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E la morte non avrà alcun dominio

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di Radoslav Petković

 

(Questo testo è apparso per la prima volta su Nin, il 23 giugno 2020. La traduzione dal serbo è di Božidar Stanišić.)

 

L’epidemia di corona ha messo a nudo i punti deboli della scienza moderna e nella lotta contro di essa siamo, più o meno, tornati agli stessi mezzi usati dalle persone dei tempi passati: quarantene e isolamenti.

“Umana cosa è aver compassione degli afflitti: e come che a ciascuna persona sta bene, a coloro è massimamente richiesta lì quali già hanno di conforto avuto mestiere e hanno trovato in alcuni…” [1]

Inizia così uno dei libri più famosi della letteratura europea, il Decameron di Giovanni Boccaccio. Dato che “famoso” ha cessato da tempo di significare letto, dovremmo dire qualcosa di più su questo libro. Quindi, così: a Firenze, nel 1348, durante la peggiore pestilenza, sette ragazze e tre giovani fuggono dalla città in una villa, o più esattamente in alcune ville nelle vicinanze. Trascorreranno lì dieci giorni e, siccome all’epoca non c’era né Netflix né altro di simile, racconteranno storie per ammazzare il tempo che allora, come oggi, potrebbe, in certe circostanze, essere troppo lungo; solo più tardi, nei ricordi e nei ripensamenti, si comprende che in realtà è passato in un lampo.

Ora potremmo essere tentati di dire che quelli erano tempi migliori e più creativi, in cui le persone non mettevano il naso negli schermi per consegnarsi allo streaming e dovevano invece sforzarsi un po’ ma, come sempre quando iniziamo a lodare il passato, lodatore temporis acti, non è male esercitare una certa prudenza. Nonostante le ville in cui stavano vivendo, e la natura meravigliosa, perché Boccaccio evidentemente sogna giardini paradisiaci, c’è poco che agli eroi di questa prosa possiamo invidiare. È il periodo in cui la “morte nera”, la peste bubbonica, devastava l’Europa, e la maggior parte della popolazione europea moriva in questa epidemia; due terzi o tre quarti, a seconda delle stime. Una delle eroine, o una delle narratrici del Decameron, ci dice questo: “Né altra cosa alcuna ci udiamo, se non: – i cotali son morti -; e – Gli altrettanti sono per morire -;  e, se ci fosse chi fargli, per tutto dolorosi pianti udiremmo” [2] .

Ma, se possibile, le cose vanno anche peggio: quando ritorna a casa, Pampinea ci racconta di vedere lì “l’ombre di coloro che sono trapassati …, e non con quegli visi che io soleva. Ma con una vista orribile, non so donde il loro nuovamente venuta, spaventarmi” [3] .

Nonostante durante l’epidemia di corona a molte persone venissero in mente le epidemie di peste bubbonica, queste fortunatamente non sono paragonabili alla nostra a motivo del tasso di mortalità incomparabilmente inferiore; non abbiamo statistiche attendibili, ma la peste bubbonica, che per questo ha preso il nome di “morte nera”, ha ucciso tra i due terzi e i tre quarti della popolazione europea; lo stesso più o meno è avvenuto anche nella Firenze del Boccaccio. Ma ci sono alcune somiglianze, quelle che non avremmo creduto possibili.

Diciamo: la fede nel potere della scienza ha addormentato tutti e, un po’ paradossalmente, la teoria che il corona virus sia stato prodotto in laboratorio nasce proprio da questo, dalla visione del mondo estremamente antropocentrica concepita nel Rinascimento. L’epidemia di corona ha messo a nudo i punti deboli della scienza moderna e nella lotta contro di essa siamo tornati, più o meno, agli stessi mezzi usati nei tempi passati: quarantene e isolamenti. Gli storici hanno registrato come, durante l’epidemia di peste a Srem (Sirmia), nel XVIII secolo, l’esercito chiudesse le zone infette e come le punizioni per chi le abbandonava fossero molto severe, comprendevano la morte.

Nessuno protestò; allora il concetto di diritti umani era davvero sconosciuto, soprattutto nella Monarchia asburgica, e sembra che questi metodi, per quanto brutali, non fossero proprio inefficaci; un monumento vicino alla strada principale Irig – Ruma [4], popolarmente chiamato “statue”, segna il luogo in cui fu fermata la peste. Nel corso di quel secolo si svilupperà quello che viene chiamato il “cordone sanitario”. A suo tempo se ne occuperà in particolare Adrien Proust, rispettabilissimo padre di un figlio ben più famoso, Marcel Proust, e Camus, quando scriverà La peste, utilizzerà proprio il suo libro Difesa dell’Europa contro la peste. Allora, anche quella che oggi chiamiamo “distanza sociale” non era sconosciuta e sembra essere stata violata: ecco perché un personaggio dei Promessi sposi manzoniani esce in strada solamente con due pistole cariche; mi sembra che oggi, per le strade delle città serbe, questa idea non sia affatto male.

Boccaccio cita poi due spiegazioni dominanti per l’origine dell’epidemia: da un lato essa è una conseguenza della posizione dei corpi celesti, dall’altro è la punizione di Dio per i peccati umani. Per l’epidemia di corona, oltre a quelle di laboratorio, ci sono più spiegazioni. Il teologico castigo di Dio, è molto vicino a ciò che potremmo chiamare teoria ecologica; semplificando, ma non troppo, il virus è la vendetta della natura per il nostro atteggiamento nei suoi confronti; teoria particolarmente cara al pensiero di sinistra, che è felice di adottare lo schema di pensiero che caratterizzava i teologi medievali, specie quelli inclini a profezie sull’imminente distruzione del mondo; quella distruzione, e tutti gli orrori che l’accompagnano, possono essere tranquillamente paragonati a una rivoluzione che distrugge il vecchio mondo, ma solo per crearne uno nuovo che possiamo chiamare Regno di Dio, comunismo – o come vogliamo. L’epidemia di peste somigliava veramente  agli orrori descrittici nell’Apocalisse di Giovanni; l’epidemia di corona ne è oggettivamente lontana nonostante che, in alcuni punti (realisticamente) e soprattutto nelle versioni mediatiche, per numerosi e apparentemente diversi motivi ma sempre con il desiderio di ottenere un qualche effetto, ci sia stato uno sforzo per avvicinare la realtà alle immagini apocalittiche; file di bare nel nord Italia o visioni del presidente serbo mentre afferma che se non gli si darà ascolto, i cimiteri di Belgrado saranno troppo piccoli per accogliere tutti i defunti; diabolici esercizi di obbedienza.

C’era anche un’altra narrazione, apparentemente terrificante, su persone che muoiono senza poter vedere i loro cari; ma la cruda verità è che questa è spesso l’immagine della morte contemporanea quando si muore in un ospedale; lo è nel cosiddetto coma artificialmente indotto – quindi drogato. Ma bisogna anche essere consapevoli che una “antica” immagine di morte, dove il moribondo giace circondato dalla sua famiglia con la quale si saluta serenamente, era l’immagine della morte ideale, la morte del giusto che, lo sanno tutti, non è obbligatoria nemmeno per il giusto; e autori del passato, come Michel de Montaigne, hanno saputo portare esempi di varie morti, comprese le morti dolorose dei giusti e le morti facili dei peccatori.

Gli incubi di Pampinea, in cui i defunti vicini e cari le appaiono con un aspetto spaventoso e orribile, ci aprono a un altro paradosso della morte. Dovremmo ricordare, a questo punto, le credenze e le usanze popolari del tempo in cui le persone morivano in casa, almeno quelle che la avevano una casa. Queste credenze e usanze nascevano essenzialmente con la motivazione e lo scopo di proteggere i vivi dalla possibile influenza maligna del defunto; con l’atto della morte, la madre o il buon nonno si sarebbero trasformati, come negli incubi di Pampinea, in un pericolo latente. Che la morte sia un grande cambiamento è certamente qualcosa su cui, immagino, sia un ateo ardente che un credente bigotto sarebbero d’accordo; ma, come scriveva Rilke, la morte è grande e può far sentire la sua voce pure in luoghi inaspettati. La civiltà occidentale di oggi sopprime il pensiero della morte; il corona ha costretto molti a iniziare a pensarci più seriamente.

Ma come sapevano bene le persone del passato, compresa la sconcertata Pampinea, essere vicini alla morte non necessariamente ci rende migliori. Sarà un caso che la prima delle storie del Decameron ci parli di un eroe a dir poco sospetto, come ci racconta Boccaccio, cioè ser Ciappelletto, che prima di morire inganna un pio frate con una falsa confessione. Sebbene fosse l’uomo peggiore possibile, dopo la sua morte fu considerato un santo e chiamato San Ciappelletto. Il soggetto in questione, in Borgogna per alcune delle sue dubbie vicende, si ammalò mortalmente e, per ripagare in un certo modo i suoi ospiti, pur inorridito ebbe l’idea di dover confessare sul letto di morte tutti i suoi terribili peccati, che nessun monaco o papa gli avrebbe perdonato; il peccatore così non avrebbe potuto essere seppellito ma sarebbe stato gettato nella fossa e sarebbero finiti malamente anche i padroni di casa. Allora chiede che gli trovino un pio monaco, il migliore che hanno, e farà della sua confessione una commedia tanto da sembrare così innocente che dopo la sua morte il popolo gli strapperà tutti i vestiti, considerando una fortuna averne il più piccolo pezzo. E lo seppellirono in chiesa, in una delle cappelle, e la gente andava ad accendere candele e fare voti.

Cosa dobbiamo pensare di questa storia, posta all’inizio del Decameron, tutta scritta, se non nell’ora della terribile epidemia, certamente con un ricordo vivissimo di essa? Nella più ampia percezione, cioè al di fuori della cerchia degli esperti, il Decameron è visto come una raccolta di allegri racconti erotici; opinione non del tutto errata, se solo si è consapevoli che queste storie, sicuramente le più popolari, sono una piccola parte delle centinaia che sono state raccontate.

