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El picaro de oro: Diego Armando Maradona, romanzo

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A proposito di In campo la vita sparisce di Loris Caruso

 

 

di Giovanni Di Benedetto

  1. Prologo. L’uno e il molteplice: fenomenologia del numero 10

Nell’insieme che individua l’infinita successione dei significanti del linguaggio numerico, almeno tre svolgono appieno la funzione propria di un ipersegno: lo Zero, l’Uno e l’unione di questi nel numero Dieci. All’interno di quel particolare sistema di distribuzione collettiva del lavoro che è una squadra di calcio, il numero dieci rappresenta colui che è in grado di risolvere dialetticamente e in senso gramsciano l’antitesi manicheista dell’individuale e del collettivo: il fantasista è l’attante che attraverso il proprio genio e le proprie capacità creative individuali inventa il gioco. Allo stesso tempo, il fantasista è anche colui che organizza il gioco della squadra subordinando l’inventio alla dispositio al fine di elaborare un’elocutio performativa nel quale l’actio è sempre al servizio del collettivo. Il fantasista, come un poeta orfico-pitagorico, inventa geometrie in grado di creare dal nulla lo spazio entro il quale si manifesta il movimento che, portando al gol, altera la materia e, così facendo, il reale. Queste due qualità dell’invenzione e dell’organizzazione del gioco si concretizzano nel concetto che identifica l’idea stessa del fantasista: l’uomo-squadra, colui che, da solo, attraverso la fantasia, è capace di risolvere e capovolgere le sorti di una partita. Ma, allo stesso tempo,  l’uomo-squadra è colui che mette il suo talento al servizio della squadra organizzando il lavoro dei differenti reparti e dei singoli membri in una costruzione comune. L’imperativo categorico del numero Dieci, Fare gol, è per il fantasista una frase infinitiva principale che contiene, al suo interno, una subordinata finale: segnare un gol, oppure, far (fare) gol, mettere gli altri compagni di squadra nella situazione di segnare distribuendo assist.  L’uomo-squadra è un’opera-mondo nella quale i destini collettivi sono rappresentati nella traiettoria tracciata da un destino individuale. In questo, il fantasista è simile al poeta e al rivoluzionario. La vita, la morte e i miracoli di Diego Armando Maradona non solo rappresentano il manifesto più compiuto della fenomenologia del fantasista ma anche i cardini di una parabola propria soltanto agli eroi romanzeschi. La vita di Maradona non è come un romanzo. Diego Armando Maradona è romanzo.

  1. «Giocò, vinse, pisciò, perse»: vita e gesta di Diego Armando Maradona, donnaiolo, chiacchierone, ubriacone, divoratore, irresponsabile, bugiardo, fanfarone

En una villa nació, fue deseo de Dios
(Rodrigo, La Mano de Dios)

Nella sua Poetica, Aristotele stabilisce le convenzioni letterarie che, per secoli, avrebbero definito la teoria dei generi: uno stile elevato per la tragedia e l’epica, e uno stile basso e umile per la commedia. Il genere è così codificato con la sua forma. La lingua che narra le gesta degli eroi è condizionata dalla loro posizione sociale, la quale a sua volta determina le situazioni narrative in cui i personaggi si trovano. La nascita del romanzo moderno è spesso attribuita all’emergere del romanzo picaresco spagnolo del XVI secolo, poiché rappresenta la prima forma narrativa a rompere le convenzioni letterarie aristoteliche. Il romanzo picaresco è caratterizzato da uno stile misto in cui il registro della lingua e le situazioni narrative alternano l’alto e il basso, l’eroico e il comico, il tragico e la farsa. Il protagonista, il picaro, racconta la sua vita adottando uno stile volutamente epico: le gesta della sua vita quotidiana diventano imprese, avventure, un succedersi di situazioni narrative, un romanzo.

Anche se non avessimo mai visto un solo gol, un solo dribbling, né ascoltato un suo aforisma, né visto una sola immagine che lo rappresentasse, la semplice e rapida lettura della cronologia di Maradona sarebbe sufficiente per identificarlo come il personaggio principale di un romanzo picaresco. Con un’abilità paragonabile a quella utilizzata da Flaubert nel penultimo capitolo de L’educazione sentimentale per racchiudere la parabola esistenziale di Frédéric Moreau – in una rapida successione di passati remoti che condensano in poche righe i sedici anni di vita che separano il vuoto bianco tra il quinto e il sesto capitolo [1] (e dunque tra la giovinezza e l’età adulta) -, lo scrittore uruguaiano Eduardo Galeano, mediante un movimento sintattico che collega una serie di passati remoti con la stessa fluidità di un enjambement (leggasi dribbling), così racconta l’episodio dei Mondiali di Usa ’94 che forse più fa da metonimia all’intera vita romanzesca di Maradona: «Jugó, venció, meó, perdió». Giocò, vinse, pisciò, perse. Di fatto, l’infanzia di Diego Armando Maradona finisce quel giorno lì: da lì in poi, il pallone sarebbe stato come la treccia di capelli bianchi che Madame Arnoux regala a Frédéric Moreau al termine del romanzo [2]. E cosa ha fatto Maradona dal 1994 al giorno della sua morte il 25 novembre 2020? Viaggiò. Conobbe la malinconia delle panchine a bordo campo, i freddi risvegli su una brandina di una clinica cubana, l’incanto dei paesaggi de La Havana e delle rovine del deserto di Sinaloa in Messico, l’amarezza delle ginocchia troncate. Ritornò; frequentò la società, ed ebbe ancora altri amori. Ma il ricordo costante del primo calcio al pallone glieli rendeva insipidi; e poi la violenza del desiderio di segnare, la freschezza della condizione fisica era perduta. Anche le ambizioni da allenatore si erano ridotte. Passarono gli anni; e gli pesò l’inerzia del suo corpo e l’indifferenza del suo piede sinistro. Giocò, vinse, pisciò, perse. L’alto e il basso. Il cielo e la terra. Gli dèi e gli uomini. Come chiosa ancora Galeano, Maradona è «un Dio sporco che ci assomiglia: donnaiolo, chiacchierone, ubriacone, divoratore, irresponsabile, bugiardo, fanfarone». Il Pibe de oro è un autentico Picaro de oro.

  1. In campo la vita sparisce

Diego Armando Maradona eroe romanzesco, dicevamo. Eppure le gesta di Maradona sembrano ispirare i poeti e non tanto i romanzieri (perché sia chiaro: Galeano è un grandissimo poeta, uno dei più grandi della letteratura ispano-americana). Oppure sembrano prestarsi a una forma narrativa ibrida, tra il giornalismo, il saggio e il racconto breve. Sembrerebbe che Maradona sia un oggetto narrativo fin troppo romanzesco per poterlo adattare in una forma romanzesca propriamente detta nella quale l’inventio e la dispositio riorganizzano il materiale biografico della sua esistenza. Un ulteriore ostacolo è dovuto al fatto che il suddetto materiale biografico è ormai entrato a far parte delle pagine dell’Enciclopedia Universale e che chiunque, bene o male, è a conoscenza delle gesta di Maradona. Lo spazio disponibile all’immaginazione per reinventare la narrazione della chanson de geste del ciclo maradoniano sembra essere pressoché inesistente. E allora, come scrivere un romanzo su Maradona? Se lo sarà chiesto per notti intere Loris Caruso, autore di In campo la vita sparisce (Castelvecchi). Il libro è un romanzo su Diego Armando Maradona. Lo ripeto: non una biografia romanzata, ma un vero e proprio romanzo che ha come protagonista un personaggio che all’inizio del racconto scopriamo chiamarsi Diego Armando Maradona e di cui scopriamo le gesta dall’infanzia all’adolescenza, le imprese, le peregrinazioni, i successi, la vita adulta, la sconfitta, la caduta, le sue innumerevoli morti, le resurrezioni, l’ascensione al cielo e al mito. In campo la vita sparisce si può leggere proprio come un romanzo di formazione. Le quattro parti nelle quali è suddiviso il libro – Principe, Re, Dio, Demone – permettono al lettore di seguire le peripezie di Maradona in una maniera che ricorda da vicino quella con la quale seguiamo l’avventura spirituale di Adrian Leverkuhn, il protagonista del Doctor Faustus di Thomas Mann.

Il pregio del libro di Loris Caruso è proprio quello di aver colto il grande potenziale narrativo di un uomo che sembra aver vissuto più vite: l’utilizzo costante di prolessi e analessi all’interno della narrazione permettono al testo di distaccarsi dalla cronaca  e diventare un elaborato meccanismo romanzesco nel quale ritrovare le caratteristiche del genere: ai dialoghi si alternano le descrizioni, alle descrizioni le azioni (e decisamente riuscite sono le descrizioni delle azioni calcistiche); le digressioni permettono inoltre al testo delle aperture saggistiche a proposito di storia, mito, religione e sociologia. In alcune situazioni, l’armonia tra le parti è perfetta. Si veda ad esempio lo scambio tra un giovanissimo Maradona a 11 anni, portrait of the artist as young man, e il suo allenatore delle giovanili dell’Argentino Juniors, Don Francis:

            – Mister, in partita si possono fare i dribbling, o bisogna sempre passarla?

            – Scusa Pelusa, non ho sentito, puoi ripetere?

            – Ho chiesto… ho chiesto se possiamo fare i dribbling oppure… dobbiamo fare sempre i                                  passaggi don Francis

            – Ragazzi, il dribbling è l’arte del calcio. La più grande. Se al calcio togliamo il dribbling gli togliamo tutto. Ci sono squadre che dicono ai giocatori di non dribblare perché il dribbling è rischioso, sai se perdi la palla rischi il contropiede e il gol. Ma io piuttosto che vedere una partita senza dribbling preferisco farmi una pennica al sole o mangiarmi un buon Casado con gli amici. Il calcio senza dribbling è come un asado crudo: ti sfama ma non sa di niente.

            I ragazzi risero ma si ricomposero subito. Francis aveva un tono tra epico, il paterno e il militare.

            – L’arte nel calcio è superare l’avversario, aprire uno spazio che prima non c’era, inventarlo dal nulla come quando alla fine di una foresta compare una radura e vedi l’orizzonte.

            Ma non si può vivere solo di arte. Sarebbe bello, a me piacerebbe, ma non si può. Noi faremo i dribbling quando servono i dribbling, i passaggi quando servono i passaggi, i contrasti quando servono i contrasti e i tiri quando servono i tiri. Gli attaccanti devono dare una mano alla difesa, tutti devono dare una mano a tutti, soprattutto quando sembra che la barca stia affondando, chiaro? [3]

Quella di Don Francis non è una lezione di calcio. È una lezione di stile: come costruire una situazione romanzesca. Come costruire un romanzo su Diego Armando Maradona.

  1. Epilogo

Nella sezione dedicata alle Vite degli uomini illustri della Grande Enciclopedia Universale edita a Napoli nel 2123, la biografia di Diego Armando Maradona apparirà al fianco di quella di Arthur Rimbaud, celebre mercante d’oppio e trafficante d’armi francese del diciannovesimo secolo. Quanto a Maradona, le fonti lo citeranno come «il più grande poeta argentino del ventesimo secolo».

  1. Post-Scriptum. Parigi, gennaio-maggio 2023

Ho iniziato a leggere il libro di Loris Caruso nel gennaio 2023. Poche settimane prima l’Argentina aveva vinto il suo terzo mondiale. Ho assistito alla finale contro la Francia a Parigi, in un pub con solo argentini (essendo napoletano avevo diritto di cittadinanza). Al fischio finale, l’immensa gioia degli argentini mi ha scosso profondamente facendomi immaginare cosa avrei potuto provare se il Napoli fosse riuscito a vincere nuovamente lo scudetto, senza Diego, proprio come aveva appena fatto l’Argentina. Poche settimane fa, l’ho vissuto. È successo per davvero. Il Napoli ha vinto. Sono sceso in strada e ho chiamato il mio amico Boris che abita a Saint-Denis. Boris insegna storia, è un sindacalista della CGT e l’estate scorsa è venuto in pellegrinaggio a Napoli. Mentre gli mostravo le immagini in diretta Boris mi ha detto più o meno così: «è a questo che assomiglierà la vittoria della rivoluzione e del socialismo». Poche settimane prima, durante una delle giornate di sciopero contro la riforma delle pensioni del governo Macron, eravamo insieme Boris ed io. Nel corteo, come un’apparizione, abbiamo visto sorgere il profilo di Diego:

Boris mi ha citato una frase dello storico marxista Eric J. Hobsbawn secondo il quale i tre elementi costitutivi della coscienza di classe operaia sono il calcio, il pub e il sindacato. Ho abbracciato Boris e gli ho detto in napoletano: «Maradò, miettece ‘a mana toja».

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Note

[1] Loris Caruso, In campo la vita sparisce, Roma, Castelvecchi, 2022, pp. 55-56.

[2] «Viaggiò. Conobbe la malinconia dei piroscafi, i freddi risvegli sotto una tenda, l’incanto dei paesaggi e delle rovine, l’amarezza delle simpatie troncate. Ritornò; frequentò la società, ed ebbe ancora altri amori. Ma il ricordo costante del primo glieli rendeva insipidi; e poi la violenza del desiderio, la freschezza della sensazione era perduta. Anche le sue ambizioni intellettuali si erano ridotte. Passarono gli anni; e gli pesò l’inerzia della sua mente e l’indifferenza del suo cuore». (G. Flaubert, L’educazione sentimentale, trad. it. di Lalla Romano, Torino, Einaudi, 1984, p. 579).

[3] «Emir, sai che giocatore sarei stato senza la cocaina? che giocatore ci siamo persi. Avrei potuto essere molto più di ciò che sono stato». (D. A. Maradona, in Maradona by Kusturica, di Emir Kusturica, 2008).

Domande. Da Samuel Beckett

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[Per il centenario della nascita di Samuel Beckett, Chiara Montini e io curammo un numero di “Testo a Fronte” interamente dedicato all’autore irlandese (n° 35 / II semestre 2006). Io riuscii a raccogliere un certo numero di testi sopratutto di scrittori, oltre che critici. Alcuni di questi testi erano già apparsi (di Porta, di Fortini, di Garboli). Altri furono scritti per l’occasione, in particolre quelli di Giancarlo Majorino e di Giuliano Mesa. Su NI, quello di Mesa già apparve il 30 aprile 2007. Lo ripresento ora, dal momento che il 15 e il 16 giugno si terrà a Bologna il primo convegno sulla sua opera. Considero questo momento come una festa, una festa in cui i vecchi amici hanno l’occasione di riprenderlo in mano e futuri amici quella di scoprirlo. Nei prossimi giorni su NI, ripubblicherò anche un mio saggio sull’eredità beckettiana nella sua poesia. La foto è mia ed è stata scattata a Milano nel 2009. a. i.]

.

di Giuliano Mesa

qu’est-ce que je suis en train de dire maintenant, je suis en train de me le demander.
Samuel Beckett, L’innommable

Ascoltare, domandare. Nell’ascoltare Beckett si ascolta il suo ascoltare ed ascoltarsi domandando. Non per la letteratura – con la letteratura. Né mezzo né fine. La letteratura interroga la vita. “Quando ci si ascolta, non è certo letteratura quella che si sente” (1968, conversazione con Charles Juliet). Nelle parole della letteratura, a cercarvi soltanto parole, non si sente il silenzio, la domanda ulteriore, ciò che non è stato detto, che non si è potuto dire. Non ancora. Non ancora il silenzio e non ancora la parola ultima. La parola che dice, dice di continuare a domandare. Come dire, per dire le domande?

Due colloqui

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Una testimonianza reale di quel che accade, oggi, nel mondo del lavoro. Dell’incertezza, dello sfruttamento, della competizione capitalistica, della tristezza

di Yàdad de Guerre

Qualcosa si rivelava già nel logo in bianco e nero della società – un logo prelevato dalla rete senza rispettare le banali regole del copyleft – ma ho avuto bisogno di tre giorni per mettere a fuoco il senso di spaesamento davanti al cattivo gusto, alla sovrapposizione di forme e livelli in mancanza di prospettive, al drago stilizzato e bidimensionale imprigionato dentro uno stemma reale e tridimensionale, tre giorni per restituirmi un’intuizione. Ho inviato ovunque il mio curriculum vitae, che resta in piedi senza una traccia dei lutti riconquistati con straordinaria fatica, ovunque presentato la mia candidatura nel panico e nell’urgenza, rimasto senza soldi né certezze dopo un anno e mezzo di ferocità ho accettato qualsiasi proposta; in quel momento respiravo dicendo: vada via l’inquietudine davanti al kitsch regale, il drago e lo stemma, si prendano tutto ciò che mi rimane per due spicci e un genuino sorriso, buongiorno dunque, io sono Yàdad e mi trovo qui per il lavoro di brand testimonial.

Al contrario di altri colloqui, dove ho ingurgitato le mie contraddizioni tentando di soffocarmi il più possibile, questo è andato piuttosto liscio; mi è stato risparmiato l’armamentario patetico per la giustificazione e la cementificazione di retribuzioni ridicole oppure per la tenuta di parole utili a non sentire il rumore del tacito accordo per cui, guardi, è solamente sopravvivenza il bisogno di un’occupazione qualsiasi o l’accettazione dello sfruttamento spacciata per eroica qualità o la mancanza di difesa davanti allo squilibrio di potere indiscutibile, insormontabile. Non ho dovuto fingermi illuminato dalle banalità intorno al concetto di resilienza, come pure è accaduto durante un altro colloquio per lo stesso lavoro: sono tutt’orecchie, recruiter, mi dica di più sul punto di rottura e sulla capacità di resistere agli urti, che vuole che ne sappia io, dopotutto sono soltanto un orfano omosessuale nato e cresciuto in una disgraziata provincia del sud di questo paese fascio-borghese, venuto su da una famiglia comunista della working class uccisa a colpi di cancro e alcool, mi dica di più sulla resilienza, su questa dote da dover acquisire per una migliore performance e un più grosso profitto, per il capovolgimento della vita e della morte, per il fallimento che non conosce l’alleluia.

È andato tutto liscio, dicevo, nonostante il poster gigante di una bestia selvatica alle spalle della recruiter, ero a mio agio mentre lei mi parlava in un gergo che tentavo di afferrare velocemente, per qualche minuto mi ha descritto la realtà aziendale mentre io cercavo di figurarmi come funzionasse quella rete di società a responsabilità limitata e di talenti misteriosi che, dal nulla ma con caparbietà e spirito di sacrificio, erano divenuti team leader, manager, CEO. Il futuro disegnato per me dalla recruiter era proprio quello: partire dal basso per salire più su, fino alla cima, grazie a una formazione continua, finendo magari, nella migliore delle ipotesi, ad avere una società tutta mia, a gestire persone con «etica e meritocrazia» – due parole che avrebbero dovuto farmi brillare gli occhi e che, invece, hanno agevolato un attacco di panico. Se la recruiter parlava con meraviglia di quel mondo chiuso fatto di persone giovani, io avevo il batticuore e mi chiedevo che cosa ci facessi lì: non ho mai voluto avere sottoposti, mai pensato di gestire una società, ho solo un bisogno urgente di soldi per campare. L’idea di poter rifiutare la carriera aziendale mi ha calmato e ancorato al presente.

È davvero andato tutto liscio? Al termine di quel colloquio conoscitivo, mi è stato detto che avrebbero valutato la mia candidatura e che avrei ricevuto comunque un feedback; qualora tutto fosse andato bene, avrei dovuto sostenere un secondo colloquio, durante il quale avremmo discusso il lavoro da fare, la struttura della rete aziendale e, ovviamente, la retribuzione. Secondo le esplicitate intenzioni della recruiter, il processo di selezione, di norma più lungo, si sarebbe potuto terminare anche con quel secondo colloquio, a patto di trovare una persona straordinaria da inserire nelle squadre già formate. «Un’utopia – mi ha detto – ma possibile, io ci spero, può accadere, è accaduto, accadrà ancora, vediamo se c’è una persona giusta tra quelle selezionate per questi colloqui, chissà, magari sei proprio tu. Sai, di fronte alla straordinarietà, c’è poco da fare se non chiudere il secondo incontro direttamente con un contratto di lavoro». Le sue intenzioni erano descritte quasi in una forma di sogno, realizzabili con la testarda determinazione e un colpo di fortuna: avrebbe significato tanto per l’impresa investire sulla persona giusta, crescere insieme, espandersi verso il radioso futuro.

Il giorno seguente sono stato chiamato per il secondo colloquio, che si è aperto così come si era chiuso l’altro, in modo circolare, cioè con il desiderio espresso di trovarsi davanti a qualcuno fuori dall’ordinario, qualcuno cui sottoporre un contratto nell’immediato, quasi sull’onda dell’entusiasmo. Di fatto, il lavoro era quello di dialogatore per alcune organizzazioni non governative, spesso indicate semplicemente come «brand»; una sorta di gavetta utile a sporcarsi le mani prima della scalata verso il successo interno all’azienda, da compiersi al ritmo di diverse parole chiave: formazione, determinazione, ambizione, team work, molta etica, completa meritocrazia, divertimento e coesione sociale (erano previsti viaggi premio in hotel a cinque stelle in località esclusive e cerimonie da oscar per festeggiare le migliori risorse e facilitare il networking). Mi si prospettava una crescita lavorativa inarrestabile che sarebbe entrata nella sfera intima e personale, per modellarmi a tutto tondo, una crescita totalizzante fondata sull’infinita formazione data da corsi ad hoc e scambi relazionali di livello: non soltanto avrei migliorato la vita di migliaia di persone attraverso la richiesta di sottoscrizioni in giro per la capitale, non soltanto mi sarei arricchito a partire da questo, ma avrei anche avuto la possibilità di conoscere tutti i segreti di una realtà aziendale fino a impregnarne il mio quotidiano, fino a fare di me una persona realizzata, in grado di rapportarmi con chiunque nel più efficace dei modi. Per qualche minuto, ho temuto che la recruiter mi chiedesse del mio percorso di psicoterapia, per poi suggerirmi di abbandonarlo in nome dell’azienda, perché, tanto, ci sarebbe stato il lavoro con loro a darmi tutti gli strumenti del benessere psicologico, a livello individuale e interpersonale, addirittura senza pagare alcuno ma, anzi, essendo pagato io stesso.

