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Reale, troppo reale

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[ Riprendiamo editoriale e apertura del dossier che A. Cortellessa ha curato per lo «Specchio» (novembre 2008). Di G. Pedullà e D. Giglioli gli interventi critici; Antonio Scurati, Laura Pugno, Tommaso Ottonieri, Andrea Bajani gli scrittori invitati a esprimersi sul campo di forze del Reale e sulla possibilità di una sua rappresentazione. È possibile leggere tutto l’inserto qui DP]

di Andrea Cortellessa

«Il genere umano non può sopportare troppa realtà». Non lo ha detto qualche oscuro sofista della derealizzazione postmoderna. Lo ha detto, e più d’una volta, un grande della modernità più «eroica», quella più esposta al vento della storia, Thomas Eliot (si veda Burnt Norton, primo dei Quattro quartetti). Ciò malgrado – e anzi proprio per questo, data la coazione al citazionismo di noi postmoderni – sembrano queste le parole perfette per dar corpo all’evasività superstiziosa, all’esorcismo terrorizzato che ci ha iscritto d’ufficio, come scrive Antonio Scurati, a un apprendistato all’irrealtà. L’oroscopo funesto di quel suo libro intelligente, La letteratura dell’inesperienza, non era troppo diverso da quello formulato da Walter Benjamin nel celebre saggio sul Narratore di Angelus Novus. Se il racconto per antonomasia, in tutta la storia umana, era quello del guerriero che una volta tornato cantava le gesta e le ambagi, il peregrinare e la nostalgia di casa, si accorgeva Benjamin che ora «la gente tornava dal fronte ammutolita, non più ricca, ma più povera di esperienza comunicabile».

Le conseguenze della cura

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di Marco Rovelli

Tre racconti, tre piccole ma intensissime geometrie del desiderio. In La memoria dei vivi Rossella Milone disegna con una traccia di scrittura nitida e lieve i movimenti di attrazione e repulsione tra corpi. Movimenti sempre triangolari. E di genere. C’è sempre una donna che si confronta con l’alterità maschile – e c’è sempre un mediatore del desiderio, un’altra donna, che la fa deragliare dalle sue cecità.

In due racconti l’alterità maschile è il padre: morto ne Le gioie dei morti e vivo ne Il centro di niente, ma in ambedue i casi di una presenza eccedente. In particolare Le gioie dei morti (che racconta dell’incontro di due sorelle da tempo prive di rapporti, un incontro appunto “nel nome del padre”, che non farà che riannodare silenziosamente antichi odi e lontananze) è un racconto tragico – e non tanto per il riferimento esplicito all’Edipo. E’ tragico perché ogni personaggio è come necessitato a fare quello che fa – non c’è scampo né salvezza, ma solo le conseguenze della colpa. E allora è proprio il gatto Giocasta a far balenare l’impossibile salvezza: perché “Giocasta non è umana, e nel suo inconsapevole agire risiede il perdono che si dà ai bambini e ai pazzi e ai vecchi”.

Grandi laici italiani: Piero Calamandrei

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A Gaetano Salvemini che proposi qualche settimana fa segue oggi Piero Calamandrei. f. b.

Discorso pronunciato da Piero Calamandrei al III° Congresso in difesa della Scuola nazionale a Roma l’11 febbraio 1950

Facciamo l’ipotesi, così astrattamente, che ci sia un partito al potere, un partito dominante, il quale però formalmente vuole rispettare la Costituzione, non la vuole violare in sostanza. Non vuol fare la marcia su Roma e trasformare l’aula in alloggiamento per i manipoli; ma vuol istituire, senza parere, una larvata  dittatura. Allora, che cosa fare per impadronirsi delle scuole e per trasformare le scuole di Stato in scuole di partito?

Si accorge che le scuole di Stato hanno il difetto di essere imparziali.