È stato detto: non si mente nell’ora della morte. Se siamo ancora consapevoli del contesto ideologico in cui Ciappelletto vive e muore, la trama è ancora più drammatica: l’ultima confessione e l’ultima unzione sono l’ultima possibilità del peccatore di riconciliarsi con Dio, di ricevere il perdono ed evitare così la terrificante eternità di martirio infernale. Molto si può scrivere su questo comportamento di Ciappelletto, come è stato scritto, anche se, possiamo concludere, come uno dei più grandi lettori ed interpreti del Boccaccio, Erich Auerbach, rimproverando all’autore di aver raccontato una terribile avventura soltanto per il suo risvolto comico.

Ma che sia anche così; perché Boccaccio ha messo questa storia proprio all’inizio? Non dimentichiamo il lettore a cui l’autore si rivolge: è un testimone sopravvissuto alla peste e, quasi certamente, ha perso qualcuno degli a lui più prossimi.

Il poeta inglese Dylan Thomas ha scritto, in occasione della morte di suo padre, che non se ne vada docile in quella buona notte: Non andartene docile in quella buona notte, / i vecchi dovrebbero bruciare e delirare al serrarsi del giorno; / infuria, infuria, contro il morire della luce [5]. Se Auerbach avesse perfettamente ragione, se tutto fosse solo una commedia e una farsa e se fosse proprio l’oscurità, come sanno i saggi, ad aver ragione, Ciappelletto sfrutta l’ultima occasione per deridere quella saggezza proprio come gli eroi di Boccaccio fuggono dall’orrore quotidiano all’apparizione di giardini paradisiaci, divertendosi a raccontare storie.

E la morte non avrà alcun dominio [6], scriveva ancora Dylan Thomas; almeno nella poesia, almeno nella narrazione.

 

Note
[1]  Giovanni Boccaccio: Decameron, Utet, Torino 1958, pag. 1
[2] Ibid, pag. 15
[3] Ibid, pag. 16
[4] Cittadine in Sirmia (Vojvodina, Serbia)
[5] Traduzione di Ariodante Marianni
[6] Traduzione di Corrado Aiello

 

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Radoslav Petković  è nato nel 1953 a Belgrado dove si è laureato presso la Facoltà di Filologia, Dipartimento di Letteratura Generale. Ha pubblicato romanzi: La strada per Dvigrad (1979), Gli appunti dall’anno delle fragole (1983), Le ombre sul muro (1985), Destino e commenti (1993.), La memoria perfetta sulla morte (2008); raccolte di racconti: Il rapporto sulla peste (1989), L’uomo che viveva nei sogni (1998); libri di saggistica: Il saggio del gatto (1995), Parlando di Michelangelo (2006), L’internet bizantino (2007), L’uso degli elfi (2008), L’uovo di Colombo (2017).

Le opere di Radoslav Petković hanno ricevuto prestigiosi premi letterari, tra cui il Premio Nin del 2003 per il romanzo dell’anno (Destino e commenti).  I suoi romanzi e raccolte di racconti sono stati tradotte in francese, greco, ungherese, inglese, tedesco, russo, slovacco e bulgaro; in italiano esistono soltanto due racconti, pubblicati nel panorama dei racconti belgradesi Casablanca serba (Feltrinelli, Milano 2003), a cura di Nicole Janigro. Le sue prose sono incluse in diverse antologie serbe e jugoslave e all’estero.

Ha tradotto dall’inglese i libri di Defoe, Chesterton, Stephenson e Tolkien.

Attualmente vive e scrive a Novi Sad.

 

Proust Céline, la mente e l’odio

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di Mauro Baldrati

Possiamo definirlo un pamphlet questo libro di 137 pagine di Valerio Magrelli, accademico francesista, uscito per Einaudi Stile libero (Proust e Céline, 15 €), nella collana VS, ovvero “contro” . Leggiamo la definizione di pamphlet: “Opuscolo, libretto, scritto di carattere polemico o satirico, libello”. Poiché l’argomento è “Céline Vs Marcel Proust”, la sola sezione su Céline, che corre come un metrò lanciato a folle velocità nel sottosuolo, costituisce l’ossatura, con sopra i muscoli e gli organi interni, del libretto di carattere polemico o satirico. E’ proprio lui, l’autore del romanzo più rivoluzionario della letteratura moderna, Morte a credito, come l’ha definito Gilles Deleuze, a rappresentare un pamphlet vivente. Sia Céline sia Proust sono autori, e uomini, fusi coi loro scritti a tal punto che potrebbero affermare, come Kafka: Io sono letteratura. Magrelli li segue, cerca gli indizi di questa fusion, dove la vita, e la realtà, si fondono col racconto e l’immaginazione. Infatti il testo non è composto solo da due autori di enorme spessore letterario e umano, ma anche da un narratore abbastanza neutrale (perché nessuno lo è veramente) che cerca di agire da dietro le quinte, mimetizzato tra la boscaglia come uno sniper. Ma qua e là esce allo scoperto, si diverte un mondo mentre attinge dalla sgargiante tavolozza letteraria i colori per la sua pala votiva: l’elegia dell’odio, oggetto della prima sezione del libro, intitolata Odi et odi.

Qui il nostro misologo (secondo la mitologia platonica colui che ha avversione per le discussioni e i ragionamenti astratti), Valerio Magrelli, si avventura nella fitta ragnatela dell’odio, in tutte le sue forme artistiche: attraverso i frequenti richiami a opere di altri autori che si sono addentrati in questa foresta intricata, come Jan Miernowski, che si propone di studiare “l’odio come nozione estetica, valore artistico, motore stesso dell’opera letteraria”. Oppure le varie sfaccettature dell’odio verso la poesia, come Antonin Artaud, che nel 1944 scrive Rivolta contro la poesia; o Georges Bataille, che, tre anni più tardi, intitola un suo libro L’odio della poesia. Ma non solo la poesia è oggetto di odio, anche le altre attività artistiche. Lo stesso Magrelli nel 2014 pubblica Odio la musica? E Manlio Sgalambro nel 1994: Contro la musica. E come non notare i riferimenti a Kleist, Dumas, Kundera, Musil, Bernhard, tutti avversari della musica, compreso Tolstoj, che scorge nella musica un fenomeno terribile, nefasto. Poi, finalmente, arrivano le querelle, gli insulti tra autori, che fanno sorridere il mimetico Magrelli: “A me interessavano gli scontri diretti fra scrittori. Insomma, volevo il sangue”. Ecco allora che Jules Renanrd definisce George Sand “La vacca bretone della letteratura”. Leon Bloy su Maupassant: “La sua perfetta stupidità trapela dagli occhi, gli stessi di un cane che piscia”. O Vigny su Sainte Beuve: “Pare un rospo che avvelena le acque”.

Il viaggio nel mare agitato dell’odio, man mano che la navigazione procede, punta sempre più chiaramente verso un obiettivo: l’odio può essere un sentimento nobile e creativo, e dietro la genesi di un’opera d’arte si nasconde spesso un contrario. Forse l’amore stesso ha come lato B l’odio. Marcel Proust in persona riflette sui lati B: “Se al fondo di quasi tutti gli ebrei c’è un antisemita, al fondo di ogni omosessuale c’è un anti-omosessuale”.

Passiamo così alla sezione centrale. Se, per puro divertimento, paragonassimo questo pamphlet alla Commedia, scenderemmo all’Inferno: è proprio lui, Louis Ferdinand Céline, il centro non solo nevralgico, ma nevrastenico: “Bisogna infilarsi nel sistema nervoso, nell’emozione e restarci fino capolinea” (da una lettera a Milton Hindus del 15 maggio 1947). E, sempre per il nostro disimpegnato divertimento, il Virgilio che ci guida sarebbe proprio Magrelli, che affronta Céline da varie angolazioni: una breve biografia, che si apre con la nota di singolari coincidenze, che forse rappresentano indizi psicanalitici della sua ossessione per Marcel Proust: Céline ha trascorso la sua infanzia, figlio di piccoli commercianti di merletti, nel Passage Choiseul, “sorta di squallido acquario Urbano nel cuore di Parigi”, dove, nel 1892, il ventunenne Proust frequentava la libreria Rouquette, al n. 71. E suo padre, tra il 1884 e il 1885, fu compagno di scuola di Proust al liceo Condorcet. Forse proprio da qui, come una piccola sorgente che diventa un fiume poderoso, nasce l’odio, bilanciato da un’attrazione irresistibile per l’autore della Recherche?

In Céline è lo stile ci addentriamo nella tematica della lingua in Céline, la sua ossessione per un francese originario, “puro”, elegante, di Villon, di Rabelais, imbarbarito e impoverito dalla sua involuzione modernista e scolastica. E anche la sua avversione per le traduzioni, che finiscono per annientarlo, prosciugandolo dalla “musichetta” che lo veicola, frantumandone la melodia. Reagisce al degrado imperante con la sfida alle convenzioni, elaborando una forma superiore di bruttezza: “Egli mira a una bruttezza ancora più brutta, sublimamente brutta, a un abietto ancora più abietto, a un odio ancora più odioso”. Lo stile, per Céline, è tutto. E lo stile, secondo una famosa metafora, viaggia, anzi, corre follemente come il metrò, sulle rotaie rappresentate dai furiosi tre puntini di sospensione, ritmato dai martellanti punti esclamativi.

E poi l’odio, la materia prima, sempre e comunque. Ha osservato George Steiner: “Come in Jonathan Swift, in Céline la sorgente dell’immaginazione e dell’eloquenza sfrenata è l’odio (…) In un gruppo ristretto di maestri – Giovenale, Swift, Céline – una misantropia furiosa, una nausea contro il mondo, danno luogo a progetti di notevoli proporzioni. La monotonia del disgusto diventa sinfonica.” L’odio è totalizzante, a 360 gradi: odio verso gli ebrei, i comunisti, gli omosessuali, i letterati, i professori, i ricchi, gli aristocratici (che, secondo lui, costituiscono il “popolo” di Marcel Proust). Odio aggressivo verso Gallimard, che inonda di insulti perché ha inserito Proust nella Pléiade, mentre lui no, nonostante le pressanti richieste. E qui, nel cuore pulsante della “sezione Céline” Magrelli non fa sconti. Il suo ritratto non ha reticenze, come invece si è tratteggiato negli anni, forse per una forma di pudore verso quel nazista antisemita esaltato che è stato. Non fu un collaborazionista per caso, ma attivo, militante, sostenitore dell’arianesimo tout court. “Io sono razzista e hitleriano, e voi non lo ignorate” scrive nel 1939 a Robert Brasillach, un altro scrittore filo nazista, giustiziato dopo la liberazione. Ma non solo. Come un implacabile PM Magrelli richiama gli studi del linguista e filologo Antonin Duroffour e del filosofo/sociologo Pierre-André Taguiieff i quali hanno dimostrato che Céline ha addirittura denunciato sei o sette persone per appartenenza alla religione ebraica e due al partito comunista. “Vivo ancora più di odio che di pasta asciutta” (da Un castello all’altro).

