (testo 12, vv. 8 s.: “dall’orizzonte/ è scomparsa la parola”); l’abbandonare il tempo del testo 13 si connota del senso equivoco di lasciare il tempo (la vita) e di consegnare al non essere come doxa e come non verità la dimensione della temporalità -e i tre versi finali, che descrivono una migrazione di esistenti verso l’opacizzazione del fenomeno (=verso la morte), inscenano il correlativo oggettivo del trapasso sullo sfondo della ben nota cosmogonia parmenidea di luce e ombra, ma a farsi simbolo di anime migranti verso il buio sono gli uccelli primaverili, le rondini, sottendendo un intreccio fra passaggio, presentificazione, futurizione e rinascita. La stessa sovrapposizione di piani temporali collassati l’uno sull’altro si intuisce dietro l’uso, ossimorico rispetto al contesto, delle lasse 14 e 15, dell’aggettivo “antico”: nel testo 14 “l’aurora”, ipostatizzata nella ragazza che improvvisa sulla spiaggia la sua “danza del senso”, ha però un viso antico, e a prendere vita è né più né meno che una figura divina, nel senso antico, politeistico, del termine. L’aurora -a questo punto sarebbe più corretto parlare dell’Aurora come dea- è solo il primo degli “antichi spiriti mediterranei” che al primo v. del testo 15 “attraversano il giorno”, tagliando netto il tempo nell’ora mediana/meridiana, in cui tutti i tempi sembrano presenti. A dominare la scena è in realtà ancora la danza del senso che animava i passi della figura femminile di cui alla chiusa del testo 14: la stessa danza che l’uno e i molti intraprendono attorno alla rotonda luna, così che questa Aurora, persona del dramma cosmico nel frangente liminae fra luce e buio, altro non è che l’altra faccia della rotonda luna, ed è nel contempo la peculiare Dike/Giustezza che in fine conduce il Parmenide qui alter ego di Bruno Di Pietro a giungere dove il suo thymòs poetico si prefissava di giungere, fuori della cella del presente. Si giunge così alle rivelazioni della tre ultime lasse, in cui si ripropongono i fenomeni metrico-fonici di cui i testi centrali, a partire dal 9, sembrano più parchi: la sedicesima lassa, con le sue (per quanto facili) rime proietta apertamente agli occhi dell’ascoltatore della raccolta il tema di fondo dell’aporia (c’è più mistero nel creato/che nel creatore). I due testi successivi sembrano in sé quasi due parti complementari di un unico più ampio congedo: la soluzione dell’aporia -la persona loquens quasi cieca (portatrice in sé di buio) e tuttavia capace di comprendere in uno sguardo tutto-abbracciante i singoli stadi del divenire, in una prospettiva degna del contemplatore impassibile della Bhagavadgita- si conclude con una determinazione di luogo -il “ramo spezzato nell’acqua” a “rigenerare radici/ la vita, l’esistenza”- che sembra di fatto un rewind -negazione della negazione, per riprendere una formula in auge da Meister Eckhart a Hegel- del montaliano male di vivere, la cui sconsolata scontatezza, agente al fondo di una parte fin troppo vasta della tradizione poetica italiana contemporanea, è qui sconfessata dall’interno. È quasi inevitabile vedere nelle due determinazioni di luogo figurato in cui si esauriscono i quattro versi finali della raccolta (“nella gioia/di essere senza fondo/nella gioia/di essere al mondo”) il completamento naturale di questa idea. Così nella sua struttura circolare, di danza, i frammenti aurorali di Bruno Di Pietro ci offrono in forma poetica una personalissima gaia scienza, fatta non di nichilismo, ma da un singolare pensiero forte, venuto a valle di troppi torpori e indebolimenti intellettuali, a ricondurci alla positività problematica, all’ottimismo tragico, di una riscoperta idea meridiana dell’essere.

Maurizio Salabelle: «da quando sono nato»

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di Elena Frontaloni

Patrizio Rhuggi nasce otto giorni dopo un dissesto finanziario della sua famiglia (perdita di duemilioni) e sin da giovane è perseguitato dai numeri e molto attento al loro potere. A un certo punto scopre di saper misurare a occhio, senza strumenti e con precisione, tutti gli oggetti. Perde per qualche motivo questa straordinaria competenza, quindi perde il padre. Con metodo, fidando su dati e incrocio dei medesimi, si dedica alla scrittura di voluminosi trattati sulle probabilità degli accadimenti e sulla possibilità di cambiare la vita delle persone con minime «introduzioni» di oggetti o fatti perturbanti («molecole», le chiama lui). Fallisce puntualmente anche qui, ogni volta, dopo aleatori successi, e ogni volta dopo anni di studio e successivi investimenti automobilistici e disastri ferroviari che colpiscono altri personaggi. Questo accade perché forse numeri e fisica sono più legati al caso che alla probabilità, ma anche perché Rhuggi è il protagonista di un romanzo di Maurizio Salabelle (1959-2003), scrittore che ha popolato tutti i suoi libri di indimenticabili falliti, ogni volta diversi e sorprendenti: «perseguono uno scopo il cui fine ultimo è il fallimento. Hanno il coraggio di perseguire il loro fine pur sapendo che falliranno, quindi sono personaggi a cui va tutta la mia stima», scrive l’autore.

Questo romanzo, da poco in libreria per Quodlibet col titolo Da Quando sono nato, doveva per la precisione essere il terzo libro, edito solo adesso nella sua forma integrale (alcuni passaggi vennero pubblicati su «Riga» e «Il Semplice» negli anni Novanta), di una trilogia ispirata agli iperbolici progetti di Pinocchio, altro personaggio piuttosto incline al fallimento per gigantismo di buoni propositi e mancato adeguamento, per candore, alle attese sociali e familiari: «Oggi, alla scuola, voglio subito imparare a leggere: domani poi imparerò a scrivere e domani l’altro a fare i numeri». Se l’esordio narrativo di Salabelle, Un assistente inaffidabile (1992), e il secondo libro Il mio unico amico (1994) erano dedicati al leggere e allo scrivere, Quando sono nato, composto tra il 1994 e il 1995, ha come centro d’attenzione il «fare i numeri». Il punto di partenza e la parabola del progetto sono oggi tutti in chiaro (sono tre storie di tre personaggi che non vendono l’abbecedario, e tuttavia poco lo leggono e tuttavia vanno a vedere che succede, mostrandosi alla fine con la stessa faccia di legno di Pinocchio prima della metamorfosi), ed esistono anche umoristici sottili legami tra i tre romanzi (per restare a un dato numerico, sono tutti di otto capitoli). Ma ad accomunare i tre testi c’è soprattutto la smagliante singolarità di Maurizio Salabelle, che è fatta di due ante o sportelli: da un lato la riconoscibilità di visione e di voce, dunque di stile, e dall’altra una sostanziale appartatezza e non regimentabilità a padrinobili, correnti, scuole e movimenti, che peraltro sono dispositivi utili a pasticciare i testi più che a scriverli e leggerli davvero (ne parlò Salabelle stesso con umoristico orrore in una «lamentazione» dedicata alle Materie letterarie insegnate a scuola su «Il Semplice», n. 2, 1996

Salabelle ha dei punti di riferimento letterari (Tozzi, Flaubert, Manganelli, Svevo, Walser, Perec, Bernhard, Mastronardi), ha dialogato con molti tra i contemporanei (Tondelli, Pontiggia, Belpoliti, Cavazzoni – che fece pubblicare e ancora continua a far pubblicare le sue scritture, accompagnandole con contributi che rappresentano puntualmente la migliore chiave d’accesso a questo autore e ai suoi libri: la quarta di Da quando sono nato è tra questi; ma non è appartenuto a nessuna «scuola» e non ha indossato manieristicamente la lingua dei suoi autori amati, peraltro tra loro molto dissimili (ne ha parlato con accuratezza Michele Farina), per superare la vergogna dello scrivere e del pubblicare che pure lo abitava, e che spesso produce, anche in grandi autori, l’indossare movenze stilistiche già altrui. Se ha ripreso degli atteggiamenti da tendenze letterarie dei suoi tempi e di quelli passati, Salabelle lo ha fatto in modo assai personale e sostanzialmente per trattenerli, scherzarci sopra e metterli in crisi, come in questo Da quando sono nato dove, in una sorta di avveduta parodia musiliana, la presenza ingombrante di numeri, calcolo delle probabilità, aggiornamento alle scoperte della fisica è comica proprio perché non fornisce propulsione alla materia narrativa, ma viene sormontata dalla materia narrativa stessa in un testo sghembo e sorprendente, dedicato alla non consequenzialità tra causa e effetto come pensati dalla mente umana, all’eccezione piuttosto che alla regola, picaresco in ogni pagina seppur impostato come racconto di una vita, forse tra i più generosi e meno prevedibili della sua fantasia.

Questa fantasia a sua volta sembra avere dei tratti specifici, che rimontano all’interesse per ingranaggi e funzionamenti delle cose e a un atteggiamento antidittatoriale nei confronti del lettore, cui Salabelle consegna libri che si possono leggere a più livelli e, si potrebbe dire, con più espressioni facciali («mi sono reso conto che i miei libri potevano essere definiti “comici” o “umoristici” solo quando sono stati letti da qualcuno che mi ha poi detto di essersi divertito», scrisse nel 2000 sull’«Indice dei libri del mese»). Questi libri di Salabelle, stando alle sorridenti dichiarazioni dell’autore stesso, si possono usare in alcuni modi diversi e si possono anche rompere, in quanto sono prima di tutto, se mai lo si dimenticasse, oggetti, e hanno come gli oggetti un proprio meccanismo e un destino che dipende anche da chi li adopera o li tiene con sé. Per quanto riguarda lo scrittore, si tratterà senz’altro di un qualcuno che, nella visione di Salabelle, compie un gesto artigianale, al fondo del quale c’è però un grado di inconsapevolezza che rende l’oggetto-libro una macchina con qualcosa di misterioso, perché imperfetto e delicato, dentro, in parte sconosciuto allo stesso autore, da maneggiare con una certa cura e cautela da parte di tutti  se non lo si vuole ridurre in mille pezzi. A tale proposito, quando si parla dei testi di Salabelle è sempre utile citare una sua prosa (sta nella specie Discorsi di metodo ancora del «Semplice», 3, 1996), in cui paragona la Scatola di Minsky a un romanzo e anzi arriva a dire che la scatola di Minsky è un romanzo, mentre il romanzo è una scatola di Minsky meno perfetta, anche se più affascinante, di cui si può conoscere solo il fuori: «è dotata di un meccanismo interno che non si vede, ma che è indispensabile al suo funzionamento; non ha alcuna utilità, non serve a niente, ma esiste lo stesso; non permette di essere aperta perché si rovinerebbe; è autosufficiente, slegata dal mondo: non parla di ciò che le succede intorno e non ne è turbata. Come un romanzo, è strapiena di rotelle, ingranaggi, motori che, invisibilmente, girano e girano per farla andare. L’unica differenza è questa: mentre il costruttore della scatola conosce il funzionamento del meccanismo che la fa funzionare, sa dove sistemare questa o quella rotellina, l’autore di un romanzo è a conoscenza solo di ciò che appare in superficie. Addirittura, per chi sa che fenomeno, ignora l’esistenza di numerosi pistoni e cilindri che lui stesso ha messo in moto, e che sono nascosti all’interno del testo. Ma ciò, facendola restare sconosciuta, rende ancora più affascinante la letteratura. I libri che vale la pena leggere non sono quelli “ancora attuali” o che “parlano di noi”: sono quelli che hanno il meccanismo più ricco, più complesso, misterioso e il cui funzionamento appare più semplice. L’unico modo per cercare di scoprirne il segreto è accostare le loro copertine all’orecchio e ascoltare il ronzio delle parti in movimento».

Questo scritto molto citato, che è forse più un racconto con larghi elementi antifrastici che un autocommento, ha molti aspetti liberatori e istruttivi. Un elemento è quello della «semplicità» che risulta dal meccanismo complesso e della «superficie», di quel che accade nei libri di Salabelle: questa fedeltà alla superficie è il motivo per cui tutti i suoi romanzi, evitando di psicologizzare e approfondire in maniera arbitraria o tirannica le motivazioni dei personaggi, contengono una valanga di situazioni non sviluppate e anche per questo comiche, allegre e agghiaccianti insieme: «Patrizio aspettò il momento di andar dentro osservando una gabbia di alluminio di un signore maturo vicino a sé. All’interno c’era un piccolissimo canarino con un’ala tinta di viola, e con un pezzetto di fil di ferro assicurato al collo con vari nodi. Attaccato ad esso c’era un microfono di plastica a cui l’animale così bardato non sembrava far caso minimamente. Il suo proprietario aveva l’aspetto di un bamboccio e per quasi tre ore non mosse un muscolo». Da queste righe appena citate, si potrebbe anche ricavare dell’altro sulla ricca meccanica dei romanzi di Salabelle, che sfocia in un funzionamento semplice: i suoi personaggi, oltre ad essere dei falliti, sono macchine assemblate come esseri umani in tutto e per tutto, ma che per così dire non siano state adeguatamente «messe a punto» (la copertina di Da quando sono nato è uno schema molto esatto di tutti personaggi di Salabelle, tra volumi geometrici e sproporzione): hanno funzioni ed emozioni – sudano («grandi sudate» era una delle «specie» delle prose ospitate dal «Semplice»), camminano, si arrabbiano, sorridono, si ammalano – ma le esercitano in maniera non contestuale, sono sempre lievemente fuori registro rispetto alle attese del lettore, come umanoidi, automi disfunzionali: si leggano a tal proposito le pagine in cui Patrizio diventa un estraneo in casa propria perché disoccupato e impassibilmente si dà del «lei» con i genitori che progettano un omicidio-suicidio, o i tanti momenti in cui i personaggi «urlano» battute: soprattutto nelle frasi di cortesia. La meccanica del romanzo di Salabelle sfocia spesso in una dimensione di smascheramento della recita sociale ed è insieme fortemente visiva: non a caso per figurare la sua prosa e i suoi personaggi sono stati fatti i nomi di Buster Keaton, di Jacovitti, e si potrebbe anche pensare al Rinascimento ferrarese, Del Cossa e de’ Roberti, per esempio. Le scenografie, i luoghi, sono chiusi e meno spesso aperti: quelli chiusi presentano geometrie imperfette, quelli aperti si vedono male e incertamente, come se chi racconta fosse afflitto o incuriosito dalle meraviglie della miopia; in quelli chiusi dominano colori netti, fintamente naturali (il verde il marrone e il color cuoio ricorrono con molta frequenza) mentre il resto tende al grigio; oggetti e mobili appaiono, puntualmente col loro complemento di materia, tanto meglio se vile o all’opposto di una nobiltà posticcia (di plastica, di formica, di truciolato, in palissandro, in mogano), e sono invariabilmente scomodi, in bilico e fuori posto, perché lerci, rivestiti di giornali o di un design di bassa lega che volontaristicamente punterebbe a una funzionalità ma li rende oggettivamente disutili e brutti, sia che appartengano a gente ridotta in miseria dal capitale o ad arricchiti («all’interno c’erano un baule pieno di cartaccia, dei comò di legno verde ridipinti più volte dal padre, alcuni letti di alluminio ed una grande quantità di scatole senza fondo»; «abitava in un appartamento arredato con armadi di mogano, possedeva una spider lucidissima e si nutriva di cibi sofisticati»). 

Da quando sono nato, come tutti i libri di Salabelle, racconta eventi maiuscoli (morti in fabbrica, conflitti mondiali sventati, delicate questioni di commercio intercontinentale, gravi malattie sconosciute alla letteratura medica), ma lo fa attivando chiavi di presentazione minuscole e all’apparenza spaesate o di volontaristica recita: nomi fumettistici e spostamenti di lettere a creare disagio rispetto a dimensioni e verità delle storie, in un impagabile sintesi tra film di spionaggio di cassetta, Star Trek e Beckett («Sono l’Agente Internazionale Per La Sicurezza Politica Evandro Atos. Ho 52 anni ed un mese e lavoro alla commissione “Precauzioni” da quando ne avevo 28. Esattamente due mesi fa […] sono stato incaricato di contattarla per cercare di evitare un conflitto mondiale che, secondo gli scienziati dell’A.I.P.L.S.P., ha il 79,9 probabilità su cento di verificarsi»). Gli sberleffi composti e continui alla lingua d’uso e letteraria, ai luoghi noti e più nuovi della prosa d’invenzione, vanno dall’uso della «d» eufonica in contesti impropri, al mescolamento tra sciatterie di comunicazione e linguaggi settoriali (il reparto «senza speranza» della clinica del dottor Avendo; uno stato di Coma specifico è il «semipietoso»), alla parodia di un patto narrativo con cui prende avvio il libro e al suo finale che richiede (se vuole) l’attivazione del lettore. Per dire solo del patto narrativo iniziale, la storia di Patrizio Rhuggi è raccontata da B.U., Brendano Ugo (quale il nome? quale il cognome?), zio del protagonista, che parla di sé come «lo zio di Patrizio», in terza persona, e narra la vicenda di Patrizio («mio nipote») sulla base di fonti orali e scritte forse poco raccomandabili, forse tra le più adatte a dire il vero su qualcuno: lontanissimi parenti dell’uomo, un miliardario, gente che lo vide un paio di volte per strada, gente a cui doveva delle forti somme; per i punti più oscuri Brendano Ugo si è servito da «articoli di rivista» e «qualche dimenticato giornale radio». Brendano Ugo ha peraltro chiesto delle consulenze a un industriale su due aspetti: «l’esattezza dei miei calcoli», la «sostituzione di alcuni periodi» e la correzione della sintassi laddove fosse troppo «aggrovigliata». Così che il nitore antisperimentale e disagiante, spesso accecante, della prosa di Salabelle, risulta, dalle premesse a Da quando sono nato, come frutto di una collaborazione equivoca tra uno zio un po’ magico, piuttosto malato e alquanto traffichino (prende moltissime pasticche, cancella zeri per ridimensionare i debiti), e un editor non professionista ma consapevole (i calcoli, anche quello che riguarda la storia del fumatore di 328 sigarette ogni giorno, risultano esatti). Sono rischi che solo un grande scrittore si prende la briga di correre all’inizio di un proprio libro. Come è rischio da grande scrittore quello, costante in questo libro di Salabelle e in tutti i suoi altri, di scrivere d’automi, scenari di cartapesta, avventure improbabili, anziché di uomini in carne ed ossa e temi «che ci riguardano», «che parlano di noi». Con l’effetto di portare chi legge a ridere (se vuole e se ci riesce) ma anche (se vuole e se ci riesce) a guardarsi come in uno specchio, per scoprire magari di avere più cose in comune con Patrizio Rhuggi che con l’uomo vitruviano. 