L’unica figura che non mi è stato prospettato di poter scalzare è stata quella del CEO, la divinità a capo dell’azienda madre, chiamata «provider», da cui ogni srl o srls discende e dentro cui risiedono giustizia, equità e controllo: per esempio – mi ha chiarito la recruiter – qualora il nostro manager impazzisse e decidesse di scappare col bottino, il provider subentrerebbe a risollevare le sorti della società allo sbando; oppure, qualora ci fosse una scalata al successo repentina, il provider controllerebbe la correttezza del percorso, valuterebbe gli effettivi meriti e ristabilirebbe l’ordine in caso di favoritismi. D’altronde – spiegava la recruiter – il CEO aveva percorso tutte le tappe della scalata altrove, da zero e senza un euro, e via via accumulato un sapere non riducibile alle sole competenze lavorative, si era librato; insoddisfatto delle storture del mondo, era giunto a voler condividere la sua trascendenza fondando una rete aziendale sinceramente meritocratica, votata, sì, a qualche, necessaria, incursione nel profitto, ma soprattutto alle cause umanitarie e alla formazione di persone più giovani, che avrebbero ricevuto concrete possibilità di realizzazione a tutto tondo. Più volte, la recruiter mi ha sottolineato la fortuna di trovarmi proprio lì, in quel momento, con una possibile svolta davanti a me: il nostro manager, infatti, era stato formato direttamente dal CEO e io sarei potuto essere a un grado di separazione, si fa per dire, da quella peculiare forma di buddità del buon capitalismo, ereditando per osmosi una veloce elevazione. Insomma, se fossi stato abbastanza all’altezza, avrei dovuto metterci solo determinazione e ambizione.

Dal canto mio, lo ammetto, non ho avuto la prontezza di porre alla recruiter domande del tipo: ma se, in caso di controversie, fa tutto il provider, allora a che cosa servono i tribunali lì fuori, nel mondo reale? Non ci ho pensato, in quel momento: più la recruiter proseguiva nell’esposizione, più avevo dubbi sulla sostanza di cui è fatto il mondo esterno, che di certo non è la stessa dei sogni. Nonostante lei mi avesse invitato a domandare e intervenire, io ero concentrato a metabolizzare il funzionamento del gruppo aziendale e delle sue reti, volevo afferrare quel futuro per soppesarlo e capire quanto ci potessi sopravvivere dentro, al netto dei viaggi premio e delle cerimonie da oscar, cose che mi imbarazzava anche solo immaginare. Non ho battuto ciglio nemmeno davanti alla retribuzione di settecentocinquanta euro al mese per un lavoro parasubordinato a tempo pieno, un «minimo garantito» che era, in verità, una soglia da dover raggiungere attraverso le provvigioni date dalle vendite (cioè dalle sottoscrizioni per le ONG). Settecentocinquanta euro di obiettivo minimo, ma non garantibile, che mi sarebbe stato corrisposto dalla società quasi in forma di donazione per beneficienza, persino nel caso di un suo non raggiungimento, perché «noi vogliamo investire sulle nostre risorse». Amabile sino a quel momento, intorno al compenso la recruiter si era velata di durezza e aveva puntualizzato che, insomma, i guadagni extra ci sarebbero stati solo dopo la soglia minima; che, per raggiungere l’obiettivo, non potevo mancare a nessun «evento», lavorando tutti i giorni per tante ore e infinito entusiasmo; che io avevo, sì, la libertà di scegliere come e quando presentarmi a lavoro – mi avrebbe proposto un co.co.co. – ma che la soglia minima si raggiungeva, ed eventualmente superava, dando una disponibilità di sei giorni su sette, per l’intera giornata e riversando il massimo della concentrazione. Di certo, in sintesi, non si raggiungeva con le pause sigaretta. Sotto sotto, ho avvertito una minaccia nascosta dietro quel «minimo garantito» e quella volontà di investire su di me: forse quei settecentocinquanta euro, utili a pagarmi l’affitto e tre o quattro spese al supermercato, non erano davvero miei ed erano più un prestito sui generis.

Come ultimo atto del secondo colloquio, la recruiter mi ha chiesto di rispondere a un questionario scritto, mi ha dato il tempo di compilarlo in tranquillità, è tornata quando le ho fatto un cenno, ha letto le mie nove righe, si è mostrata sorpresa, mi ha guardato negli occhi ed esclamato che non ci sono dubbi, sarei stato perfetto per loro e sarebbe stato un onore allungarmi il contratto, ero io la persona che cercava. Con calma, mentre pensavo che, ohibò, sono quella persona straordinaria di cui mi ha parlato più volte, le ho domandato del tempo per pensarci meglio, il tempo di un fine settimana. Lei sembrava aspettarselo, ha subito fissato un appuntamento per il lunedì successivo e mi ha assicurato di voler sospendere la selezione finché non le avessi dato io una risposta. La stessa sera, dunque, le ho chiesto una bozza del contratto, negata la mattina successiva per via di accordi di riservatezza con i «brand». Contemporaneamente, su LinkedIn spuntava l’annuncio di lavoro della società per fare da brand testimonial.

Durante il weekend, dopo svariate letture, sono riuscito a mettere a fuoco quel che mi aveva inquietato durante i colloqui, fuori dal processo di selezione, dalla storia incredibile della straordinarietà, qualcosa che avevo intravisto nel logo, in quel drago bidimensionale dentro uno stemma tridimensionale, qualcosa che aveva a che fare con la struttura chiusa dell’azienda, fatte salve le collaborazioni con i «brand». E mi è tornato alla mente il funzionamento di Forza Nuova, su cui ho lavorato in perdita per anni, e il suo sistema gerarchico e piramidale che poggia sulla militanza di giovani persone: i livelli di segretezza, l’afflato mistico, la suddivisione in aree di competenza, la nomina dei capi a livello locale e nazionale, la formazione infinita, la manipolazione e il raggiro. Da giorni mi chiedo quanta differenza ci sia tra il neofascismo imprenditoriale di Forza Nuova e questo buon capitalismo pacchiano fondato sullo sfruttamento, quanti e quali collegamenti ci siano rispetto a tutto un immaginario eroico di chi ce l’ha fatta, un immaginario plasmato su loghi e nomi altisonanti, su lodi al sacrificio, all’ambizione e alla determinazione, su un afflato verticale verso il potere che, irraggiungibile, viene cantato come egualitario, alla portata di chiunque e da chiunque voluto. Mi chiedo quanto sia difficile uscire dai processi interpersonali di manipolazione nel mondo della competizione capitalistica, quanto triste sia non vedere facilmente alternative, sottrarsi. Non ci saranno mie risposte, temo: per sopravvivere, ho smesso di scrivere.

La casa e l’elicoide

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di Mario Temporale 

La casa di nonna Natalia era una delle case del bambino quando ancora era bambino e nient’altro. Era grande, troppo grande per affezionarcisi, e stranamente vecchia.

Il bagno era in cortile, o meglio la casa aveva dei rubinetti per lavarsi e anche un lavatoio di pietra per i piatti e il bucato, ma il gabinetto era in fondo al cortile, in una stanzetta minuscola vicino al letamaio e prima della stalla dove vivevano due mucche.

La casa di nonna Natalia era solo un’altra casa dove il bambino era di passaggio, ma era più gentile delle altre perché il bambino si sentiva libero. Nessuno badava a lui, anche se era solo un bambino. Si sentiva un bambino giudizioso. Non voleva contrariare gli adulti perché sapeva che nulla li rendeva più nervosi di un bambino che li contrariava. Gli adulti nervosi hanno paura di perdere qualcosa, di perdere le macerie luccicanti che hanno trovato quando hanno lasciato l’infanzia, e per questo possono diventare aggressivi.

Il bambino voleva evitare di rendere gli adulti nervosi, ma per qualche ragione nella casa di nonna Natalia le cose apparivano più semplici, anche evitare le paure degli adulti pareva più semplice. Forse nonna Natalia era più adulta, un oltre-adulto, e non si lasciava turbare dai bambini, da lui in particolare. Lo lasciava giocare e amministrare il suo tempo a piacimento, doveva solo avvisare dove andava se usciva di casa, ed essere puntuale per il pranzo e per la cena. Il bambino era sorpreso ma anche confuso, avrebbe voluto che la sua casa fosse come quella della nonna, dove non doveva preoccuparsi di contrariare gli adulti, o di trovare modi per difendersi dalle loro paure.

Il bambino era un oggetto allo stesso tempo fragile e potente, con la sua sola presenza poteva indurre l’adulto a pensarsi debole e inutile. Quando ciò accadeva l’adulto era pericoloso. Nella casa di nonna Natalia il pericolo non era percepibile, ma il bambino sapeva che quella non era la sua casa, non lo poteva essere. Quella che era la sua casa non era accogliente come questa, però era un luogo a cui il bambino si stava abituando e forse affezionando perché c’erano i suoi giochi. Il bambino temeva che se fosse rimasto in questa casa avrebbe perso tutto ciò. La casa di nonna Natalia era un luogo di passaggio anche perché non conteneva i suoi giochi, quelli rimanevano nella sua camera nella casa dove viveva coi genitori. Perché non si poteva avere entrambe? Perché non ci si può sentire a casa dappertutto?

Nonna Natalia parlava poco, e il bambino non era abituato a fare domande agli adulti. La nonna parlava la lingua dei genitori, forse quella del telegiornale non la conosceva, perché non la usava mai.  Col tempo il bambino imparò quella lingua, anche se non era sicuro di poterla parlare e in cuor suo temeva di fare una cosa sbagliata parlandola. Se fosse stata una cosa giusta i genitori l’avrebbero usata dal principio con lui, invece di cercare di domare la lingua del telegiornale.

La nonna non aveva di questi pensieri, era un oltre-adulto, e a lui stava bene così. Un oltre-adulto parla poco, quasi niente, perché non possiede parole o forse ne possiede troppe. Il rapporto tra la nonna oltre-adulto e il bambino era fatto di silenzi, e forse anche per questa ragione sembrava funzionare. Però delle domande il bambino ne aveva. Aveva molte curiosità e le teneva per sé, confidando che un giorno si sarebbero, così, per magia, improvvisamente svelate. In qualche modo avrebbe trovato risposta a tutti i suoi dubbi.

Un giorno vide la nonna seduta al tavolo intenta a scrivere una lettera. Aveva sgomberato accuratamente il tavolo, e passato la tovaglia cerata con lo straccio per eliminare ogni possibile macchia d’unto. Aveva tolto bicchieri e il posacenere, e aveva aperto una lettera della figlia emigrata in Australia.

In alto, sulla parete a lato del tavolo, campeggiava una fotografia incorniciata dei genitori del nonno, degli ultra-nonni. Era una fotografia insolita, perché era grande come un quadro, incorniciata artisticamente come un quadro, e appesa con il lato superiore scostato dal muro di alcuni centimetri. Gli sguardi della coppia di vecchi eleganti, serafici e autoritari, incombevano su tutti come un altare dorato. Più che una foto di famiglia, pareva la foto di un despota temuto e di sua moglie, un Checco Beppe di provincia o un visconte dimezzato.

Sotto gli occhi dei vecchi padroni di casa, da lungo tempo defunti, la nonna, con indosso gli occhiali che di solito tirava fuori solo per leggere le necrologie nel giornale locale, e in mano una penna bic nera, appariva concentrata come non l’aveva mai vista. All’arrivo del nipote, la nonna mise via le carte e la penna, e le infilò nella dispensa, in uno scomparto che conteneva cose di carta che di solito ai bambini non interessano.

Il rapporto con la figlia emigrata appena maggiorenne in Australia era la cosa più cara e dolorosa che la nonna avesse. Era un legame speciale, molto diverso da quello che aveva con gli altri figli. Tutti i genitori hanno un figlio prediletto, ma di solito non vogliono che si capisca chi è. Nell’ambiente contadino in cui era vissuta la nonna, vigevano altre regole. Quella figlia nata presto e partita troppo presto, era una presenza speciale anche se viveva a quindicimila chilometri di distanza, dall’altra parte del globo. E poi chi era partito, ed era rimasto nell’emigrazione, era sempre più importante, agli occhi di un genitore come degli altri paesani, di chi era rimasto in patria o, peggio ancora, di chi era rientrato dall’emigrazione senza essersi fatto “una posizione”.

Il bambino capiva che sua madre non era importante come la zia dell’Australia. Forse se fossero rimasti nell’emigrazione anche lei sarebbe stata importante per la nonna. Di certo sarebbero stati più importanti perché avrebbero potuto infilare dei soldi nelle lettere, o portare dei regali a Natale o in estate, e farsi attendere da un anno all’altro. Il bambino sapeva che la ragione per cui non erano rimasti nella città di Q. era lui. Lo aveva detto la madre in un momento di paura o rabbia, che erano la stessa cosa. Più momenti di paura o rabbia.

La nonna aveva un segreto. Il bambino lo aveva capito quel giorno che l’aveva vista scrivere una lettera e lei se ne era quasi vergognata, o forse era solo che non voleva essere disturbata. Il bambino sapeva che non tutto quello che fanno gli emigranti è bello da raccontare. Lo stesso valeva per la zia dell’Australia. La nonna lo sapeva, e non voleva che nessun altro lo sapesse. Forse era quello il suo segreto, ma il bambino non osava chiederglielo. A cosa servono le parole se non si possono usare per chiedere?

Il bambino passava molto tempo in solaio, un solaio grande, lungo e grande, dove c’erano pannocchie e fagioli ad essiccare, mobili vecchi e una bicicletta tutta nera che sembrava non aver avuto mai altro colore. Il bambino immaginava di essere in un giardino-palazzo tutto suo. Quel solaio gli appariva così grande e lontano da tutto. Era perfetto.

Il mucchio di chicchi di granturco era una montagna dei desideri. Passandogli accanto ed esprimendo un desiderio si poteva credere che si avverasse. La macchina in cui si infilavano le pannocchie per sgranarle era un edificio misterioso, dove c’erano degli spazi nascosti in cui tenere i segreti.

Il mucchio di tutoli era più alto di quello dei chicchi, e il suo colore rosso scuro contrastava con il giallo della montagna vicina. Le due montagne, rossa e gialla, erano al centro del solaio e dominavano la visuale come due enormi pagliacci travestiti da regine. Una delle finestre era sempre aperta perché da lì veniva calata la carrucola con il cesto di vimini per portare su le pannocchie. La carrucola era fissata alla trave del tetto, sopra la finestra, che poi come tutte le finestre del solaio era strana, perché partiva quasi dal pavimento, era in basso, perché il soffitto era basso. Era una finestra perfetta per il bambino. Però la corda era molto grossa e per fare un nodo servivano delle mani che il bambino non aveva ancora; mani grandi da adulto.

La corda sciolta occupava una larga porzione del pavimento tra la finestra e la montagna rossa. Era attorcigliata in forme casuali e la si poteva ordinare creando un elicoide.  Un elicoide vicino alle montagne, quella rossa e quella gialla, era la combinazione ideale del palazzo-giardino. Nessuno avrebbe potuto oltrepassare questi sbarramenti. Il bambino aveva visto i film western e si era identificato con gli indiani perché dovevano difendersi dagli invasori. Anche se nei film li facevano vedere cattivi il bambino sapeva che gli indiani non lo erano fino in fondo, o non lo erano proprio. I cowboys non c’entravano niente con la natura, erano degli intrusi, degli intrusi invadenti. La natura era in sintonia con gli indiani. Anche un bambino lo poteva capire, perché gli indiani non perdevano tempo a costruire per distruggere, a distruggere per costruire, ma prendevano quello che la natura gli dava: se era poco o tanto a loro non importava.

L’elicoide formato dalla corda lunga e grossa era uno sbarramento ideale per proteggere il campo degli indiani. Solo degli invasori con l’aereo l’avrebbero potuto superare ma i cowboys l’aereo non l’avevano.

Il tempo del solaio era diverso dal tempo del cortile e dal tempo della cucina della nonna. Era un tempo senza tempo. Però il bambino sapeva che il tempo del solaio a un certo punto doveva combinarsi con il tempo del cortile e con il tempo della cucina della nonna. Così si affacciava alla finestra, quella sempre aperta, e scrutava l’orologio sul fianco del campanile. Aveva imparato a leggere i numeri romani e di questo era orgoglioso. E anche se si dimenticava di guardare il campanile, le campane gli avrebbero ricordato il passaggio del tempo. Dodici rintocchi, mezzogiorno. Un rintocco, l’una. La vita del paese era regolata dalle campane ed era difficile sbagliarsi, una volta imparate le ore.

Immagine di Harry Strauss da Pixabay

Tommaso Fiore

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di Pasquale Vitagliano

In un momento storico in cui c’è chi propone un federalismo differenziato, sarebbe utile riscoprire la figura di Tommaso Fiore, a cinquant’anni dalla sua morte. Comprenderemmo che l’idea di un’Italia federale non è nuova. Ritorniamo a Cattaneo, scrisse Fiore in un articolo del 1923. E Norberto Bobbio considerò questo articolo fondamentale per convincere Piero Gobetti della bontà del progetto federale del milanese Carlo Cattaneo. Insomma, il federalismo non c’entra nulla con la “secessione dei ricchi” che qualcuno vorrebbe realizzare sotto mentite spoglie.
Certo, è un peccato dover aspettare gli anniversari per aggiornare la nostra agenda culturale e politica. Ma facciamo di necessità virtù. Ecco, che ci rendiamo conto che la Questione Meridionale, tutt’altro che risolta, pesa ancora;  che, d’altra parte, non è mai esistito un Sud abbarbicato sulla propria identità e chiuso in uno lamentoso provincialismo. Nato ad Altamura, Tommaso Fiore frequentò Pascoli, collaborò con Piero Gobetti, fu tra gli ispiratori del Partito d’Azione e del filone liberalsocialista.
Il saggio di Daniele Maria Pegorari, Le utopie di Tommaso Fiore, un itinerario politico e letterario, è utile, dunque, allo scopo di cambiare l’attuale palinsesto del dibattito delle idee. Suggestiva è l’idea di partire dal nome Tommaso, condiviso con Moro e Campanella (ma io aggiungerei anche il discepolo incredulo), per ricostruire la figura di un intellettuale, meridionale solo per ascendenza, che per un’intera, lunga vita seppe conciliare l’aspirazione all’utopia con la pratica politica del possibile. Il suo impegno civile è stato integrale, “come studio meticoloso e azione diretta, senza schemi, senza salvacondotti, esponendosi prima alla trincea di Caporetto e poi alle carceri fasciste, sempre con la medesima dignità e sempre avendo a cuore un equilibrio perfetto fra pensiero e prassi.”
Il merito di questo saggio, tuttavia, è di aver fatto emergere in tutta la sua singolarità la qualità della scrittura di Tommaso Fiore. In primo luogo, egli è stato tra i primi sperimentatori del reportage letterario. Ma soprattutto, sotto l’aspetto letterario, il suo stile è riuscito a “fondare” la geografia pugliese (e sudista) nell’immaginario nazionale. Nelle Lettere pugliesi, per esempio, la città di Taranto diventa “una città magica, molto probabilmente ignota al miglior Calvino”. Qualche volta sbucate senza volerlo in un cortiletto irregolare come uno straccio fatto di dieci altri, ma nemmeno di qui si avanza molto: un pilastro con una nicchia e dentro un santo, non si sa quale, vi sbarra la strada. Ed aggiungerei che si sente già il brulichio della città pasoliniana.
Se sulla sua generazione, da Gaetano Salvemini e Elio Vittorini, ha pesato la responsabilità di partecipare ad un processo inedito di “nation building”, direi che, come testimoniano opere come Un cafone all’inferno e Un popolo di formiche, questa epopea laica è tutt’altro che conclusa. Dopo le pietre dure della Murgia, questa utopia consentirà anche di riconciliarci con l’acqua dei fiumi.

 

Cercare forme. L’opera e l’eredità di Giuliano Mesa

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Cercare forme. L’opera e l’eredità di Giuliano Mesa

Convegno internazionale – Alma Mater Studiorum, 15-16 giugno 2023

Programma | Aula V – Via Zamboni 38

15 giugno 2023 – ore 9
Saluti istituzionali

Prof.ssa Loredana Chines | Vicedirettrice – Dipartimento di Filologia Classica e Italianistica
Prof. Alessandro Baldacci | Università di Varsavia
Tiziana de Novellis | Pozzuoli | Ritratto di un poeta letto da Luigi Severi
Sergio Rotino | Bologna

15 giugno 2023 – ore 9.30
Presiede Stefano Colangelo
Prima sezione. Genealogie e intertestualità

Giancarlo Alfano | Il fruscio del vento lucreziano. Evento, atto, struttura nella poesia di Giuliano Mesa.
Florinda Fusco | Tra gli inferi contemporanei. La presenza di Dante nel Tiresia.
Bernardo De Luca | Mesa e il Modernismo.
Marco Giovenale | Visione, voce, dovere. Il Tiresia di Giuliano Mesa (non senza Eliot e Woolf).
Lorenzo Mari | “¡Cuídate del futuro!”. Mesa e Vallejo: la scoperta della poesia.
Marta Serena | «ancora non hai còlto il tuo narciso, e il croco già fiorisce»: Giuliano Mesa in dialogo con Günther Anders.
Alessandro Baldacci | “Dove ti sto cercando”: Giuliano Mesa e la poesia di Paul Celan.

15 giugno 2023 – ore 14.30
Presiede Giancarlo Alfano
Seconda sezione. Analisi testuali

Andrea Inglese | Il canto dell’orrore: sul Tiresia di Giuliano Mesa.
Francesca Nardi | “Balbettare, mal dire, riannodare”: riflessioni sulla distanza nel Tiresia.
Vito M. Bonito | Variazioni Mesa.
Luigi Severi | Da Dante a Beckett (e ritorno): caos e strategie di voce in nun.
Annalisa Pagliuso | Terre che perdono l’incanto: Tiresia testimone del degrado tra Waste Land e Erstgeborene Land.
Gian Luca Picconi |“Tu, se sai dire, dillo”. Appunti sull’imperativo nella poesia di Giuliano Mesa.
Andrea Raos | Mesa e la musica.
Fabio Orecchini | philia.