In Caino e Abele passiamo alla contrapposizione tra i due opposti, Céline e Proust, autori di opere assolutamente antitetiche. L’ha notato un proustologo esperto come Alessandro Piperno: “Se Proust complica la sintassi fin quasi alla saturazione, Céline la spacca in mille pezzi; se Proust lavora sulle nuance, le pieghe dell’interiorità, l’inattendibilità dei sensi, Céline elegge il grido, il sarcasmo, la bava alla bocca a strumenti di conoscenza; se il Narratore della Recherche è un rampollo della buona borghesia parigina nevrotico, classista e stanziale, l’eroe del Voyage è un miserabile, un globetrotter in balia della Storia; se il milieu proustiano è composto da milionari, esteti e cocotte dalla sessualità controversa, l’umanità di Céline è indigente e delirante”.

Eppure, se non come sempre, almeno molto spesso, i due opposti finiscono per attirarsi. Entrambi vengono considerati gli inventori della autofiction. Usano l’autobiografia, ma per metterla al servizio dell’autonomia del testo. Il periodo lungo proustiano, asmatico, circolare, col quale dà vita al suo acquario tropicale, popolato da pesci palla, coloratissimi mostri stupendi quanto inutili, sembra attirare come un ragno la frase secca dell’allucinato conduttore del metrò letterario. Il quale, secondo una tesi che serpeggia nel testo di Magrelli, attestata, o quanto meno suggerita, da varie teorie (anche se qualcuna pecca per eccesso), reagisce alla diabolica fascinazione del sussurro proustiano che gli incendia il cervello, con pareri sprezzanti: “Proust è un bavoso (…) Spiega troppo per il mio gusto: trecento pagine per farti sapere che Tizio incula Tizio, è troppo.” Il suo francese giudeizzato, modellato, orientale, liscio, scivoloso come la merda gli fa schifo, come i suoi cicisbei morti o moribondi che popolano quel mondo della borghesia intellettuale e “preziosa” che tanto detesta.

E veniamo a Proust, mente, odio. Qualcuno di quei furiosi cercatori di difetti che bruciano vivi sul web con lo scopo di stroncare qualunque testo scritto da chiunque, forse ne troverebbe alcuni buoni per metter al muro Magrelli, ma non potrebbero mai insinuare che non possieda il dono della sintesi. In una manciata di pagine riesce a condensare decenni di studi critici, biografia, esegesi dell’autore delle Recherche. Soprattutto la mente, che a differenza di Céline, il quale produsse diversi romanzi, Proust visse per un unico, immenso testo, con un’architettura complessa, meticolosa fino a un’ossessione di stampo medievale: “Sette volumi che raccontano in che modo il protagonista, incerto sulla propria vocazione di narratore, solo verso le ultime righe si decida a scrivere il romanzo che noi abbiamo appena finito di leggere… Soltanto al termine del lungo percorso iniziatico, superando le proprie debolezze e l’atroce incalzare del Tempo, Marcel deciderà di scrivere, e scriverà ciò che il lettore ha appena terminato di scoprire. Una storia che inizia dove finisce, e finisce dove inizia.”

Ma c’è odio in Proust? Secondo Daria Galateria e Marisa Verna questo sentimento gli era estraneo, tuttavia si tenta di individuarne tracce nel sentimento verso la Germania, che dopo la disfatta di Cedan scatenò l’Affaire Dreyfuss, per il quale Proust si schierò apertamente con gli innocentisti. E le pagine spietate in cui descrive il voltafaccia dei salon nei confronti dell’amato Swann, reo di essere ebreo e dreyfussiano, insultandolo crudelmente alle spalle, ne sono una testimonianza. Oppure l’odio per l’essere amato che ci tradisce, sempre; l’oggetto della passione che sfugge, che non ci permette di possederlo né di capirlo. E’ una delle grandi discese agli inferi della Recherce, di cui risulta vittima uno dei grandi personaggi del romanzo, in Un amore di Swann.

Comunque sia Proust è un oggetto, un obiettivo di Céline, essendo morto da dieci anni quando fu pubblicato il Voyage. Non ha mai conosciuto il suo acerrimo nemico, né letto i suoi strali, né ha potuto sfidarlo a duello, come forse avrebbe fatto di fronte ai suoi sprezzanti giudizi antisemiti e omofobi. Tuttavia Magrelli dà spazio anche a quei coraggiosi studiosi che hanno creduto di rilevare, dietro l’odio di Céline, una forma di morbosa ammirazione, che l’avrebbe portato addirittura a riscrivere la Recherche, col suo stile contrapposto, con le sue frasi spezzate, ardenti e contundenti.

L’Odio come copertura, come forma rovesciata di Amore, Rifiuto come il lato oscuro del Desiderio; Céline hater compulsivo di Proust, in realtà perdutamente innamorato, proprio come Swann con Odette.

 

NdR: sullo stesso saggio di Valerio Magrelli “Proust e Céline”, Nazione Indiana ha già ospitato il 3 aprile una recensione di Pasquale Vitagliano

 

 

 

Ciao Franck, compagno di viaggio

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Quando Franck racconta della sua musica tutti rimangono in silenzio ad ascoltare la vibrazione di ogni corda del suo discorso, a partire dai giorni della vocazione, quando per caso diventa amico del suo vicino di casa liutaio. Pochi mesi dopo essere arrivato a Parigi, aveva preso casa nella rue Grégoire-de-Tours, a Saint-Germain.

“Un giorno il postino si sbaglia e mette nella mia buca delle lettere una busta indirizzata ad Alain Vian. Io gliela recapito e uscendo mi imbatto in un grande locale in cui il fratello di Boris Vian, liutaio, conserva tutto un mucchio di vecchi strumenti. Mi sono bloccato come se fossi stato davanti a una visione insieme terribile e meravigliosa. In mezzo a tutta quella matassa di strumenti musicali c’era una piccola fisarmonica rossa. Identica, vi giuro, a quella che i miei genitori mi avevano regalato da bambino e che avevo completamente rimosso, insieme ai miei, naturalmente. Lui si accorge della mia esitazione e, quando gli spiego il motivo della mia sorpresa, mi chiede di suonarla. La imbraccio e dalle prime note vedo che diventa rosso in volto come preso da una rabbia improvvisa e non capisco perché. I suoni mi vengono naturali, certo, ma quello era uno strumento che volevo dimenticare, perché mi ricordava cose che non amavo, perché esprimeva una musica da liscio, da musette, che era vecchia, di quel vecchiume che ti resta appiccicato addosso peggio di quelli che la ballano sulla Marne. Lui che invece avrebbe voluto suonarlo non c’era mai riuscito e questo lo rendeva furioso. Me n’ero ripartito con quella piccola fisarmonica rossa e di tanto in tanto tornavo da lui per fargli sentire qualcosa. Solo dopo una decina di incontri in cui sostanzialmente mi massacrava per come suonavo, ha cominciato ad apprezzare le composizioni nuove che gli proponevo. Interpretazioni di Rota e Bizet, Rolling Stones o cose mie che avevano l’aria di interessarlo. Fisicamente era alto, più alto di suo fratello ma con una faccia simile. Non parlavamo mai di suo fratello, immaginavo quanto potesse essere pesante il fardello che si portava dell’essere fratello di; in fondo era lui ad aver dato vita alla rinascita di Saint-Germain. Mi raccontava del Tabou di Sartre. Pubblicamente disprezzava la vita dei locali alla moda ma di fatto ci passava le sue serate come tutti gli altri. La sua collaborazione con Juliette Gréco ne è una prova. È lui a passargli un testo di Queneau, Si tu t’imagines, quello con cui la sera del debutto l’interprete aveva completamente sedotto François Mauriac e Marlon Brando; Jean-Paul Sartre aveva immaginato per lei la sola canzone mai scritta, Rue des Blancs Manteaux, tutte musicate da Joseph Kosma, quello delle foglie morte di Prévert. Comunque lui amava Simone Signoret, e quanto più amava la magnifica attrice, tanto più detestava Yves Montand che a parer suo non la meritava.

Per me la fisarmonica è uno strumento che fa esprimere ciò che altrimenti non potrei esprimere del mio mondo interiore. Innanzitutto dà voce alla mia malinconia ma anche alla gioia che mi porto dentro, è un cocktail che cambia ogni volta le misure dei suoi ingredienti come se captasse l’energia che ha intorno. A proposito di danza posso dire che vivo una grande contraddizione per esempio. Non mi piace tutto il repertorio legato ai balli popolari, non mi è mai piaciuto, eppure mi rendo conto che tutte le mie composizioni si fondano sulla danza, su una danza che non può essere ballata tipo, che so, Piazzolla, che tutti i tangheri odiano perché non li fa ballare.