C’è una certa resistenza; in quelle scuole c’è sempre, perfino sotto il fascismo c’è stata. Allora, il partito dominante segue un’altra strada (è tutta un’ipotesi teorica, intendiamoci). Comincia a trascurare le scuole pubbliche, a screditarle, ad impoverirle. Lascia che si anemizzino e comincia a favorire le scuole  private. Non tutte le scuole private. Le scuole del suo partito, di quel partito. Ed allora tutte le cure cominciano ad andare a queste scuole private. Cure di denaro e di privilegi. Si comincia persino a consigliare i ragazzi ad andare a queste scuole, perché in fondo sono migliori si dice di quelle di Stato. E magari si danno dei premi, come ora vi dirò, o si propone di dare dei premi a quei cittadini che saranno disposti a mandare i loro figlioli invece che alle scuole pubbliche alle scuole private. A “quelle” scuole private.

LORENZO RUSTIGHI is wondering why facebook wants to know what he’s doing.

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di Mariasole Ariot

Facebook parla in terza persona, un walzer a tre tempi. Nel primo si accetta, nel secondo si chiede accoglienza, nel terzo ci si guarda bene dal non farsi rifiutare. Da nessuno.
Perchè mai voler conoscere il giorno dei miei amici, il loro sguardo, il loro tempo perso o ritrovato che sia,la grana della pelle, la faccia che si perde, la propria sottrazione domenicale? Perchè se prima la rete aveva il nome del nascondiglio senza volto ora è proprio il volto, la faccia, a diventare protagonista? Dire tutto nell’anonimato o non dire niente ma con i documenti in regola.
Facebook in effetti, non dice niente.

Più che buco della serratura da cui spiare l’altro, un dito nel buco del mondo che del mondo vuole vedere solo il culo.

Siamo tutti Saviano?

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di Helena Janeczek

Dopo le ultime notizie su un possibile attentato a Roberto Saviano in stile “Strage di Capaci”- far saltare con l’esplosivo le macchine blindate sull’autostrada Napoli –Roma – e dopo l’intervista di “Repubblica” in cui dice di voler lasciare per un po’ l’Italia per riprendersi la sua vita, si è scatenata una gara di solidarietà di dimensioni impressionanti. Iniziative sui social network, letture collettive in piazza di Gomorra a Roma e Milano, cittadinanze onorarie, striscioni degli ultrà esposti allo stadio, un appello firmato da sei Premi Nobel che nella prima giornata raccoglie le adesioni di centomila persone. E molto altro, molto di più.
E’ qualcosa di imprevisto e di straordinario soprattutto laddove è divampato dal basso, dalle persone che hanno letto il libro o l’hanno comprato o che hanno soltanto visto Saviano in tv e ne hanno fatto quel che è ora: un simbolo di lotta alla mafia, un simbolo di coraggio. E probabilmente di qualcos’altro, perché i simboli veri non sono come i cartelli stradali che stanno per una cosa sola, ma si caricano e irradiano significato. Ed è fin troppo facile obiettare che per aderire a un appello via rete o anche trovarsi in una piazza lontana dalla provincia di Caserta non ci vuole molto coraggio, né si mette in moto un cambiamento, né si fa qualcosa di concreto per togliere una persona dal pericolo in cui si trova. Sono soltanto gesti simbolici che rispondono proprio su quel piano a chi, appunto, è diventato un simbolo.

Lampedusa, Europa. La fabbrica della clandestinità

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centro di Lampedusa foto di Giovanni Hänninen

“per istituire il proprio sé, cioè il «noi» che si autogoverna, l’unione europea istituisce frontiere e politiche dell’immigrazione. senza dubbio, una delle offerte dell’unione europea ai paesi membri è: «unisciti a noi e ti aiuteremo a vigilare sulle tue frontiere contro i lavoratori indesiderati. ci assicureremo anche che tu possa avere quei lavoratori a basso costo e che loro entrino con uno status meno che legale. e non preoccuparti: la tua popolazione non si altererà in modo permanente». o ancora: «potremmo produrre una classe lavoratrice permanente per te»…”
[judith butler, “who sings the nation-state?”]