16 giugno 2023 – ore 9.30
Presiede Andrea Cortellessa

Fabrizio Maria Spinelli | La funzione della deissi nei Quattro quaderni.
Isabella Tomei | Poesie per un romanzo d’avventura: collateralità spaziali.
Francesca Mazzotta | L’agire e presagire senza vaticinio della lingua mesiana. Paragrafemi, litote e forma plurale tra I loro scritti e Quattro quaderni.
Giuseppe Giorgio Tranchida | Quartetto e variazione: sulle strutture musicali nella scrittura di Giuliano Mesa.

16 giugno 2023 – ore 14.30
Presiede Alessandro Baldacci
Terza sezione. Eredità e riusi

Cecilia Bello Minciacchi | «Così diversi da potersi specchiare». Giuliano Mesa, e Lorenzo Durante.
Chiara Portesine | Epigrafi, medagliette, lasciapassare testamentari: la funzione-Mesa, tra eredità e moda.
Marilina Ciaco | Eredità e dismisura. Mesa e la linea tragico-rituale nella poesia di ricerca del Duemila.
Stefano Colangelo | “Nella storia non futile che stiamo vivendo”: il verso di Giuliano Mesa oggi.

 

a seguire
Tavola rotonda: Giuliano Mesa nel nostro tempo

 

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EVENTO SERALE
15 Giugno – ore 21:30
DAS Dispositivo Arti Sperimentali

[…] bipedi scarabei
Da ‘Tiresia’ di Giuliano Mesa

Francesca Nardi | Toi Giordani | Gabriele Stera

La performance è parte della rassegna Vocifera, curata da Zoopalco, e sarà mostrata in anteprima per il festival di scritture contemporanee Grisù a cura di Spazio Letterario in collaborazione con l’Università di Bologna.

Geografia umana dell’alterità e migrazione del corpo. Su “Isola aperta” di Francesco Ottonello

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di Teresa Tommasini

Con un verso di Hart Crane «la memoria, affidata alla pagina, è stata rotta» si apre l’arcipelago di poesie che compongono Isola aperta (Interno Poesia, 2020, pref. Tommaso Di Dio, Premio Gozzano e Premio Internazionale di Letteratura Città di Como Opera Prima). È questa stessa epigrafe a introdurci in medias res nell’aura di declino e di infuturibilità del poeta e forse dell’intero genere umano. La prospettiva da cui il crepuscolo della rigeneratività viene osservato è la peculiarità di questa raccolta, non di rado affiancato dal tema del nostos, il viaggio attraverso cui l’autore ritorna presente a se stesso dopo essersi espatriato, vissuto come un esodo da sé per approdare ad altro, per “fare di sé un altro sé”, come recita il titolo shakespeariano Fai di te un altro te (con un’eco del sonetto X).

Mots-clés__Sobborghi

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Sobborghi
di Daniele Ruini

Piero Ciampi, I sobborghi -> play

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Da: Giorgio Manganelli, Hilarotragoedia, Adelphi, 1987

Chiamiamoli sobborghi: non vi troverete né strade, né quartieri, né autobus, né stracci di giornali, né capsule di bevande analcooliche, né preservativi appiattiti contro il suolo, come bambini sordi sotto un bombardamento, che, quando è finito, ancora aderiscono al pavimento; non vi giocano infanti, né camminano convergenti amanti morituri; abitati, sì, e non radamente: ma non cercherete famiglie, né tribù, né convegni per portici e piazze, né colloqui, se non minimi, necessari, sommessi. Forse è cielo quella piazza capovolta, quale debbono vedere i pesci dal fondo del mare in giorni di pioggia immobile; ma come scarso il mutar delle luci dall’alba al tramonto; e forse non sarà arroganza nomenclatoria catalogar di «erba» quella muschiosità violacea, o «piante» queste dita da vecchio stradino, che sporgono da una sabbia inospite e raschiosa. Insomma, sobborghi: sgradevoli cumuli di sassi e asfalto che qualche demagogico sindaco degli inferi si provò a stendere a pelliccia della terra lebbrosa.

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[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. Ogni prima domenica del mese, Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]

“Le paure”. Un racconto di Natalia Meščaninova

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ph. Alexander Gronsky - dalla serie "Pastoral: Moscow Suburbs"
ph. Alexander Gronsky – dalla serie “Pastoral: Moscow Suburbs”

 

Introduzione e traduzione collaborativa
a cura di Giulia Marcucci

Natalia Meščaninova è nata nel 1982 in un paesino nei pressi di Krasnodar. La sua infanzia e la sua adolescenza sono segnate da abusi da parte del patrigno, conflitti con la madre, violenze e soprusi dei coetanei. Meščaninova lo racconta nel suo debutto letterario Rasskazy (Racconti), una raccolta uscita nel 2017 per l’editrice pietroburghese Seans; la traduzione inglese a cura di Fiona Bell è finalista del premio Fireckracker Award e il nome del vincitore/vincitrice sarà annunciato alla fine di giugno.

Meščaninova, allieva dеlla scuola di cinema documentario e teatro fondata da Marina Razbežkina e Michail Ugarov, è sceneggiatrice – importante è la sua collaborazione con Boris Chlebnikov, Oksana Byčkova e Aleksej Fedorčenko, alcuni tra i nomi centrali della cinematografia russa contemporanea – e regista anche di serie televisive. Il film Malen’kij nočnoj sekret (One Little Night Secret, 2023), che si ispira a quanto narrato nei suoi racconti, è stato inserito nella sezione Big Screen Competition della cinquantaduesima edizione dell’International Film Festival di Rotterdam.

Per i lettori e le lettrici di Nazione Indiana si propone in anteprima la traduzione italiana del racconto Strachi (Le paure) che apre Racconti e che è il frutto di un lavoro collaborativo all’interno del Laboratorio di traduzione letteraria dal russo (Laurea Magistrale in Scienze linguistiche e comunicazione interculturale dell’Università per Stranieri di Siena) tenuto dalla sottoscritta e al quale hanno partecipato Agata Banella, Leonardo Breschi, Anna Gonnelli, Bruna Grieco, Elisa Martinelli, Martina Rogai e Ester Santori. Ringraziamo Claudia Zonghetti, che è intervenuta nel laboratorio con un prezioso lavoro di revisione finale. Come scrive Tiphaine Samoyault in Traduction et violence, «La traduction est un art collectif; elle permet de réfléchir à des formes de collectivisation du littéraire, à plusieurs niveaux: parce qu’on y est toujours au moins deux, et qu’on peut être aussi plusieurs». Riflettere in modo plurale su un testo come quello di Meščaninova, caratterizzato da una scrittura cinematografica con immagini vive intrise di paura, violenza e trauma, illusioni e delusioni legate alla quotidianità in una cittadina di provincia russa negli anni Ottanta e Novanta, è stato un modo sicuramente stimolante per provare a superare insieme le resistenze – linguistiche, culturali ed emotive – del testo di partenza, restituendo un’unica voce a questa promettente scrittrice e affermata regista, alla quale siamo molto riconoscenti per aver concesso la pubblicazione della traduzione.

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Le paure
di Natalia Meščaninova

Fin da piccolissima quasi tutte le mie paure erano legate a mia madre. Sarà che era una “cardiologica” (difetto congenito al cuore), oppure sarà che da bambina, fino a sei anni o quasi, non l’ho vista felice nemmeno una volta, sempre e soltanto isterica… Comunque, ho ancora i denti da latte e la cosa che più mi terrorizza è che mia madre muoia. La mette sotto una macchina. Tipo: lei rientra dal lavoro e una macchina la mette sotto. Stesa. Io guardo dalla finestra, seduta sul davanzale con le gambe a W: niente, non torna. Ecco l’autobus, ecco la fila di formichine dalla fermata alle case. Mamma non c’è. L’hanno messa sotto. O ancora. Cade dalla finestra. È lì che stende la biancheria o pulisce i vetri e perde l’equilibrio. Difficile sopravvivere, cadendo dal quarto piano. O ancora. Infarto. Uno l’ha già avuto. Al secondo non regge sicuro. Se invece succedesse qualcosa a me? Morirebbe di dolore. O è il dolore che le provocherebbe l’infarto…

Mia madre non bisognava farla preoccupare: questo l’avevo imparato alla svelta. E infatti con ancora i pannolini già mentivo alla grande. La qual cosa non risparmiava a lei le preoccupazioni, ma illudeva me di proteggerla, e la mia paura per la sua vita faceva dietrofront. Per mia madre io non avevo mai problemi: ottimi voti a scuola, frequentavo circoli vari, scrivevo poesie, giocattoli in ordine. La paura di turbarla era più forte della verità, più forte dell’egoismo. La paura di perderla mi paralizzava.

In più avevo molta paura della guerra. Non so spiegarmi da dove mi venisse, nessuno aveva mai usato la guerra come spauracchio, e per quanto in guerra il nonno fosse rimasto ferito, non aveva mai usato i suoi racconti di battaglia per sconvolgere le mie fantasie. Non guardavo neanche i film di guerra: non sopportavo nemmeno l’idea. La paura della guerra mi veniva da un sogno, credo. Si ripeteva, quasi sempre lo stesso: sono un maschio, un soldato, e schizzo da un campo verso un bosco. Un elicottero tedesco mi insegue, sento con la schiena la raffica di mitragliatrice che corre sull’erba bagnata e mi raggiunge. Così è: mi sforacchia con pallottole enormi e il dolore è infernale. Sento i tedeschi: esultano. Poi muoio. Poi mi risveglio, ma non riesco a muovere le gambe e le braccia, e nemmeno riesco a gridare, distesa come un tronco inerme, e penso: ora che mi hanno uccisa in guerra, mia madre di sicuro morirà di crepacuore. I sogni di guerra zampettavano da una notte all’altra con un fruscio da scarafaggi. Alternati a quelli in cui mia madre cadeva da una rupe e si schiantava con un tonfo sordo contro uno scoglio.

Un’amica mi aveva detto: bisogna scrivere la propria paura su un pezzo di carta come se fosse storia vecchia, ma in codice, così la paura passa. Il codice l’avevo trovato: prima scrivevi l’alfabeto dall’alto verso il basso, poi dal basso verso l’alto, al contrario. E ti ritrovavi con: A-Z, B-V, C-U e così via. Io avevo scritto: nz mzmmz s edzdz olboedodz (la mamma è stata investita). E avevo messo il foglio su una mensola. Mia madre l’aveva trovato, aveva pensato che ero di nuovo sonnambula, e l’aveva portato alle colleghe per far vedere che – appunto – camminavo nel sonno e scrivevo chissà quali stronzate. Stupore delle colleghe, il foglio che sparisce. Poi mia madre qualche anno dopo sotto una macchina ci finisce per davvero e si salva per miracolo. Tutti noi che la conosciamo doniamo sangue a litri. Prendetemene di più, di più!, insisto io. Mi presento ogni settimana al centro prelievi: mi mandano via perché il sangue non si può donare spesso. Mia madre rimane a lungo tra la vita e la morte. Io passo le giornate nel suo reparto d’ospedale. Le volte che dorme senza un fiato, fisso terrorizzata la sua pancia. Fiuu, anche se poco, ma si solleva: respira, è viva. Era tutta colpa mia, credevo. Perché avevo scritto quella cosa, e per di più in codice? Di fatto era stata una specie di sortilegio. E quello che scrivi si avvera. La teoria – non si devono scrivere cose brutte perché si avverano – aveva avuto più di una conferma, pur non essendo particolarmente convincente, però nessuno mi credeva.

Ma questo sarebbe successo poi; allora, da piccola, la paura che mia madre morisse era infondata, questa perdita dentro di me esisteva già, e mi bastava pensarci un attimo per sentire un dolore ossessivo. A lei non l’ho mai detto.

Però c’erano anche un sacco di paure fondate! Le cattive compagnie. I gruppetti di adolescenti cattivi e brufolosi davanti a scuola; mani sporche e puzzolenti di fumo che si allungavano verso la mia gonna: vecchia di due anni, ma pulita. Mi toccava aspettare per strada e attaccarmi a un’ insegnante: «Saaaaaaalve, Inna Aleksandrovna! Faccio la strada con lei! Sì, sì! Tutto bene, grazie! Eccome se ho studiato, altroché».

In classe non si salva nessuno: solo cattive compagnie. Una ragazza si masturba durante le ore di letteratura, diventa tutta rossa. Tutti sanno cosa sta facendo tranne l’insegnante. Finita l’ora, nello sgabuzzino le facevano di tutto. Per la vergogna, lei neanche strillava, ansimava soltanto. Che paura, tanta paura: nell’intervallo devo uscire dalla classe, meglio il corridoio, meglio prendersi una botta da uno dei grandi al culo o all’amor proprio pur di non sentire quello che le fanno, quelle risatine soffocate, quegli strani gridolini. Ma perché gli insegnanti non se ne accorgono? Perché dopo la campanella si riversano come automi nell’aula professori? Perché li lasciano godere negli sgabuzzini?

Mamma, oggi a scuola non ci vado. La gamba, mamma. Mi fa malissimo la gamba. No, il dottore non serve, sono i reumatismi (e questa, dove l’avrò sentita?). Mia madre ci cascava sempre. Credeva anche alla più banale, alla più assurda delle mie bugie.

Sera. Mia madre grida dal corridoio: “Nataša! Per te!” Alle sue spalle, nel vano della porta, c’è LUI: il più cattivo tra i più cattivi, sta al primo piano, passo sul suo pianerottolo ogni giorno. Schizzo davanti alla sua porta come una scheggia e mi sembra sempre che mi stia guardando dallo spioncino e sogghigni con il più malefico e marcio dei suoi sorrisini.

MADRE! Come fai a non capirlo: è una cattiva compagnia! Madre! Perché mi hai chiamata! Perché non gli hai detto che non c’ero! Che non c’ero e non ci sarò. Perché non lo prendi per un orecchio e non lo minacci di suonargliele, invece di chiamarmi con quella vocina gentile come se fosse arrivato il mio migliore amico per fare gli origami???

Esco. Mi palpa con gli occhi e chissà perché mi tira un calcio in mezzo alle gambe. Nelle palle, se le avessi avute. «Domani portami i soldi. Tutti quelli che hai. O ti salto addosso dall’albero».

Dall’albero mi saltava addosso regolarmente, dato che i soldi non ce li avevo mai. Sarà una cosa che gli hanno insegnato nelle cattive compagnie, che ne so io…

Prendo le mie cose e della roba da mangiare e mi incammino lungo i binari. Per Mosca. Previo chiarimento che bisognava andare verso nord. Ma siccome mi era scappato detto con un’amica, verso sera mi avevano già beccata. Mia madre: mani nei capelli. Niente, non avevo pensato alla sua tranquillità, Mosca era un lusso improponibile. Dovevo sopravvivere qui. Dovevo esserlo anche io, una cattiva compagnia. Anche perché di compagnie buone da noi non ce n’erano, neanche a mettercisi d’impegno. Le compagnie erano tutte cattive, cattive proprio, pessime e molto pericolose. Pericolosi erano i giochi tra gli alberi lungo la ferrovia. Cosa non succedeva fra quelle piante tutte trilli di usignoli e fiori di acacia.

A cinque anni: bambine legate ai tronchi e picchiate con l’ortica fino alla crisi isterica, finchè il loro corpo non era tutto rosso. Seguivano le bugie alle madri: c’eri caduta da sola, tra l’ortica.

A dieci anni: ti facevano sdraiare sulle traverse fra i binari per aspettare il treno in arrivo, che ti doveva passare sopra senza che tu ti cagassi  addosso. Una volta il branco aveva costretto un ragazzo a farlo, e lui ci era riuscito. Poi sua madre lo aveva spedito in città a vivere dalla nonna, per sempre. Non l’abbiamo più rivisto. Evidentemente, con quella merda addosso, non era stato bravo a mentire. Meritava solo disprezzo, fu dimenticato per sempre.

Io per la vergogna mi sforzavo di non ripensarci, però quel ragazzino pieno di merda non mi dava pace. Volevo una sua lettera. Volevo che mi scrivesse qualcosa del tipo: «non mi sono cagato sotto, sto con la nonna perché sta per morire e ha bisogno di cure. Dopo essermi steso sotto il treno, ho capito molte cose e sono diventato un uomo. Salutami tutti quanti…» etc. Ovviamente non mi ha mai mandato lettere. E lo hanno spedito dalla nonna per tenerlo lontano dalle cattive compagnie. Io una nonna così non ce l’avevo. Nel senso, la nonna ce l’avevo anche, ma mandarmi da lei non era possibile: secondo lei mangiavo come una fogna, e sopportava comunque poco i nipoti.

Chiedere agli adulti di proteggerti era una causa persa. Nemmeno di loro ci si poteva fidare. Io stessa ci ho sbattuto i denti. Scappavo spesso dal doposcuola e, per ammazzare il tempo, girovagavo per il paese. Mia madre era al lavoro, io ero senza chiavi di casa. Da mangiare me lo dava la vicina. Una volta gironzolo intorno a un negozio, quando mi si avvicina un tizio con la bici. Mai visto prima. È gentile. Dice di essere un amico di mio padre. Mio padre da un paio d’anni aveva un’altra famiglia e i suoi amici non li conoscevo. Quindi ci poteva stare che avesse quell’amico simpatico con la bici. Siamo andati a fare un giro. Mi ha un po’ scorazzato per il paese e poi fa: «Andiamo nel bosco nuovo».

Era una bella giornata, aprile se non maggio; il bosco era già verde e profumato. Ci siamo entrati come in una fiaba: l’erba era alta e fitta. L’amico di mio padre mi fa scendere dalla bici, e poi scende anche lui. «Ci stendiamo?» mi chiede, e si sdraia sul prato. E io faccio lo stesso. «Sai una cosa», dice, «è bello starci nudi sull’erba». Io non ne ero mica così sicura, mi ero già sdraiata nuda sull’erba e dopo mi ero grattata per tre giorni. Però l’amico di mio padre ne era convinto e aveva iniziato a togliersi i pantaloni.

Per mia fortuna, l’amico di mio padre non c’era mai stato in quel bosco e non sapeva che spesso ci passava la gente che scendeva dal treno. C’erano sentieri dappertutto. Lui non li aveva notati, nascosti nell’erba alta. Insomma, mentre si toglie i pantaloni, di colpo compaiono delle persone. L’amico di mio padre si agita. Poi la catastrofe: sul sentiero, scesa dal treno, arriva una maestra del tempo pieno. Vede me sdraiata a terra e l’amico di mio padre che si allaccia la cintura con un sorriso forzato. Esclama: «Ah però». Lei dice «ah però», e io sprofondo. Anche l’amico di mio padre sprofonda. Poi la maestra fa: «Lei sarebbe?». Lui balbetta che è un amico di mio padre. Lei chiede: «E suo padre si chiama?». Lui risponde: «Nikolaj… Petrovič?». «No! – esulta lei – Si chiama Viktor Fedorovič». Io l’ho guardato con disprezzo e ho scosso la testa. «Caspita!» ho pensato. «Caspita! Saremmo potuti diventare ottimi amici!».

La tiravano per le lunghe: lei voleva chiamare la polizia, ma i cellulari non c’erano ancora e toccava fare un pezzo di strada per trovare una cabina telefonica. Il falso amico di mio padre non ne voleva sapere di sbattersi. Si sono urlati addosso per altri cinque minuti, poi lui di colpo è sparito. E la maestra è passata a me. Mi ha portato a casa, lungo la strada ha urlato come una pazza e quando abbiamo incrociato mia madre al negozio, ha urlato ancora più forte e le ha raccontato nelle tinte più fosche che mi aveva trovato nell’erba con l’amico di mio padre.

Traditrice, ho pensato. Brutta stronza. Non capisce, non ha cervello! Non capisce che mia madre non bisogna farla agitare, che non reggerebbe un secondo infarto! Mia madre mi ha portata a casa, e incazzata com’era me le ha date con la corda per saltare. Allora mi è stato chiarissimo che nemmeno con i grandi bisognava fare amicizia.

Avrei voluto essere amica dei fantasmi, oppure dell’uomo invisibile o degli extraterrestri. Loro dovevano essere forti e leali, dovevano proteggermi. Tutti avevano paura dei fantasmi, io li cercavo. Niente da fare. Anche se alcune volte ho simulato bene un contatto davanti a mia madre e lei di nuovo mi ha creduta. Infatti dopo diceva alle colleghe che non solo ero sonnambula, ma pure sensitiva. Inebriata dalle mie bugie, raccontavo a mia madre di morti che arrivavano dall’aldilà e di marziani da altri pianeti. I morti veri non li ho mai incontrati, però. Peccato. E manco un fantasma in tutta la vita! Avevo solo amici reali, in carne e ossa.

E crescevamo, io e la mia losca compagnia. Erano arrivati il fumo, l’erba, l’alcol, tutto nel solito boschetto. Poi i primi amplessi precoci.

A quel punto una notizia agghiacciante sconvolse tutto il paese turbando persino i più cattivi. «Sette adolescenti hanno brutalmente violentato e ucciso un dodicenne nel bosco. Gli hanno cucito la bocca perché non gridasse, gli hanno infilato del filo spinato nell’ano, finché non è uscito dalla gola…». Le  descrizioni abbondavano: brividi al solo pensiero. Poi li avevano presi, quegli adolescenti, e li avevano anche messi dentro, ma dopo due anni erano tutti fuori dal primo all’ultimo. E frequentavano le nostre feste nella Casa della Cultura. Sette assassini con la birra in mano che squadravano le ragazze che, per qualche motivo, ballavano contorcendosi ancora di più. Allora andava molto di moda ballare contorcendosi. A sorvegliare l’andazzo c’era un’impiegata della Casa della Cultura, la quarantacinquenne Vera Fedorovna. Che osservava compiaciuta le ragazze contorcersi e succhiarsi la birra degli assassini. Con il mezzo sorrisetto di chi ha tutto sotto controllo, assassini e ragazze.

