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Les nouveaux réalistes: Annalisa Lombardi

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Qualcosa di vecchio e qualcosa di nuovo
di

Annalisa Lombardi

Elisa

Traccia Uno

 

Elisa esce dal cinema e, invece di andare a sinistra verso la macchina, decide di fare una passeggiata nel grande parco vicino. È una calda sera di fine estate e pure in città si sentono le cicale, anche se sembra impossibile.

Sta pensando alla sera successiva, quando incontrerà Carlo, che vede da qualche tempo al bar sotto casa. Un bar di quartiere, senza pretese, con prezzi bassi e aperitivi abbondanti. Hanno cominciato a frequentarlo alla stessa ora. E da qualche mese, scambiano chiacchiere e si raccontano, ridono e si guardano. Lui le ha chiesto di incontrarsi da soli a cena. Un appuntamento.

Passa attraverso i pali metallici e colorati della scultura Coloris. Una donna con un hijab nero e un vestito rosso pare giocare a nascondino tra i pali, come fossero alberi di una foresta.

Elisa sente stringersi la gola e le salgono le lacrime agli occhi. Ha una paura fottuta e lo sa.

Gli altri della famiglia nordafricana che sono con la donna la osservano.

Nessuno che mi chieda che ho, cosa c’è che non va. E poi? Se lo facessero, cosa risponderei? Ho paura di incontrare un uomo, domani? Ridicola.

È l’inizio di una storia?

E gli occhi le si riempiono ancora di più.

Che bene che stai vestita da donna.

Sei andata in palestra?

Ho pensato che potevi venire qui un’oretta.

Ah, anche stasera niente tacchi?

 Le risuonano nella testa alcune frasi che le hanno detto.

Cosa volete? Cosa hanno sempre voluto? Il corpo? La bocca intorno al loro cazzo? Le mani sulle gambe sotto il tavolo. Un pompino in una macchina tappezzata? Una palpata al seno, vicino alla stalla? Che romantico l’odore dei cavalli…

Madonna, levatevi di dosso!

Camminando incontra più avanti un’altra scultura: due gatti enormi, guardiani del quartiere. Non li avrebbe mai visti, se non avesse deciso di passeggiare.

Sarà ancora così? Ci sarà ancora tempo per le scoperte? O inevitabilmente ci si accomoderà in ruoli che pian piano si definiscono? E io? Cosa voglio? Il desiderio, la carezza, la foga, il sorriso. Passare le dita sul contorno delle labbra.

Cosa c’è? Niente, ti guardo…

Non ho più voglia di stare sola. A conti fatti, però, se mi faccio toccare, divento vulnerabile. Ho il fianco tenero che si presta agli spadini.

Incontra un gruppo di giovanissimi francesi che si rinfrescano alla fontana e intanto due ragazzini fanno down hill con i monopattini.

Che voglio? Chi voglio? Voglio Carlo? Sì, mi attrae e penso alle sue mani addosso. Ma voglio tutto: voglio andare oltre l’attrazione. Voglio che Carlo mi guardi per quella che sono. Che non mi ricatti se non sono come si aspetta. Avrà questa apertura nello sguardo? Vorrei che volesse soltanto concedersi.

Si avvicina alle sculture dei gatti e sbucano dalla siepe due leprotti dal manto marrone. Elisa è piena di sorpresa. Per quella sera ha avuto il suo colpo di scena, fa dietro front e si dirige verso il parcheggio.

 

Caterina

Traccia due

 

Caterina tenìa 20 anni, i capelli ricci, legati ‘nda ‘na crocchia e occhi lucenti, due fuochi, vivi e niri. Non era mai scesa da ‘u paese a vede’ ‘o mare che era a sei chilometri – ‘n’ora e un quarto a piedi – e però sognava di sta’ da n’ata parte. Parti’ p’ ’o Brasile, comm’ ‘a sora, j’ ‘o Venezuela, comm’ ‘a tanti d’ ‘o paese. Non ce le dicìa, però, ‘ste cose a ‘o ‘nnammurato. Si incuntravano in piazza o quanno Caterina ìa a piglià l’acqua a’ funtana.

Antonio, detto Tonino, faceva ‘o falegname e c’aveva scritto ‘nu biglietto e essa non aveva saputo bene che dicere, ma ci aveva cominciato a chiacchiera’. E poi Tonino era andato a casa a parla’ c’ ’a mamma e, quanno Caterina l’aveva accompagnato abbasc ‘e scale che se ne stava andando, l’aveva vasata. ‘Nu vaso vocca contro vocca e essa s’era sentita ‘nu poco strana.

Qualche mese cchiù tardi, ci dicette che nun ‘u vulìa cchiù.

Tonino nun ci putìa crede. Si disperava. Nun capiva che Caterina tenìa bisogno di vivere ancora nu poco, di i’ cunuscenno ‘o munn’.

‘O matrimonio, i criaturi, che ne saccio e poi perché co’ Tonino? Tonino nun mi piace cchiù e poi mi sta troppo ‘ncuollo, nun m’ fa’ respira’ da quando è venuto a casa mia.

Essa asciva, iss abitava di rimpetto, ‘a vedeva e subito ‘a seguìa.

Non pozz nemmeno i’ da ‘n amica per chiacchiera’ e magna’ ‘na pastarella c’ ’u cafè.

Accussì nu juorno essa c’ ‘o dicette. Isso nun trovava pace, nu ju cchiù ‘a bottega e ‘a spiava d’ ’a finestra.

Caterina accuminciò a sta’ sempre c’ ’a mamma, perché tenìa paura. Ma non si può controlla’ tutt’ cose.

‘Nu juorno Caterina rientrò da sola a casa e lasciò ‘a porta socchiusa, perché ‘a mamma si fermò poco distante a dare da mangia’ alle galline. Tonino ‘nu mumento fu a ‘o piano ‘e coppa: “Sposami, Cateri’, scappammo”, co l’uocchie da pazzo. “No, Anto’”, fece essa, co’ l’uocchie suoi vivi, e currìo abbasc’. Ma iss’ ‘a rincorse e ‘a sparò vicino ‘o purtone, dove s’erano vasati.

Essa cadìu sui gradini di fora, come morta. Poi si sparò pure iss’ all’istante. Sti fatti ‘i cuntò Caterina, che respirava ancora quann’ ‘i truvarono pe’ terra.

Melissa

Traccia 3

 

Non mollo, non mollo, non mollo! Non posso mollare. Non posso cadere. Sono sola!

Mi sto irrigidendo. Perché ho questo dolore all’ano, anche se non ho fatto sforzi? I muscoli non mi ascoltano, invece di distendersi si contraggono. Lo spasmo aumenta. Dal buco del culo va verso la parte bassa della schiena, cazzo. Ma perché? Perché non smette? Devo governarlo, devo calmarmi. No! È un dolore sordo troppo forte, sto svenendo, mi gira la testa. Non posso! Non me lo posso permettere. Devo tenermi insieme.

Melissa si ritrova a terra, tra il letto e il pavimento. Ha battuto la testa e il ginocchio, deve aver perso conoscenza per qualche secondo.

Eccomi, ci sono, devo solo calmarmi. Ora mi tiro su. Non è successo niente. Ora i muscoli pian piano si rilassano. Ecco, è passato quasi del tutto. Sono sola, ma ce la faccio.

Melissa respira profondamente, poi in maniera più regolare e le fitte diventano più tenui.

Indossa la vestaglia che ha appoggiato sulla sedia, insieme a gonne e pantaloni sgualciti. L’aria è ancora un po’ fredda anche se è marzo. Esce dalla sua stanza, sbircia in quella del pupo e si assicura che dorma. Attraversa la sala e va a farsi una tisana in cucina. Ha ancora il culo indolenzito. Quando è pronta la tisana, la sorseggia piano e ne respira i profumi di zenzero e anice stellato.

Poi si accomoda sul divano in sala e, rischiarata solo dalla luce gialla di un lume da scrittoio, comincia a pregare la Madonna. In quanto madre, in quanto donna.

Lei, agnostica, ancora sgomenta, prega che faccia crescere la sua bambina e che possa bastarsi. Nella notte silenziosa, una voce interna le dice: “hai tutto dentro di te”. Melissa si sente avvolta e compresa.

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Marcella

Traccia quattro

Marcella è nata nel 1950.

Bambina con le trecce, a scuola dalle suore;

a colazione zuppa di latte col pane anche il giorno della Prima Comunione.

Dalle suore fino al diploma magistrale, ma poi è andata a lavorare.

I tailleur con la gonna al ginocchio, il filo di perle, la borsa sotto il braccio.

Jeans e bandane nei capelli per qualche scampagnata a cui andare rigorosamente accompagnata.

Le sue amiche si facevano mantenere dai mariti e anche lei avrebbe potuto,

all’inizio c’erano da pagare le cambiali della casa, ma anche dopo non ha mai voluto.

Non ha mai letto Sibilla Aleramo, né Carla Lonzi o Lea Melandri.

Non ha mai sfilato con le mani a rombo, né partecipato a gruppi di autocoscienza,

ma, dicendo sì ad aborto e divorzio, ha preso coscienza.

Negli anni 80 e 90, nel giorno della “festa della donna” non ha mai seguito le amiche in pizzeria, giudicandola una fesseria.

Aveva preso coscienza ben prima, in realtà.

Sapeva che il portafogli di una donna deve essere pieno: glielo aveva insegnato sua madre al contrario, sopportando i rintuzzi, i malumori e le corna del marito.

Un giorno di baruffa Marcella, davanti al piatto di pasta e fagioli a tavola, sbottò: “Fossi io tua moglie, ti caccerei di casa”.

Il padre ricambiò lo sguardo torvo, ma per un attimo fu nudo e lei non tornò indietro.

 

Enrica e Franca

Traccia Cinque

Enrica aveva perso la mamma da piccina ed era andata in collegio con la sorella Franca, perché un uomo da solo non riusciva a occuparsi di due bambine. Lì, vicino ad Aulla, aveva imparato a ricamare e a lavorare all’uncinetto e a maglia. A Natale imparavano canzoni e poesie e realizzavano angioletti di carta da appendere all’albero, che le piacevano tanto. Tornate a Caglieglia l’aspettavano la nuova moglie del padre, due fratellini piccoli e l’inizio della guerra.

Enrica era di animo buono e capace di attraversare ogni cosa sorridendo, nonostante tutto. Aveva un viso tondo e grandi occhi. Aveva Franca che le faceva da mantello. Di notte, a volte, sia in collegio sia a casa, le si rannicchiava contro nel letto. Franca invece era segaligna e astiosa. Essendo più grande, aveva patito la morte della madre e mal sopportava la situazione che aveva ritrovato. Doveva saper badare a sé stessa e ai piccoli.

A guerra ormai inoltrata andavano in giro a cercare da mangiare: fichi, albicocche e uva rubate agli alberi e alle vigne.

Prima della guerra, nella piazza di Carrara, gli operai passavano dalla bottega di loro zia a farsi preparare la schiscia e poi andavano su alle cave a lavorare.

Durante i bombardamenti degli Alleati, un giorno, anche le due sorelle, la matrigna e i piccoli erano scappati su alle cave di marmo. Il padre non c’era perché era già stato chiamato nell’esercito. Franca teneva in mano un pentolino di latte per i bambini. All’improvviso la parete del monte di fronte fu colpita con un boato e il rimbombo tornando indietro li travolse, assordandoli.

Franca aveva il braccio tutto tremolante per lo spavento e il latte si rovesciò sulle pietre. Rivoli bianchi percorsero le sue calze e le sue scarpe. Alla paura si aggiunse lo sgomento per l’ira della “matrigna” che le urlò che era una buona a nulla.

Enrica cantava e chiacchierava, capace di attraversare ogni cosa sorridendo, nonostante tutto. Franca continuò a essere segaligna e astiosa.

Il papà di Enrica e Franca era diventato intanto un repubblichino, per cui le due ragazze temevano le rappresaglie dei partigiani.

Un giorno uno dei capi ordinò di portare biancheria, posate e quanto avevano in casa, al punto di raccolta. Franca custodiva la cassa del corredo di sua madre. Non avevano nient’altro, se non gli oggetti di uso comune. Andarono a stanarle, ma Franca, ragazzina, si sedette sulla cassa e rispose a quel manipolo di uomini:

Io di qua non mi muovo.

Loro si guardarono d’intesa l’un l’altro e decisero di lasciarla stare, forse ebbero un moto di tenerezza per la sua giovane età o, forse, apprezzarono il piglio sicuro e la voce ferma.

Inanna dei Sumeri

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di Neil Novello

Inanna è una dea sumera. Il suo nome, così magico e arcano, appare tra i segni cuneiformi di tavolette d’argilla. Diversi tra loro i luoghi di apparizione. Le epifanie della dea riguardano il mito, l’epica, l’inno, il salmo, l’elegia funebre e la favola. La sua presenza è dunque una costante diffusa tra mille frammenti e altrettanti passi scritti su antiche crete sumere. E così le sue gesta, testimoniate pressoché ovunque nell’antica civiltà letteraria orientale, fondano un mondo. Per il sumerologo Samuel Noah Kramer, Inanna è la «divinità sumera più amata e venerata». Sotto il segno del femminino, si è dinanzi a una dea in cui vive l’intera cultura di Sumer, perché Inanna è inscritta nella totalità di cielo, terra e oltremondo.

I canti di Inanna regina del cielo e della terra (trad. it. Franco Marano, prefazione Maria Edgarda Marcucci, Mimesis, 2023) è l’esito filologico di una selezione eterogenea, o meglio dell’acribia filologica di cui Kramer rende ragione nel saggio in appendice intitolato Scoperta e decifrazione di La discesa di Inanna”. Si tratta di una congerie di materiale letterario, nel lavoro di raccolta da parte di Kramer, a carattere monografico. Esso appartiene, tra l’orizzonte divino e la vicissitudine umana, alla dea come simbolica interezza dell’identità sumera. Ma non solo. Per mano di Diane Wolkstein, studiosa del folclore e «narratrice», I canti di Inanna, cioè il materiale “grezzo” raccolto da Kramer, assumono, tramite un lavoro a bulino, una «forma» letteraria. Un’opera di rassemblement, di culta amalgama genera infine un compiuto tracciato in versi. Modellando in poesia i frammenti sparsi di Kramer, Wolkstein traduce lo spurio in sublime. Alla fine, le tracce sulle tavolette ad arte sono sottratte al loro carattere multiforme e disarticolato, e trattate come materia di pura ricostruzione versificata. Oltretutto, a Wolkstein è da tributare un encomio anche per il brillante commento critico al lavoro. La sua bellezza emerge dall’articolato, meraviglioso saggio d’appendice intitolato Interpretazione delle storie e degli inni di Inanna.

Inanna risale i millenni. E con la dea la mitologia del suo nome: regina del cielo e della terra, madre degli animali e delle piante, responsabile della fecondità umana. Dopo la sua nèkyia archetipica, Inanna ha attraversato la totalità: dapprima il cielo e la terra, e alla fine il mondo infero. Tutta la natura, la natura fisica e la metafisica, è il luogo del suo regno aperto. E la storia di Inanna, un Bildungsroman  poetizzato nel «Ciclo» di Wolkstein, ormeggia il cammino di una vita: Lalbero di huluppu o le tracce della dolorosa formazione all’amore e la conquista del potere, Inanna e il Dio della Saggezza o il momento della «regalità», Il Corteggiamento di Inanna e Dumuzi, cioè la storia d’amore tra la dea e il pastore, l’uomo destinato a diventare Re di Sumer, La discesa di Inanna e il suo viaggio nell’oltretomba, e infine Sette inni a Inanna o le forme di venerazione della dea.

L’arco esistenziale di Inanna è dunque un racconto poetico per frammenti, una narrazione a schegge in cui Wolkstein tratteggia una biografia divina. L’esperienza di eros e del potere, nell’Albero di huluppu, eco palese dell’ebraico Albero della vita, emerge come un fatto, il primo, della Creazione. Nei «giorni primi», nei «primissimi giorni» della nascita del mondo, quando il «Padre fece vela,/Enki, il Dio della Saggezza, fece vela per l’oltretomba», il sentimento di eros e del potere infiamma Inanna. E la lotta aperta con la natura, il conflitto tra le «acque dell’Eufrate» e l’«albero di huluppu», strappato da Inanna al fine di essere portato con sé, fa dell’«albero» sacro l’oggetto di una contesa sovrumana tra il «serpente» e l’«uccello Anzu» che lo abitano, e «Lilith» che «fece del tronco la sua casa». «Io trassi l’albero dal fiume/E lo portai nel mio giardino sacro», nella confessione di Inanna al fratello Utu, che però le rifiuta il soccorso in occasione della pericolosa occorrenza, esprime la testimonianza vittoriosa di una donna non defraudata, non violata nella sua innocente volontà di unione simbolica. La riconquista della res amissa è affidata a Gilgamesh, l’eroe della celeberrima Epopea, il fratello «guerriero» di Inanna, che nell’«albero di huluppu» intaglia proprio il grande sogno della sorella, il «trono» del potere e il «letto» d’amore. Con il «trono» tratto dall’«albero di huluppu», come in una metamorfosi mitologica, nella biografia poetica di Inanna Gilgamesh introduce il suo momento più regale. Dall’«albero di huluppu» sgorga dunque un destino, si genera un atto di creazione divina. Esso origina da un desiderio, ricercare il «Padre», il «Dio della Saggezza» Enki, di cui Inanna è la «figlia». E ciò per ratificare, nella realtà del «trono regale», l’eredità del potere attraverso il simbolo dei «me». Essi sono i diversi poteri del regno di Inanna. Troviamo qui i «me» della «discesa nell’oltretomba», il topos esemplare di La discesa di Inanna. Conquistare il destino, nei Canti significa attraversare il conflitto, avallare la pulsione della libido dominandi. Per Inanna, i «me» sottratti a Enki identificano, come il sentimento dell’amore e del potere, la presa di coscienza che il potere reale equivale non a un bene ma alla catastrofe del mondo. Genera dunque un disastro, da parte del derubato Enki, sia il tentativo di carpire a Inanna la «Barca del Cielo» con i «me» sia la volontà di ricondurre nuovamente a Eridu, il paese di Enki, tutti i poteri ormai giunti a Uruk, il paese di Inanna.

Il seme del potere è fiorito nella conquista dei «me», quello dell’amore è espresso nel Corteggiamento di Inanna e Dumuzi. È il pastore sumero a conquistare Inanna, il cui infausto destino, di essere cioè perseguitato, dopo la sua discesa, dai «galla» infernali, replica, dopo Inanna, il rischioso viaggio nell’«oltretomba». L’intreccio di parole tra Inanna e Dumuzi, l’aspra levità del corteggiamento, genera l’amore: «La parola che avevano detto/Era la parola del desiderio/Dal loro attaccar lite/Venne desiderio di amarsi». Il Leitmotiv belligerante dei Canti, riflesso nell’orizzonte tumultuosamente carnale degli amanti, espone una scena d’amore alla maniera di una tenzone, un andirivieni tra canto e controcanto. Una tenzone nata nel segno palese di un’esposta carnalità, un incontro naturale, spontaneo, tra il «cedro» di Dumuzi e la «vulva» di Inanna. Gli oggetti sessuali diventano i simboli di due anime riunite, non soltanto sul talamo del loro incontro erotico ma nella più splendida scena della loro unio mystica. I Canti allora sono attraversati da un èmpito di corporale spiritualità, qualcosa che ricorda la levità amorosa del Cantico dei cantici.

Il nomos del mondo terrestre nei Canti risponde alle più misteriose regole di una sacralità celeste. Il mondano si spiega alla luce dell’oltremondano. E così La discesa di Inanna nel «Grande Infero» appartiene più a un’esperienza interiore, meno alla mistificazione letteraria di un viaggio reale. La «sacerdotessa» Inanna, che approda nell’«oltretomba» al termine di un volo sciamanico, così avrebbe amato scrivere Mircea Eliade, è munita dei «sette me». Sono i suoi più grandi poteri sacri, le potenze utili ad arginare il pericolo non già di morire, protetta com’è, Inanna, da «Enlil» e «Nanna», e soprattutto da «Enki», ma di non ritornare sulla terra. Di restare laggiù, come per altre ragioni accade a Euridice.

Nel saggio di Samuel Noah Kramer, in appendice al volume, Storia, cultura e letteratura sumera, si legge qualcosa in più sui me. Essi sono anche un «complesso di regole e di limiti universali e immutabili», una sorta di cifra del vivente, la stessa lingua del mondo creata sia per l’uomo sia per gli dèi. Il viaggio con i «me» non è senza ragione. La regina di Sumer vola nell’oltretomba per «Gugalanna», nientemeno che per lo sposo morto della regina degli Inferi, «Ereshkigal», la sorella di Inanna. Il passaggio nell’aldilà richiama in Inanna l’immaginario sacrale, i «riti funebri» mancati proprio al venerato «Gugalanna», così com’è per il mito greco. Un afflitto Sisifo nell’oltretomba confessa ad Ade che la moglie Merope non gli ha ancora reso gli onori funebri. Al di là dell’ideale agnizione, anche Rizieri Mercatante, nel romanzo l’Ultima erranza di Giuseppe Occhiato, senza «riti funebri» perdutamente vaga nel «mondo sottano». La sua dolente erranza, non diversa da quella di Sisifo, si spiega alla luce del topos sumero. Così l’assenza dei «riti funebri» come momento dissacratorio del sacro, in Inanna è un monito alla risacralizzazione, la via ai «riti funebri» come liberazione interiore. L’immaginario sacrale di Inanna, nei Canti, giustifica culturalmente il viaggio. La dea opera all’interno di una religiosità originaria, un’idea di sacralità per cui i «riti funebri» in onore di «Gugalanna» valgono più del rischio di non ritornare sulla terra. Al cospetto di «Ereshkigal», il nostos di Inanna è però pregiudicato. È una donna nuda quella che oppone il sogno del sacro alla violenza del potere oltremondano della regina infernale. Per accedere agli inferi, Inanna ha dovuto rinunziare forzatamente ai «me», rinunziarvi pur di coronare il desiderio dei «riti funebri» per «Gugalanna». E ancora per ricondurre la realtà al livello dell’immaginario religioso. La sua rivoluzione nell’aldilà resta più ideale che reale. Combattere la legge infernale ritrovandosi inerme, senza «me», a Inanna costa un passaggio inatteso, essere cioè degradata a «cadavere» solo per conquistare una duplice salvezza. Dinanzi a «Ereshkigal», Inanna muore. La sua resurrezione e il suo ritorno sulla terra tramite l’intercessione del gabbato «Enki», che salva Inanna per mezzo dei suoi emissari «kurgurra» e «galatur», non testimonia l’inutilità del viaggio. Chi raggiunge «Ereshkigal» per gratificare il proprio immaginario sacrale, e dunque volare nell’aldilà per rendere i «riti funebri» a «Gugalanna», opera per difendere l’ordine culturale, la religiosità profonda del proprio mondo. Quella di Inanna è dunque una caparbia fedeltà alla credenza, l’atto estremo e testimoniale di una difesa del magico al di là della propria vita. Ricomporre l’ordine infranto dell’immaginario sacro di Inanna, nella rivoluzione mancata, riafferma il senso di una presenza, quella per cui la realtà religiosa di una cultura, fedelmente perseguita, è destinata a durare oltre ogni possibile fine.

Valore (sillabario della terra # 22)

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di Giacomo Sartori

L’agricoltura ha sempre cercato i suoli migliori, e per gli arativi i coltivatori andavano a caccia delle terre più fertili e più soffici, con meno problemi possibili. A livello planetario non c’era di meglio di quelle delle grandi piane di sedimenti fini portati dal vento, il loess, presenti nell’Europa nord orientale, in Cina, nelle Grandi Pianure statunitensi e nella Pampa argentina. Generosamente dotate di elementi chimici, con una capacità di immagazzinare una notevole riserva di acqua, e facili da lavorare. Molte di queste zone privilegiate sono coltivate in modo intensivo da millenni, e hanno alimentato e reso possibili le grandi civilizzazioni. Ma anche tutte le piane alluvionali o di altro tipo, erano ambite, laddove non ci fosse un eccesso di acqua.

Le agricolture tradizionali sapevano però adattarsi anche alle situazioni meno fortunate, vale a dire alle terre in pendenza, e/o non molto profonde, pietrose, troppo argillose o troppo sabbiose, povere di elementi, mal drenate, e insomma per qualche motivo problematiche. Questi sono la grandissima maggioranza, e anche adesso nutrono, lo si dimentica sempre, la maggior parte della popolazione mondiale. Lo facevano adeguando tecniche colturali e varietà vegetali impiegate alle specificità dei vari angoletti dei differenti territori, e ai loro suoli, escogitando soluzioni puntuali. Se per esempio le superfici erano troppo pendenti, si costruivano terrazzamenti sostenuti da muretti a secco, in modo da ottenere, recuperando la terra buona, minuscole pianure artificiali. Se erano troppo magre si portava ogni anno molto letame, o si privilegiavano specie poco esigenti, se c’erano troppe pietre le si riunivano in mucchi o strisce, e via dicendo.

Le cose sono cambiate radicalmente con la meccanizzazione, perché i mezzi agricoli non possono lavorare bene nei campi troppo piccoli, o troppo in pendenza, troppo pietrosi. Questi si trovavano quindi impossibilitati a salire sul carro dell’epocale rivolgimento, e nel giro di pochi decenni sono stati tagliati fuori dal nuovo corso. Anche per un altro motivo: la selezione genetica che ha accompagnato il dilagare delle macchine sfornava varietà vegetali molto produttive, ma calibrate solo per le situazioni migliori. Dove i terreni erano poverelli, o siccitosi, queste stesse si rivelavano un completo fallimento. Una fuoriserie superveloce entra subito in crisi, su una stradina di montagna, dove un vecchio macinino robusto e facile da riparare si rivela invece un portento.

Di fatto l’agricoltura industriale considera buoni i suoli che permettono di dare grasse produzioni con le tecniche che impiega, uguali dappertutto, che considera le uniche possibili. Non importa che essi abbiano grosse limitazioni, se queste possono essere corrette con i potenti mezzi di cui dispone, e in particolare con la sua arma più micidiale, i composti chimici. Questi sono nello stesso tempo la cura e l’elemento aggravante, perché permettono di nascondere temporaneamente i danni fatti, pur fiaccando le terre. E poco importa che i rimedi richiedano molta energia di origine fossile, l’essenziale è che nei tempi brevi i guadagni superino i costi. Fino a poco fa i combustibili non costavano nulla, nessuno si dava pensiero per limitarne l’impiego. Nelle derrate agricole confluivano, senza che nessuno ci facesse caso, fiumi di petrolio.

C’è da spianare una serie di collinette che impediscono di avere enormi campi ben geometrici? Si spianano, poco importa se gli ottimi suoli che le foderano ci hanno messo quindicimila o duecentomila anni per formarsi. Bisogna creare un impianto di irrigazione per dei suoli capaci di trattenere pochissima acqua, in modo da poter coltivare specie che sono molto esigenti dal punto di vista idrico? Si crea, se queste sono pagate bene. Anche pompando l’acqua da un livello topografico ben inferiore, o da una falda che non può permetterselo, l’importante è che affluiscano i quattrini. Per la loro natura i terreni non possono trattenere gli elementi minerali? Si continua a fornirglieli, come riempiendo un barile senza fondo, poco importa che questi finiscano a inquinare falde e acque superficiali. Bisogna rasciugare una valletta umida con specie vegetali rare e una notevole ricchezza animale? Si rasciuga.

Quando invece l’agricoltura della chimica non ha soluzioni, le terre sono considerate inette, e perdono qualsiasi attrattiva. Le sue grandi macchine non possono per esempio utilizzare i suoli dei terrazzamenti, e quindi per lei queste superfici non valgono niente. Non conta nulla che siano ottime per certe colture, e siano essenziali per la conservazione del paesaggio e la sua bellezza: i muri vengono lasciati cadere, si lasciano impazzare i rovi e i franamenti. La Liguria fa scuola. Quello che dirime è solo il bilancio benefici e costi, senza conteggiare le perdite ambientali e quelli delle misure di ripristino, quando sono possibili, che prima o dopo si renderanno necessarie. Senza conteggiare il capitale naturale dei suoli, che viene dilapidato fino a esaurimento.

