
[Per una singolare, fortunata coincidenza (o forse per un disegno della Provvidenza) ho ricevuto nello stesso giorno due proposte relative al medesimo autore: il pezzo che segue, di Giulia Delogu, riflette sull’insegnamento che ci ha lasciato Manzoni e si presta splendidamente ad aprire, qui su NI, un’estate un po’ manzoniana, che proseguirà a partire dal 3 agosto con una rubrica a cura di Marco Viscardi. Buone letture. ot]
di Giulia Delogu
Da appassionati manzoniani saremmo portati a rispondere, quasi senza pensarci, con un sicuro “certamente”. L’opera di Manzoni è studiata nelle scuole italiane di ogni ordine e grado da oltre un secolo. Diluita nei tredici anni di cui è fatto il nostro sistema scolastico. Riflettendo, tuttavia, ci si accorge che è tanto diluita da aver forse perso – agli occhi dei più – fascino e potenza. L’opera di Manzoni vuol essenzialmente dire i Promessi sposi, forse un po’ Il Cinque maggio e i cori delle tragedie. Altro difficilmente viene letto di prima mano e in modo diretto, anche nelle aule universitarie, dove Manzoni è guardato con interesse quasi solo da chi si occupa di studi letterari. Per decenni il compito principale di Manzoni si è ridotto a insegnare come si scrive in bell’italiano. Oggi, però, quell’italiano non offre più un modello da replicare: chi definirebbe una persona abile nella gestione delle finanze domestiche un “bravo massaio”? Dobbiamo quindi concludere, come i tanti detrattori del Manzoni, che è meglio dedicarsi ad altre letture?
I Promessi sposi sono indubbiamente un laboratorio linguistico e questo li ha resi per lungo tempo anche una palestra per imparare a scrivere. L’attenzione di Manzoni per la lingua ha però radici ben più profonde e obiettivi diversi dal semplice intento di insegnare l’italiano alle giovani, e meno giovani, generazioni. Per capire radici e obiettivi bisogna andare oltre i Promessi sposi, solo così si può rispondere alla domanda inziale: Manzoni ha ancora qualcosa da insegnare oggi?
La molla che muove Manzoni non è l’amore per l’ortografia e la grammatica, ma per la verità. In breve potremmo dire Manzoni non ha speso decenni a lavorare sulla lingua e a riscrivere le sue opere semplicemente per forgiare una lingua nazionale uniforme, né per comporre opere che poi servisse come testi scolastici: questi sono stati, per così dire, felici effetti collaterali. Ciò che gli premeva era soprattutto dare vita ad una lingua che potesse comunicare il vero, di qui la sua attenzione per i significati delle parole, che devono essere chiare e univoche, e per la forma, che deve essere precisa e comprensibile.
Lo stesso amore per la verità non ha, come si può essere indotti a credere da interpretazioni schematiche e affrettate, un significato religioso. Manzoni scrive di santo vero come principio guida per il poeta già nelle sue opere giovanili pre-conversione: “Il santo Vero mai non tradir: né proferir mai verbo, che plauda al vizio, o la virtù derida” afferma nel carme In morte di Carlo Imbonati del 1806. L’intellettuale deve consacrare la sua opera ad una missione civile, una missione di verità che conduca ad un perfezionamento individuale e sociale.
Questa esigenza di verità rimane per Manzoni una costante. È ciò che lo porta a sperimentare nei diversi generi tra poesia e prosa, a riflettere costantemente sul rapporto tra verità e finzione, a interrogarsi sulla potenza (anche distruttrice) delle narrazioni vere e false. Di particolare impatto negli anni giovanili era stato l’eco degli eventi rivoluzionari che appartenevano ad un recente passato e ai quali, adolescente, aveva dedicato il poemetto Del trionfo della libertà, mai pubblicato in vita. Ad un entusiasmo inziale per le cose di Francia, infatti, erano presto subentrate una certa dose di disillusione e anche di angoscia: com’era possibile che il trionfo della libertà rappresentato dalle prime fasi della rivoluzione fosse poi degenerato nel Terrore e nel dispotismo napoleonico? Queste domande Manzoni se le sarebbe poste tutta la vita, fino all’incompiuta comparazione tra la Rivoluzione francese e il Risorgimento italiano, cui si dedicò nei suoi ultimi anni.