Dalla discoteca bisognava uscire prima di tutti, ma fingendo che non te ne stavi ancora andando – tipo che uscivi un secondo a prendere una boccata d’aria e poi rientravi. E invece via, schiacciata contro il parapetto, senza farmi vedere, poi l’aiuola, al buio, poi attraverso la strada, sotto gli alberi, e via a casa, a casa! Perché nessuno degli assassini ti si attaccasse addosso, perché fossero sicuri che saresti tornata a contorcerti ancora un po’ davanti a loro, e che poi avrebbero potuto «accompagnarti», cioè molestarti e scoparti nel bosco, se ti andava bene. Insomma era essenziale squagliarsela prima, svicolare inosservata davanti alla porta del primo piano dietro cui si nasconde il “saltaddosso”, e poi, quatta quatta, senza fare rumore, raggiungere il mio quarto piano. Occorreva innanzitutto accertarsi che non ci fosse nessuno sul pianerottolo buio tra il terzo e il quarto. Perché spesso qualcuno c’era: spaccava la lampadina, mi aspettava lì e non mi lasciava tornare a casa da mia madre, che andava a letto presto e dormiva beata senza sapere che su quel pianerottolo alcune bestie – e futuri assassini, poco ma sicuro –  stavano palpeggiando sua figlia ovunque. Dormi mamma, dormi nella tua culla di vimini, che lui ha già il filo spinato in tasca, ora lo prende e domani la gente si spaventerà a morte e tu morta dal dolore lo sarai davvero.

Un giorno, poi, qualcuno ha squarciato la porta imbottita di casa nostra, dell’interno 15. Strrrapp: col coltello da cima a fondo. E sul muro all’ingresso, bestia, ha scritto «Nataša succhiami il cazzo». L’ovatta gialla fuoriusciva dallo sbrego senza ritegno. Che vergogna pazzesca! Poi qualcuno ha coperto la scritta con la vernice. E noi abbiamo ricucito la porta. Altro squarcio in un altro punto. Altra ricucitura.

Altro incubo da aggiungere alla lista: arrivo al quarto piano e il saltaddosso, con il pisello di fuori, squarcia con un coltello la porta, da cui sgorga sangue perché in realtà la porta è mia madre. Il pianerottolo è pieno di sangue, e pieni di sangue sono anche il coltello e il pisello del saltadosso. Quel sogno, che si ripeteva con una puntualità invidiabile, riusciva a oscurare anche i sogni di guerra, i cari, eroici sogni di guerra.

Mamma perché non andiamo via, eh? Perché non ce ne andiamo al sud, a Abrau-Djurso? A Vyselki? In qualsiasi cazzo di posto, mamma! Sì sì, ora ce ne andiamo, diceva mia madre distratta, volevamo andare anche in Kamčatka, giusto? Mamma dico sul serio! Non ce la faccio a vivere qui! Sì, sì, dai che prima o poi ce ne andiamo, stai tranquilla! Adesso mamma, adesso!

Niente. Non se ne è mai andata, vive ancora là, tra assassini e saltaddosso, che hanno fatto in tempo a sposarsi e figliare e strabordano di grasso. Vive ancora nell’appartamento con la porta tagliata, cucita e ricucita. Va al negozio passando vicino agli assassini che sgranocchiano semi coi passeggini accanto. La salutano, è una di loro. Tutto si è placato. E al quarto piano nessuno fa più gli agguati.

Sono andata a trovarla e ho scrutato in ogni spigolo delle mie paure con la bottiglia del cognac pronta e sottobraccio a mio marito. La bottiglia ce la siamo scolata, abbiamo vagato sbronzi per il paese e abbiamo sbeffeggiato quelle paure. Ridevo di gusto, piegata in due. Provavo a nascondere dietro le coliche delle risate il gelo che avevo nello stomaco. Il gelo del piombo tedesco, del filo spinato, della lama d’acciaio del coltello e di un orribile pisello di fuori.

Pièces & Regards

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Da Pièces, di Francis Ponge (1962, traduzioni di Giovanni Cianchini)

 

L’insignificante

Cosa è più attraente di un cielo azzurro se non il docile chiarore di una nuvola?

È per questo che preferisco una qualsiasi teoria al silenzio, e anche più di una pagina bianca, un pezzo scritto che passa come insignificante.

Questa è tutta la mia pratica, e il sospiro che mi ristora.

 

 

 

 

Il cane

Procedo liberamente,  leggo un sacco, mi sento in dovere, a dire il vero, di riandare indietro a quelle tracce, per cercare ancora.

Amici… eccomi qua…!

(se mi esprimo, devo pur avere qualche lettore.)

 

 

 

 

Il piccione

La pancia piena di grano, veleggi giù per la via,

santa pancia grigia di piccione…

 

Come pioggia battente avanzi baldanzoso, gli artigli ben distanziati

Precipiti, invadi il prato,

Dove prima zompettavi

Con tubare delizioso, roboante.

 

Presto ci mostri la tua gola arcobaleno…

 

Quindi voli via di lato, con un gran battere

D’ali, che tendono, piegano o spezzettano

La coperta di seta delle nuvole.

 

 

 

 

Specialità delle fragole

Il muco che cresce dalle fragole, arrossisce le foglie più basse.

Aggiungici “le rose” (i detriti cristallini) dello zucchero…

Il gambo del trifoglio porta fuori dalla fragola una piccolissima pagnottella di zucchero, abbastanza insipida.

Bestie, rifocillatevi delle fragole che ho scoperto per voi.

 

 

 

 

L’adolescente

Come una vettura con una buona tappezzeria, hai lucidato le ginocchia, la vita snella, il busto bene all’indietro come un conducente nella sua cabina.

Ti conduci, guidi te stessa; il tuo pensiero non è del tutto separato dal corpo.

Perché improvvisamente ti arresti?

– Le due fiale di una clessidra a poco a poco si includono l’una nell’altra.

Nel seno delle donne uno apprezza la rotondità e la solidità del frutto;

come cala giù, il gusto e la succulenza dello stesso.

 

 

 

 

La semplicità definitiva

L’appartamento di nostra nonna è stato ridotto qualche anno prima della fine della sua vita, privato della sua stanza più grande in favore di una enorme, sanguigna vedova. Delle tre stanze rimaste la nonna occupava, ciascuna a seconda dell’ora, solo un angolo. Nella sua camera, il disordine era limitato al letto.

Le finestre sporgevano sulle cime di un giardino senza umidità, un cielo sempre bellissimo, soltanto azzurro o pervinca a seconda della stagione, qualche volta pallido in inverno come la sputacchiera smaltata.

…Quasi per nulla calpestato, il tappeto del piccolo salotto. In camera da letto, nonostante qualche ora di attività, non maggior disordine. Mi ci sono sistemato per una parte della notte, non lontano da una finestra spalancata. Lei non si è più spostata, ritirata nel mezzo del letto, il più lontano possibile.

Ma poi le cose cambiano rapidamente. La stanza di un morto diventa in poche ore una specie di magazzino. Non molte cose e nessuno lì: un po’ come uno scarto, un feto, un bambino lercio al quale non si è più tentati di indirizzare una parola – non più che a un neonato rosso mattone che viene fuori dalla pancia di una donna in travaglio.

 

 

 

 

Il granaio

Ogni casa, tra il soffitto e il tetto, ha la sua navata profana, che corre per tutta la lunghezza delle camere. Quando uno spinge la porta per entrare, la luce entra con lui. La vastità lo sbalordisce. Qualche pietra nera alla fine indica il muro del camino.

Disteso sulla trave A, lui volentieri insegue una fantasia in onore del muratore. Attraverso gli spiragli di questa volta di firmamento, brillano un centinaio di stelle come luci del giorno. Alla base della presa d’aria, lui ascolta le onde del vento battere i fianchi delle tegole rosate oppure frusciare lungo le zincature.

All’interno, appena commovente, qualche fragile amaca di ragnatela, il velo granuloso dei ragni che si avvolge attorno al dito, come attorno alla faccia dei piloti negli eroici primitivi giorni dello sport.

Un limo filtrato dalla pioggia attraverso le tegole, una  polvere di grana fine si poggia su ogni cosa.

E’ qui sopra, lontano dal suolo ingordo, che lui raccoglie il grano, per un processo contrario alla germinazione. Asciugatura, separazione e seccatura, sono idee d’ora innanzi senza conseguenze per il suolo, dal quale l’ha tirato su.

Piuttosto, lascia che le banali forme grigie della farina scivolino dorate fuori dal forno.

 

 

 

 

Letame

Cornetti di paglia, facilmente sgretolati. Fumanti, odorosi. Schiacciati dalle ruote dei carri, o più spesso risparmiati dalla distanza assiale tra le ruote.

Viene da considerarti come qualcosa di prezioso . Per questo vieni racimolato soltanto con una paletta. Ciò  indica il nostro umano rispetto. È pur vero che il tuo odore si attaccherebbe un po’ alle mani.

Ad ogni modo, alla fine non hai un cattivo odore, per nulla ripugnante  come i rilasci di un cane  o un gatto, che hanno il difetto di essere troppo vicini a quelli dell’uomo, con la loro consistenza come malta viscida, così noiosamente appiccicosa.

 

 

 

 

La rana

Quando le lancinanti punte d’ago della pioggia rimbalzano sui terreni zuppi, un nano anfibio, un’Ofelia con le braccia amputate, non più grande di un pugno, salta qualche volta sui piedi del poeta e si scaraventa dentro la pozza più vicina.

Lascia che la nervosa creatura si metta in salvo. Ha zampette deliziose. Tutto il suo corpo è inguantato in una pelle impermeabile. A malapena carnosa, i suoi lunghi muscoli hanno un’eleganza che neppure un pesce o un volatile. Ma per scappare dalla tua presa, la qualità della fluidità in lei si combina con gli sforzi di una cosa vivente.

Il gozzo gonfio, lei ansima… e quel cuore che palpita così pesantemente, quelle palpebre grinzose, quella bocca smunta, ispirano così pietà che la lascio andare.

 

 

 

 

Le stufe

L’animazione delle stufe è in relazione inversa con la clemenza del clima.

Ma come dimostrare adeguatamente la nostra gratitudine a queste modeste torri di calore?

Noi che le adoriamo allo stesso modo dei tronchi d’albero, dei radiatori d’ombra e fresco umido in estate, ciononostante non possiamo abbracciarle. Nessuno si avvicina troppo a loro senza diventare rosso…

Con tutti quei piccoli sfrigolii che diffondono, ci mettono in guardia.

Com’è bello allora aprire la loro porta e scoprire il loro ardore: quindi con un sadico agitatore,  smuovere le profondità della gamma dei colori, cambiando le braci di carbone ardente dal nero al rosso e dal fuoco a un tenero grigio, e le braci in cenere.

Se diventano fredde, un tonante starnuto presto ti avvisa del freddo alla testa, venendo a punirti delle tue negligenze.

Le relazioni tra un uomo e la sua stufa  sono molto lontane dall’essere come quelle tra un signore e il suo domestico.

 

 

 

 

La radio

Questa scatola colorata non mostra nulla di sporgente, solo un pomello da girare al prossimo click, cosicché  quasi subito tanti piccoli grattacieli d’alluminio si illuminano all’interno, mentre violenti zampilli vociferanti si contendono la nostra attenzione.

Un piccolo apparato con una meravigliosa capacità selettiva. Ah, com’è ingegnoso aver raffinato l’orecchio fino a questo punto! A che scopo? Per versarci dentro incessantemente le più bizzarre volgarità.

Tutto un fumento di escrementi della melodia del mondo.

In fondo, però, questa è la cosa migliore. Gli escrementi devono essere portati fuori e sparpagliati sotto il sole: un’inondazione così qualche volta fertilizza…

Comunque con passo rapido ritorno alla scatola, per concludere.

Tenuta in alta considerazione in ogni casa in questi ultimi anni – piazzata proprio in mezzo alla sala, tutte le finestre aperte… il ronzante, raggiante piccolo secondo bidone della spazzatura!

 

 

 

 

La valigia

La mia valigia mi accompagna sui monti della Vanoise e subito la sua  targhetta di metallo risplende e il cuoio pesante espira. La tengo con le mani, le accarezzo il dorso, l’incollatura e la superficie piana. Perché questo scrigno somiglia a un libro pieno di un tesoro di pagine bianche: i miei boxer, la mia lettura preferita e il mio kit da viaggio più semplice, sì, questa cassetta come un libro è anche come un cavallo, fedele contro le mie gambe, che io sello, bardo, posteggio a una piccola panchina, sello e lego, lego e stringo oppure allento nella proverbiale camera d’albergo.

Sì, per il viaggiatore moderno la sua valigia resta, come resta un buon cavallo.

 

 

*

 

Da Regards di Giovanni Cianchini (2022-2023)

 

Regards è inteso sia nel senso più italiano di riguardo, “premurosa sollecitudine e cortese rispetto”, sia nel senso, più inglese, di “considerazione”, relativa a elementi inanimati (un giorno della settimana, un’ora della notte, una stanza) ai quali, però, si dà del “tu”, volendo trattarli quantomeno alla pari di colui che li considera. Lasciano però in sospeso il riconoscimento dell’elemento, volendo sollecitare un altro tipo di attenzione.

Ponge è il riferimento, dà liberamente del “tu” o parla in terza persona ma con un senso di considerazione affettuosa, anche se non sempre benevola (vedi La radio). Inoltre non si nasconde in una presunta oggettività né in una forzata autocancellazione. Il suo io è spesso presente in un modo così leggero da farsi dimenticare.  Esplicito, indicato nel titolo, il destinatario. In una dimensione di prosa, a volte ci sorprende con dei versi (Il piccione). Si rivolge, oltre che all’elemento, a volte anche al lettore, a sé stesso, a terzi (le bestie affamate di fragole).

 

 

Regard n. 5

 

Sei fatto di ombra diffusa
di acustica piana, ambientale
e in qualche angolo della testa
qualche nodo da sciogliere.

 

I canti di pace sul display
sono acqua ferma che scorre.

 

La tua verità è
un panorama di palazzi.

 

Sembri un fiasco chiuso
da una paura sottile,
senza nemmeno un accidente
di arte, un guizzo, un gabbiano
che sbatte sul vetro, sfuriando.

 

Resta lì dove stai.
Dove potrebbe scappare
un venerdì pomeriggio?

 

 

 

 

Regard n. 4

 

Sei carica di caldo di casa di inverno
così apprezzato dalle donne
e una calma sovrapposta, medicinale.

 

Non sai che farne del tuo spazio libero
fischietti, indugi
poi decidi, nella tua indifferenza
di accontentare chi ti abita
consentendo il trastullo tra le lenzuola
preveggendo pensieri mortiferi
anticipandoli,
con i rumori rari dalla strada.

 

Fai dell’attesa la tua fuga vincente
suggerendo ai tuoi abitanti
una lettura leggera, ma non troppo
che non gli risputi addosso
la sua inutilità.

 

Un calore responsabile sei tu
che omette i particolari
e lascia ai suoi ospiti poca scelta
se non un mantra o una partita di tennis
che tenga a bada i tuoi scagnozzi,
il fantasma mangiapiedi
che si intrufola
tra il materasso e il lenzuolo
e la nuvola gelida e pruriginosa
della rovescina ribelle.

 

Alla fine dai la nanna come un regalo
mia buona Signora, mia ora severa
mie Quattro del Mattino

 

 

 

 

Regard n. 3

 

Sei stata concepita
per conservare ricavati della cellulosa e del legno.
Il bonsai al centro respira nella luce
e l’insenatura rotonda sul soffitto
un tocco di architettura sconosciuta.

 

Sei fatta per durare.
Gli scaffali chiari, di residui di legno pressato
appoggiati su mattoni bianchi per consentire
l’adeguata pulizia del pavimento.

 

Le parole del Maestro aiutano a sciogliere
l’imbarazzo dell’incontro, l’istantaneo
affacciarsi deluso, c’è già qualcuno…
Il Maestro è un ospite, qui – i padroni di casa
sono chiusi nelle loro copertine,
pennichella del primo pomeriggio o loculo.

 

Poi inaspettatamente
le sue parole smuovono la polvere del bonsai:
“quando eri spoglia, eri tutta
già nella tua volontà, e per questo
forse puoi essere considerata giusta.
Perché sei sempre te stessa, in tutte le cose.
Erra chi pensa che una cosa sia più di un’altra”.

 

Altri manufatti in legno a forma di L per sedersi
tra poco saranno vuoti, nuovamente.
C’è un altro ospite, un volatile che ronza
una psiche inquieta
che non sa decidersi a diventare spirito, pura volontà.

 

Sarà per la prossima vita, lei
Sarà ancora qui.
(Fuori, una farfalla nera voleva dirmi qualcosa, insistentemente)

 

 

 

*

Cavalcare la tigre. Sull’economia dell’attenzione di Jenny Odell

1

di Lisa Ginzburg

 

Può sembrare curioso recensire ed elogiare (ovvero riconoscere il molto che si è appreso leggendo) un libro la cui struttura originaria calibra e insinua la possibilità di  una decostruzione – o quantomeno di una messa in discussione  – della mente “attenzionata” dal virtuale; e farlo su questo amato luogo (sito) di officina culturale e di scambio che a internet in qualche maniera deve la vita (Nazione Indiana è pur sempre avamposto del progresso del condividere saperi in rete). Può sembrare curioso ma non lo è, perché Jenny Odell, artista californiana e docente alla Stanford University, da giovanissima osservatrice e contraffatrice del reale quale è, da intellettuale prima, da artista subito poi, sa cogliere le derive della virtualità restituendole in un ragionamento stringente e solido proprio perché mai banalmente e direttamente critico. Stringente nella sua ariosità, solido per come de-costruttivo in senso radicale, ovvero in grado di assumere una posizione argomentativa molto più sottile di come sarebbe stato discutendo l’abuso di internet tout court.

Come non fare niente. Resistere all’economia dell’attenzione (Hoepli 2021) trova nel termine  “abuso” il primo tassello di un suo ideale lemmario.  Abuso della nostra attenzione (peculiare a  ciascuno di noi, tanto quanto comune alla nostra collettività interconnessa, e nell’eccesso di connessione, interdipendente) è prima parola, Uhr-parola, implicita al sottotitolo perché ad esso sottointesa. Il sistema in cui viviamo, dice Odell, attua questo abuso imponendo una economia dell’attenzione perpetua, e sottrarsi a detta economia è (sarebbe) potenzialmente in assoluto il gesto più democratico perché quello più anti-sistemico.

“Attenzionata”, inestetico aggettivo, sgradevole da ascoltare e prima ancora da scrivere. Senza dubbio. Eppure, proprio di attenzione attenzionata  le pagine di Jenny Odell si occupano, e proprio di quella ci danno la misera misura. Spiegandoci che la nostra facoltà di attenzione è in ostaggio, e che svincolarla dalle catene che la serrano significa avere l’ardire liberatorio, una volta riconosciuti e perciò sciolti i lacci delle notre dipendenze, di sviscerare un tema che di fatto è IL tema. Quello dell’attenzionamento della nostra attenzione. Attenzionata, l’attenzione ha perso di forza, e lo ha fatto per la sua coatta condizione di frenesia ipercinetica.

Già: perché il punto non è il prestare attenzione, di per sé attività salubre e tonificante per la mente (la stessa Odell pratica da anni con molta passione e dedizione il birdwatching, un tipo di agire in cui l’assoluta concentrazione mentale coincide con un esercizio sinestetico di ascolto, silenzio, incanto della Natura, cattura dei suoi suoni, e durante il cui esercizio proprio nella concentrazione massima la mente incontra il proprio vuoto autorigenerante). Il punto è un altro, ed è l’economia di stessa attenzione, ovvero il suo orientamento. Prima regola, riorientarla evitando la frenesia, perché come il grande romanziere  Stevenson nel 1877 argomentava nel suo Una apologia degli oziosi : “la frenesia è sintomo di una mancanza di energia”. Seconda regola, non temere il vuoto e il nutrimento spirituale che esso porta in sé: al contrario, andarne in cerca, e per far questo, accettare di muoversi in un dimensione che è di verticalità. Ovvero, come rabdomanti del cibo per lo spirito, dove si senta di avere trovato un ubi consistam, plaghe di senso, lì stare, sostare, affondare i piedi, che vuol dire focalizzare completamente la testa distogliendola e sottraendola alla schiavitù di migliaia di distrazioni di opposta e sconcertante depauperizzazione del senso.

Non che Jenny Odell consideri la virtualità come processo, e nemmeno come risorsa: piuttosto, nel corso della sua analisi la vaglia nella sua progressiva valenza di onnipresenza, dunque nel suo significato di deriva psichica. Questo di per sé rende la prospettiva del suo libro attraente e convincente, da seguire (Barak Obama lo conta tra le sue letture preferite, e non è certo il solo). Come non fare niente  ha del talismano, perché dalla sua lettura si riemergere diversi, in qualche modo pacificati, e se ciò accade è proprio perché la tigre (dell’attenzione attenzionata, frenetica, coatta, mai verticale perché mai completamente in nostro autonomo possesso), una volta che la si sia guardata negli occhi, la si può cavalcare.

Siamo quello che pensiamo, ma anche, siamo ciò cui decidiamo di pensare, di prestare attenzione. L’attenzione, questa sconosciuta. Qualcosa che non a caso si presta (give), perché l’amministrarla è in nostro potere ma, se abusata o manipolata da altri, ci sfugge di mano.  Nell’esattezza chirugica del Deleuze di Pourparler, “il problema non è più quello di fare in modo che le persone si esprimano, ma di procurare loro degli interstizi di solitudine e di silenzio, a partire dai quali avranno finalmente qualcosa da dire.(…) Le forze della repressione non impediscono alla gente di esprimersi, al contrario la costringono a farlo”.

Silenzio, e la lentezza del ponderare e del riflettere, del tacere e del temporeggiare. Mai come ora, ecco le armi umanissime e nascoste (ai più) di cui disponiamo per sottrarci a un sistema che ci costringe quotidianamente a interessarci e prestare la nostra attenzione a  cose che in verità non ci interessano, non interessano il nostro spirito, quello verticale, che affonda in profondità nella Terra e di lì estrae i tesori (le risorse) necessari per orientarsi, scegliere, decidere. Affondare i piedi nella Terra peraltro vuol dire rispettarla, perché un’ecologia della mente (ossia una gestione non onnivora, non frenetica e dissennata, invece oculata e consapevole della nostra facoltà di attenzione) è la miglior riposta in termini di libertà personale che possa venir data anche alla crisi climatica, oltre che a quella antropologica e culturale.

Leggete Jenny Odell e capirete cosa intendo. Leggetela con apertura, disponibili a lasciarvi trasformare da questo libro indipendente, sovversivo, rivoluzionario proprio perché refrattario a qualsiasi definizione.