Questo avanzare da rullo compressore, incapace di venire a patti con le specificità locali, a cominciare dalle caratteristiche dei suoli, ha portato a una drammatica divaricazione geografica. Da una parte ci sono le zone pianeggianti sempre più meccanizzate e più produttive, e dall’altra quelle recalcitranti, che a meno di non trovare una loro nicchia altamente specializzata e con un mercato disponibile (viticoltura di qualità, serre…), sopravvivono subendo danni ancora più grossi di quelli della pianura, vista la loro fragilità, o vengono abbandonate. Da una parte le aree di pieno successo, e dall’altra quelle perdenti o escluse, come si deve in epoca neoliberale. Con la sua prevalenza di superfici agrarie in pendenza, che sono state in larga parte maltrattate e poi lasciate andare in malora, come si gettano nei rifiuti dei resti senza valore, l’Italia è un esempio paradigmatico. Un terzo dei nostri terreni considerati coltivabili non sono attualmente coltivati.

Il metro attuale per giudicare la bontà della terra è insomma quello dell’agricoltura industriale, che ha bisogno di vastissime superfici, poco inclinate, meglio ancora perfettamente orizzontali, molto uniformi, non pietrose, senza alberi o cespugli o muretti che rompono i coglioni alle macchine. In genere le doti organolettiche e qualitative dei prodotti sono molto basse, ma di questo lei non se ne cura, pensa alle tonnellate. Ignora che i suoli che lei disdegna possono essere ottimi, e ben vocati per determinate colture di qualità o determinate pratiche.

Che senso ha far correre come forsennate – a suon di sovvenzioni – una parte delle terre, le velociste, nascondendosi i costi energetici e ambientali, per lasciare che le terre meno dotate, le quali potrebbero dare il loro contributo, vadano al diavolo, assieme ai loro paesaggi, e alle persone che ci vivono sopra e hanno bisogno di cibarsi? La fame che imperversa in tanti Paesi poveri, è un fenomeno prevalentemente rurale, legato a queste realtà svantaggiate, non a quelle più fortunate. Può essere eliminata solo lavorando su soluzioni locali.

Pensiamo un attimo alle terre dei vigneti. Sostanzialmente i vini buoni vogliono suoli pessimi, se si adotta il metro dell’agricoltura industriale. Tutti vengono da terre con una o più grosse magagne: pietrose, o troppo superficiali, poverissime, squilibrate, con pendenze anche proibitive. Terre con difetti che non si possono correggere, e che per qualsiasi altra coltura non varrebbero un soldo. Se non fosse appunto per i vini magnifici che sanno dare, come quegli artisti ben poco prestanti o malaticci, e forse anche per questo pregnanti, che sfornano capolavori. In questo caso si pone al centro la qualità, non la quantità.

È davvero così utopico immaginarsi modi di coltivare in sintonia con i vari terreni e proprio per questo attenti al portato ambientale e ecologico, miranti alla qualità sanitaria e organolettica degli alimenti, a sfamare tutti gli esseri umani? Perché produrre troppe derrate di cattiva qualità, per poi sprecarne – come è implicito nell’approccio solo quantitativo e mercantile – una grossa fetta, per la precisione un terzo? Davvero non siamo capaci di affrontare il problema delle derrate agricole e dell’alimentazione mediando quantità e qualità?

Davvero dobbiamo rassegnarsi che una persona su dieci non abbia abbastanza da mangiare, tre su dieci non abbiano la sicurezza di potersi alimentare, quattro su dieci non abbiano i mezzi per alimentarsi in maniera sana, tre su dieci (cinque su dieci nel 2035) siano sovrappeso o obesi? Le terre, quelle superdotate e quelle più limitate, tutte egualmente preziose, potrebbero contribuire, tutte assieme, a fornire alimenti diversificati, sani e buoni, invece che a ingaggiare sfide per record di produzione del pugno di vegetali al quale si è affidato il quasi monopolio alimentare, distruggendo la fondamentale biodiversità e la resilienza a essa legata. Tanto per cominciare sbarazziamoci dei metri attuali che definiscono il valore delle terre, che sono quelli della logica estrattiva/distruttiva. E accettiamo che queste abbiano anche difetti e pecche, e facciano quello che possono, come noi umani.

(l’immagine: Curzola, Croazia, 2013)

Tre poesie da “Il contrario di abitare”

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di Fabrizio Sani

Tre testi da Il contrario di abitare, I Quaderni Del Bardo Edizioni 2022.

Mettiamo un mattino come un altro

Mettiamo un mattino come un altro,
fischiettando tra i marciapiedi della tua città
– fosse fine primavera –
tra gli smilzi fili d’aria
che la mia bocca lascerebbe cadere
abbandonassi anche qualche lacrima,
tu cosa raccoglieresti?

Mettiamo in un mattino come un altro
volessimo incontrarci in un bar per il caffè
– fosse fine primavera –
e io mi fossi un po’ attardato.
Una volta terminato il caffè,
mi chiederesti, con aria immatura,
di restituire quel tempo insieme che ti ho sottratto?

Mettiamo, dicevo, un mattino come un altro,
chiudessi i tuoi occhi e con le mani le tue orecchie su di me
– fosse fine primavera –
evaporassi assieme a tutto il mondo.
Supporresti che la vita procede ancora,
che oltre la tua morte nient’altro morirebbe?
Sapresti, con certezza celeste, di avermi davanti?
Vorrei sapere: un mattino come un altro,
ravvisando la luce sensuale del sole
– fosse fine primavera –
cominceresti a pensare al caldo che si attenua
in un mattino di fine estate
e alla vigna dove potremmo spogliarci e baciarci,
tra l’uva matura?

In conclusione, mi piacerebbe capire
semplicemente se posso chiamarti amore.

***

Una canzone triste

Mia nonna è il dipinto di mia nonna.
Mia nonna è l’inquilina di mia nonna.
Per me era il volto della domenica mattina
e qualche nascita e qualche morte e qualche eternità
che rotolavano dentro le rughe di un paese,
senza spingersi mai oltre la vecchia chiesa.
Mia nonna si avvicina lentamente,
molto più lentamente di ogni altra volta.
Mia nonna è il male minore di mia nonna.
Mia nonna mi mette una mano sulla spalla
e i capelli smorzano la carezza che dona.
Mia nonna è quel gesto obliquo con cui le tengo la testa
e ci insegna che niente dà più intimità della sofferenza.
Si ricorda quella canzone triste,
dice che fa: na na-na-na-na na na.
Per la prima volta in una vita intera
le sorrido per davvero.

***

Uomini-sabbia

Siamo uomini-sabbia,
equivalenti, ammassati, sottili, trascurabili;
in balìa della pietra e dell’aria,
del tuttavia che ridimensiona le fantasie.
Per questo motivo Pierpaolo ha rotto il bicchiere,
stamattina. Quello che avevi rubato per me.
E non mi sei mancata.
Si è liberato dei frammenti,
mi ha chiesto scusa
e non mi sei mancata.
Nel pomeriggio Lorenzo ha buttato la spazzatura:
adesso non c’è più nessun bicchiere
rubato per me, sopra il lavandino.
E non mi sei mancata.
Briciole di vetro – verosimilmente –
sono annegate in fondo al tubo di scarico;
resti di cibo e tanta acqua per pulire ogni ricordo,
persino il tuo – gli saranno di compagnia.
Proprio perché non mi manchi
ho passeggiato serenamente sul luogo del decesso,
mentre penetravano dalla finestra i rintocchi di una campana,
Anita dipingeva e sulle sue guance e sulla sua tela
gocce marroni rotolavano giù.
Non mi sei mancata, no;
siamo uomini-sabbia e i nostri sogni
non sono che ombre irrilevanti.
Se mi fossi mancata sarebbe andata diversamente:
ogni cosa si sarebbe seccata al mio sguardo,
il marmo del tavolo si sarebbe crettato
e la pelle del conduttore in televisione sarebbe sgualcita e ingrigita,
scoraggiandomi a cercare uno specchio
per fissare le mie lunghe ciglia appassire
e precipitare laggiù in fondo, assieme alla polvere di vetro,
quasi sabbia, ma non mi manca.
Se non fossimo uomini-sabbia
mi ameresti di nuovo
e accadrebbe presto,
sarebbe semplice per chi ha dei sentimenti
e se proprio tu fossi l’unica ad averli
vorrai vedermi di nuovo e non potrai
e questo sarà il perché: siamo uomini-sabbia.
E tu ci crederai, non avrai alternativa.
È così che deve andare, cadranno le tenebre,
l’acqua che ci inghiottirà – attraversandoci –
diventerà sempre più scura
impedendoci di vedere attraverso,
non proveremo nostalgia.

Foto di PublicDomainPictures from Pixabay

Parlare col culo

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di Daniela Besozzi

Sono una persona volgare. Dico cazzo, vaffanculo e bestemmio la madre del cristo. La mia bocca è come un buco di culo, quando serve esce merda.

Daniela ironizzava spesso sull’ipotesi che io fossi affetta dalla sindrome di Tourette, ma io vi giuro che la mia mente è sana. La ricerca scientifica congettura che la coprolalia sia un indizio di sincerità. Di fatto, l’assoluta verità sugli eventi precedenti e successivi allo stupro è l’unica cosa che avrete da me. Di come progettai l’omicidio, invece, vi dirò ben poco.

Conobbi Daniela il terzo giorno del terzo mese del millenovecentonovantatrè. Zero-tre zero-tre uno-nove-nove-tre. Facile ricordare una data così se sei una matematica. Anche Daniela lo era. O meglio, voleva diventarlo.

Noi matematici classifichiamo il mondo in base al numero di buchi. Se sei un bicchiere, hai zero buchi: ciò che entra, resta. Se sei una ciambella, hai un buco e ci puoi infilare il dito che, come entra, così esce. Se sei un essere umano, il tuo buco è quello che crea continuità fra ciò che entra dalla tua bocca ed esce dal tuo culo. Nel caso dell’essere umano, però, ciò che esce non è uguale a ciò che entra. Nel caso dell’essere umano, a volte, ciò che entra non esce più. Ho una invidia fottuta per quelle specie di ctenofori che non hanno l’ano collegato alla cavità orale e possono cagare da qualsiasi punto del corpo. Una gran comodità, io credo, quando hai molto da dire.

Luca, di parole, ne diceva poche. Lui era un pragmatico. Lui era il misterioso, il noncurante, l’impenetrabile. Luca, l’orfanello cresciuto dagli zii. Luca, il grandissimo figlio di puttana.

Il terzo giorno del terzo mese del millenovecentonovantatrè, Daniela e io ci trovammo per caso a condividere lo stesso tavolo nella biblioteca comunale. L’una accanto all’altra la mia e la sua copia del Kosniowski, l’unico testo universitario con la copertina arancione. A che anno sei? Al terzo, e tu? Io al secondo. Ciao, mi chiamo Daniela. Anche io.

Daniela era il mio esatto contrario, tutto ciò che non avrei mai potuto essere. Io, capelli corti tagliati a cazzo, il seno piatto indossato nudo sotto maglioni sformati, la magrezza sulle ossa. Lei, l’equazione perfetta della femminilità: un alternarsi di convessità e concavità che iniziavano dai boccoli e proseguivano sulle spalle, scendevano dalle labbra al seno decisamente troppo generoso, e culminavano in un fondoschiena così rotondo e pieno da far sembrare Giotto un qualunque principiante.

Iniziammo a studiare insieme ogni pomeriggio. Passavo a prenderla a casa, citofonavo, scendeva, la sfottevo per le stragi di fiorellini o di pois sparpagliati sui suoi vestiti come sequenze di Sobol, e ci incamminavamo verso la biblioteca. Il venerdì ci accompagnava suo fratello, che era all’ultimo anno di chimica e un adorabile stronzo. Elio ci chiamava la Thelma e Louise di Como. Vi manca solo la Ford Thunderbird, diceva. Ma a noi bastava il nostro tavolo in biblioteca, i nostri libri, la nostra matematica, le sue curve e le mie superfici piane. Alla fine del quarto mese del millenovecentonovantatrè, Daniela aveva rubato il mio cuore e io la sua matita.

Ma tu lo conosci? Abbastanza per dirti che è meglio evitarlo. Ma sai cosa studia? Ingegneria gestionale, il classico figlio di papà. Ma è vero che ha perso entrambi i genitori quando era piccolo?, deve avere avuto una vita difficile, poverino. Difficile un cazzo, è un Taiana, sono pieni di soldi quelli. Ma tu non lo trovi bello? Dani, dammi retta, stagli lontano. Ma ogni tanto mi guarda. Dani, qui tutti ti guardano, hai due tette sparate sul mondo e un culo che è un inno alla gioia, quello vuole solo scoparti. Ma come fai a essere sempre così, non pensi che anche i ragazzi abbiano voglia di parlarci, con noi ragazze, di camminare mano nella mano, di essere abbracciati? Non riesci proprio a prendere in considerazione che siano capaci di provare amore? Come no, vedrai che quando usciamo da qui troviamo pure il cavallo bianco del tuo principino che pascola nel giardino della biblioteca.

Non sono mai riuscita a capire come Daniela conciliasse il suo schifoso romanticismo con il mio, a suo dire insopportabile, cinismo. Ipotizzo, ma non dimostro, che ognuna di noi avesse bisogno di sentirsi dire dall’altra ciò che non era in grado di pensare, e tanto meno di vivere.

Il quinto mese del millenovecentonovantatrè fu piovoso, la biblioteca si trasformò nella tana di chi voleva studiare e di chi avrebbe preferito farne a meno ma pensava fosse meglio andare a caccia di figa piuttosto che bagnarsi. Il figlio di puttana diventò un assiduo. Io lo guardavo con diffidenza, Daniela con troppa attenzione.

Ciao, Besozzi. Ciao, Taiana. Tu studi matematica, vero?, ho un problema con gli integrali di Itō, se non passo l’esame di matematica finanziaria mi salta l’Erasmus, mi dai qualche dritta? Posso aiutarti io, se vuoi, sto preparando istituzioni di analisi superiore, il calcolo differenziale stocastico non è difficile come sembra. Matematica anche tu, quindi?, grazie, saresti un angelo, mi chiamo Luca. Io sono Daniela, felice di conoscerti.

Il sesto mese del millenovecentonovantatrè l’orfanello sferrò il primo attacco. È stato incredibile, Dani, è stato tutto così romantico da sembrare un sogno. È venuto a prendermi dopo le cinque, era elegantissimo, mi ha dato un bacio sulla guancia, mi ha aperto lo sportello dell’auto, si è seduto al posto di guida e mi ha sorriso. Pronta?, ti porto in un posto speciale. Ho parlato per tutto il tragitto, c’era una luce bellissima nel cielo e nessuna traccia del temporale previsto dal meteo. Mi ha portato in una zona dove non ero mai stata, poco fuori dalla città. Ti sarebbe piaciuta moltissimo, c’era tanto verde, prati, un piccolo bosco. Era tutto così bucolico che quando ha parcheggiato ho temuto mi avesse portato in camporella, e mi venivi in mente tu con i tuoi stai attenta e non fidarti. E invece è sceso, mi ha di nuovo aperto lo sportello, mi ha teso la mano perché la stradina era sterrata e io avevo i tacchi, mi ha detto appoggiati a me, mi ha detto ti tengo. Ci siamo incamminati verso il bosco, finalmente l’avevo accanto, mi stringevo al suo braccio, Dio che profumo aveva. Alla fine della strada c’era un cancello, ci credi che il bosco è una proprietà privata dei Taiana? Ha aperto il lucchetto che serrava la catena e mi ha detto che mancava poco, che non c’erano pericoli. Quindi qualche parola l’ha detta pure lui questa volta?, si è degnato di esporsi con te, l’agnellino di dio. In effetti non è un chiacchierone, ma quando siamo sbucati dall’altra parte del boschetto è mancata la voce anche a me. Dani, sembrava di essere dentro un film: c’era una casetta di legno e un laghetto con una coppia di cigni, fiori di ninfea e cespugli di giunchi tutt’intorno. E magari siete arrivati lì proprio al tramonto, eh?, sa giocarsi bene le sue carte l’orfanello, strano che non abbia fatto comparire pure gli unicorni. No, credimi, è stato tutto perfetto. Mi ha detto che non aveva mai portato nessuna ragazza lì, che quello era il posto preferito di sua madre. Non è come dici tu, sai?, è un ragazzo molto dolce.

Era davvero raggiante, cristo santo. Ma per cosa poi?, un paio di gesti gentili dell’orfanello, qualche parolina elargita al momento giusto, e una buona dose di scattering di Rayleigh a scomporre le lunghezze d’onda della luce nel cielo. Il tramonto è il peggiore inganno della natura per i romantici, si sa. Ma Daniela era una sognatrice, e io non ci potevo fare un cazzo. Quel giorno aveva un sorriso che le spaccava il viso. Mi buttò le braccia al collo. La tenni stretta, non volevo lasciarla andare. Daniela, sono felice se lo sei tu, ma fammi una promessa: stai attenta, non ci si può fidare di un senza madre.

All’inizio del settimo mese del millenovecentonovantatrè, trovai Elio ad aspettarmi all’uscita della biblioteca. Sua sorella non usciva di casa da tre settimane. La voce della madre al citofono mi riferiva che Daniela non si sentiva bene. Citofonai ogni giorno della prima settimana. No, Daniela oggi non viene in biblioteca. Citofonai ogni santo giorno della seconda settimana. Mi dispiace, Daniela, non se la sente ancora di uscire. La terza settimana chiesi di poter salire, vederla, con la scusa di portarle i testi per gli esami. Niente da fare, Daniela era inaccessibile. Feci quindi l’unica cosa che sapevo fare ogni volta che la vita mi girava storta: mi impadronii del nostro tavolo in biblioteca e mi misi a studiare senza tregua. Il figlio di puttana intanto era partito per Londra, per i suoi tre mesetti di figa gratis spesati dalla comunità europea.

Mi ha chiesto di portarti questo. Il Kosniowski?, io ce l’ho già, perché vuole darmi la sua copia? Ma che ne so, non ci capisco più un cazzo di mia sorella, non sembra più lei, non studia più, qualche giorno fa ho addirittura trovato un libro nel cestino, roba di calcolo stocastico o qualcosa del genere, le pagine tutte strappate. Ma cosa cristo le è successo?, non vuole nemmeno vedermi. Non lo so, non parla, se ne sta chiusa in camera sua tutto il giorno, ci ha svegliato in piena notte urlando già tre o quattro volte, ha pure pisciato nel letto, mi fa venire i brividi, cazzo. Quando ha iniziato a stare male ho pensato che le fosse venuta una crisi d’ansia per gli esami, ma non è da lei, non ha mai saltato una sessione in tre anni. Mia madre è in palla totale, io di giorno devo andare in laboratorio per finire la tesi, quando rientro la sera sono messe una peggio dell’altra, mi tocca fare da fratello, figlio, padre e pure marito, non ce la faccio più. Con te parlava, Louise, non è che è successo qualcosa all’università?

Il secondo giorno dell’undicesimo mese del millenovecentonovantatrè, che sia gloria a tutti i santissimi morti, nella mia bocca entrò la lingua di Luca. L’avevo incrociato fuori da un’aula, lui aveva fatto finta di non vedermi, io ero andata dritta nella sua direzione. Un cenno con la testa, come a dire ciao, come non fossi degna di sentire la sua voce, come fossi un qualsiasi togliti dal cazzo. Di rimando, avevo sfoggiato il migliore dei miei sorrisi. Bentornato, com’è andato l’Erasmus? Mah, niente di che, però Londra è il massimo. Qui che si dice, invece? Senti, Taiana, andiamo al sodo, che a nessuno dei due piace perdere tempo. Mi dicono che ti arriva roba buona, ho bisogno di una botta per star dietro alle lezioni, se tu pensi al fumo io porto da bere.

Mi portò al laghetto, nella casetta di legno tirai fuori la bottiglia di Gordon’s. Lui si fece un Last Word, io il gin lo bevo liscio. Sbriciolò l’hashish, rollò la prima canna, fece un paio di tiri e me la passò. Io fumo fuori, Taiana, voglio vedere le stelle, tu fattene un’altra. Camminai sul prato, fino all’acqua nera, e ci buttai dentro quella merda. Mica sono così scema da sputtanarmi i neuroni, io ci voglio campare con la matematica. Lo ritrovai sdraiato sul divano, il bicchiere vuoto posato per terra, la canna fra le labbra, gli occhi due fessure da bestia ubriaca. Gli girai le spalle, frugai rapida nella borsa e presi il necessario. Non ti facevo così, Besozzi, sembravi la solita secchiona stronza e cagacazzi. Beh, in effetti lo sono, e quindi?, facciamo invece che ti riempio il bicchiere, che stai parlando pure troppo per i miei gusti. Se non vuoi sentirmi, stronzetta, tappami la bocca.

E così feci. Lo raggiunsi sul divano, mi sedetti a cavalcioni su di lui, posai il bicchiere sul suo petto e gli misi la mano sinistra intorno al collo. Adesso ti fotto, Taiana, come mai nessuna. Gli slacciai la cintura, il bottone e la cerniera dei jeans. Aveva già il cazzo duro. Presi il bicchiere e lasciai scendere nella mia bocca un sorso del suo gin, me ne colò un po’ sul collo. Mi afferrò per le spalle e mi tirò contro la sua faccia. Quello era mio, stronzetta, ridammelo. Lo vuoi tutto così, dalla mia bocca nella tua bocca, un sorso dopo l’altro, mentre ti stringo il cazzo fino a fartelo esplodere?

Mi tolsi le scarpe, i jeans e le mutande. Lo presi per un braccio e lo trascinai per terra, sbatté la faccia sul pavimento, non disse nulla. Fu tutto piuttosto veloce, mi bastarono pochi minuti per mettere il figlio di puttana nella posizione giusta e prepararmi a parlare. Quando sentii lo spasmo, mi accucciai sopra la sua faccia, gli spalancai la bocca e ci cagai dentro. Usai le mutande per pulirmi il culo alla meno peggio, e gli cacciai in bocca pure quelle. Sciacquai i bicchieri e me ne andai.

Riuscii a incontrare Daniela durante le vacanze di Natale, un giorno che sua madre era andata a far visita a dei parenti. Fu Elio ad aprirmi la porta. Mi aveva avvisato, ma mi paralizzai vedendola. Si era rasata i capelli, era magra come un deportato.

Ti ho riportato il Kosnioswki, Dani. Ho letto tutto.

Si mise a piangere. Si afflosciò sul pavimento. Mi accucciai di fianco a lei e la abbracciai e la lasciai piangere e le baciai la fronte e le accarezzai la testa e ingoiai in silenzio tutta la merda che avevo sul cuore. Restammo così per un’ora, forse due. Il pavimento di marmo era freddo come una tomba. Tremavo. Elio si sedette accanto a noi, con due calici di spumante. Venite qui, una a destra e una a sinistra, che quando mi ricapita di abbracciare due Daniela in una volta sola. Sei pronta, Thelma? Mi strinse la mano. Non si torna indietro, Louise. Le fu sufficiente un sorso.

Il figlio della madonna puttana si trasferì a New York a gennaio. Di lui non so più nulla.

“Autorizzare la speranza”: una lettura a più voci #2

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[Per Interlinea è uscito un libro importante: Autorizzare la speranza. Giustizia poetica e futuro radicale di Italo Testa. In questo saggio, a cavallo tra teoria della poesia e esemplificazione di poetica, l’autore mette a frutto la propria duplice esperienza di poeta e filosofo. Ne risulta un libro denso di riferimenti e riflessioni, che approfondisce in modo particolare il nesso tra genere poetico e utopia. Abbiamo invitato alcuni autori a realizzare una lettura di questo saggio. I primi due interventi sono di Vincenzo Bagnoli e Francesco Deotto sono apparsi qui. I due nuovi interventi sono a firma di Stefano Modeo e Tommaso Di Dio. a. i.]

Nostalgia, antimemoria del futuro

di Stefano Modeo

Tempo fa a Bologna, al termine della presentazione del suo L’indifferenza naturale (Marcos y Marcos 2019), dopo aver discusso a lungo di luoghi, chiesi ingenuamente e con una certa vaghezza a Italo Testa quale fosse il tempo a cui quella raccolta faceva riferimento. Un tempo inteso anche come luogo da abitare o da costruire, a cui tendere o immaginare. Non sapevo allora, ma avevo percepito che la sua poesia avesse a che fare con la possibilità, con la lecita pretesa di autorizzare una speranza. Versi come: «[…] tutto è pronto, il sentiero è spianato, / il cancello divelto tra i pali, / noi aspettiamo, non resta che questo, / con la falce nel pugno in silenzio / aspettiamo che venga domani.» mi avevano suggerito quella domanda, versi nei quali l’attesa faceva risuonare la stagnazione del presente, l’impasse onnipervasivo oltre il quale non c’era (e non c’è?) alternativa, idea di futuribile e a cui il poeta rispondeva con una presa d’atto: non resta che aspettare, «non resta che questo». Nel frattempo due dibattiti intrecciati l’uno con l’altro, in Italia e in Europa, prendevano sempre più piede: la questione ecologica e la gentrificazione e mercificazione delle città. Circa un anno dopo così, riproposi quella domanda a Italo Testa, in forma più articolata, in un’intervista che uscì sul n.96 della rivista Atelier e su Nazione Indiana sul tema Poesia&città. Nella risposta, inserita e ampliata nel saggio Autorizzare la speranza. Giustizia poetica e futuro radicale, Testa a proposito della funzione della poesia scrive:

Questo è il perimetro del tempo in cui oggi la poesia viene al mondo. Eppure, la poesia si legittima se è in grado di esprimere una resistenza e una differenza dell’immaginario, una fenditura del presente, ricordandoci una diversa memoria, un’antimemoria del futuro. Oggi tendiamo ad identificare, per usare due categorie di Luhmann, il ʻʻfuturo presente’ʼ – il futuro per come ce lo rappresentiamo – e il ‘ʻpresente futuro’ʼ – ciò che tendiamo a divenire, che sarà domani, il versodove per cui ci incamminiamo oscuramente. Non sappiamo verso quale mattino si muova il mondo, ma in fondo, come scriveva Paul Celan nei suoi appunti per Der Meridian, «les jeux ne sont pas encore faits» è il «pensiero centrale» che «accompagna qualunque intenzione poetica». Noi soffriamo di determinatezza, crediamo di vivere nella gabbia d’acciaio di un presente senza confini ma iperreale nei suoi dettagli determinati, in nicchie virtuali che ci isolano dagli altri, in una bolla temporale che ci separa da un futuro possibile. Ma tra le possibilità della poesia, e di ciò che chiamavamo letteratura, c’è quella di ricordarci lo scarto tra presente futuro e futuro presente – l’inesauribilità del primo da parte del secondo – gli aspetti di latenza, e indeterminatezza, delle nostre traiettorie, la vaghezza del presente e gli spazi possibili, divergenti, dell’immaginario e del paesaggio sociale. Le nicchie sono immaginari in inverno, ibernati, la bolla del presente è solo una bolla, e può essere soffiata via.

Antimemoria del futuro, ma come si costruisce, come si mette in pratica questa parola che suona quasi un controsenso? Per provare a dare un’interpretazione di questo concetto, dovrò necessariamente partire dalla mia esperienza personale.
Io sono nato in una delle città più inquinate d’Europa in cui il problema del futuro, di immaginare un’alternativa a quella desolante realtà è ancora oggi una questione irrisolta. Ho vissuto lì per ventisei anni, poi sono andato via, come molti, troppi, un’infinità di persone. Quando si parte, si abbandona un luogo per molto tempo, forse per sempre, inizia per ogni uomo la grande questione dell’identità: chi siamo? Quali differenze portiamo? E perché? Cosa ci divide dal luogo in cui siamo e da quello che abbiamo lasciato? Allora per trovare delle risposte ci si può fare più vicini ai classici: si capisce perché Ulisse piange sulla spiaggia di Calipso; perché Itaca occupata merita una liberazione; la disperazione di Telemaco; il grande viaggio di Abramo per raggiungere una terra; il mare, il cammino. Si cerca nel passato, nelle voci degli altri, la nostra. Quello che ci divide è certamente un dolore, talvolta è nostalgia, qualcosa che ferisce, un’idea originaria di noi stessi nel mondo che non c’è più. Oppure è la nostra assenza: mancare sempre. Oppure ancora è il sentirsi stranieri ovunque, anche quando si torna. Mi sono interrogato a lungo su questo sradicamento, sul dolore che può nascere dalla perdita di una comunità in cui ti riconosci, in cui comprendi gli spazi, la loro significazione, gli sguardi della gente, i rumori, i sotterfugi, le contraddizioni. Soprattutto, mi sono interrogato a lungo su cosa possa significare tornare indietro.
Mi viene in mente la storia raccontata da Ernesto De Martino in La fine del mondo quando una volta, lungo una strada in Calabria, mentre stava guidando, chiese a un vecchio pastore indicazioni su un bivio che stava cercando. De Martino racconta che, poiché le spiegazioni del pastore erano poco chiare, gli propose di accompagnarlo in macchina fino al bivio e poi riportarlo al punto iniziale. Il vecchio pastore accettò con diffidenza e durante il viaggio cominciò ad osservare in modo agitato fuori dal finestrino, alla ricerca di qualcosa di importante. Improvvisamente esclamò: «Dov’è il campanile di Marcellinara? Non lo vedo più!». Il campanile di quel villaggio infatti non era più visibile all’orizzonte. Di conseguenza, non fu possibile proseguire con il pastore e fu necessario riportarlo al punto di partenza dove salutò con gioia il ritorno del campanile smarrito. Questa sparizione, spiega De Martino, evidentemente sconvolse il mondo familiare del pastore, il suo spazio domestico. Per lui, la scomparsa rappresentava un’angosciante perdita della propria patria culturale

Se vogliamo, questa condizione di sradicamento e spaesamento, in una società frammentata e omologata, fatta di individui e sempre meno di comunità e in cui è in atto un vero e proprio assalto alla memoria, su diversi livelli vale sempre.