Martedì 28 Ottobre ore 21, al circolo arci Metissage Lorenzo Bernini e Giovanni Hänninen raccontano il centro di accoglienza (ex cpt) di Lampedusa visitato questo settembre. Saranno proiettate le fotografie di Giovanni Hänninen.

CIRCOLO ARCI METISSAGE
Via Borsieri 2 – entrata da Via De Castilla
Quartiere Isola – Milano
ingresso con tessera Arci

fotografia (c) Giovanni Hänninen 2008

Aggiornamento del giorno dopo: qui le fotografie di Giovanni proiettate durante la serata

Corsi di introduzione alla cultura e alla degustazione del tè

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Iniziano le attività didattiche autunnali dell’Associazione Italiana Cultura del Tè con

IL MONDO DEL TE’
Introduzione alla cultura e alla degustazione del tè
Corso in 3 lezioni di tre ore.

Triptyque (tre movimenti)

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Franz Krauspenhaar, Alexandra Petrova, Paolo Ruffilli

La lezione degli studenti

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di Beppe Sebaste

Chi si trovasse in questi giorni nelle scuole e nelle università, occupate e variamente animate dalle proteste di studenti e docenti, incontrerebbe persone che incarnano, in spirito e lettera, la vocazione dello studio e del sapere. Studenti e docenti difendono la dignità e l’autonomia della conoscenza dalla semplificazione, leggi distruzione, di una politica finanziaria cieca al futuro. Lezioni all’aperto, apertura delle cittadelle accademiche alla città di tutti: chi protesta non ha nulla da nascondere, anzi. Sono privi di ideologia, ma molto consapevoli: “E’ la politica che si è allontanata da noi. Noi facciamo la vera politica”, mi hanno detto. Ma alla notizia che il primo ministro ha minacciato di sgomberare con la polizia, cioè introducendo violenza, le scuole e le università teatro di questa civile protesta e sperimentazione, una studentessa della Sapienza di Roma è allibita: “Vogliono trattarci coma la spazzatura di Napoli”.

Io volevo andare a New York

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di Marco Candida

Il 10 ottobre – adesso che scrivo è giovedì 23 ottobre – mi sono presentato allo Stanford Centre di Grand Forks in North Dakota per iscrivermi a un corso di inglese per immigrati.
Per raccontare come è avvenuta l’iscrizione, però, devo subito fermarmi e fare un paio di salti indietro.
Sono arrivato negli Stati Uniti Venerdì 4 ottobre. Aeroporto O’Hare. Chicago. Prima di atterrare, sull’aereo stewart e hostess hanno distribuito ai passeggeri moduli bianchi e moduli verdi. Io ho compilato un modulo bianco. Proprio per aver compilato questo modulo, però, una volta arrivato all’aeroporto sono stato trattenuto alla dogana. Un agente messicano che mi parlava in portoghese mi ha spiegato che per dimostrare di essere un lavoratore e non soltanto un turista avrei dovuto mostrare alla dogana un documento che lo provasse.

Il fabbricatore di parole

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di Francesca Serafini

Pare che una volta, commentando un romanzo di Antonio Bresciani che gli era stato consigliato, Manzoni abbia ammesso di non aver superato i primi due periodi, apparsi ai suoi occhi come gendarmi che gli intimassero di non andare avanti. Quello con cui si apre il primo capitolo del romanzo d’esordio di Giorgio Vasta – appena dopo un rapido elenco di cose che ci sono, tra cui significativamente anche “i nomi” – potrebbe provocare lo stesso effetto-barriera per un oltranzista della verosimiglianza linguistica: «Ho undici anni, sto in mezzo a gatti divorati dalla rinotracheite e dalla rogna».