Questo pezzo è per Ariel, in attesa di adozione al Rifugio del Cane di Pistoia. Per saperne di più: https://www.enpapistoia.it/?p=1725. Per conoscerla: Pistoia@enpa.org o 0573400413

 

Il libro islandese

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di Enrico Dotti

La radio continua a trasmettere strani messaggi, eppure il cielo è azzurro, sebbene con qualche sgraffio di nuvola. D’altra parte, chi ascolta più la radio? Giusto su un’isola, giusto Pietro, nelle pause del lavoro, per accordare la sua insopportata solitudine alle voci del mondo. I libri da tradurre glieli portavano dalla terraferma ogni tre mesi, due o tre, una volta cinque, spesso uno solo. Traduceva dall’inglese – e questa era la sopravvivenza – e dall’islandese, ma questa è una lingua rara e inumana, esercitata da qualche tecnico stravagante o dai poeti nazionalisti. I traduttori letterari sul continente erano tre o quattro, si spartivano coscienziosamente il lavoro; a lui rimanevano quei pochi reports che non erano scritti in inglese. Ora però, in cima alla pila che aveva fatto emergere snodando lo spago e svolgendo l’involucro, in cima alla torretta che aveva alla base un romanzo d’amore ed un giallo, della stessa autrice e dello stesso editore di Canberra (tre settimane di lavoro per ognuno), in alto, insomma, per graziosa cortesia, volontaria o meno, di chi l’aveva disposto, c’era una piccola brossura di 60 pagine spesse, 18×15 cm; ad un terzo dal margine superiore della copertina grigia, in un carattere che faceva pensare al Caslon di Joseph Fry, in corpo 18 e stampato con un luminoso blu oltremare, si leggevano le parole: Hreyfa steinana, spostare pietre. Il frontespizio riportava il titolo al centro ed in calce, su due righe, allineate a sinistra, l’editore e l’anno: Jón Sigurðsson / 1973; non c’era autore. Seguiva una carta bianca e poi una tavola, più spessa, con un’incisione eseguita con un vecchio torchio che aveva lasciato sul foglio una percettibile depressione. Rappresentava una nave a vela, probabilmente un brigantino. Dentro, ancora nel bel carattere del frontespizio, versi. Si trattava proprio di un lungo poema. Quando aveva tradotto poesia l’ultima volta? Trenta, quarant’anni prima? Quando aveva dato un’anapestica forma di fanfara a The naming of cats di Eliot per contribuire al primo numero di una piccola rivista di traduzione, o quando aveva cercato di riprodurre l’audace malinconia di Sad eyes lady of the Lowlands per la sua amica, guadagnandone una notte d’amore? Molto tempo era passato, non era più lo stesso uomo. La sua cassetta degli attrezzi era cambiata. Ma chi gli mandava poesia, poi?

Fer yfir hafið þú sem elskar ævintýri

Letteralmente: “attraversa il mare, tu che ami l’avventura”, cominciava così. Decise di lasciar perdere e di rimandarlo.

In tre settimane finì la traduzione dei due libri australiani: il giallo, una sentina di banalità, col solito commissario rude e problematico; e l’improponibile romanzo d’amore, innocuo, volgarmente audace per un pubblico aduso alla pubblicità dei profumi. Chiuse tutto, anche il libro islandese, prima col pluriball e poi con la carta da pacchi legata bene con lo spago. Quando arrivò Andrea con la barca per la posta, spedì.

Passarono altre due settimane, ed arrivò il nuovo pacco. C’era un piccolo Dickens e ne fu contento, perché amava gli scritti minori del poeta di Portsmouth che avevano l’andamento di una cima che, legata una pietra ad un capo, veniva lanciata da una mano abile; seguivano due volumi dello stesso autore, pubblicati da Palgrave, uno sull’agricoltura cinese e l’altro su quella del sud-est asiatico; in fondo, un grande tomo rilegato in tela e con una sovracoperta colorata, l’Handbook of Critical Environmental Politics, che avrebbe implicato noiose ricerche di termini specialistici, ma Elgar pagava abbastanza bene il disturbo. Era tutto. No, schiacciato dal possente repertorio, nascosto ma ostinatamente occhieggiante, inopinatamente redivivo si manifestò il poema islandese. Eppure aveva chiarito al suo agente che non lo poteva, non lo voleva tradurre. Ma in fondo al pacco c’era ancora qualcosa, una busta color avorio, di carta pergamenacea e spessa, che conteneva un foglio piegato in tre – come si fa con le lettere commerciali – che conteneva un testo scritto in inglese, indirizzato a lui e firmato Vigdís Ragnadóttir, publisher. Ecco, l’editrice della Jón Sigurðsson in persona lo pregava di tradurre il volume ed era disposta ad aumentare il compenso (che rimaneva comunque modesto). Si era rivolta proprio a lui su indicazione di Davíð Grimmson, un collaboratore della casa editrice, che lo riteneva il più adatto ad affrontare un lavoro del genere. Teneva molto alla traduzione italiana del poema, anche nell’ottica della diffusione in Europa della poesia islandese. Una versione inglese era già stata prodotta, Beauchesne e Kampf stavano provvedendo per i rispettivi Paesi. La lettera terminava con un’ulteriore, sobria preghiera di accoglimento della richiesta, la firma e gli estremi del mittente.

Questo Davíð Grimmson non se lo ricordava. Era forse uno dei tanti islandesi conosciuti all’Istituto Magnùsson di Copenhagen? Era, piuttosto, costui incespicato sul suo nome, normalmente ben nascosto in un angolo segreto dei volumi che contenevano le sue rare traduzioni di racconti classici della letteratura islandese? Fece una rapida ricerca: Davíð Grimmson era uno scrittore ed un traduttore dal francese e dall’inglese; aveva tradotto opere di Perec, Queneau, Beckett (doveva essere uno bravo!) e poi Chesterton e addirittura Shakespeare; era autore di due romanzi, uno dei quali tradotto (da lui stesso) in francese: Leita að Licorne (Essayer la Licorne). In Rete c’era una fotografia: un volto grassoccio sorridente che non gli ricordava niente. Propese per la seconda ipotesi. Forse aveva suggerito il suo nome all’editrice perché era l’unico traduttore italiano che conosceva.

Scrisse al suo agente per chiarimenti. Questi rispose:

Caro Pietro, Vigdís (che è una signora gentilissima), mi ha espresso tutta la sua costernazione quando le ho detto che avevi rifiutato il lavoro. Le ho proposto i nomi di due bravi traduttori ma ha insistito con la sua richiesta adducendo ragioni tecniche che, sinceramente, non ho capito. Mi sono permesso di suggerirle di scriverti direttamente e me ne scuso; questa volta non sono riuscito a farti da filtro. Forse non ho voluto, perché l’editrice è veramente una persona perbene e non volevo darle un dispiacere. Così ti ho rispedito il libretto e ho allegato al pacco la sua lettera, magari ti convince. In fraterna amicizia, Eugenio.

La proprietà transitiva agì, e determinò che Pietro non avrebbe dato un dispiacere a Vigdís perché non avrebbe voluto darne al suo agente e che avrebbe provato a tradurre il poema.

Dopo pranzo, però, afferrò un libro a caso sull’agricoltura (era quella cinese) perché le cose belle le traduceva la sera, se non aveva troppo sonno, oppure la mattina presto. Lavorò senza interruzione per cinque ore, poi cosse un pesce, arrostendolo su un fuoco di ginepro e lo mangiò aiutandosi con un bicchiere di vino locale, delle viti coltivate a strapiombo sulla scogliera. Verso le dieci rientrò in casa e sedette di nuovo alla scrivania, dove c’era l’islandese. Però prese Dickens. Era una raccolta di brevissimi racconti, riuniti in un volume di Very short stories; il primo era davvero singolare: si intitolava Gone Astray e l’inizio era promettente come ogni inizio dovrebbe essere:

When I was a very small boy indeed, bothin years and stature, I got lost one day in the City of London.

Suonava come un’onda, ed a Pietro ricordò curiosamente l’inizio del celebre poema di Coleridge: In Xanadu did Kubla Khan / A stately pleasure-dome decree. Il vacuo indeed, il banale one day sembravano produrre in quella corda di frase una tensione drammatica verso qualcosa, verso la frase successiva. Cominciò a scrivere e verso le tre di notte considerò che forse aveva fatto un discreto lavoro.

La mattina dopo si alzò cha albeggiava. Col caffè nella destra ed il computer sotto il braccio sinistro uscì nella veranda e sedette al tavolinetto della mattina; poi rientrò e riuscì con l’islandese. Quando lo aprì, comparve il brigantino: dietro l’oscura linea dell’orizzonte, nell’acqua che lanciava baluginii di pirite, era così vicino che si vedevano le manovre dei marinai sulla tolda. La nave avanzò ancora per un paio di miglia e poi ammainò le vele e gettò l’ancora; pochi minuti dopo una scialuppa se ne staccò, tre uomini ai remi e due seduti a poppa: li vedeva chiaramente anche se erano ancora lontani, abbigliati come gentiluomini del XVIII secolo. Raggiunsero il molo, deserto, e provvidero all’ormeggio; i due di poppa presero terra. Ora avanzavano, lentamente perché uno di loro aveva una protesi alla gamba destra, avanzavano verso di lui finché non giunsero al cancelletto di legno, lì si fermarono ed egli fece un gesto per invitarli ad entrare. Lo zoppo era alto e possente, si aiutava nella marcia con un pesante e minaccioso bastone, l’espressione volitiva del volto abbronzato gli conferiva una certa nobiltà; l’altro era più basso, l’asciutta figura di muscoli e nervi, lo sguardo fisso degli occhi infossati trasmetteva una caparbia spaventosa determinazione. Al cenno entrarono e rimasero impalati di fronte al tavolino. Poi lo zoppo parlò e parlò in islandese: Tilbúinn? È pronto? Solo questo disse, ed egli capì subito a cosa si riferisse, e rispose: Nei, ekki enn. No, non ancora. L’uomo col bastone lo guardò severamente per un tempo che parve lungo, un lungo, temibile silenzio. Poi disse: Allt í lagi, þrjár vikur. Sta bene, tre settimane. Allora il suo compagno silenzioso allungò il braccio nodoso ed aprì il pugno: sul palmo era disteso un piccolo brandello di carta annerito nel centro da una macchia di carbone; lo tenne in mostra per qualche secondo e poi lo ripose. Senza dire altro la coppia si congedò, oltrepassò di nuovo il cancelletto, raggiunse il molo, prese posto sulla scialuppa e poi sul brigantino, che scomparve rapidamente oltre l’orizzonte. I gabbiani ne accompagnarono la corsa per un pezzo con le loro risa volgari. Quella gazzarra svegliò Pietro. Il sole era già alto.

Aveva sognato Long John Silver, va bene. Aveva sognato Silver che parlava islandese, e quell’altro che gli aveva mostrato il black spot poteva essere Israel Hand, o qualcun altro dei pirati di Flint. Non era la prima volta che sognava qualche vecchio compagno letterario, era successo con Huck Finn, con Jean Valjean e una volta addirittura con Hari Seldon. Ma quello che Silver voleva era senza dubbio la traduzione di quel libro islandese; lo aveva capito sùbito, da prima che il pirata parlasse; aveva temuto che non gli avrebbe concesso proroghe, e, alla fine, si era sentito sollevato, nonostante il gesto minaccioso di mastro Hand. Ma che se ne faceva Silver di una traduzione italiana di un poema islandese? Ovvero perché lui (perché il sogno era opera sua) aveva messo insieme il poema e i pirati di Treasure Island? Riprese il volumetto, rilesse il primo verso

Fer yfir hafið þú sem elskar ævintýri

Era per questo? Anche il romanzo cominciava in versi

If sailor tales to sailor tunes

Storm and adventure, heat and cold

C’era, indubbiamente, una certa somiglianza di famiglia.

Il cielo si scurì, si fece color cenere; voleva piovere. Entrò nello studiolo ed accese la lampada sulla scrivania, la luce di fuori non era sufficiente, anche perché l’islandese era stampato in grigio, un grigio con una sfumatura viola che affondava un po’ nella carta giallastra. Il testo cominciava a metà della prima pagina, che conteneva sei versi. Li lesse e li rilesse: avrebbero preteso un duro lavoro. Le difficoltà si manifestarono subito su due fronti: quello lessicale, per l’occorrenza di molte parole che non conosceva, il cui numero sfiorava quella soglia oltrepassando la quale il lavoro di traduzione diviene miseramente improduttivo; quello, più generale, del senso complessivo, perché l’autore esercitava un vero trobar clus, che rendeva difficile disegnare quella cornice che delimita e dà forma ad ogni traduzione poetica. Ma, innanzi tutto, bisognava capire. Entrò nel sito di Lexia, il grande work in progress frutto della collaborazione dell’Istituto Magnùsson con l’Institut Vigdís Finnbogadóttir de langues étrangères, un dizionario Islandese-Francese che contava già 54.000 lemmi, ma il sostegno non era abbastanza robusto. Lexia forniva la traduzione francese della maggior parte delle parole ricercate, ma questa traduzione non andava bene, non era adeguata alla frase. Provò per un paio d’ore, che scivolarono via in pochi minuti. Intanto pioveva. La pioggia, spinta da un vento di nord-est, era finita sul pavimento della cucina. Chiuse la finestra, asciugò sommariamente, aprì il rubinetto e si riempì un bicchiere. L’acqua scrosciava dentro e fuori, chiuse quella dentro e bevve. Pensò al Marchio Nero ed ebbe un brivido. Un brivido sciocco, pensò. Certo il sogno lo aveva turbato. Sono turbato, si disse. Dickens era lì, aperto sul ritratto del bambino, very small boy indeed, both in years and stature, che Ruth Cobb – l’autrice delle illustrazioni originali, saggiamente riprese nell’edizione moderna che aveva tra le mani – aveva abbigliato con redingote ed alto cilindro da cui spuntavano lunghi capelli; l’immagine fantasmagorica di un benevolo folletto o di un mago da vaudeville che sta per estrarre una gallina dal cappello o fiori dalla punta della bacchetta. Questo Mastro Pulce gli sarebbe saltato nell’orecchio per suggerirgli l’esatta traduzione degli sfuggenti versi islandesi? Il vetro della finestra era una lente deformante, i ciclamini tremavano e si scomponevano in scintille viola, prendevano forma visitatori immaginari. La luce della lampada schiariva solo il piccolo campo della scrivania, il resto della casa era in penombra. Fortunatamente c’era altro lavoro da fare, lavoro semplice.

La mattina dopo la barca della posta gli portò un pacco. Arrivò mentre finiva di fare colazione, nel tavoletto di fuori, perché già la sera prima la pioggia era cessata, la notte era stata limpida e la mattina, a parte la solita corsa di nuvole, era serena. Oltre ai libri, che arrivavano con cadenza regolare, Pietro non riceveva molta posta: amici, non ne aveva; i colleghi preferivano telefonargli, ed erano telefonate brevi, o scrivergli e-mail; Rosa scriveva sempre più di rado, l’ultima lettera era vecchia di due anni (una vecchia lettera terribilmente buona, da Pulitzer). Questo pacco era una novità. Rimase chiuso fino alla fine della colazione e oltre, fino alla fine di un programma alla radio sulla musica dei giovani d’oggi. Quando l’ultima canzone fu cantata, provvide a malincuore alla dissoluzione dei nodi. Era un grosso libro, in-quarto, con una rigida copertina bluastra e scolorita, apparentemente di un migliaio di pagine. Lo aprì, superò una carta ingiallita ed arrivò al frontespizio, che recava: An Icelandic-English Dictionary based on the MS. collections of the late Richard Cleasby, enlarged and completed by Gudbrand Vigfusson, with an introduction and life of Richard Cleasby by George Webber Dasent, D.C.I., poi: Oxford, At The Clarendon Press, M.DCCC.LXXIV. Sul pacco non c’era mittente. Nessuna lettera, o biglietto, che ne indicasse la provenienza. Non era un libro fantasma, era arrivato per posta, regolarmente, era stato pubblicato da un ben noto editore di Oxford, del quale Pietro possedeva quattro o cinque volumi. Questo però no, non l’aveva, e forse avrebbe dovuto averlo. Ma non lo conosceva, ne aveva ignorato, fino ad allora, l’esistenza. Consultò la Rete: Richard Cleasby, un filologo inglese che aveva studiato con Schelling, era malato di fegato e morì di tifo; Gudbrand Vigfusson, linguista, bibliotecario, noto a Copenhagen e ad Oxford, sapeva l’Edda a memoria. E poi il libro era citato, era in vendita, costava parecchio. Chi glielo aveva mandato? Pensò sùbito a Vigdís Ragnadóttir, l’editrice. Oppure, Davíð Grimmson, il collega traduttore. Entrambi avrebbero potuto possedere quel volume, il traduttore con maggiore probabilità. Non aveva dubbi sulla ragione dell’invio: la traduzione del poema islandese. Allora si mise al lavoro e le cose cominciarono a funzionare.

Piano. Non così bene. Ogni parola tradotta era frutto di un negozio, di una contrattazione; il dizionario era un cliente ostico, che non cedeva senza resistenza i suoi significati: indicava percorsi, suggeriva vie che conducevano a rovinosi deragliamenti o a sentieri interrotti; bisognava ricominciare, imbastire una frase con punti lenti, facili da sciogliere, non compromettenti. Alla fine, faticosamente il senso arrivava, ovvero nell’opacità si intravedeva una forma che sembrava adatta, le tessere si incastravano lasciando solo un piccolo vuoto margine di dubbio. Comparve un prologo, un invito al lettore; quel primo verso che Pietro aveva tradotto ad orecchio prima di rimandare il volume poteva andar bene. Ne seguivano altri su un’isola, misteriosa e con un tesoro, sintesi delle due famose isole dell’atlante letterario. Un mistero da svelare, un tesoro da trovare. C’era anche una terza isola, Montecristo. Era un coacervo di isole. Uomini andavano per mare e i loro vascelli venivano travolti dai tifoni, ribaltati da enormi cetacei o squarciati da iceberg; oppure, giunti alle viste dell’isola la perdevano, Isola-Non-Trovata. Ma poi, era isola o continente? Isola Lincoln o Atlantide? Il poema era una mappa, un isolario, una sequela di toponimi islandesi irriconducibili. Un portolano. Perché c’erano partenze, innumerevoli, e ogni sorta di legni, e ogni sorta di equipaggi, si staccavano da piccoli o grandi moli, spinti da quel primo verso, Fer yfir hafið þú sem elskar ævintýri, che suonava così stranamente affine a quegli altri, If sailor tales to sailor tunes/Storm and adventure, heat and cold, ma anche a When I was a very small boy indeed, bothin yearsand stature, I got lost one day in the City of London. Ora però, un brigantino si faceva largo attraverso il popoloso Bristolflòa, lasciando il confortevole porto di Brycgstow, laddove l’Avon ed il Severn sono un’irruzione del mare sulla terra, facendo rotta a S-O per poi virare a tribordo ed immettersi nel Canale di San Giorgio dopo aver doppiato il Pembrokeshire e puntare decisamente a nord, verso Mön, l’isola dei gatti-senza-coda. Ancora un colpo di barra per mettere la nave a tribordo prima di raggiungere il mare aperto, e costeggiare il Rhins of Galloway, e tralasciare la tumultuosa Belfast per guadagnare la vista di Skosku hálöndin, le terre selvagge, ed immaginare, invisibile e solenne, il Ben Nevis dei Grampiani. Poi, finalmente, il gran pelago, dove la vista la fanno gli strumenti e le stelle, ogni costa remota. Ora il ponte era libero, solo il secondo, al timone, lo impegnava, lo sguardo all’orizzonte. Il capitano in cabina segnava il punto con la penna d’oca, gli uomini in coperta dondolavano nelle amache spinte dall’onda lunga dell’Oceano. L’uomo che chiamavano Suðrænn Maður cantò tra sé un canto malinconico, dodici difficili versi che partivano da un cantore solitario abbandonato su un’isola dai suoi compagni che partiva sul suo poema per approdare su di una terra incognita. Non poteva essere, non sul suo poema. Eppure, nessun’altra traduzione era possibile. Le metafore si fecero più ardite, le relazioni più insensate; eppure, scrivendo tutto, traducendo tutto alla lettera, qualche forma alla fine compariva. Il piccolo, ermetico poema nel poema lo stroncò. Si trascinò a letto e, vestito com’era, cadde in un sonno profondo. Qualcosa lo svegliò nel buio, manovre sulla piccola darsena, la catena di un’àncora. Chi arrivava a quell’ora insolita? Udì il cigolio del cancelletto, guardò oltre i vetri ma non vide nessuno. Il vento? Indossò un maglione e uscì in giardino. Questa volta Hand era solo; nonostante il grosso coltello infilato nella cintura, il gesto con cui lo invitò a seguirlo non aveva niente di minaccioso. Perché no? Cosa lo tratteneva ancora su quell’isola? La solitudine cominciava a pesare? Aveva fallito nel tentativo di bastare a se stesso? Chi poneva queste domande? Pietro, Israel Hand, il mare, il libro islandese? Il suo fantasma era lì, alla fine del pontile, con il braccio teso lo invitava a salire sulla barca, vuota, che si sarebbe mossa con null’altra propulsione che le ali dell’Angelo. Ma ora il pontile era altissimo, il salto sarebbe stato mortale. Ma quanto mortale? Con questa curiosa domanda fece il passo. La sensazione di cadere lo destò. Gli uccelli fuori ridevano di questa umana insensatezza.