In un certo senso si è costantemente orfani di qualcosa e questa condizione irrisolta genera un nomadismo disperato, per cui si cerca di rintracciare costantemente espressioni di quella comunità, di quei luoghi o di una minima e residuale patria culturale nell’altrove in cui si è stati precipitati.


Tuttavia ciò che è distante o perduto si può ricostruire costantemente su piani immaginari, si può contaminare ed espandere. E proprio su questi piani immaginari in cui si alternano malinconia, gioia del ritorno, nostalgia, si può costituire anche una coscienza, come presa di parte, scelta di legame e difesa ancora più forte di ciò che ci è stato sottratto. Scrive Leopardi nel suo Zibaldone:

Ogni uomo sensibile prova un sentimento di dolore, o una commozione, un senso di malinconia, fissandosi col pensiero in una cosa che sia finita per sempre, massime s’ella è stata al tempo suo, e familiare a lui. Dico di qualunque cosa soggetta a finire, come la vita o la compagnia della persona la più indifferente per lui (ed anche molesta, anche odiosa), la gioventù della medesima; un’usanza, un metodo di vita. […] La cagione di questi sentimenti, è quell’infinito che contiene in se stesso l’idea di una cosa terminata, cioè al di là di cui non v’è più nulla; di una cosa terminata per sempre, e che non tornerà mai più.

Un giorno Paolo Febbraro mi disse: «La nostalgia per ciò che sparisce deve e può modellare il nuovo mondo, perché altrimenti questo mondo non sarebbe nuovo, ma fingerebbe di essere l’unico». È infatti attraverso la perdita di un mondo, dal dolore che ne scaturisce, che ci si proietta in avanti, nel futuro. Non nella restaurazione, bensì nella costruzione. Qui avviene anche la poesia. Negli anni mi sono reso conto che nei versi ho provato a restituire un mondo che avevo perduto, creandone uno nuovo. Con la poesia si afferma in noi una quasi verità, una percezione di raggiungibilità o di avvicinamento a quel luogo, che è appunto il luogo della verità, con cui facciamo i conti con noi stessi e non solo, in cui si scontra o si accarezza la memoria e il nostro desiderio di conservazione, di sopravvivenza, di autodistruzione, estinzione o miglioramento. Ma si tratta di una quasi verità, questo non bisogna scordarlo, un luogo annebbiato e dagli incerti contorni, un luogo che rimanda ad altri mille luoghi, uno specchio infranto. La poesia – che è forma della mente – è dunque anche antimemoria del futuro e si trova in fondo all’«ombelico dei sogni» per citare Freud e un libro recente di Vittorio Lingiardi. Ma proprio perché parliamo di ombelico sappiamo che alla sua origine c’è un taglio, una separazione, un trauma che lo genera. È necessario innanzitutto generare o, in altri casi, risalire, ripercorrere questa origine, questo taglio per raggiungere la poesia. Nella Teogonia di Esiodo, Gea dà alla luce il Cielo stellato (Ouranòs asteróeis) affinché possa coprirla e fungere da dimora per gli dei. Dalla loro unione nascono i Titani, tra cui Crono che, guidato da Gea, taglia i genitali di suo padre Ouranós con una falce. Questo atto permette a Cielo e Terra di separarsi. Il Cielo diventa distante e inaccessibile, si fa vuoto, distesa di assenza. Al cielo si rivolgono i desideri: guardando l’infinito cielo stellato, l’uomo sperimenta una mancanza ma anche l’aspirazione verso l’alto, incarnando il movimento del desiderio e dell’elevarsi partendo dal proprio limite terreno.

Concludendo: nel tempo in cui scrivo questa nota non sono affatto sicuro che in generale, seguendo Testa, si possa autorizzare una speranza o se sia più corretto dare sfogo al pessimismo della ragione. O meglio, ciò che mi chiedo è: se la poesia in sé non autorizzasse naturalmente e spontaneamente una speranza – anche la poesia più cupa – esisterebbe? Forse tutto ciò che ha a che fare con l’immaginazione autorizza sempre una speranza. Credo dunque che vi siano in me almeno due differenti risposte: quella del poeta e quella dell’intellettuale e che nessuna delle due sia più onesta dell’altra. Faccio mie le parole di Andrea Zanzotto che in un suo intervento del 2006 dal titolo Sarà (stata) natura?, scriveva:

L’ubi consistam della poesia si è ridotto alla verifica della propria futilità, oggi che lo stesso nome di ʻʻnaturaʼʼ è divenuto un relitto fonico privo di senso, avendo perduto la possibilità storica di riferirsi a una realtà pur minimamente adeguata alla nobilitas del suo significato – cui, del resto, si ostina caparbiamente ad alludere. Ma, nel medesimo tempo, la poesia si trova ad essere investita di un ruolo paradossalmente fondamentale: quello di instaurare, magari ricreandole ex novo, le pur esilissime connessioni vitali tra un ʻʻpassato remotissimoʼʼ e l’odierno ʻʻfuturo anterioreʼʼ di un rimorso che, pur percependosi come tale, non è oggi nemmeno in grado di spiegarsene la ragione.

Resta ferma, insomma, la convinzione che la poesia debba ostinarsi a costituire il ʻʻluogoʼʼ di un insediamento autenticamente ʻʻumanoʼʼ, mantenendo vivo il ricordo di un ʻʻtempoʼʼ proiettato verso il ʻʻfuturo sempliceʼʼ – banale forse, ma necessario – della speranza.

*

Per un’idea patica della teoria 

di Tommaso Di Dio

Della lettura del libro Autorizzare la speranza di Italo Testa mi sono rimaste nella mente diverse impressioni. Innanzitutto a colpirmi è stato il punto di vista formale. Non è un infatti un saggio unitario, non è un monumento teorico; sembra che Testa abbia volutamente evitato che il suo lavoro apparisse un monolite inattaccabile. Autorizzare la speranza è un libro selvatico, scaleno, poroso e in questo sta anche il suo fascino strabico e sfuggente. Se raccoglie diversi interventi intorno a alcuni definiti fuochi tematici, non si preoccupa sempre di coordinarli fra loro in un vero e proprio discorso unitario: i temi tornano fra le pagine e riaffiorano sempre colti a partire da esigenze specifiche diverse. Il volume ci dà l’impressione di essere un asterismo di occasioni in cui a essere veramente costante, al di là dei temi, è un’insistenza, una sorta di temperatura di fondo: un’idea patica della teoria che ha la poesia come gemello. È come se Testa si proponesse di scrivere della poesia legandosi al suo oggetto non solo da un’esteriorità, ma da un vincolo intimo che non vuole nascondersi, ma anzi offrirsi al lettore come ineluttabile prodromo della discussione. Ecco, è come se Autorizzare la speranza ci dicesse a ogni pagina: o siamo coinvolti dal nostro oggetto di studio o non ne vale la pena. È così che i temi emergono: come pulsazioni di una ricerca, dentro un cammino di ricerca, uno fra i possibili, che non ha tanto di mira una parola definitiva che non ammetta repliche, ma al contrario è più interessata a mostrarci un’etica del lavoro teorico, un certo modo – ibrido e contaminato – di stare dentro i discorsi.

In questo modo mi pare che Testa ottenga un effetto importante. Invece di consegnare il suo lavoro a un anacronistico tribunale della storia che ne debba giudicare la perfezione, l’unitarietà del libro è integralmente nelle mani del lettore che è sollecitato da questa dimensione formale a intessere un dialogo, a partire dalla sua prospettiva, con le riflessioni suggerite: un dialogo che sia anche contraddittorio, dialettico, antagonistico. Il libro insomma lascia dei buchi, degli sbreghi, degli spazi, punti non pienamente risolti né esauriti: e va benissimo così. A me pare che questo sia un aspetto straordinariamente prezioso perché il libro di Testa non vuole chiudere i giochi su ciò che scrive, non è un libro che arriva postumo a sé stesso o a una riflessione già svoltasi altrove e della quale qui se ne dispongano gli inerti resti; mi pare voglia invece indicare una molteplicità di piste per gli studi della poesia che sono ancora tutt’ora aperte e che è bene che restino aperte.

Innanzitutto riprende un tema antico e – anche per me – decisivo: il legame fra poesia e verità. È un tema classico, addirittura esiodeo; è da esso, come si sa, che per Platone dipende il destino della poesia nella polis. La poesia va ospitata dentro i saperi della città democratica oppure è il misero orpello di una manìa seduttiva pericolosa e in ultimo da scacciare? Ma il tema attraversa tutta la trattatistica rinascimentale e barocca per divenire centrale nel romanticismo (pensiamo solo a Leopardi e Manzoni) e non ha smesso di agire nel Novecento: facciamo solo i nomi di Montale, Fortini, Mesa. Ecco, questo rapporto era caduto totalmente nell’oblio: era davvero troppo tempo che nessuno affrontava la questione. Il libro di Testa ha il merito innanzitutto di catapultarlo nuovamente all’attenzione, ma poi di non voler trattarlo come un elemento di una veneranda storia della letteratura, ma mostrarne fin da subito le implicazioni radicali a cui questo rapporto chiama: quelle che non possono essere evitate per chi scrive oggi. In che modo sta il rapporto fra poesia e verità del paesaggio, per esempio? Oppure: in che modo si declina questa paradossale sfasata coincidenza fra poesia e giustizia? Dove sta la verità di un futuro che da più parte in tanti chiedono e che non trova forme linguistiche condivise in cui abitare? Temi sterminati, si dirà, e certamente aporetici e forse inconcludenti, ma la forza di questo lavoro è anche costringere a pensare questa aporia e questa non-conclusione (p. 82) come qualcosa che è appartiene al nocciolo di ciò che è diventata la poesia.

A questo rapporto «obliquo al vero» (p. 7), si lega la questione fondamentale del libro, ovvero il tema della speranza radicale. Uno dei primi paragrafi del libro Testa scrive: «Per questo nell’appello alla verità si rifrange l’immagine di una comunità futura rispetto alla quale la poesia si assume il compito di autorizzare la speranza» (p. 8). Questo il paradosso che Testa pone subito al lettore e che ci chiede di provare a abitare per le pagine del suo volume. Testa è come se individuasse alcune forme pure a priori dell’agire poetico, forme che da un lato sembrano essere transtoriche, perché inerenti alle strutture stesse della poesia e alla loro cogenza, al di là dei contenuti che l’esperienza di questo o quel poeta di volta in volta darà loro; ma che ci appaiono così soltanto adesso, proprio per via della nostra peculiare condizione contemporanea. Nella parola di una poesia frantumata fra mille schermi e supporti, che ha perduto ogni mandato sociale  – se poi mai l’ha avuto altrove che nella fantasia dei teorici e dei poeti stessi – persiste nondimeno una struttura, una forma retorica, tale per cui essa suscita, al di là di ogni controverifica e verità fattuale, un’idea di comunità possibile e un’idea di futuro realizzabile. A queste due forme a priori, Testa ne aggiunge una terza: la natura bastarda della parola poetica, ovvero il fatto che l’autorizzazione che indica «ha come condizione di possibilità di non poter essere soddisfatta dalla poesia stessa» (ibidem). È quella della poesia una parola che non può essere richiusa (né andrebbe mai pensata mai come chiusa) in una dimensione esclusivamente verbale. L’uso che fa della lingua – se è poesia  – fa appello a un’oltranza, a una dimensione pragmatica extralinguistica che è chiamata a raccolta e ingaggia i saperi altri in un fine sempre da determinare, ma che nondimeno si fa presente come urgente nell’atto poetico stesso. Insomma c’è una performatività inerente all’atto poetico che sebbene sia stata già indagata sulla linea di una certa riflessione che va da Butler al recente Culler, lascia ancora aperti ampissimi margini di esplorazione. Cosa fa chi fa una poesia? Cosa accade quando la si legge? Perché nonostante la bassissima ricompensa sociale e lo scarso risarcimento narcisistico che concede, è ancora letta in pubblico e ascoltata da centinaia di persone? Sono domande che non trovano risposta nel libro Autorizzare la speranza ma assumono maggiore consistenza grazie a esse.

Mi pare molto interessante poi che Testa leghi la proposta di queste forme pure a priori proprio a partire da una certa visione di questa epoca. Come da più parti è stato già ampiamente segnalato, la parola poetica sembra aver perduto ogni diretta efficacia sociale e la società letteraria ha perso ogni antico prestigio. Testa non rifiuta affatto questa interpretazione del contemporaneo, eppure il suo libro non si ferma a questa constatazione, ma cerca di articolarla in una prospettiva operativa. Ci spinge a immaginare – per il tempo di un contropassato prossimo, che è arcaico e futuro insieme (p. 95) – la persistenza di una poesia al di là della letteratura, collocata interamente in un’epoca post-letteraria. Ecco, al di là di ogni forma di esistenza storicamente nota, cosa resta alla poesia? Resta, innanzitutto, che nulla in poesia si arresta mai. Della poesia è proprio un elemento xenotico e futuribile: c’è un’improprietà al cuore di ogni tentativo di trovarne il proprio. La scrittura poetica si dà – e oggi più come mai, scrive Testa – come pratica nomadica di forme estranee. A una poesia che non resta accade di essere una forma infestante i margini dei discorsi e gli interstizi fra le pratiche verbali dominanti. Alla poesia accade di essere questo impulso di non-luogo a procedere: la poesia sancisce che il reato della realtà non è estinto mai. Al di là di ogni evidenza, al di là di ogni utilitarismo, la poesia vive di questa radicale e straniata vitalità che ne fa il «luogo di invenzione del possibile» (p. 71).

E questo proprio perché essa è irriducibile al pensiero filosofico, così come a quello logico scientifico. Questo anche è un aspetto che ho trovato centrale nella riflessione di Testa. Da un lato Autorizzare la speranza ribadisce la natura conoscitiva della poesia: cosa non scontata affatto. Testa lo dice con forza: alla poesia pertiene una modalità del sapere. La poesia non è solo un intrattenimento, una pausa oziosa dall’impegno di una conoscenza che avviene altrove, ma è una peculiare articolazione conoscitiva del mondo; tale però in quanto sfida le categorie del pensiero tradizionale:

La possibilità di una conoscenza eventuale dell’individuale, di un individuale colto non semplicemente come caso particolare di una norma, quale nota caratteristica di un concetto, ma afferrato nella sua ecceità – nell’elemento che non è riportabile a norma ma è da sé norma esemplare – è uno dei punti su cui la poesia sfida il pensiero. (p. 44)

Su questo secondo me Testa apre una grande pista. La poesia rappresenta il luogo di un esercizio per cui conoscenza qualitativa non si oppone a conoscenza quantitativa. Praticare la poesia, scriverla, leggerla e studiarla, significa anche tentare di abitare un mondo dove la via qualitativa e quella quantitativa possono trovare una problematica, non pacificata conciliazione. La poesia è quella pratica di linguaggio che attraverso modelli produce individui, ovvero modificazioni continue, inarrestabili, condivisibili e aperte, ma mai pronosticabili. Scrive Testa «Ogni poesia, all’altezza delle sue pretese, sarebbe così contro la poesia come essenza fissa, invariante» (p. 135). Che storia è allora possibile per questa tradizione? Come farne memoria? Come riarticolare un racconto possibile di questa spinta all’individualità in movimento? Di fronte all’intricato presente, la riflessione di Testa torna alla poesia senza inerzia, né superbia. Mi sembra che tutto il libro di Testa continui a ripetere che in poesia non si tratta di custodire qualcosa che può perdersi o piangere qualcosa che è andato per sempre perduto, ma anzi si tratta di imparare a perdere sempre e la poesia vada dove deve andare; è in questo inarrestabile della poesia, «rotolando dal centro verso la X» (p. 94), ai margini dei margini di ciò che si pensava potesse essere, che si rivela una forma che ha da dirci qualcosa del nostro tempo – se solo ci sappiamo ancora fidare di lei.

Memorie da Gaza #4

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Yousef Elqedra

Viviamo di alternative finché queste non finiscono o non finiamo noi.

I carretti, un’alternativa alle auto

Quando si passa per una qualunque strada, in un qualsiasi quartiere della Striscia di Gaza, prima ancora di notare le case ammassate su loro stesse, si notano soprattutto auto di ogni tipo, da quelle di lusso a quelle più economiche, parcheggiate in fila, a destra e a sinistra di ogni via. Per via della carenza di carburante si è perso proprio il senso dell’esistenza di queste auto.

Ma il genio gazawi è molto abile nel trovare alternative: si vedranno dunque carretti trainati da animali, carichi di passeggeri, donne e uomini, che vanno al mercato, in ospedale, o che si spostano da un luogo a un altro, oppure talvolta carichi di feriti e di martiri, quando le ambulanze tardano per la scarsa comunicazione o per le strade interrotte.

I carretti sono diventati un’alternativa alle automobili, nessuno sembra esserne seccato né irritato, qui le persone affrontano le occasioni in modo naturale e piuttosto intuitivo, come se il carretto trainato da un asino o da un cavallo fosse stato da sempre l’unico mezzo.

La legna, un’alternativa al gas

Così è anche per la vecchia legna da ardere, alternativa che ha prontamente sostituito il gas.  Quando si esaurisce una bombola a gas, le persone finiscono per utilizzare la legna o addirittura il cartone. L’importante è cuocere con il fuoco tutte le pietanze disponibili e sfamare la bocca dei bambini affamati. È così che gli abitanti di ogni quartiere sono riusciti a fornire un forno di terracotta a chi ha della farina e vuole cuocere qualche pagnotta per la giornata. Si vedono perciò bambini che corrono per strada alla ricerca di carta, cartone o qualsiasi cosa che bruci per cuocere galayat bandura (pomodori in padella) o un barattolo di fave, mentre chi ha olio e zaatar è fortunato perché si risparmia tali fatiche.

Chi ha abbastanza soldi, invece, trova bancarelle che vendono la legna di vecchi aranci e di limoni e quindi non dovrà mandare i suoi figli in giro a cercare legna e carta. Ma alla bisogna si possono usare pure fogli di quaderni e di libri.

Alternative all’elettricità

Se disponi di energia solare sei fortunato: sei in grado di ricaricare i telefoni e i modem per internet, quando questa è disponibile. Puoi illuminare la tua casa in mezzo alle tenebre assolute in cui sono avvolte le zone della Striscia di Gaza ogni giorno dopo il tramonto. E forse – dico forse – puoi tenere un po’ di cibo in frigo.

Senza energia solare invece sei indigente, tutti i tuoi elettrodomestici sono fuori servizio e inutili, e sei costretto a fare la fila davanti a chi ha un generatore elettrico per caricare metà della tua ricarica. Questo finisce per costarti un’attesa di almeno due ore, o significa recarti in posti che dispongono di generatori ad alta potenza per caricare soltanto una batteria o un telefono cellulare, anche qui dopo lunghe file.

Puoi ricaricare il tuo cellulare o una piccola batteria anche tramite il caricabatteria di un’auto se ne possiedi una e se la sua batteria è ancora funzionante.

Crisi dell’acqua

All’acqua non c’è altra alternativa se non l’acqua stessa, quindi se non si riesce a far arrivare l’acqua in casa pompandola attraverso delle botti collocate sui tetti, tutta la famiglia è costretta a collaborare, portando secchi, pentole e qualunque recipiente dal basso verso gli appartamenti in alto. Se l’acqua non viene pompata nelle case a causa della mancanza del carburante necessario, bisogna uscire e cercare qualcuno che possa trasportarla su un carretto per il doppio del prezzo, altrimenti aspetti in una lunga fila per riempire di acqua potabile un recipiente da quasi quattro litri, che in realtà non lo è mai, ma che tu bevi lo stesso ringraziando il tuo Signore per la benedizione del bottiglione; tutti sono complici nel sostenere che contenga acqua potabile.

Crisi correlate

La crisi del carburante a sua volta ha prodotto la crisi dell’elettricità, e la crisi dell’elettricità ha portato alla crisi dell’acqua e la crisi dell’acqua ha causato malattie di cui non conosciamo la natura. Allo stesso modo, la mancanza del carburante di cui hanno bisogno i veicoli comunali ha prodotto la crisi della spazzatura ammucchiata in mezzo alle strade e sui lati, che emette un odore nauseante. I carretti passano due volte alla settimana per raccogliere i rifiuti, quando è possibile.

Crisi correlate fra loro che la popolazione di Gaza vive nella vita quotidiana, accanto alla morte quotidiana, finché le alternative non finiscono o non finiamo noi.

*

Yousef Elqedra è un poeta palestinese residente a Gaza. Su Nazione Indiana appare nella traduzione di Sana Darghmouni e Pina Piccolo.

Memorie da Gaza #1

Memorie da Gaza #2

Memorie da Gaza #3

Quello che l’intelligenza aliena non può fare per noi

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[Questo articolo è uscito nel n° 10 de “L’indice” (ottobre 2023) con il titolo: Intelligenza artificiale fra sistemi esperti e regolarità statistiche.]

Di Andrea Inglese

A partire dal novembre 2022, una curiosità dilagante ha portato milioni di persone in tutto il mondo a realizzare sul web un dialogo tête‑à‑tête con una di quelle entità che da almeno mezzo secolo popolano romanzi e film di fantascienza, ossia una macchina che esibisce lo stesso agio di Hal 9000, quando conversa pacificamente con gli astronauti del Discovery, in 2001. Odissea nello spazio di Kubrick. Prima che questa esperienza si traducesse in uno schietto entusiasmo per le sorti della collettività – in procinto di essere sollevate grazie agli indubitabili vantaggi dell’intelligenza artificiale – o che, al contrario, destasse svariate paure – riguardo alle enormi minacce che quest’ultima farebbe pesare sulle nostre vite –, il contatto diretto con ChatGPT ha prodotto qualcosa che ha a che fare innanzitutto con le emozioni e con la meraviglia in particolare. E se Aristotele aveva ragione, concependo quest’ultima come lo sprone originario della riflessione filosofica, allora tutti noi, dopo il nostro personale appuntamento con ChatGPT, abbiamo assunto, consapevolmente o meno, un’attitudine più meditativa nei confronti dell’intelligenza artificiale. Attitudine, però – come evidenzia sempre Aristotele nella Metafisica – che è costituita non solo da stupore, ma anche da dubbio, ossia dal riconoscimento “di non sapere”.

È solo uno degli svariati paradossi a cui ci confronta l’attuale macchina intelligente. Nel momento in cui esce dal laboratorio per prendere la parola davanti a noi, esibendo competenze enciclopediche e poliglotte, lascia emergere non solo gli abbaglianti raggi del progresso scientifico, ma anche una vasta e perturbante zona d’ombra. In genere gli esperti – che ci parlano da un luogo ambiguo, alla frontiera tra l’istituzione pubblica e l’azienda privata – non hanno naturalmente dubbi o sorprese, non filosofeggiano. Cercano soprattutto di persuaderci delle loro pragmatiche certezze: le nuove forme di IA sono disponibili sul mercato, e hanno un’indubitabile utilità ed efficacia, malgrado gli sconvolgimenti che finiranno per creare nel mondo del lavoro, delle istituzioni educative, della tutela del diritto d’autore o della privacy dei comuni cittadini. Nonostante la fiducia nelle tempeste distruttive di Schumpeter, le disinvolte risposte di ChatGPT suscitano tuttavia inquietudini e fantasie, tra cui quella del robot come nostro “doppio”, in grado forse di fagocitarci o soppiantarci una volta per tutte. Insomma, abbiamo ancora qualche remora prima di accogliere con schietto entusiasmo le conseguenze che questo livello inatteso di automazione introdurrà nelle nostre vite.

Uno specialista che non ha paura d’indugiare sul terreno della riflessione filosofica e di far fronte agli equivoci che popolano il nostro immaginario intorno alle macchine, è Nello Cristianini, professore di IA all’Università di Bath, nel Regno Unito, e autore di La scorciatoia, uscito per il Mulino nel 2023. Il libro di Cristianini ha grandi pregi, e nonostante la valanga di cose che si scrivono con giornalistico eccitamento sull’intelligenza artificiale, si qualifica come uno strumento di rara pertinenza e chiarezza, per cominciare a determinare i confini estremamente mossi di questa entità tecnologica. Uno dei tratti distintivi del suo stile è una certa pacatezza, che lo mette al riparo sia dal messianismo tecnologico oggi tornato in voga, sia dal catastrofismo aprioristico. Malgrado ciò l’autore non elude nessuna delle difficoltà e dei rischi rilevanti che l’IA produce nei vari ambiti dell’attività sociale, in cui è o potrebbe essere adoperata (marketing, banche e assicurazioni, istituzioni giuridiche, ecc.).

Su questi aspetti critici, del resto, vale la pena di ricordare almeno altri due studi recenti. Il primo, apparso dapprima in Francia (Seuil 2019) e poi in Italia (Feltrinelli 2020), è di Antonio A. Casilli, sociologo che insegna presso il dipartimento di ingegneria delle telecomunicazioni del Politecnico di Parigi. In Schiavi del clic. Perché lavoriamo tutti per il nuovo capitalismo, Casilli indaga quelle forme di lavoro in gran parte “invisibili” o “inconsapevoli”, che permettono l’esistenza e lo sviluppo delle macchine intelligenti, sfatando il mito di una progressiva obsolescenza dell’attività umana, soprattutto quella meno qualificata. La crescente automazione non rima con crescente disoccupazione, ma con sfruttamento e precarietà ancora più diffusi su scala planetaria. I grandi gruppi industriali digitali statunitensi, ma anche russi e cinesi, hanno bisogno di subappaltare, spesso nel Sud del mondo, un micro-lavoro sottopagato, ma indispensabile per moderare i contenuti delle piattaforme e addestrare gli algoritmi.

Uscito nel 2021 per il Mulino, Né intelligente né artificiale. Il lato oscuro dell’IA è un’inchiesta firmata dalla scrittrice australiana Kate Crawford, studiosa dell’impatto sociale dell’IA. Inutile dire che una tale disciplina non esiste, in quanto – come illustra il lavoro della Crawford – mobilita una serie di competenze pluridisciplinari e di ricerche pionieristiche che spaziano dalle enorme risorse energetiche necessarie per il funzionamento dei “data center” ai pregiudizi umani attraverso cui si costruiscono le griglie di classificazione dei dati. Crawford insiste su di un fatto tanto evidente, quanto tenacemente ignorato: al di là dei suoi costi sociali e ambientali, l’IA “acuisce asimmetrie di potere esistenti”, in quanto è uno strumento di sfruttamento, controllo e condizionamento sempre più presente nelle nostre vite, ma sul quale, come singoli cittadini, abbiamo pochissima presa. Se questa inedita condizione storica è di continuo occultata da un ideologico ottimismo, non saranno comunque condanne generiche a portare maggiori strumenti di consapevolezza e azione.