(traduction de Christian Abel)
Lorsque Franck parle de sa musique, tout le monde se tait pour écouter les résonances de son discours, qui commence avec les jours où sa vocation est née, quand, par hasard, il s’est lié d’amitié avec son voisin luthier. Quelques mois après être arrivé à Paris, il avait emménagé rue Grégoire-de-Tours, à Saint-Germain.
“Un jour, le facteur se trompe et met dans ma boîte à lettres une enveloppe adressée à Alain Vian. Je la lui remets et lorsque je sors, j’ avise un grand local, dans lequel le frère de Boris Vian, luthier, conserve tout un tas de vieux instruments. Je suis resté figé comme devant une apparition terrible et merveilleuse à la fois. Au milieu de cet enchevêtrement d’instruments de musique se trouvait un petit accordéon rouge. Il était pareil, je vous jure, que celui que mes parents m’avaient offert quand j’étais enfant, et que j’avais complètement zappé, comme eux, bien sûr. Alain se rend compte de mon hésitation et, lorsque je lui explique la raison de ma surprise, il me prie de l’essayer. Je m’en saisis et dès les premières notes je vois que le visage de mon luthier s’empourpre comme sous l’effet d’une rage subite et je ne comprends pas pourquoi. Il est sûr que le son me vient naturellement, mais c’est un instrument que je voulais oublier car il me rappelait des choses que je n’aimais pas, car il était l’expression d’une musique surannée, une vieillerie qui vous colle à l’esprit pire que ceux qui la dansent sur les bords de la Marne. Alain, de son côté aurait voulu en jouer mais n’avait jamais réussi et c’est ça qui l’avait rendu furieux. Je m’en étais allé avec le petit accordéon rouge et, de temps à autre, je passais lui faire écouter un morceau. Ce n’est qu’au bout d’une dizaine de visites pendant lesquelles, pour l’essentiel, il dézinguait ma façon de jouer, qu’il a commencé à apprécier les nouveaux morceaux que je lui proposais. Des interprétations de Rota, Bizet, des Rolling Stones ou des trucs à moi qui avaient l’air de l’intéresser. Physiquement, il était grand, plus grand que son frère mais avec le même visage. On ne parlait jamais de son frère, j’imaginais bien le fardeau qu’on porte pour être “frère de”. Au fond, c’est lui qui a donné vie à la renaissance de Saint-Germain. Il me racontait le Tabou de Sartre. En public, il faisait part de son mépris pour l’existence de ces boîtes à la mode, mais qu’en fait, il y passait toutes ses soirées comme tout le monde. Sa collaboration avec Juliette Gréco en est la preuve. C’est lui qui lui avait passé le texte de Queneau Si tu t’imagines, celui avec lequel, en l’interprétant le soir de ses débuts, elle avait complètement subjugué François Mauriac et Marlon Brando. Jean-Paul Sartre avait composé pour elle la seule chanson qu’il ait jamais écrite, Rue des Blancs Manteaux, mais elle fut mise en musique par Joseph Kosma . Quoi qu’il en soit, il aimait Simone Signoret, et, plus il aimait cette actrice magnifique, plus il détestait Yves Montand qui, à son avis, ne la méritait pas. Pour moi, l’accordéon est l’instrument qui permet d’exprimer ce qu’autrement je ne pourrais pas exprimer de mon monde intérieur. En premier lieu, il donne une voix à ma mélancolie mais aussi à la joie que je porte en moi, c’est un cocktail dont les ingrédients changent à chaque fois comme s’il captait l’énergie qu’il y a autour de lui. En ce qui concerne la danse, par exemple, je peux dire que je vis une très grande contradiction. Tout le répertoire lié aux bals populaires ne me plaît pas, il ne m’a jamais plu, et pourtant, je me rend compte que toutes mes compositions se fondent sur la danse, une danse qu’on ne peut pas danser, du genre Piazzolla, que tous les tangueros détestent car il ne les fait pas danser.”

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di Carla Isernia

Edward Hopper

L’appartamento della signora Elena affaccia su due cortili interni: il balcone su quello con la fontana a forma di agrifoglio (che a lei dal primo piano sembra più un cuore); le finestre delle stanze al di là del corridoio, invece, si aprono sulle facciate di due palazzi, uno ocra e l’altro caffellatte. Su entrambi i cortili molte finestre e balconi sono chiusi da verande con vetri opacizzati, grate di sicurezza, tende da sole. L’appartamento è silenzioso anche se l’ingresso principale dello stabile dà su una delle strade più trafficate del quartiere. Potere schermante dei palazzi con otto piani e almeno due scale.

Da qualche mese la mattina la signora Elena si gode il silenzio dal balcone su una sedia a sdraio coperta da un plaid con immagini natalizie anche se è aprile. Le piace aspettare le signore che attraversano il cortile e vanno verso l’androne, sentire i loro saluti – a volte le chiedono come sta, come sta sua figlia, a volte camminano veloci e le riservano solo un cenno di saluto –, vederle tornare cariche di buste, con verdure, frutta, pane, detersivi e dolcetti, a stento coperte dalla pattina del carrello della spesa. Spesso pensa che se non ci fosse tutto quel silenzio nel cortile non coglierebbe il suono dei supermercati, il fruscio delle buste di carta, il sibilo delle affettatrici, il ticchettio delle bilance elettroniche, il rumore bianco dei congelatori a pozzetto che tutte si portano attaccato addosso.

Da allora, la giornata sonora della signora Elena inizia con l’eco delle conversazioni pettegole sui ballatoi delle scale, nella maggior parte dei casi in lingue straniere, in casa il ticchettio dell’orologio da cucina, il ronzio, a volte, del condizionatore, il borbottio della caffettiera, la voce argentina della badante che scarabocchia in cirillico la lista delle cose da comprare. A volte, in camera da letto c’è la radio accesa. Se è fortunata ed è ancora sulla sdraio in balcone, la signora Elena sorride insieme agli scolari che tornano a casa, alle voci che raccontano storie incredibili, qualche pianto, un capriccio, lo strofinio delle scarpe trascinate sul pavimento grezzo del cortile, il drin di un campanello, il suono grave di un citofono.

Dopo pranzo nella sua vecchia poltrona vicina alla finestra la signora Elena nota di più i suoni delle case: metallici di pentole e posate, bassi di piatti e bicchieri, qualche voce in lontananza, sottile, spezzata, musica e parole dai televisori accesi, dalla sua cucina solo il suono sordo provocato dalla vibrazione bassa e continua del megafrigorifero – quando venne il tecnico, chiamato apposta per registrare l’altezza dei piedini, il mastodonte tacque senza ritegno –. L’ora successiva è morta, resa ancora più silenziosa dalle tende, dalle mantovane, dalle persiane e dai doppi vetri.

Verso le cinque, quando la facciata del palazzo ocra tira fuori tutto il giallo, la signora Elena recita il rosario a bassa voce sintonizzata su TV2000. In piedi alla finestra osserva i pensionati che si accingono alla loro passeggiata quotidiana ­– parlano sempre di calcio con il portinaio – e i pochi signori silenziosi che due volte alla settimana aspettano pazienti l’arrivo del medico di famiglia. Uno fuma una sigaretta elettronica, il fumo produce un’ombra volante sull’impiantito grezzo e grigio. Gli altri suoni, quelli di fuori, della strada al di là dei palazzi, non arrivano a lei, filtrati dalle persiane, dai muri, dalle verande, dagli infissi, dalle zanzariere.

La sera, quando il portone di ingresso viene chiuso, la strada è già invasa da macchine in doppia fila di giovani che consumano pizzette, panini, pita, graffe e gelati. E mentre in strada l’aria si riempie di odori acri, dolci, salati, fastidiosi, invitanti, stuzzicanti, appetitosi, di voci alte, basse, allegre, brillanti, forti, sguaiate, e di suoni di clacson, prolungati o appena accennati, ripetuti, infastiditi, arrabbiati; e i motorini dei rider si infilano tra le auto, frenano all’improvviso, urtano il bordo dei marciapiedi, facendo sobbalzare le vivande depositate nei portapacchi coibentati, la signora Elena commenta al telefono con la sorella le notizie del giorno. Solo molto più tardi, dopo la cena e il programma in cui ballano o cantano, o il film poliziesco pieno di azione, sparatorie, sirene, inseguimenti e scontri, un po’ in lontananza le arriva il clangore metallico del camion della differenziata.

Era un fisico il marito della signora Elena e quando avevano parlato dei suoni e dei silenzi – oh, quanto avevano parlato della bellezza del silenzio –, lui aveva spiegato che i filtri sono dispositivi che selezionano un particolare tipo di onde e che il suono che passa dipende dal filtro utilizzato. E così l’onda che arriva al suo appartamento dopo avere provato ad attraversare i palazzi, averli aggirati, essersi infilata negli interstizi, essere stata portata dal vento, diffusa, riflessa, è smorzata, è una miscela di onde laceranti delle sirene, scoppiettanti delle marmitte, roboanti degli acceleratori, stridule dei freni.  Una somma di suoni che nel mondo di dentro dei cortili non copre il cinguettio degli uccellini, ed è spesso difficile scomporre in quelli che la compongono.

Qui, i filtri sono fatti di stampe e quadri, poltrone e divani, tavoli e tavolini, sedie di legno, di metallo e di tappezzeria, credenze contenenti servizi buoni, soprammobili preziosi, fotografie di famiglia; di materassi e biancheria, vestiti, soprabiti e cappotti, collane, bracciali e orologi, scarpe e cappelli; di libri, carte, cartelline, computer e stampanti; di sanitari, piastrelle, termosifoni e caldaie. Dispositivi diversi, che assorbono, appannano, velano, deformano, aggiungono, ai rumori di fondo delle case, ai rumori bianchi quando ci sono, alle voci che provengono dalle radio e dai televisori, musica leggera, classica, disco, acid, rap, rock, telegiornali, il rosario su RadioMaria.

Da qualche mese Elena prende un farmaco che le era stato prescritto per la nausea in gravidanza, cinquanta anni fa. La focomelia, il primo effetto collaterale, venne osservato troppo tardi; malformazioni del feto, teratogenicità, è stata una fortuna che Maria sia nata soltanto con un difetto di udito. «Ammesso che la causa sia stata veramente quella», dissero pure senza vergogna. Elena ha chiesto con forza un altro farmaco, ha pensato di arrendersi al tumore, e poi si è fatta convincere proprio da questa sua figlia alta e spigolosa che ha bisogno di una luce ad indicarle il campanello che suona. «Non puoi lasciarmi da sola», le ha strillato Maria su un blocco a quadretti con la penna che si porta sempre dietro, «non ti assisterò» ha detto a gesti, «non ti parlerò più», le dita a indicare la bocca cucita.