La traduzione era finita. Forse aveva fatto un buon lavoro, non stava a lui deciderlo. Doveva spedire il file, rimandare il libro, insieme al Dickens, ai manuali di agricoltura asiatica e di economia. L’equipaggio di Flint non sarebbe più andato a disturbarlo in sogno, scalzato da qualche nuova o vecchia conoscenza. Questo era il suo mondo e lo sarebbe stato fino alla fine, anche quando la barca della posta avesse cessato di attraccare, annunciata da un breve richiamo. Per questo era andato nell’isola, per questo faceva parlare, faceva agire con la sua voce i grandi caratteri, che non aveva creato e che non avrebbe potuto creare. Perché si era perso per le vie del mare, perché quando era davvero piccolo, d’età e di statura, si era perso per le strade di Londra. Il fatto strano era che non trovava più il dizionario di Cleasby, dove lo aveva messo? Era stato un buon compagno, anche se con un carattere un po’ difficile. Lo cercò sommariamente, lasciandosi la possibilità di trovarlo da qualche parte dove non aveva guardato. Quest’ultima cosa la fece per paura, per paura di non trovarlo definitivamente, che fosse un libro fantasma, che questa storia diventasse una storia di fantasmi. Così, chiuse nel pluriball i libri che aveva tradotto, li involse nella carta da pacchi e li legò con lo spago. Poi consegnò il pacco ad Andrea, quando questi arrivò con la barca della posta, ed inviò le traduzioni sulla e-mail del suo agente, pregandolo di non mandargli più libri per i successivi tre mesi.

Il suo agente lo accontentò, ma, nel pacco che giunse alla fine dell’embargo, c’era una busta rettangolare con un piccolo, grazioso logo in basso a destra nella parte chiusa, proprio sotto il suo indirizzo. Veniva da Trieste, dalla scuola per interpreti e traduttori, e sul francobollo c’era la faccia di Joyce da giovane. La lettera, ossequiosa e laconica, lo informava che la sua traduzione aveva vinto un premio e lo invitava a partecipare alla cerimonia di assegnazione. Onestamente sorpreso, sinceramente indifferente, rimise la lettera in busta e questa sotto alla brocca dell’acqua, che però aveva il fondo bagnato, e che perciò formò due umidi archi blu sulla carta celeste. L’acqua poi passò anche nella lettera e sfocò alcuni caratteri del testo. E questa sfocatura rimase anche quando la carta si asciugò. Non andò a Trieste, mandò una compita lettera con dei pretesti a cui nessuno avrebbe potuto dar credito. Scrisse però che era contento che fosse stato apprezzato il suo lavoro su un testo che aveva molto amato, il piccolo Gone Astray di Dickens.

Foto di Nico Grütter da Pixabay

Il sommo revival di Tondelli – Gabriele Galligani

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Il male della letteratura e gli altri libertini

Nel 1980 Tondelli pubblica con Feltrinelli il suo romanzo d’esordio, “Altri libertini”. Pochi mesi dopo, il libro viene sequestrato «per il suo contenuto luridamente blasfemo e osceno nella triviale presentazione di un esteso repertorio di bestemmie contro le divinità del Cristianesimo; nonché di irriferibili turpiloqui, […] onde il lettore viene costantemente stimolato verso la depravazione sessuale e il disprezzo della religione cattolica»1. Per come emerge dalla discussione processuale, tra le maggiori cause del sequestro2 è la scena del racconto “Postoristoro” nella quale Giusy, un piccolo consumatore e spacciatore di eroina, masturba il tossicodipendente Bibo nei bagni luridi della stazione di Reggio Emilia (sequenza da cui sono tratti i paragrafi che seguono):

Liza si copre la bocca, scappa indietro. Giusy regge il Bibo per i capelli, lo tira a sé, gli affonda il viso sul petto. “Non diventa duro, diocane, ehi Bibo fallo diventare duro, forza Bibo, fatti forza, stammi a sentire, guarda, è grosso, è grande, è il tuo cazzo Bibo, si gonfia, diventa duro…3

Nessun erotismo traspare nella scena. Il fine di Giusy è quasi medico: far defluire sangue al pene di Bibo per trovare una vena in cui iniettare la dose e trascinarlo fuori da una crisi d’astinenza che rischia di ucciderlo. Ma Bibo non reagisce, a segnalare la condizione di un’esistenza priva di stimoli e libido, e Giusy tenta il tutto per tutto e accompagna i movimenti della mano con racconti di immagini sessuali violente:

Ce l’ho in mano, lo sfrego cazzo, sei te questo, il tuo cazzo, hai chiavato tante fighe con il tuo cazzo, tutte le fighe del postoristoro, godevano come vacche quelle troie e sbrodavano, si contorcevano quando te glielo sbattevi dentro e le impalavi con questo cazzo forte e grande e duro, su e giù che le montavi come adesso Bibo avanti e indietro…

Dai, fallo rizzare Bibo, porcodio che succede alla tua pistola, ci hai sparato tante seghe, più seghe di tutti e come facevi coi vecchi, ehi Bibo cosa facevi coi vecchi, cazzo glielo facevi vedere ai giardini come si usa un cazzo, come facevi coi vecchi pidocchiosi? Eh, il tuo cazzo, gli sborravi davanti a quei vecchi lerci, davi spettacolo col tuo cazzo4.

Nelle interviste5, Tondelli racconta lo svolgimento del processo, di cui ricorda la linea difensiva del proprio avvocato, che convinse la Corte di come la scena in questione, lontana dal suscitare desiderio nel lettore, ottenesse lo scopo inverso, evidente dalla conclusione: anziché un orgasmo liberatorio, il dolore quasi punitivo dell’iniezione. «Dentro l’ago, zac»6.

Accusa e difesa si sono entrambe concentrate sull’atto sessuale tra i due tossicodipendenti senza soffermarsi sull’importanza, rilevata invece da Tondelli, delle parole che accompagnano la scena: racconti, immagini ed evocazioni erotiche finalizzate a risvegliare la libido necessaria per continuare a vivere.

Per delineare un’ipotesi sul ruolo di questa simulazione affabulatoria, risulta utile risalire alle ragioni di oscenità di un libro che, se oltraggioso è stato, non pare esserlo per la singola scena, quanto per qualcosa di più intangibile che aleggia in tutte le vicende narrate e che ne costituisce il nocciolo portante: una cifra che ne accomuna storie e personaggi e che si intreccia con la finzione sin dal titolo.

[…] A mio avviso, le vicende del libro richiamano i libertini e la figura del marchese De Sade anche per una ragione strettamente letteraria, che lega la loro opposizione con l’impulso a scrivere dell’autore. Non sono “libertini” perché ricercano un appagamento sfrenato del desiderio, e nemmeno soltanto perché mostrano un atteggiamento anticonformista, quanto invece perché trasudano di quel “male della letteratura” che Georges Batailles rileva (anche) negli scritti di De Sade, ossessionati dalla ricerca di una libertà inaccettabile per la società in cui vive. «Sade era uno degli uomini più ribelli e più furiosi che abbiano mai parlato di ribellione e di furia: in una parola, un uomo mostruoso, posseduto dalla passione di una libertà impossibile […] egli incarna una verità primordiale, quella del bambino che si rivolta contro il mondo del Bene, contro il mondo degli adulti e, con la sua rivolta senza riserve, si consacra al Male7». […] Questo anelito a una vita fuori dagli schemi e questa ricerca di una libertà impossibile nella società mi paiono la cifra che accomuna le storie di “Altri libertini”, nelle quali gli impulsi dei personaggi sono lontani dal configurarsi come fattori benefici e si avvicinano alla stessa rivolta del cosiddetto male che è, per Bataille, l’elemento costitutivo della letteratura: la rivolta «contro questo mondo reale, dominato dalla ragione, fondato dalla volontà di sopravvivere8».

Contro il mondo reale, della ragione e del calcolo per sopravvivere (anziché vivere), agiscono i personaggi dei sei racconti, concretizzando lo stesso rifiuto del reale che sta alla radice dello slancio creativo di chi inventa storie. Da questo punto di vista, libertini e Tondelli (personaggi e autore) trovano un punto di contatto proprio nell’oscenità di cui si “macchiano” entrambi, considerando però l’importanza cognitiva che l’autore attribuisce alla categoria dell’oscenità: «una categoria praticabile in quanto percorso di consapevolezza, come ricerca oltre i confini imposti dalle regole sociali e forse anche individuali per approdare a qualcosa di diverso»9.

Se gli altri libertini risultano osceni ed emarginati perché tentano di dare piena espressione alla loro libido (la stessa, forse, che guida la mano dello scrittore), tuttavia questo tentativo non raggiunge il suo scopo, visti gli esiti di magone, malinconia e vuoto a cui conduce nel libro in tutte le vicende narrate.

Nei sordidi bagni del postoristoro, del resto, Giusy ha bisogno di costruire una finzione per risvegliare in Bibo una libido non finalizzata a scopi liberatori (lo stesso avvocato aveva dimostrato che l’effetto della scena era l’opposto), ma indirizzata ad un consumo utile solo a prolungare la sopravvivenza ed evitare sofferenze. Il fatto che Giusy ricorra alla costruzione di una finzione narrativa per mettere in scena immagini pornografiche, può fungere da spia nel segnalare la dipendenza nei confronti di una seconda sostanza intossicante: la simulazione dello spettacolo cui si aggrappano tutti i personaggi di “Altri libertini” per comprendere e comunicare le proprie esperienze.

1O. Campofreda, Dalla generazione all’individuo. Giovinezza, identità, impegno nell’opera di Pier Vittorio Tondelli. Con due inediti tondelliani, Mimesis, Sesto San Giovanni (MI) 2020, p. 67.

2Tondelli afferma: «Le pagine che riguardano quella sequenza travolgente di parole sono quelle che hanno portato il libro in tribunale». In F. Panzeri (a cura di), Viaggiatore solitario. Interviste e conversazioni 1980 – 1991, cit., p. 71.

3P.V. Tondelli, Altri libertini, Feltrinelli, Milano 2015, p. 32.

4Ibidem

5In F. Panzeri (a cura di), Viaggiatore solitario. Interviste e conversazioni 1980 – 1991, cit., p. 71.

6P.V. Tondelli, Altri libertini, cit., p. 33.

7G. Bataille, La letteratura e il male, SE, Milano 1997, p. 20.

8G. Bataille, La letteratura e il male, SE, Milano 1997, p. 19.

9F. Panzeri (a cura di), Viaggiatore solitario. Interviste e conversazioni 1980 – 1991, cit., pp. 72-73.

 


Gabriele Galligani è insegnante di Lettere. “Transagonistica”, suo romanzo d’esordio, è pubblicato da Battaglia Edizioni.

Il ritorno dello scontro delle civiltà

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di Giorgio Mascitelli

La guerra in Ucraina ha riportato in auge il concetto di scontro di civiltà che aveva conosciuto una sua prima fama negli anni novanta in occasione della definizione delle priorità della politica estera statunitense dopo la vittoria nella Guerra Fredda e l’emergere del fondamentalismo islamico. Il padre di questa nozione è stato il più importante teorico neocon del secondo Novecento Samuel Huntington, che la elaborò per smorzare gli entusiasmi della parte più liberal dell’amministrazione statunitense, incline a seguire le idee di Fukuyama sulla globalizzazione pacifica garantita dall’apertura al libero mercato che avrebbe arricchito tutti e portato a usare le istituzioni liberaldemocratiche in ogni angolo del mondo. La tesi di Huntington, ineffetti, sostiene che esistono nove civiltà nel mondo e ciascuna delle quali è incardinata su costanti culturali sostanzialmente immodificabili nel lungo periodo, quindi qualsiasi apertura a idee di un’altra civiltà e in particolare a quella occidentale si limita al prelievo di alcuni singoli aspetti, per esempio la tecnologia, che non modificano però la natura di fondo della civiltà, i suoi modelli organizzativi e in definitiva valori e aspirazioni. A conferma della sua tesi Huntington citava l’esempio della Turchia, nella quale era stato promosso da Ataturk in poi un salto di civiltà da quella islamica a quella occidentale, che però era sostanzialmente fallito.

Benché le fonti del concetto di scontro di civiltà  siano riconducibili al pensiero conservatore inglese del Settecento contrario all’universalismo illuminista della rivoluzione francese, al Burke che ai diritti dell’uomo dichiara di preferire quelli di un inglese, ritengo che con questo libro Huntington volesse occupare un ruolo analogo a quello giocato da Tacito nel dibattito imperiale romano con opere come l’Agricola o la Germania, nelle quali erano descritti i rischi potenziali, ideologici e pratici, per il primato dell’impero. Ovviamente una categoria come quella di scontro di civiltà è una categoria tipicamente imperialista proprio perché, eliminando dallo spazio del suo discorso la stessa  categoria di imperialismo, rivela la posizione ideologica e storicamente determinata di chi persegue un progetto di conquista considerando naturale l’espansionismo e non frutto di scelte politiche e della pressione di determinati modi di produzione.

Ora il fatto che questo concetto sia tornato alla ribalta con l’aggressione russa all’Ucraina in prima battuta non è particolarmente significativo. Esso potrebbe apparire, e in qualche misura è,  la riformulazione in termini più aggiornati di un classico argomento della propaganda antirussa ossia la Russia come paese dominato dal dispotismo asiatico che minaccia la civiltà europea: fu usato dagli anglofrancesi durante la guerra di Crimea, dai tedeschi in entrambe le guerre mondiali e da tutti con la rivoluzione russa. L’espressione letteraria più interessante di questo motivo la si trova in Insaziabilità dello scrittore polacco Witkiewicz, non a caso scritto durante gli anni di Pilsudski della quale epoca il romanzo riflette l’immaginario politico. Il ricorso odierno a tale tema è anche una tipica testimonianza di quell’anticomunismo senza comunisti che è uno dei fenomeni ideologici più costitutivi del nostro tempo, ma su cui non c’è spazio qui per soffermarsi.

In realtà l’imperialismo di Putin rientra in pieno nelle categorie e nella storia occidentali: basti pensare all’evento culturale che ha accompagnato l’invasione dell’Ucraina, ossia alla grande mostra pietroburghese su Pietro il Grande, cioè uno dei grandi zar occidentalisti, che vedeva nell’impero russo una delle potenze europee e appunto trasferiva la capitale più a Ovest nella nuova città fondata sul Baltico. E molti dettagli ci suggeriscono che fosse autentica la aspirazione putiniana di portare la Russia nella NATO. Anche la sua tesi sul fatto che gli ucraini e i russi siano in realtà lo stesso popolo e che l’indipendenza ucraina sia colpa di Lenin, che si è inventato questa strana storia delle nazionalità usata poi dagli stranieri contro la Santa Madre Russia, ha molte corrispondenze con esempi occidentali. A tal proposito vorrei ricordare un passo curioso di una conferenza di Milan Kundera del 1983 sul dominio sovietico sull’Europa centrorientale, che però Adelphi ha meritoriamente ripubblicato nel 2022 a suggerirne la sua attualità, dal titolo Un occidente prigioniero, nel quale, nel ricordare le varie nazionalità mitteleuropee che lottarono nell’Ottocento contro l’Impero austriaco per la loro sopravvivenza come comunità nazionale, lo scrittore omette di citare quella slovacca, pur elencando tutte le altre (“le lotte nazionali di polacchi, cechi, ungheresi, croati, sloveni, romeni, ebrei” op.cit. p.60). Infatti per molti cechi della generazione di Kundera, e di quelle precedenti, gli slovacchi non sono altro che dei cechi che si ostinano a chiamarsi in modo diverso.

Ma questa è per così dire la superficie della questione. L’aspetto più profondo del ricorso odierno al concetto di scontro di civiltà però può essere colto a partire dall’osservazione che nella situazione attuale esso è stato usato in prevalenza da liberal, desiderosi di mostrare che quella che si sta svolgendo in Ucraina è una guerra tra democrazia e autocrazia, ossia da quella cultura politica che, giusto venti o trent’anni fa, aveva avversato l’introduzione di questo concetto. Non credo che questo cambiamento sia dovuto a un ricorso strumentale a esso per giustificare alcune scelte attuali, ma a un’evoluzione politica autentica sempre all’interno di una coscienza ideologica imperialista: in altre parole sarebbe ritenuto più adatto alle necessità politiche e strategiche nell’attuale fase di guerra. Infatti la cultura politica liberal negli anni novanta aveva criticato questa nozione non in quanto imperialista, ma in nome di un’altra ideologia imperiale, quella che indicava negli Stati Uniti i garanti e promotori della legalità internazionale, che puniscono ed emarginano quegli stati canaglia che non accettano il nuovo ordinamento. In quel caso, minacciando gli stati canaglia la pace, diventa legittima la guerra preventiva contro di loro. Oggi semplicemente con equilibri di forza cambiati e perso parzialmente il controllo dei mercati internazionali, l’idea della legalità internazionale non serve più o meglio non è più sostenibile (da qui la critica di parte occidentale all’Onu), ma ci vuole un ritorno all’imperialismo classico. Questo però ci dice non solo che una fase, quella della globalizzazione si è chiusa, ma che si apre una fase di guerra protratta.

Il carattere ideologico e imperialista del concetto di scontro tra civiltà si coglie proprio nell’attribuzione all’imperialismo russo di caratteri radicalmente diversi dalla cultura occidentale, quando è facilissimo rintracciare anche in tempi recenti azioni, strategie e valori del tutto analoghi. In altre parole per spiegare il nazionalismo estremo che ha portato l’entourage putiniano a nutrire la delirante illusione di poter invadere un’Ucraina, controllata da milizie nazionaliste e preparata militarmente (come ha ricordato Merkel, la partecipazione francotedesca agli accordi di Minsk serviva solo a dar tempo agli ucraini di organizzarsi militarmente), senza rischi militari, in una sorta di riedizione dell’invasione della Cecoslovacchia, mandando le sue truppe impreparate incontro alla disfatta subita intorno a Kiev nei primi giorni di guerra, non occorre scomodare Stalin o Gengis Khan, ma basta guardare alle guerre dell’amministrazione Bush in Afghanistan e in Iraq. E’ indubbio che il ricorso al concetto di scontro di civiltà porta il vantaggio di offrire all’opinione pubblica degli occhiali rosa con cui guardare a qualsiasi iniziativa presa dagli Stati Uniti o dai suoi alleati anche in palese contraddizione con i principi liberaldemocratici dichiarati, come dimostra la sostanziale acquiescenza (o forse è più corretto scrivere complicità) all’eccidio di Gaza di questi mesi praticata dall’opinione pubblica liberal.

E, tuttavia, vi è un altro aspetto della guerra in Ucraina che viene a influire sulla concezione dello scontro di civiltà rispetto alla sua formulazione originaria: infatti uno degli aspetti centrali della strategia occidentale era l’affossamento economico della Russia, invischiata nella guerra, tramite sanzioni economiche particolarmente severe. Ora al termine del secondo anno di guerra l’economia europea langue o è in recessione, mentre quella russa ha ripreso a crescere. Questo significa non solo che la maggior parte del mondo non ha seguito Stati Uniti e Unione Europea nella sua lotta, ma che anche le sue classificazioni economiche (vale la pena di ricordare che il PIL della Russia è di poco superiore a quello della Spagna e dunque, secondo gli esperti occidentali, le sanzioni avrebbero dovuto essere devastanti) si stanno rivelando poco credibili per il resto del mondo.