Quanto a Cristianini, per sfuggire agli effetti stordenti del “miracolo”, introduce un po’ di storia e chiarezza concettuale a monte, fornendo alcune necessarie nozioni di epistemologia, connesse con quel campo di esplorazione che, a partire dalla metà degli anni Cinquanta, è stato definito “intelligenza artificiale”. Prima di tutto, però, si premura di dissolvere la fantasia metafisica che tanto ci assilla: l’indubitabile comportamento intelligente delle macchine attuali non presuppone che “l’agente abbia un cervello, un linguaggio o una coscienza”. Inutile, quindi, prestargli buone o cattive intenzioni, o ingaggiare competizioni con esso. Indebolendo ulteriormente il nostro già precario antropocentrismo, Cristianini ci ricorda che l’intelligenza – adeguare strumenti e azioni a degli obiettivi in contesti in parte mutevoli – non è una prerogativa dei soli esseri umani: animali e piante già la possiedono. Dobbiamo allora riconoscere che gli agenti che ci raccomandano video o libri sulle nostre piattaforme, o i filtri anti-spam della nostra posta elettronica, manifestano sì un’intelligenza, ma non simile alla nostra; si tratta di un’intelligenza aliena, come quella che mettono in atto un formicaio o una lumaca, quando perseguono i loro obiettivi in modo efficace. Il punto non è solo che GPT-3 ha immagazzinato una quantità di testi “che richiederebbe oltre 600 anni per essere letta dal più veloce lettore umano”, ma che noi non abbiamo la capacità di comprendere e tracciare i suoi ragionamenti, le “rappresentazioni” che si fa del nostro mondo. Possiamo constatarne gli effetti, ed eventualmente correggerli. Conosciamo i risultati, ma non il modo attraverso cui sono stati ottenuti. Questa opacità è uno dei principali aspetti, che determina la nostra difficoltà “a trovare la giusta narrazione per questa ‘intelligenza aliena’, ormai parte delle nostre vite”.

Cristianini, in realtà, sceglie un filo narrativo principale, ed è quello che dà il titolo al libro. La scorciatoia di cui si parla, riguarda un cambio di paradigma, nel senso assegnatogli dal filosofo della scienza Thomas Kuhn. Nel corso di circa un trentennio si sperimentarono due modelli principali di ricerca nell’ambito dell’IA, quello riconducibile ai cosiddetti “Sistemi esperti”, sostenuti da Ed Feigenbaum, uno dei fondatori del dipartimento d’informatica dell’università di Stanford, e quello sviluppato da Frederick Jelinek, in seno al Continuous Speech Recognition Group di IBM, all’inizio degli anni Settanta. La supremazia tra i due modelli fu sancita nel primo decennio del nostro secolo dalle aziende operanti in rete, che ottennero più efficacia commerciale grazie all’utilizzo del modello di Jelinek. Tra di esse c’erano Amazon e Google. Il campo di prova era stato il rapporto dell’agente digitale con il linguaggio umano: riconoscimento del parlato e traduzione automatica. Il modello perdente, “basato sulle conoscenze”, scommetteva sulla possibilità d’implementare nella macchina il massimo numero di norme grammaticali e d’inferenza logica. Molto più efficace si dimostrò la “scorciatoia” operata da Jelinek: all’utilizzo di regole esplicite aveva sostituito l’identificazione di regolarità statistiche, attraverso il trattamento di un numero sempre più ampio di dati.

Amazon tra i primi sperimentò i vantaggi di un tale sistema. L’obiettivo estremo di Bezos era la realizzazione di una vetrina personalizzata per ogni cliente. Per fare questo, avrebbe dovuto disporre di una teoria che non esiste, quella relativa ai gusti dei suoi clienti. In principio, l’unico modo per avvicinarsi ad essa fu il coinvolgimento degli stessi utenti attraverso il riempimento di un questionario, sulla base del quale un gruppo di redattori di Amazon avrebbero proposto recensioni e raccomandazioni per futuri acquisti. Grazie alla “scorciatoia” fu poi creato “Amabot”, l’agente autonomo che coniugava algoritmi di personalizzazione e apprendimento automatico. Non importava farsi un’idea di cosa i clienti volevano o desideravano, bastava osservare quello che facevano, e compararlo con quanto avevano fatto altri clienti. “Amabot non era animato da regole esplicite, né da alcuna comprensione dei clienti o dei contenuti: il suo comportamento dipendeva da relazioni statistiche scoperte nel database delle transazioni passate.”

Tale principio sta alla base non solo di tutti i sistemi di raccomandazione, ma anche di quelli di predizione del comportamento umano o delle risposte fornite da ChatGPT alle domande indirizzategli dagli utenti. Nessuno di questi agenti intelligenti pretende di fornire una risposta certa o vera, in quanto si basa su previsioni che avranno nel migliore dei casi solo una buona probabilità di essere corrette. Ma il problema non riguarda solo i margini di errore presenti nelle prestazioni di tali agenti, ma anche la nostra possibilità di prevenirli e identificarli. Qui si apre il discorso non più esclusivamente epistemologico o tecnico di Cristianini, ma propriamente etico e politico. Oggi ci troviamo in una situazione per certi versi assurda: come se alcuni giganti dell’industria automobilistica e delle infrastrutture stradali avessero rivoluzionato di punto in bianco la mobilità umana su larga scala, senza che ancora sia mai stato elaborato e applicato un codice della strada. Noi siamo perpetuamente in rete, e a contatto con agenti intelligenti che si nutrono delle nostre interazioni quotidiane con loro, senza che si sappia: 1) come essi funzionino e forniscano le loro prestazioni e 2) quale influenza essi possano avere sulle nostre decisioni autonome e sulla nostra salute mentale. Il primo problema esige che gli agenti intelligenti messi a diposizione dalle imprese siano “ispezionabili” (auditable), ossia controllabili da organismi terzi, nella loro costruzione. Il secondo, ancora più del primo, richiede la mobilitazione delle scienze sociali e naturali oltre che di quelle informatiche, per valutare l’impatto che l’esposizione a questi agenti produce sulla psicologia individuale e sulla società nel suo insieme. Tutto questo è un lavoro che in larga parte va ancora fatto, e bisognerà farlo in corso d’opera, elaborando norme di sicurezza stradale, mentre le vetture già ci portano in giro a tutta velocità. D’altra parte, non saranno né le potenti vetture, né le strade ben asfaltate, a produrre di per sé l’indispensabile normativa della sicurezza stradale.

 

Giulia Bocchio: «ti venero come sangue sale e grano»

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Testi inediti di Giulia Bocchio

 

II

Quanto tempo sarà passato davvero?

Le ombre sono cambiate, il preavviso è un tranello inascoltato

c’è sempre stata una certa pigrizia di mezzo

è un torto al mondo:

quel giorno  qualcuno uscì dall’acqua

per essere più di un batterio.

 

Qualcosa ribolle dal fondo di un fiume che sembra anonimo

si dice avesse il potere di addormentare le persone

infatti qualche secolo prima di oggi trovarono un uomo addormentato da giorni

lo pensarono morto

quando si svegliò era certo di aver mutato sangue,

si ferì per verificare: ne uscì del miele.

C’era un merlo lì: bevve dalla ferita.

Cambiò piumaggio. E cominciò a parlare.

 

Chiederemo a Midjourney di fargli un ritratto.

 

*

 

Per trovarlo dovrete percorrere un sentiero di ghiaia

il suono dei passi si fece friabile, infatti.

 

Cosa si chiede a un oracolo?

Non importa se non parlerà

anche il suo silenzio allude a qualcosa di vero.

 

È nato il giorno in cui piovvero spine

da allora non si contano più gli inverni

sappiamo solo che fece un sogno

l’unico della sua vita:

uno sciame di api gli invase le viscere entrando dal culo

per poi uscire dalla bocca.

Quando si svegliò

il suo sangue ormai era melassa, s’era trasformato in qualcosa

di molto vicino al miele.

Fu una rivelazione:

cominciò a predicare, a disconoscere il dovere e il lavoro

era la sua stessa pelle a dettare la via della ragione.

 

Per trovarlo dovrete abbandonare l’io

tornare al tempo precedente la nascita: non esistere

perché qui non esiste prima persona.

 

Divenne ciò che non troviamo oggi

e se questo è un bene oppure un male ce lo dirà un nuovo sogno.

 

Caen

 

C’era una festa molto sudata ai piedi del castello

parlavamo lingue ibride

lingue straniere senza aggettivi

per meglio andare al sodo, al nocciolo della visione.

 

L’erba era umida

non avevo nulla addosso

i piedi nudi,

la voglia di un tuo tocco umano

segno di ogni liberazione dall’ansia

dal futuro sonno meridiano

 

nel sangue scorreva il grado di qualcosa

asterisco per l’ipocondriaco

il sollievo per il sifilitico

l’indifferenza del vaccinato.

 

Sapevo che non ti avrei amato

più di quell’atmosfera

uscita dalla testa di un fratello Grimm

degna figlia di un aborto di Baba Jaga.

 

Un merlo color panna ci osservava inquieto:

era una festa o un sabba interiore

se al centro l’essenza di chi non era ancora arrivato

danzava con lo spirito di chi non sarebbe mai venuto?

 

*

 

Ti venero come sangue sale e grano

che verbo inutile stantio marciforme

furono le sue uniche parole davanti a un fiume in secca.

È quel sentiero di ghiaia

che avrebbe dovuto condurci all’oracolo, all’unica risposta

alla non esistenza dell’essere e del tempo.

 

Per raggiungerlo abbiamo bevuto il nostro piscio

ingoiato terra cruda in nome di un sogno solarpunk

Le sue parole potrebbero essere lontane dal vero, ma utili.

 

Tutto prende fuoco

è il precipizio della fine

i ricordi ricompongono spettri che non abbiamo sepolto

non ho voglia di sentire il loro alito

per salvarci dovremo immaginarci nel Medioevo;

non so cosa avremmo venerato laggiù

di sicuro molto sangue e poco grano.

 

Tutto quello che esce dalla sua bocca viene dal basso e si trasforma.

Sembra sapere che saremo venti miliardi

sa che non esiste rimpianto prima di nascere

manca poco,

manca l’acqua,

manca l’aria

in tutto questo mi resta di umano una vena serpentesca

una safena gonfia che si avvinghia alla caviglia e sale

mi annoda all’ego

L’unico da abbandonare

mi lega alle ossessioni

il dolore non ha perso il vizio.

 

Uno sciame di api che abbiamo già incontrato fa ritorno dal sogno

oscura l’unica porzione di cielo che riusciamo a vedere:

venti miliardi…

 

Quel giorno piovvero spine.

***

 

Giulia Bocchio è scrittrice e giornalista. In poesia ha pubblicato le raccolte Harmattan Poetico (Ass. Talento) e Il vento del vanto (Genesi). Nel 2016 esce il saggio L’Olimpo nero del sentire (Marsilio) e nel 2020 il romanzo La febbre dell’io (Il Ponte Vecchio). È direttrice editoriale di Poetarum Silva. Suoi articoli sono usciti su minima e moralia, Il Fatto Quotidiano, Vernice e altre riviste e blog online. Scrive per Il Piccolo.

Da “Canto dei morti sul lavoro”

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[Presentiamo tre testi estratti dal volume di poesia Canto dei morti sul lavoro apparso per Zona editore nel 2022.]

di Guido Caserza

Claudio Toso andava al lavoro

andava al lavoro Franco Viberti

ci andava Gemma Corradi

e ci andava sua figlia Carla

pure Marco Guerriero andava al lavoro

e ci andava suo figlio Piero

e tutti andavano sulla soglia della morte,

anche Carlo Volterra andava al lavoro

e forse quello era l’ultimo giorno,

andava al lavoro Cristiana Ferrari

e ci andava Fabrizio Pietri

e tutti conducevano la loro vita al termine

tutti erano destinati alla morte,

dove andavano costoro?

Andavano al lavoro

andavano a morire,

dove andava Francesco Colasante? Andava

al lavoro, aveva venticinque anni

andava a morire, saliva sul traliccio,

il traliccio si incendiò,

abbracciato alle fiamme scivolò

dal traliccio, era il 18 agosto 2020

quel giorno andava a morire,

e dove andava Michele Cacco? Andava

al lavoro, aveva quarantanove anni,

nato da sangue operaio andò come ogni giorno

in quella fonderia di Marcon,

morì schiacciato sotto

il peso di una porta forno, era il 4 novembre 2020

quel giorno andava a morire,

e dove andava Stefano Zanni?

Esperto come nessuno di carpenteria

andava al lavoro, di anni ne aveva sessantuno,

salì sull’impalcatura di una cappella privata

nel cimitero di Orta Nova

e cadde dall’impalcatura,

era il 27 maggio 2021

quel giorno moriva,

e dove andava Ugo Gilardi il

25 novembre 2020?

Quel giorno Ugo Gilardi andava al lavoro,

aveva trent’anni,

è morto sotto il carico di un furgone,

la morte gli aveva stipulato un bel contratto.

***

Ora

la divisione del lavoro

qualcuno l’ha chiamata

approccio olistico – c’era vita in quei corpi

prima di entrare nella fabbrica, tutto

è fabbrica revolvente,

fabbrica-linguaggio,

fabbrica dal materiale all’immateriale al materiale,

fabbrica-saccheggio,

fabbrica-mattatoio,

per essa tutto fluisce per virtù sua propria

come i pianeti per gravitazione

e le stelle confitte nel cielo,

la stupenda fabbrica del cielo

anch’essa revolvente nella medesima guisa

tutto è fabbrica revolvente.

Impulsi di muscoli o di cervelli in nuda vita,

elettriche eclissi di vita, a ogni corpo una funzione,

ma i cadaveri eludono ogni descrizione,

cadaveri di uomo,

cadaveri di donna, perfetti alla morte,

perfetti nel martirio,

l’espressione del loro stupore

si manifesta nel volto

una volta

fatto per vivere

uno spruzzo di sangue

che taglia l’orizzonte.

Alcuni avevano una natura dolce

e un portamento amichevole,

erano fatti per essere contemplati,

promanavano vita, incontrollabile vita,

ma così arrendevoli ormai,

snervati,

costretti a svernare

fra le braccia del lavoro

millenni di lavoratori – azione e forza –

le ricchezze proprietarie sono in loro

da loro nascono per loro si moltiplicano,

millenni di lavoratori all’incanto,

osservate le loro meraviglie

fate la vostra offerta,

osservate le loro membra,

la perfetta tessitura di tendini e muscoli,

li denudiamo perché possiate correttamente valutarli,

fate la vostra offerta,

guardate i loro occhi accesi di vita,

ognuno di loro – considerate anche questo –

è non solo corpo forza lavoro ma un padre

padre di un figlio che diverrà a sua volta padre,

millenni di lavoratori in un solo lavoratore,

ogni corpo è un corpo brulicante di altri corpi,

braccia mani gambe

la linfa scorrente del lavoro

prego venite a lavorare per noi,

un lavoratore ha compiuto il suo lavoro è morto,

arriva un altro lavoratore felice dello stipendio,

i ticket per il pranzo li può usare come vuole tra poco muore,

arriva un altro lavoratore lì pronto a rimpiazzarlo,

il turno di notte gli vale un extra,

la notte gli cola l’occhio

piegato sui ferri da fondere

in cielo pende la luna tra poco muore,

un altro lavoratore arriva, uno all’incanto,

in somministrazione di lavoro tanto

per fare una prova fra poco muore.

Arriva un altro lavoratore

felice prima di uscire, ore sette del mattino,

dice alla moglie appena mi danno l’aumento

pensiamo a fare un figlio tra poco muore.

***

Quello faceva il turno di notte

che notte che era!

una luna grassoccia

lo sbirciava

da dietro una nuvola

e dall’arteria sprizzò

uno zampillo di sangue,

neppure il tempo

di cacciare un grido

Al lavoro! Al lavoro!

e la testa rotolò

per parecchi metri sul selciato

faceva il turno di notte

e una luna terribile

Al lavoro! Al lavoro!

e un piede venne

ritrovato nel fossato

e una luna grassoccia

Al lavoro! Al lavoro!

e brandelli di carne

erano ovunque

nel cielo monco

l’occhio della luna,

che notte che era!

la verde primavera violentata

dagli odori pungenti,

sputi di luce le stelle nel cielo,

la moglie stesa

sulla bara come una bandiera

con la bocca squarciata dal dolore

pianse il suo pianto su quel corpo amato

che notte che era.

Perché ancora Napoleone?

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di Giulia Delogu

Fin dall’uscita del trailer la scorsa estate i commenti sulla storicità, o piuttosto sulla mancanza della stessa, del film Napoleon di Ridley Scott si sono sprecati. Giornali, blog, social hanno visto un profluvio di interventi da parte di storici di mestiere e da parte di appassionati, tutti preoccupati dall’assenza di precisione storica nel colossal statunitense, non senza reazioni polemiche da parte del regista e difese da parte del cast. Dialoghi, svolgimento delle battaglie, età e aspetto dei personaggi sono stati scrutinati attentamente.

Facciamo, però, un passo indietro. È il 2023 ed esce un film su Napoleone Bonaparte (1769-1821), generale e poi imperatore dei francesi, morto in esilio sull’Isola di Sant’Elena, uno scoglio roccioso nel mezzo dell’Atlantico a quasi 2.000 km dalle coste dell’Africa. Peraltro, esce non un semplice film, ma un colossal, prodotto da un acclamato regista hollywoodiano, che a sua volta ha ripreso il pluriennale progetto di Stanley Kubrik, il quale sempre aveva sognato di produrre una pellicola sul tema (vicenda e documenti preparatori sono stati ricostruiti e raccolti in Stanley Kubrick’s Napoleon: The greatest movie never made, curato da Allison Castle nel 2009). Insomma, un uomo morto duecento anni fa in un “tristo esiglio” viene giudicato ancora oggi un soggetto meritevole di esplorazione nell’arte cinematografica, al suo massimo potenziale di visibilità e distribuzione, e davvero ci dobbiamo domandare se le due ore e mezza di film sono precise come un saggio storico accademico?

Le questioni da porsi – mi sembra – sono di tutt’altra natura e ruotano attorno a questa: perché ancora Napoleone? A fianco a questa domanda, imprescindibile ma come vedremo assai difficile a sciogliersi, c’è un secondo ordine di riflessioni: cosa può aggiungere l’arte, con la sua felice e creatrice imprecisione, a quanto già sappiamo o crediamo di sapere sul nostro passato, per come ci viene raccontato nelle opere degli storici?

Partendo con ordine, bisogna considerare alcuni elementi della vicenda storica di Bonaparte. Napoleone fu in vita una celebrità. Il concetto di celebrità, come ha di recente illustrato Antoine Lilti, si sviluppò proprio nel corso del XVIII secolo e tra i primi ad essere identificati come tali vi furono i filosofi illuministi Voltaire e Rousseau, ammirati non solo per il loro pensiero, ma come persone uniche, speciali eppure umane e fragili, di cui il pubblico voleva conoscere morbosamente i dettagli della vita privata. Similmente, Napoleone fu al centro di miti positivi e anche negativi – la famosa leggenda nera, come scrisse lo storico francese Jean Tulard – e seppe utilizzare consapevolmente in prima persona i meccanismi della popolarità.

Napoleone, tuttavia, non era solamente un “influencer” capace di sfruttare i media del suo tempo (gazzette, fogli volanti, incisioni vendute per pochi soldi, ritratti ufficiali, statue colossali e molto altro), ma era anche una figura dotata di eccezionali capacità intellettive e doti di comando, che lo resero un leader carismatico, nel campo di battaglia e nell’arena politica. Lo storico David A. Bell, in un volume recentemente tradotto in italiano (Il culto dei capi. Carisma e potere nell’età delle rivoluzioni, 2023), ha illustrato l’emergere, tra Sette e primo Ottocento, di nuovi stili di governo e legittimazione politica, incentrati sul carisma personale, comprendendo nella sua galleria, oltre a Napoleone, Pasquale Paoli (1725-1807), George Washington (1732-1799), Toussaint Louverture (1743-1803) e Simón Bolívar (1783-1830) rispettivamente leader dell’indipendenza corsa, statunitense, haitiana e sudamericana.

Napoleone, in buona sostanza, unisce due tendenze che caratterizzano il sorgere della modernità tra Sette e Ottocento, celebrità e carisma, e condivide questi tratti con figure rilevanti della storia politica e intellettuale del mondo occidentale, personaggi senz’altro tuttora noti e studiati nelle scuole… ma davvero ancora famosi come appare essere l’imperatore? Cosa rende Napoleone così attrattivo, nonostante le ormai molteplici condanne verso alcune sue controverse decisioni, come quella di reintrodurre la schiavitù nelle colonie caraibiche della Francia o di aver comunque causato, a conti fatti, milioni di morti con le sue campagne militari, come non manca di osservare anche Scott nei titoli di coda del suo film?

Ciò che da duecento anni “salva” Napoleone, al punto di rendere la sua celebrità duratura e globale ben al di fuori dei confini della sua Francia, è non sono il carisma, una vita al comando e i successi, ma la fragilità, la sconfitta e l’esilio. Il vero mito nasce a Sant’Elena: il luogo che secondo gli avversari inglesi doveva sancirne l’oblio ne decreta invece l’immortalità, come sottolineato anche nel volume pubblicato da Vittorio Criscuolo nel 1821, anno del bicentenario dalla morte (Ei fu. La morte di Napoleone). Con Napoleone lontano, tacitato e sofferente si moltiplicano le opere che parlano di lui e delle sue gesta, giocando sui meccanismi della nostalgia e del rimpianto nel cupo clima dell’Europa in “Restaurazione”. La morte suscita un’ondata di commozione senza precedenti: molti che lo avevano avversato in vita, colpiti dal “martirio” della dura prigionia impostagli dai vincitori, finiscono per dare giudizi più sfumati, se non addirittura positivi.

È il caso di Alessandro Manzoni, che compone di getto l’ode Il cinque maggio (1821), che tutti ricordano (forse pure con fastidio!) dalle scuole, ma di cui forse è meno noto il successo globale con traduzioni, entro la fine del secolo, in latino (6), francese (3), spagnolo (7), catalano, (1), inglese (1), portoghese (2, di cui una promossa in Brasile dall’Imperatore Dom Pedro II) e tedesco (8, di cui una immediata a cura di Goethe). Quella di Manzoni è una buona lente per cercare di comprendere “perché ancora Napoleone”: il poeta stesso ammette di non aver avuto interesse per il generale vittorioso o l’imperatore sul trono. Ma l’uomo solo, sconfitto, stanco e tormentato è un’altra cosa: è quello che affascina, di cui si può persino riconoscere la grandezza passata. È quello che si può persino piegare e re-immaginare in base alla propria sensibilità, come fa pure Manzoni, che si figura un Napoleone finalmente umile e intriso di fede cristiana.

Al di là dell’elemento religioso, è la declinazione “umana” di Napoleone che decreta il successo mondiale della poesia manzoniana presso i contemporanei e non solo. Al Napoleone “umano” e “privato” guardano anche le tante memorie che appaiono nel corso dell’Ottocento, mostrandolo padre affettuoso o amante devoto e non solo provetto militare o deciso sovrano. Non sono opere “storiche” non badano alla precisione dei dettagli, ma ricostruiscono caleidoscopiche immagini di un Bonaparte nel quale il pubblico può empaticamente identificarsi. È questo in larga parte il Napoleone che ritroviamo nel film di Scott: imperatore, amante, tiranno, leggenda. Si tratta di una figura complessa, che non si può né condannare né difendere interamente, pieno di tratti eccezionali, ma anche estraneamente fallibile.

Napoleone era davvero così? A due secoli dalla sua morte, con la sua immagine così iconicamente riconoscibile usata in meme sui social, vignette, pubblicità, insegne e ogni tipo di prodotto quotidiano e popolare, dalle calze alla cancelleria, forse ormai poco importa. Ognuno ha un suo Napoleone. Il mio, ad esempio, non è affatto quello di Scott, ma quello dei versi di Foscolo e del dipinto di Appiani: ventisettenne, pallido e col volto scavato, biondo e scarmigliato, alla testa delle sue truppe sul ponte di Arcole, una parte dell’epopea napoleonica del tutto assente nel film, che decide di saltare la Campagna d’Italia (1796-1797). Manzoni, che pure coltivava la prosa e l’indagine storica, per parlare di Bonaparte sceglie la poesia, l’unica forma adatta per lo scandaglio dei pensieri e delle emozioni, che nessuna ricerca documentaria e archivistica può restituire fino in fondo. Lo scrittore italiano seppe cogliere allora ciò che a molti sfugge ora: Napoleone aveva una potenza immaginifica che travalicava gli eventi che lo avevano visto protagonista e che per capirne il motivo bisognava andare oltre una minuziosa ricostruzione dei fatti.

Rispondere alla domanda “perché ancora Napoleone?” – e credo non esista ad oggi una risposta definitiva e completa – richiede probabilmente un simile salto; un salto che guardi non a ciò che è successo, ma a come lo si è raccontato nelle arti e nei decenni a venire. Sono le rappresentazioni artistiche che hanno reso così riconoscibile il volto di Napoleone e sono le versioni romanzate e poetiche della sua vita, delle sue gesta, dei suoi pensieri e dei suoi sentimenti che ce lo rendono “interessante” anche nel terzo millennio, insieme alle fonti e ai dati storici. È la congiunta possibilità di vederlo come uomo pubblico di stato con un cervello straordinario, leader carismatico insomma, e al contempo persona (quasi) comune con un cuore del tutto ordinario che spingono a rinnovarne continuamente il mito (come Il Naufrago e il dominatore, icastico titolo che Antonino De Francesco ha dato alla sua Vita politica di Napoleone Bonaparte, uscita nel 2021).

La libera, felice e creatrice “imprecisione” delle arti (letterarie, visive, cinematografiche, in tutti i loro livelli, dal più basso al più alto) ha permesso di colmare i limiti dell’indagine storica e di avvicinarsi al Napoleone più umano, mantenendo così elevati attenzione e attaccamento alla sua figura. Questo continua a fare il film di Scott, che ci restituisce il suo Napoleone – un Napoleone con gli occhi del 2023 – e ha il merito di sollecitare storici (e non solo) ad interrogarsi non su quanta aderenza al vero ha un prodotto artistico (quale vero, poi?), ma piuttosto su fenomeni assai attuali come la preponderanza del leaderismo e del personalismo in politica, o il peso sempre più rilevante della memoria e della nostalgia nelle costruzioni culturali. Risolvere l’enigma della vitalità di Napoleone, in conclusione, sembra essere una buona strada per capire di più dell’epoca in cui ha vissuto, momento di stridenti conflitti e di genesi della modernità, e di quelle che sono seguite, attraversate tutte dal suo mito.

Due casi di claudicazione

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di Sergio Oricci

In una città dell’Europa dell’Est, una delle tante città di media grandezza che possono essere percepite come grandissime e piene di opportunità da chi ha sempre vissuto in provincia, oppure piccole e noiose da chi aspetta di trasferirsi in o pensa di essere la persona giusta per una metropoli tentacolare, come si sarebbe detto in una puntata di una serie TV noir di un’epoca passata, due uomini camminano in direzioni opposte su una strada che collega il centro storico alla periferia nord per poi continuare oltre i confini dell’abitato e raggiungere una zona boschiva in cima a una collina.

Sono destinati a incrociarsi, a meno che uno dei due non decida di attraversare e di spostarsi sull’altro lato della carreggiata, ipotesi piuttosto improbabile perché la strada è a scorrimento veloce, o comunque è una strada su cui le vetture – automobili per lo più occupate da un solo passeggero, l’uomo o la donna alla guida, ma anche motociclette di grossa cilindrata e qualche tir di dimensioni ragguardevoli; non si vedono motorini – viaggiano a velocità sostenuta, dando alle corsie l’apparenza di qualcosa che se pure non fosse stato concepito per scorrere velocemente adesso lo sta facendo.

I due uomini che camminano in direzioni opposte e che sono destinati a incrociarsi non hanno molto in comune, le loro vite anzi non potrebbero essere più distanti – quello che sale ha quarantun anni, è sposato, ha due cani, un lavoro a tempo pieno che lo costringe a spostarsi in treno più di quanto vorrebbe, l’altro, che scende, di almeno quindici anni più vecchio, è single da sempre, vive da solo e prova a sopravvivere con una pensione d’invalidità che non basta neanche per soddisfare i suoi bisogni primari, tra cui c’è quello di andare a puttane almeno tre volte all’anno – ma c’è una cosa che li accomuna: entrambi soffrono di zoppia, l’uomo sposato per una patologia neurologica degenerativa destinata nel giro di cinque, forse dieci anni, a paralizzarlo del tutto, e l’uomo single a causa di una dismetria degli arti inferiori di circa tre centimetri e mezzo.

L’uomo con due cani e un lavoro a tempo pieno che lo costringe a spostarsi in treno più di quanto vorrebbe, e che ha una patologia che con il tempo si aggraverà fino a impedirgli perfino di respirare, si accorge dell’altro uomo per primo, e nota subito un’andatura che, seppure con delle differenze visibili anche da quella distanza, gli ricorda la propria. Cerca di immaginare quale sia la causa della zoppia dell’uomo che sta camminando verso di lui, e prova perfino un certo senso di tenerezza nel guardarlo faticare in discesa almeno quanto lui stesso sta faticando a salire quelle poche centinaia di metri che lo condurranno a casa.