E Maria le ha anche trovato una badante che la assista mentre lei è fuori, che la accompagni dalla sedia al divano, dal divano alla poltrona, che le aggiusti il plaid e decida quando fa troppo freddo per stare fuori, che le cucini, le accenda la TV alle cinque, che la aiuti a mettersi a letto. È uscita sul ballatoio delle scale una mattina Maria e ha chiesto alle ucraine, russe, rumene e filippine che lavorano nel palazzo, si è fatta capire, ha spiegato bene – Elena, con la sua voce e le sue orecchie, non avrebbe saputo fare meglio –. Dimentica sempre la madre che Maria ha studiato, si è fatta strada, ha vinto un concorso non riservato, lavora, come quasi tutte le donne della sua generazione.

Non si è spaventata Elena, quando ha cominciato a perdere un po’ del suo sano appetito, né della arsura continua, né dei piccoli tremori che non riesce a controllare – niente a che vedere con la morsa allo stomaco che non l’abbandona da quando si rese conto che in Maria qualcosa non andava –. Neanche ora ha perso il suo senso dell’umorismo, né l’attenzione agli abiti che indossa, all’ordine in casa, al cibo sano e variato.  È solo la sera a letto, quando i suoni sono affievoliti dalla porta della camera, dalle lenzuola, dal cuscino, dalle coperte, che si domanda se esista un filtro per i pensieri che lasci passare solo quelli belli, che permetta un sogno leggero, che la faccia tornare indietro a quando la vita prometteva senza condizioni. Da qualche parte in fondo lei sa che un filtro così non esiste e se esistesse neanche sa se per lei funzionerebbe. Allora accende la radio, come dispositivo di materiale opportuno che lascia passare una particolare informazione sonora (tagliando fuori tutte le altre), e finalmente dorme.

Sinistra, movimenti e guerra in Ucraina

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I curdi siriani del Rojava che pure sono stati essenziali per sconfiggere lo Stato islamico (Isis) in Siria hanno sempre ricevuto numerose critiche. Una delle più importanti ha riguardato il loro rifiuto di sostenere sia l’autocrate siriano, Bashar al-Assad, sia i ribelli, attirandosi in fin dei conti la diffidenza di entrambi e contribuendo alla narrativa delle opposizioni siriane per cui chi non sta dalla parte dei ribelli finisce per sostenere al-Assad.

Una parte della sinistra europea ha sposato la causa curda, messa a rischio nel suo progetto di autonomia democratica, teorizzata da Abdullah Ӧcalan che marcisce in isolamento nelle carceri turche e di cui è stato pubblicato in queste settimane il libro, Sociologia della Libertà (Edizioni Punto Rosso, 2023), dai continui raid turchi, dalle operazioni militari a partire da «Ramoscello d’Ulivo» (2018), dall’occupazione del Cantone di Afrin e, sin dall’inizio dei movimenti iraniani anti-governativi (settembre 2022), anche dall’esercito iraniano. Invece c’è chi da sinistra continua a professare il suo scetticismo e a criticare la posizione dei curdi siriani: appoggiando apertamente al-Assad o additandoli come gruppi militarizzati, sostenuti dalla Coalizione internazionale, guidata dagli Stati Uniti, che in verità poco ha fatto per i curdi del Rojava.

E così ancora una volta la guerra in Siria rappresenta il banco di prova centrale per valutare anche come la sinistra europea ha reagito al conflitto in Ucraina, quale ruolo hanno i movimenti e cosa resta della neutralità tra Russia e Nato.

La Russia di Putin e la guerra in Siria

È vero che, così come è successo con i curdi, chi ha assunto a sinistra una posizione di neutralità rispetto alla guerra in Ucraina, soprattutto criticando l’invio di armi a Kiev che inevitabilmente avrebbe trasformato il paese in una nuova area di conflitto a tempo indeterminato, così come è avvenuto in Siria, si è trovato ad essere accusato di fare il gioco del presidente russo, Vladimir Putin. E così l’atteggiamento prevalente di molti, rispetto al conflitto in corso, ha riguardato il desiderio di una certa, e forse momentanea, sovrapposizione a sostegno delle posizioni atlantiste della Nato, come le uniche accettabili o il «male minore», in un contesto di guerra di aggressione, quale è stata quella avviatasi con gli attacchi russi del 24 febbraio 2022 in Ucraina.

Appoggiando questa interpretazione che vede chi a sinistra esprime posizioni di neutralità come un sicuro sostenitore di Putin, si compie però un errore importante. Criticare l’invio di armi a Kiev non significa automaticamente sostenere le decisioni russe in Ucraina. Se Putin ha potuto attaccare l’Ucraina è principalmente dovuto al fatto che la comunità internazionale gli ha sempre permesso di fare il bello e cattivo tempo in Siria e in Libia dopo il 2011. In realtà è stato con l’intervento di Putin in Siria, e l’appoggio iraniano, così come con l’intervento russo in Libia, e l’accordo con la Turchia, che i due stati falliti del Mediterraneo centrale e orientale hanno trovato un precario equilibrio che ha bloccato fin qui qualsiasi processo elettorale, la mediazione delle Nazioni Unite in Libia, e riaccreditato al-Assad in Siria, anche dopo il terribile terremoto del 5 febbraio scorso in cui il presidente siriano ha giocato di nuovo l’arma dell’emergenza umanitaria per ricoprire il ruolo del «salvatore» dalle macerie della guerra.

E così è evidente che Putin, così come al-Assad, e gli altri autocrati regionali, da Abdel Fattah al-Sisi al nuovo discorso «fascista» e anti-democratico del presidente tunisino, Kaes Saied, non rappresenteranno mai un’alternativa credibile all’anti-americanismo che una parte della sinistra ancora spera di incarnare nel suo posizionamento rispetto alle dinamiche geopolitiche regionali. Quindi nel caso specifico, se suona ridondante credere che la stessa Nato che ha distrutto la Libia con i disastrosi attacchi del 2011 sia migliore della Russia di Putin, è altrettanto scorretto credere che il pacifismo e la contrarietà all’invio di armi in Ucraina significhi appoggiare le posizioni di Mosca. Si tratta di una sorta di guerra impari per chi è peggiore tra i due fronti del conflitto. In uno scontro che non esprime due posizioni davvero alternative. In altre parole, non solo si tratta di una guerra al ribasso, a chi fa peggio dell’avversario ma anche uno scontro in cui più che trovare chi ha ragione, è meglio partire dal presupposto che in realtà hanno tutti torto.

E così ancora una volta le dinamiche di conflitti e movimenti che hanno attraversato il Nord Africa e il Medio Oriente sono utili per analizzare le attuali dinamiche interne alla sinistra rispetto alla guerra in Ucraina e stigmatizzare sia il posizionamento di chi ha ancora nostalgie «putiniane» o «assadiane» sia di chi ha sposato completamente le ragioni della Nato, difendendo invece le posizioni di una neutralità che riconosca i torti di entrambi e non le ragioni di qualcuno.

Propaganda mediatica e movimenti

Che la guerra in Ucraina sia principalmente una guerra mediatica lo ha dimostrato l’atteggiamento chiaramente provocatorio che il presidente russo ha assunto dall’inizio del conflitto. È sembrato subito evidente che la guerra in Ucraina fosse più che altro una dimostrazione di forza, la prova che la Russia continua ad avere il pieno controllo in quella regione, come è sempre stato. E la debole e ambigua reazione occidentale non ha fatto altro che accreditare questa posizione.

Lo stesso fanno le autorità iraniane che continuano a provocare giovani e attivisti, difendendo l’imposizione dell’obbligo dell’hejab, tentando di scoraggiare la partecipazione femminile nelle proteste di piazza con arresti, violenze in carcere, e avvelenamenti di centinaia di studentesse, come di recente è avvenuto nelle scuole di Qom. Eppure il movimento «Donna, vita, libertà», iniziato dopo la brutale uccisione della giovane curda, Mahsa Amini, da parte della polizia morale lo scorso settembre, è la sfida più estesa e significativa alla Repubblica islamica dopo la rivoluzione del 1979. Un movimento che va ben oltre l’obbligo del velo e coinvolge giovani, studenti, minoranze curde, baluchi e arabe, lavoratori e commercianti, diaspore all’estero.

Anche in questo caso, la leadership iraniana non fa altro che alimentare le proteste, innescare nuove mobilitazioni, per esempio non accettando la diffusa pratica di molte donne iraniane di non voler più portare il velo, per mostrare in ultima analisi di essere in grado di ristabilire l’ordine in caso di alta conflittualità. E le mobilitazioni continueranno, come ha assicurato l’avvocata per la difesa dei diritti umani in libertà vigilata, Nasrin Sotudeh. Mentre le autorità iraniane sembrano sempre più allineate sulle posizioni di Mosca, per superare l’isolamento internazionale, anche dopo l’ammissione dell’invio di droni che sono stati utilizzati dalla Russia di Putin per attaccare Kiev, sebbene, nelle dichiarazioni ufficiali, Teheran continui ad affermare la sua neutralità nel conflitto.

Iran e Arabia Saudita: rivalità e amicizia

A questo si aggiunge il riavvicinamento tra Iran e Arabia Saudita, dopo la crisi diplomatica del 2016, che si sono rincontrati nelle scorse settimane in via ufficiale grazie alla mediazione cinese, a conferma che i due paesi, nei momenti critici, o quando è necessario stabilire per esempio i livelli di produzione e i prezzi del petrolio in sede Opec, trovano sempre un accordo che assicuri benefici sia per Teheran sia per Riyad.

In altre parole, così come Russia e Stati Uniti non rappresentano modelli alternativi nella gestione dei conflitti geopolitici regionali, non lo sono neppure Iran e Arabia Saudita, impegnati entrambi a sostenere i rispettivi attori politici di riferimento per procura in Siria, Libia, Iraq, Afghanistan, Libano e Yemen. I grandi nemici, o dipinti come tali dai media occidentali, riescono sempre ad accordarsi invece quando sono in gioco i loro interessi. E hanno entrambi torto quando hanno a che fare con i movimenti di contestazione e non rappresentano in nessun caso un’alternativa l’uno all’altro. Così come le rivendicazioni per i diritti e l’uguaglianza dei lavoratori e delle donne saudite, qatarine e del Golfo non sono meno rilevanti di quelle delle donne iraniane.