Ora il concetto di scontro di civiltà permette all’opinione pubblica occidentale e occidentalista di andare oltre gli scacchi che la realtà le pone davanti chiudendosi in una sorta di riedizione in forma più transitoria e precaria della coscienza infelice. In questa variante però il piano astratto dell’ideale immutabile non è il mondo celeste, ma un’età dell’oro della globalizzazione, in cui la gente viveva pacificamente di libero mercato, dai tratti marcatamente fantastici, visto che fin dal primo momento la globalizzazione è stata accompagnata dal rombo dei carri armati e degli aeroplani di guerra. E’ chiaro che una costellazione morale del genere crea un terreno favorevole all’accettazione di qualsiasi tipo di avventura militare grazie alla coscienza di essere, sul piano astratto immutabile dell’ideale, dei pacifici difensori dei diritti dell’Uomo, costretti transitoriamente  a usare le maniere forti.

E’ quanto stiamo vedendo a Gaza in questi giorni. La rappresaglia, che ormai per dimensioni non ha più alcun rapporto con l’attacco di Hamas, serve palesemente solo a uccidere più palestinesi possibile per consentire al primo ministro israeliano di mantenere il proprio posto, incurante dell’incendio che sta propagando. Eppure la coscienza infelice occidentale può continuare a raffigurarsi come umanitaria grazie all’idea dello scontro di civiltà e questo è anche l’unico modo per non fare i conti con la disapprovazione del resto del mondo.

Si tratta di una crisi morale in quanto crisi della ragione. E sul piano individuale, oltre a constatarla, c’è ben poco da fare per non esserne coinvolti. Eppure in questo contesto l’analisi politica, la critica dell’ideologia e la lettura materialista dei motivi reali del conflitto, della terza guerra mondiale a pezzi come è stata appropriatamente definita, rifiutando ogni consonanza emotiva non rappresentano solo un barlume di razionalità, un tentativo di restare lucidi, ma anche una linea di condotta etica nel mantenere la barra dritta nella ricerca delle cause e delle responsabilità precise, che è anche un modo, in un mondo che si esprime ormai solo per iperboli, petizioni di principio e grida emotive destinate a giustificare il sangue che sta per essere versato, anzi l’unico modo forse di restare umani.

 

 

Autopoesia

1

di Luigi Socci

 

 

Scrivo di me che scrivo una poesia

in cui ci sono io

che scrivo una poesia

in cui ci sono io

che scrivo una poesia

in cui ci sono io che scrivo

una poesia in cui scrivo

di me che (guarda caso)

mi scrivo una poesia

nella quale ci sono sempre io

che scrivo la medesima poesia

in cui c’è una persona (questa volta)

che scrive una poesia

che vede me come protagonista

che scrivo ancora la poesia di prima

nella quale ci sono più persone

che continuano a scrivere (attenzione)

quella stessa poesia

in cui c’è della gente

che scrive più poesie

(occhio alla variazione)

contemporaneamente.

 

La poesia di cui sopra

che non era finita (per la cronaca)

e di cui questa è la seconda strofa

contiene anche altra gente

che si è intrufolata autoinvitandosi

nella poesia che originariamente

non ne aveva previsto la presenza

(e con cui adesso bisogna fare i conti)

che però nel frattempo

ha scritto una poesia

in cui ci sono io

che mi ritrovo scritta una poesia

in cui di fatto mi ritrovo scritto

senza riuscire a uscirne.

 

Un prodotto finito una poesia

che si scrive da sola si consegna

fatta e finita in tutte le sue parti

senza fare fatica con un netto

risparmio delle ore necessarie

a scrivere questa benedetta poesia

in cui ci sono io

che scrivo una poesia malgrado tutto

servito e riverito nella quale

a mia insaputa sono stato iscritto

(con la tessera numero 178)

come scrittore di una poesia

in cui ci sono io stesso

che mi ritrovo stretto

pigiato nella calca

costretto a stare a stretto

contatto nello spazio ristretto

consentito dalla capienza della poesia

(che come si vede non è infinito)

gomito a gomito con quel manipolo

di imbucati che dice che è sua.

 

Qualcuno deve avermela

usucapita mentre ero distratto

e adesso può disporne

liberamente infatti me la buca

con lo spillo o col sigaro come càpita

me la rivolta contro

di me me la modifica

me la manipola me la edita

la infarcisce intenzionalmente di refusi

la straccia a striscioline

per farle fare brutte figure

le mangia le parole

le sillabe finali me l’azzoppa

non sta più in piedi e me la sgambetta

me la impesta con una puzza

tossica di busta di plastica

bruciata me la espunge

dalle ristampe successive

la correda di note a piè di pagina

per ancorarla al fondo

come una palla al piede me la esclude

dal canone perché non è canonica

la dota di una postfazione critica

che le entra dentro da dietro

e la critica.

 

Scrivo di me

che scrivo una poesia

(mentre gli altri si vanno a divertire)

in cui ci sono io

che scrivo una poesia

(in cui poi altri si divertiranno)

con me all’interno immerso fino al collo

a scrivermi da solo

una poesia in cui sono

per l’esattezza in cui ci sono stato

(e da cui intanto me ne sono andato)

a scrivere da solo una poesia

che è quasi un peccato che è mia.

 

*

Immagine: René Magritte, La reproduction interdite, 1937 (sito Museo Boijmans).

Un tesoro (sperimentale) ritrovato

0

di Roberta Salardi

Giuliano Gramigna, Marcel ritrovato (Il ramo e la foglia, con una nota di Ezio Sinigaglia, Roma 2023, euro 17.)

“Passai portandomi dietro quel segnale di marrone e azzurro. Il mio cuore aveva accelerato, addirittura extrasistoli, ma era una specie di dilatazione euforica come quando ci si mette a correre, poi manca il fiato e ci si sente bene, si sta per scoppiare e ci si sente ancora meglio con energie intatte. Galoppavo a cavallo della mia nevrosi: sindromi spastiche dell’apparato digerente, neurosi splancnica, stipsi spastica, neurosi cardiaca e vasale, instabilità circolatoria, vertigini, distonie funzionali degli ipotesi, iperemesi, vertigini labirintali, mal di mare, affezioni del sistema nervoso extrapiramidale, colangiopatie, disfagie esofagee, vomito, acroasfissia, acroparesia, claudicazione intermittente (…) travaglio di parto eccetera, a cavallo non guarito ma in certo senso esultante. Anch’io avevo avuto quei capelli castani sulla fronte, la pelle nuova con la peluria bionda dietro le mandibole scampata al primo, ostinato rasoio; naturalmente senza rimpianto, però come mi erano piaciuti nei primi dieci, trenta secondi che li avevo incrociati. Neppure Marcello era sempre stato il manichino-a-successo del Tennis Club: per non dire niente altro, oltre le guance giovani, i muscoli elastici, l’aria di cuccioli, eccetera, c’erano state anche le speranze del ’45. Un momento di eccitazione non romantica ma proprio fisica, un’estasi corporale, una scossa elettrica data dalle cose, come inspirando nel momento che scrivo di me e di Marcello l’aria limpida, sottozero di Milano 8 gennaio 1967, dove sembra di stare quasi a Irkutsk.” (pag 266)

Nel romanzo circola l’aria libera, frizzante e innovativa degli anni Sessanta. Uno dei primi segnali che ci avvisano di trovarci di fronte a uno scrivente alla ricerca di un proprio stile fuori dalle convenzioni è lo scivolamento dalla terza alla prima persona; prima persona, quella del protagonista Bruno, dubitativa, inquieta e dispettosa.

La vita borghese, impiegatizia e affaristica di Milano, inquadrata nella prima parte del volume, verrà ben presto lasciata alle spalle dopo la rappresentazione di qualche cena e dialogo irritanti per il protagonista, il quale si accinge a scrivere un nuovo romanzo ma non sa ancora come. L’occasione di un viaggio a Parigi offertagli dalla necessità di aiutare un’amica amata in gioventù, il cui marito pare volatilizzatosi nella Ville Lumière, viene colta dal protagonista come chance per sbloccare la situazione penosa in cui pare impantanata la sua vita.

A Parigi nuove sensazioni ed emozioni danno subito al personaggio uno slancio inaspettato. La varietà linguistica e dialettale sperimentata nelle prime pagine si arricchisce dell’invenzione di neologismi italo-francesi (per esempio a pag 182: “buttechaumontando, menilmontandosi con un frémicourt, lafayettato, senza courcellare un montsouris”). Bruno precisa: “Uso diverse lingue ma non per colore locale: come Ennio ho due o tre cuori e cioè nessun cuore: meticcio al massimo, se mai ve ne furono…” (pag 259). La questione dell’identità molteplice, che s’intreccia a quella delle nevrosi, si rifrange in molte pagine del libro. È messa in evidenza da Ezio Sinigaglia nella sua ampia nota al testo, accanto alle preziose osservazioni sugli autori di riferimento, dichiarati e criptici. Sinigaglia fa presente che non solo Proust è il maestro che s’aggira come un fantasma nell’opera. Il protagonista si trova invischiato in un rapporto irrisolto col padre morto di recente e la sua condizione pare molto simile a quella dello Zeno di Svevo. A questo si potrebbe aggiungere che il gusto per il plurilinguismo, per i giochi verbali e per lo slittamento dalla terza alla prima persona era anche di Joyce.

Il libro che sta venendo fuori non sarà d’impianto prettamente sociologico o sentimentale, come sembrava nella prima parte, sempre più dissestato dai tic nevrotici del narratore, che giunge a curiosamente lamentare, anche dopo la full immersion nella stimolante Parigi, una sua insofferenza per la propria stessa scrittura: a pag 195 fa dell’autoironia quando dice che scappa dal foglio bianco e inventa continue fughe minime “da questo pensum (peso? vuoto?)”, dall’impegno di scrivere. Il centro sarà l’io, la sua complessità e inafferrabilità, con annesse e connesse le difficoltà dei rapporti, l’incertezza delle conoscenze, la fragilità delle situazioni e via di seguito con le tematiche care a tanti romanzi del Novecento. Non mancheranno episodi derivati dalla vita quotidiana né incontri con personaggi poco affascinanti e poco “romanzeschi”: “… il romanzo è una pompa aspirante, pompa tutto, tutto gli fa brodo” (pag 234).

In un capitolo che inizia già in modo singolare (con la lettera minuscola e con il periodo che prosegue dal capitolo precedente senza soluzione di continuità) si susseguono pagine a ritmo accelerato (pagg 256-259), in coincidenza con la visita a Versailles, fonte di una nuova emozione del tutto differente dalle precedenti, “semplice chimicamente e subito trasformata in conoscenza”. È allora che Bruno riesce finalmente a “calettare” dentro gli anni-vita gli anni-lettura, secondo il metodo proustiano descritto con mirabile sintesi alle pagine 187-188 (che citerò).

Disseminati un po’ dappertutto sono i riferimenti al maestro per eccellenza, a cominciare dal titolo e dal nome del personaggio amico, Marcel, sulle piste del quale ci si mette alla ricerca. Tra i maggiori riferimenti alla Recherche svettano, a mio parere, la decisione del protagonista di scrivere il romanzo al termine del libro, come avviene nel settimo dei sette volumi della Recherche, e una sintesi efficace di quale sia il significato essenziale della maggiore opera proustiana: “Nella sua dilatabilità infinita di calderone dove bollivano un po’ tutte le carote e sedani e fagioli e cotiche del reale, la Recherche gli era sembrata, probabilmente, l’ideale stampo interpretativo. Qui Bruno sentì quella scossa un po’ agra, mista di compiacimento e delusione tipica di quando si va vicino a una verità senza acchiapparla del tutto. Ma poi: interpretativo di che cosa? non semplicemente della vita o della letteratura ma piuttosto del modo di percepire e di organizzare la vita. La Recherche, a ben guardare, è una tecnica percettiva e strutturatrice: la sua grandezza sta tutta qui e sfido che deborda insieme vita e letteratura e lascia di stucco critici ed esteti. Un metodo per prendere coscienza di tutte le zone della realtà e ipotizzarne una struttura completa dove tutto si tiene (…) La méthode o techne proustiana è insieme parcellare e organica. Riconoscere alla Recherche questa natura di metodo (…) è il massimo elogio. (…) Insomma: dalla Recherche non si esce dicendo: vivrò così o: scriverò così, ma: ho tra le mani un esempio di sistema per percepire l’insieme dell’esistenza e rilevarne in ipotesi le strutture significanti” (pagg 187-188). Starà al lettore fare tesoro dei suggerimenti di Gramigna e dei suoi maestri per rendere migliore la qualità della sua vita.

 

 

Variazioni sull’estinzione: Gosselin legge Bernhard

1

 

di Giovanni di Benedetto e Milène Lang

 

  1. Prima della fine

Ogni mattina, attraversando il Périphérique, il grande raccordo anulare che collega le porte di Parigi alla periferia, mi capita di immaginare la fine del mondo. Dal finestrino della RER, il paesaggio parigino, la Senna, Notre-Dame e le altre immagini-cartolina, si scolla dallo sfondo non appena il treno regionale si inabissa nel tunnel della Gare d’Austerlitz. È questo il momento dello slittamento. La legge della relatività si manifesta con tutta la sua evidenza empirica. La percezione temporale della distanza percorsa è totalmente alterata. La banlieue è una remota isola ai confini dell’Impero. Lo scorso anno, durate il tragitto per il lavoro, due libri hanno contribuito all’insorgere delle allucinazioni che mi hanno portato a pensare, quotidianamente, alla fine del mondo: La Fin de l’homme rouge (Tempo di seconda mano) di Svetlana Aleksievič e Le Monde d’hier (Il mondo di ieri) di Stefan Zweig. Due libri che raccontano la stessa storia, la fine di una civiltà, col fare proprio dell’archeologo o del filologo: (ri)stabilire, attraverso un’indagine propriamente materialista, le ipotesi di un testo (la Storia), inventariando e collazionando le differenti voci. L’idea che la storia non proceda in orizzontale ma seguendo la forma della spirale. Hölderlin, Novalis, Goethe, Von Hofmannsthal, Schopenhauer, Mahler, Schönberg sono gli smottamenti che anticipano un’eruzione (il Nazismo), alla stessa maniera in cui la fine del comunismo anticipa la guerra a venire e la prossima estinzione di massa. L’inceneritore di Ivry-sur-Seine sfila nel paesaggio e si trasforma negli abitati popolari in cemento armato, nelle villette a schiera degli appezzamenti lottizzati nei quali le strade si sovrappongono con quelle dei villaggi della periferia di Chernobyl, nel volto dei lavoratori che attendono sulla banchina, impazienti, il passaggio del prossimo treno, desiderando che il tempo acceleri all’inverosimile nonostante il rischio che l’accelerazione sia così rapida da portarli dritti verso la tomba, e poi, ancora, nel grande snodo ferroviario di Juvisy, dove scendo. Mi incammino verso la scuola dove insegno. Faccio l’appello e guardo i visi dei bambini che assisteranno al crollo dell’Impero.

L’estate scorsa, su una spiaggia a Cefalonia, mentre eravamo bruciati dall’azzurro del sole, osservo Milène leggere un libro di Thomas Bernhard. Il sale corrode la pelle come il piombo. Milène inizia a leggermi una pagina ad alta voce. Inondato dalla luce, o dalla cenere. Così la immagino, l’estinzione.

 

  1. Osservazioni sulla fine

In questo nuovo spettacolo, della durata di oltre quattro ore, Julien Gosselin presenta un trittico di tre testi letterari, come altrettante variazioni sul tema dell’estinzione. Dopo aver messo in scena Le particelle elementari di Houellebecq, 2666 di Roberto Bolaño, Giocatori, Mao II, I nomi e L’uomo che cade di De Lillo,  ancora una volta, Gosselin raccoglie con audacia la sfida dell’adattamento teatrale di testi narrativi: la Traumnovelle (1926) e Fraülein Else (1924) – due racconti della Vienna crepuscolare di Arthur Schnitzler – e l’ultimo romanzo di Thomas Bernhard Auslöschung (1986), si intrecciano di fronte a un pubblico spinto, a tratti, a rifugiarsi nella propria trincea del posto in platea e, allo stesso tempo, invitato a spingersi oltre i propri limiti.

 

Lo spettacolo inizia con una festa in una discoteca, a Roma, sul finire degli anni Ottanta. Il pubblico è chiamato a partecipare, essendo letteralmente invitato sul palco dove Guillaume Bachelé e Maxence Vandevelde mixano in diretta un set di musica transe che coinvolge e consuma sia i partecipanti che gli attori che gradualmente prendono possesso della scena. La mise en abyme è vertiginosa: sul palcoscenico si svolge una festa a cui assiste il pubblico rimasto in tribuna, ma a cui i partecipanti diventano rapidamente estranei, perché è anche la festa dello spettacolo.  I partecipanti diventano così a loro volta spettatori degli attori e di sé stessi. Tutti guardano gli altri e sé stessi, in una transe crepuscolare filmata in diretta e proiettata su schermi giganti che sovrastano la scena-pista da ballo.

Spingendo al limite un’estetica che aveva già sperimentato negli spettacoli precedenti, in particolare in Le Passé del 2021 (adattamento di una serie di racconti di Leonid Andreïev), Julien Gosselin fa del secondo atto dello spettacolo una danza macabra della Vienna crepuscolare di fine secolo, per parafrasare un altro testo di Schnitzler. Questa parte dello spettacolo, a porte chiuse, è completamente filmata e proiettata sugli schermi. Il pubblico è portato a vivere l’esperienza tipica del voyeur, quella dell’osservatore partecipe e non partecipante, osservando dalle finestre e le porte della casa/huit-clos, i personaggi e il valzer di desideri, di pulsioni scopiche, di passioni di una società al suo apice, alla vigilia della sua estinzione, quella che sarà provocata dallo scoppio della Prima Guerra Mondiale e che si manifesta improvvisamente, sul finire del secondo atto, come un terremoto. Termina così la rappresentazione dei due testi di Schnitzler.

 

 

Nello spettacolo, così come nei due racconti dello scrittore viennese, il sogno, le fantasie, il desiderio, i fantasmi (come quelli convocati nell’ultima parte) e le false apparenze hanno un’importanza centrale: ricordiamo a tal proposito che l’azione della Traumnovelle si svolge durante il carnevale, periodo propizio al disordine dei sensi, allo scambio dei ruoli, al turbamento e al ribaltamento delle verità. Tutto questo è incarnato dalle prestazioni degli attori, e in particolare, dalla performance di Marie Rose Tiejten, attrice della compagnia Volksbühne di Berlino, in grado di far rivivere lo spirito delle rappresentazioni dadaiste e quelle di Kurt Schwitters in particolare. Le maschere che indossano Florestan e Albertine dopo la prima estinzione del desiderio coniugale (o il suo ultimo fuoco?), interpretati da Denis Eyriey e Carine Goron, ci raccontano la mascherata di questa serata dove alla fine tutto potrebbe benissimo essere solo una commedia, una farsa, un ruolo da recitare di fronte all’abisso delle passioni e alle profondità oscure dell’anima umana, che risuonano anche nei poemi di Hofmannsthal recitati più volte nel corso della rappresentazione tramite l’utilizzo di un vero e proprio collage testuale.