L’uomo sposato e con due cani non ha ancora preso in considerazione l’idea di usare un bastone, un deambulatore o un qualsiasi dispositivo che lo aiuti a camminare, e ha deciso che non lo farà fino a quando non sarà strettamente necessario. Inoltre non ha mai preso la patente, cosa di cui oggi si rammarica ma a cui non riesce a porre rimedio per questioni che riguardano un certo senso di inadeguatezza nel fare qualcosa fuori tempo, oltre che l’eventualità, ormai quasi certa, di non passare gli esami clinici e di non risultare idoneo alla conduzione di un mezzo motorizzato. L’uomo single da sempre, sessualmente frustrato e senza neanche i soldi per andare a puttane tre volte all’anno come riterrebbe indispensabile per mantenere la sua frustrazione entro certi limiti e non farla sfociare nel patologico, si accorge a sua volta dell’uomo che cammina verso di lui zoppicando, e pensa che ci sia una probabilità – non riesce a quantificarla né a formulare una percentuale approssimativamente realistica, ma sa che esiste – che lo stia facendo dopo averlo notato, come in una sorta di imitazione grottesca, una presa in giro, qualcosa che in questo momento l’uomo – dopo l’ennesima giornata trascorsa in solitudine, in uno stato d’animo che adesso definirebbe tra l’apatia e una tenue disperazione, per quanto la disperazione possa esserlo – proprio non sente di poter sopportare.

Un cane randagio passeggia risalendo la strada, con il muso rivolto verso l’asfalto, annusando ogni più piccola, infinitesimale molecola odorosa – principalmente feci, urina e resti di cibo – e supera rapidamente l’uomo che sale e quindi incrocia l’uomo che scende, per poi svoltare in una stradina laterale e sparire veloce come era apparso. Si sta facendo buio e i due uomini sanno esattamente che ore sono perché entrambi guardano di frequente i propri telefoni, l’uomo che sale lo fa per essere sicuro di non aver perso una chiamata della moglie – tiene sempre il telefono in modalità silenziosa – mentre per l’uomo che scende si tratta di una sorta di tic, un gesto automatico a cui si aggrappa per far passare il tempo e non pensare ad altro. Fa freddo, sono entrambi soli ed entrambi non aspettano altro che arrivare a casa; uno sarà accolto dai due cani che gli salteranno addosso come se non lo vedessero da settimane, e poi dalla moglie che lo abbraccerà facendogli sentire quel contatto che lui non potrà fare a meno di percepire almeno in parte come definitivo, il bacio sulla fronte che i figli danno al genitore nel feretro, mentre l’altro sarà accolto dal silenzio di una piccola, piccolissima pace, dalla solitudine che precederà di poco la prima e poi la seconda bottiglia, fino alla pace un po’ meno pacifica e un po’ meno piccola del sonno.

I due uomini sono ormai vicinissimi, solo pochi metri separano l’uno dall’altro. Per un osservatore non coinvolto sarebbe evidente che l’uomo che sale stia procedendo con una claudicazione falciante, lo si capisce dal modo in cui circonduce l’anca, mentre la camminata dell’uomo che scende ha i tratti caratteristici di una zoppia di caduta, con la gamba sinistra che tende a lasciarsi andare fino al trascinamento. Ma i due uomini non sono osservatori non coinvolti e adesso non riescono a fare altro che guardarsi a vicenda e specchiarsi in quella coincidenza formulando teorie e ipotesi.

L’uomo che sale, sposato e con due cani, adesso che riesce a guardare negli occhi l’uomo che scende, pensa di riuscire a vedere in lui una tristezza che non crede di avere mai provato, ma allo stesso tempo sa che c’è la possibilità che questa sia una percezione falsata, e di non avere nessun elemento oggettivo su cui basarsi per credere a quel pensiero che in fondo ha prodotto in maniera istintiva. L’uomo che scende, single da sempre e sessualmente frustrato, nell’accorgersi del sorriso dell’uomo che sale, si convince che quella zoppia simmetrica rispetto alla sua sia davvero una maniera per prendersi gioco di lui e inizia ad avvertire un moto di rabbia. Ma anche lui ha ben presente che c’è una probabilità, seppur minima, che si tratti di un semplice caso, e non vuole che la sua parte irrazionale prenda il sopravvento, non tanto perché crede che sia sbagliato lasciarsi guidare dal momento ma perché davanti a sé vede soltanto due possibilità: la prima è che l’uomo stia davvero fingendo, e in quel caso arrivare a uno scontro – verbale e poi fisico – non porterebbe a niente di buono perché non sarebbe in grado, con la sua zoppia, di affrontare una persona sana e così cattiva da fingere di zoppicare per prendere in giro chi davvero fatica a camminare, e la seconda è che l’uomo non stia fingendo e che abbia le sue stesse o ancora peggiori difficoltà, e allora arrivare a uno scontro – verbale e poi fisico – non avrebbe davvero senso e sarebbe soltanto l’ennesima dimostrazione che i suoi problemi non risiedono nella zoppia, nella dismetria di tre centimetri e mezzo dei suoi arti inferiori, ma in uno stato psicologico che – almeno questa è la sua impressione – peggiora di anno in anno e che sta rischiando di trasformarlo in una persona fuori dalla persona, e nonostante la confusione che questo pensiero genera, l’uomo è certo che sia l’immagine più aderente alla realtà dei fatti.

Sopra le teste dei due uomini che procedono zoppicando, un nido di cavi elettrici si annoda tra i lampioni. L’uomo che sale e l’uomo che scende si fermano quasi contemporaneamente, il primo perché viene assalito da un pensiero improvviso mentre l’altro solo per riprendere fiato. L’uomo sposato e consapevole che tra dieci anni sarà completamente – o quasi completamente, o parzialmente perché il concetto di completamente o quasi completamente cambia quando si tratta di fare i conti con le proprie gambe, con le proprie braccia e con il proprio apparato respiratorio, il cuore eccetera eccetera – paralizzato guarda con più attenzione l’uomo che scende e si chiede se nella città in cui vivono non ci sia una percentuale superiore alla media di malattie neurologiche degenerative, prende il telefono e inizia a cercare risultati che confermino o smentiscano il pensiero da cui è stato appena assalito; prova a individuare una corrispondenza tra la presenza di una enorme discarica ai confini della città, la qualità dell’aria, e il numero di persone affette da multipla, laterale amiotrofica, malattie autoimmuni, e finisce per trovare tutto e il contrario di tutto e anche in lui monta una rabbia irrazionale che lo avvicina pericolosamente – o così sente o crede di sentire – a una crisi, un attacco di panico, un momento insopportabile in cui non gli sarà più possibile mantenere l’equilibrio, perfino respirare, rabbia irrazionale che cerca di controllare – è una persona piuttosto equilibrata, o così crede di essere, attacchi di panico a parte – e che a poco a poco si tramuta in una serie di onde che assumono l’aspetto di cali di pressione che non passeranno subito ma che prima o poi verranno assorbiti e lasceranno traccia di sé nella memoria dei muscoli e del corpo, e diventeranno quindi più gestibili, più prevedibili e sembreranno meno terminali anche nel caso in cui lo fossero veramente.

L’uomo che sale cerca di respirare a fondo e stringe i pugni per sentire il proprio corpo, e l’uomo che scende cerca di respirare a fondo e prova a pensare a qualcos’altro, a sua madre, a sua nonna, alla solitudine che lo attende nell’appartamento, a qualsiasi cosa che non sia l’uomo che sale e che forse lo sta prendendo in giro – e che allora non potrà in nessun modo affrontare – o che forse zoppica proprio come lui – e che allora non avrebbe nessun senso affrontare.

I due uomini finalmente si incrociano, e l’uomo che sale fa un passo laterale per mettere dello spazio tra sé e l’altro, abbozza ancora un mezzo sorriso, mentre l’uomo che scende tiene lo sguardo fisso sul marciapiede e, proprio quando l’uomo che sale gli sfila accanto, si piega sulle ginocchia e raccoglie una lumaca che restando lì rischierebbe di farsi schiacciare. La tiene in mano per un po’, stringe il guscio tra le dita aumentando la pressione fino al punto in cui crede di individuare come il limite superato il quale, anche di un niente, il guscio si romperebbe. La lumaca emette una sorta di barrito; l’uomo lo percepisce chiaramente e, interpretandolo come un tentativo di aggrapparsi alla vita, un segnale di una volontà di sopravvivenza, smette di stringere, non perché ne sia impietosito ma perché non aveva idea che le lumache potessero soffiare, barrire, con tanta forza, né che potessero esprimere in modo così chiaro la propria volontà: smettere di premere gli sembra dunque un giusto riconoscimento.

Il guscio non si è rotto, e l’uomo che pur essendo adesso fermo sta ancora in un certo senso scendendo appoggia la lumaca in una zona erbosa al di là di una rete metallica. Si gira e vede l’uomo che sale ormai lontano: zoppica ancora. Poi guarda in direzione dell’edificio poco distante, le luci accese del negozietto di generi alimentari lo rassicurano: comprerà del pane, del latte, una o due bottiglie, magari qualcosa di dolce, pagherà in contanti e saluterà la cassiera augurandole una buona serata o perfino una buona notte. L’uomo adesso smette davvero di scendere e alza lo sguardo: il cielo promette pioggia.

Foto di Hans da Pixabay

Memorie da Gaza #3

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di Yousef Elqedra

Pronto yà ba , stiamo bene” 

“Siamo usciti sotto una pioggia di missili e bombe al fosforo bianco che ci piovevano addosso dagli aerei israeliani, correvamo senza portarci dietro nulla, passando sopra cadaveri e resti di corpi, mentre le fiamme oscuravano il cielo con masse enormi di fumo.”

Così, con la mente distratta, Abu Bilal si è seduto a raccontare la storia del suo esodo dalle torri di al Karama, a nord di Gaza, fino al suo ricongiungimento con la famiglia, dopo aver perso la casa e due nipoti ed essersi stabilito in un rifugio a Khan Yunis.

Dove sono le ragazze? 

Il sessantenne prosegue il racconto del giorno della fuga: “Abbiamo lasciato le nostre case così, senza la minima capacità di orientamento persino in zone che conosciamo a memoria, figli sulle spalle e donne in corsa al nostro fianco. Siamo andati avanti più che potevamo in tutte le direzioni, e ogni volta che avanzavamo di qualche metro e ci guardavamo alle spalle, scorgevamo la follia e l’isteria inseguirci.”

Solo una volta arrivati a circa un chilometro di distanza, i membri della famiglia hanno iniziato ad accertarsi se c’erano tutti e, dopo essersi riuniti, si sono accorti che all’appello mancavano la figlia e il figlio maggiore: una perdita durissima.

Abu Bilal continua: “Dopo mezz’ora è apparso mio figlio. Gli ho chiesto notizie sulle sue due ragazze: quando è scoppiato in lacrime ho capito qual era la risposta. Per cui ho suggerito a mio figlio di mezzo di andare avanti con la famiglia, di portare tutti il più lontano possibile, nei rifugi a sud di Wadi Gaza, mentre io e mio figlio maggiore siamo tornati a casa, metà della quale era crollata e l’altra rimasta sospesa in aria. Lì abbiamo cercato le mie due nipoti, sul posto c’erano molti cadaveri e molti feriti sanguinanti e le ambulanze non erano ancora arrivate”.

Questa è una tra le migliaia di storie e non è solo la storia della famiglia Abu Bilal. Cambiano i nomi, ma gli eventi e le storie del giorno dell’esodo da Gaza sono simili. Non c’è famiglia che non abbia perso alcuni dei suoi membri dall’inizio della guerra, e diverse famiglie sono scomparse del tutto senza un testimone che racconti la loro storia.

Abbiamo sepolto le due ragazze e abbiamo continuato la nostra fuga 

L’uomo prosegue: “Abbiamo trovato le due ragazze, annegate nel loro stesso sangue. Io ho sollevato la prima, e il padre la seconda, poi abbiamo camminato tra i feriti sanguinanti e le case in macerie, ammucchiate su sé stesse e sui propri abitanti. Abbiamo camminato circa due chilometri prima di trovare un’auto che ci portasse all’ospedale. Lì la situazione non era migliore: era affollato di persone in fuga dalla morte, vittime e feriti. Finalmente siamo arrivati ​​al pronto soccorso, ma era troppo tardi.”

La vicenda, così come la descriveva l’uomo, può sembrare assurda. I medici hanno confermato che le due ragazze erano morte e hanno ordinato di trasportare i cadaveri all’obitorio; lì hanno annotato i loro dati e poi le hanno avvolte in sudari. Aggiunge: “Abbiamo pregato per le due ragazze con le persone presenti in ospedale, poi le abbiamo trasportate con il carro funebre al cimitero vicino, dove le abbiamo sepolte.”

Di come fermarsi per un attimo sul proprio dolore sia considerato un pericolo e un ostacolo alla fuga, l’uomo dice: “Così in un lampo, senza il tempo di versare neppure una lacrima né di emettere un sospiro abbiamo sepolto le due ragazze. Tutto questo è avvenuto sotto il rombo dei droni di sorveglianza e tra i continui bombardamenti qui, là e ovunque.”

Stiamo bene, yà ba (papà) 

Le lacrime brillano negli occhi di Abu Bilal, che ha più di sessant’anni e bellissimi capelli grigi che gli coprono la testa, esaltandone l’autorevolezza; emette un sospiro che già mi scuote, prima di continuare il suo racconto.

Dice: “In quel momento non sapevo dove fosse la mia famiglia, chi fosse rimasto di loro, né sapevo dove andare. Mi aggrappavo a mio figlio, che aveva bisogno a sua volta di qualcuno a cui appoggiarsi: aveva appena sepolto le sue due figlie.”

Abu Bilal aveva cercato ripetutamente di contattare il figlio di mezzo, che aveva lasciato con la famiglia, per sapere dove erano arrivati ​​e come raggiungerli, dato che non avevano parenti né conoscenti nel sud. L’uomo prosegue: “Non sapevo in quel momento se si fossero effettivamente spostati a sud o se avessero scelto un’altra destinazione, così mi sono seduto sul marciapiede, aspettando una chiamata o una risposta. Infine, dopo due ore è arrivata la telefonata, che mi ha rincuorato:

– pronto yà ba, stiamo bene, siamo al rifugio della Mezzaluna Rossa Palestinese a Khan Yunis.

– Grazie a Dio, yà ba… vi raggiungiamo.

Abu Bilal continua a raccontare: “Ho riagganciato il telefono senza lasciare spazio per parlare delle due ragazze. L’arduo compito che dovevamo affrontare in quel momento era trovare un’auto che ci portasse da Gaza a Khan Yunis in mezzo ai bombardamenti e tra le strade interrotte. Ho provato con ogni macchina che passava, avanzavamo e chiedevamo un passaggio, avanzavamo e speravamo, avanzavamo e offrivamo somme di denaro raddoppiate, finché non è arrivato finalmente un automobilista che ha accettato”.

Un automobilista pazzo ci ha portati a sud 

Il tragitto non era facile, come lo descriveva Abu Bilal: molte strade sono state interrotte e distrutte dai bombardamenti. Un’ora dopo aver lasciato Gaza, l’uomo e suo figlio sono arrivati ​​in via Salah al-Din direzione sud.

Tutto ciò di cui la famiglia aveva bisogno in quei momenti era un luogo sicuro, che consentisse alla tristezza di uscire allo scoperto, lasciasse lo spazio al pianto, che bastasse per contare i membri della famiglia e sapere chi fosse rimasto in vita e chi no.

L’uomo conclude: “L’automobilista era allo stesso tempo prudente e spericolato fino alla pazzia e noi stavamo uscendo dalla stessa follia, volevamo arrivare in qualunque luogo, cercavamo un po’ di sicurezza e conforto e tentavamo di comprendere che cosa fosse successo. Tutto quel che ricordo è che eravamo al sicuro a casa, a prepararci per la colazione, prima che iniziasse tutta questa follia.”

 

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Yousef Elqedra è un poeta palestinese residente a Gaza. Su Nazione Indiana appare nella traduzione di Sana Darghmouni e Pina Piccolo.

Memorie da Gaza #1

Memorie da Gaza #2

 

La mantide – di Hajar Bali

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ph. Ornella Tajani

[Dal 26 settembre al 1 ottobre si è svolta la prima Scuola di traduzione letteraria CeST “Lorenzo Claris Appiani”, dedicata quest’anno alla lingua francese. I e le partecipanti hanno tradotto un racconto della scrittrice algerina Hajar Bali dal titolo La mante. Quello che segue è dunque il frutto del lavoro collaborativo di Alessandra Faggiotto, Asia Fontana, Sara Friuli, Letizia Imola, Emma Laumont, Filippo Ponti, Camilla Predieri, Chahinez Razgallah, Federico Sacco, Lisa Santini, Elisa Srebernich, Silvia Tedeschi, Angela Valente, Ilaria Vannini, Anna Zanetti e Marta Zucchelli, con coordinamento e revisione di Federica Di Lella e mio. Ringrazio le coraggiose edizioni Barzakh di Algeri e la stessa autrice per averci concesso l’autorizzazione a pubblicare questo racconto, tratto dalla raccolta Trop tard (2014). Con l’augurio che Hajar Bali venga presto edita anche in Italia. ornellatajani]

La Grande Poste d’Alger, 2022

 

La mantide
di Hajar Bali

«Vorrei che fosse finita»
(29 luglio 1890, Vincent Van Gogh al fratello Théo)

Lunedì 11 maggio. Incontro

Ieri non so cosa mi è successo, ma ho dimenticato di mettermi il pigiama al rovescio. Nella catena della mia impeccabile organizzazione settimanale per poco non si è rotto un anello. Non è da me, è un gesto così meccanico e collaudato che non parlerei nemmeno di dimenticanza.
Se non me ne fossi accorto subito, avrei aspettato la domestica tutta la mattina, convinto che fosse mercoledì. Mi sarei innervosito, forse l’avrei licenziata, come del resto sono spesso sul punto di fare, quella ha la fissazione di spostarmi la roba, e poi ho il sospetto che in bagno usi le mie cose e che mi rubi i libri. Quando mi sono reso conto che il romanzo di Y.K. era sparito, gliel’ho fatto presente. In tutta tranquillità ha risposto che l’aveva preso lei. Mi sono infuriato, gliene ho dette quattro, minacciando di cacciarla, ma in cuor mio pensando che, se la sua scelta era caduta su Y.K., dopotutto non era poi così grave, visto che lo trovo insopportabile. Ha ribattuto che tanto quel libro a me non piaceva e che anche lei lo aveva trovato brutto. Per carità, apprezzo che la mia domestica legga, e che per di più condivida i miei gusti letterari, ma, come suol dirsi, «le cattive abitudini sono dure a morire». Sofia mi ha proibito di licenziarla, non te lo puoi permettere, mi ha detto, non troverai mai una persona «di fiducia» come lei. Non è che rubi, semplicemente prende. Si sente a casa sua. Ho dovuto promettere di tenerla, ma da quel giorno non la voglio vedere. Il mercoledì resto a letto tutta la mattina.
Sono sempre stato un tipo organizzato. La domenica cambio pigiama e lo indosso al rovescio. In questo modo, quando mi sveglio l’indomani, capisco che è lunedì, secondo giorno della settimana: è il giorno in cui mi dedico a scrivere il diario. Poi lo lascio a faccia in giù, ben in vista sulla scrivania. Così il martedì so che è martedì e, poco prima di andare a letto, lo rimetto a posto. Il mercoledì è il giorno della domestica. La sento ciabattare per la casa. Mi prepara da mangiare per tutta la settimana. Quando va via, mi godo finalmente il ritrovato silenzio. Mi sbrigo a riempire i contenitori da mettere in freezer. Ho un contenitore rosso per il mercoledì, uno bianco per il giovedì, quello verde per il venerdì, e quello bianco, ovale, per il sabato. Tutti ben allineati, in quest’ordine. È tutto scrupolosamente annotato in una scheda che consulto ogni mattina e ogni sera.
E allora come ho fatto ieri a dimenticare di mettermi il pigiama al rovescio?
Questo incidente stava per costarmi caro, causando tutta una serie di inconvenienti e nervosismi. Per un vecchio pensionato i giorni della settimana sono tutti uguali, ma non per me, proprio perché finora, grazie al mio rituale mnemotecnico, ero riuscito a sapere sempre che giorno è, e a impressionare i miei figli che, guardandosi, si dicono però, è in forma il vecchietto! Che memoria fenomenale! Ma, visto che di solito un inconveniente tira l’altro, Dio solo sa come mi sarei ridotto se non mi fossi accorto in tempo che oggi è lunedì: il giorno felice in cui ti ritrovo, mio adorato diario.
Quasi cinque anni. Quattro anni e trecentosedici giorni da quando la mia amata Hélène ci ha lasciati. Sono vecchio e solo.
Non mi aspetto più niente.
I miei amici se ne vanno uno dopo l’altro.
Prima o poi me ne andrò anch’io, a cuor leggero.
Certo che era strana la signorina che ieri mi ha provocato al vernissage.
Ero andato alla mostra del mio amico Chakib. In realtà non sono sicuro che mi consideri un amico, e lo stesso vale per me. Però mi invita, forse non se la sente di cancellarmi dalla sua lista, sebbene io non gli serva più a niente: in pratica mi sono ritirato dalla vita mondana e nessuno mi cerca più. Comunque alla mostra ci sono andato. Ne avrei fatto volentieri a meno, innanzitutto perché non lo reggo, lui e il suo lavoro insulso e pretenzioso, poi perché lo sanno tutti che deve la sua reputazione e lo stesso titolo di «artista» solo alla deferenza verso la Direzione per la cultura e alla sollecitudine con cui presenzia a tutti gli eventi artistici «ufficiali» – che sono organizzati in grande stile, va detto, i responsabili non badano certo a spese – e  soprattutto perché, oltre alla noia e all’esasperazione davanti a tanto spreco, ho l’impressione di non scoprire mai niente di nuovo. Eppure continuo ad andarci, come continuo a prendere il caffè amaro la mattina: solo e triste. Là incontro sempre le stesse persone che, tutte ossequiose, non smettono di chiamarmi «Avvocato Tarik!». Come se fossimo nel bel mezzo di un’udienza. È in buona salute, grazie a Dio! Abbiamo ancora bisogno di persone come lei! Ah, la sua ultima arringa! Sono già dieci anni! In udienza è raro che qualcuno applauda. Ci ha commossi! Che eloquenza, che grinta! Venga a trovarci, potrà dare qualche consiglio ai nostri ragazzi, se vedesse come sono ignoranti e presuntuosi! E io, con falsa modestia: largo ai giovani!
La sconosciuta era lì e, dicendo queste parole, l’ho indicata, aggiungendo magnanimo: Noi abbiamo fatto il nostro tempo. Lei si è messa a ridere in modo un po’ stravagante, fuori luogo, visto l’ambiente ovattato e snob di questo genere di eventi. A quel punto intorno a noi si è fatto il vuoto. Risentito da quella risata che sembrava diretta contro di me, mi accingevo a ritirarmi dignitosamente, a casa mi aspettavano le pillole, il sonnellino pomeridiano e soprattutto il quiz alla TV che non mi perderei per niente al mondo, quando lei mi fa: AVVOCATO, lei non ha il fegato di ridere apertamente di questo lavoro, eppure sa quanto è scadente…
Mi sono accorto di non avere nemmeno dato un’occhiata ai quadri.
Ho deciso quindi di andare a vedere da vicino l’immensa tela dai colori scuri che era il pezzo forte dell’allestimento, verso cui si era precipitata la calca dei visitatori, con grandi «ah!» e «oh» di ammirazione. Che dire, l’«opera» era di una bruttezza spaventosa. Un ammasso indistinto di corpi marroni sotto un sole verde. Un bambino, marrone anche quello, senza una gamba e con gli occhi bendati, sembrava urlare parole che l’artista, nella smania di essere capito, con un’enfasi ottusa, aveva pensato bene di scarabocchiare in una specie di nuvola rossa: «No alla guerra». Era davvero orribile, e in effetti sì, non ho avuto il coraggio di riderne apertamente. Ho visto che lei si girava e veniva dritto verso di me. Allora mi sono diretto verso il buffet; il cameriere ci ha porto i bicchieri e abbiamo iniziato a parlare come vecchi amici.
Sono sorpreso dalla sua vasta cultura e dalla schiettezza delle sue affermazioni. Non mi tratta con particolare riguardo, la mia buona reputazione e la mia età non sembrano impressionarla.
Più parlava – aveva una maniera adorabile di sgranare gli occhi, due meravigliosi occhi da gatta –, più sentivo crescere in me un turbamento che non riuscivo a identificare. Mi atteggiavo, come se la volessi sedurre. Mi rendevo conto che ero sempre più confuso, che stavo perdendo la mia fierezza.
Senza farmi notare ho messo da parte il bastone e mi sono chinato sul vassoio dei dolci per nascondere il mio turbamento. Qual è il titolo di quell’ammasso di corpi laggiù? mi ha detto, poi si è chinata sull’opuscolo che avevo in mano.
La ragazza emana un odore inaspettato. Intendo dire che intorno a lei si diffonde un sentore di vecchio o di malato, che, in quel momento, mi ha colpito come uno schiaffo.
È una pura proiezione della mia mente? Un’illusione prodotta dai miei sensi? O forse solo un sogno? Come quelli dei personaggi di un mediocre film di serie B, in cui «la Grande Mietitrice» si presenta come una giovane e seducente bruna, che svela a poco a poco la sua natura diabolica? Le cresceranno capelli ispidi e unghie da strega?
Eppure era proprio lì, in carne e ossa, alla mia sinistra. Non ho nemmeno osato spiegarle che avrebbe dovuto spostarsi a destra. Non tollero che qualcuno si metta alla mia sinistra, da quell’orecchio non ci sento.
Era da molto che una donna non mi intimidiva. Pensavo perfino che quello fosse un capitolo chiuso. Ho imparato a trarre vantaggio dalla mia condizione di vecchio viziato e capriccioso. Il dolce potere di dire in qualsiasi momento quello che pensi a chi vuoi. Ebbene lei, alla sua età, ventitré anni come mi ha detto, l’età di mia nipote Sofia, si serve di questo potere senza problemi. Trovo questa sua sfacciataggine un po’ volgare. Potrei essere suo nonno!
Ero in imbarazzo, che idiota. Se ci ripenso! Quanto devo esserle sembrato stupido!
Quando mi sono ripreso ho tentato di nuovo di allontanarmi. Lei mi ha trattenuto e a quel punto, di fronte allo sguardo di quella «creatura», non ho potuto reprimere un desiderio istantaneo che mi ha fatto arrossire fino alla radice dei capelli spettinati.
Insomma, lei mi ha trattenuto e mi ha detto: si chiama «Il mucchio di!» È scritto nero su bianco! In effetti era quello il titolo dell’opera: «Il mucchio di!» Con un punto esclamativo. Ha ricominciato a ridere ancora più forte, e io spontaneamente ho fatto altrettanto. Ah, era da tempo che non ridevo così!

Lunedì 18 maggio. Dono

Dall’alto dei miei ottantun anni osservo la vanità delle lotte e dei conflitti.
Quando i miei figli vengono a trovarmi mi portano i giornali. Li sfogliamo insieme e io mi metto a commentare le notizie, senza che nessuno osi tenermi testa. Neanche Nacim, che pure sostiene di militare nella Lega non ufficiale dei diritti dell’Uomo. Se le nostre società fossero state giuste, gli ho detto un giorno, il presidente della Repubblica sarebbe stato il migliore tra tutti noi. Allora nessuno si sarebbe sognato di immaginarsi al suo posto, di credere di poter essere un presidente migliore, di deridere l’arrivismo della nuova classe dirigente o il fatto che quelle persone non sappiano mettere due parole in fila nella lingua nazionale. Alla fine, una società iniqua permette di sognare. Sogniamo, sbagliando, che potremmo fare di meglio se ci fossimo noi al posto del presidente. Non sapete quanto siete fortunati, dico a mio figlio Nacim, a essere mediocri come quelli che vi governano. Lui non risponde mai alle mie argomentazioni. Cova in silenzio. Devo ammetterlo, è piacevole – mentre lui se ne sta con lo sguardo basso, a volte torvo, ma in ogni caso in silenzio – poter godere della forza intimidatoria e persuasiva data dalla mia condizione di vecchio patriarca, poter imporre il mio punto di vista, fosse anche il più assurdo. Ne ho abbondantemente approfittato. Sono stato, nel mio piccolo, un dittatore. Innocuo, certo, ma comunque un dittatore.
La donna della mostra mi mette alle strette. Non è debole come Nacim.
Ho preso l’abitudine di farci due chiacchiere ogni tanto (se fosse per me, lo farei ogni giorno) quando la incrocio al bar sotto la Grande Poste dove lavora. Questi incontri non sono per niente casuali. So che passerà verso le cinque. Quando mi vede, si siede e mi sorride. Sono contento che le faccia piacere vedermi. Con la stessa gratitudine con cui ci si scalderebbe sotto un mite sole invernale, accetto quest’ultimo dono che la natura offre a un vecchio come me.
Conversiamo come due anziane comari e lei respinge con decisione e schiettezza le mie argomentazioni, a suo avviso reazionarie.
Insomma, ha ventitré anni, vende francobolli all’ufficio postale e nel tempo libero studia i fili d’erba. Non so il suo nome. L’ho soprannominata «la mantide» per ciò che sostiene di fare: mangiare i suoi amanti. Mi ha detto così. Ovviamente le ho creduto.
Mi invita a osservare su un francobollo un rametto di asparăgus carnĭvŏrus. Ritiene che lì sia racchiuso il vero sapere.
Mentre mi entusiasmavo per la fortunata coincidenza che ci ha fatto incontrare, evitando di ricordarle in che modo brusco mi aveva avvicinato, mi ha obiettato che non era stata affatto una coincidenza.
Mi diverte, mi turba ed è, nonostante la sua giovane età, il mio alter ego.
Oggi il cardiologo aggrotta la fronte più che mai e bisbiglia ai miei figli le sue preoccupazioni.
Quattro anni e trecentoventitré giorni da quando Hélène ci ha lasciati. Fra non molto saranno cinque anni.

