di Alessandra Galetta
Uno
Si chiamava Akan Kappa e poteva dirsi fortunato.
Aveva superato l’attraversamento del deserto in camion, le onde del Mediterraneo su una tinozza che imbarcava acqua, le camionette della polizia sulla costa, ed era giunto a Roma in un giorno di sole e dopo due ore era già in una fabbrica a scaricare pacchi di abiti usati. E la notte disteso su un materasso con cinque euro in tasca e la pancia che se la sfioravi con un ago scoppiava come uno di quei palloni appesi al filo.
In due mesi aveva messo da parte cinquanta euro: venti li teneva nel portafoglio e trenta li conservava suo cognato in un luogo sicuro, per spedirli a casa. Non poteva proprio lamentarsi.
Ma la mattina del ventitre dicembre precipitò tutto: suo cognato fu investito da un pirata della strada.
Camminavano l’uno a fianco all’altro, chiacchierando del Nigeriano, del lavoro e di Roma, e l’auto comparve all’improvviso, sbandando da una curva, veloce come una pallottola.
Lui, Akan, schizzò in avanti qualche istante prima, suo cognato, Mabili, rimase immobile a fissare con gli occhi dilatati il mostro di metallo che si avvicinava.
Salta! Gli gridò, ma ormai il suo tempo era concluso.