A cento passi dal Municipio

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di Gianni Barbacetto
I boss stanno a cento passi da Palazzo Marino, dove il sindaco di Milano Letizia Moratti lavora e prepara l’Expo 2015. O li hanno già fatti, quei cento passi che li separano dal palazzo della politica e dell’amministrazione? Certo li hanno fatti nell’hinterland e in altri centri della Lombardia, dove sono già entrati nei municipi. Comunque, a Milano e fuori, hanno già stretto buoni rapporti con gli uomini dei partiti.

Vsevolod Ėmil’evič Mejerchol’d [28 gennaio 1874 – 2 febbraio 1940(?)]: LA MORTE È MEGLIO DI TUTTO QUESTO

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Dmitrij Dmitrievič Šostakovič [1906-1975]
Piccola Polka
da Suite per orchestra jazz n. 1 op. 38b [1934]

 


2 gennaio 1940

Quando gli inquirenti cominciarono ad applicare nei riguardi di me, inquisito, i loro metodi di azione fisica, aggiungendo ad essi il cosiddetto “attacco psicologico”, l’una e l’altra cosa provocarono in me un terrore così mostruoso da mettere la mia natura a nudo fino alle radici. I miei tessuti nervosi si dimostrarono vicinissimi al rivestimento cutaneo e la pelle si dimostrò delicata e sensibile come quella di un bambino; gli occhi furono capaci (dato il dolore fisico e il dolore morale per me intollerabile) di versare lacrime a fiotti. Mentre ero disteso sul pavimento a faccia in giù, scoprivo in me la capacità di dimenarmi e di contorcermi e di strillare come un cane bastonato dal suo padrone. Il secondino, che una volta mi conduceva indietro da un simile interrogatorio, mi chiese: “Non avrai mica la malaria?” tanto il mio corpo dimostrava la capacità di essere preso da un tremito nervoso. Quando mi sdraiai sulla branda e mi addormentai per andare poi di nuovo dopo un’ora a un interrogatorio che prima era durato 18 ore, mi svegliai, destato dal mio gemito e dal fatto che sobbalzavo sul letto come fanno i malati in delirio. La paura provoca il terrore, e il terrore spinge all’autodifesa. “La morte (o, certo!), la morte è meglio di tutto questo!”, dice tra se l’inquisito. Lo dissi tra me anch’io. E cominciai ad autoaccusarmi nella speranza che così facendo sarei finito al patibolo. E così è successo che sull’ultimo foglio dell'”incartamento” n. 537 sono apparse le terribili cifre dei paragrafi del codice criminale: 58, i punti 1a e 2. Vjaceslav Michajlovic [Molotov]! Lei conosce i miei difetti (ricorda che un giorno mi disse: “Lei cerca sempre di fare l’originale?!”), e chi conosce i difetti di un altro lo conosce meglio di chi ne ammira le virtù. Mi dica: può Lei credere che io sia un traditore della patria (un nemico del popolo), che io sia una spia, un membro di un’organizzazione trozkista di destra, un controrivoluzionario, che nella mia arte abbia fatto propaganda al trozkismo, che nel teatro abbia svolto (consapevolmente) un’attività ostile per minare le basi dell’arte sovietica? Tutto ciò è presente nell’incartamento n.537. Così come la parola “formalista” (nel campo dell’arte) divenne sinonimo di “trozkista”. Nell’incartamento n. 537 sono presenti i trozkisti: io, Il’ja Ehrenburg, Boris Pasternak, Jurij Oleša (quest’ultimo è pure terrorista), Šostakovic, Šebalin, Ochlopkov e così via.