Lunedì 25 maggio. Sogno

Stamattina molto presto mi ha telefonato Sofia. Voleva scusarsi per l’assenza di ieri, di solito la domenica porta il couscous per pranzo. Con aria grave mi ha confidato che il marito l’aveva lasciata. Il suo modo di parlare, troppo veloce per me, e tutti quei singhiozzi, a prima mattina, mi hanno intontito. Non l’ascoltavo davvero, ero sul punto di riattaccare o di riaddormentarmi. Di base pensano che sia distratto, allora, per comodità, per pigrizia, ci marcio. Siccome nessuno me ne vuole per questo, ignoro deliberatamente i problemi di chiunque.
La vecchiaia è una bella età, è comoda. Davvero.
In realtà non sono preoccupato per Sofia. È ancora nell’età in cui i litigi sono un pretesto per rinsaldare il rapporto, in cui riconciliarsi è così dolce! E poi lei ha la saggezza delle nostre donne: ha un ferreo senso del dovere, nonostante l’apparente frivolezza. Dal canto suo, il marito ha forse altra scelta? Potrebbe mai evitare di sottomettersi, come abbiamo fatto tutti, alla misteriosa forza del matrimonio?
Quattro anni e 330 giorni.
Credo che alla fine Sofia abbia riattaccato. Ha capito che non l’ascoltavo.
Dato che ero sveglio, ho deciso di andare a fare una passeggiata in spiaggia, come ogni lunedì. Stavolta, però, con due ore di anticipo sul programma. Il destino aveva deciso così. La differenza di orario non sconvolgeva più di tanto la mia organizzazione, mi ci sono adattato serenamente, un po’ deluso dall’assenza del sole. Le previsioni davano vento, quello sì che rischiava di infastidirmi sul serio.
Sulla sabbia c’era un vecchio tronco mezzo marcio. Mi ci sono seduto sopra e ho respirato a pieni polmoni l’aria di mare. Mi faceva male la schiena, il mio vecchio cuore tornava ad avere le palpitazioni e chiudevo gli occhi implorando: Dio, che cosa mi succede? Che cosa vuoi fare di me? Il vento soffiava forte e delle violente raffiche mi facevano vacillare, fragile barchetta tremante in una marea di sabbia. Poi ho chiuso gli occhi, chinando il capo. È stato allora che mi è apparsa. In piedi davanti a me, mi invitava ad andare a nuotare con lei. Rideva, scoprendo dei denti spaventosamente grandi. Ho aperto gli occhi e, con il cuore in gola, mi sono messo a cercarla, senza sapere più dove fossi, tanto la forza del sogno, ma era davvero un sogno? persisteva. Lei non c’era più. Riuscivo solo a dirmi che era scomparsa e che dovevo andare a soccorrerla nell’acqua fredda e tumultuosa. Non mi restava altro da fare che affrontare il mare ghiacciato. Gridavo verso l’orizzonte, gridavo il mio nome e quello di Hélène. Gridavo aiuto, venite! Chiamavo Hélène, stavo impazzendo. Niente. Il mare sembrava implacabilmente calmo. Soltanto qualche gabbiano faceva eco alle mie urla. Ho sentito allora che il cuore mi stava abbandonando. Sono andato verso il mare, quasi strisciando. E lì sono crollato.
Qualche ora dopo, mi sono risvegliato in camera mia. Quando ho aperto gli occhi, ho visto Sofia che piangeva al mio capezzale. Degli agenti mi avevano soccorso sulla spiaggia e l’avevano chiamata. Ero stupito e confuso. Sono accorsi tutti i miei figli, fingendo di essere solo passati a trovarmi. Ma, quando li ho visti arrivare in quel modo, in corteo, ho capito benissimo che cercavano di tranquillizzarsi ma anche di esprimere il loro amore. Da quando Hélène ci ha lasciati, non parlano più della morte. Ne sono ossessionati. La morte di Hélène, così inaspettata, ha creato in ognuno di loro una specie di perenne stato patologico che li spinge a immaginare sempre il peggio. Nessuno dei miei figli, dopo quel dramma, è più in grado di provare una gioia completa. Lo so. Credo che chi non ha vissuto la perdita di una persona amata non possa conoscere questa persistenza del dolore, che oscilla tra la sottomissione al destino e uno stato di semi-vita, di consapevolezza dell’estrema fragilità di ogni cosa. Sapevo esattamente cosa provavano i miei figli, ognuno pensava, adesso tocca a lui.
Credevano che fosse giunta la mia ora. Il dottore bisbigliava qualcosa a Sofia. Ho chiesto più buio, più silenzio e ho chiuso gli occhi.
Adesso la casa è silenziosa. Troppo silenziosa. Sembra una tomba.

Lunedì 1 giugno. Seconda giovinezza

Sofia, dopo l’incidente della scorsa settimana, si è trasferita qui con la scusa di badare a me. Non si allontana se non per andare al lavoro, mi fa promettere che non mi azzarderò a uscire da solo. Sono prigioniero di mia nipote. Ho i nervi a fior di pelle. Di nascosto ho chiamato Hassan, proponendogli di venirci a trovare, ero pronto a tutto per farli riconciliare. Il loro litigio è durato abbastanza. Che se la venga a prendere e si levino dai piedi. Ho bisogno di lasciarmi andare alle mie fantasie e alla mia follia.
Già, perché mi sembra proprio di impazzire. Ascolto «La Primavera» a velocità accelerata, il violino che si alterna all’orchestra mi spacca i timpani, sto per urlare.
Sofia, rannicchiata accanto a me come al solito, mi domanda con gentilezza: cosa vuoi fare? Ho l’impressione di essere un condannato a morte a cui vengano chiesti gli ultimi desideri. È esasperante.
Allora, senza troppe cerimonie, mi sono alzato di scatto, tradendo il mio crescente nervosismo. Mi sono inventato che dovevo andare dal mio amico Chakib. Lei voleva venire con me, ma mi è stato facile improvvisare una specie di capriccio infantile, urlando che potevo benissimo fare cento metri senza accompagnatore, e che avevo bisogno di respirare, chiedevo troppo? Sofia, sospettosa ma calma, mi ha lasciato andar via facendomi promettere di non tornare tardi. È una che non molla, lei.
Sono uscito sbattendo la porta, per mettere in chiaro che non avevo alcuna intenzione di farmi accompagnare.
Mi ha urlato Sii prudente, nonno, non ti allontanare. Tra poco fa buio.
Ho deciso di andare al bar. Speravo segretamente di incontrarla.
C’era un tempo magnifico, come questa città spesso ci regala. La polvere sembrava lavata via e i contorni degli edifici si stagliavano netti nel cielo limpido. Con discrezione mi sono sbottonato la camicia sul petto, che è ancora bello, con la folta peluria stranamente non troppo ingrigita. Mentre camminavo sorridevo al vento e al cielo, mi sentivo felice come un bambino che va alla sua prima festa.
Lei era lì.
A chi sa vederli, la vita regala tesori inestimabili.
Qui, al crepuscolo, regna un’atmosfera particolare; gli uccelli fanno un baccano infernale e gli uomini tacciono. Guarda quella fogliolina che si è staccata dal ficus! Com’è graziosa! E io sì, sì, turbato all’improvviso dal suo collo lungo e sottile. Bugiardo! Non l’hai vista. Ora è ai tuoi piedi e stai per schiacciare la formichina che sta arrivando, sei solo un vecchio rimbambito, arrogante e vizioso. Poi è scoppiata a ridere. Credo mi legga dentro come nessun altro.
La guardavo ridere, sgranare quei grandi occhi da gatta, mentre le note del violino continuavano a stridermi in testa. Per paura di suscitare in lei un’ilarità ancora più fragorosa, non ho nemmeno osato chiederle se fosse stata lei ad apparirmi sulla spiaggia, mi sentivo già abbastanza ridicolo a farmi vedere con quella ragazzina dalla risata insolente.
Mi ha parlato come se niente fosse del brano che gli uccelli, mi diceva, sembravano eseguire a velocità accelerata per noi. Era Vivaldi? Ho risposto di sì, rinunciando a capire per quale strano mistero fosse in grado di sentire quello che solo la mia testa produceva.
Ho iniziato a temere che potesse intromettersi nei miei pensieri più profondi, spesso inconfessabili, lo ammetto.
Aveva le guance pallide, i capelli castani le cadevano a cascata sulle spalle strette, mi ricordava un passerotto.
Abbiamo deciso di ordinare un narghilè. Ah, se mi vedessero i miei figli, mi sono detto. Osservavo i suoi occhi lucidi, quella piccola mano che distrattamente accarezzava il bocchino. Una giovane coppia si era appartata in un angolo. Si guardavano intensamente, niente avrebbe potuto distoglierli dalla loro passione nascente. Quei due sono su un altro pianeta, irraggiungibili, mi ha detto la mia amica. Ci siamo lasciati distrarre dall’atmosfera del bar a metà tra il popolare e il trendy. I nostri vicini litigavano su cose insignificanti. Almeno è quello che ho pensato all’inizio, perché il resto del mondo mi sembrava di una mediocrità assoluta. A quel punto, mosso da un desiderio stupido ma imperioso di farmi bello ai suoi occhi, ho cominciato a raccontarle che da studente avevo l’abitudine di incontrare gli amici al «circolo», una specie di mensa dove andavamo dopo le lezioni, riunendoci in gruppi a seconda delle affinità. Suonavamo la chitarra o giocavamo a carte, altri passavano le giornate a discutere di come cambiare il mondo. Lei mi ascoltava educatamente, troppo educatamente. Ho capito che l’annoiavo. La mia aria di sufficienza, le mie osservazioni da vecchio, trincerato com’ero nelle mie convinzioni e sicurezze irremovibili, mi sono parsi all’improvviso di una vanità insopportabile. Mi sentivo di nuovo un idiota. Questi giovani, mi ha detto, non stanno discutendo di come cambiare il mondo, sono il mondo.
E allora io? Cosa avevo di interessante ai suoi occhi? Ero solo l’ennesimo trastullo per lei?
La gente che ci circondava quel giorno, così stravagante, le ragazze che si sbellicavano dando forti pacche sulle spalle ai loro vicini oppure che ancheggiavano al suono di una musica aggressiva ed eccessivamente forte, questa gioventù che stavo scoprendo con stupore, l’avrei trovata volgare. La vicinanza di quella «fauna», che adottava i comportamenti e i codici della propria epoca, verso cui, va detto, la mia generazione è stata troppo sprezzante, di colpo mi è apparsa come un ammonimento al mio stupido orgoglio. Allora, incoraggiato dal buon umore della mia compagna, mi sono fatto umile e ho desiderato entrarci in simbiosi. Quelle persone non ci guardavano nemmeno. Non mi giudicavano. Mi sentivo uno di loro.

Quanti anni hai? è scoppiata a ridere, e io con lei: l’ho dimenticato! ho risposto sghignazzando, mentre uno stupido senso di malessere cominciava a sopraffarmi.
All’improvviso, dal profondo dell’anima, è emersa una domanda che mi è sfuggita come un grido: Io abito qui vicino, sai? Che ne dici di passare una di queste sere?
Vuoi la tua morte?  E si è messa a ridere ancora di più. Ho riso anch’io, cercando invano di dominare il mio turbamento.
Al momento di salutarci mi ha porto la guancia, sembrava in preda a una tristezza infinita. Ha mormorato forse sarebbe meglio non vederci più? ed è corsa via, lontano da me.
Ho il sospetto che abbia qualcosa a che fare col diavolo.
Ora non riesco più a dormire. Ascolto l’Ottava di Bruckner.
Sono condannato a comportarmi come impone la mia età. Con buon senso e rassegnazione. Se il destino mi mette davanti alla prospettiva di un amore e se, al confronto con lo scenario quasi insignificante che fa da sfondo alle mie giornate, questa costituisce la mia unica ragione di vita, perché dovrei rinunciarci?
Sono vedovo ormai da quattro anni e trecentotrentasette giorni. Hélène capisce cosa mi sta succedendo? Alla fine, si deciderà a farmi un cenno?
Intanto Bruckner mi prepara alla malinconia.

Lunedì 8 giugno. Tradimento

Il muezzin annuncia l’alba ed io vado in giro per casa alla ricerca di una sigaretta: temo che Sofia le abbia distrutte tutte.
In occasione del primo parto di Hélène, quarant’anni fa, eravamo immensamente felici, era da almeno otto anni che aspettavamo l’arrivo di un bambino; come un idiota avevo seguito i miei amici dell’epoca al night e lì mi ero abbandonato tra le braccia di una sconosciuta con cui avevo passato tutta la notte, euforico per la gioia di essere finalmente padre. Si dà il caso che proprio quel giorno mi sia comportato come un disgraziato, per giunta con totale disprezzo verso la sconosciuta che mi cullava tra i suoi seni. L’indomani Hélène mi aveva accolto freddamente. Me ne voleva per averla lasciata sola in quel letto d’ospedale. Non immaginava che le avevo dato motivi molto più seri per respingermi. Avrei voluto morire seduta stante. Ho mantenuto il segreto per tutta la vita, e per tutta la vita quel ricordo mi ha amareggiato, ripugnato.
Devo andare a far visita a Hélène. Pregherò sulla sua tomba.
La mia vita è stata troppo lunga, se oggi mi ritrovo a desiderare una seconda giovinezza.
Come ho fatto a cancellare spudoratamente persino i ricordi più belli della mia vita?
La mente osserva senza batter ciglio l’orribile, ingrato comportamento dei miei sensi. Quindi, sì, andrò a raccogliermi, colpevole, sulla sua tomba.
Sono quasi cinque anni che mi ha abbandonato.

Lunedì 15 giugno. Rimorso

Stamattina il taxi mi ha lasciato all’ingresso del cimitero.
Ho pregato come un automa. Coprendomi la faccia con tutte e due le mani, ho pregato Hélène di perdonarmi. Credo di aver pianto, miseri e freddi singhiozzi senza rimorso.
Rientrando, mi sono fermato al bar, ad aspettare impaziente che arrivasse «la mantide».
Portava un vestito a fiori. Mi ha preso allegramente le mani, io l’ho guardata, e allora, per pochi secondi, giurerei di aver visto sul suo viso i lineamenti di Hélène.
Ne sono rimasto sconvolto e felice insieme. Perché ho capito allora che, se Hélène fosse stata ancora tra noi, nessuno, nemmeno questa strana creatura, mi avrebbe distolto dal suo amore, dalla voglia di vivere ancora e ancora. Anche nella monotonia dell’esistenza quotidiana, però con Hélène viva, con Hélène accanto a me. Sarei stato completamente appagato. In quel momento folle della mia vita, in cui come un pazzo mi stavo buttando a capofitto in un’avventura sentimentale, ho capito che per me contava solo Hélène.
Guardavo quegli occhi da gatta e sprofondavo nello sguardo immensamente dolce di Hélène. Immaginavo di baciare con avidità l’esile passerotto che si offriva a me, e a un tratto il suo viso diventava quello della madre dei miei figli. Allora divoravo il suo viso di fantasma, sconvolto d’essere un uomo ancora vivo, insaziabile di desideri.
Ora, seduto alla scrivania, provo a mettere nero su bianco il turbinio di sensazioni che mi investono tutte insieme. Mi si spalanca davanti un mondo di ricordi e di felicità. Il giuramento di avvocato in tribunale, Hélène tra il pubblico, in lacrime, commossa e sorridente, le notti sveglio a studiare i fascicoli, Hélène, ancora lei, premurosa come una madre, le nostre risate, la complicità, la malattia, la paura, il resistere insieme alla guerra, all’incubo, le promesse, la prima figlia, il matrimonio della maggiore, l’esilio degli uni, il fallimento degli altri.
Capisco finalmente che la mia Hélène non mi ha mai lasciato.
Cerco allora di ricostruire il corso degli ultimi eventi. Tutto accade dentro di me alla velocità della luce. È di una chiarezza inesorabile. Ora sono profondamente convinto che quel primo sguardo che mi aveva tanto turbato l’altra sera al vernissage era quello di Hélène.
Hélène, con la sua immensa saggezza, mi prendeva ancora una volta per mano. La donna che avevo incontrato era Hélène risuscitata. E io ero il figlio insicuro, colpevole, bisognoso di perdono, ero sempre lo stesso, lei era Dio al mio fianco.
Sono al contempo lo strumento di un complotto satanico che mi sprofonda negli abissi della follia e l’eletto di un animo puro e generoso che scende dai cieli e mi invita alla trasgressione per salvarmi. 

Lunedì 22 giugno. Inferno

Non l’ho rivista.
Non ho voglia di rivederla.
Innanzitutto perché sto malissimo. Non avrei sopportato di lasciarle vedere lo spettacolo del mio corpo sofferente, sconfitto.
Mi si stringe il cuore.
Sono abbattuto.
Sono quasi cinque anni che vivo l’inferno.
Lei si interessa ai fili d’erba e alle foglioline che cadono dagli alberi, alle cose insignificanti, in pratica. Ci rientro anch’io?
Ripenso a quando mi ha mostrato la sua collezione di francobolli, nessuna effigie, soltanto dettagli strani, bestioline o piante, rarità che tuttavia hanno catturato l’attenzione dei tipografi, mi sono detto.

Lunedì 29 giugno. La visita

Oggi sono esattamente cinque anni che Hélène ci ha lasciati.
La passeggiata al cimitero mi ha gettato in uno stato quasi comatoso. I miei figli, allarmati, sono venuti a trovarmi. Sofia mi ha detto che avevo delirato per giorni e che avevano dovuto prescrivermi dei forti calmanti per placare la mia agitazione. Quando mi sono rimesso, all’inizio sono stato felice di averli intorno. Ma dopo un po’ quel viavai di gente mi ha stancato, e le ansiose premure di tutti hanno cominciato a irritarmi. Le ragazze e i ragazzi non smettevano di darsi il cambio al mio capezzale, facevano del loro meglio per aiutarmi, ma la cosa mi esasperava. Ai loro occhi ero un caso patologico, un malato privo di volontà e di libero arbitrio. Senza rendersene conto mi avevano preso in ostaggio: dovevo solo mangiare e starmene a letto per farli sentire in pace con la coscienza. Soprattutto mi toccava sopportare i loro figli chiassosi e mangioni che a tavola sbavavano davanti alla crema al cioccolato, mentre io avevo diritto solo a minestre di verdura e carne alla griglia, per di più senza un filo di grasso. Subito dopo che mi avevano messo a letto li sentivo finalmente più rilassati, come se la mia presenza fisica avesse provocato una tensione insopportabile. Allora chiudevo gli occhi, supplicando Hélène di prendermi con sé al più presto. A notte fonda dovevo pure tollerare Nacim, incaricato di vegliare su di me, che russava. Uno strazio!
Ho messo il broncio. Mi sono chiuso nel silenzio. Niente da fare. Continuavano a rivolgermi sguardi preoccupati ma non modificavano di una virgola quel loro atteggiamento paternalistico. Allora sono diventato ancora più aggressivo, deciso a far vedere a tutti che ero completamente guarito e intenzionato a cacciarli di casa. Ce l’avevo con loro perché erano molto più in forma di me, così giovani e belli, come una provocazione al mio povero corpo stanco.
Finalmente ieri Nacim, l’ultimo ad andarsene, ha rimesso a posto il suo materasso. Mentre lo guardavo, così ingobbito e con gli occhi cerchiati, mi sono ricordato di Hélène che mi diceva è lui quello che ti assomiglia di più. Preso dal rimorso, gli ho chiesto di rimanere ancora una notte, e abbiamo invitato il mio vecchio amico Chakib a cenare con noi. È venuta anche Sofia e ci siamo fatti una partita a belote memorabile, anche se credo che i ragazzi ci abbiano lasciati vincere.
Ad ogni modo, ci siamo divertiti tantissimo, e tutti quanti hanno finto di non accorgersi della quantità di cioccolatini che mi mangiavo uno dietro l’altro. Ero felice come un bambino. E riconoscente. Mi sentivo così bene. Vedevo però nello sguardo buono di Nacim una leggera contrarietà, che preferivo attribuire alla sua cocente sconfitta.
Ero allegro, affettuoso, e ne avevo ben donde: presto l’avrei rivista.
La inviterò. Verrà a cena domani, sola, con me.
Più di una volta ieri, e anche stamattina, mi è sembrato di sentire la sua «essenza» aleggiare nella stanza. Per lei mi sono dato da fare, perché lei era lì. A carte ho rischiato grosso, scommettendo somme enormi, con gran sorpresa del mio compagno di gioco. Ero tutto ringalluzzito. Domani le racconterò come ho stracciato mio figlio e mia nipote. Le insegnerò le regole della belote coinchée.
Mentre usciva, Chakib mi ha guardato in modo strano, sicuramente si stava chiedendo perché ero così su di giri. L’ho abbracciato forte e per qualche motivo incomprensibile sono scoppiato a piangere.
Domani andrò a prenderla. Domani sarà qui.
Stamattina, al momento di uscire, Nacim ridacchiava imbarazzato, poi se n’è andato gridando che si sarebbe preso la rivincita, in coppia con qualcun altro, però. Non con quella frana di Sofia, ha aggiunto ancora mentre scendeva le scale.
Ho il cuore in subbuglio. Mi sento come una giovane vergine che, la prima notte di nozze, desidera e teme l’inevitabile.
È già buio, la luna sorta anzitempo proietta nella stanza un insolito bagliore bluastro, una luce che sembra quasi artificiale, simile all’«effetto notte» del cinema.
Dopo aver pulito tutto con febbrile impazienza, ho rimesso un po’ in disordine le lenzuola e le cose sul tavolo per ricreare una patina di naturalezza.
Stanotte non dormirò.
Provo a osservare i quadri appesi alle pareti del salotto come se li vedessi per la prima volta, sistemo qualche soprammobile, tutto è disposto secondo un ordine preciso senza averne l’aria.
Mi preparo. Che cosa indosserò? Attorno al collo rugoso, un foulard annodato con negligenza. Farò un bagno sciogliendo i sali nell’acqua tiepida, devo cercare di rilassarmi completamente.
Se soltanto i miei cari potessero comprendere ciò che, nella Sua grande misericordia, il Signore ha voluto concedermi.
Non vedo l’ora che sia domani. Se lei vorrà.

La sento, mi sta parlando, o è la voce di Hélène?

L’asparăgus carnĭvŏrus si nutre di vermi. La morte, sai, è la continuazione della vita. Chinati un po’ di più e osserva la moltitudine silenziosa ai tuoi piedi. Adesso tranquillizzati. Puoi tornartene da dove sei venuto, semplice, no?

 

Silvia Calderoni: un dente strappato come il ricordo

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Denti di latte

 

Un dente strappato come il ricordo; tutto si tiene, tutto traballa: «nonostante che le persone e i luoghi citati non siano inventati, questo non è un romanzo autobiografico». Si apre così Denti di latte, il romanzo di Silvia Calderoni pubblicato recentemente da Fandango.

È, questo di Calderoni, un libro di giuramento all’inquietudine, di vita spalancata e di schianto con l’acqua fredda di ogni infanzia. Libro dei tremolanti, delle piccole persone che cercano di abitare il proprio tremore, e di farne racconto luminoso. Libro che per questo che non assolve alcun compito prestabilito; che anzi ricomincia, sorprendentemente, ad ogni capitolo, decidendo di essere fedele fino in fondo alla memoria più-che-naturale, al regno del sogno e della seconde vite, quelle selvatiche, quelle che sempre bruciano in noi, come del resto brucia il corpo di Silvia Calderoni ogni volta che la vediamo varcare la scena. Ripenso a una riga da lei pronunciata in Paesaggio con fratello rotto del Teatro Valdoca: «sento il cosmo che tiene / e non è stanco. / Solo l’uomo è stanco».

Tutto si tiene, dicevamo. Tutto s’agita nell’intreccio magnifico delle righe: il dettaglio di gioia e lo spasmo, la memoria e la lacuna, la tosse e il fiore di forsizia: «e all’improvviso un uccello ha iniziato a batterle le ali nel torace. È doloroso, diceva, ha bloccato il respiro.». Poi, piano piano, ha smesso di agitarsi ed è tornata a respirare.

***

Ospito qui un capitolo dal libro. Grazie a Fandango per la concessione.

 

È da giorni che non riesco a mordere le mele. Mi balla un dente. È la prima volta che sento che un pezzetto di me ha deciso di lasciarsi andare. Lo dico a lui, è pomeriggio e come al solito siamo soli in casa. È seduto sul divano a tre posti con le gambe incrociate l’una sull’altra. Non ha le scarpe e in una delle due calze color blu notte c’è un buco all’altezza del dito medio. Sento forte l’odore acre dei suoi piedi.

“Vieni qui, fammi vedere…”

Accompagna la frase con un gesto della mano. Come per semplificare una lingua già semplice. Lui è così, è tutto corpo, non è mai una cosa senza l’altra. Io non mi avvicino subito, sono schiva, afferro il mio dente incisivo tra pollice e indice della mano sinistra e abbasso la testa. Sospiro, il dentino si muove ancora, ma ormai non ho più il primato su nessun segreto.

“Ti ho detto di venire qui!”

Adesso il tono della voce si alza e, per paura di contraddirlo, mi avvicino rapida. Le mani di lui sono enormi. Quando camminiamo per strada uno accatto all’altra, invece di tenerci mano nella mano, ci teniamo dito-mano. Perché le sue dita sono grosse come zucchine e lunghe più delle manopole del manubrio della mia bicicletta. Il suo indice è stato forgiato su misura per le mie manine magre e, quando mi aggancio, posso camminare anche a occhi chiusi: e se inciampo, lui mi tiene, sempre. Mi avvicino a testa bassa verso il divano e, senza lasciarmi il tempo di schivarlo, mi tira verso di lui e mi afferra la mandibola coprendomi con il palmo quasi tutta la faccia. Mi ritrovo a bocca spalancata, con il collo flesso all’indietro e inizio a piangere. Le sue mani sono troppo grandi per infilare le pantacalze alle mie Barbie e le sue dita sono troppo grosse per entrare nella rotella numerata del telefono, azione che compie o con il mignolo o con una matita senza punta che sta sempre vicino a un blocco note sul mobile davanti alla porta. Sono intrappolata in questa morsa ma non chiudo gli occhi e sforzo i miei bulbi a compiere un gesto innaturale, nel tentativo di mettere a fuoco ciò che sta accadendo sotto il mio naso. Vedo che un grande dito entra nella mia bocca e la riempie. Un sapore salato fa arretrare la mia lingua in fondo, nella sua tana e stimola la mia salivazione. Il dito con estrema delicatezza si appoggia al mio incisivo che tentenna incastrato nella gengiva. Tutto finisce in un attimo e mi ritrovo libera. Deglutisco. Nonostante la sua completa mancanza di grazia, non mi ha fatto alcun male, anche se per ora si è solo accertato che il mio dentino di latte fosse veramente traballante. Siamo al punto di partenza, mi allontano camminando all’indietro, sperando che qualcosa di più interessante del mio dente straripi da questo pomeriggio d’ottobre. E proprio quando sta per uscire dal mio campo visivo, spegne la tv e si alza all’improvviso. Va in balcone con un passo spedito come se fosse l’unico a sapere le regole di questo nuovo gioco, io lo seguo con lo sguardo incuriosita e tornando sui miei passi raggiungo il centro del tappeto, una pelle di mucca bianca a macchie marroni che è per ora l’unico animale domestico che io abbia mai avuto. Sento il suono dell’armadietto degli attrezzi che si apre e un bofonchiare che riconosco, ma che non riesco a decifrare. Probabilmente sta cercando qualcosa che non trova. Ritorna con in mano un filo da pesca e inizia a spiegare a una platea di cui anche io faccio parte:

“Adesso ti lego il filo al dente, poi lego l’altro capo alla maniglia della porta. Poi in un colpo solo sbatto la porta che ti toglie il dente, neanche te ne accorgi.”