Come ha ben sottolineato Adriano Prosperi in un articolo apparso sulla rivista Studi storici nel 2018, è proprio indagando il complesso legame instaurato da Manzoni con le rivoluzioni e con l’eredità del pensiero illuminista settecentesco che possiamo oggi meglio comprendere i lati più originali e innovativi della sua opera. A questo mi sembra utile aggiungere che si tratta di un’opera attraversata da una tensione conoscitiva e da un profondo rapporto con la storia, intesa come strumento e non come campo a sé stante. Indagare il passato, fare ricorso ad una prospettiva storica, ricostruire minutamente eventi passati, anche consultando documenti d’archivio, rappresentava un laboratorio per cercare risposte sull’attualità, per immaginare una verità che spiegasse l’agire umano.
Fare storia per Manzoni significava riflettere sul contenuto e in particolare sugli “attori oscuri” del passato che molto avevano da dire nel presente, al contempo significava un continuo lavorio sulla forma che, in ossequio al vero, doveva unire precisione linguistica ed efficacia narrativo-comunicativa. Manzoni voleva essere letto e capito, suscitare emozioni e pensieri. Voleva altresì far comprendere il potere delle parole e mettere in guardia dai pericoli di quelle che oggi chiamiamo fake news. Di qui il suo attraversare tanti generi, scrivere tragedie, carmi, odi, romanzi e reportage, mettendo nella tessitura dell’invenzione sempre anche i fili della storia.
Il modo di fare storia di Manzoni (elogiato a inizio Novecento da Attilio Momigliano, demolito poco dopo dai crociani, rivalutato più di recente da Carlo Ginzburg) è ricco di riflessioni ancora molto attuali. Fin dalla bozza del Fermo e Lucia, lo scrittore milanese rifletteva sui limiti della storia come scienza, scrivendo che ciò che si può ricostruire è “la storia delle idee che hanno regnato nelle diverse età”. Il rifiuto delle pretese di assoluta scientificità asettica della storia e del documento d’archivio come feticcio immutabile e incontrovertibilmente vero non si traduce però in un relativismo epistemologico alla Hayden White; secondo Manzoni, la storia ha sempre una via d’uscita nella possibilità e nella congettura: “è una parte della miseria dell’uomo il non poter conoscere se non qualcosa di ciò che è stato, anche nel suo piccolo mondo; ed è una parte della sua nobiltà e della sua forza il poter congetturate al di là di quello che può sapere”. Queste erano le conclusioni di metodo cui giungeva interrogandosi su vero, verosimile e finzione in Del romanzo storico (1845).
Congettura non vuole mai dire distorsione. Manzoni, ad esempio, richiamava anche l’attenzione su un problema tutt’oggi molto dibattuto, quello dell’anacronismo. Se da un lato è legittimo utilizzare la storia come palestra per la comprensione del presente e come laboratorio per esercitarsi nel decostruire l’intrico di narrative confliggenti che circondano un evento (e qui Manzoni sempre pensava alle rivoluzioni), dall’altro è illegittimo leggere e giudicare le parole del passato secondo i nostri odierni significati.
Molto ci sarebbe da dire sui singoli testi e su quanto possano offrire a chi li legge oggi. Sul Discorso sur alcuni punti della storia longobardica in Italia (1822) come modello di metodo e come felice esempio di storiografia ideologica, politica e militante ha scritto Dario Mantovani in un’illuminante premessa al volume V dell’Edizione Nazionale.
Anche sulla Storia della colonna infame (1842) vale la pena di soffermarsi, interrogandosi sull’attualità dell’opera manzoniana. Manzoni voleva fosse sempre stampata insieme ai Promessi sposi, di cui la considerava l’altra faccia. Tradizionalmente è stata interpretata come una risposta ai processi austriaci seguiti ai moti del 1821, recentemente però Prosperi ha mostrato come la sua genesi sia stata più antica. Si lega infatti al decennale tentativo di Manzoni di comprendere l’età rivoluzionaria, unendo dunque il Seicento al 1789 e oltre.
La Colonna Infame è il punto di arrivo e al contempo di svolta della riflessione manzoniana su verità e invenzione. Manzoni sceglie una forma di verità (la narrazione storiografica) per riflettere sugli effetti, nefasti, dell’invenzione e della manipolazione del vero nella sfera pubblica. Gli interrogativi da cui muove sono: come e se si possono combattere gli effetti di narrazioni fasulle e complottistiche, che possono sfociare nel Terrore… o appunto nella caccia agli untori della Milano afflitta dalla peste negli anni Trenta del Seicento. L’indagine storica, insomma, viene in questo caso preferita al romanzo o alla poesia perché rappresenta una sorta di antidoto.
Già Pietro Verri nelle Osservazioni sulla tortura (1777) si era dedicato alla vicenda della Colonna Infame con un obiettivo politico, ideologico e riformatore specifico e per sensibilizzare l’opinione pubblica sul rinnovamento del sistema giudiziario e penale. Manzoni riprende la triste vicenda per farne – lo dice lui stesso – una “ricostruzione storica” che dia l’occasione per riflettere sulla potenza e i percoli della comunicazione e dell’annullamento dei confini tra vero e inventato.