 

 

Gli anni Venti segnano anche la nascita viennese della psicoanalisi e l’attrazione per il mesmerismo e l’ipnosi. Ancora una volta uno spettacolo nello spettacolo, come un sogno nel sogno. La mise en abyme e il ritorno alla cornice narrativa del primo atto diventano così la variazione teatrale della sfocatura mantenuta da Schnitzler nel suo racconto, come lo sguardo di Nicole Kidman alla fine di Eyes Wide Shut di Kubrick (tratto anch’esso dalla Traumnovelle di Schnitzler). Abbiamo particolarmente apprezzato l’originalità dell’adattamento, che è riuscito a farci dimenticare Kubrick così come le trasposizioni cinematografiche di Fraülein Else, in un secondo atto che intreccia le due trame narrative, senza intoppi e senza forzare i testi. Perché sul palco si vede, soprattutto, una vera e propria celebrazione della letteratura, una dichiarazione d’amore per essa. Le parole, in francese come in tedesco, risuonano con furore, anche se l’ultima parte, dedicata propriamente all’ultimo romanzo di Thomas Bernhard, Estinzione, interroga, tuttavia, la possibilità stessa di concepire una parola feconda. Rosa Lembeck (della Volksbühne di Berlino anch’essa) riprende quindi, da sola sulla scena, il testo di Bernhard per chiudere il ciclo con un lungo monologo che esalta le sua qualità interpretative. In una chiusura che, tuttavia, non è tale, poiché se la letteratura distrugge tutto, se il teatro distrugge tutto nelle parole dell’attrice che si alza e recita, entrambi fanno emergere una luce. La stessa luce che coesiste in Nietzsche, dove si combinano eterno ritorno, nichilismo e superuomo in una rivoluzione che nasce dalle ceneri di un fuoco appena estinto.

« Les mots allemands sont suspendus comme des poids de plomb à la langue allemande, et maintiennent à chaque fois l’esprit à un niveau nuisible pour cet esprit. La pensée allemande ainsi que la parole allemande sont très vite paralysées sous le poids humainement indigne de cette langue qui opprime toute pensée avant même qu’elle se soit exprimée ; dans la langue allemande, la pensée allemande n’a pu se développer que difficilement et jamais s’épanouir pleinement, contrairement à la pensée romane dans les langues romanes, comme le prouve l’histoire des efforts des Allemands durant des siècles. Chaque mot, tire leur pensée vers le bas, inéluctablement, quelle qu’ait pu être leur pensée chaque phrase l’écrase, écrase toujours tout. Aussi leur philosophie, de même que leur poésie, est-elle comme du plomb ».

 

  1. Dopo la fine

Al termine dello spettacolo, prima di rientrare a casa, fumiamo una sigaretta davanti al teatro, facendo attenzione a ben ripararci dalla pioggia scrosciante sotto i portici del Théâtre de la Ville, nella Place du Châtelet. Julien Gosselin esce dal teatro e si mischia anch’egli alla nostra confraternita incappucciata. Gli chiedo se lo spettacolo sarà messo in scena anche in Italia, magari a Roma, dove è in parte ambientato. Mi risponde che prossimamente Extinction girerà per l’Europa, ma che no, in Italia non arriverà. Durante il Festival di Avignone il Teatro Piccolo di Milano si era detto interessato ed entusiasta dal progetto, ma, per farla breve, niente soldi. La periferia dell’Impero è la prima a cadere. (Nota: questo non è un appello. Leggerla alla maniera di Magritte).

Prima di prendere la metro, facciamo due passi sul lungosenna. L’immensa gru che sovrasta il cantiere della cattedrale di Notre-Dame è ancora più bella, stasera, della guglia di Viollet-le-Duc.

«Parigi è un luogo ideale per un’estinzione come quella che ho in testa», sussurro gettando via la sigaretta. Milène alza il viso dall’asfalto bagnato e mi guarda perplessa, chiedendomi cosa voglia dire, prima di iniziare a scendere nella profondità sotterranee della terra e attendere.

*

Trailer: https://youtu.be/tBynqVZjt0Y?si=hHWPOQYREAsnPnxv

Estratti dello spettacolo messo in scena durante l’anteprima al Festival di Avignone: https://theatre-contemporain.net/embed/bsb4x1Ql

*

Extinction

Théâtre de la Ville – Sarah Bernhardt e Théâtre Nanterre-Amandiers, CDN

29 novembre – 6 dicembre 2023

Testi: Thomas Bernhard, Arthur Schnitzler, Hugo von Hofmannsthal

Adattamento e messa in scena: Julien Gosselin

Traduzione dal tedesco al francese: Henri Cristophe, Philippe Forget, Pierre Galissaires, Gilberte Lambrichs, Anne Pernas, Jean-Cristophe Schneider, Francesca Spinazzi

Interpreti: Guillaume Bachelé, Joseph Drouet, Denis Eyriey, Carine Goron, Zarah Kofler, Rosa Lambeck, Victoria Quesnel, Marie Rosa Tietjem, Maxence Vandevelde, Max Von Mechow

Scenografia: Lisetta Buccellato

 

Da “Récupération du sommeil” / “Il recupero del sonno”

1

di David Lespiau

traduzione di Laura Giuliberti con David Lespiau

[La sezione è tratta da: David Lespiau, Récupération du sommeil, Éditions Héros-Limite, 2016]

IV

 

La perdita di animalità nel bosco

la sezione dei pollici con una lama

 

non c’è una guaina ritmica

del gilet tattile

del suono

gradualmente

*

 

posizione delle orecchie

 

tempo morto all’avvio di musica da suspense

 

scia di stelle grafiche

 

esplosione di piumino

*

 

— col passar delle ore

stazione tecnica

il mistero si infittisce —

*

 

ora Topolino si è guantato — mano alla zampa, guanto gonfio

Pluto anche no, sogna di venire

nel culo arrotondato nero di Minni

deformato dalla penetrazione

una diarrea

*

 

mano di Topolino guantata quindi

guanti bianchi a quattro dita che si toccano

la verga grigia nera topo suppongo

con sperma a mazzi percussivi proiettivi

*

 

per il momento

scompone il suo movimento nell’insieme

coda di rondine

bombetta

*

 

la prospettiva della velocità è scaglionata

nel superamento degli oggetti

più veloce in primo piano e per decelerazioni successive

degli oggetti fino allo sfondo dell’immagine della foresta

costeggiati gli allineamenti d’alberi definiscono dei piani

continuamente sfocati a tratti

nella traslazione di punti di fuga

del campo visivo

*

 

in questo flip-book d’alberi

quando Pippo pensa piuma, polvere

Sig. Paperino e Sig. Topolino fanno massa come ombre

successivamente

impegnata nella felice vendetta

la musica d’animazione

è allora Minni

in stonato decalco

*

 

l’avventura che sfalsa

il suo slancio così

ci accorda

di cedere dello sperma

contrariando il suo piano

*

 

la non-usura

l’assenza di attrito

il diversivo appianato della Terra

mappamondo disegnato a colori nel treno

ci deteriorano ad alta velocità, dicono

notando l’accumulo di pelle morta sul suolo

(…)

∴ ∴ ∴

IV

 

La perte de l’animalité dans les bois

la section des pouces avec une lame

 

il n’y a pas de gaine rythmique

au gilet tactile

du son

graduellement

*

position des oreilles

 

temps mort à l’envoi de musique de suspens

 

traînée d’étoiles graphiques

 

explosion d’édredon

*

 

— au fil des heures

station technique

le mystère s’épaissit —

*

 

puis Mickey s’est ganté — main à la patte, gant gonflé

Pluto non, rêve de jouir

dans le cul rebondi noir de Minnie

déformé par la pénétration

une diarrhée

*

 

main de Mickey gantée donc

gants blancs à quatre doigts branlant

son vît gris noir souris je suppose

avec sperme en grappe percussive projective

*

 

pour le moment

il décompose son mouvement dans son ensemble

queue de pie

chapeau melon

*

 

la perspective de la vitesse s’échelonne

à mesure des objets dépassés

plus rapide au premier plan et par décélérations successives

des objets jusqu’au dernier plan de l’image de la forêt

longés les alignements d’arbres définissent des plans

continûment tremblés par saccade

dans la translation des points de fuite

du champ de vision

*

 

dans ce flip-book d’arbres

quand Dingo pense plume, poudre

M. Donald et M. Mickey font masses comme ombres

successivement

engagée dans la vengeance heureuse

la musique d’animation

est alors Minnie

parfaitement décalquée

*

 

l’aventure qui fausse

son élan par là même

nous accorde

qu’on cède du sperme

contrariant son plan

*

 

la non-usure

l’absence de frottement

la diversion lissée de la Terre

mappemonde dessinée en couleur dans le train

nous détériorent à grande vitesse, disent-ils

remarquant l’accumulation de peaux mortes sur le sol

*

[foto di J. Volniek]

Da poeta a traduttore: la memoria vivificante di Seamus Heaney

2

 

Di Matteo Bianchi

Seamus Heaney fu affine a Giovanni Pascoli ancora prima di conoscerne l’opera. A testimoniarlo con una sinestesia d’antan è il secondo verso del secondo dei Glanmore Sonnets: «Words entering almost the sense of touch» – «parole che quasi penetrano il senso del tatto», tradotto da Paolo Febbraro in Fild Works (1979). E il delicato understatment del “quasi”, il modesto pudore dell’avverbio di quantità, libero da trionfalismi, conferma la polisemia e la completezza sensoriale, ossia il “sensing” tipico del poeta nordirlandese.

L’antologia On Home Ground – Come a casa e Given Notes, il numero 3 (anno II) del semestrale “Laboratori critici”, editi entrambi da Samuele e curati, rispettivamente, da Marco Sonzogni e Leonardo Guzzo, sono incentrati sull’organicità della produzione heaneiana e argomentano come, sia il poeta sia il traduttore, attingano alla medesima radice essenziale. Il Nobel non tradusse mai per professione, anzi, lo considerava un atto prevalentemente pratico e di matrice empatica. Ogni volta che si approcciava a un testo stabiliva con l’autore esaminato una corrispondenza tra l’oggetto da interpretare e un lembo del proprio immaginario; come motiva Irene De Angelis nell’articolo “Come a casa: Seamus Heaney, Derek Mahon e Michael Longley”, Heaney componeva «nella sua casa e della sua casa, nella sua patria e della sua patria», e lo dichiarava sin dal primo distico della sua prima raccolta: «Between my finger and my thumb / The squat pen rests; snug as a gun» – «Tra il mio pollice e l’indice riposa / la tozza penna, comoda come una pistola» (M. Sonzogni, Digging, 1966). D’altronde, era figlio di un contadino, Patrick Heaney, e lo diventò lui stesso sostituendo la penna alla vanga, ma senza scordare l’attitudine di scavare, l’umiltà di adagiare l’orecchio al suolo per poi andare in profondità e mantenere vivido il contatto con la terra originaria.

Nella foto in copertina a On Home Ground, scattata da Bobbie Hanvey in una torbiera di Bellaghy, il borgo natio in Irlanda del Nord, nel 1986, Heaney impugnava il bastone del padre, e ne indossava cappotto e cappello: il poeta indossa simbolicamente gli abiti di chi lo ha preceduto, di chi lo ha cresciuto, pur non avendone più bisogno – diversamente da ciò succedeva abitualmente sino agli anni Cinquanta del XX secolo, specie in un contesto povero – prendendosi amorevolmente carico delle spoglie altrui, e coltivandole mentre si sdruciscono nuovamente all’aria fredda della campagna irlandese. Svestendosi del giudizio del presente, Heaney si assumeva la responsabilità di tramandare qualcosa: «All that “Do unto others / As you would have done unto you”? / Mistaken? Virtue?» – «Tutto quel “Fa’ agli altri / ciò che vorresti fosse fatto a te”? / Un errore? Virtù?» (M. Sonzogni, On the gift of a fountain pen, 2013). Parallelamente, nella lirica pascoliana la figura paterna è onnipresente nella sua tragica assenza. Un’assenza bevuta talvolta con voluttà, il pianto delle stelle di San Lorenzo che in silenzio ha agito dentro Heaney durante la lettura, mescolandosi alla sua musa più gutturale e più virile.

 

DENTRO LA CONTRADDIZIONE

Con l’inchiostro Heaney portava sul foglio il frutto di uno scavo interiore, filologico, perché sentiva che le parole lo perquisivano: le sue origini rurali avevano ingenerato in lui un profondo senso di colpa. Sin dall’esordio era stato cosciente dei tratti di superiorità e di inferiorità della lingua madre, della dialettica che s’instaurava nel frangente della scrittura tra potenza e insufficienza linguistica di fronte alla stratificazione della realtà; perciò la faceva echeggiare, nominando e convocando la materia sulla pagina. Se da poeta Heaney scriveva “a casa”, da traduttore lo faceva “come a casa”. E Come a casa è la traduzione che Leonardo Guzzo da infedele, ma veritiero, rende del titolo della lectio magistralis tenuta all’Università di Bologna, nel 2012, per il centenario della morte di Pascoli: letteralmente “su un terreno familiare”, se si rinunciasse all’immediatezza e all’icasticità della lingua inglese. “Come a casa” condensa, perciò, il bisogno del poeta di entrare nella dimora immaginifica altrui e di arredarla con il proprio mobilio esistenziale, tastando così la familiarità indispensabile per praticare l’atto della traduzione. L’incontro tra Heaney e Pascoli non fu volontario, ma per questo non meno fatidico: nel 2001, il poeta si recò a Urbino per ricevere una laurea Honoris Causa e l’amica docente Gabriella Morisco gli fece leggere pubblicamente L’aquilone. Proprio la sovrapposizione tra l’aquilone lanciato in volo dai bambini pascoliani e il colle ventoso marchigiano, tra un passato remoto e un’anonima contingenza, gliene ricordò un altro dalla lunga coda, un correlativo oggettivo “fatto in casa”, in carta pesta, involato proprio dal padre Patrick di fronte alla truppa dei suoi figli piccoli in libera uscita. Ma ancora, in conclusione alla lirica pascoliana risalta tragico un bimbo che muore, mutando improvvisamente l’atmosfera dei versi, che non poteva non agganciarsi alla scomparsa di suo fratello, all’età di quattro anni, a causa di un incidente, e al quale il poeta dedicò Mid-Term Break, che pure è contenuta nella raccolta del ’66, Death of a Naturalist: durante la guerriglia civile a Belfast e nonostante la conseguente sofferenza che si aggiunse alla precarietà di quel periodo storico, il poeta sceglieva un titolo sentitamente contradditorio. In Morte di un naturalista si staglia sia l’esigenza di andare oltre il reale impostoci dalla vista, sia l’incapacità di poterlo fare coerentemente. È doveroso distinguere qui l’atto volontario di ricordare un dettaglio utile al compimento di un’azione abitudinaria – un debito di coscienza – dalla memoria involontaria che si compone del dimenticato quotidiano, che non serve strettamente per vivere, ma che risorge proustiana con moti inaspettati.

 

IL GERUNDIO DEL VERBO “MORIRE”

L’uno e l’altro, immersi in due secoli precari e violenti, si fecero sopraffare dagli affetti: ognuno a suo modo rispondeva al fallimento della storia maestra con il proprio segmento personale e procedendo per allusioni spesso non immediate, evitando che lo strazio del presente finisse per ricattarli. L’unico modo condiviso affinché le parole non morissero, espunte da un tempo immemore e aggressivo, fu proprio proiettare su di esse i rispettivi affetti.

Nel laboratorio di Heaney la fase della traduzione era anticipata dall’incorporazione: l’aveva già vissuto con Virgilio, praticando così un esercizio di riconoscimento fuori da qualsiasi gogna temporale: prendeva dei versi di Pascoli, parimenti a quelli prelevati dal Libro Sesto dell’Eneide, e li inseriva nel componimento che avrebbe sigillato la sua Human Chain (2010). Un componimento che Heaney destinò ad Aibhín, nome gaelico con cui la nipotina veniva appellata in famiglia, che invera la tradizione orale del suo bacino culturale. Egli decise di destinarla a lei in quanto rappresentazione di un lascito immateriale, letterario ma prima di tutto umano: «Rises, and my hand is like a spindle / Unspooling, the kite a thin-stemmed flower / Climbing and carrying, carrying farther, higher» – S’innalza, e la mia mano è come un fuso / che si svolge, l’aquilone un fiore dallo stelo sottile / in ascesa, e porta lontano, più e più lontano, più in altro» (Luca Guerneri, A kite for Aibhín, 2010). I versi pascoliani donati simboleggiano un’eredità valoriale che lo aveva preceduto, ricevuta in dono da altri, e che avrebbe dato seguito alla cosiddetta “catena”. Solo in un secondo momento sopraggiunse la decisione di tradurre integralmente L’aquilone, tendando di riprodurre, sebbene con inventiva, l’endecasillabo pascoliano e la terza rima. Fronteggiare un’armatura metrica tanto resistente nel tempo fu per lui un esercizio tecnicamente difficile, che lo spronò a mettere in campo una strategia creativa e ad attuare delle forzature. Dietro un’apparenza talvolta emozionale e naturalistica, Pascoli era un poeta fono-simbolista che lavorava caparbiamente a una rimotivazione, a una rifondazione della lingua: stando a Tradurre è abitare la poesia, l’intervento di Federica Massia che segue le versioni pascoliane, egli voleva ritrovare il significato delle parole attraverso il suono, anticipando il contenuto semantico che veicolano.

 

LETTERATURA ED ESPERIENZA

Heaney scelse sempre le poesie di Pascoli in base al rapporto che riusciva a istituire con esse, non limitandosi a un segmento della sua esperienza personale, ma attingendo anche a quella letteraria. Possedeva una memoria gorgogliante e l’esempio più calzante rimane La cavalla storna (1903): il punto di contatto tra i due autori avvenne tramite il ricordo di una canzone popolare del Settecento, il lamento di Airt Uì Laoghaire, nel quale la moglie Eibhlìn canta la morte del marito, un giovane capitano irlandese ucciso da una pattuglia di soldati inglesi – la medesima contrapposizione che ritorna fatale nei Troubles della sua prima infanzia – e il cui cadavere viene lasciato senza riguardi sul ciglio della strada. Il cavallo che dovrebbe riportarlo a casa, torna da solo con le briglie insanguinate: la moglie le nota e angosciata dal presagio mortifero, monta in groppa all’animale per ripercorrere al galoppo la strada a ritroso e raggiungere il marito. La canzone incalza: «senza papa o vescovo / o chierico o curato / a mormorarti preci, / solo una vecchia al tuo fianco», avvolta nel suo manto ad annunciare la morte. La moglie si inginocchia di fianco al corpo trucidato, con il sangue che scorre ancora a fiotti e non lo pulisce, bensì la raccoglie nei palmi per berlo. Si tratta di un dettaglio fosco, macabro, che non si coniuga con l’immaginario del rigoglio pascoliano, ma fu utile a Heaney per comprendere il sentimento depositato nel testo. Non a caso, il Nobel confidò a Paolo Febbraro, convogliato tra i traduttori dell’Oscar Mondadori a lui recentemente dedicato, che l’erotismo del poemetto Digitale purpurea (1898) l’aveva conquistato: rispetto a D’Annunzio, Pascoli era più sensuale, anche se in maniera più segreta, più turbata, e dunque più efficace nel frantumare la tenuta del verso tramite il dialogo nell’hortus primigenio tra la bionda Maria e la bruna Rachele, tra la presunta conservazione e l’adempimento fantastico-carnale della sensualità. La resa di Heaney nello schioccante monosillabismo anglofono riesce a sconfinare nel senso del tatto: « “Maria!” “Rachele!” The hands of both are pressed / Together tighter still. In that moment they have seen / Their childhood, the dear world of the past» – «“Maria!” “Rachele!” Un poco più le mani / si premono. In quell’ora hanno veduto / la fanciullezza, i cari anni lontani».

