di Sergio Pasquandrea
Ogni due mesi trovo nella casella postale un pacchetto, la classica busta gialla imbottita di cellophane. È pieno di cd, in genere almeno una dozzina, a volte anche più: la rivista per cui scrivo me li manda, perché io li recensisca.
A casa apro il pacco, do un rapido sguardo ai cd, poi sbrigo subito il lavoro più noioso (“quello che non vuoi fare, fallo subito”, diceva mia nonna): apro un file word e trascrivo tutti i dati di tutti i dischi, autore, formazione completa, etichetta, numero di catalogo, distribuzione, lista dei brani.
Poi li metto nel lettore, uno per volta, inserisco la funzione “random” e saltabecco da una traccia e l’altra. È quello che si chiama un “blindfold test”, una specie di moscacieca: serve per farmi una prima idea, del tutto epidermica, di ciò che il disco contiene. Butto giù qualche appunto in cui segno ciò che la musica mi suggerisce: idee, immagini, aggettivi, domande, dubbi, qualunque cosa, rigorosamente alla rinfusa. Poi inizio ad ascoltarli con la massima attenzione, uno per uno, dall’inizio alla fine, anche più volte se serve; se non conosco i musicisti, mi documento; e alla fine scrivo la recensione.
Detta così, sembra semplice: ma non lo è affatto.
Innanzi tutto, sono convinto che un esercizio indispensabile, per chi scrive, sia mimetizzarsi nei panni di chi legge. Quindi mi capita spesso di chiedermi: ma perché uno legge una recensione? che cosa cerca? ad esempio, io: perché le leggevo, quando ancora non le scrivevo?