Il soggetto malinconico, barocco e contemporaneo

1

di Giovanni Carosotti

Tra i numerosi studi pubblicati negli ultimi tre anni (due importanti monografie, riflessioni relative all’unità d’Italia e alla questione meridionale, e  una significativa incursione nella storia più recente del nostro paese -Tangentopoli-), Aurelio Musi ha dedicato un’attenzione particolare anche alla storia dei sentimenti. A Storia della solitudine (2021), concepita significativamente durante il periodo del lockdown, segue ora Malinconia barocca (Vicenza, Neri Pozza, 2023, euro 13,50). Si tratta di una tipologia di studio che pone allo storico impegnative questioni metodologiche, situandosi in un campo di ricerca in cui il lavoro di ricostruzione a partire dalle fonti richiede uno sforzo ermeneutico decisamente più rischioso, dovendosi confrontare con riferimenti fattuali evidentemente più sfuggenti. Nel caso di Malinconia barocca, l’orizzonte cronologico è circoscritto a quella modernità che coincide con il periodo maggiormente studiato dallo storico, che ha insegnato Storia moderna all’Università di Salerno. Se nello studio precedente la riflessione si estendeva dall’epoca antica alla condizione contemporanea, in questo caso la malinconia viene indagata esclusivamente quale manifestazione rappresentativa di un’epoca e di un movimento culturale (il barocco), sulla cui singolarità (molto più complessa di quanto una tradizione storiografica abbia inteso) lo storico vuole sollecitare l’attenzione del lettore. «Al concetto di Barocco», come viene immediatamente precisato all’inizio dell’Introduzione, «non è toccata in sorte la stessa fortuna che ha avuto quello di Rinascimento o di Illuminismo […]», movimenti, questi ultimi, rispetto ai quali è senso comune scorgere l’origine di alcuni segni distintivi della modernità occidentale. La marginalizzazione del Barocco, invece, ha risentito del giudizio negativo che su tale movimento si diffuse alla fine del Settecento, ma anche presso la critica letteraria tardo ottocentesca (De Sanctis e Croce fra gli altri). Questo “riduzionismo” critico ha fatto sì che non si cogliessero con adeguata profondità i segni che fanno della malinconia barocca una manifestazione del disagio della modernità, le cui tracce sono particolarmente ben visibili nella nostra epoca: dalla schizofrenia del quotidiano, all’ambivalenza, al senso di vuoto e a una più generale condizione di alienazione. «La malinconia è la condizione media che si insinua nella struttura bipolare del Barocco dominata da una serie infinita di coppie oppositive: certezza e instabilità, ragione e pazzia, riflessione e tormento, dissimulazione e apparenza. E la politica come disciplina è chiamata a governare la condizione bipolare dell’uomo moderno.»

Siamo propensi a pensare (ma non ne abbiamo alcuna certezza) che la motivazione a concretizzare questa ricerca sia dovuta anche all’intenso studio che ha preceduto la pubblicazione della monografia su Filippo IV, alla cui figura viene dedicato un breve ma prezioso capitolo: «Nel sovrano asburgico sono riconoscibili tutti i segni della malinconia come Stimmung: la tristezza, l’inibizione, la sofferenza, l’angoscia, lo scacco della speranza sono gli effetti del conflitto fra vita dissoluta e sensi di colpa». Una condizione già ereditata dalla madre, che si concretizza in un senso di colpa per non saper evitare le sofferenze del proprio popolo, in un’incapacità di resistere alle tentazioni della carne, per cui le disgrazie personali e politiche del suo impero vengono interpretate alla luce di una punizione divina; psicologia tormentata, di cui è testimonianza la straordinaria e drammatica corrispondenza con suor Maria di Àgreda, la sua consulente spirituale e politica. Un senso di smarrimento dunque che coinvolge tutto, i potenti come il popolo, l’individuale e la costruzione politica: «quel sentimento di alienazione, dell’uscir fuori dall’ordine naturale, dalla carreggiata ordinaria, quando persino dal proprio sovrano si sentiva dire “che tutto pareva sul punto di colare a picco”».

L’intero studio di Musi è impostato a partire dall’analisi, che occupa quasi metà dell’opera, di Anatomia della malinconia  di Robert Burton, pastore anglicano di straordinaria cultura nell’Inghilterra del XVII secolo; è questo studio che consente di contestualizzare le successive testimonianze della malinconia barocca, in un discorso dalle numerose sfumature. Burton amplia infatti lo sguardo a una serie di manifestazioni e sintomatologie (somatiche quanto psicologiche) non contemplate dalla tradizione, in particolare la medicina antica, che pure alla malinconia aveva dedicato parte delle sue riflessioni. Burton è in grado di cogliere sia la varietà delle manifestazioni (spesso apparentemente contraddittorie) con cui il sentimento si presenta, capace di far sperimentare al soggetto che la vive sensazioni sia di piacevolezza sia di dolore; sia di rendere ragione della complessa relazione mente-corpo sperimentata dal malinconico, che si differenzia in varie forme, dalla malinconia d’amore, alle malinconie nazionali, alla melanconia religiosa. In questo modo Burton può fare riferimento senza contraddirsi a tutta la riflessione precedente, arricchendola però con osservazioni e deduzioni decisamente più ardite e innovative.  «La modernità di Burton è innanzitutto nella sua visione olistica, unitaria della malinconia. Essa è un sentimento-sistema, per così dire: unità di corpo e mente, fondata sull’interdipendenza fra le parti del primo e quelle della seconda e sul trait-d’union delle emozioni che le riunisce tutte». Grazie a tale visione olistica Burton può elencare le più diverse sintomatologie (somatiche e psicologiche) della melanconia, e proporre un inventario di tutte le fobie di un’epoca di crisi. É proprio il concetto di crisi che consente un’efficace proiezione sui tempi attuali; rendendo il soggetto contemporaneo particolarmente adatto a comprendere tale scissione della personalità. D’altronde, la modernità dell’analisi si rivela proprio nell’«ambigua tensione di Burton tra precettistica e condizionamento delle passioni» con cui, da una parte, fornisce consigli per una terapia, dall’altra esprime una consapevolezza pessimistica sull’impossibilità di «uscire per sempre dalla condizione malinconica»; contraddizione giustificata dal fatto  che «è la stessa malinconia a essere ambivalente».

Ambivalenza che si mostra nell’unità di follia e saggezza, in un comportamento vicino alla pazzia, ma capace di un linguaggio che esprime contemporaneamente lucidità e verità. Un conflitto psicologico evidenziato con efficacia da Musi, grazie alla sua profonda conoscenza del pensiero di Freud (si ricordino Freud e la storia e Memoria, cervello, storia in cui si sostiene l’importanze per uno storico di una approfondita conoscenza delle dinamiche psicologiche e cognitive); ma anche il riferimento a Foucault è costante, in quanto permette quel lavoro, propriamente storico, di classificazione e spazializzazione del dolore, che non confina la malinconia alla pura diagnosi patologica («Secondo Foucault bisogna porsi e mantenersi a livello della spazializzazione e della verbalizzazione fondamentale del patologico, là dove ha origine e si raccoglie lo sguardo eloquente che il medico posa sul cuore velenoso delle cose»).

Lo studio prosegue analizzando, proprio secondo questa prospettiva, varie personalità: da Cervantes, già oggetto di approfondite valutazioni in Storia della solitudine, a Descartes e Spinoza fra gli altri. Un’incursione in alcuni tratti della soggettività (p.es. l’analisi dei tre sogni di Descartes, oggetto d’attenzione anche da parte di Freud), di indubbia importanza anche per la comprensione della loro produzione intellettuale.  Sconvolgente la descrizione di una delle allucinazioni più diffuse della melanconia barocca, quella dell’uomo di vetro, laddove il soggetto teme di potersi disintegrare al minimo urto. Fobia di cui soffriva Carlo VI di Francia, e oggetto di diverse opere letterarie. Secondo l’interpretazione psicoanalitica, un simbolo della rottura dell’«equilibrio narcisistico», propria del soggetto malinconico.

Un capitolo specifico è dedicato alla “malinconia femminile”; la pluralità dei caratteri delle personalità indicate (Artemisia Gentileschi, Lucrezia Barberini, Apollonia Ventiquattro, Veronica Giuliani) potrebbe far sembrare strumentale l’isolare in pagine specifiche il riferimento al genere. In realtà questa attenzione specifica alla sensibilità femminile porta ad approfondire secondo una prospettiva singolare la particolare relazione tra malinconia e corpo. Per quanto riguarda la pittrice, Musi propone un’ampia disamina delle diverse fasi della sua attività artistica; e mostra come proprio il riferimento alla malinconia consenta di emanciparsi dal semplice cliché della «donna vendicatrice». In queste donne, dal destino molto diverso, la malinconia sembra dare luogo a un processo di sublimazione che, nel caso della Gentileschi, trova sfogo proprio nell’operare artistico. Nella Maria Maddalena come la melanconia Artemisia «offre invece un’altra espressione della malinconia barocca. […] una malinconia ritratta non nella fase della sua tensione, bensì in quella della sua risoluzione agognata; una risoluzione che negli occhi chiusi aspira quasi a una sospensione eterna. […] la sublimazione della sofferenza del suo vissuto, della malinconia, della depressione del genio artistico: questa fu Artemisia Gentileschi». Ciò che invece accomuna le altre tre personalità femminili è la scelta a favore di una vocazione mistica radicale, la solitudine del convento, la mortificazione del corpo che si manifesta attraverso una chiara propensione anoressica. Storie diverse (nel caso di Lucrezia la sua vocazione fu a lungo impedita dalle esigenza della propria famiglia aristocratica) mostrano ancora una volta il carattere contemporaneamente individuale e collettivo della malinconia, in una tensione tra la propria individualità e l’evidenza di essere parte di un tutto che condiziona il nostro ruolo (come già in Filippo IV). Ne deriva una serie di comportamenti schizofrenici in cui al centro  vi è la questione della corporeità: «In queste donne molto spesso il controllo del corpo si rivela uno scacco: e la malinconia ne rappresenta la manifestazione più evidente». Al centro vi è sempre un «conflitto di passioni». I «rimorsi per i desideri passati» in Francesca Farnese, laddove la malinconia «derivava da un grandissimo rimorso interno di coscienza». In Apollonia «la malinconia è un vero e proprio nutrimento dell’anima che sostituisce il nutrimento del corpo. La sostituzione non è indolore, i costi sono elevati, e si configurano soprattutto come malattie psicosomatiche e anoressia». Un controllo del corpo, dunque, che si vuole assoluto  ma che sfocia poi in sintomi devastanti, a  sancire lo scacco di questo tentativo di radicale spiritualizzazione. Si tratta in fondo di «storie di spersonalizzazione», dove i personaggi «vivono una doppia realtà, una di fatto e una fantastica».

Significativa anche l’analisi comparata, nelle pagine conclusive, tra Tasso e Marino; nel caso dell’Adone,  con la doppia proiezione dell’Autore nei personaggi opposti di Mercurio e di Adone. La prospettiva permette di cogliere meglio il carattere di una «poesia falsamente solare, il buio e il chiuso sono la sua matrice».

Malinconia barocca, con le sue sollecitazioni intellettuali, è anche un testo di grande rilevanza metodologica. Non solo perché accetta il rischio di un’indagine storica di frontiera, come abbiamo notato all’inizio; ma perché dimostra quanto la considerazione di tali aspetti -ne è un esempio, del resto, la stessa monografia su Filippo IV- risulti decisiva, e in qualche modo irrinunciabile, per un’interpretazione storica adeguata, anche quando rivolta a contesti politici e, in generale, a tutti i fatti che rientrano nella storia evenemenziale. Il non tenere conto di questo dato pregiudica in alcuni casi l’analisi storica, in quanto il non saper interpretare in base a un contesto epocale il moto dell’animo origina poi processi di mitizzazione o giudizi moralistici che compromettono l’affidabilità scientifica dell’analisi.

 

 

 

Strada per Argirocastro

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di Arben Dedja

L’estate siamo andati in vacanza in Patria. Abbiamo scelto Borsh. Altroché amaro; era così dolce immergersi in quelle acque ioniche.

“Se un giorno il tempo peggiora, visitiamo Argirocastro, così la mostriamo alla figlia?” ha chiesto mia moglie.

E il tempo è peggiorato. Nel senso che una nuvola ha sorvolato il cielo; di più non poteva succedere quel fine luglio. La notte precedente la coppia tedesca dell’appartamento di fianco aveva cominciato a far sesso. L’edificio era di legno: i muri tremavano. Per mezz’ora ho avuto sudori freddi: temevo mia figlia li sentisse; per fortuna che dormiva nell’altra stanza, nel letto matrimoniale con mia moglie. Non ho più chiuso occhio. E se il trambusto ricominciasse? Era una coppia piena di tatuaggi.

“Sottili i muri qua; si sente tutto” ho detto all’indomani alla proprietaria del complesso turistico.

“Cosa si sente?”

“Niente… tedesco”

“Ho intenzione di costruire un grande albergo. In mattoni” mi ha detto la proprietaria. “Se Dio vuole!”

“Se Dio vuole” ho detto. E gli ho chiesto come fare per andare a Argirocastro.

“Vi porta Shezo, per pochi soldi. È al bar” e ha indicato con dito. “Ha solo un problema: è un po’ comunista. Ma voi non state ad ascoltarlo.”

Zoppicando Shezo si incamminò verso la sua Mercedes. Aveva la gamba destra storta e secca.

“Ci porterà lui?” mi ha domandato con lo sguardo mia moglie.

Il capitano Achab aveva una gamba di legno e diede lo stesso la caccia a Moby Dick; lo zoppo Lord Byron attraversò a nuoto lo stretto dei Dardanelli, tanto per rimanere nell’ambito mare. Queste cose, però, non le dissi a mia moglie. Non si trattava di letteratura, ma della nostra pelle. Ho alzato le spalle.

Soffro il mal d’auto, la chinetosi. In verità, soffro persino le onde mentre dalla veranda ammiro un tramonto. Per questo mi sono seduto davanti. Le donne, forti in tutto, si sono messe dietro senza temere la strada che serpeggiava.

“Bevi acqua frizzante” mi consigliava Shezo. “Comunque, guiderò nel centro della carreggiata; siamo in tempo per passare nella nostra corsia.”

Ho annuito.

“Avevo un’autoscuola fino a tre anni fa.”

Questo ci ha tranquillizzati, riguardo la professionalità di Shezo.

“Ho avuto la poliomielite quando avevo tre anni, sa, dottore” ha detto. “Il clima di Borsh mi ha salvato. Faccio bagni di sabbia estate e inverno.” E si colpiva con mano la coscia sottile.

“È forte questa gamba!” ha detto. “La nostra sabbia ha un effetto curativo mirabolante, perché contiene una buona percentuale di oro.”

“Non dirlo in giro” ho detto, ridendo.

“Ma io l’ho scritto in un libro sulla storia della nostra zona” ha detto.

“Quei libri non li legge nessuno, Shezo” ho detto. “Ne ho pubblicati di libri e ti posso assicurare che conosco personalmente tutti i miei lettori.”

Non l’ha presa bene. Ma è rimasto zitto solo per poco – una decina di chilometri. Ha visto qualcosa nello specchietto e si è fermato. Ha abbassato il finestrino, chiamando un ragazzo seduto sull’uscio di casa. Il ragazzo ci è venuto incontro con quattro limoni in mano. Shezo ha pagato. Poi ne ha strofinato uno sulla camicia e gli ha dato un grosso morso, continuando a mangiare buccia e polpa insieme. Schizzi mi hanno raggiunto. Ci ha offerto a noi gli altri limoni ed è ripartito.

“Non riesco a mangiarlo così” ha detto mia figlia, con il suo albanese incerto.

“Se rimani ancora qua con noi, imparerai, stella, imparerai” ha detto Shezo. “Dottore, vuole guidare lei?”

“Per carità, non siamo abituati a guidare qui” ha detto mia moglie. “Sorvolano un po’ troppo sulle regole qui, Shezo, non crede? Per esempio, c’è qualcuno che mette la freccia per il sorpasso?”

“Non credo” ha detto Shezo. “Mantengono la loro privacy, ecco.”

Dopo la fermata alla Sorgente dell’Occhio Blu abbiamo iniziato la salita del Passo di Muzina. Il traffico era poco. Ho comunque visto due cani e un coniglio morti. Speravo mia figlia non li vedesse e, mentre la osservavo dallo specchietto, nulla mi faceva pensare il contrario. Gli adolescenti sono insondabili. Il coniglio era così spiaccicato che, in pratica, l’ho riconosciuto solo dalle orecchie. Un’altra giornata e di lui sarebbe rimasto soltanto una macchia grigia, estesa.

Iniziò una pioggerellina senza vento. I granelli di polvere non ci scricchiolavano più tra i denti. Io respiravo l’aria fresca e non avevo voglia di parlare. Shezo lasciava cadere la cenere della sigaretta sulla camicia.

“Posso portarvi in macchina fin su al castello. Ho un ombrello nel bagagliaio” ci ha detto.

Sembrava che il verde, sofferente per la calura, si stesse ravvivando, mentre ai lati della strada la polvere veniva lavata dal fogliame. A volte, in mezzo agli arbusti spuntavano come dinosauri gli scheletri di macchine bruciate.

“Non capisco, come sono finite lì?” ho detto.

“Son sempre state lì” ha detto Shezo. “Il guardrail ha solo due anni. E chi li toglie? I morti? Importiamo spazzatura, dottore! Non a caso abbiamo il deputato che sa solo blaterare, il generale che non sa combattere, il prete che non crede, la femmina che, con rispetto parlando…” – qui Shezo si trattenne – “l’Europa che ci prende per il culo, e la spigola che è inquinata, e l’operaio che non bada a regole, e il contadino che ruba, e il…” una tosse gli interrompe la filippica. “Eh, un uomo come Lui non nasce più da donna, no!”

Abbiamo fatto finta di niente. Forse irritato dalla nostra (non) reazione ha accelerato.

Alla fine del primo tornante per andare ad Argirocastro c’è uno spiazzo dove la strada si allarga fino a una pompa di benzina. Su quel versante sono rimasti sei o sette alberi rachitici, le ultime reliquie del boschetto che una volta copriva il posto. Ero girato all’indietro e stavo parlando quando ho avvertito Shezo trasmettere una tensione. Nello stesso istante mia moglie ha urlato. Mi sono voltato e ho visto un’ombra bianca, una specie di macchia avvicinarsi pericolosamente, o forse, meglio, eravamo noi ad avvicinarsi alla macchia bianca. Shezo sterzò con forza e tirò il freno a mano. La gamba destra non gli bastava. La macchina fu sballottata; si è sentito lo scricchiolare di ruote che rimbalzavano sull’asfalto bagnato e una specie di stridio dal motore. La Mercedes è scivolata un paio di metri, come sul ghiaccio e, alla fine, si è fermata di traverso, a una spanna dalla pompa. Io ho urtato lo zigomo destro all’angolo della portiera. Con il piede sinistro sulla frizione Shezo era pure riuscito a mantenere il motore acceso.

Papà, stai bene?” Mia figlia non ebbe tempo di fare il consueto shift linguistico e parlò in italiano.

Shezo iniziò a bestemmiare.

“State dentro” ho gridato alle donne e, in due, siamo saltati fuori.

L’ho visto bene soltanto quando gli fui vicino. Nello stesso istante, sul pendio di fronte a noi abbiamo notato due tipi. A quanto pare prima stavano seduti sui tronchi tagliati. Il primo aveva sì e no vent’anni, una faccia schiacciata e una maglietta con il logo del marchio di carburanti. L’altro, che seguiva, aveva la pancia che gli sobbalzava nella direzione opposta al piede che metteva per terra. Vestiva una T-shirt gialla e stringeva in mano una lattina di birra. Il puledro bianco stava sdraiato in mezzo alla strada.

“L’albino di Miço!” ha gridato Faccia-schiacciata.

“Che c’è? Che c’è?” ha gridato l’altro e, forse per la troppa foga nel dire la “e”, ha emesso un rutto.

“Per poco lo mettevamo sotto, noi!” disse Shezo.

“Chi è stato?” ha detto Faccia-schiacciata e ha girato la testa come per cercare qualcuno.

“Non so mica? Voi, dov’eravate?” ha detto Shezo.

“Stavamo bevendo una birra, caro… Che c’è?” ha detto Rutto.

Il puledro, come se intuisse che stavamo parlando di lui, tentò di alzarsi. Le zampe posteriori lo mollarono; quelle anteriori rimasero ritte solo un attimo. S’inginocchiò e cadde su di un fianco.

“Il signore è medico. In Italia” ha detto Shezo, indicandomi.

Forse per rispetto, Rutto ha ruttato.

Vicino al puledro ho appoggiato il ginocchio per terra. Gli ho toccato il muso sudato. Con la guancia sull’asfalto, mi ha guardato con l’occhio sinistro grande, umano.

Sto male!

La parte superiore del torace era schiacciata. E aveva un buco. Il polmone usciva dal buco. In bocca aveva schiuma giallastra.

“È spacciato” ho detto. “Ma non sono un veterinario.”

Non lasciarmi così!

“In questi casi serve l’eutanasia” ho detto.

Rutto si è avvicinato con la mano aperta intorno all’orecchio.

“Che vuol dire?”

“Vuol dire che, per non farlo soffrire, dobbiamo porre fine ai suoi giorni in maniera umana” ho detto.

“Hm!” ha fatto Rutto.

“E il proprietario?” ha balbettato Shezo.

“Lo conosciamo noi Miço” ha detto Faccia-schiacciata.

“Hm!” ha fatto ancora Rutto. “In maniera umana…” ha ripetuto. “Non c’è problema, caro!”

È successo in pochi secondi. È sembrato che Rutto stava per grattare il fondoschiena, perché ha infilato la mano dietro alla T-shirt. Da lì Rutto ha tirato fuori la pistola, nera, e lo ha puntato sulla fronte del puledro. Ha sparato. La testa del puledro ha sussultato sull’asfalto, poi si è posata, piano. Gli occhi gli sono rimasti aperti. Non ho fiatato.

“Tutto a posto, dottore?” ha detto Rutto (e ha ruttato).

Ho detto:

“Tutto a posto!”

Mi sono girato, con un’ultima speranza. Ma mia figlia aveva abbassato il finestrino e ci stava guardando.

Siamo partiti per Argirocastro.

 

Leggere Inès Cagnati: il margine e l’assenza

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Francesca Scala racconta il dittico di Inès Cagnati costituito da Génie la matta e Giorno di vacanza; quest’utimo, appena uscito per Adelphi, è stato tradotto da lei insieme a Lorenza Di Lella [ot].