 

UNA LINGUA PER UNA MOLTITUDINE

Nella premessa alla sua traduzione al Libro Sesto Heaney afferma di porsi nei confronti del testo antico «come uno studente su una versione di latino». È un approccio amatoriale, ma nell’accezione più alta del termine: l’approccio di un amatore, di colui che cerca di cogliere le pulsioni recondite, oltre qualsiasi nozione e struttura linguistica. Di certo, per lui rimase un deficit che compensava con l’ampiezza della sua sensibilità: fino alla fine Heaney si definì un “apprendista traduttore” come Hemingway si definiva un “apprendista scrittore”, poiché entrambe sono attività espressive eternamente in fieri, ed era consapevole di essere un modellatore imperfetto di una materia per sua natura instabile, perfettibile. Quando non poteva salvare le parole, Heaney tentava di salvare il senso, sino ad arrivare al sentimento del verso, mediando sempre tra la voce, il portato poetico e l’idea di bellezza della fonte. Accostandosi ai poeti italiani pure nella difficoltà di comprensione, a cominciare dall’idioma dantesco, era conscio di compiere anche un’operazione politica, di essere al culmine del suo digging: giunto all’humus comune da culture diverse, quali quella nordica e quella mediterranea, trovò un punto d’accordo tra sedimenti antropologici superficialmente inconciliabili. La possibilità di una conciliazione grazie al linguaggio, in quanto ricerca incessante di un terreno condivisibile tra popoli, è la missione di ogni intellettuale, secondo Heaney, nonché la speranza irrinunciabile dell’intera civiltà.

 

L’ultima formazione titolare della Cecoslovacchia ai Mondiali

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di Lorenzo Mari

Per molti anni, almeno fino al 2005, Giuseppe era stato considerato all’unanimità, Giuseppe compreso, come lo scemo del paese di P***.

Ma non era vero.

Giuseppe era scemo, se si vuole, ma non era l’unico in paese. Toni, almeno, diceva questo: Giuseppe non era l’unico.

Bastava guardare ai risultati delle elezioni negli ultimi anni, diceva, oppure ascoltare le storie su questo o quell’altro personaggio nativo di P*** o del vicino paese di San F*** e guardare negli occhi chi si faceva latore di questa o quella vicenda. Scemo, in quel caso, era almeno uno dei due: chi raccontava la storia o chi ne era protagonista, e a volte tutt’e due, per non parlare di chi stava ad ascoltare.

Probabilmente, diceva Toni, era sufficiente contare il numero di persone che andavano in chiesa o in sezione, spesso intrecciando le strade – un fatto sempre possibile in un paesino molto piccolo e perennemente afflitto da una nebbia impenetrabile in pieno stile
ventesimo secolo – e guardarle confondersi lungo il percorso. Frotte di persone sconfitte dalla nebbia che varcavano un portone indistinguibile e finivano per ascoltare un’omelia diversa dal previsto, storcendo, chi più chi meno, il naso.

Toni, però, ce l’aveva con tutto e con tutti, in paese e fuori, toccando nelle sue sfuriate qualche nativo di G*** e un sacco di politici e calciatori; non era sempre affidabile, di conseguenza, anche se era spesso in grado di strappare una risata a chi si prendeva la briga di ascoltarlo.

Magari, poi, gli episodi che s’inventava non erano successi davvero, ma era in ogni caso acclarato che Giuseppe fosse considerato all’unanimità lo scemo del paese di P***, e questo si doveva, in primo luogo, al fatto che a differenza di tutti i compaesani, inclusi i nativi di San F*** e G***, sapeva a memoria la formazione titolare della Cecoslovacchia ai Mondiali di Italia ’90.

Stejskal, Bielik, Kadlec, Hašek, Kocian, Bílek, Straka, Chovanec, Moravčik, Skhuravy, Knoflíček.

L’ultima squadra di calcio della storia della Cecoslovacchia.

Giuseppe, però, non era un nostalgico: recitava i nomi dei calciatori cecoslovacchi di punto in bianco, interrompendo una qualsiasi conversazione, guardan­do fisso nel vuoto, oltre il gruppo dei presenti, e alzando il bicchiere, quando beveva, in un brindisi immaginario. A dire il vero alzava il bicchiere anche quando non beveva, e se si trovava per strada si metteva a guardare eroicamente l’orizzonte, nebbia permettendo. E malgrado la posa da eroe dei film di una volta, non era un nostalgico nemmeno da un punto di vista più squisitamente cinematografico. Quanto ai nomi, li diceva a raffica, senza sbagliare una pronuncia.

Stejskal, Bielik, Kadlec, Hašek, Kocian, Bílek, Straka, Chovanec, Moravčik, Skhuravy, Knoflíček.

I suoi compaesani, fatta eccezione per i malati e i coscritti del pallone, si ricordavano soltanto di Skhu­ravy e non avevano mai controllato che la formazione snocciolata da Giuseppe fosse effettivamente quella giusta.

Solo una volta, si ricordava Toni, c’era stato qualcuno che aveva avuto l’ardire di contraddire Giuseppe alla fine del suo rosario cecoslovacco.

Era successo in una gelida domenica invernale, al termine di una combattuta ma in fin dei conti noiosa Fiorentina-Inter. Giuseppe era partito in quinta, passando in rassegna la formazione della Cecoslovacchia ai Mondiali di Italia ’90 senza prendere fiato. Le sue cantilene non avevano un obiettivo ben definito, ma in quel caso era parso a quasi tutti i presenti che la tirata avesse lo scopo di interrompere una delle tirate di Angelo sulle malefatte del sindaco del paese di San F***, all’epoca poco apprezzato a P*** per la questione della discarica al confine tra i due paesi.

Erano discussioni infinite che non portavano mai a un risultato concreto, se non a rivangare qualche rancore personale o a rifugiarsi in una battuta sulla Juve di Agnelli o sul Milan di Berlusconi, e poi a una chiosa rassicurante, del tipo “tanto non cambierà mai nulla” o altre variazioni sul tema. Rassicurazione che fu usata anche quella volta, ma durò ben poco, perché Angelo tornò subito alla carica, dicendo a mezza voce ma abbastanza forte da poter essere udito dall’intero consesso di allenatori e agitatori elettorali in riunione plenaria: «Sì, tanto non cambierà mai nulla, ma intanto la diossina cambia le cose».

E a quel punto Giuseppe, con la sua nenia prima in sottofondo poi con un discreto crescendo che aveva zittito tutti: «Stejskal, Bielik, Kadlec, Hašek, Kocian, Bílek, Straka, Chovanec, Moravčik, Skhuravy, Knoflíček».

«E Kubík allora?» sbottò qualcuno dalle retrovie. Franco, probabilmente: l’unico a tifare Fiorentina, e a distanza di anni dal suo trasloco in paese nessuno sapeva esattamente perché. Lui diceva che era per via del prozio materno, il solo della sua famiglia che avesse vissuto in Toscana tutta la vita e che fosse stato un vero tifoso di calcio. Il prozio di Franco era stato il primo e unico famigliare a portarlo allo stadio a vedere la Fiorentina quando lui aveva dieci, undici anni al massimo. All’epoca non era nemmeno intitolato ad Artemio Franchi, era semplicemente lo stadio Comunale.

In effetti Kubík mancava davvero all’appello nelle litanie di Giuseppe, e questo contribuì a zittire l’udito­rio, in attesa di una reazione da parte di Giuseppe.

«Luboš! Luboš Kubík!» disse Franco alzando progressivamente la voce e dando l’impressione di una maggior sicurezza di sé, sfoderando per di più un accento cecoslovacco che, anche in quel caso, nessuno parve in grado di contraddire.

Seguì una pausa di silenzio, e poi la voce di Franco che snocciolava vita, morte e miracoli di Luboš Kubík, centrocampista “di sostanza”, come si diceva all’epo­ca, e forse si dice ancora, all’interno di una linea mediana che rasentava la perfezione, insieme a Dunga e Iachini. E poi Baggio, naturalmente.

Kubík aveva segnato una doppietta al Pisa in trasferta, nel derby espugnato per quattro a zero nell’ot­tobre del 1990, con la curva che qualche tempo dopo si era messa a cantare “Attenti al Luboš”, in uno stralunato, rumoreggiante omaggio a Kubík, ma anche a quel Lucio Dalla che era, com’è noto, tifoso di un’altra squadra con la quale c’era un derby ancora più sentito di quello con il Pisa.

«Ai Mondiali Kubík ha pure fatto gol al Costarica, non ricordi? Come fai a non ricordarti se reciti a memoria la formazione, per filo e per segno, della Cecoslovacchia?»

La frase si era andata via via spegnendo, come se Franco, a metà della sua sfuriata, avesse colto negli occhi di Giuseppe una ferita ancora più viva di quella che esibiva quando alzava il bicchiere. Non soltanto le parole di Franco si ritirarono, ma anche il suo corpo tornò languidamente a scivolare sulla sedia del bar, abbandonando il tavolino che aveva appena preso d’assalto. In fondo, la guerra è la continuazione del calcio con altri mezzi, finché non c’è spargimento di sangue, almeno, e forse anche quando c’è il sangue.

Ma non erano solo il calcio e la guerra; tutto sembrava passare inesorabilmente e incessantemente da uno stato fisico all’altro, da una condizione all’altra nella prospettiva del piccolo paese di P***, salvo forse la diossina.

Intanto, il bar era piombato nel più assoluto silenzio dopo la battuta di Franco, il quale aveva infine sentito la necessità di tornare a spingere, giocando però su un altro terreno, che doveva essergli sembrato meno insanguinato.

«Kubík, dai, Kubík! Quello che poi hanno venduto in Inghilterra per prendere Maiellaro e Orlando, che pure Montanelli s’era incazzato.»

Silenzio, e tutti a guardare Giuseppe, che intanto fissava il vuoto davanti a sé, come un pugile suonato. Fu allora che a Franco sembrò di avere un colpo di genio. Con l’aria che hanno quelli che stanno per rivelare una gran verità, lui che con Giuseppe, che diceva essere suo amico, ma in fondo era anche il matto del paese, non aveva mai intrattenuto grandi rapporti, disse: «Ma non ricordi che casino aveva fatto Kubík con quell’altro, Nòflice, come si chiama…».

«Knoflíček» lo aveva corretto Giuseppe, senza alzare lo sguardo.

«Nòflice, sì, quello!»

«Mi ricordo, certo. Se ne sono andati in Germania Ovest a giocare e poi non sono voluti tornare indietro. Un po’ li capisco. Ma poi gliel’hanno fatta pagare! Meno male che c’erano entrambi a Italia ’90.»

Mentre raccontava questa storia, Giuseppe non aveva mai alzato lo sguardo dal punto sul quale l’aveva inchiodato. La voce, però, mostrava i segni di un leggero sollievo e l’incidente diplomatico legato a Luboš Kubík si era chiuso così.

Quello che però non poteva passare in sordina era la conoscenza sfoderata da Giuseppe su un fatto giunto in modo talmente marginale agli onori delle cronache italiane che poteva essere conosciuto solo da un tifoso viscerale della Fiorentina come Franco.

Certo, Giuseppe sapeva a memoria la formazione titolare della Cecoslovacchia ai Mondiali di Italia ’90, ma quel dettaglio su Kubík e Knoflíček, quel tipo di conoscenza storica e politica era eccessivo, e da quel momento, se Giuseppe si assentava per quattro o cinque giorni – assenze sulle quali mai nessuno si era permesso di metter becco con lui, considerandole perfettamente compatibili con i suoi lavoretti occasionali, con la dedizione all’alcol e, in ultima istanza, con il suo essere considerato all’unanimità lo scemo del paese di P*** – non si diceva più che era andato a Praga, in Cecoslovacchia (per i più colti in Boemia o in Moravia e per i più aggiornati in Repubblica Ceca o Slovacchia). Si diceva invece che se n’era andato in Germania Est, oppure Ovest, e poi da lì – nonostante la riunificazione delle due Germanie fosse un dato di fatto ormai da tempo – la si buttava di nuovo in politica.

E così via fino al 2005; anzi, per l’esattezza fino al 30 ottobre di quell’anno.

Nelle discussioni di inizio campionato, riferite quasi esclusivamente alla vittoria per 3 a 1 del Milan sulla Juve avvenuta il giorno precedente (Seedorf, Kakà e Pirlo nel primo tempo, Trezeguet nella ripresa), si era infiltrato chissà come, forse a causa di un accenno a Vieri, partito dalla panchina ed entrato a risultato pressoché acquisito, un breve battibecco sulla bellezza delle compagne dei calciatori.

«Ma a te lei proprio non piace, Giuseppe?» era stata la domanda di Toni, posta senza pensarci troppo.

Giuseppe non aveva risposto, occhi bassi, bicchiere immobile sul tavolo.

«Dai, davvero non ti piace?» aveva rincarato Danilo, aiutandosi con un paio di gesti piuttosto eloquenti, che Giuseppe non aveva visto.

Un breve silenzio, poi: «Stejskal, Bielik, Kadlec, Ha­šek…».

Angelo: «Eh no, basta! Non puoi fare sempre così».

Giuseppe: «Haaašek, Kocian…».

Danilo: «Ancora con ’sta Cecoslovacchia, che manco c’è più da vent’anni!».

Danilo esagerava, come al solito, sul tempo e sulla storia, e si aiutava con gesti sempre più espliciti e bellicosi che Giuseppe continuava a non vedere.

«Ma non può essere che non ti interessino le donne.»

Giuseppe si era alzato, senza rispondere, lasciando il bicchiere mezzo pieno, cosa che non era da lui, gli occhi spenti, più spenti di tutte quelle volte in cui il bicchiere l’aveva finito, e si era diretto alla porta.

Due voci in sovrapposizione: l’affondo tagliente di Danilo, che ormai non teneva la bocca a freno, «Vai in Germania Ovest, vai?! Attento a Charly!», e in sottofondo la litania che arrivava dalle spalle di Giuseppe, «Straka, Chovanec, Moravčik, Knoflíček…».

Giuseppe uscì dalla porta del bar senza girarsi, senza salutare, dimesso e spento, più dimesso e spento della luce incerta che entrava ancora dalla porta in quel tardo pomeriggio di fine ottobre.

Da quel momento nessuno l’aveva più visto né aveva avuto sue notizie, alternando una preoccupazione crescente a un crescente disinteresse, anche per il calcio, fino a quando, alcuni mesi più tardi, in una domenica di maggio assolata e calda, Toni ci aveva detto di aver letto per caso, sulle pagine della cronaca di un quotidiano nazionale, che un tal Giuseppe era stato trovato impiccato da una vicina, dopo molti giorni, in un appartamentino minuscolo di Genova che in un lontano passato questo Giuseppe aveva condiviso con una donna e due figlie.

«Figlie ormai grandi» aveva rimarcato Toni.

Toni era sicuro che si trattasse di Giuseppe, scemo del paese votato all’unanimità, Giuseppe compreso, dal paesino di P***.

Genova, Giuseppe, una famiglia alle spalle: come poteva essere diversamente.

Quella domenica e nei giorni a seguire nessuno osò parlare di Cecoslovacchia e Germania Ovest, forse per rispetto, forse perché la vita prima o poi si separa dalle sue immagini, o forse per paura, ma più d’uno si ricordò della domenica d’ottobre in cui Giuseppe era uscito definitivamente di scena, dicendo, con un filo di voce che si perdeva nel rumore della porta che si richiudeva: «E poi Skhuravy, Skhuravy…».

Breve silenzio, poi un tuono attraverso la porta: «Skhuravy era immenso!».

 

NdR: questo racconto fa parte della raccolta di testi brevi “In ordine sparso”, pubblicata di recente da Galaad Edizioni

 

La vanga di Velázquez

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Questo saggio è incluso nel n°6 (2023) dei “Quaderni del PENS” dal titolo: L’esercizio dello sguardo. Poesia e immaginiIl numero curato da Fabio Moliterni contiene interventi di vari studiosi e autori (Francesco Muzzioli, Marilina Ciaco, Chiara Portesine, Riccardo Donati, Ugo Fracassa, Giulia Pellegrino, ed altr*).

di Andrea Inglese

Vi è una dimensione utopica nelle immagini pittoriche, e particolarmente in quelle che si basano sulla tanto criticata “illusione”, sull’inganno percettivo, ossia su quella “pittura retinica” che da Duchamp in poi è stata più volte condannata dagli artisti novecenteschi, concettuali o no. Vi è una promessa di felicità delle più banali: l’impermanente per eccellenza sarà permanente, verrà sottratto alla duplice temporalità che corrode sia l’oggetto guardato sia il soggetto che guarda. (A essere precisi, l’immagine pittorica non conserva tanto l’oggetto dipinto – una brocca, un viso, un sasso –, fagocitato una volta per tutte nella tela, quanto piuttosto lo sguardo che include quell’oggetto, e quindi anche il lato soggettivo, mentale, insomma il punto di vista di colui che guarda.) Questo lo fa anche la fotografia, ma in modo diverso, con la certificazione della medesima luce, come a dire: quello che si trova nell’immagine è un’estensione diretta di ciò che normalmente accade qui e vedi qui. L’illusione è ridotta, quasi abolita. Nella visione ordinaria e nella sua traccia fotografica siamo sotto lo stesso sole, dentro lo stesso mondo. Non così nell’immagine pittorica, che prende dalla nostra realtà occasioni d’incontro tra uno spettatore e uno spettacolo – almeno per quel che riguarda una certa tradizione artistica occidentale – per situarle, queste occasioni, in un mondo parallelo: quello delle superfici dipinte su tela. Insomma, c’è una specificità delle immagini pittoriche, che è ovviamente di natura tecnica e materiale, ma che ha conseguenze sulla loro dimensione utopica. Alla fine, anche la fotografia più sorprendente e spaesante, è una fotografia terrestre, fatta sotto la luce che ci investe quotidianamente. Le immagini pittoriche, invece, sono immagini di un altro mondo, e non ci stupisce che per tanto tempo siano state dedicate alla sfera di ciò che è sacro, remoto, ultramondano, dotato di apparenza simile alla nostra, ma di sostanza aliena, divina.

Questa alterità dell’immagine pittorica ha qualcosa dell’etere incorruttibile, di una sostanza in grado di riempiere e al tempo stesso conservare le figure, in una sorta di eterna giovinezza, una giovinezza, però, da mondo parallelo rispetto al nostro. La pittura funziona come l’ambra con gli insetti: una resina preistorica in grado di catturare oggetti e persone, trattenendoli attraverso milioni di anni nel suo succo traslucido. Vi è quindi un fascino delle immagini pittoriche che è irriducibile a quello delle immagini fotografiche di ieri e delle immagini elettroniche di oggi. È certo vero che, di rado, noi entriamo in contatto diretto con i dipinti, con una tela esposta allo sguardo per altro temporalmente limitato dello spettatore, quando invece siamo di continuo circondati, attraversati, da riproduzioni d’immagini dipinte. L’incontro, però, quando avviene, non si confonde con il consumo delle riproduzioni, semmai lo giustifica, lo motiva. Ho visto una sola volta, a oggi, La Fucina di Vulcano di Velazquéz, tela del 1630 e conservata al Prado di Madrid. Accadde molti anni fa: fu un incontro rivelatore – che era già stato preceduto da altri simili, e che sarebbe stato seguito da altri ancora. Ci sono incontri con singoli quadri che rivelano in modo più intenso e perentorio la dimensione utopica della pittura in generale. Guardando per la prima volta la Fucina di Vulcano rimasi ipnotizzato da tutto quanto si trovava al suolo, e fui ovviamente ipnotizzato dal suolo stesso, così come Velazquéz l’aveva reso, anzi inventato. Quasi subito persi interesse per le pur magnifiche sei figure che lo abitavano – Apollo, Vulcano e i quattro fabbri dell’officina – per concentrarmi sugli oggetti che erano posati a terra: un pezzo di pietra, una ciotola, alcuni martelli, un’incudine, una sbarra di ferro, il pettorale in metallo di una corazza… Nel mio ricordo c’è anche una vanga, ma essa non appare nella riproduzione a schermo che sto osservando. Ora, quella vanga fantasma – che appartiene forse a un altro quadro di Velazquéz, o che è scivolata nella Fucina, provenendo addirittura da altro autore, di altro dipinto e di altro tempo – ebbene quella vanga, frutto di un errore o di una creazione della mia memoria, racchiude in sé tutte le caratteristiche non più dell’immagine pittorica, ma del dettaglio dell’immagine pittorica. (E sappiamo la potenza evocativa dei dettagli. Ne ha scritto in maniera efficace Antonella Anedda: “Il corpo è davanti a un quadro. A un tratto un dettaglio ci attira tanto da farci avvicinare. L’intero quadro diventa resto. Il dettaglio è l’isola del quadro. Per vedere meglio dobbiamo trasgredire lo spazio, abolire ogni distanza ragionevole. Il desiderio disubbidisce, porta al delirio. Il quadro scompare. Lo ha inghiottito il buio. Resiste solo il dettaglio che ti ha fatto cenno. Ora è un mondo”. È quanto si legge in una delle prime pagine di La vita dei dettagli uscito per Donzelli nel 2009.)