Proprio la disastrosa guerra degli Stati Uniti in Iraq del 2003, di cui ricorre il ventennale, e il progressivo disimpegno di Washington dal Medio Oriente che ha contribuito per esempio al ritorno dei talebani in Afghanistan nell’agosto 2021, hanno lasciato uno spazio senza precedenti alle autorità iraniane nei paesi vicini. E così le proteste giovanili e con una grande presenza femminile del 2019 in Libano e in Iraq oltre ad essere anti-americane erano anche mobilitazioni contrarie all’influenza dell’Iran nei due paesi. In altre parole, scegliere con chi stare tra Turchia, Iran e Arabia Saudita, così come schierarsi tra Russia e Nato, non è una vera scelta tra due alternative. E non è su questo su cui dovrebbe interrogarsi la sinistra oggi.

 

Appartenere alla sinistra nel 2023 significa, come sempre invece, essere contro la guerra, in Iraq come in Ucraina, sostenere la società civile e le opposizioni in questi paesi, e in particolare i movimenti. Significa stare con gli oppositori russi, con i curdi del Rojava, con le migliaia di prigionieri di coscienza, come Alaa Abdel Fattah in Egitto, con il fronte «anti-fascista» in Tunisia, inclusi giornalisti, sindacati e con tutti coloro che combattono la xenofobia di Kaes Saied che ha messo a rischio i migranti subsahariani nel paese, costringendoli a una fuga senza precedenti, e con i movimenti iraniani che chiedono la fine dei limiti imposti ai diritti di tutti da parte degli ayatollah che hanno tradito la rivoluzione del 1979.

Tratto da Effimera

 

Les nouveaux réalistes: Fabrizio Pelli

3

Soul Kitchen

di

Fabrizio Pelli

Quando il medico gli prescrisse per la prima volta l’acido valproico, F., paziente bipolare, non aveva programmato di sentirsi così sereno. Grazie a una sgangherata epifania, si era convinto di non essere altro che un malato come un altro; ché se esisteva un farmaco per curarsi, allora una malattia della mente non era diversa da quelle della pelle, dei reni o del fegato.

«Dotto’, mi sento già meglio, sa? M’è bastato che mi dicesse che una cura esiste per farmi rinvenire: non credo di aver più bisogno delle med-».

«Come un fiore appena annaffiato», il dottore lo aveva interrotto, «Ma questa a me pare tanto una malcelata paura. Ne abbiamo già parlato, e le ho detto che non ha nessun bisogno di affidarsi a quel che legge su internet. Questi farmaci non sempre hanno effetti collaterali gravi».

Il suono croccante dello strappo del modulo prestampato aveva ricordato a F. il rumore degli schiaffi che il padre gli recapitava sulla guancia tutte le volte che aveva paura.

«Forza», gli sembrava di sentirlo anche in quel momento, «Che non possiamo far notte: c’è da muoversi».

Così, F., in preda a memorie spaventose e a una rinnovata sicurezza, si era diretto in farmacia e lì aveva comprato le sue dosi tondeggianti di stabilità emotiva.

Aveva mantenuto il ritmo scandito dalle somministrazioni come un metronomo, imperturbabile e meccanico, senza più chiedersi – o addirittura dimenticandosi – degli effetti collaterali di cui aveva letto largamente su internet: danni al fegato, causa di ulcere dolorosissime di cui pensava capaci solo gli ubriaconi, reni irritati e una fantasia sull’addio autoforzato manifesta solo in una percentuale piccola di pazienti; insomma, il suicidio.

Un giorno di luglio, quando la canicola faceva ondeggiare le strade, a F., per un improvviso attacco di malinconia, era venuta voglia di un piatto abbondante di pennette al pomodoro. Il sugo sarebbe dovuto essere denso, come lo preparava sua mamma, rigorosamente senza aglio, ma piuttosto con un soffritto di cipolla che lo rendeva dolce e acido, completo e bilanciato per natura.

Samurai, col suo coltello a mezzaluna, si muoveva veloce sul tagliere, tritando finemente ogni residuo di cipolla. E più la tritava, più questa piangeva un profumo pestifero che riusciva a sfondare i cancelli di peli, salire nelle narici e andargli a strizzare le ghiandole lacrimali. F. piangeva, e per piangere meno cercava di sdrammatizzare, scherzando sul sale sciolto nelle lacrime: «Le metto a bollire, così ci cuocio le pennette».

Dopo aver messo a soffriggere le cipolle in un filo – piuttosto spesso – d’olio, inondato la padella di pomodoro sanguigno e finalmente gettato la pasta nell’acqua bollente, F. si era tuffato sul divano della sala-cucina. Lì, scrollando il cellulare, si era accorto di non aver ancora smesso di piangere – le sue lacrime: goccioloni di pioggia fittissima. E cominciava a sentirsi contrito e colpevole di non aver chiamato sua madre nei giorni precedenti.

«Sarà almeno una settimana», aveva detto, perdendo il conto dei giorni sulle dita. Come quella volta in cui era stata ricoverata per un piccolo intervento, e lui, rapito da impegni spesso ingigantiti per giustificarsi, non solo non era andato a trovarla, ma non l’aveva nemmeno chiamata per chiederle come stesse, se si fosse ripresa dalla dormia (chiamava così l’anestesia completa) e se l’operazione fosse andata bene. Dopotutto, però, nemmeno lei lo aveva chiamato, e questa consapevolezza gli aveva causato un piccolo brivido, preludio elettrico di quell’ansia che piano piano iniziava a crescergli nello stomaco.

«Ecco, non mi vuole più bene», mugolava, «Non le interesso più. Il benservito, m’ha dato, la sua vendetta, ché almeno una telefonatina dopo la visita dallo psichiatra poteva farmela».

F., incapace di sopportare il senso di colpa, la rabbia e l’ansia tutti insieme, come in una fucilazione dove il condannato è uno, ma i fucilieri tre, si era reso conto che quel pianto innescato dalla cipolla aveva preso altre vie, aveva cambiato cause, e ora proseguiva in autonomia a disidratargli gli occhi. E più lui perdeva tempo a disperarsi, più la pentola sbavava schiuma amidosa che minacciava di cascare sul piano cottura, magari di bagnare e spegnere il fornello, e lasciar uscire uno spiritello di gas, invisibile e maligno, che lo avrebbe ucciso senza alcuna remora. F. se n’era reso conto così, immaginando una grande esplosione, o un sonno forzato e il conseguente soffocamento.

Per un istante – uno solo – l’idea gli era sembrata anche dolciastra, di quel dolce acidulo che gli ricordava il sugo al pomodoro: morire e non dover pensare più a nulla, non essere più costretti a sopportare questi martirii quotidiani: l’ansia, una frusta; la rabbia, un marchio a fuoco; la colpa, un veleno costipante. Ma quando rinvenne, quando si rese conto che quel pensiero non poteva essere così dolce – si trattava comunque di lasciarsi morire – F. era saltato sulle due gambe motrici ed era corso a controllare la pasta. Dopo aver calmato il bollore con un giro di cucchiaio, aveva cominciato a sistemare il piano di lavoro, ponendo il tagliere nel lavandino e con lui anche il coltello a mezzaluna.

Era sempre strato maldestro, andato a vivere da solo unicamente per dimostrare a se stesso che forse anche lui poteva vantarsi di un minimo di indipendenza. Ma le carenze del suo saper vivere si manifestavano in piccolezze come un contenitore di vetro, rotto perché messo in forno, il microonde fuso per averci scaldato gli spaghetti di soia conservati nella scatola di alluminio o, come in questo caso, in un taglietto sull’indice per via della sua incapacità a lavare correttamente un coltello.

F. aveva alzato il dito, mettendolo controluce: il sangue usciva copioso. Aveva guardato di nuovo il coltello, poi il dito, poi il coltello, poi il dito, e ogni volta che si voltava verso quella mezzaluna, gli sembrava che somigliasse sempre di più alla falce della Morte, venuta lì per portarselo via. Magari tagliandogli le vene con quello stesso coltello. Sì, attorno ai manici vedeva i quadratini di cipolla ordinarsi in falangi e falangine, fino a ricostruire una mano bianca, ossuta, che gli avrebbe tagliato gli avambracci e lo avrebbe aspettato fino al completo dissanguamento.

Di fianco a lui, attaccata a una presa della corrente, il cavo del cellulare si era attorcigliato formando un nodo tondeggiante e pendeva dal mobile verso il pavimento.

«Pure il nodo scorsoio e il cappio, pure questo scherzo!», aveva gridato iniziando a pensare di essere – finalmente – diventato pazzo; non più ascrivibile alla loggia dei bipolari, ma puramente pazzo, di quelli che la gente indica e sottovoce dice: «Questo è stato l’errore di Basaglia».

Preso dal panico, F. era tornato sul divano e si era coperto gli occhi. Tarato il respiro, gli era sembrato che una voce accompagnata da un alito caldo lo stesse chiamando. Aveva sbirciato, insicuro, per controllare di essere solo. Il suono, la voce, veniva dalla finestra in fondo alla stanza.

Più per curiosità che per coraggio, con lentezza guardinga aveva intrapreso la spedizione, ed era arrivato davanti al vetro. Ci si rifletteva, ma non al meglio: gli sembrava che alcuni lineamenti non fossero del tutto suoi. Simili, sì, ma non identici.

«Tuffati», gli aveva ordinato il riflesso, in cui finalmente riconosceva il volto di suo padre, «Tuffati, su! Mica ho voglia di aspettare la notte».

«Pa’, Dio mio! Non voglio buttarmi».

«Tuffati, forza! Come ti ho insegnato in Sardegna, sugli scogli: di testa, con le mani appuntite per tagliare l’acqua».

Incapace di mettersi contro a suo padre, persino al suo riflesso, F. aveva aperto la finestra e aveva guardato di sotto: l’asfalto ondeggiava – un mare solido e nero con righe drittissime di schiuma bianca. Avendo accettato il suo destino, F. aveva chiuso gli occhi, si era arrampicato sulla finestra, e si era lasciato andare, aprendo le braccia come un rapace, o come un Cristo sconclusionato.

Sotto casa di F., il fruttivendolo che aveva appena sistemato i pomodori, le arance e le fragole nelle scatole sulla strada, era stato testimone del volo, più pindarico che strettamente detto, di un falso suicida. F. era atterrato sulla frutta, alzandosi prima col busto, poi sulle gambe, ricoperto completamente di sughi rossi.

