di Vincenzo Pardini
Quell’inverno, Fidelco Meroli Gregotti decise di non scendere in paese coi quattro figli e la moglie; volle restare nella casa sull’altopiano, la medesima dove vivevano dalla primavera all’autunno. Periodo, quest’ultimo, in cui si concludeva la raccolta delle castagne. Desiderava rimanere solo. Trascorsi in un baleno gli anni, s’era accorto di aver avuto poco tempo per sé. Quel tempo, intendeva, di ritornare con la mente al passato, per rivedere e capire cosa fosse stata la vita. Superata la sessantina, tutto gli stava divenendo oltremodo monotono. Adulti, i figli gli parlavano sempre di meno. Era giusto così. Dovevano avere la loro vita. Due erano in procinto di accasarsi e il più giovane, in attesa di svolgere il servizio di leva, si mostrava taciturno e apprensivo. Fidanzato con una ragazza dai capelli neri e dal fare dolce, n’era geloso e temeva che qualcuno, in sua assenza, gliela corteggiasse. Sebbene sposata, la figlia trascorreva gran parte del giorno con la madre. Piccole e rotonde, parlavano con voce stridula e alta che lo inquietava. Di più, allora, si abbandonava ai tormenti. Dai loro risvolti emergevano sequenze di vita dimenticata, che lo riportavano alla gioventù, periodo che vedeva alla stregua d’una radiosa aurora. Adolescente, un pomeriggio, la terra venne traversata da un boato. Il terremoto. Dai muri e dai tetti uscirono spirali di polvere. La gente urlava.