Tocchiamo qui un livello ulteriore, uno strato di godimento e stupefazione specifico, rispetto a quello che abbiamo già evocato – l’esistenza in sé di un dipinto e dell’illusione che esso proietta nella nostra mente. Ma i due tesori sono connessi, lo sfavillio della Fucina, nel suo impatto percettivo globale, nella forza e nella sontuosità della sua composizione, si nutre dello sfavillio in seconda battuta dei dettagli, dentro cui lo sguardo può incespicare, rimanere intrappolato, e persino dirupare, come si trattasse di superfici scoscese. Ed ecco che quei martelli e quella ciotola, quel suolo che li sostiene e su cui poggiano, sembrano qualcosa di definitivo, gli esemplari concreti e insuperabili dei concetti che a essi corrispondono. Non ci sarà più bisogno di prendere in mano martelli, di continuare a usarli, di guardarli nelle loro fattezza concrete, di dipingerli nuovamente o fotografarli: sono i martelli ultimi, quelli che troveremo alla fine dei tempi, dopo la rivoluzione, dopo che il capitalismo sarà finito, e con esso le varie maniere di rendere sofferente, triste, forzato, l’uso di un martello.

Qui bisogna, però, introdurre il tema dell’ecfrasi; il tema del godimento che la mente prova nel dire un’immagine, nel convertirla e tradirla, nel trasformarla e inventarla, grazie al movimento delle parole. Ciò vale ovviamente per quell’enunciato verbale, che gode anch’esso di una caratteristica fondamentale dell’immagine pittorica, ossia l’essere incorniciato, inquadrato, ritagliato, in superficie, nel mondo, ma sganciato da esso. Alludo ovviamente all’enunciato poetico – sia esso in forma tradizionale di blocchi di versi (strofe) o meno tradizionale di blocchi di prosa. L’intimità storicamente certificata di poesia e pittura è data senza dubbio dal desiderio di figurare il mondo (l’inesauribile, l’illimitato) all’interno di superfici ridottissime (la tela, la pagina), dove convergono strati di colore e sequenze di parole. Su entrambi le superfici ritagliate, che sono parte del mondo, e nello stesso tempo pretendono di rifletterlo nella sua totalità, si gioca la medesima aspirazione utopica: l’annullamento del tempo, la fuoriuscita dalla storia. Quello che è visto (è detto), è visto (è detto) per sempre, perché nulla più necessita di essere aggiunto (si fermi il pennello, secchi il colore – sia posta l’ultima parola, si volti la pagina). Il movimento delle parole che dicono l’immagine è un movimento de-limitato; esso funziona poiché può a un tratto fermarsi, poiché giunge a compimento, a conclusione.

Si ricordi come termina la lunga frase che da sola costituisce l’intero testo intitolato L’image di Samuel Beckett (Minuit, 1988): “à présent c’est fait j’ai fait l’image”. Qui fare l’immagine (poco importa se mentale o pittorica) significa articolarla attraverso le parole, affinché sia possibile, però, giungere finalmente al silenzio, interrompere il flusso verbale, arrestare l’assillo (la pena) della “vociferazione”. Nella pagina del testo poetico, le parole si muovono, si dispongono, per ripercorrere l’immagine pittorica di cui sono responsabili, affinché possano giungere, attraverso di essa, grazie ad essa, alla medesima completezza figurativa che la tela esibisce, premendo un intero universo dentro i suoi quattro lati. L’obiettivo condiviso, l’abbiamo detto, è l’abolizione della storia, della temporalità, del disfarsi continuo di una composizione sotto le pressione degli eventi, ossia di ciò che, nuovamente e diversamente, accade.

In La ragione e i suoi eccessi (Feltrinelli, 2014), il filosofo Paolo Costa formula una definizione della felicità che ben si attaglia all’esperienza che sia la pittura sia la poesia (ognuna con i propri mezzi) tentano di perseguire. Scrive Costa:

La vera felicità consiste solo nel possesso di Dio, della verità, in una parola nella prossimità a qualcosa di atemporale, che consenta la sospensione e l’oltrepassamento della temporalità (in quanto deriva e dissipazione) in un attimo che permane (nunc stans). Il modello, qui, è evidentemente il presente della memoria: la fissità di un attimo che non può più essere diverso da ciò che è stato. Il superamento del tempo in un presente immobile, per così dire irrigidito e congelato.

Il presente della memoria assomiglia a quell’immagine né completamente soggettiva né completamente oggettiva, che trova il proprio luogo di fissazione materiale, tangibile, nell’immagine pittorica, sulla tela, da un lato, e nell’enunciato verbale delimitato della composizione poetica, sulla pagina scritta, dall’altro.

Come tutte le utopie, però, quella della pagina poetica che si propone di fare l’immagine, è fragile, ed esposta a catastrofe. Ed è qui che m’interessava arrivare, anche per mettere in relazione questa catastrofe con la mia pratica di scrittura. Il tentativo di dire un’immagine pittorica, perseguendo la felicità stessa che la resina intemporale del quadro esibisce, congelando per sempre e in forma compiuta i suoi oggetti, può in ogni istante rovesciarsi in un’esperienza opposta e assillante, quella dell’inesauribilità del dire di fronte all’inesauribile “spessore” delle immagini pittoriche. Detronizzati dal paradiso della fissità, del tempo sospeso, della compiutezza, ci ritroviamo nel purgatoriale e illimitato movimento dei personeggi beckettiani, e della loro vociferazione. In altre parole, quella “vita dei dettagli” di cui parlava Antonella Anedda si rivela un allucinato e travolgente pullulare di mondi, come se in ogni punto della tela si aprissero universi che reclamano la loro specifica traduzione verbale. Gli elementi della realtà che l’artificio pittorico aveva magicamente staccati da terra e congelati nell’ambra traslucida, precipitano ora nuovamente, moltiplicandosi e innescando continue derive, anche perché, oltre all’incontro istantaneo tra il quadro reale e lo spettatore in carne e ossa, s’insinua il flusso associativo della immagini simili, riprodotte, circolanti in rete, sugli schermi, i manifesti, le copertine dei libri, ecc. Ma questa deriva, provocata appunto dall’irruzione d’immagini parassitarie, che s’impongono cioè secondo meccanismi associativi in parte involontari, e che pescano nell’enciclopedia iconografica dell’autore, costituisce, allo stesso tempo, un magnifico motore, un incitamento forsennato al dire e al descrivere.

Il lavoro che ho realizzato in libri come Quando Kubrick inventò la fantascienza (inizialmente Camera Verde 2011 e poi in Ollivud, Prufrock spa 2018) o Commiato da Andromeda (Valigie Rosse, 2022), risponde a questa condizione di un’ecfrasi precipitante e inesauribile, che ha qualche vaga parentela con l’archeologia del paesaggio di Zanzotto. È un’archeologia delle immagini pittoriche e cinematografiche, ossia un assillante e illimitato inseguimento ecfrastico (ma anche meditativo e autoanalitico) dell’insolubile intreccio che le immagini instaurano tra loro (e dentro di noi) a partire dalla semiosfera. Questa condizione di “rintronamento iconico” può rivelare a suo volta un lato utopico, se concepito in termini di celebrazione dell’infinito spessore del mondo (e delle sue figure). La scrittura diventa allora testimonianza di uno spazio gremito di oggetti opachi e superfici traslucide, in cui è vano separare nettamente il dentro dal fuori, l’intimità autobiografica dall’intrusione del corpo estraneo, l’autentico dall’ideologico. Questo non significa, però, abolire tutte le gerarchie, i salti di scala, le differenze specifiche. L’immagine pittorica che s’incontra in modo diretto, nel fronteggiamento tra tela e spettatore (ad esempio La Fucina di Vulcano al Prado), è sempre avvolta in una nube d’immagini riprodotte, parodiate, derivate, ma non si confonde interamente con esse, in quanto mantiene la propria carica energetica determinata. D’altra parte l’incontro con un’immagine riprodotta, trovata in un catalogo, può avere una propria forza stregante e propulsiva, ed essere capace d’innescare quegli effetti a catena, che spingono la scrittura simultaneamente verso la propria memoria autobiografica e culturale, e verso nuove superfici di mondo.

Postilla sul Commiato di Andromeda

Il Commiato è un libro nato intorno al quadro rinascimentale di Piero di Cosimo, La liberazione di Andromeda. Al momento della scrittura, io potevo basarmi su un duplice ricordo: uno più remoto, riguardante l’incontro agli Uffizi con la tela medesima, e uno ben più recente, relativo alla sua riproduzione in forma di manifesto, che era diventata parte dell’arredo di un appartamento in cui vissi per diversi anni. A queste due relazioni con l’immagine pittorica, se ne è aggiunta poi una ulteriore durante la redazione del libro, basata sul ricorso alla sua riproduzione digitale, che potevo contemplare a schermo sul mio computer. Ogni specifico rapporto con l’immagine della Liberazione di Andromeda ha rinforzato quello successivo, fino a motivare un esercizio ecfrastico, che avrebbe assunto un ruolo strategico nel mio progetto di scrittura. Quello che mi preme mettere in evidenza, qui, a conferma di quanto scritto sulla dimensione utopica delle immagini pittoriche, è la possibilità di tradurre in una duplice direzione la carica di felicità insita in esse. La prima direzione è quella di cui ho lungamente parlato: l’immagine delimitata e incorniciata ambisce a riflettersi in una composizione in versi, a sua volta delimitata all’interno della pagina a stampa. Nel prosimetro del Commiato, questo accade. La descrizione del quadro trova dei momenti di coagulo in una serie di testi in versi: tre esattamente, nella quinta delle sette sezioni del libro (“Sono stato quello, chissà come”, “Perseo, sei tu, nuovamente”, “Andromeda non dà più segnali”). A questo movimento centripeto se ne oppone, fin dalle prime sezioni, un secondo, centrifugo e in prosa, sempre descrittivo, ma che si fa parassitare da altre immagini pittoriche o di diverso genere (fotografiche, fumettistiche, cinematografiche). Se l’ecfrasi del dipinto di Piero di Cosimo assume il carattere di una ricerca autoanalitica sulla propria esperienza amorosa passata, ma anche, più in generale, sui rapporti di coppia tra uomo e donna, la deriva che si viene a creare con l’intrusione di nuove immagini (la Santa Margherita, San Giorgio e il drago, ecc.) acquista valore e senso in sé, come felice digressione e oblio momentaneo della propria ossessione dominante. Ciò che conta, allora, in questa prospettiva, è la possibilità delle immagini d’innescare un “infinito intrattenimento” con la scrittura, ossia con la capacità di dire, di nominare e/o narrare il mondo al di fuori di ogni tema (limite) costituito.

Il presente è una grotta del passato

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di Mariasole Ariot

Fotografie dal passato remoto – quando tutto è fermo, quando il tempo ricorda la sostanza

* fotografie scattate alla Grotta Mangiapane, Sicilia (un mattino che non porta una data)

Ciao ciao Clarissa

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di Francesca Ranza

Al Bar Brera sta seduta una giornalista bionda della tv. È piena così di botox e si fa i selfie con una bambinetta – sarà la figlia, è la figlia – di nome Clarissa. “Clarissa, Clarissaa, Clarissaaa!” la chiama per farla guardare in camera. A Clarissa non importa di uscire bene in foto e la giornalista è preoccupata, molto preoccupata: con questo atteggiamento menefreghista non andrà da nessuna parte. Clarissa è distratta, guarda per aria, guarda i piccioni, guarda il golden retriver di una spin doctor ricoperta di auricolari dalla testa ai piedi che si è accaparrata uno dei posti in prima fila e ha l’aria di essere lì già da almeno due ore. Clarissa allunga una manina verso il cane, quando le sono venute queste dita così tozze, pensa la giornalista con orrore. La strattona, mette il filtro gatto. “Dai sorridi, ho messo il filtro gatto.” La spin doctor si gira, guarda Clarissa un po’ così; non è che i bambini le piacciono tantissimo, e comunque avere un cane è già parecchio impegnativo. Non solo perché tocca spendere un patrimonio in cibo per il cane, baby sitter per il cane, impermeabili per il cane. Ma anche e soprattutto perché il cane è il correlativo oggettivo di un ragioniere di Varese, grande appassionato di lettini abbronzanti, cocaina e magliette con le scritte (“Non mettermi alla prova”, “Startup”, “Uomini forti, destini forti”), schivato come una palla di cannone e non senza spargimenti di sangue nell’inverno del 2017. Adesso lui gestisce un negozio di sigarette elettroniche. Guardare il cane (si chiama Thor, naturalmente si chiama Thor) è come guardare in un multiverso di cristallo. Uno in cui lei sa tutto di sigarette elettroniche e niente della vita, uno in cui la cocaina è solo grigina e grumosa e non la polvere di fata bianca, etero e cisgender che gira nei bagni di Montecitorio. Ma Thor, povera creatura, non c’entra niente con quel disgraziato (è stato lui a regalarglielo, chiuso, tappato in una scatola di cartone rossa col coperchio, al collo uno di quei fiocchi tondi che si mettono sugli specchietti delle macchine ai matrimoni). “Clarissa se vuoi accarezzarlo devi chiedere il permesso alla signorina,” sibila la giornalista. Ma Clarissa se ne frega. In un attimo è a terra a quattro zampe, la faccia spalmata contro quella pelosa e bavosa di Thor. Se non fosse che le è costata una vaginoplastica in Svizzera, se non fosse che ha visto quel testone bitorzoluto uscire da lei stessa e strillare prima ancora che fosse uscito tutto il resto, la giornalista si chiederebbe di chi è figlia questa cinquenne goffa, lagnosa, leggermente in sovrappeso, che si comporta come un vandalo, si rifiuta di imparare le buone maniere, ed è ancora del tutto ignara di che cosa e quanto pericolosi siano i germi, i batteri, i bacilli, i funghi e tutto il resto che si può tirare su da terra o dal pelo di un cane pure se si è in via Brera. Fa per gridarle qualcosa, tipo “Clarissa vieni via subito da lì”, o “Clarissa non lo vedi che stai disturbando” o “Clarissa! ” e basta, ma la spin doctor ha attaccato una skype call. “Andrea? Pronto?  …  Dov’è che sei?  …  E fa caldo lì? Senti qui si muore …  Pensavo di fare così: mandiamo lo stesso testo al sindaco e al prefetto. Mi sembra una buona… come si dice… sintesi! Una buona sintesi della situazione. … Anche per far vedere quello che abbiamo fatto, sennò sembriamo veramente inadempienti. …  Allora d’accordo.  …  Ciao, ciao, cià, cià, cià.” La giornalista scatta come un puma, è ora o mai più. È adesso che deve tirare fuori quella selvaggia da sotto al tavolo e sperare che non si sia già presa le pulci o peggio. Ma la spin doctor è più veloce. L’ha riconosciuta, le dice “ma dai, ma che piacere, ma che coincidenza”, le dice che la ammira tanto, proprio tanto, che si ricorda di quando stava in parlamento. Con chi è che era in parlamento? “Ah vedi, che bel percorso”, dice la spin doctor. La giornalista è caduta nella rete come un moschino: c’ha quegli occhi tutti stellanti che vengono solo quando ripensi a un periodo in cui ti piacevi almeno duemila volte di più di quanto ti piaci adesso. Fosse anche solo perché era prima del botox, della vaginoplastica e di Clarissa, che ormai è sparita completamente sotto al tavolo, e la si sente solo grufolare e fare conversazione col cane e dire cose da bambina ipersensibile tipo “bel cagnolone, bello, bello, come. sei. bello. Ti voglio bene!”.
“…sono ancora una donna di destra, ma adesso sono un po’ più liberale. E non ho nessunissimo problema ad ammetterlo, ci mancherebbe altro. Ti dico, anche da parlamentare, io sono sempre stata molto sincera. E molto diretta. Forse anche troppo.”
“Eh, ma essere sinceri in politica non è che…”

Ma appunto! Non paga, brava. Vedo che ci capiamo.” Clarissa, che a questo punto deve aver percepito una specie di vibrazione nella forza, un impercettibile calo ponderale nel livello di attenzione di sua madre per qualunque cosa stia combinando là sotto, sbuca fuori e scoppia in un pianto disperato. Spaesata, la spin doctor prova a chiudere il suo rituale di seduzione in fretta e furia. “Senti ma magari mi lasci il tuo numero? Così una volta…” Ma Clarissa sta gridando come un’ossessa, grida come se una banda di ragazzini in Fred Perry nera la stesse prendendo a calci di notte in un parchetto senza lampioni di Southwark. Grida che anche lei vuole un cane, che non è giusto, che lo vuole adesso, immediatamente. La giornalista prova a ignorarla ma è praticamente impossibile (certe cose a Brera sono un po’ più difficili da ignorare). “Guarda facciamo un’altra… CLARISSA! Clarissa piantala. Vieni, andiamo dal giornalaio, ti compro un…”

Ma certo, certo. Ciao ciao Clarissa, è stato un piacere conoscerti!”, tuba la spin doctor agitando la mano. Stupida bambina. Stupida bambina viziata e stupida.

*

Sul sedile dietro di una macchina blu coi vetri oscurati, Clarissa chiude gli occhi e sogna. Ma non dorme, quindi non sogna, ma le sembra di stare sognando. Nel sogno ci sono i cinque biscotti Digestive che ha mangiato stanotte in piedi, in mutande, di fronte al mobile bar di una stanza d’albergo brutta e gelida e identica spiccicata a tutte le altre che ha visto. Quante ore di corsa ci vogliono per bruciare le calorie di cinque biscotti Digestive? Clarissa non lo sa di preciso, ma devono essere almeno un milione di ore. Ci sono cinque uomini vestiti per bene – la giacca, la cravatta e tutto il resto – che escono dalla sua stanza in fila indiana. Le danno la buonanotte e sorridono, ma poi la lasciano lì sul letto, da sola. Ci sono le sue foto dappertutto su internet. Quando mi sono venute queste cosce così grosse pensa Clarissa con orrore. C’è Anne Sophie nel bagno delle femmine al liceo. Ha uno spazzolino da denti in mano, dice “per vomitare lo devi infilare in gola almeno fino a qui”. Ma Clarissa non impara mai a vomitare. C’è il prossimo albergo dove la porteranno. Spera che dentro ci sia una palestra, o almeno un vecchio tapis roulant, o almeno una sauna dove tapparsi a sudare via tutto. I sensi di colpa, i biscotti Digestive. Mica si può sudare via un biscotto. O sì? C’è uno – è alto e bello e la fa ridere e qualche volta le legge delle poesie – che non si trova più da nessuna parte. Sparito. Puf. Se si potessero sudare via i biscotti. Se lui ci fosse ancora. Il tizio che guida la macchina – potrebbe essere lo stesso di ieri, sì potrebbe – spegne il motore. “Siamo arrivati, Presidente” dice. Ma Clarissa non si muove.