«So’ morto?», aveva chiesto al fruttivendolo che lo guardava senza particolare stupore.

«No, è solo sporco».

Dopo questa conferma petrosa, F. era tornato di sopra a passi pesanti di vergogna. Arrivato sul pianerottolo, dopo aver aperto l’uscio con le chiavi di scorta che teneva nascoste sotto allo zerbino per sincerissima sfiducia verso se stesso, era andato prima a spegnere il fornello, pasta ridotta a poltiglia e pomodoro ormai un coagulo piastrinico, e poi si era lasciato fagocitare ancora sporco – o condito – dal divano.

Aveva chiamato il medico al cellulare.

«Dotto’, posso disturbarla?»

«Mi dica! Sto andando in pausa pranzo».

«Sono stato male, non voglio più prenderlo, il valproato».

Il medico aveva sbuffato, un toro pronto alla corrida, cercando di silenziare un sussulto di superiorità.

«Facciamo così: le racconto come funziona il farmaco, qual è il suo meccanismo, così magari si calma e si convince che abbiamo tutto sotto controllo, d’accordo?»

«La ascolto», F. era tutt’altro che convinto.

«Vede, l’acido valproico è sia un inibitore del GABA–T, sia un bloccante dei canali al sodio. Up–regola il signalling inibitorio e down–regola il signalling eccitatotorio. L’effetto è un’ipereccitazione netta. Ha capito?»

«Mica tanto».

«Meglio», a F. era sembrato di sentire la pelle del medico scricchiolare e tendersi in un sorriso, «Non ci pensi troppo, anzi! non pensi troppo e basta, prenda le compresse e vedrà. Si dia tempo, con questi farmaci ce ne vuole per vedere effetti tangibili. Guarirà, si fidi che guarirà. Ora la saluto che mi è arrivato il piatto».

«Speròm. Arrivederci dotto’, la ringrazio».

F., sempre dolente, ma calmato dalla fiducia del dottore nella sua scienza, aveva deciso di accettare la sua sorte, ché se c’erano passati anche altri, magari qualche possibilità di saltarci fuori ce l’aveva anche lui. Era tornato al piano di lavoro, aveva acceso il fornello riempendo la pentola con acqua nuova, e aveva cominciato a tritare una nuova cipolla, concedendosi a un nuovo pianto, sì, ma fasullo e naturale.

 

 

 

Gea’s Dinner

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di Mariagiorgia Ulbar

Per motivi famigliari ho trascorso 21 giorni nella mia casa di origine e ho foggiato oggetti al tornio nel “garage dei topi”, un piccolo laboratorio casalingo ricavato da una stanza di rimessa che apparteneva a mia nonna, in disuso da parecchi anni e solo ultimamente rinnovata. Visitata nelle sere di maggiore umidità da una famigliola di scorpioni, sono andata avanti a modellare 21 oggetti di uso comune in terra bianca, quali tazze, ciotole, bicchieri, piatti, barattoli e uno spremiagrumi, non senza qualche imprecisione e qualche incidente. Essi sono andati a comporre Gea’s Dinner, un progetto sperimentale che vede un mio testo poetico frammentarsi in 21 parti, un ipertesto su ceramiche di uso comune. Ognuno dei 21 oggetti è stato decorato e cotto seguendo il processo tradizionale della maiolica che prevede una prima cottura dei manufatti a 980° e una seconda dei manufatti decorati a 930°. Gli oggetti sono rimasti dall’inizio alla fine uniti nei vari passaggi, nell’idea di perseguire il concetto di frammentazione e unione in contemporanea. Ho corso tutti i rischi del caso: di rottura, di danneggiamento, di non riuscita. Probabilmente Gea stessa si è fatta divinità tutelare dell’esperimento e ogni passaggio è riuscito senza intoppi. Ogni oggetto contiene qualche parola di un mio testo poetico inedito, che potrà esistere ed essere letto, nella sua interezza, soltanto quando gli oggetti verranno riuniti in una ipotetica “cena”.

Alle 21 persone che, a scatola chiusa, hanno scelto di aderire al progetto pagando il prezzo di un ipotetico libro, per una cifra compresa tra i 10 e i 25 euro a seconda dell’oggetto, ho comunicato via via i passaggi e infine ho consegnato gli involti legati con carta e spago – evitando plastiche, anche quella del nastro adesivo – e una lettera di accompagnamento che spiega gli intenti del progetto e fornisce le istruzioni per portarlo a compimento. Ogni persona è libera di usare l’oggetto come crede, ma è pregata di immaginare, in un momento, di doverlo utilizzare per partecipare a una cena con altre persone, usandolo come contenitore per del cibo o altro che si vorrebbe condividere. Per ora, data l’impossibilità di creare un incontro reale per motivi geografici e organizzativi, ho chiesto di inviarmi delle foto che ritraggano l’oggetto preparato per la cena e in cui sia possibile vedere le parole su di esso riportate, per permettere un collage che servirà a ricostruire e rendere leggibile il testo.

L’oggetto in ceramica è la pagina di un libro, un libro che, come tutti i libri, è fatto di materia organica, del frutto di un’astrazione cerebrale e di un atto creativo, di frammenti che compongono un tutto. Nella fattispecie, è un libro di poesie composto da una sola poesia che occupa lo spazio di 21 oggetti di uso comune in ceramica – quelli che potrebbero convergere nello spazio di una tavola per una cena – e nelle mani di 21 persone. Gea’s Dinner è un esperimento letterario e artistico che vuole toccare una visione della letteratura come opera unica che accade nello spazio intermedio tra la produzione di chi scrive e la ricezione di chi legge e usa l’opera nella sua vita personale. È anche una presa di posizione rispetto all’industria editoriale, che sta spingendo le categorie estetiche ed etiche verso un’annessione alle categorie commerciali, in un errore di interpretazione tanto squallido quanto pericoloso, che segna la storia umana. Con Gea’s Dinner mi interessa sottolineare l’idea che la poesia, per esistere, ha bisogno di un incontro semplice, essenziale e per questo ho scelto di lavorare su una materia basilare che è la terra che, nel processo di trasformazione in ceramica, incontra gli altri tre elementi fondamentali che sono l’acqua, l’aria e il fuoco. Mi interessava che fosse sottolineato, in questa opera, lo stretto rapporto tra la natura e i suoi doni, l’intelletto e la mano umana, una certa alchimia insita nella materia tangibile e in quella artistica, la connessione tra persone, spazi, intenti e la salvaguardia di alcune necessità fondamentali, toccate concettualmente e metaforicamente: il diritto alla nutrizione per l’umanità intera, l’incontro con gli altri, anche gli sconosciuti, la realtà, l’irrealtà, l’azione creativa come energia vitale.

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Mariagiorgia Ulbar ha pubblicato I fiori dolci e le foglie velenose (Maremmi 2012), la silloge “Su pietre tagliate e smosse” all’interno dell’Undicesimo quaderno italiano di poesia contemporanea (Marcos y Marcos 2012), le plaquette illustrate Osnabrück e Transcontinentale (Collana Isola 2013), la raccolta Gli eroi sono gli eroi (Marcos y Marcos 2015), Un bestiario (Nervi Edizioni 2015), Lighea (Elliot 2018). Hotel Aster (Amos 2022) è la sua ultima pubblicazione. Insegna, traduce, modella la ceramica e tiene laboratori di “scrittura e immaginazione”. Dal 2012 è editrice e curatrice di La Collana Isola che pubblica piccoli libri sperimentali di poesia e illustrazione.

 

 

Mots-clés__Cactus

1

 

Cactus
di Giulia ScuroOrnella Tajani

Jacques Dutronc, Les cactus -> play

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Da: Ernst Jünger, Serpentara, in Autunno in Sardegna, trad. Mario Bosincu, Le Lettere, 2020.

Una delle piante del cortile era un cactus, che diffondeva i suoi polloni sul tetto basso. Avevo fatto appena caso al viluppo grigio-verde con cui si innalzava; era poco appariscente e simile al braccio di un vecchio o ad un sauro disseccato addormentato nel fango. Una sera si dispiegarono da questo basamento secco tre fiori di una magnificenza che non avrei mai immaginato. Guizzarono in alto come tre corone dentellate d’argento abbagliante, sormontate da stami dorati. Spiccarono così contro il cielo della sera quali ornamenti regali e coronamento della casa. Persino la signora ne fu colpita, sebbene gli uomini del Sud si accorgano a malapena di ciò che avviene nella natura, mentre hanno la vista più acuta per tutti i mutamenti sociali. Rimase ferma a guardare, mentre era intenta a sbrigare una delle numerose faccende a cui si dedicava ai fini del nostro benessere, indicando verso l’alto: «Guardate questo miracolo. Eppure ci sono uomini che non credono in Dio».
In effetti, c’era qualcosa di particolare in questi fiori posti come lampade miracolose sul tetto ingiallito. Quale luce ne era irradiata! Il cortile appariva mutato, nobilitato dallo splendore dei lumi che ardevano preziosi. La mattina dopo il fulgore era appassito. La bellezza ha tratti d’arcangelo e resta, tuttavia, solo un messaggero dell’Assoluto che promette cose indicibili.