Per un attimo rimango titubante ma poi il suo entusiasmo mi coinvolge tanto da spalancare io stessa la bocca in complicità. Leghiamo insieme il dentino con un nodo a cappio e, nell’assicurarci che sia bene saldo, un po’ di sangue amaro mi si mischia alla saliva. La porta che ha scelto è il portone dell’appartamento: la apre, mi posiziona al di là e lega l’altro capo del filo alla maniglia che è esattamente all’altezza dei miei occhi. Ci siamo, siamo tutti e due complici e operativi. E da qui tutto diventa velocissimo. Ho la bocca spalancata come un pesce all’amo, le fauci si seccano, il filo è teso e ogni piccola flessione della colonna fa scendere un po’ di sangue dalla gengiva. Non faccio in tempo ad alzare la fronte al cielo e a cercare di mettere i miei occhi nei suoi, che lui urla divertito:

“Vado!”

Sono certa che sto sentendo quel “vado” e il suono dello sbattere della porta senza nessuna pausa in mezzo, senza nessuno spazio per far accadere ciò che deve accadere. Tutto succede adesso, nello stesso istante. Il suo urlo, il mio dolore, lo strappo che sento al collo, il boato dello sbattere della porta amplificato dalla tromba delle scale. Tutto accade insieme e finisce sempre nello stesso adesso in cui sta accadendo. Porto entrambe le mani alla bocca e mi chino in avanti, crollo educata sulle ginocchia e appoggio il sedere ai talloni. Abbasso gli occhi e vedo fiorire delle gocce di sangue sulle calze di lana color panna. Lui arriva poco dopo con un cubetto di ghiaccio avvolto nel suo fazzoletto di stoffa. Mi dice che anche lui ha tolto il primo dente così e non l’ha mai dimenticato.

Noce, Aparecida e altre tavolette votive

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di Davide Nota

Ho composto questi testi su facebook tra il settembre e il novembre del 2023 ipotizzando una sintesi tra il canone metrico della canzone italiana e lo stile semantico della memoria autobiografica su social network. Immagino queste canzoni nel solco della tradizione italiana, particolarmente radicata nelle Marche, degli ex-voto. Due giovani pittrici marchigiane come Valentina Vallorani e Alice Piergiacomi si confrontano ancora oggi con questa tradizione. Le tavolette votive italiane, a lungo considerate poco più che una grossolana espressione di devozione popolare, approssimativa nella costruzione prospettica e irrilevante dal punto di vista teorico e dottrinale, hanno composto e tramandato all’ombra delle pale d’altare un vero e proprio canone marginale del sacro successivamente defluito come puro riferimento stilistico nel variegato paesaggio dei pittori naïf del primo Novecento e da lì al presente in varie forme e tracce. Non era la compiutezza formale il cruccio dei loro autori, né la funzione pedagogica o divulgativa (politica) delle allegorie e del sistema simbolico, quanto la disarmata volontà di testimoniare alla lettera un miracolo realmente vissuto (realmente percepito come tale) o di pregare per esso. In ognuno di questi testi è incastonata una preghiera.

 

 

Noce

Oggi voglio raccontarvi un segreto
Una storia di provincia di molti anni fa
Alle 6 del mattino al bar della stazione
Stavo aspettando lʼautobus per lʼuniversità
Qui apparve misteriosamente Noce.
Noce era un tipo assurdo (ma il suo nome
Era un altro e questa è solo una canzone)
Noce era sostanzialmente un rimasto
Ma con stile e unʼenergia che nessuno
Avrebbe mai eguagliato. Tutti lo rispettavano.
E aveva dei santi lʼocchio e il sorriso.
Che fai, mi chiede. Aspetto lʼautobus
Per Perugia e tu? Io aspetto il sole.
Attorno a noi si popola il piazzale
Di genitori e figli e noi parliamo.
Avevo conosciuto Noce al centro
Sociale di Ascoli qualche anno prima
Lui era un matto e io probabilmente
Un ragazzino solo e problematico.
Comunque ci siamo subito intesi.
La nostra intesa si espresse in silenzio,
In forma di saluto, di fulmineo
Sguardo illuminato da unʼempatia
Credo reciproca, ma non è questo il punto.
Lui era un pusher e io un quindicenne
Nemmeno mi compravo mezza canna
Per cui la sua amicizia era sincera.
Un giorno nel deserto dellʼestate
Sedevo trascrivendo dei pensieri
In forma di rappato, avevo ai tempi
Sognato di comporre un primo demo
Su un quadernino a righe. Arriva Noce
e mi si siede accanto. Ciao che fai?
Scrivevo una canzone. Me la canti?
Fu il mio unico concerto e Noce pianse
Nella luce che inondava lʼuniverso
E mi chiese di ripetergli un verso
Che parlava di un Dio troppo distante.
Da allora quello fu il nostro segreto.
E quando arrivò lʼautobus e i padri
alzarono i trolley della prole
e io mi preparavo a salutarlo
Mi chiese sorridendo: Posso farlo?
E io gli dissi: Certo. E camminammo
verso lʼautobus come figlio e padre.
Posò la mia valigia dolcemente
E attese in mezzo ai padri che partissi.
Da qualche anno so che Noce è morto
Di quelle morti che si sa da sempre
Che un giorno arriveranno. Ma ti penso
Questa mattina di 20 anni dopo
Il tuo ricordo è in me un sorriso buono
E spero che un giorno ci rivedremo.

 

 

Into the wild

Poco dopo la laurea (breve, in Lettere
Moderne, quanto basta per svignarmela
Da un posto che non mi appartiene) trovo
Un lavoro ad Ascoli in un call center
Ma mi licenzio perché torno fuso
E col cervello intriso di stronzate.
Io voglio lavorare per permettermi
Di scrivere la notte (ai tempi sogno
Di essere un poeta) ma è impossibile
Col fischio nelle orecchie concentrarmi.
Cerco un lavoro semplice, un custode
Notturno, ai confini della via lattea,
Ma non si trova altro che la merda
Pubblicitaria o cazzate del genere.
Poi a un certo punto mi chiamano a un multiplex.
È un lavoro bello, è un lavoro che amo,
E a un certo punto ho pensato davvero
Di aver trovato un piccolo mestiere
In tutto e per tutto a me somigliante.
Amo la gente che vuole sognare
Oppure distrarsi per un paio di ore.
Monto le pizze poi chiedo i biglietti
Spengo le luci e faccio andare il film.
Poi scendo nelle sale a controllare
La qualità dellʼaudio e il radiatore.
Un giorno proiettavo Into the wild
La storia dice Franco in un volume
Sui dipinti di Kerouac della fine
Del sogno francescano di On the road.
Lì scendo in sala e mi metto a sedere
Tra i miei fratelli che pregano al buio
Le stimmate nel corpo del fedele.
Il capo mi parla nellʼauricolare:
Come è la sala 8? Dopo sali.
Io gli rispondo a monosillabi: Sì
Va bene, certo, è tutto ok. Ma affondo
Nel canto di Eddie Vedder e la vita
Mi appare allʼimprovviso una galera.

 

 

LʼUFO

A sette anni accade che ho unʼimmagine
Che mi feconda il pensiero. È un UFO
Da cui probabilmente sono sceso
Una notte di avaria e viaggi stellari.
Questo disco volante ora è sepolto
Sotto il nespolo del nostro giardino.
Lo vedo, lo ricordo e mi convinco
Che è necessario andarmene. Una sera
Preparo le valigie e per le scale
Del mio palazzo vengo tratto in fermo.
Ricordo che a quei tempi sono certo
Di ricordarmi un sacco di altre cose.
Oltre a un alieno sono pure un mago.
Mi mettono alla prova allʼintervallo
Devo piegare un ferro che nemmeno
Il più forte riesce a torcere e lo piego.
A volte sogno un altro me gemello
Nel mondo parallelo. E forse è vero.
Papà mi porta a funghi la domenica.
Io vado alla ricerca degli gnomi.
A scuola siedo sotto a una quercia.

 

 

Il taglialegna

Nel bosco di Accettura in una macchia
Più fitta di alberi un giorno trovo
La baracca di mio nonno, il taglialegna
Morto quando mio padre era un ragazzo.
Quella mattina uccisero il vitello
Non so se prima o dopo fu sgozzato
O aperto nelle viscere a svuotare
Le sacche interne gonfie di liquame.
Il sangue fu scaldato in un catino
E offerto a tutti come unʼostia nera.
A mezzogiorno sopra una piazzola
Accesero un falò e dopo la brace
Fu stesa a terra come una colata
Di ferro e poi la bestia fu mangiata.
Di pomeriggio si doveva andare
Al bar a osservare i maschi grandi
Che giocano alle carte. Invece dico
Che voglio stare a casa con le femmine
E tutti lì a cercare di aiutarmi
A dirmi questo e quello. Ma io voglio
Soltanto stare in pace. E ancora penso
A quando camminai sopra alle braci
Pensandole sopite e presi fuoco.
Non ho di nonno altro che lʼimmagine
Di quella tana inchiodata tra gli alberi.

 

 

Aparecida

Qualche tempo fa una ragazza con cui chattavo
Mi ha raccontato una storia stranissima tipo
Che un game A.I. sciamanico lʼaveva
Convinta a abbandonare la famiglia
Adottiva, a prendere un treno e dirigersi
In Germania in un villaggio di clochard.
Questo villaggio era in realtà un campeggio
Montato su uno spiazzo periferico
Di una metropoli. Dorme in un bungalow
Assieme ad altri, la mattina ruba
Prodotti di cosmesi che rivende
Alle escort di un palazzo vicino.
Coi soldi sopravvive e poi la sera
Si incammina verso un internet point
Dove il suo game le dice cosa fare
Il giorno dopo. E lei esegue il compito.
Un giorno il game inizia a delirare
A dirle cose assurde e incomprensibili
Tipo: devi trovare la bambina
Che dorme in te. Così ha inizio un gioco
Più articolato, una specie di rebus
In cui si deve ricordare il nome
Della sua prima infanzia peruviana.
Un giorno ha un flash e non è più una gamer
Ma un personaggio giocato da un altro
Giocatore più grande che sovrasta
La realtà come unʼentità invisibile.
Quel giorno trova il nome: Aparecida.
Non è un nome nativo ma è lo stesso
Perché lo legge sopra al cartellino
Di una cassiera come una memoria.
E il game le dice: Youʼve to see your mother
Anche soltanto in sogno e puoi tornare.
Una sera al campeggio la avvicina
Una donna che la vede spaesata
Ha i tratti peruviani e lei si fida
La porta in una tenda in cui altre donne
La spogliano, la lavano e alla fine
La vestono con dei vestiti nuovi
Lei immagina che quello sia un rituale
In cui è liberata e che sua madre
Sia quella donna anziana. Adesso è libera
Si dice Aparecida nella notte
E avanza attraversando Francoforte
Come una proiezione ortogonale.

 

San Nicola salva una donna caduta in un tino. XVI secolo, tempera su tavola, 21,3 x 28 cm, Museo di San Nicola, Tolentino (MC)

 

 

“Esperimento su Bòttego”: un nuovo e-book di Nazione Indiana

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Un nuovo e-book di Nazione Indiana

di Andrea Inglese

Nazione Indiana, nonostante la sua un po’ spaventosa longevità, mantiene una sua giovanile inquietudine, una sua curiosità onnilaterale e poco addomesticata, anche se nel mondo letterario più si è domestici più si vive tranquilli. Segno di questa irrequietezza sono i suoi slanci editoriali, che in passato hanno prodotto incursioni puntuali, ma meditate. Alludo ai tre titoli della collana “Murene”, tutti volti all’altrove (Stephen Rodefer, poeta statunitense, curato e tradotto da Andrea Raos; Ingo Schulze, narratore tedesco, curato e tradotto da Stefano Zangrando; Miguel Torga, scrittore portoghese, tradotto e curato da Massimo Rizzante) e nati da una costante passione di condivisione, che ancora oggi non può non caratterizzarci, in quanto blog collettivo, entità policentrica e dialogante. Ai tre volumi cartacei di “Murene”, si affiancano però anche quattro e-book, che hanno la principale caratteristica di raccogliere una pluralità di voci, sia interne che esterne al blog. A parte 25 passi in file indiani, nato come raccolta libera di pezzi apparsi su Nazione Indiana a firma dei suoi redattori, sorta di “carotaggio” estemporaneo rispetto alla ricchezza dell’archivio, gli altri tre si concentrano su questioni d’attualità, cercando di “stringerle” attraverso la diversità degli approcci (e-book sulla “responsabilità dell’autore”, sugli “attacchi terroristici in Francia del 2015”, sull’esperienza della “pandemia di Covid-19”). A queste iniziative va ad aggiungersi, il volume collettivo Piccolo vocabolario autostradale a uso dei contemporanei, a cura di Gianni Biondillo.

Oggi vi presentiamo un nuovo e-book, stavolta non si tratta di una traduzione né di un lavoro collettivo. Il caso come sempre lavora per noi, dal momento che tendenzialmente anarchici come siamo non potremmo permetterci programmi di lungo periodo. Esperimento su Bòttego nasce da un “primo” esperimento, da un primo pezzo che Fabrizio Bondi, amico e attento lettore del blog, mi ha proposto di pubblicare (26 aprile 2022). La prima frase diceva: “Esperimento su Bòttego è un progetto che parte dalla mera e quasi disarmata descrizione di uno specifico oggetto culturale: il monumento parmigiano all’esploratore Vittorio Bòttego, appunto”. Il carattere anomalo, installativo, sperimentale, politico, di quel testo (corredato da fotografie), mi aveva subito convinto. E la sua fuoriuscita dal laboratorio privato ha permesso a Bondi di testarne la “resistenza” alla pubblica lettura e, chissà, ha magari contribuito a suscitargli il desiderio di radicalizzare quel primo accerchiamento / malmenamento di una celebrata figura di esploratore, militare, scienziato, avventuriero, a cui il colonialismo crispino aveva lasciato mano libera nel Corno d’Africa.

L’attuale e definitiva (?) versione di Esperimento su Bòttego arriva giustamente in ritardo rispetto a una recente ondata di attivismo decoloniale diffuso, che si è tradotto in più o meno riusciti sbullonamenti di monumenti possibilmente equestri, o comunque agghindati d’elmi, panciotti e sciabole. Ma è questo che c’interessa: con una zampata che accoglie il lato più corrosivo del post-moderno, Bondi sganghera ludicamente e perfidamente il Vittorio Bòttego, che campeggia intatto davanti alla Stazione di Parma. Mette mano alle opere di questo, riscrivendo, rimontando, sforbiciando. Nello stesso tempo, ne fa un racconto della propria infanzia, della propria vocazione mancata, di naturalista. Una tale opera imbarazzerebbe ovviamente l’asse editore-libraio. In quale collana e genere lo infiliamo? E in quale scaffale? Nazione Indiana non s’imbarazza di questa incollocabilità, nata da una del tutto avverata attitudine sperimentale. Ringraziamo, quindi, Fabrizio Bondi, che conoscevamo come studioso del Rinascimento e critico militante. Ora lo scopriamo scrittore di ricerca.

Un’ultima riga sul tema. Il pensiero decoloniale non è estraneo a Nazione Indiana, così come non lo è l’attenzione alla storia del Ventennio fascista, che riportò in auge miti, velleità e atrocità dell’imperialismo colonialista inaugurati nell’era crispina. (Ricordo, per altro, che Igiaba Scego è stata per un certo tempo, e sicuramente non invano, in Nazione Indiana.)

Il testo che segue, di Giuditta Bassano, introduce più approfonditamente di quanto abbia fatto io il nuovo e-book di Nazione Indiana. Un grazie particolare a Orsola Puecher e Jan Reister, senza i quali nulla di queste prelibatezze digitali sarebbe possibile.

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L’esploratore esplorato

di Giuditta Bassano

Vittorio Bottègo (1860-1897), giovane aitante capitano d’artiglieria, è stato protagonista di una serie di avventure nel Corno d’Africa; attraverso queste vicende, assurse a eroe del colonialismo crispino. Come esploratore di alcune aree fluviali della Somalia e dell’Eritrea Bòttego fu naturalista ma anche uomo d’armi di indiscussa violenza, emblema di un razzismo italico alquanto poco transeunte. Vittorio Bottègo era nato a Parma: davanti alla stazione della sua città esiste tutt’oggi un monumento che ne commemora il coraggio e le imprese. Fabrizio Bondi parte da qui, cioè dall’eredità sinistra di un monumento, “l’accrocchio”, di cui appare difficile riconoscere oggi l’appropriatezza. L’autore si immerge allora nella “pelle linguistica” del Bòttego, perché l’eroe parmigiano aveva eretto “un altro monumento, un monumento a se stesso” mettendo per iscritto i suoi viaggi. Potremmo parlare di una guerriglia ventriloqua, o di una poetica (sperimentale) della vendetta.

Ariostista e professore di letteratura italiana, Bondi arma infatti la  propria sensibilità letteraria e il proprio dominio della metrica italiana (contro la retorica italica dei resoconti dell’eroe) per “montare” una testimonianza su Bòttego con le sue stesse parole. Un esperimento di pidgin politico, in cui le immagini dell’esploratore, le sue impressioni in terra africana, la cosmogonia patriottica di epoca crispina forniscono un bacino semantico che Bondi stravolge attraverso una sintassi inaudita. Saggio e testo letterario insieme, un po’ in prosa e un po’ in versi, “Esperimento su Bòttego” è un lavoro che più che leggere si può piuttosto frequentare e abitare, entrando da un punto qualsiasi del suo congegno narrativo, persino cominciando, se si vuole, dalle note finali. In questa esplorazione ci si imbatterà in una serie di appunti filosofici sul concetto di monumento, nei rapporti tra Bottègo e Carlo Dossi, nelle raggelanti descrizioni dell’efferatezza coloniale, ma non meno nella fauna del Corno d’Africa e nella saggia battaglia che le piante di fico muovono indefesse contro le statue e le opere umane di ogni sorta. È probabile che se ne riemerga convinti, con Bondi, che la “pasta, la materia della lingua, è tutto”.

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Esperimento su Bottego – Fabrizio Bondi – formato epub

Esperimento su Bottego – Fabrizio Bondi – formato mobi

Esperimento su Bottego – Fabrizio Bondi – formato pdf

Lombrichi (sillabario della terra # 21)

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di Giacomo Sartori

Al tempo di Darwin i lombrichi venivano considerati dal mondo scientifico animali nocivi, qualche studioso suggeriva addirittura i metodi più efficaci per acchiapparli e distruggerli. Fin dal ritorno dal suo lungo viaggio sul Beagle l’immenso naturalista si è invece intestardito a studiarli e a capirli, dando loro la priorità rispetto a infiniti altri esseri viventi. Se ne è occupato per oltre quarant’anni, facendo esperimenti di lungo corso nel suo giardino, nei quali metteva all’opera anche i figli. Per poi pubblicare un libro su di loro quando non gli restavano che sei mesi da vivere. Un trattato che ha avuto fin da subito molto successo, e che per primo mostrava le loro caratteristiche e la loro importanza per i suoli e i paesaggi. Negli stessi anni un naturalista danese, Müller, del quale Darwin non conosceva i lavori, metteva in luce la loro centralità nella degradazione dei residui vegetali delle foreste.

Solo dopo la seconda guerra mondiale sparuti studiosi si sono però messi a studiarli con metodo. Permettendo di determinare che nelle zone temperate la loro massa ponderale rappresenta più della metà di quella dell’insieme della fauna terrestre, può sfiorare i quattro quinti. Nelle condizioni migliori arrivano a mille esemplari per metro quadro, il che corrisponde a cinque tonnellate per ettaro. E si danno da fare come dannati: quando lavorano bene i resti vegetali della superficie sono spazzolati, anche nei boschi, in fretta e senza lasciare avanzi. Alla superficie del suolo si notano i monticelli delle loro deiezioni, che gli specialisti chiamano turriculi: fanno pensare alle forme glomerulari di Jean Arp. Sono più abbondanti in primavera e autunno, perché loro non amano né la siccità né il freddo.

Se li si lascia un minimo in pace sono molto numerosi, e ingeriscono ogni anno enormi quantità di terra, espellendola poi ben differente. Nel corso degli anni tutto il suolo finisce per transitare nel loro apparato digerente, ed è proprio qui che si formano quei legami tra frazioni minerali e organiche che lo caratterizzano. Le deiezioni permangono sotto forma di grumi ben resistenti, fondamentali per la areazione e la leggerezza della terra. Esse sono molto ricche in elementi chimici, e quindi rappresentano una energica concimazione naturale, tanto più potente quanto più i vermi sono abbondanti. Alla quale si uniscono gli influssi stimolanti sui microorganismi e sulle piante. Gli effetti positivi sono legati però anche ai canali che essi scavano, utilizzati dall’acqua per sgrondare in profondità, dalle radici e dagli altri animali.

Si può dire che nelle regioni temperate la terra è in realtà cacca di lombrico. La loro importanza è del resto nota a tutti: a differenza degli altri abitanti del suolo godono di un’ottima visibilità mediatica. Non si può arborare intenti ecologici e rispettosi per l’ambiente, che sia vero o no, senza mostrare l’immagine di un simpatico lombrichetto, con una boccona sorridente e occhi vispi. In realtà loro non hanno occhi, ma nelle rappresentazioni fumettistiche li hanno sempre, si ritiene forse che farebbe un po’ specie il pensiero che sono ciechi. Come anche quello che hanno un ardente rapporto omosessuale, e poi una volta eiaculato cambiano sesso e diventano femmine. Le quali producono degli ovuli che sono poi fecondati in provetta, insomma all’interno di appositi astucci abbandonati nella terra, senza ombra di cure famigliari.

Nei fatti l’agricoltura industriale ha fatto del suo meglio per sterminarli. Le arature profonde e le lavorazioni energiche dei suoli, e in particolare le fresature, li decimano, devastando il loro habitat, e privandoli del cibo che salgono a cercare in superficie. L’altra micidiale arma sono i pesticidi, ai quali sono molto sensibili. Ma anche la compattazione legata al passaggio dei mezzi agricoli, che rende la superficie del suolo roccia inospitale, aiuta a farli fuori. Nelle coltivazioni attuali sono quindi presenti in quantità molto ridotte, quasi una presenza simbolica. Spesso li si ritrova ammassati sui bordi dei campi, o anche nelle aiole delle zone urbanizzate, dove possono tirare il fiato e vivere relativamente tranquilli.

Guardando le cose da più vicino sono in realtà i batteri del loro intestino, come succede anche per gli uomini, che digeriscono, alias decompongono, i residui vegetali e i miceli fungini dei quali sono ghiotti. Molto spesso mangiano le proprie feci, dopo avere lasciato lavorare i microrganismi in esse contenuti, come noi facciamo lievitare la pasta della pizza in cucina. Il tutto viene attaccato di nuovo e più a fondo da altri batteri, quelli della loro lunga pancia. Quindi quando si parla di lombrichi bisogna pensare ai microrganismi che li accompagnano. I quali emettono nel suolo fondamentali enzimi che capitanano tutte le trasformazioni in atto. E sono a loro volta colonizzati da una ineguagliata e semisconosciuta varietà di virus, che contribuiscono attivamente agli scambi di materiale genetico tra specie diverse e anche tra gruppi che le nostre classificazioni tengono molto distanti.

Quindi l’effetto positivo dei lombrichi si deve in realtà a una intricatissima rete di esseri invisibili all’occhio umano, non solo alla loro presenza in quanto tale. Abbiamo il vizio di figurarci ogni abitante della terra ben separato dagli altri, e quasi indipendente, a immagine e somiglianza delle nostre socialità atomizzate, quando invece in natura è tutta una rete di legami, e tutto si intramezza, tutto si fonde, tutto si metamorfosa, con incessanti scambi di energia e perfino di geni.

I lombrichi che trasformano la terra non sono però quelli piccoletti e rossi del compost e del letame, che molto spesso vengono mostrati quando si parla del benefico ruolo dei vermi. Questi si nutrono solo negli eventuali straterelli organici che stanno in superficie, senza penetrano nel suolo sottostante, senza interessarsi alla frazione minerale. Non hanno quindi nessuna azione di amalgama e di rimescolamento, e non servirebbe nulla aggiungerli alla terra con l’intento di migliorarla. Il loro lavoro è solo decomporre i resti vegetali, non scavano gallerie e non fabbricano grumi.

Considerando l’abbondanza, e le eccezionali qualità nutritive della loro carne, si capisce perché i lombrichi abbiano uno spettro così vasto di predatori. Si va dagli uccelli alle volpi, dai cinghiali ai tassi, dalle salamandre ai serpenti, dai porcospini ai rospi, dalle lumache ai coleotteri. Le talpe, tra i nemici più temibili, li aspirano uno dopo l’altro manco fossero gustosi spaghettoni, e quando sono sazie li fanno invece prigionieri in apposite celle, decapitandoli perché non gli salti in testa di scappare. Meno noto è che anche noi uomini eravamo ghiotti di lombrichi, come hanno mostrato le abitudini alimentari di tutte le residue popolazioni di raccoglitori cacciatori. Solo in seguito siamo diventati schifiltosi nei loro riguardi.

Il loro problema è che per cibarsi hanno bisogno di uscire allo scoperto. La strategia per minimizzare i pericoli è quella di fare capolino solo di notte, rimanendo saldamente aggrappati alla parete della galleria con la parte posteriore del corpo, tramite le apposite setole . in caso di attacco dall’alto, con un po’ di fortuna il predatore sgnaccherà via solo la testa, e basterà aspettare che ricresca, cervello compreso. Non è vero che se si taglia un lombrico a metà le due parti sopravvivono, ma la testa e la coda possono riformarsi. Le specie che vivono in superficie, quelle che si cibano solo di materie organiche, non avendo questa possibilità di difesa, non hanno altra soluzione che ricorrere a una incredibile prolificità, che ricorda la moltiplicazione dei pani e dei pesci.

Le forme ecologiche di coltivazione si riconoscono subito, perché pullulano di lombrichi. Chiunque può constatarlo, contando con gli occhi i turriculi. La differenza è sostanziale, perché è solo il sintomo visibile della sua ottima salute. L’agricoltura biologica, quanto a lei, utilizza il rame come antifungino, in particolare nei vigneti, e questo metallo si accumula nel terreno, fino a diventare letale per i lombrichi, dopo molti anni di utilizzo (le dosi usate attualmente sono molto basse). E per il diserbo impiega spesso lavorazioni meccaniche, visto che esclude l’uso dei diserbanti, anch’esse tendenzialmente nocive, soprattutto se effettuate senza criterio. I suoi detrattori enfatizzano sempre questi due oggettivi impatti, che per loro testimoniano la sua inferiorità rispetto all’agricoltura convenzionale. La realtà è che nella stragrande parte dei casi le coltivazioni certificate come biologiche formicolano di lombrichi, salta immediatamente all’occhio.

I lombrichi, emblema della salute della natura, sono anche il paradigma della schizofrenia delle nostre società nei suoi riguardi. Tutti sono coscienti della loro centralità, e pochissimi studiosi li studiano, con fondi ridicoli: delle settemila specie esistenti, nemmeno la metà sono stati descritte. Nessuno sa bene quali caratterizzino le varie zone agricole dei vari paesi, e non parliamo di quelle forestate: gli studi esistenti sono tutti molto localizzati. E men che meno si conoscono le abitudini e i comportamenti di ciascuna, quanto sia impattata dalle varie pratiche. È già tanto, quando li si prende in considerazione, se si arriva al riconoscimento morfologico.