 
Nota dal 2 gennaio 1940

Qui mi hanno picchiato – un vecchio malato di sessantasei anni. Mi mettevano con la faccia in giù, picchiavano con un cordone di gomma sui talloni e sulla schiena; quando io stavo seduto sulla sedia, con la stessa gomma mi picchiavano sulle gambe (dall’alto, con molta forza) e ancora dalle ginocchia fino alle parti superiori. Nei giorni successivi, quando queste parti del corpo erano invase dall’ampia emorragia interna, ancora picchiavano su queste ecchimosi con lo stesso cordone, e il dolore era tale, che, sembrava, che sulle parti ferite e sensibili delle gambe versassero l’acqua bollente (ed io urlavo e piangevo dal dolore). Mi hanno picchiato con questo cordone sulla schiena, sul viso, con slancio dall’alto…

 
13 gennaio 1940
Prigione di Butyrka

Il fatto, che io non abbia resistito, dopo aver perso qualsiasi autocontrollo, trovandomi nello stato di coscienza annebbiata, è stato rinforzato da un’altra causa terribile: immediatamente dopo l’arresto (20 giugno 1939) di me si è impossessata un’idea fissa che mi ha immerso nella peggiore depressione e cioè “vuol dire che alla causa serve così”. Comincia a convincermi che al Governo è sembrato che la punizione già applicata nei miei confronti (come la chiusura del teatro, lo scioglimento del collettivo, la requisizione dell’edificio che si stava costruendo, secondo il mio progetto, della nuova sede del teatro sulla piazza Majakovskij), la punizione, dovuta ai miei peccati denunciati dalla tribuna della Prima Sessione del Soviet Supremo, sia insufficiente, e che quindi io debba sopportare un’altra punizione, quella che adesso mi stanno applicando gli organi della NKVD. “Vuol dire che alla causa serve così” continuavo a ripetermi e di conseguenza il mio “io” si è spaccato in due persone. La prima si mise a cercare i delitti della seconda e quando non li trovava, si decise di inventarli. L’inquirente risultò un aiutante esperto ed efficiente in questa ricerca, e noi iniziammo a inventarli insieme, uniti… L’inquirente continuava a ripetere in modo minaccioso: “se non scriverai (il che significa inventare!), ti picchieremo di nuovo, lasceremo intatte soltanto la testa e la mano destra, tutto il resto lo trasformeremo in un pezzo di corpo informe, dilaniato, insanguinato”. Io ho firmato tutto fino al 16 novembre 1939. Io rifiuto queste deposizioni in quanto mi sono state estorte, e scongiuro Lei, Capo del Governo, mi salvi, mi restituisca la libertà. Amo la mia patria e ad essa darò tutte le mie energie degli ultimi anni della mia vita.

 

Vsevolod Mejerchold

 

[ Traduzione di Clara Strada Janovic, “Corriere della sera“, 11 giugno 1998, ripreso dal giornale “Sovetskaja cultura,” 16 febbraio 1989 (con alcune integrazioni) ]

 

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[ Vsevolod Emil’evič Mejerchol’d – piccolo padre del moderno teatro di regia – un nuovo tipo di lavoro sull’attore che trasvola il naturalismo ottocentesco ed anche lo psicologismo di Stanislavskij – già nel 1906 rivoluziona le convenzioni teatrali – elimina il sipario – passerelle collegano palcoscenico e pubblico – ruolo attivo dell’attore che da mattatore ottocentesco diventa parte del disegno collettivo – primitivismo dei gesti – scenografie non naturalistiche – collaborazione con gli artisti contemporanei – Rodčenko – Malevič – coinvolgimento del pubblico – eliminazione della “quarta parete” – gli attori si mescolano al pubblico – teatro a 360° – importanza della scenografia dal punto di vista simbolico e non naturalistico – lavoro sull’attore come lavoro sul corpo nello spazio – improvvisazione – uso di tecniche circensi – del teatro Kabuki&Commedia dell’Arte – rielaborazione e lavoro sul testo che viene ogni volta reinventato e smembrato – uso della musica come elemento di clima – di sogno – di scansione temporale – collaborazione con il musicista Šostakovič – il teatro come teatro politico ma non in senso propagandistico – arrestato e fucilato come “nemico del popolo” – non restò di lui nemmeno tomba dove portare un fiore ]

 

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Ripellino-Il trucco e l'anima

[ clicca sull’immagine per ingrandirla ]