 

 

di Francesca Scala

A distanza di cinquant’anni dalla sua prima uscita in Francia per Denoël e dopo la ripubblicazione fattane da Gallimard prima nel 1980 e, più di recente, nel 2017, Le jour de congé di Inès Cagnati esce ora in Italia per Adelphi con il titolo Giorno di vacanza, nella traduzione di Lorenza Di Lella e mia.

Ci è voluto mezzo secolo prima che una scrittrice densa e potente come Inès Cagnati venisse “esportata” fuori da un paese dal quale non sembrerebbe essersi mai sentita davvero accolta (stando almeno alle interviste rilasciate e ai suoi romanzi) e potesse “tornare” nel paese, l’Italia, dal quale i genitori, contadini, erano partiti per emigrare in Francia.

La scoperta tardiva di un’autrice pluripremiata oltralpe sin dal suo esordio (nel 1973 riceve il Prix Roger Nimier per questo libro e, nel 1977, il Prix Deux Magots per Génie la folle, pubblicato in Italia l’anno scorso, sempre da Adelphi, con il titolo Génie la matta, nella splendida traduzione di Ena Marchi), non è però prerogativa italiana.

Anche negli Stati Uniti e in Spagna sono infatti trascorsi decenni prima che venissero pubblicate, a distanza ravvicinata, le due traduzioni del suo primo romanzo: Free day è del 2019 (Ed. NYRB, trad. Liesl Schillinger), El día de asueto del 2021 (Ed. Errata Naturae, trad. Vanesa Garzía Cazorla). E, se a questo punto gli editori stranieri trovano lo spazio per inserire nel loro catalogo una voce così singolare come è quella di Inès Cagnati, difficilmente dipenderà soltanto dall’autorevolezza dell’editore dell’originale, ovvero da una sorta di suo imprimatur. È invece, senz’altro, il segno dei tempi che cambiano, il segno che la compattezza granitica di un canone maschile e autocentrato si sta finalmente sgretolando.

Ecco allora che temi come la maternità (nei suoi aspetti meno poetici e meno retorici), la relazione madre-figlia (intesa come tensione e rifiuto continui), i rapporti di potere e di terrore al centro di una famiglia contadina patriarcale del secolo scorso e persino la morte ottengono cittadinanza letteraria internazionale. Ecco che Inès Cagnati può finalmente offrire anche fuori dai confini francesi la sua testimonianza, quella testimonianza con cui voleva “rendere meno assurde certe vite fatte solo di miseria” (come dichiara nell’intervista a firma di Laurence Paton pubblicata in appendice a Génie la matta, nella traduzione di Giorgio Pinotti). Già, perché entrambi i volumi che costituiscono questa sorta di dittico sulla maternità e l’assenza, sebbene siano materiati da un linguaggio che è poetico, riescono a collocarsi sul piano sociale: di economia sociale e di psicologia sociale. La lettura che in genere è stata data di Génie la matta è quella di un romanzo straziante sull’amore assoluto di una bambina, Marie, per sua madre, Génie. Eppure in Génie c’è molto di più. C’è la rappresentazione della violenza subìta da una donna (da chissà quante donne!) da parte di un singolo uomo e della società tutta, che con quell’uomo condivide principi e “cultura”. C’è una figlia bastarda e una madre che non può riuscire ad amarla con trasporto perché al concepimento è stata costretta con la forza. C’è una donna ripudiata dalla famiglia non tanto per aver deciso di dare al mondo il frutto di uno stupro, quanto piuttosto per non aver acconsentito allo stupro normato e reiterato dalle nozze, per aver rifiutato insomma un matrimonio riparatore. C’è la povertà e c’è l’emarginazione a cui Génie è costretta da un intero paese, c’è quell’etichetta di matta che la società le affibbia per garantire a sé stessa una patente di normalità.

Il tema del margine e della marginalità è centrale anche in Giorno di vacanza, ma è declinato in modo diverso. Stavolta ai margini c’è un’intera famiglia, quella di Galla, che è la protagonista nonché voce narrante. Una famiglia contadina che vive al di là alle paludi, in una terra inospitale di “acque selvagge” dove nessuno osa avventurarsi, tranne “il vecchio spagnolo con la capra”, presenza minacciosa per madri e figlie. Galla poi è doppiamente emarginata: non appartiene più del tutto all’ambiente agricolo dal quale proviene, dal momento che sta frequentando il liceo per costruirsi un avvenire, e d’altro canto è considerata come una specie di aliena da parte di compagne e professori, per la sua estrazione sociale, per la povertà dei suoi vestiti e per una sensibilità e una forma mentis che fanno di lei un’estranea ovunque.

La stessa lingua scarna ma poetica che lettrici e lettori hanno apprezzato in Génie la matta, quella laconicità lirica fatta di riprese lessicali continue a strutturare il testo, a innervare la narrazione, a darle ritmo e senso erano già presenti in questa prima opera di Inès Cagnati, Le jour de congé, e si ritrovano dunque conservate nella traduzione italiana. È una lingua che umanizza animali, vegetali e cose, una lingua che personifica quanto di più caro al mondo Galla possiede, la sua bicicletta, ovvero lo strumento di indipendenza e accesso all’istruzione, senza il quale lei resterebbe al di qua delle paludi e non potrebbe oltrepassare il confine concreto dei campi, accedendo così a una prospettiva di vita economico-sociale diversa da quella contadina. È una lingua che trasmette una visione del mondo olistica, una lingua che stabilisce legami affettivi tra persone, animali e cose, dando loro ruoli che sono intercambiabili: Daisy, la cagna di Galla, è anche l’emblema della maternità, incarna la madre ideale, è per la protagonista un vero e proprio sostituto materno; il primo lampione della città “sembra più solo degli altri. Non appartiene del tutto né alla città né alla campagna. Ha lo sguardo chino sui passanti, uno sguardo ampio e giallo”. E gli esempi potrebbero continuare. Paradossalmente, questa scrittrice del margine, che dal margine scrive e agli emarginati dà voce (potendo attingere, da un lato, alla sostanza della propria esperienza infantile di femmina all’interno di un milieu contadino di migranti e, dall’altro, alla forma di una lingua letteraria individualmente appresa), rappresenta una realtà nella quale i confini (tra mondo umano, animale, vegetale e inanimato) sono aboliti, in cui la protagonista riesce ad assumere il punto di vista di un grembiule “sgualcito da far pietà” e provare per esso compassione.

Questa scrittrice non parla “conto terzi”, per usare un’efficace espressione di Vera Gheno. Parla invece per avere avuto esperienza diretta di ciò che descrive. A prendere la parola e ad autorappresentarsi, sebbene per il tramite della finzione, è insomma la protagonista effettiva di una vita fatta di miseria. E, per un felice paradosso, dalla sua scomoda posizione al margine di due ambienti che non sembrano avere nulla in comune tra loro, l’ambiente letterario e quello contadino, Inès Cagnati accede a un canone che con la propria presenza contribuisce a modificare, di modo che altre scrittrici possano entrarvi a loro volta e a loro volta modificarlo, rendendolo più accogliente.

Volendo aggiungere un ulteriore tassello al confronto fra i due romanzi del dittico, occorre parlare dell’assenza, e della colpa che all’assenza si lega. Mentre Génie era colpevole dal punto di vista sociale, per non aver accettato di cancellare pubblicamente, con il decoro matrimoniale, la violenza privata subìta, la colpa di Galla in Giorno di vacanza è interna invece alla relazione madre-figlia. Ma è comunque in grado di condizionare un’intera esistenza. Se in Génie la matta la tensione che si instaura tra madre e figlia vede una figlia desiderante e una madre sfuggente, in Giorno di vacanza accade esattamente il contrario: qui a sentirsi abbandonata è la madre della protagonista, mentre Galla dal canto suo sente le richieste materne come soffocanti al punto tale da inibire in lei l’amore filiale. Galla non è libera di amare perché non è libera di esistere autonomamente: il suo amore per la madre è compromesso dal senso di colpa generato in lei dal desiderio materno di continuare una vita simbiotica, di mantenere intatto il cordone ombelicale. In Génie l’assenza della madre agli occhi della figlia si materializza, anche simbolicamente, nell’“assenza” della parola “madre” o “mamma”: per tutto il libro Marie parlerà della madre adorata riferendosi a lei con il pronome personale di terza persona singolare femminile, “lei”, senza mai definirla. Le uniche occorrenze del francese mère sono relative agli animali (mucche, conigli, galline, anatre), alla madre di Génie stessa, oppure alla madre di Pierre, il fidanzato di Marie. Con tre sole eccezioni, due delle quali interne alla narrazione: un’occorrenza di maman e una di mère in bocca a Marie, contenute entrambe in una disperata invocazione di aiuto pronunciata al risveglio da certi incubi ricorrenti. E una contenuta invece nel paratesto, ossia nella dedica del libro, che recita: “A Teresina Stelide, mia madre”.

In Giorno di vacanza, invece, dove la presenza materna è vissuta come ossessiva, il termine “mamma” ricorre 38 volte e “madre” ben 148. Eppure questa “presenza ossessiva” di una madre emotivamente dipendente e colpevolizzante non impedisce a Galla di soffrire per l’assenza di una madre accogliente.

Per finire, un accenno al titolo italiano che, nel suo carattere antifrastico (la vicenda narrata e in generale l’atmosfera che pervade il romanzo sono molto distanti dal clima di spensieratezza tipico di un giorno di vacanza), compensa in parte la difficoltà di tradurre l’ambivalenza del titolo francese. Se infatti è vero che jour de congé ha il significato di “giorno libero” (nel nostro caso specifico “dagli impegni scolastici”, con quel congé che ha il medesimo valore in italiano della parola “congedo” all’interno di espressioni come “congedo parentale” o “congedo militare”), è vero altresì che il termine congé, proprio come l’italiano “congedo”, vuol dire anche “commiato”. Un’ipotesi di resa avrebbe potuto essere L’assenza, buona sia per il significato primario, prettamente scolastico, sia per il significato secondario e profondo, che è contiguo all’idea di “addio”. Ma di libri con quel titolo ce n’era già un buon numero. Forse anche per questo la scelta della casa editrice è ricaduta su “giorno di vacanza”, le cui suggestioni ottimistiche verranno smentite subito e che allude comunque, seppur velatamente, a una mancanza, dato che si ricollega dal punto di vista etimologico a vacuus, “vuoto”.

Intimisti per fragilità: la lezione govoniana

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di Matteo Bianchi

Una rilettura dell’opera crepuscolare di Corrado Govoni (Tamara, Ferrara, 1884 – Lido dei Pini, Roma, 1965) attraverso le ultime due generazioni di autori emiliani si è imposta nel momento in cui la cifra elegiaca e l’abbassamento dei toni e del registro lessicale si sono rivelati tratti somatici imprescindibili, con la premessa che la vena intimista di stampo pascoliano sia pulsante lungo l’intera produzione lirica del poeta di Tamara (anche a detta sua) e sia sconfinata per mezzo delle descrizioni paesaggistiche nelle prose poetiche de La santa verde (1919), rendendo Govoni un punto di riferimento per le tendenze letterarie della provincia ferrarese e di quelle emiliane limitrofe. Tanto che il Futurismo fu condannato criticamente dall’amico Giacinto Spagnoletti, forse la penna che ne scrisse di più e più a lungo, prima e dopo la sua scomparsa, come fosse stato un morbo, un’influenza virale di passaggio che lo aveva distolto da quel suo “sentire” tenero, borghigiano e capace di stupirsi ogni volta come fosse un’inaugurazione di fronte agli oggetti del quotidiano. Venduta la casa paterna e i poderi (trecento ettari a coltura intensiva), fuggì dalla campagna ferrarese senza aver compiuto studi regolari, ma stringendo tra le mani soltanto un’acerba esperienza da mezzadro. In principio la fuga fu per ragioni in parte lavorative, quando si volse verso Milano per ampliare il suo giro di rapporti culturali (dove conobbe Marinetti e cominciò a collaborare con la storica rivista “Poesia”), che poi divennero strettamente lavorative, quando scelse Roma sede del Fascio, dove gli furono riconosciute qualità intellettuali e una modesta carriera da burocrate (dal 1928 al 1943 fu segretario del Sindacato nazionale autori e scrittori).

Corrado Govoni subì l’esistenza e, spesso, ne fu travolto, ma i suoi versi cominciarono a registrarlo con nitidezza dopo l’uccisione del figlio Aladino (1944) nelle Fosse Ardeatine per mano dei nazisti, un lutto destinato a non rimarginarsi. Accadimento che gli fece ritrattare di fronte allo specchio ogni cosa, persino quel suo minimo interessamento alla politica nazionale, rinnegando tutto e ritirandosi in definitiva dall’erudita mondanità che mal sopportava. Allora recuperò con una scrittura ancora malinconica, ma dotata dell’entusiasmo di fondo per la scoperta, e dell’amore per il mondo agreste che mai avevo smesso di mancargli:

Credo che pochi scrittori italiani siano rimasti, come me, attaccati con fanatica fedeltà, in poesia e in prosa, agli interessi, alle sollecitazioni ed alle suggestioni della propria terra natia: anche se dalla mia terra e dalla mia gente io non sono mai stato ritenuto degno di qualunque particolare riconoscimento anche semplicemente morale[1].

Se la curiosità lo aveva accomunato a Filippo de Pisis, il ritorno con la penna all’immaginario bucolico lo aveva avvicinato a coloro che avevano scelto di abbandonare “la musa pentagona” per porti più ospitali, così lo stesso de Pisis e Giorgio Bassani; mentre intellettuali come Franco Giovanelli, che già aveva provato lo spaesamento dal fazzoletto di terra di Sermide alla “città delle cento meraviglie”, rimasero saldamente ancorati alla loro nuova dimensione; in più, Giovanelli amava la sua cattedra da insegnante al liceo classico, sebbene qui non ci fosse fortuna né, tantomeno, attenzione editoriale2 . Altri, come il contemporaneo Roberto Pazzi, originario di Bocca di Magra, in Liguria, hanno da sempre resistito inter nos, ossia dentro le mura rinascimentali che la modernità non è riuscita a scalfire, verosimilmente figli di un’epoca che, per mezzo dei rapidi trasporti e delle comunicazioni globali, gliel’ha permesso.

SUL TERREMOTO DEL 2012

Il capitolo quarto vorrebbe dimostrare che il terremoto che afflisse l’Emilia nel 2012, oltre a elevare in un attimo un sentimento di comunanza regionale, ha spinto numerosi autori a ricorrere alla poesia per risolvere le crepe interiori che la precarietà del sisma aveva lasciato in loro e nei loro cari. In sostanza un terreno fertile, un’ulteriore occasione per l’intimismo govoniano di rinascere. C’è stato un terremoto fisico, oggettivo, scientificamente misurabile e un terremoto soggettivo, spirituale: gli autori presi in esame si discostano dalle forme molteplici dell’iconografia sismica, poiché la memoria collettiva, che si nutre assiduamente di immagini, resta un fenomeno culturale e come tale è sottoposta a sofisticazioni di varia natura per essere scomposta e ricostruita ad arte, secondo scopi e convenienze. In sostanza, più è astratta e trasfigurata meno l’immagine sarà neutra, specialmente se condizionata da una figura retorica. E che lo voglia o no, nemmeno il lettore può rimanere neutrale, scegliendo se dare adito al dubbio di un confronto, a una scintilla conoscitiva, oppure volgersi altrove.

Una contaminazione eclettica tra animismo e intenzione oggettivante, materializzazione della psiche d’artista e ostilità muta e crudele della natura, nostalgia rurale e attrazione, ripulsa per la città tentacolare[2].

È la definizione data da Alberto Bertoni e Gian Mario Anselmi nella loro geografia letteraria tra Emilia e Romagna (1997) per circoscrivere l’esperienza del Govoni poeta, per il quale lo scenario prediletto era una Ferrara «dai tetti rossi», «silenziosa» e «metafisica», dove l’attenzione per le geometrie visibili e quelle invisibili era intrinsecamente collegata alla ricerca di un principio originativo quanto ordinatore. «Certo, nella storia del futurismo, il “caso” Govoni è di notevole peso critico, proprio perché non ha alcun senso opporre al Govoni futurista un presunto Govoni anti-futurista. Grazie a Govoni e grazie soprattutto al giovanissimo Filippo de Pisis (aggregato quasi subito al gruppo dei “metafisici”), Ferrara divenne presto per Carrà e per i de Chirico il referente topografico e simbolico ideale» , per via della presenza delle mura che congiungono l’antico al moderno. Quella di Govoni, però, non sembra una piena adesione alle dicotomie tipiche della metafisica, piuttosto una propensione a lasciarsi coinvolgere nel vortice visivo ed emotivo della raffigurazione, senza indugiare nella sfera del simbolico, rinunciando a un altrove non ancora e non del tutto percepibile. Collazioni imprescindibili dalle quali prendere il largo e proseguire un intreccio tra il vissuto privato di ciascun autore e le rispettive correlazioni con il paesaggio, che si perpetua nei decenni, sono state Fuori Le Mura. Antologia di paesaggi letterari della pianura padana (1991), a cura di Monica Farnetti e Giorgio Rimondi, e la dimenticata I misteri della Bassa per terra acqua aria fuoco. Antologia della civiltà letteraria padana del Novecento (1982), a cura di Giovanni Negri. Inoltre, l’elaborato intende, tramite alcuni spunti e citazioni, dare ripetuta luce agli studi accademici dei docenti Elena Salibra, scomparsa nel 2015, e Paolo Cherchi, scomparso nel 2013.

Tratto dall’Introduzione al volume

Il lascito lirico di Corrado Govoni. Dai crepuscoli sul Po agli influssi emiliani,

Mimesis, Punti di vista, 2023, pp. 198, euro 18

 

Matteo Bianchi, 1987, si è specializzato in Filologia moderna all’Università Ca’ Foscari di Venezia con una tesi sul lascito lirico di Corrado Govoni e ha curato l’Annuario govoniano di critica e luoghi letterari (La Vita Felice, 2020). Scrive su “Il Sole 24 Ore”, “Left”, “Il Foglio” e Globalist.it. È redattore di Pordenoneleggepoesia.it e dirige il semestrale “Laboratori critici”. Ha pubblicato quattro raccolte in versi e ha inoltre curato di Filippo Secchieri Scintillazioni. Tutte le poesie (con J. Robaey e A. Scarsella, Alce 2015). Ha anche collaborato alla Guida tascabile delle librerie italiane viventi (Clichy, 2019) ed è membro del comitato scientifico della Fondazione “Giorgio Bassani”.

[1] C. Govoni, Storia della mia vita, ovvero le «confessioni» che scrisse per i «cari goliardi copparesi», stampato in mille copie nel 1958, dattiloscritto, Fondo “Corrado Govoni”, Biblioteca Comunale Ariostea.

[2] A. Bertoni e G. M. Anselmi, Una geografia letteraria tra Emilia e Romagna, Clueb, Bologna 1997, p. 260.

L’economico e il politico. Da: Riot Sciopero Riot (Meltemi, 2023)

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di Joshua Clover

 

La confusione tra riot e violenza è stato uno strumento essenziale per il riduzionismo politico operato nei confronti del riot e per la sua espulsione dai territori della politica propriamente detta, che, implicitamente, si fonderebbe sulla presenza o meno di un modello di autocoscienza. È proprio questo che Thompson ha inteso criticare ferocemente, parlando di una “concezione spasmodica” della storia popolare:

Secondo questa concezione non si può considerare la gente comune come un soggetto storico prima della Rivoluzione francese, perché, prima di allora, essa si impone nel quadro storico solo occasionalmente e in modo convulso, in periodi di improvvisa tensione sociale. Si tratta, cioè, di intrusioni indotte, non consapevoli né autonome, di semplici risposte a stimoli economici. (1)

Questo armamentario concettuale è rinnovato dall’approccio scientifico quantitativo adottato, tra gli altri, dal New England Complex Systems Institute. Nel loro studio del 2011, dedicato alle nazioni a basso reddito, si traccia una correlazione univoca nella quale gli autori “identificano una specifica soglia per il prezzo degli alimenti, al di sopra della quale le proteste diventano probabili” (2). A partire da questi presupposti di base, ci sono versioni più sfumate, secondo cui l’intollerabile aumento dei prezzi delle merci si articola con quelle trasformazioni economiche più ampie, come i programmi di ristrutturazione del debito e le relazioni commerciali stabilite dall’FMI, che creano le condizioni stesse per la precarietà dei sistemi alimentari. Pur sottolineando come i concetti di carestia e scarsità siano socialmente costruiti, anche queste interpretazioni finiscono per configurare un meccanismo di reazioni a catena del tutto autonomo. Ed è tale meccanismo a determinare unilateralmente una definizione efficace del riot: quest’ultimo è, molto semplicemente, quel che succede quando i prezzi degli alimenti raggiungono un certo picco, secondo una particolare versione dello schema adottato da quegli “storici dello sviluppo” criticati da Thompson per il loro “riduzionismo rozzamente economicista, dimentichi della complessità di cause, comportamenti e funzioni, con un atteggiamento che provocherebbe la loro indignazione se notato nei lavori dei loro colleghi marxisti” (3).

Un approccio del genere trova un contrappunto piuttosto perverso in Alain Badiou, la cui interpretazione di questa fase politica è, invece, astratta e qualitativa. Per molti versi, l’analisi di Badiou supera i limiti dei suoi contemporanei, di quegli intellettuali di sinistra che, davanti ai riot di Tottenham del 2011, vi trovarono ben poco di istruttivo. Come ci venne spiegato, quei riot raggiunsero, al massimo, una sorta di desolato spontaneismo, un’accusa che è la riattivazione, da parte del pensiero socialista, del tropo dello “spasmo”. È stato bizzarro vedere come una teoria politica un tempo all’avanguardia fosse rivenduta come una verità evidente, come se il dibattito tra Lenin e Luxemburg avesse trovato una conciliazione finale e le conclusioni fossero utili per tutte le epoche, senza richiedere una vera analisi. I servizi giornalistici furono, in generale, ancor meno generosi. I partecipanti al riot vennero descritti come zimbelli della società, mossi dalle compulsioni autodistruttive della loro età, avatar di un individualismo materialista a briglia momentaneamente sciolta, in grado, forse, di sfuggire a quegli sfoghi senza senso se soltanto qualcuno avesse dato loro un programma politico. Per riportare la geremiade affidata da Slavoj Žižek al commissariato di carta della “London Review of Books”: “Chi sarà capace di dare una direzione alla rabbia dei poveri?”. Era facile temere che sarebbe stato un filosofo a candidarsi per questa missione.