Gli studi di tossicologia, che dovrebbero determinare gli effetti dei vari pesticidi sulle varie specie, sono condotti in laboratorio, in condizioni che non hanno nulla a che fare con quelle naturali, e mirano solo a determinare le dosi letali di singoli composti. E come per incanto i lombrichi non vengono mai contemplati, nelle soluzioni pseudoecologiche high tech che vengono proposte per risolvere questo o quel problema. E il povero Darwin viene ricordato per l’evoluzione, non per averli posti al centro della storia della Terra. Rimane insomma molto da fare.

l’immagine: arazzo elaborato dagli allievi di una scuola primaria di Lilla nel corso di un atelier animato dal duo ET&GS (Elena Tognoli e Giacomo Sartori), nell’ambito della loro residenza artistica (Ville de Lille, 2023)

 

 

 

Una scuola di scrittura

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di Alessandro De Francesco

Dei tanti bei testi che sono stati scritti dalle mie studentesse e dai miei studenti del corso di Scrittura creativa 2022-23 all’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino, alcuni mi sono parsi così notevoli da meritare una pubblicazione su Nazione Indiana. Renata Morresi e Andrea Inglese hanno generosamente accolto la mia proposta. Per capire come questi testi sono nati, sono necessarie alcune righe di inquadramento. Durante il semestre ho proposto degli esercizi di scrittura che ho concepito per essere eventualmente combinati tra loro e che ho inteso quali aperture verso l’esperienza di scrittura piuttosto che come schemi formali ai quali attenersi. Tra di essi, di cui si ritroveranno echi nei testi che seguono, vi erano le seguenti proposte:

  • Giocare con gli Esercizi di stile di Raymond Queneau (tradotti in Italia da Umberto Eco), creando una propria linea di variazioni su una scena di partenza.

  • Riprendere gli stilemi del flusso di coscienza di matrice joyceiana per riattivarlo in chiavi diverse, in particolare tentando di uscire dalla propria soggettività e di far parlare altre istanze, anche non umane.

  • Scrivere al buio, cercando di riprodurre nella scrittura le sensazioni del corpo che perde le proprie coordinate percettive abituali. In tale contesto abbiamo anche lavorato su una straordinaria poesia di Emily Dickinson, We grow accustomed to the dark.

  • Utilizzare l’intelligenza artificiale e in generale fonti non autoriali per produrre materia testuale (in altre parole, “cut-up” e “uncreative writing”). Questo lavoro è stato svolto in seguito all’invito dell’artista Marco Mazzi.

  • Muoversi nello spazio e mapparlo testualmente in funzione di una performance. Questo lavoro è stato svolto in seguito all’invito dell’attore, regista teatrale e docente Leonardo Mancini.

  • Inventare e riproporre una stessa scena più volte e da più punti di vista, fino a cambiare la natura e il registro della scena stessa mediante effetti di ripetizione. Quest’ultimo esercizio è stato ispirato da una magnifica conferenza dello sceneggiatore statunitense Charlie Kaufman, reperibile su YouTube.

Chi leggerà potrà apprezzare alcuni dei più notevoli risultati a partire da questa esperienza di scrittura, prodotti dalle seguenti autrici, tutte e cinque studentesse all’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino: Daniela Angelozzi, Giulia Calamai, Ludmilla Marzola, Reysla Samara Medonça e Giorgia Pia.

 

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(Daniela Angelozzi)

Flusso         13/03/2023

Le tettoie dei garage non sono tutte regolari Due hanno le eternit dovrebbero sostituirle non che le altre siano migliori sono solo non inquinanti la lamiera però fa tanto caldo e d’estate non ci si entra dentro nel primo garage ci sono i serpi di Alessandro è un mese che trapana batte e rompe Ogni volte che mi collego al pc c’è la colonna sonora di sottofondo Dice che sono piccoli perché i grandi non si possono tenere stanno chiusi nelle teche con il riscaldamento e le luci al neon Non ci va mai a vederli che cavolo li tiene a fare la madre l’ha costretto a comprarsi casa perché non li voleva più vedere Domani i muratori ricominceranno a lavorare la facciata con il 110 dureranno parecchio le terrazze sono tutte senza mattonelle toglieranno anche le ringhiere per montare l’ascensore tutte le volte mi stronco a portare su borse e bottiglie d’acqua oltre alla valigia Oggi è una giornata stupenda il sole di domenica sembra che scaldi e illumini di più il campo qui davanti ha l’erba verde con mia mamma raccoglievamo l’insalata nelle giornate così papavero tarassaco cicerbite le chiamava così quelle che pungevano e mi diceva di prendere quelle tenere perché se erano vecchie non si potevano mangiare crude per gli spini Mi piacerebbe tornarci a cercarla questo campo sarà quanti ettari sì più o meno 60 metri è fino a lì come un campo da softball poi c’è un un altro pezzo e si arriva a 100 l’altro lato invece 100+100+100 in tutto fa 3×1 3 3 ettari è tanto che non tornano le pecore a brucare un mese fa le ho viste dal lato di là della casa c’erano anche le capre e i cani pastori che ciondolavano sudici di fango e col pelo a ciocche

 

Esercizi di stile

Litote

Il guardaroba non era il posto più vuoto della casa. Sebbene ci fossero scaffali, appendiabiti, contenitori e grucce capaci di contenere e sopportare il peso dei vestiti, quest’ultimi se ne stavano gettati uno sull’altro non senza occupare poco spazio all’occhio di chi guarda.

Soggettivo

Ogni volta che mi capita di entrare nel guardaroba, noto gli abiti appoggiati alle grucce, anziché appesi e le scatole poste in disordine sugli scaffali. Mi piacerebbe riordinarlo e collocare tutti i vestiti e le maglie rispettivamente sugli appendiabiti e nei ripiani seguendo un ordine logico, in base alla stagionalità e al loro colore.

Metafora/similitudine e soggettivo

Come in un negozio di vestiti usati mi aggiro ogni volta nel guardaroba. La caccia è aperta: dove sarà quella maglietta nera con collo a barca? Pile di scatole come tessere precarie di majong mi guardano sospettose. Basta toccarne una per trasformarle tutte in una delle Torri Gemelle post 11 settembre. La troverò la maglietta, a costo di trasformare questo guardaroba in una scatola aperta di matite nuove posta in vetrina.

Descrittivo

Un metro e mezzo per cinque. Appendiabiti, scaffali e mensole, sono posti a elle, coprendo due pareti contigue della stanza rettangolare. Se tutto fosse in ordine, il guardaroba sarebbe un luogo piacevole da guardare; ma messo così com’è, finisce per agitare lo stato d’animo di chi entra.

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(Giulia Calamai)

Buio

Si sente sbattere una porta e tutt’intorno si fa buio. Buio dal buio. Si sente il respiro pesante che il corpo solleva e riabbassa, annaspa nel nero e nei flash di immagini confusamente intraviste. Il gas viene acceso e la caffettiera messa sul fuoco. Mentre dei passi avanzano il corpo emerge dalle sabbie mobili delle tenebre e torna, pian piano, alla vita. Gli occhi non vedono ma la memoria pesca nelle immagini dell’archivio cerebrale e figurano una tazza. Il caffellatte che ruota nel microonde che ruota nella testa che comincia a capire dove si trova. Una mano si allunga per tirar fuori la tazza bollente un’altra cerca, tasta sulla sinistra le forme familiari del comodino. Affonda il corpo pesante, la testa, il collo, le spalle fino ai piedi. L’oscurità della notte finita e della luce non ancora pronta, tenebre dalle forme rotonde inconsistenti, dai volti persi nei sogni che si cancellano uno dopo l’altro. Circondata dal vuoto buio, disorientata dai sensi ancora assopiti dalla veglia notturna non ancora oltrepassata. Si risveglia per ora la primordiale necessità di esistenza, senza forme, senza voce, senza parole. Solo il calore del nido di coperte morbide che accolgono come una culla il corpo tiepido e inerme al di fuori di essa. I rumori del mondo esterno, fuori dalla stanza, l’acqua del lavandino che scorre, il cucchiaino che gira nel caffellatte, sono suoni percepiti lontani ma allo stesso tempo rimbombano con violenza dentro la testa.

Nella penombra caotica scorrono pensieri e immagini di cui non si trova il senso e lo scopo. È ancora troppo presto per capire, la materia corporale torna ad essere salma immobile dopo qualche spasmo muscolare mentre la mente pian piano si disconnette ancora una volta.

.

La senti scorrere senza tempo, un cane le si ferma di fronte. Il sole illumina e la luce trapassa la trasparenza che si staglia contro la dura pietra. Un uomo abbassa la testa e dalla cima scende sul collo fresco il percorso che trova tra la pelle e la stoffa. Un piccione si avvicina e becca e rompe la superficie, ma non la rompe veramente. Quante creature che vede passare, umane e animali… i piedi schizza ma essi vede sempre tornare.

 

F

1.

Valli di Lanzo

Sassi colorati, foreste fossili

Camminiamo, fango, Cristo

Un prato verde e una volpe

Ortica e senape selvatica

Vento

Occhi belli e un pandino verde che vibra

2.

Foreste fossili

La mente mi si svuota dai pensieri e viene colmata dall’odore fresco della pioggia

Pioggia che pulisce l’aria e sporca l’orlo dei pantaloni.

I miei occhi sono vigili e con la loro lunga coda spiano magnetizzati

Magnesite che luccica come sassi di fiume

Tutti belli se li guardi

Lasciali sul fiume, se li porti a casa si rovinano, sfioriscono, perdono la loro scintilla che si nasconde dentro agli occhi dall’iride magnetica

il fango si ripulisce

Si assorbono i calli sulle mani che suonano, che pizzicano la chitarra e la pelle

Ortica e senape selvatica

Scegli un sasso per me, solo uno.

 

Esercizi di stile

1.

ore 8:16

Uscita di casa mi incammino in direzione Porta Palazzo per andare al mercato. La rotonda tra i due corsi come sempre brulica di macchine che si fermano e ripartono.

All’angolo, dalla vetrina del Caffè Blanche, la solita vecchia signora gioca un gratta e vinci col suo pacchetto di sigarette poggiato sul tavolo. Era lì anche ieri pomeriggio, chissà se vincerà qualcosa stamattina.

2.Rumori

Slam!

Sbatto il portone alle mie spalle e il frastuono del traffico di Corso Regina mi segue, così come quello dei miei passi. Alla rotonda clacson e rombi di motore non mi fanno più sentire la musica in cuffia ma neanche i miei pensieri, che fastidio. Avvicinandomi al bar il volume delle auto si abbassa e lascia spazio al brusio di persone sedute ai tavoli e ai colpi di tosse rauca della vecchia che gioca. Tosse da fumatrice, palese.

Il tintinnio delle tazzine da caffè che sbattono tra di loro è l’unica sveglia che riesco ad apprezzare.

3.Odori

Uscita di casa vengo pervasa dal forte odore della città urbana. Lungo il marciapiede sporco il tanfo di polvere mischiato ad asfalto e piscio di cane. Motori che si accendono e spengono ininterrottamente rilasciano puzza di benzina che viene trasportata dal vento. passando vicino al bar mi immagino l’aroma forte del caffè espresso e il dolce profumo dei cornetti sfornati ancora caldi. La vecchia signora seduta invece sarà probabilmente circondata dall’odore di sigaretta spenta…

4.Metafora animale

Un brulichio di formiche ininterrotto.

Si muovono intorno al loro formicaio disegnando canali sopra e sotto terra.

Bloccata nella sua tana una vecchia talpa cieca gratta disperatamente, consumandosi le unghie. E’ persa, ritroverà l’uscita?

5.Similitudini del mare

Il marciapiede si fa percorso come fosse il flusso di un affluente che sfocia nel mare delle strade che si aprono. La rotonda di corso principe Oddone appare come un’isola circumnavigata da un parco giochi acquatico. le macchine sfrecciano e i semafori come fari guidano la rotta delle barche e navi disperse in questa piatta distesa urbana.

Il bar, rifugio di naufraghi ma anche di un’assidua giocatrice d’azzardo. Come una tartaruga allunga il collo rugoso dal ruvido gusci, o forse più come il periscopio di un sottomarino, per sbirciare il risultato del gratta e vinci.

6.Endecasillabi in rima

Uscendo di corsa dall’edificio

Scorron le macchine sul corso grigio

Al bar la vecchia gioca la fortuna

Come sale il sole e va giù la luna

7.Distratta

esco di casa di fretta, avrò sicuramente dimenticato qualcosa… bho, chissà!

Devo andare a porta palazzo al mercato a comprare un po’ di frutta e verdura poi il detersivo per il pavimento poi.. oddio qual era l’altra cosa? Ah sì il manico della scopa che si è rotto.

Passo la rotonda e per poco una bici non mi investe sulla ciclabile, il tipo in bici mi urla pure qualcosa, che scontrosa la gente di prima mattina!

Mi casca il telefono, per questo non lo ricompro buono, tanto mi casca sempre.

Passo di fronte al bar e c’è sempre sta signora che gioca d’azzardo! mi pare fosse qui anche ieri o l’altro ieri.. non ricordo. Quasi quasi mi faccio un caffè che ancora non l’ho preso, cerco il portafoglio nello zaino, di tutto c’è ma quello no.

Oh! lo sapevo che avevo scordato qualcosa, menomale che sono ancora vicino casa, torno indietro.

///

 

(Ludmilla Marzola)

Esercizi di stile

Partenza

E’ un pomeriggio di sabato e Marzia deve correre a lavoro per essere lì alle 17 in punto. Marzia è, però, sempre in ritardo, per di più le piace tergiversare l’arrivo passando per la caotica Porta Palazzo, dove finisce per spendere dieci buoni minuti tra un bofonchiato “permesso” e una spallata, arrivando così sul luogo di lavoro già sudata e affannata, ancor prima di incominciare il turno.

Ignoranza

Un altro inutilissimo pomeriggio di sabato da passare a dare da bere e da mangiare a persone che sono lì non per dirvertisi, no anzi, ma per il gusto di essere serviti. Marzia deve correre a lavoro per essere lì alle 17 ma diciamo che se la prenderà con comodo perchè, in fondo in fondo, il suo lavoro in nero sottopagato lo detesta a morte e quindi se ne fotte di arrivare puntuale. Come darle torto. Sa di avere i dieci minuti di ritardo politici e sa anche che se diventassero trenta non morirebbe nessuno, tanto sono più disperati i suoi capi di lei, e, alla fine, non interessa quando: l’importante è arrivare. Allora, giacchè è lì nei pressi, si fa un giretto per Porta Palazzo rallentando inevitabilmente il passo e seguendo il flusso di esseri umani come in processione. A destra e a manca, gente agitata la sorpassa a colpi di spallate e mezzi termini. Nessuno sa più chiedere permesso di questi tempi. Infatti, è solo pestando le scarpe ad una vecchia che riesce ad uscire di lì e prendere la via del ristorante. Quando nessuno più ci credeva, Marzia arriva a lavoro, pezzata e maleodorante. Salutando i suoi colleghi professa una devastante stanchezza e in questi casi che si fa? Mica ci si può privare di una sigaretta.

Sorpresa

Non ci credo! È un pomeriggio di sabato e Marzia deve correre a lavoro per essere lì alle 17 in punto? No vabbè, ma è incredibile! Quindi si è data una svegliata? Finalmente sta maturando la ragazza! Ah ma è in ritardo? Certo che non cambierà mai eh! Quando si dice che la volpe perde il pelo ma non il vizio! Questo proverbio l’hanno scritto pensando a lei, ci metterei la mano sul fuoco! Non mi dire che per arrivare qui sta passando per Porta Palazzo! Ci sarà un casino di gente a quest’ora, ma è pazza? Devo dire che se la prende proprio con comodo. Eccola che arriva, la vedo in lontananza. Ma è lei davvero? Marzia, ma come sei sudata! Dai, non essere così affannata e fa un bel respiro. Davvero hai trovato traffico? Ma non mi dire!

Vero?

Ma oggi è sabato, vero? Sai, i giorni sono diventati tutti uguali per me. E Marzia a che ora attacca? Alle 17 in punto, vero? Deve correre, vero? Scommetto che arriverà in ritardo, vero? Lo pensi anche tu? E vero che lei ha sempre il vizio di passare per Porta Palazzo, vero? Vero, vero… Chissà perché deve fare a tutti i costi quella strada, vero? Per carità, è breve, lì vicino, ma solo per l’ammontare di persone il tragitto si fa più lungo di dieci minuti, vero? Pensa se arrivasse a lavoro già sudata, ancora prima di incominciare il turno? Speriamo di no, vero?

Esclamazioni

Cavoletti di Bruxelles! Oggi è sabato! Questo pomeriggio Marzia deve correre a lavoro per essere lì puntuale alle 17! Mio Dio, è già in ritardo! Perbacco, lo è sempre! Passare per Porta Palazzo? Quanta gente! Che puzza! Qualcuno dica a quella signora di mettersi la mano davanti quando tossisce! Permesso!

Permessoo!! Oh no, Marzia! La sua maglia è già impregnata di sudore come se le 8 ore di lavoro le avesse appena finite! Marzia, ma che diamine! Adesso ti presenti?!

Dunque, cioè

Dunque, cioè, oggi è sabato pomeriggio. E, cioè, Marzia deve correre a lavoro dunque, cioè, per essere lì puntuale alle 17. Cioè, Marzia è sempre in ritardo ma le piace tergiversare e dunque, cioè, passa sempre per Porta Palazzo dove, cioè, spreca un sacco di tempo, cioè cè tanta gente dunque, cioè, non è facile camminare a passo spedito. ln più, con questo caldo, cioè, non si respira. Dunque, cioè, Marzia arriva a lavoro già affaticata e sudata, cioè lercia come se avesse appena staccato anziché attaccato.

 

Flusso di coscienza

1

L’abbraccio caldo di persone inaspettate rende la musica inebriante, il tempo che così scopre melodia e ritmo e scorre morbido e incessante. Vietati i baci sulle guance o le strette di mano, da domani le formalità non verranno ammesse. Certe carte colorate coprono spazi pieni di muffa. Vernice spray sui tuoi occhi solamente per dispetto e noia, niente di più. Abbracci caldi, abbracci indesiderati, abbracci stretti e abbracci ambigui e sudati e profumati e sporchi. Doccia di pietre sopra il tuo corpo nudo giusto perché bisogna ricordarsi, ogni tanto, di essere vivi. Non sarà la morte a raggiungerti ma la vita, la vita che quando ti colpirà d’un tratto ti farà scoppiare a piangere. Un abbraccio, non ti preoccupare: basterà un abbraccio.

2

Sono coricata sul divano. Una coperta mi scalda il corpo. La TV è spenta. L’unico rumore che investe la stanza è il ronzio persistente del frigo. Anche l’abbaiare del cane è abbastanza forte, sebbene venga da fuori. Il telefono al piano di sopra squilla. Per poco. Ma anche per tanto. Nessuno risponderà. Oggi il piano di sopra è vuoto. Non c’è il volume della televisione ad 80. È sparita la donna anziana che sedeva sopra una delle tante poltrone. Non pendono le solite sigarette light dalle sue labbra. Non posso vederla aggiustarsi gli occhiali da vista.

Fumo una sigaretta. È una Camel Blue. L’accendino l’ho comprato la mattina stessa. Aspetto il pullman alla fermata. Continuo a fumare. Io non sono veloce, ma la combustione sì. Penso a tante cose, come mi è solito fare, soprattutto nelle giornate nuvolose come questa. Penso al mare. Al nucleare. Non riesco a non rattristarmi.

Io. Io sono. Io sono qualcuno. Io sono qualcuno che sa. Io sono qualcuno che sa di non essere. Io sono qualcuno che sa di non essere sé stesso. Io sono qualcuno che sa di non essere sé stesso poiché non conosce. Io sono qualcuno che sa di non essere sé stesso poiché non conosce davvero il proprio io.

Mi sporgo dal divano con il capo. Temendo di precipitare, faccio ben attenzione a non cadere. Osservo scrupolosamente il mondo là fuori. Tra tanti, ti riconosco. Vedo te. Allungo un braccio. Con le dita, sfioro le tue. Provo a circondare uno dei tuoi polsi ma è troppo tardi. Mi sporgo più di quanto dovessi. Perdo l’equilibrio. Cado. Volo giù, ti oltrepasso. Sempre più giù. Dove sto finendo?

Bevo un caffè. Tenendo ben stretta la tazzina tra le mie dita, contemplo il liquido scuro. E mi ci immergo. Ho cambiato dimensione. Vivo nel caffè. Intorno a me, neanche una bollicina. Soltanto troppo zucchero. Eppure, c’è stato un sogno. Nel sogno io ero nel tè. Tu mi bevevi. Ed io piangevo. Piangevo perché non notavi la mia presenza, perché mi avresti dimenticato in fretta. E, in più, le mie lacrime erano velenosissime. Non volevo che tu mi bevessi. Ma lo hai fatto, invece.

I bambini piangono. Gridano. Non si capisce che cos’abbiano. Il salotto è piombato nel buio. L’orologio va avanti. Il ticchettio è assordante. Indubbiamente il tempo scorre. Anche se vorrei tornare indietro. Il vuoto è immenso. Il piano di sopra è ancora vuoto. Anche quello in cui mi trovo lo sembra. Cosa sono io? Presenza o aria?

///

 

(Reysla Samara Medonça)

Flusso di coscienza

Mi scoppia così tanto la testa che credo che Putin di certo non mi minaccerà con la sua arma nucleare è buffo pensare che al liceo mi facessi dare ripetizioni di matematica da uno che ha studiato fisica nucleare di certo mi suona come roba seria così come il termine con cui si definisce il mio compagno “project manager” che significa mi ricorda un po’ i titoli delle serie tv di moda stile Next in fashion Homemakeover special edition ha ragione il governo a fare la multa alla gente che parla inglese qua siamo tutti ignoranti sulla materia ma quando si parla di fakenews anche mia nonna ottantenne sa ormai cosa significa vorrei tanto sapere cosa si prova ad aver attraversato più secoli e visto il mondo cambiare così velocemente anzi, a ragionarci bene avrei paura caspita la batteria del mio PC è al 20% possibile che debba sempre scaricarsi quando ne ho più bisogno così come mia mamma che mi chiama ogni due per tre per cose inutili e per le cose importanti mi dice che non mi ha chiamato per non disturbarmi rispondesse mai quando la chiamo urgentemente inon inon inon inon ma perché incollano la scritta ambulanza al contrario mica la dobbiamo leggere dallo specchietto la sentiamo già la sirena e poi è riconoscibile il furgoncino con la croce Benedetto Croce lo trovo sempre citato nei testi ma ancora non ho capito chi cavolo fosse una volta la gente diventava famosa veramente ora ci si illude solo della grande visibilità ma quasi nessuno ha effettivamente un’influenza sugli altri siamo già un branco di stupidi con tutto il rispetto per i lupi che sono bellissimi e intelligentissimi ho anche dei amici che di cognome fanno Lupi ma di fatto sono altro che svegli mamma mia è già tardi e sono stanca ma è inaccettabile che il mio compagno dorma in trentasecondi e io ci impieghi millenni come se fossi divisa in basso alto e tardo medioevo è interessante che a mia nonna piaccia il colore marrone perché lei è scura di pelle e mettre il marrone in nounce come Kim Kardashian.

 

Maria e Madamin

MARIA
Lunedì
ore 7:00
Maria si sveglia, aspetta il suo turno per andare in bagno e si prepara per andare a lavoro.
ore 9:00
arriva a lavoro.
“Maria, pulisci tutta la casa, ma comincia dalla stanza di mia figlia che arriva dalla Spagna verso l’ora di pranzo”.
ore 11:00
mentre sta pulendo la stanza – con estrema cura – come se fosse la stanza di sua figlia, spera di poter mettere abbastanza da parte per ritornare nel suo paese a riabbracciare i suoi cari.
ore 12:00
“Maria, io esco! Dovrebbe arrivare un pacco dai pazienti di mio marito. Tu prendilo e portalo pure a casa tua.
Sta gente ci riempie di roba che non mangio.”.
ore 13:00
“Ciao Maria, mi puoi preparare una bella insalata che intanto mi faccio una doccia. Viaggiare mi fa impazzire! Ho da fare oggi pomeriggio, perciò non posso perdere tempo.”
ore 14:00
“Mamma, sei ancora a lavoro? Ma non fare gli straordinari che sai che tanto non te li pagano! Ti preparo una pasta col tonno, se ti va bene.”
ore 14:30
esce da lavoro. Guarda l’orologio e vede che ha solo poco più di un’oretta per mangiare.
Alle 16:00 dovrà essere in un’altra casa per pulire e già non vede di nuovo l’ora che sia domenica, per riposarsi un po’ e vedere i suoi amici in chiesa.

MADAMIN
Lunedì
ore 6:30
Suona la sveglia del marito. Lei non se ne accorge, è stanca perché ieri sera ha fatto tardi con le amiche al cinema.
ore 8:45
Suona la sveglia. Madamin non vuole alzarsi, ma pensa che tra un quarto d’ora arriverà Maria e non potrà farsi la piega se l’aspirapolvere è acceso.
ore 9:00
“Buongiorno Madamin, dormito bene?”
Madamin fa colazione e pensa a cosa vuole fare oggi.
ore 11:00
si prepara per uscire. Ancora non sa dove andare, ma non vuole di certo stare a casa con tutto il rumore degli elettrodomestici.
ore 12:00
è pronta. Ha deciso di andare a farsi un giro in via Lagrange.
ore 13:00
“Mamma, sono arrivata a casa. Forse mi vedrai solo la sera, perché tra un paio d’ore ho l’appuntamento con l’omeopata e poi esco con amici.”
ore 13:30
ha fame ed è indecisa in quale ristorante andare…
ore 13:45
“Cosa desidera signora?”
Madamin ordina del pollo alla griglia con contorno di patate al forno e carote.
ore 14:30
è annoiata, le tocca chiamare le sue amiche, così almeno oggi pomeriggio sarà in compagnia.

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(Giorgia Pia)

Piccolo Burnout

Prefazione

Il fluttare delle emozioni di questo testo testo si riconnette, non solo al senso di cambiamento dato dal burnout (da utilitarismo), ma soprattutto nell’escamotage del mutamento meteorologico.
Qui, a 1807 mt s.l.m, il sentimento è chiarificato: terra nuvole grandine pioggia, diventano agenti nella cartina tornasole del mio corpo.
Piccolo burnout nasce come tratturo climax-climatico del mollare: la salvezza.

Hobéltè-Gressoney, 24 luglio 2023

1.

La foglia di Maranta Leuconera var Lemon Lime sdrucciola e ricade per mancanza di umidità perde il senso di forma accasciandosi ponderando tragedie di un suo sentirsi fuori posto, posto non accogliente nonostante i presupposti di luce umidità quarantanove percento soffre e si bruciacchia sui lembi solo perché non sta nei suoi novanta prediletti rinchiusa in una piccola terracotta smaltata tedesca paglierino che non rende giustizia alle possibilità di bellezza ma traduce tutto in un fittizio schema di simmetrie ordinate di bianco nero formalismo luccicante di led apposti per luminescenza anti ombra visiva e di raggi tutto si aggiunge ad essere un ocd di controllo con parvenze di disordine qui e là come piccole scappatoie alla pulizia del, all’ordine costituito, piante ribelli nella crescita sfondano se possono tutti i materiali gli spazi a loro concessi fossero l’ingiallimento o la morte esse stesse ribellioni da argilla espansa terracotta vetrini righe piani di truciolato mani e occhi alle finestre.

2.

Chi corre veloce poi non vede il lembo fogliare dell’alberello qui posto per grazia e mano umana quella lucina piccola radiale solare che passa e definisce di ombra bianca luminescente e a mandorla il bordo e quel piccolo movimento che con forza di ripercussione a terra crea il pattern, il layer della somma di tutte le teste di clorofilla energetica che porta lo scambio di O e CoDue che attraversa i polmoni tutti in una connessione che passa attraverso questa forma e quell’altra e poi potenzialmente tutte le altre e tutte quelle che non esistono.
L’ombra poi rimane l’unico appiglio a quel ricordo di libertà e sornione spensieratezza che non ho o non abbiamo, il manto di quadrifogli sui piedi caldi del cammino è un piccolo grido di ahhhhhhhhhh.

Ti giuro che non lavoro e non produco più e mi svalorizzo di questo senso perverso in un piccolo scorrere di cip-cip.

3.

Dall’esterno all’interno l’acqua corre riempe tetti greci e non siamo proprio lì ma siamo tutti altrove in un temporale magnifico ribelle lucido che si appiana piano piano nell’attesa del grigio e poi del dopo-grigio.
Lo scorrere di tutto di questo tempo spazio _ tempo spazio, battito di comprensione e della coscienza che solo quello che vedo e che è, è natura;
niente può o deve correre al di sopra e che il futuro di questo passo oltre è lì, niente che non sia questo.

 

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