 
[ A. M Ripellino – Il Trucco E L’anima. I maestri della regia nel teatro russo del novecento, Einaudi, 1965, pag 409 ]

 

[Piccola Polka da Shostakovich: Jazz & Ballet Suites; Film Music
Theodore Kuchar dirige la National Symphony Orchestra of Ukraine
Audio CD (January 25, 2005)
SPARS Code: DDD
Number of Discs: 3
Label: Brilliant Classics
ASIN: B00067GL5A]

 

Adagiato

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di Friedhelm Rathjen

traduzione di Elisa Perotti

Quando mi guardai intorno, ero già seduto nello scompartimento. Ero già seduto nello scompartimento, quando scorsi il poeta. Non poetava quando posai gli occhi su di lui, ma subito scorsi in lui il poeta, poiché solo il poeta va di pari passo con il poeta. Poi rotolammo fuori dalla stazione, attraverso la vastità del pianeta e, come frecce ad una velocità folle, scoccammo attraverso il tutto.

Dimmi perché le stelle sognano. Il poeta non aveva pronunciato parola, sebbene non tenesse la bocca chiusa. Ma lo erano gli occhi. Chiusi. I capelli arruffati si arrovellavano nel suo nome. Le mani giunte in grembo. Il poeta era adagiato sul sedile.

Saviani

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di Riccardo Orioles

Anche oggi Marco ha preso il motorino, è uscito di casa e se n’è andato in cerca di notizie. Ha lavorato tutto il giorno e poi le ha mandate in internet a quelli che conosce. Fa anche un giornaletto (Catania Possibile) di cui finalmente anche i lettori hanno potuto vedere un numero (il primo solo i poliziotti incaricati di sequestrarlo in edicola) con relative inchieste. Non ci guadagna una lira e fa questo tipo di cose da una decina d’anni. Ha perso, per farle, la collaborazione all’Ansa, la possibilità di uno stipendio qualunque e persino di una paga precaria come scaricatore: anche qui, difatti, l’hanno licenziato in quanto “giornalista pacifista”. Marco non ha paura (nè della fame sicura nè dei killer eventuali) ed è contento di quel che fa.

Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato 13

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[18 immagini + lettere invernali per l’autunno; 1,2,3,4,5,6,7,8,9,10,11]

di Andrea Inglese

Cara Reinserzione Culturale del Disoccupato,

che tu sia muta, e lo sia di circostanza,
come se fosse questo
un riguardo nei miei confronti, un modo
preoccupato, quasi apprensivo,
di accogliermi, di farmi tuo ospite,
con un piacevole senso di privilegio,
di compimento, non so, non credo,
è quanto dovrebbe risultare
da un’analisi benevola dei fatti,
ma non posso, in tutta sincerità,
abbandonarmi a questa benevolenza,

Polyptique dell’ora esatta – Mia Mare

5

di
Mia Mare

Starsene all’interno di un abbraccio
che per intero fosse solo abbraccio,
non un semplice prologo a un rituale
quanto più fantasioso più scontato,
per non dire del lato anche grottesco,
di sesso: questo era stato
il desiderio suo, il più vero
ai tempi che qualcuno la chiamava
cara, e gioia mia, mio amore.
Ma solo in sogno questo era accaduto.
E anche in sogno di rado con l’ amante,
più spesso con uno sconosciuto.

postato da: nonsonoqui alle ore 11:14


Mai dell’amore piacque cosa a Mia
quanto le volte che veniva il figlio
a stendersi con lei sul letto grande,
nei dopopranzi, dentro la penombra,
e andavano vagando coi discorsi
come in sogno, osservando nel frattempo
scorrere lungo righe sul soffitto
le ombre deboli e sfocate delle auto
e di moto e pedoni capovolti,
proiettate come in camera oscura
dalla strada, attraverso le fessure
delle imposte – feritoie affacciate
sulla lontana infanzia solitaria.

postato da: nonsonoqui alle ore 19:13

Biglietto scaduto

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di Gianni Biondillo

Romain Gary, Biglietto scaduto, trad. Federico Riccardi, 223 pag., Neri Pozza, 2008

Da qualche anno a questa parte Neri Pozza sta (ri)pubblicando i romanzi di Romain Gary, autore francese dalla vita avventurosa, morto suicida nel 1980 e colpevolmente dimenticato qui in Italia, non so se per ostracismo ideologico o per pura distrazione.
Fra questi Biglietto scaduto, romanzo squisitamente borghese, per ambientazione e per tematiche, libro del 1975, che pare quasi un Philip Roth ante litteram, in salsa francese.