Colonna (sonora) 2024

3

 

di

Claudio Loi

 

PLAYLIST 2024. 15 album da sentire ( e ascoltare )

15 album in rigoroso ordine alfabetico per ricordare il 2023 e affrontare le insidie del quotidiano con il piglio giusto. Perché la musica, quella giusta, è la migliore medicina che si possa trovare sul mercato. Buon ascolto!

Algiers. Shook (Matador)

Il quarto album della band è una conferma assoluta e un nuovo punto di partenza. Un disco che raccoglie i frutti della semina di questi anni e ci consegna una band difficile da inquadrare, sospesa tra umori post-punk, una forte componente black e una voce che non ha eguali. Tutte queste belle cose convivono in perfetto equilibrio e la rabbia che trapela da queste canzoni non e mai fine a sé stessa. Una band necessaria e imprescindibile.

https://algierstheband.bandcamp.com/album/shook

 

Altin Gün. Ask (Glitterbeat)

Ascoltare questa musica ci fa rimbalzare in un loop temporale che comprende la psichedelia degli anni Settanta, le lontane derive elettriche ed elettroniche tipiche della controcultura di quella che un tempo si chiamava mitteleuropa, i corrieri cosmici, la diaspora turca e un leggero senso di stordimento psicotropo. Sono turchi ma sono anche olandesi, sono fieri portatori sani di miti e leggende che furono ma sono anche figli di questi tempi e proiettati in un futuro incerto. È la musica giusta per capire il grande caos del pianeta, aprire la mente e stimolare i sensi.

https://altingun.bandcamp.com/album/a-k

 

Aphex Twin. Blackbox Life Recorder 21f (Warp)

Le ultime prove discografiche di Aphex Twin sono lontane nel tempo ma sono ancora dei parametri estetici su cui ragionare e queste poche tracce non spostano di molto la sua biografia. Ma è sempre emozionante capire cosa frulla nella testa di questo signore, entrare nel suo mondo frammentato, spezzato, confuso, nervoso e percepire un forte senso di angoscia e turbamento. La sua storia è stata raccontata in modo sublime da Valerio Mattioli e queste nuove composizioni potrebbero essere una buona scusa per andare a rileggere quelle pagine. E poi dalla Warp non arrivano mai cose scontate così come non lo è questa musica che ad ogni ascolto rilascia nuove sensazioni.

https://aphextwin.bandcamp.com/album/blackbox-life-recorder-21f-in-a-room7-f760

 

Bar Italia. Tracey Denim (Matador)

Sono di Londra, se la tirano da morire (e ne sono ben coscienti), sanno come ci si deve muovere tra i meccanismi dello showbiz, non fanno nulla di nuovo ma lo fanno benissimo. E poi con quella ragione sociale toccano le corde del nostro orgoglio italico così come succede anche con Italia 90 altra band dal nome piuttosto strano. Detto questo suonano freschi, citano bene le opere passato, hanno un suono piacevole e ben educato e sono lanciati verso un futuro radioso. Nel 2023 hanno addirittura pubblicato due album ma questo è quello che preferisco, quello che fa risaltare meglio la voce di Nina Cristante e il mixing di Marta Salogni (altra gloria italica in fuga dal belpaese).  Se siete alla ricerca di un bar nel quale soffocare le vostre angosce Bar Italia è il posto giusto.

https://baritalia.bandcamp.com/album/tracey-denim

 

C+C=Maxigross. Cosmic Res (Dischi Sotterranei)

Sono di Verona ma questo è un particolare di poco conto. La loro musica è tanto italiana quanto figlia di umori e sapori che arrivano da altre latitudini, non solo geografiche. Questo nuovo album ha il sapore agrodolce della perdita, di un amico caro che non c’è più almeno nella sua manifestazione terrena. Miles Cooper Seaton ci ha lasciati nel 2023 ed è difficile prenderne atto ma è anche giusto accettare il destino di essere umani. Conta invece che si potrà contare sulle sue idee, sulle sue intuizioni, sulla sua voglia di esplorare e quest’album è il giusto tributo a un artista che ha lasciato un grande patrimonio culturale. Loro sono forse più apprezzati fuori dalle nostre terre a conferma di un suono che va oltre l’appartenenza a un perimetro definito e diventa messaggio universale. Psichedelia di grana fine, testi molto accurati e incursioni elettroniche nella giusta proporzione e un incedere svagato e meditativo. Come sarebbe piaciuto a Miles.

https://ccmaxigross.bandcamp.com/album/cosmic-res

 

Fire! Orchestra. Echoes (Rune Grammofon)

Mats Gustafsson chi ha abituati a cose sempre fuori dal comune e in questo frangente riesce persino a stupire sé stesso. Ha coinvolto quarantatré musicisti per oltre due ore di musica che va oltre quanto già avevamo appreso dalle sue lezioni. Si respira aria di sperimentazione tosta, di libertà creativa controllata e disciplinata, di qualcosa che parte dal jazz e approda verso lidi che profumano di post-rock, di avant-jazz, di free forms, di ambient, di avanguardie di questo e dell’altro secolo. Un’opera monstre che non possiamo permetterci di ignorare e sottovalutare. Operazioni come queste se ne sentono poche e hanno bisogno di tutte le nostre cure e attenzioni.

https://fireorchestra.bandcamp.com/album/echoes

 

Iosonouncane. Qui noi cadiamo verso il fondo gelido (Concerti 2021-22) (Tanca)

Quello che vale per Gustafsson vale anche per Jacopo Incani nel quale ritroviamo la stessa voglia di sfidare le leggi del conosciuto e proporre opzioni estetiche sempre fuori margine. Il nuovo disco è una raccolta di brani registrati dal vivo negli ultimi anni ma non è il classico album live che da sempre ha caratterizzato la scena rock e si palesava come una sorta di “il meglio di…”. Qui è tutto diverso e pensato in altre direzioni: la maggior parte dei brani sono inediti e quelli già editi hanno nuove sembianze. Il disco raccoglie tre anni di concerti in giro per l’Europa con formazioni diverse ma con lo stesso respiro e con la solita e ostinata ricerca di qualcosa di sempre inedito con un suono che ormai è riconoscibile e certo. Si respira ancora qualcosa della Sardegna ma è tutto più sfumato e filtrato da correnti elettriche che devastano e destrutturano. Un suono possente e imperioso caratterizzato dalle macchine, una lunga e solenne marcia verso non si sa dove e forse non è questo l’importante. Quello che conta è la manifestazione di un artista che non si accontenta e continua a sfidare le leggi della musica e della vita.

https://www.deezer.com/it/album/510910521

 

Daniela Pes. Spira (Tanca)

Una delle più belle sorprese di questo 2023 non a caso ospitata nella stessa Tanca di Iosonouncane. Daniela Pes è rimasta in silenzio per un bel po’ di tempo e si capisce perché. Aveva bisogno della giusta concentrazione per capire da che parte andare, trovare le persone giuste e il giusto mood. È giusto così se credi in quello che fai e lo vuoi far diventare parte integrante della tua vita e Spira è la migliore risposta a tutti i nostri dubbi. Al disco è seguita una lunga serie di concerti e persino il prestigioso riconoscimento della Targa Tenco come miglior Opera Prima a conferma di un lavoro che va oltre le migliori aspettative. Una voce fuori dal coro di indiscutibile valore assecondata da una produzione attenta e responsabile, una lingua nuova che si fa accompagnare da umori elettronici mai invadenti o fuori misura. Si re/spira da queste parti la gelida brezza del maestrale e si trova conforto in una tanca che è ormai un approdo certificato.

https://trovarobato.bandcamp.com/album/spira

 

PJ Harvey. I Inside the Old Year Dying (Partisan)

Una delle poche certezze nella nostra vita di discopati impenitenti. Difficile trovare punti deboli in una carriera iniziata alla fine degli anni Ottanta e costellata di perle di inestimabile valore. E allora dobbiamo arrenderci alla sua grazia e riconoscere che ci si trova di fronte a un artista fuori dal comune e anche questa nuova uscita assurge a livelli che pochi artisti si possono permettere. Tutto questo fatto con poche semplici mosse: gli amici di sempre, una produzione non troppo invadente che privilegia la presa diretta per preservare la sacralità dell’esecuzione, un maniacale lavoro sulla lingua e poco altro: solo un infinito e smisurato talento e un continuo impegno ad arrivare all’essenza delle cose, abbandonare il superfluo e sdraiarsi in attesa che il tempo faccia la sua parte come quel ramoscello della copertina levigato dalla vita che passa. Poco altro da aggiungere se non lasciarsi stordire da questa magia che profuma di infinito.

https://pjharvey.bandcamp.com/album/i-inside-the-old-year-dying

 

Rozi Plain. Prize (Memphis Industries)

Ancora una voce che arriva dalle brume inglesi e che all’anagrafe è registrata come Rosalind Leyden. Il suo nuovo album è passato quasi inosservato da queste parti e invece merita più di un ascolto distratto. Composizioni sono fragili racconti di vita quotidiana, stanze segrete dove riporre segreti e paure ancestrali. Pochi ingredienti, quelli giusti e ben calibrati, minime sfumature di suono e suffumigi elettronici che aiutano a respirare meglio. Tutto appare sfumato, delicato e leggero, una sorta di minimalismo che parte dalle pieghe dell’anima e si disperde come incenso nell’ambiente. Se si dà uno sguardo alle tante collaborazioni presenti in questo disco ecco che tutto prende altre forme e si apprezza ancor di più il valore di quest’opera. Un ascolto che è paragonabile a quello che si prova quando ci si immerge una pozza di acqua calda e osservare le stelle sopra e dentro di noi.

https://roziplain.bandcamp.com/album/prize

 

Sleaford Mods. UK Grim (Rough Trade)

Ogni nuovo lavoro degli Sleaford aggiunge qualcosa di nuovo a un format che solo in apparenza è sempre uguale a sé stesso. La formula è quella consolidata e ben sedimentata con Simon Parfrement impegnato a costruire un tappetto di suoni e rumori, di beat accattivanti, rimandi a piè di pagina sempre in funzione della voce di Jason Williamson che è quando di più punk sia dato da ascoltare negli ultimi anni. Ma questa volta la coppia che appariva chiusa e inossidabile si apre a nuovi amici e conoscenti e allora è un vero piacere verificare come l’aprirsi all’altro aggiunge sempre qualcosa di nuovo. God save the Sleafords.

https://sleafordmods.bandcamp.com/album/uk-grim

 

Squid. O Monolith (Warp)

Un disco che spiazza nella sua imperscrutabile appartenenza a tutto e a nulla. I dischi precedenti lasciavano intuire una vocazione al caos e all’anarchia stilistica ma con questo nuovo lavoro si è andati molto oltre. Il monolite che rimanda a odissee spaziali è stato divelto, frantumato, sbriciolato in miriadi di nuove ontologie sonore. Si respira da queste parti il buo profumo del post punk appena sfornato che subito viene superato da gelide correnti di new prog, di math rock insolente, dal jazz più catastrofico e da una spavalda attitudine alla provocazione. Forse è solo punk sotto nuove forme o forse è solo Squid che in questo momento sono unici è inimitabili. Anche da se stessi.

https://squiduk.bandcamp.com/album/o-monolith

 

The Gaslamp Killer meets The Heliocentrics. Legna (Cuss)

Vederli dal vivo è gioia pura. Si retrocede a uno stato di primitiva euforia trasportati dai ritmi e dalle soluzioni armoniche proposte dalla migliore sezione ritmica del pianeta. Malcom Catto e soci sono gli artefici di un progetto sempre aperto e in progress e ogni collaborazione si spinge nel trovare il beat giusto per ridefinire i termini della questione. Terzomondismo senza sconti, afrofuturismo, funky di quello buono e passione che trasuda da ogni colpo di bacchetta. Ma affiora anche il motorik di krautiana memoria, certe epifanie di freak jazz e una infinita voglia di essere felici semplicemente percuotendo le pelli dei tamburi. Come quella scimmia del caro Kubrick.

https://thegaslampkiller.bandcamp.com/album/the-gaslamp-killer-meets-the-heliocentrics-legna

 

Yalla Miku. Yalla Miku (Bongo Joe)

Se passate a Ginevra fate un salto alla sede della Bongo Joe che si trova in un’isoletta nella parte finale del grande lago. Un tempo questa era una zona industriale poi la città ha cambiato aspetto e questi spazi sono stati messi a disposizione e riconvertiti in luoghi di aggregazione, sale per concerti, centri sociali. In uno di questi isolotti si trova proprio la sede della Bongo Joe con un enorme negozio di dischi, uno spazio sociale, un bar, una terrazza esterna nella quale spesso è possibile assistere a concerti e performance varie. Poi è arrivata la Bongo Joe Records il cui catalogo è decisamente cool e pieno di belle cose che vanno dalla sperimentazione post accademica della Orchestre Tout Puissant Marcel Duchamp a cose più legate ai suoni del mondo. Una delle cose più interessanti proposte da Bongo Joe  in questo 2023è il disco degli Yalla Miku che raccoglie musicisti in fuga dal proprio mondo e che in questo spazio hanno trovato rifugio e possibilità di espressione. Un disco di ritmi e suoni senza patria che guarda avanti cercando di smaltire le scorie di un universo in forte crisi.

 

https://yallamiku.bandcamp.com/album/yalla-miku

 

 

Yo La Tengo. The Stupid World (Matador)

Difficile parlare di questa band senza cadere nelle banali considerazioni che si fanno di fronte ad artisti che il tempo non scalfisce e non turba. Bisognerebbe chiedere a loro come si fa a essere sempre in tiro dopo quasi 40 anni di onorata carriera, a essere sempre sul pezzo, a non ripetersi e soprattutto a far sembrare tutto molto semplice e naturale. Forse è l’aria di Hoboken o qualche medicina magica che noi non conosciamo. Non è dato sapere ma di certo questa musica fa bene al corpo, all’anima e in qualche modo ci tiene vivi e più felici. Fossi un medico prescriverei una dose giornaliera di Yo La Tengo a tutti i miei pazienti.

https://yolatengo.bandcamp.com/album/this-stupid-world

 

 

 

 

 

Memorie da Gaza #5

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Yousef Elqedra

 

“Quattro sotto le macerie… yàmma quanto sono belli”. 

 

Nido e Pampers 

“Ho ritirato il Nido e i Pampers”, racconta un padre con immensa gioia mentre torna dalla moglie portando una scatola di Nido e una confezione di Pampers per i bambini.

Ti chiederai forse “Com’è che questa cosa merita così tanta gioia”? La risposta è che sì, Nido, il latte in polvere, significa vita per un neonato nei giorni che vengono, e i Pampers vogliono dire la salute di quel bimbo. Le mamme sono state costrette a sostituire i pannolini con un qualsiasi pezzo di stoffa a disposizione, e questo ha provocato strane malattie della pelle; non ci sono i medici per occuparsene nelle condizioni di una “guerra maledetta” che non produce se non ferite gravi e martiri, quindi le madri hanno dovuto affrontare la situazione arrangiandosi con un latte in polvere qualunque oe qualsiasi cosa tornasse utile.

Una cesta alimentare per una settimana 

Due scatole di fagioli, una di carne in scatola, due bottiglie di acqua, due vasetti di miele nero e due confezioni piccole di formaggio: questa è la razione che spetta a una famiglia con un numero medio di almeno sette persone. Viene portata alla famiglia da un padre sfollato che ha perso la casa, ed è felice di averla ricevuta. “Finalmente berrò un sorso di acqua dolce”, dice, come se avesse raggiunto il paradiso. “Bontà e benedizioni”, così descrive lo scatolame contenuto nel cartone arrivato come parte degli aiuti passati dal valico di Rafah alla Mezzaluna Rossa Palestinese a Khan Yunis. Sulla parte anteriore del cartone si legge il mittente: Banca alimentare egiziana. “Il cibo si può dividere e può bastare per tutta la prossima settimana”, dice l’uomo, aggiungendo: “Il problema resta il pane”.

Una pagnotta intera 

“Solo le donne ce la possono fare!” esulta una donna appena tornata dalla fila davanti al panificio, portando con sé diversi filoncini di pane raccolti in un fascio. È una grande vittoria, come potete immaginare. Con questo fascio di pane, la donna ha provveduto al cibo della famiglia per l’intera giornata, e forse ne rimangono avanzi per la colazione del giorno dopo, fosse fatta anche solo di “pane nudo”, poiché l’economia nel cibo è una necessità assoluta; “wallah sono uscita all’alba, perché i piccoli sono andati a letto senza cena”, dice la donna per spiegare la sua gioia.

Sì, queste piccole vittorie e conquiste sono significative nella vita collettiva, e questo è un popolo che, all’ombra della morte, ama la vita con tutte le sue forze.

Si può lasciare il proprio cuore in un posto? 

“Siamo usciti dall’inferno dei missili, del fuoco e della devastazione per arrivare all’inferno della vita. Si entra in bagno in fila, si prende il pane in fila, il cibo scarseggia, si dorme a turni a causa dello spazio ristretto e della scarsità di letti, persino bere acqua potabile richiede un miracolo”, dice una donna di cinquant’anni sfollata da Gaza in un rifugio a Khan Yunis. E aggiunge: “Spero nella shahada da Dio”.

Mentre tenti di consolarla con due parole gentili, scopri che dal suo cuore a porte spalancate è uscito un inferno, al punto di sentirla dire: “I miei nipoti sono sotto le macerie. Non sappiamo se sono vivi o morti, e non sappiamo se li hanno trovati e sepolti, o se sono rimasti là sotto.” Tace per un momento poi riprende, mentre due lacrime le brillano negli occhi ma si rifiutano di scendere: “Quattro… yàmma quanto sono belli, sono ancora piccoli, mi si spezza il cuore, non volevo lasciarli soli e andare via. Mi hanno portata via con la forza. Si può lasciare il proprio cuore in un posto e tuttavia dover continuare a fuggire?”

Sono 1250 i bambini dispersi sotto le macerie, secondo il Ministero della Salute. Sono 1250 le storie di dolore e sofferenza, e la sensazione è che il mondo sia in via di estinzione con la morte brutale di bambini innocenti, che lascia nella desolazione più totale i cuori dei loro familiari sopravvissuti.

wallah yàmma solo coloro che sono andati dal loro Signore, si sono salvati. Il loro Signore è più misericordioso con loro che questo mondo ingiusto. Noi che viviamo moriamo mille volte al giorno. Moriamo mille volte yàmma.

Abbiamo bisogno di farina 

“Hanno polverizzato il paese, distruggendo il verde e il deserto”, racconta un ventenne tornato deluso dal suo errare alla ricerca di un panificio ancora aperto, per portare almeno una pagnotta alla famiglia. Qui tutti i panifici della zona hanno smesso di funzionare come forni, non c’è gas, distribuiscono la farina alla gente che fa quel che può, cioè impasta e cuoce il pane, si gestisce da sola,” aggiunge esasperato. Un altro replica che c’è una panetteria ancora attiva nel centro della città, ma la gente si accalca raggruppandosi come in un’immagine in miniatura del Giorno della Resurrezione.

“Dai, andiamo. Dove esattamente? Daremo dei biscotti ai bambini. Sono due giorni che non mangiano pane.”

Si sono diretti verso una panetteria che si diceva fosse ancora in funzione, sapendo che li aspettava la lunga attesa, dalla quale non vi è scampo.

Le memorie di Gaza sono la vita sospesa rimasta dopo tutta questa morte, dopo lo sfollamento e la malinconia, o ciò che resta della vita che tenta di continuare in condizioni che ad essa non sono adeguate: sono più adatte alla morte.

 

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Yousef Elqedra è un poeta palestinese residente a Gaza. Su Nazione Indiana appare nella traduzione di Sana Darghmouni e Pina Piccolo.

Memorie da Gaza #1

Memorie da Gaza #2

Memorie da Gaza #3

Memorie da Gaza #4