Badiou, al contrario, afferma chiaramente che i riot sui quali si sofferma non sono affatto alla ricerca di un direttorio d’avanguardia, senza il quale possono solo confermare la società che ha portato alla loro esplosione. Li definisce come un fatto intermedio, all’interno di una periodizzazione che solo alla fine porterà alla realizzazione di quel direttorio:

È possibile, come sembrano comunicarci in lingue rivoluzionarie ancora oscure vari popoli e varie situazioni, che tale periodo stia per concludersi, che vi sia un risveglio della Storia. Dobbiamo allora ricordarci dell’Idea rivoluzionaria, e trovare per essa una nuova forma, tenendo conto dell’insegnamento offerto da quello che sta accadendo. (4)

L’Idea nasce dall’evento del riot, al quale conferisce poi forza organizzativa e durata. In questo schema, c’è una certa alternanza tra periodi in cui “la concezione rivoluzionaria dell’azione politica è diventata talmente chiara da poter […] ottenere a questo titolo appoggi massicci e disciplinati” e “un periodo interstiziale [in cui] l’idea rivoluzionaria del periodo precedente […] è rimasta senza eredi” (5). Quest’ultima fase, mancando di un’idea d’ordine complessiva (che spesso appare con la maiuscola, come Idea), dà adito all’espressione del disordine nel modo protopolitico del riot. Badiou scorge una “strana somiglianza” tra il nostro passato recente e la Restaurazione francese, una fase, successiva alla disfatta finale dello spirito repubblicano, che “a partire dagli anni intorno al 1830, ha rappresentato anche un importante periodo di rivolte spesso momentaneamente o apparentemente vittoriose […]. E sono proprio le rivolte, ora immediate, ora un po’ più storiche, a caratterizzare un periodo interstiziale” (6).

Come ci si potrebbe aspettare, la dimensione puramente economica e quella puramente politica mostrano, per via negativa, i loro limiti reciproci. La storia indicizzata dal New England Complex Systems Institute si limita a seguire alcuni dati quantitativi nel loro avvicinarsi a determinate soglie e poi ad aspettare il riot che inevitabilmente seguirà. Il loro metodo sembra relativamente accurato, sulla scia degli hard data, ma è scarsamente esplicativo per quanto concerne il riot come fenomeno sociale.

Badiou, al contrario, fornisce un’analisi notevolmente esplicativa ma inaccurata. In altre parole, dà al riot un contesto sociale riconoscibile in opposizione ad altre forme d’azione, fa un appello alla periodizzazione, ed è pronto ad accettare il riot come testimonianza affidabile della trasformazione storica. Rimangono, in ogni caso, delle stravaganze nella sua ricostruzione storica, che desume le proprie periodizzazioni dalla storia francese, in modo piuttosto arbitrario, e a partire dai desideri politici che è l’autore stesso a ipotizzare – periodizzazioni che sono poi incanalate in una traiettoria globale del riot con cui una scansione storica del genere non può collimare. Il movimento oscillatorio che Badiou deduce per la Francia, con fasi che durano decenni, non si basa, in realtà, su una grande capacità di periodizzazione; presumibilmente accurato per la sua nazione d’origine, la sua ricostruzione mantiene scarsa o nulla corrispondenza con quelle che sono le tendenze della storia in altri luoghi. Inoltre, ogni riot con valenza politica (un “riot storico”, nella sua tassonomia) appare come un evento privo di determinazioni concrete, fuori dal tempo. I quantitativi ci forniscono troppa causalità, Badiou troppo poca.

Questi due approcci ci appaiono come Scilla e Cariddi, i fondali bassi dell’economicismo volgare e i mulinelli dell’astrazione politica. Come si può navigare tra di loro, tra il riot come hunger game e il riot come emanazione di una diafana struttura del sentimento politico? Senza dubbio, ciascuno dei due poli è istruttivo, per certi versi, ma di per sé risulta insufficiente. Se si è sottolineata l’importanza della periodizzazione, lo si è fatto perché trasformazioni fondamentali e durevoli all’interno del repertorio dell’azione collettiva suggeriscono come sia possibile stabilire una periodizzazione in forme più compiute dello spasmo o dell’oscillazione, su scale che possono essere sia infra- che sovranazionali. Se il riot guarda alla periodizzazione, il periodo gli restituisce lo sguardo attraverso lo spioncino dialettico. È difficile, forse impossibile, stabilire cosa sia un riot senza periodizzazione; facendone uso, invece, il riot (così come lo sciopero) può essere inteso come un insieme di pratiche che fronteggiano circostanze concrete, con o senza quell’immaginario specifico, riguardante l’autocoscienza riflessiva dei partecipanti, sul quale si concentrano tante interpretazioni.

L’analisi di Thompson si fonda sulla prassi. Le sue conclusioni prevedono l’aggregazione di pratiche diverse, come il blocco, la confisca, la rivendita, la minaccia e l’uso di vera e propria violenza nei confronti dei commercianti e dei trasportatori. È da queste pratiche, messe in relazione con il significato consuetudinario assegnato alla soglia di sussistenza, che Thompson deduce che l’attività unificante è la pratica dell’imposizione dei prezzi. Thompson, a propria volta, è stato criticato per l’enfasi che ripone sulla consuetudine e sul presunto diritto di esercitare la consuetudine come un’arma da parte delle folle. È, in ogni caso, prossima all’incontestabilità l’argomentazione più elementare da lui addotta, per la quale la situazione del riot non è dovuta a pura e semplice fame né a una sorta di “emozione” politica (come rivela uno dei nomi originari del riot), bensì alla dominazione del mercato. Se quest’ultimo era “il luogo in cui i lavoratori sentivano più spesso di essere esposti allo sfruttamento, era anche quello in cui – soprattutto nei distretti agricoli o dove vi era solo qualche manifattura sparsa qua e là – potevano darsi un’organizzazione con maggiore facilità”, mostrando, così, che “il mercato era la scena del conflitto di classe – come durante la rivoluzione industriale lo divennero la fabbrica e la miniera” (7).

Parlare di conflitto di classe può comportare il rischio di un certo riduzionismo. In effetti, non sembra una descrizione completamente adatta, almeno nelle valenze ortodosse che ha assunto, né per il mondo protoindustriale in questione, né per il presente, nel quale l’appartenenza di classe fornisce tanto una logica quanto un limite per la mobilitazione politica. Malgrado ciò, come si è osservato nell’introduzione, “l’imposizione dei prezzi sul mercato” descrive soltanto una porzione del riot contemporaneo. Thompson, e non è l’unico, indica una via d’uscita spostando l’attenzione sul soggetto del riot. Interrompe la sua analisi per osservare: “Molto spesso erano le donne che davano il via ai tumulti”, poiché, chiaramente, “erano anche le più coinvolte nella contrattazione individuale al mercato, particolarmente attente ai prezzi e quanto mai abili a scoprire se i commercianti rubavano sul peso o rifilavano prodotti di qualità scadente” (8).

È come minimo ragionevole sostenere che chi è stato escluso in anticipo dal “patriarcato del salario” (9) sia più incline a entrare in lotta sulla piazza del mercato, dopo che l’agricoltura di sussistenza è stata messa a repentaglio e la questione fondamentale della sopravvivenza è stata sospinta nella sfera in espansione dello scambio economico. E questo, la sfera del consumo e dello scambio, ci dà più di una semplice logica della circolazione; genera anche una logica della produzione propriamente detta.

______________

(1) E.P. Thompson, E.P. Thompson, The Moral Economy of the English Crowd in the Eighteenth Century, in “Past & Present”, n. 50, 1971, pp. 76-136; tr. it. di S. Loriga, L’economia morale delle classi popolari inglesi nel secolo XVIII, in E.P. Thompson, Società patrizia, cultura plebea. Otto saggi di antropologia storica sull’Inghilterra del Settecento, a cura di E. Grendi, Einaudi, Torino 1981, p. 57.

(2) M. Lagi, K.Z. Bertrand, Y. Bar-Yam, The Food Crises and Political Instability in North Africa and the Middle East, New England Complex Systems Institute, Cambridge, 10 agosto 2011, p. 1.

(3) E.P. Thompson, L’economia morale, cit., p. 59.

(4) A. Badiou, Le réveil de l’histoire, Nouvelles Éditions Ligne, Parigi 2011; tr. it. di L. Toni, M. Zaffarano, Il risveglio della storia. Filosofia delle nuove rivolte mondiali, Ponte alle Grazie, Roma 2012, p. 91.

(5) Ivi, p. 44.

(6) Ivi, p. 46.

(7) E.P. Thompson, L’economia morale, cit., pp. 120, 103.

(8) Ivi, pp. 98-99.

(9) Cfr. S. Federici, Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria, Mimesis, Milano 2004

 

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Professore di English and Comparative Literature alla University of California Davis, Joshua Clover è autore di libri di poesia – tra cui Madonna Anno Domini (1997), The Totality for Kids (2006) e Red Epic (2015) – e di saggi di critica culturale – tra cui 1989: Bob Dylan Didn’t Have This to Sing About (2009) e Roadrunner: A Film About Anthony Bourdain (2021). (Qui un frammento del suo panorama culturale di riferimento, in una “top ten” stilata per Ubu Web nel 2007.)

Riot Sciopero Riot (2016) è il suo primo intervento nel campo della filosofia politica, tradotto in italiano da Lorenzo Mari per la collana Culture Radicali di Meltemi nel 2023. In precedenza, Lorenzo Mari aveva tradotto anche #Misantropocene. 24 tesi (2014), testo poetico di Joshua Clover e Juliana Spahr per le autoproduzioni della libreria Modo Insfoshop di Bologna.

Presentiamo qui un estratto dal primo capitolo del libro Riot Sciopero Riot.

Via dalla pazza folla

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di Paola Ivaldi

“E la gente è contenta nelle città che sono belle”
Elio Vittorini

Luca no, non è un escapista. “Non sono mica scappato, mai stato uomo in fuga, ho solo trovato un mio posto nel mondo”. Luca e io ci conosciamo, come si usa dire, da una vita: una vacanza estiva famigliare condivisa da bambini, nei lontani Settanta, in una Palau ancora (quasi) incontaminata; poi liceali scapestrati, negli Ottanta (lo chiamavamo “Freedent” per via del suo strepitoso sorriso da spot pubblicitario); infine, dopo una lunga parentesi temporale, ci siamo ritrovati ormai sbalzati nel secolo nuovo, lui nel frattempo trasferitosi in una defilata valle del Canavese, letteralmente circondato dai boschi. La sua radicale scelta di vita risale, infatti, ai tardi Novanta.

Erano molti anni che non ci incontravamo, ma senza un motivo preciso, come capita talvolta fra le persone che si perdono di vista. Sapevo comunque, per vie traverse, che fra le varie attività da lui portate avanti vi era la sound therapy effettuata tramite i didgeridoo, procuratisi durante una lunga permanenza in Australia, e con i bastoni della pioggia, che realizza con le sue stesse mani.

Decido quindi di rompere il silenzio, rivolgendomi a Luca per un trattamento: vorrei sottopormi a un massaggio sonoro, nella speranza di sciogliere, grazie alle potenti vibrazioni emesse dai lunghi legni cavi di eucalipto, una sorta di indolenzimento esistenziale.

Sono quasi certa che, in un qualche modo del tutto inspiegabile razionalmente, gli ancestrali suoni emessi dai didgeridoo contribuiranno a smuovere i miei chakra, appesantiti da spesse stratificazioni di ansie e pensieri molesti, smangiucchiati dai tarli di sterili ossessioni che mi scavano dentro quasi quotidianamente, sempre le stesse, da anni, tarli malefici che tento di ammaestrare e tenere a bada come posso, con il valido ausilio della pratica di yoga e meditazione e di lunghe camminate. Ma essendo ben lungi dall’aver raggiunto un livello decente di saggezza e di pacificazione interiore, il più delle volte mi sento letteralmente divorata dai suddetti tarli, i chakra sempre più bucherellati e incrostati, la convinzione che la mia vita obbedisca a un mantra del tipo: prima il dovere, poi il dovere, con l’eventuale penosa variante: prima il dovere, poi lo spiacere.

Giungere alla meta si rivela una piccola impresa poiché la segnaletica del Canavese, eccezion fatta per l’esplicita cartellonistica di McDonald’s, non brilla per chiarezza e coerenza e io, per giunta, sono sprovvista sia di navigatore (per scelta) sia di carta stradale (per caso). Così sbaglio strada numerose volte e perdo il senso dell’orientamento, costringendomi puntualmente ad abbassare il finestrino per chiedere indicazioni a passanti e ciclisti.

“Eh, ma non ha il navigatore, lei?”, mi si rivolge con divertito stupore un uomo attempato, mentre il suo amico sorride sornione, “eh no, non ho il navigatore, ma ben contenta così: se l’avessi avuto non ci saremmo mai rivolti la parola, lei ed io, un peccato, non trova?”. Sorrisi, umanità. Le persone, quando interrogate, riflettono quasi sempre alzando gli occhi verso il cielo, ma di sbieco, serrando le labbra in un’espressione che svela una sottile fatica mentale, per poi prorompere con tono deciso: allora sì – facendo compiere al dito indice ingiallito dalla nicotina fantasiosi arabeschi nell’aria – lei vada dritta verso Ivrea, poi segue per Baldissero e poi c’è una rotonda, e una galleria, anzi due, e… Grazie! Buona giornata! Altrettanto!

Mi rendo conto che sbagliare strada comporta un maggiore dispendio di tempo per arrivare dove si deve arrivare, ma… fa incontrare le persone, persone quasi sempre ben disposte le une verso le altre, gentili e sorridenti. L’assenza del navigatore agevola l’interazione tra sconosciuti in un clima che si fa da subito cordiale, similmente, immagino io, a quanto poteva accadere ai viandanti di un tempo, viaggiatori lenti che ogni tanto si concedevano una sosta e una chiacchiera con la gente del posto. Umanità! Umanità! Tutta da difendere! Il solito pensiero un po’ invasato prende forma, anche questa volta, anche questa volta strappandomi un sorriso.

Lasciata l’auto in un ampio parcheggio su cui si affacciano alcune villette moderne e all’apparenza disabitate, mi incammino lungo una strada sterrata, ma ancora carrozzabile, che poi si restringe sempre di più fino a farsi sentiero – questo lo ricordavo – infine, procedo in discesa, addentrandomi nel bosco, fitto e variegato, popolato di castagni, frassini, aceri e tigli, ontani e qualche betulla e intravvedendo un corso d’acqua in lontananza, il torrente Chiusella. Oltre alla voce del fiume si sente, a tratti, il rumore di una motosega, qualcuno fa la legna; dopo neanche un quarto d’ora riconosco la casa di Luca e vedo lui che sta giocando con un cane.

Ci abbracciamo a lungo, restando nell’abbraccio stretto e silenzioso. Avverto un senso di inattesa genuina felicità, tutto avviene come se ci fossimo sempre visti, fino al giorno prima, ma è anche, stranamente, come ritrovarsi dopo un viaggio interstellare, e questa è, per me, una sensazione ricorrente, considerando i mutamenti, a dir poco incredibili, del mondo e di noi che lo abitiamo, avvenuti negli ultimi lustri (o forse sono i miei occhi che prima, da giovane, non vedevano tutto quello che il mio sguardo, ora, riesce a catturare?).

È un racconto a due voci a rompere il lungo silenzio, e tratta dei nostri rispettivi ultimi anni, le vicende famigliari più significative, i figli, i genitori, conflitti, strappi, lutti, lontananze, gioie e dolori, insomma: la vita, per chi è più vicino ai sessanta che ai cinquanta. Nel frattempo ci avviamo in direzione della iurta, non-mongola, tiene a precisare Luca, ma accogliente, penso io, e, grazie alla stufa da lui accesa in previsione della mia venuta, piacevolmente riscaldata.

Seguitiamo a chiacchierare, sorseggiando un paio di bicchieri di acqua fresca, finché, senza che occorra annunciarlo, arriva il momento: mi sdraio sulla postazione, il letto sonoro, come lo chiama lui, una lunga cassa vuota dotata di alcuni ampi fori che gli consentono di infilare al suo interno la sommità del didgeridoo cosicché, nel suonarlo, le vibrazioni vengano amplificate al di sotto del corpo. Avevo provato anni fa i bagni di gong, ma questo tipo di trattamento è decisamente un’altra esperienza, del tutto particolare. Il suono è avvolgente e carezzevole, e sì, mi fa pensare a un rito tribale, a luoghi e tempi lontani, così lontani dalla Valchiusella e dal 2023 da sentirmi inghiottita in una realtà parallela, in salutare distacco temporaneo da me stessa e dai miei affanni. Sparisce tutto, sto nel respiro, galleggio sulle onde sonore. Sento, soprattutto, di volermi bene, per una volta.

Tutto così semplice, sarebbe tutto così semplice, se solo riuscissi a sospendere il giudizio, a provare compassione, a perdonare, ad accettare: a partire da me stessa. Questo è il primo pensiero compiuto che mi germoglia dentro, mentre a occhi chiusi mi par quasi di scivolare in uno stato di ipnosi. In chiusura di trattamento Luca utilizza i bastoni della pioggia, che emettono un suono gentile, onde di un mare calmo vanno a infrangersi su una battigia di ghiaia: la scopa d’acqua, dice lui, porta via quello che non serve.

Dopo il massaggio sonoro condividiamo una lunga pausa di silenzio meditativo. Io sdraiata, lui seduto su una seggiola bassa alla mia destra. Riapro infine gli occhi e vedo la cima della iurta che, essendo scoperta, consente di scorgere un pezzettino di cielo. Non piove più, lucenti nuvole bianche scivolano rapide e scoprono l’azzurro del cielo. Si sta rasserenando: questa immagine, incorniciata dall’ottagono sommitale della iurta, mi commuove. Due lacrime corrono giù, simmetriche e sincrone: una dall’occhio destro l’altra dal sinistro, attraversano le tempie a disperdersi tra i capelli. Luca, alzandosi per uscire, mi invita a restare lì, dove e come sono, prendendomi il mio tempo, sussurra: tutto il tempo necessario. Nella iurta non-mongola si sciolgono, come per incanto, tutti i lacci identitari, quelli che troppo spesso mi allontanano da me stessa: la donna, la madre, la figlia, la sorella, la lavoratrice, la collega, l’amica, l’amante, l’ex moglie, la paziente, la cliente… Dalla iurta non-mongola esco alleggerita, ma senza gridare al miracolo.

Raggiungo Luca davanti a casa, ci mettiamo a sedere sulla panca accanto al pero in fiore ben più alto dei tre piani del vecchio rustico e che ne ingentilisce la facciata. Anche il suono delle campane tubolari appese qua e là, dando voce carezzevole ai refoli di vento, dona grazia al quadro dentro al quale mi pare di trovarmi: mi accorgo che il mio stato d’animo sorprendentemente, ma nemmeno poi tanto, si è rasserenato, come il cielo sopra di noi.

Parliamo di costellazioni famigliari, di ferite che non si rimarginano e vanno accettate come potenziali risorse, ci confrontiamo e scambiamo punti di vista, avendo una visione del mondo profondamente condivisa. Mi sento a casa, discorrendo con Luca. Sensazione rara. Luca mi presenta una parola speciale: ho’oponopono che significa “mettere a posto le cose”, a partire da noi stessi, e sulla quale si basa un’antica pratica hawaiana di armonizzazione e riconciliazione. Fondamentale, sempre, partire da noi stessi, sradicando la malsana convinzione che siano gli altri a dover cambiare. Ognuno segua il suo sentiero e sistemi, ammesso che ci riesca, le cose proprie. Ripartiamo sempre e solo da noi stessi.

Noi, inurbati così spesso infelici perché prigionieri di un paesaggio fatto di muri, sagome rigide, strutture artificiali, la durezza e l’immutabilità di cemento e mattoni, l’angusto e ossessivo reticolato stradale di asfalto, la sporcizia e il degrado, il tanfo dell’aria, la latente claustrofobia causata dalla permanenza nostra all’interno di scatole, che sono le camere, gli uffici, i negozi, le automobili: dunque scatole e persone dentro alle scatole… noi inurbati, dicevo, spesso ci sentiamo talmente smarriti (forse perché di notte non riusciamo più a vedere le costellazioni?) che quando andiamo a trovare qualcuno che vive fuori dalle alte mura, in mezzo al verde, ma non tanto per dire, proprio attorniato da alberi come fossero una folla di parenti buoni, accanto ad animali mansueti, con l’orto, il frutteto, il fiume che scorre, la meraviglia, appunto, delle stelle di notte, i profumi delle stagioni, ecco, noi proviamo un nostalgico afflato che racchiude in sé un mélange di benevola invidia e di ammirazione. Noi siamo tentati, inoltre, di ritenere che là fuori, al di là delle mura fortificate, sia più facile assolvere e assolversi, che là fuori sia meglio, la vita più vera.

Gli inurbati infelici vorrebbero, prima di fare ritorno in città, quasi implorare a chi vive altrove, una qualche formuletta, anche solo sussurrata fugacemente in un orecchio, che consentisse loro di sperare in una possibile redenzione, l’antidoto al progressivo imbruttimento che sono costretti a subire quotidianamente, ingabbiati nel pesante apparato impiegatizio o abbandonati nella terra di nessuno del precariato, incolonnati nei loro monotoni percorsi casa-ufficio-casa, casa-market-casa, con le eventuali varianti: palestra, bar, ristorante ecc. oppressi da scricchiolanti ingranaggi consumistici che nei territori metropolitani giungono al parossismo in una deleteria coazione a ripetere transgenerazionale.

Forse è proprio così: noi che viviamo in città, per non impazzire, per scongiurare una visione alienata dell’esistenza e non sentirci disadattati, dovremmo poter disporre di spazi verdi e/o blu (così li definisce, la letteratura scientifica: green spacee blue space, adducendo a un loro deficit, il cosiddetto nature deficit disorder, svariati problemi di salute psicofisica) quindi: alberi, prati, un fiume, il lago, qualcosa insomma che ci riporti in asse, ci riconduca a madre natura, ribadendo che siamo figli suoi, qualcosa che ci aiuti a ricordare, ogni giorno, come tutto cambia in continuazione, come tutto passa. Anche noi.