Crimini e affari

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di Raffaele Cantone

Sono ormai settimane che tutti i media si occupano della crisi economica che attanaglia Stati Uniti, Europa, persino Paesi emergenti come la Cina e l’India. È stato spiegato, anche ai non addetti ai lavori, che i problemi sono cominciati con le istituzioni finanziarie; le banche americane, esposte per molti miliardi di dollari per mutui troppo facilmente erogati, sono in sofferenza ed in alcuni casi sono fallite. Siccome poi i mutui americani, cartolarizzati in derivati, erano stati venduti – in un momento di orgia speculativa che aveva fatto intravedere grossi guadagni senza considerare i relativi rischi – alle istituzioni finanziarie di tutto il mondo, il crollo delle banche statunitensi, come in una sorta di domino che è tipico della globalizzazione economica, si sta riverberando dovunque.

Voglio chiamarvi Signori perché Ragazzi mi ha stufato [scuola/4]

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Vorrei morire a questa età
Vorrei star fermo mentre il mondo va
Ho quindici anni

BAUSTELLE, Charlie fa il surf

di Chiara Valerio


Io non vi vedo e non vi sento. Certe volte quando cammino per i corridoi controllo di non avere le orecchie piene d’ovatta e i paraocchi. Non parlo delle chiacchiere intorno ai distributori di snack o dei gruppi variopinti che, al cambio dell’ora, si assiepano agli infissi delle porte. E nemmeno delle spinte nei bagni o dei calci in palestra. Io parlo della voce. E dei pugni. Forse ci state bene, forse io non capisco, forse è l’ennesimo intervallo passato in aula a discutere mentre fuori c’è il sole. La voce di chi viene considerato un numero, i pugni in tasca di chi, a ben guardare, conta solo come valore statistico anche se non lo è nemmeno per un attimo, nemmeno al censimento. Dovreste farvi sentire, assordare o spaccare tutto.
Sì l’ho detto, non guardatemi a quel modo. Ho detto proprio spaccare.

Do you remember Héctor German Oesterheld?

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Si presume che Héctor German Oesterheld sia morto trent’anni fa, nel 1978. Non si sa dove, come e neppure il giorno esatto. Si sa solo il perché. Perché era un uomo libero in una terra non libera. Con Lucia Saetta , abbiamo deciso di ricordare uno dei più grandi talenti della storia del fumetto. Il testo che abbiamo tradotto, è nel volume, Historieta. Regards sur la bande dessinée argentine pubblicato da Giusti (Vertige Graphic) e a cura dello straordinario José Munoz.
effeffe

Oesterheld, facitore d’avventure
Nato il 23 luglio 1919 a Buenos Aires in una famiglia di classe media, da padre tedesco e madre spagnola, Héctor German Oesterheld si immerse nei racconti d’avventura dalla sua più giovane età. Durante gli studi superiori di geologia, lavora come correttore per la stampa e scopre così un mondo a cui comincia a legarsi. Nel 1943 pubblica il suo primo racconto nel supplemento letterario del quotidiano La Prensa. La sua prima collaborazione importante sarà con l’Editorial Abril dove pubblica racconti per bambini e di vulgata scientifica. Nel 1951, firma le sue prime sceneggiature di fumetti per la rivista Cinemisteria. Sargento Kirk, frutto della collaborazione feconda con Hugo Pratt esce nel 1953 e conosce un grande successo.