Come abbiamo visto, il problema comunicativo era stato da sempre al centro degli interessi di Manzoni, saldandosi alla sua esigenza di verità. La sperimentazione di diversi generi e la riflessione sulla lingua ne sono gli esiti forse più evidenti e sono stati quelli più studiati e che più impatto hanno avuto sulla cultura e sul sistema educativo italiano. A fianco della riflessione su come meglio comunicare il vero, in Manzoni però si fa strada anche il problema molto attuale di come sfatare il falso, di quali argini mettere a complotti e deliri collettivi basati sulle false notizie. La storia e la scrittura, dunque, divengono strumenti per muoversi nei labirinti comunicativi.
Vale dunque ancora la pena di occuparsi di Manzoni? Sì, ripartendo forse dal meno indagato Manzoni storico che ci può trasmettere l’importanza della dimensione narrativa e comunicativa della storiografia. Scrivere storia vuol dire sia mettere in campo un’attenta analisi testuale e linguistica sia prestare attenzione alla costruzione narrativa dei propri saggi che devono sapere comunicare. Ci porta poi a riflettere sulla centralità della verità, unita alla consapevolezza dei limiti conoscitivi dell’indagine storica, che non sfocia tuttavia in una sfiducia relativista ma in soluzioni creative e nell’uso di categorie come quella di possibilità. Ci porta ancora a riscoprire l’utilità della storia come strumento che salda il passato e il presente e che può dare vita e voce anche ai vinti e ai subalterni, al particolare, all’oscuro e all’eccezionale ed inserirli nel “quadro morale dell’umanità”.
Ci insegna che forma e contenuto si saldano in un binomio inscindibile e che pertanto chiunque voglia creare o comprendere le produzioni culturali di ogni tempo deve saperli maneggiare entrambi. Storia, linguistica, analisi letteraria e teoria della comunicazione non possono essere universi separati. Ci mostra infine come l’indagine storica sia una preziosa risorsa per navigare il complesso oceano comunicativo in cui siamo immersi: sfatare il falso nel passato e capire come una narrazione ha potuto prendere il sopravvento sulle altre fino a generare impatti anche tragici permette di affinare le nostre capacità conoscitive e interpretative sull’oggi. Leggere Manzoni nel terzo millennio è, insomma, più necessario che mai.


















di Romano A. Fiocchi
La Nota al testo del personaggio Luca Milite, che chiude il Libro primo, porta all’estremo il paradosso temporale alla Escher:



I piatti la sera, il letto raddrizzato
al mattino: ho fatto tutto il necessario
per scordare - i morti
non abitano più qui, ma
c'è una fessura,
una scheggiatura dell'osso
dove rimangono impigliati.
Allora dico non vedete?
Non sentite le voci che risalgono
dal mercato - dicono che anche noi
ce ne siamo andati.
___
Tale è il nodo, il volto chiuso
che non c'è più il corpo
ma solo lo spazio tra le cose -
l'incastro del vuoto
al vuoto.
Un vento da tempia a tempia -
l'emergere del vero.
Qualcuno ti parli,
qualcuno dica togli le mani dagli occhi -
quello che ancora conosci.
___
Tutto ciò che si fa qui
lo si fa pensandoti.
Non sono mai stata più di questo -
un organo cessato, un lembo
da ricomporre.
Il mondo resta
lontano - intorno qualcosa ha ceduto.
Credo che l'estate sia l'unica
stagione - quella in cui la sera
cantano le rane.

La Garfagnana era una terra selvaggia, aspra, dove regnava una miseria che agguantava la popolazione come una pestilenza. Terra difficile, storicamente infestata da briganti fuori controllo, tanto che il padrone di quelle lande, Alfonso d’Este, nel 1522 vi inviò Ludovico Ariosto come governatore, col compito di contrastare il banditismo. Tre secoli dopo non era cambiato granché. La miseria continuava a regnare sovrana, i briganti non erano certo stati sgominati e il padrone era di nuovo un duca, Carlo Ludovico di Borbone: “Non era granché affidabile. Fiacco di carattere, non teneva fede alle promesse; conservatore all’eccesso, riteneva che la paura propagata dai briganti gli avesse giovato a consolidare il potere, distogliendo l’attenzione dei sudditi su quanto avrebbe potuto fare e non aveva fatto, a vantaggio dei suoi personali interessi e svaghi” (pag. 228).





di Giuseppe Dambrosio 