Quello che mi porto a casa, lasciandomi alle spalle una sottile fetta di Alpi Graie, è qualcosa di ineffabile, se non fosse per una metafora che dice quasi tutto di me e del mio stato d’animo di mesta e grigia torinese. Vivere in città mi pesa, ma è un disagio che al momento non posso risolvere, troppi elementi non di poco conto mi trattengono ancora all’ombra della Mole. Tuttavia, come suggerisce l’amico ritrovato, potrei iniziare a coltivare un nuovo modo di pensare a me stessa, considerandomi un fiore di loto: che affonda le radici nella melma e però poi fiorisce, ergendosi verso il cielo, su, in alto, in progressivo allontanamento dal fango. In progressivo allontanamento.

Hölderlin: poesie della Torre

2

[Nella collana “Poesia” di Ponte Alle Grazie è uscito il volume con testo a fronte Poesie della torre (Turmgedichte) di Friedrich Hölderlin. Sono le poesie della follia scritte nel torrione da colui che Peter Szondi definisce “uno dei pensatori e degli estetologi più originali e significativi dell’idealismo tedesco”, e uno dei maggiori lirici dell’età di Goethe. Queste cinquanta poesie – già tradotte per Feltrinelli nel 1993 da Gianni Celati – sono oggi presentate e tradotte da Vincenzo Ostuni. Pubblichiamo qui alcuni testi, e un estratto dalla postfazione del curatore.]

.

di Friedrich Hölderlin

Traduzione di Vincenzo Ostuni

 

***

Se l’uomo è lieto che altro si può chiedere?

Che sia anche buono, che viva di virtù;

leggera allor sarà l’anima sua,

raro il lamento, e fede ancor concessa.

 

Vostro umilissimo

Hölderlin

[1823]

*

Veduta

 

Se gli uomini son lieti origina dall’indole

e dallo stare bene, ma dai campi la vista

degli alberi in rigoglio e il profumo dei fiori,

e il frutto dei raccolti che cresce ad essi giova.

 

Un monte cinge il campo, nel cielo sorge alta

l’aurora e l’aria, miti le vie sul piano vanno

lontane per i campi, e gli uomini sull’acque

nei luoghi ove si innalzano i ponticelli arditi.

 

Si trova anche memoria nelle parole umane,

il rapporto fra gli uomini i giorni di una vita

vale, per via dei luoghi e i beni in essi,

anche se pone a sé dotte domande l’uomo.

*

L’inverno

 

Quando neve più bianca adorna i campi

e sulla grande piana brilla più alta luce,

seduce già di lungi l’estate, e mite avanza

primavera, nel mentre l’ora affonda.

 

La visione è stupenda, l’aria fine,

è chiaro il bosco e nessuno percorre

le strade troppo remote, la quiete

rende tutto sublime, e però tutto ride.

 

Non riluce di fiori primavera

tanto gradita agli uomini, ma stelle

stanno nel cielo chiaro, e tanto s’ama

la vista quasi immota del cielo da lontano.

 

Come pianure sono i fiumi, forme

più nitide, pur sparse, la mitezza

del vivere permane, risalta la grandezza

delle città sulla distesa immensa.

 

[1841 ca]

*

Più alta vita

 

L’uomo trasceglie la vita e i suoi passi,

franco da errori conosce saggezza,

i pensieri e i ricordi che affondano nel mondo,

nulla gli guasta l’intimo valore.

 

La splendida natura abbellisce i suoi giorni,

lo spirito che è in lui spesso gli accorda

nuove ambizioni intime che al vero fanno onore,

più alta mente, questioni più rare.

 

Può allora egli conoscere il senso della vita,

il fine suo più alto e chiamarlo sovrano,

vedere atto all’umano il mondo della vita

e per più alta vita stimare l’alta mente.

 

SCARDANELLI.

[1841]

*

La primavera

 

L’uomo scorda i tormenti dello spirito,

fiorisce primavera, quasi ogni cosa splende,

il verde campo stupendo si stende

laggiù brillando il bel torrente scivola.

 

I monti se ne stanno tutti coperti d’alberi,

stupenda corre l’aria in spazi aperti,

l’ampia valle si espande per il mondo,

sulle colline poggia torre e casa.

 

In umiltà

SCARDANELLI.

[1841]

*

Veduta

 

Il giorno è aperto e all’uomo luminoso d’immagini,

quando il verde si mostra nella piana distanza

prima che s’imbrunisca la luce della sera

e tenui lumi spengano il fulgore del giorno.

 

Spesso pare celato, chiuso il cuore del mondo,

pieno di dubbi e oscuro il senso dell’umano,

ma la Natura splende e rasserena i giorni,

del dubbio è più lontana la livida domanda.

 

In umiltà

SCARDANELLI

24 marzo 1671

[1841?]

*

La veduta

 

Quando fugge dall’uomo la sua vita abitante,

lontano dove splende il tempo delle vigne,

rimane qui deserto il campo dell’estate,

il bosco di sé mostra scure immagini.

 

Che la Natura compia l’immagine dei tempi,

ch’essa rimanga mentre quelli passano, viene

da Perfezione, l’alto dei cieli splende agli uomini,

come alberi ravvolti da ghirlande.

 

In umiltà

SCARDANELLI

24 maggio 1748

|1843]

*

«Non mi accade nulla». Una nota sulle Poesie della torre

[estratto]

di Vincenzo Ostuni

(…)

Scrive su «foglietti» o ovunque gli capiti, ma ci rimangono di questo periodo quasi solo i cinquanta testi qui presentati e tradizionalmente annoverati fra le Poesie della torre (Turmgedichte), più qualche frammento in prosa; i testi rappresentano in maggioranza, contrariamente a quanto ci si potrebbe attendere, la seconda metà della residenza di Hölderlin nella torre, poiché spesso legati alle intensificate visite dei turisti o amici di cui sopra, che come abbiamo accennato gli chiedevano, come oggi chiederemmo un selfie, di lasciar loro qualche verso. «Debbo farli sulla Grecia, sulle stagioni o sullo spirito del tempo?» chiede Hölderlin: come vari testimoniano, compone spesso all’impronta e su richiesta.

Nei primi tempi, probabilmente, si trattava ancora di materiale legato all’incessante revisione del suo romanzo Iperione (di cui per tutti gli anni nella torre non fa che rileggere la prima edizione a stampa, per sé o per gli ospiti) e alle sue traduzioni da Sofocle; poi intraprende – attraverso transizioni – una nuova maniera, che recupera la rima e semplici schemi metrici: fra queste poesie predomina in senso quantitativo l’idillio naturale – nove testi sono dedicati alla Primavera, cinque all’Estate, due all’Autunno, cinque all’Inverno – e una visione della natura come immagine e culla di ogni virtù. Negli ultimissimi anni, le poesie vengono firmate per lo più «Scardanelli», cognome italiano inventato e di incerta origine, e recano in calce date fittizie, che si estendono – nei testi rimasti – dal 1648 al 1940.

(…)

Filosofia del gaming: “la cameretta delle meraviglie”

0

 

 

 

È da poco uscito per Tlon Edizioni il libro Filosofia del gaming. Da Talete alla PlayStation di Tommaso Ariemma. Ospito qui un estratto particolarmente sorprendente: La cameretta delle meraviglie.

 

Capitolo sette

La cameretta delle meraviglie

 

Le camere dei bambini e degli adolescenti sono state pensate, negli ultimi cinquant’anni, come uno spazio soprattutto ludico. A partire dagli anni Ottanta, e ancora di più negli anni Novanta, sono state il laboratorio di una nuova forma di amicizia: tra i più giovani e una macchina – console o personal computer –, attraverso il videogame. Un’amicizia non per tutti, soprattutto all’inizio. Sono state le sale giochi a far arrivare inizialmente il videogame al vasto pubblico. Spazi di condivisione in aperto contrasto con la cameretta borghese, uno spazio ideale invece per nerd e ragazzi poco inclini a socializzare.

L’immaginario dei videogame è nato grazie soprattutto alle sale giochi, con i loro mitici cabinati. Ma, sempre di più negli anni, le sale giochi sono andate incontro a un inesorabile declino. L’avvento delle console e del personal computer, e soprattutto della rete, hanno reso tale esperienza superflua, trasformando al tempo stesso il nostro abitare. Potendo essere giocato sempre di più a “casa”, anche il videogame ha cambiato o potenziato alcune caratteristiche (ma di questo parleremo più avanti).

Oggi un genitore si affaccia nella cameretta dei propri figli, spesso preoccupato dall’estrema concentrazione, se non proprio dallo stato di invasamento in cui si trovano davanti al loro videogame preferito, dimenticando il proprio invasamento quando aveva la loro età, davanti a un videogioco di qualità probabilmente inferiore.

La sua cameretta era già, però, una camera delle meraviglie o lo sarebbe diventata presto. Ovvero: un luogo dove si sarebbero raccolti insieme – grazie a console e computer – arte e tecnica, spirito e macchina, gioco e serietà.

La cameretta degli adolescenti, a partire degli anni Ottanta e Novanta, va pertanto vista come una vera e propria “riattivazione” delle camere delle meraviglie (le cosiddette Wunderkammer o Kunstkammer): quel luogo insolito che eruditi e principi tendevano a realizzare tra il xvi e il xviii secolo, raccogliendo insieme minerali e oggetti curiosi, opere d’arte e macchine, nonché dei singolari “automi”.

Una forma di collezionismo bizzarro, a prima vista. Ma nelle Wunderkammer, nelle camere delle meraviglie, vi si trovava accostato e unito ciò che poi abbiamo pensato in maniera separata: arte e scienza, bellezza e tecnica, gioco e utilità.

Nell’esperienza del gaming – nella stanza profonda che spesso lo rende possibile – ciò che nelle camere delle meraviglie era semplicemente raccolto e collezionato adesso prende vita, mettendo in moto e combinando i propri elementi. Quelle collezioni bizzarre già secoli fa avevano indicato la strada, portatrici di una grande filosofia nascosta: tra forme naturali, artistiche e meccaniche non vi era contraddizione, tutto rientrava in un grande impulso giocoso e creatore della natura.

Un luogo utopico, uno dei primi tentativi di pensare il caos del mondo, dove potevano ritrovarsi insieme luoghi e tempi diversi, attraverso dei semplici oggetti.

A permeare sempre di più le camere delle meraviglie sarebbe stata l’idea che il corpo umano fosse una macchina: il visitatore della stanza sarebbe stato così l’elemento che avrebbe completato la collezione, e rafforzato il legame tra meraviglia naturale, meraviglia artistica, meraviglia meccanica.

Un’idea, quella del corpo-macchina, sostenuta soprattutto dalla filosofia di Cartesio, che nel corso dei secoli abbiamo considerato come un modo riduttivo di pensare il corpo. Arte e tecnica si sarebbero separate sempre di più, e l’umano sarebbe stato concepito appartenente al regno spirituale dell’arte e non delle opere tecniche e meccaniche.

Cartesio – in opere celebri come L’uomo (1633), Discorso sul metodo (1637), Meditazioni metafisiche (1641) – ha pensato il corpo come una macchina radicalmente distinta dall’anima. Eppure ha pensato entrambi in qualche modo collegati, uniti grazie a una parte del corpo. Il problema, a questo punto, non è tanto considerare riduttiva l’equazione tra corpo e macchina quanto quella di avere un’idea riduttiva della macchina stessa.

Una macchina è, innanzitutto, qualcosa che ha bisogno di altro per muoversi. Una macchina, in senso moderno, non è Dio. Ha bisogno dello spirito umano, ad esempio, o dell’energia degli elementi naturali. Nei pressi di una macchina noi vedremo sempre qualcosa di vivente. Anzi, spesso proprio le macchine fanno brillare la vita delle cose che credevamo inerti: impulsi elettrici, radiazioni, cose che il nostro corpo – macchina capace di collegarsi ad altre macchine – non riusciva nemmeno a percepire.

A questo punto la definizione di gaming data da Alexander Galloway è quella che più fa propria l’eredità delle Wunderkammer e della filosofia cartesiana. Per Galloway, infatti, il gaming raccoglie

l’intero apparato del videogame. Si tratta di un medium culturale potente, che coinvolge un vasto numero di macchine organiche e di altrettante macchine inorganiche. Inserito all’interno dei sistemi di informazione della società millenaria, questo medium è destinato a ricoprire un ruolo significativo nel tempo che verrà.

Le acque di Istanbul

2

 

di Ornella Tajani

Mentre passeggio nel distretto di Beyoğlu, la grossa area in cui si trova piazza Taksim, mi sembra che Istanbul contenga tutte le città che ho visto sinora: a poco vale fare una lista, da un lato perché finirebbe inevitabilmente per dare un taglio, un ordine di priorità evocativa, a seconda di quale io scelga di menzionare per prima; dall’altro perché è probabile che contenga anche tutte le città che non ho visto.
Mi colpisce d’improvviso la netta percezione di quanto rapidamente la realtà divori l’immaginato. Con posti come questo, desiderati per anni, raccontati o suggeriti da testi letti e frammenti di vissuto, succede: ci si muove con un’idea già in testa, da arricchire, modificare, scuotere o, nei casi peggiori, confermare.
Che fine ha fatto la visione di Istanbul con cui sono arrivata? Avevo disegnato con la mente il quartiere dove avrei alloggiato, tracciato la linea della città orientale che sapevo di vedere dalla terrazza della mia casa-albergo; aiutandomi con Google Maps, avevo provato a registrare la conformazione particolarissima di una metropoli in cui si incontrano un estuario, un canale e due piccoli mari.
Questo incrocio di acque mi sembra il vero cuore di una sterminata città-mondo (15 milioni di abitanti, riportano i dati on line; 18 o addirittura 24, dice chi ci abita), una città-mostro, come la definisce la collega che mi accoglie e come ho modo di constatare quando, nel giorno delle elezioni, per sfuggire alla tensione andiamo a fare una gita a Büyükada, la più grande delle isole dei Principi, dove visse qualche anno Trotsky e dove Simenon andò a intervistarlo nel 1933 [1].
Durante la traversata vedo palazzoni e grattacieli continuare a spalmarsi senza sosta sulle due rive del mar di Marmara; è un flusso imponente, spaventoso e irresistibile.

Come in un esercizio di memoria, dunque, a distanza di ventiquattr’ore dall’arrivo provo a recuperare l’immagine vergine, curiosa di capire di cosa avessi riempito un toponimo che, già abbastanza ricco di suo, ne contiene altri due: Bisanzio, Costantinopoli, significanti che impariamo sui libri di scuola e che luccicano sulla lingua come oro. Ma non mi viene in mente niente, se non il fatto che forse l’avevo sempre raffigurata senza sole, col cielo bianco, pieno di una luce abbacinante: lo stesso che guardo il primo giorno dal battello. Questo cielo è l’unico ricordo che permane dell’Istanbul fantastica: il resto viene allegramente fagocitato dai tappeti di moschea calpestati, le salite ripide, la sconcertante quantità di tè che un essere umano è in grado di bere.

Faccio lezione in una delle università cittadine, gli studenti sono quelli che qualsiasi docente sogna: curiosi, motivati, intervengono di continuo. Trepidano nell’attesa di un’elezione che può cambiare il corso degli eventi e che senza dubbio, per molti di loro, cambia il segno del futuro. «Come vi sentite?», gli chiede la collega prima di cominciare; «cerco di non pensarci – risponde una ragazza -, ma non posso fare a meno di essere ottimista».
Domenica sera, mentre torno a casa e i seggi stanno per chiudere, la città si è svuotata rispetto al sabato, quando il fiume ininterrotto di persone (e di cose, e di merci) si rovesciava in ogni anfratto della città. L’esito non è quello sperato dalla studentessa, si va al ballottaggio con Erdoğan in vantaggio.
«Ogni discorso sulla Turchia comincia con la storia del ponte: “La Turchia è un ponte tra Oriente e Occidente”», mi dice ironico Giovanni, che vive a Istanbul da oltre vent’anni e lamenta la mancanza di profondità sulla complessa situazione in cui il paese versa. Commentiamo che in effetti è una di quelle frasi finto-risolutive per evitare, alla fine, di dire alcunché, come una colata di cemento che arresta lo sviluppo di ogni riflessione e problematizzazione.
Li osservo tutti, i ponti fra le due rive, e il penultimo giorno prendo il battello fino all’ultima località raggiungibile dal centro, Rumelikavağı, un nome che mi piace subito: scoprirò poi che vuol dire “Posto di controllo della Tracia”. Fotografo l’ultimo ponte sul Bosforo, oltre il quale comincia il Mar Nero.

A Rumelikavağı non c’è quasi nulla, come mi aspettavo. Vecchi che giocano a carte, adolescenti seduti a chiacchierare sulle panchine, bambini che corrono nei giardinetti. Un paesino tranquillo, sereno, che nulla ha a che vedere con il fermento a tratti insostenibile da cui sono partita: eppure è soltanto un quartiere della stessa città, a circa due ore di traghetto dal ponte di Galata.

Sono giorni in cui scatto prevalentemente foto di acque, è quel che il mio occhio seleziona, forse perché è un periodo in cui ho bisogno di sentire «l’univers en émanation», come Bachelard descrive la rêverie, la fantasticheria – associazione che gli viene in mente proprio camminando «près de l’eau».
Torno in Italia dopo una settimana che sembra durata almeno il doppio, per le densità sensoriale di quanto visto e per l’effervescenza, la tensione, l’altalena tra l’eccitazione e lo scoramento del periodo elettorale. Il secondo turno si terrà tra una settimana; sarebbe bello se l’esito rispondesse all’ottimismo della studentessa.

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[1] L’intervista si trova in G. Simenon, Europa 33, trad. Federica e Lorenza Di Lella, Milano, Adelphi, 2020.

Madre nel cassetto

1

di Giorgio Mascitelli

Sergio La Chiusa Madre nel Cassetto, Industria & Letteratura, Massa, 2023, euro 10

 

Madre nel Cassetto è un racconto lungo di Sergio La Chiusa che si riconnette al clima letterario  e morale del suo romanzo d’esordio I Pellicani. Alludo, oltre che all’impianto stilistico di una voce monologante che  raccontandosi si autogiustifica, a una caratteristica modalità tematica che si potrebbe definire il mondo in una stanza. Vi è infatti una dimensione privatissima, addirittura intima, del personaggio e della vicenda che però riflette gli echi della società, in altre parole, nonostante si possa dire che ogni nevrosi sia nevrotica a modo suo, il testo riconduce naturalmente, senza alcuna petizione di principio ideologica, al quadro generale, che è poi quello della società presente, la specifica nevrosi del protagonista e la sua devozione postuma alla genitrice. Luigi Loperfido, questo il suo nome, è tecnicamente uno sfigato, uno dei perdenti nella competizione meritocratica che popolano le nostre città e i nostri incubi, tuttavia il personaggio ha una sua grazia malinconica e chiaramente tra i pagliacci del circo contemporaneo prende la parte dei clown bianchi, dei Pierrot, che con mesta dolcezza propendono più elegantemente alla fuga, al sogno e alla fannullaggine anziché alla meritocrazia. La madre sia nel cassetto sia nel pieno esercizio delle sue funzioni, come la compagna Arianna del resto, si preoccupa di riportare saldamente sul terreno concreto questo sognatore pericolosamente astratto; eppure proprio nello sforzo di compiere questa missione la madre finisce con il produrre, inavvertitamente, l’evento traumatico che spinge il figlio definitivamente verso la dissociazione dal mondo così com’è: a un certo punto degli studi di Loperfido la signora, ottemperando ai suoi obblighi di ordinatrice e pulitrice massima della Casa, finisce con il rastrellare e buttare via i soldati Atlantic appartenenti a Luigi, ritenendo falsamente che la prole sia troppo cresciuta per questo genere di giochi. Così Loperfido cercherà nei seni femminili un disperato recupero di quel mondo immaginario che gli è stato sottratto, ma ciascuna coppia di seni vanta una proprietaria che pretende un adeguato e fattivo impegno nella realtà, magari addirittura facendo carriera, e questo, dopo l’evento traumatico, Loperfido proprio non lo può garantire.

Non vorrei però che si sviluppasse un giudizio troppo severo verso la madre, che resta un polo di umanità, rispetto al padre del protagonista, che della maschilità pratica solo l’aspetto manesco, orripilante, fallico e afasico, dunque manca completamente al suo compito di offrire una base di partenza simbolica per il percorso del figlio. Ma chi è il padre di Loperfido? E’ il tipico rappresentante della prima generazione delle classi popolari che hanno attraversato quello che Pasolini chiamò il genocidio culturale italiano. Ed ecco che nel destino del protagonista leggiamo il destino di una generazione, quella che ha fatto in tempo a giocare, negli anni settante e ottanta, con i soldatini Atlantic.

Mi sembra che con Madre nel cassetto La Chiusa confermi di avere una sua voce ossia uno sguardo poetico personale adeguatamente alimentato da nuclei tematici talvolta ossessivi,  ma rivelatori e sostenuto da istanze stilistiche coerenti, segnatamente un io narrante che presenta se stesso, gli altri personaggi e le varie situazioni con un understatement che può assumere sia una curvatura ironica e/o autoironica sia drammatica ( esemplari le pagine dedicate al lavoro in ufficio di Loperfido). Dietro La Chiusa si sente la tradizione della modernità novecentesca letteraria ( Beckett, Gombrowicz solo per indicarne alcuni, e in questo racconto in particolare Bianciardi), e anche cinematografica e pittorica, ma essa non è evocata in una dimensione citazionistica, al contrario  è calata dentro il nostro presente, del quale è la muta antagonista che consente all’autore una salutare presa di distanza dalla quotidianità materiale, permettendogli di gettare uno sguardo realisticamente straniato, che diviene quasi un suo marchio di fabbrica, sul mondo attuale in dissoluzione e sulle vite che vi si trascorrono. Ne segue che l’opera dell’autore è innanzi tutto ambientata in un paesaggio di rovine, ne I Pellicani letteralmente rappresentate con un allegorismo di gusto piranesiano, qui evocate metaforicamente nel frantumarsi dei rapporti e dei vincoli affettivi e sociali.