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[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. Ogni prima domenica del mese, Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]

Jukebox: Roger Waters

1

Cronistoria di un minuto

Roger Waters in concerto a Bologna
di
Elvio Carrieri
Mentre salgo le scale pare di trovarmi in guerra. L’asfissia, la stanca umidità, spari e spari ovunque. I miei compagni umani si dibattono tra  attacchi epilettici e prese di coscienza, chi è rimasto escluso fuori dal tornello bestemmia sillabe che si scontrano e quasi altisonanti formano un nome, che però a me, soldato in preda al furore del mattino, non è dato conoscere. Alzo gli occhi e lancio una preghiera al coperchio che mi fa da cielo, tiro un sospiro, stringo la mano a chi mi sta accanto e singhiozzo nell’affanno. L’agonia pare esser terminata, ho ancora saliva nella bocca, l’aria mi passa ancora trai bronchi. Una mitraglia! Una sfrontata mitraglia interrompe il mio soliloquio, è tornata l’angoscia guerresca del soldato, c’è qualcuno che mi reclama a sé, ma non lo vedo. Non lo sento. Il collo mi impedisce di girarmi. Un proiettile mi fora lo sguardo, l’occhio cade inerme sullo schermo. Sono al buio. Lui è una sagoma rossa, appena illuminata. Di fronte a me troneggia Roger Waters. Mi indica, ho il suo dito puntato nelle pupille. “You! Yes, you! STAND STILL!”. Il suo grido è una bomba lacrimogena.
È certo dal principio che la mia serata sarà condotta da questo satiro e che sto per assistere a un cerimoniale di sacrificio che ha come fine ultimo quello di abbattermi con un proiettile e farmi risorgere dal bossolo.
La messa ha per me inizio in ritardo sulle note di Another Brick In The Wall, eseguita nella sua interezza in ognuna delle tre parti che la compongono, come fosse un canto popolare dal quale doversi altezzosamente liberare al più presto. La cantano tutti, dal primario dell’ospedale Sant’Orsola alla casalinga di San Lazzaro di Saveno. Non c’è uomo o donna nell’Unipol Arena che non provi nel fegato lo stimolo di buttar fuori queste schegge antiautoritarie, immerse nella bile, mentre il satiro vestito di nero opportunamente svanisce nel nulla. Siamo tutti anti-establishment, troppo, per renderci conto che il nostro canto è diretto all’auctoritas nascosta, al musicista ultra settantenne che avrà in mano le nostre interiora per due ore e mezza. Senza alcun ritegno Waters ha da subito intenzione di far indignare i presenti, e così compaiono in ordine sul maxischermo fotografie di Ronald Reagan, Barack Obama, Donald Trump, Joe Biden: criminali di guerra. Nessuno escluso. La condanna del satiro diventa verbo in tutta l’arena, e il popolo esulta, impazzisce infervorato nella collettiva sommossa anti USA. “Cominciamo bene!” penso mentre un ragazzo altrettanto infervorato (ma non per le stesse ragioni) mi grida in faccia parole che non capisco. Sono così immobilizzato da non rendermi conto che ostruisco la vista. Chiedo scusa e umilmente, col mio passo felpato che resiste a ogni genere di autorità, cerco il mio posto.
Dopo l’attacco al fulmicotone, la chiesa si zittisce in preghiera, e il satiro apre bocca per la prima volta. Fa quello che ogni artista che si rispetti dovrebbe fare di fronte a un pubblico: parla di se stesso. Parla della sua vita. Ci racconta, mentre i più virili si trattengono dal non scoppiare in lacrime, di quando era ragazzino insieme al suo amico Syd Barret (l’arena sospira al solo nome del maledetto perduto) e i due vennero folgorati alla vista del primo vero gruppo Rock’n Roll che abbia mai solcato questa terra:i Rolling Stones.
Da quel momento, sostiene Waters, vollero vivere il sogno, il sogno puro, autentico e primigenio che solo la musica rock poteva permettersi di impiantare nelle menti dei giovani inglesi degli anni sessanta. A questo punto, l’arena s’incupisce. Tutti, non uno escluso, conoscono la storia di questi due ragazzi della provincia inglese. Suoneranno, la psicosi assalirà l’uno e la nevrosi l’altro, poi cambieranno il mondo. Così il ragazzino di quasi ottant’anni che mi sta di fronte si allontana dalla buona compagnia di Pan e Dioniso per auto incoronarsi padrone dell’elegia: vuole raccontarci la storia della sua band. Noi tutti in coro lacrimiamo, e lo invitiamo a cullarci.
Dopo aver ricevuto dal groove sensuale di Have a Cigar l’erotica illusione di poter vivere nella nostalgia dei bei tempi andati, noi tutti uomini e donne ammassati nella calca scarichiamo la tensione, e diventiamo santi. La dodici corde intona le prime note di Wish You Were Here, e dal rito pagano l’Unipol Arena invoca una divina liturgia. Stringo la mano a chi mi ha accompagnato in questo rito, appoggio l’indice sulle guance e sento le lacrime. Guardo il volto angelico alla mia destra e penso che abbiamo ancora molto da imparare dalla musica e dal suo valore catartico, e che no, Aristotele non ci ha insegnato assolutamente nulla. Il latte immateriale che ho sulle dita mi ricorda che sono un uomo, e che devo esser grato al satiro che mi guida in questo cerimoniale bacchico e beatificante se posso amare chi mi giace accanto.
Per un attimo invidioso il musicista che ribolle in me reclama la propria autorità, e invade questo spazio purificato con le proprie considerazioni. Noto che, finora unica pecca, l’arrangiamento risentito e ristretto di Shine On You Crazy Diamond non rende giustizia alla maestosità onirica del brano. Penso che sia un modo di reclamare la propria autonomia rispetto agli ex compagni, un secco ed implicito messaggio inviato a David Gilmour: posso farcela anche senza di te. Questa volta il satiro non mi convince. Il brano, annoto nelle mie masturbazioni mentali, ha bisogno di iniziare con quelle quattro note, ma il mio delirio autocelebrativo non mi dà neanche tempo per compiacermi, perché osservo una pecora avvicinarsi. Una gonfiabile pecora di plastica volteggia nell’aria accompagnata dall’organo ossessivo ed inquietante della suite space-funk Sheep. Sotto la scritta erotica e imponente “RESIST AUTHORITY” la platea è illuminata e l’animale fa il giro dell’Arena, tutti lo osserviamo avvicinarsi, tutti lo fissiamo con accidia, tutti, mi rendo conto a posteriori, lo filmiamo. Se durante il rito evangelico di Wish You Were Here non c’era un uomo la cui virilità era rimasta intatta, nel brano più acutamente socio politico Sheep, dove Waters cita Huxley e Orwell, noi tutti, come pecore, filmiamo la pecora che ci si avvicina per scrutarci negli occhi. La considerazione mi destabilizza, soprattutto perché non è merito del mio ingegno. Durante questa isteria, un’isteria che accade ovviamente in interiore homine, il pubblico viene abbandonato a se stesso, e il fauno, conscio delle proprie malefatte, svanisce dalla struttura. Non potrei esser certo che ognuna delle ventimila persone nell’Unipol Arena abbia percepito lo stesso, ma per un quarto d’ora, tra una foto e l’altra (sigh), un senso di voraginosa inconsistenza ha tremato sotto i piedi dei più audaci (a livello di pensiero, s’intende).
Non ci è concesso riposo alcuno. Mr Waters ci ha ingannati con la sua assenza. La vertigine è ancora lì, nelle fondamenta di acciaio della struttura, pronta a corrodere i nostri vestiti.
È così che all’improvviso dal tetto pendono quattro bandiere inflessibili, che alla mente riportano una certa simbologia innominabile, e che al cuore non lasciano il tempo di tornare in sincronia col proprio battito. Roger Waters, il fauno ascetico dalle zampe caprine, viene fuori da un cunicolo del palco e sale le scale con la gravitas di chi ha composto un capolavoro, ne è conscio, ed è in procinto di vomitartelo addosso.
È avvolto da una lunghissima giacca di liscia pelle nera, il volto oscurato dagli occhiali, a qualunque uomo minimamente consapevole di storia contemporanea ricorderebbe un dittatore, un gerarca che a primo impatto sembra poco democratico. Le chitarre lo annunciano, è l’uomo vero, il satiro barbuto, che in trombe elettriche viene a consolarci e a redimerci dalla miseria in cui egli stesso ci ha lasciati; si muove da una punta all’altra della croce sul riff operistico e magniloquente di In The Flesh. L’Unipol Arena è a metà del suo percorso di purificazione. Il resto del concerto sarà il perfetto e definitivo medley della colpa, del martirio e della santità. Il Fauno, dal suo palco a forma di croce situato al centro della platea, ci chiama a raccolta in nome dell’antieroe del suo capolavoro The Wall, sull’ostinato della chitarra di Run Like Hell. L’arena pare immobilizzata nello sguardo e fluidificata nei movimenti: tutti, all’unisono, battono le mani.
Nel mentre un maiale ingozzato, che pare uscito da Animal Farm, ci vola attorno abbastanza lento da consentirci di leggere l’imperativo dal quale è stato marchiato: Fuck The Poor. La musica ballabile di Run Like Hell fa di contrasto con l’inesorabile constatazione scritta sul costato del maiale. Noi tutti, questa volta scoordinati, balliamo. E ignoriamo.
Alla fine del rito mondano il pubblico è derubato della luce che fino ad allora l’aveva illuminato, e l’Unipol Arena, nera, apocalittica, asfittica, è rischiarata da una gigantesca scritta sul maxi schermo: FREE JULIAN ASSANGE. Alzo gli occhi e penso che non c’è bisogno di far politica per schierarsi nel sociale. A tratti la giustizia è semplicemente lì che brilla. Seguono scritte minimali accanto al volto in bianco e nero di Roger Waters che canta De Javu, da solo, con una chitarra acustica e ventimila persone pronte a diffondere apostolicamente il verbo della libertà e dei diritti umani. “LOCK UP THE KILLERS, FUCK THE PATRIARCHY” e ancora “WE ALL NEED RIGHTS”. Siamo tutti uniti, questa volta non scoordinati, questa volta lo percepisco. Per colmo di schizofrenia il satiro mette fine alla patetica sviolinata sui diritti umani e invia il segnale: ecco il ritmo di un registratore di cassa in sette quarti, un maiale immerso nel verde sul maxischermo, un riff semplicemente immortale, e l’intera Unipol Arena viene giù d’un fiato. Particolare plauso nell’esecuzione di Money va dato ai musicisti solisti, sassofonisti e chitarristi che hanno fatto i compiti e non cannano una singola nota rispetto alle partiture originali di The Dark Side Of The Moon, opera alla quale il satiro Waters ha scelto di dedicare l’ultima parte del concerto.
Molteplici possono essere i motivi di questa scelta, soprattutto se si nota che in spettacoli come questi si procede al millisecondo, e nulla, neanche una nota, è lasciata al caso. È questo il momento in cui la croce al centro della platea viene avvolta dal prisma più famoso della storia: ad uno ad uno, come nelle albe più (s)fortunate, si scompongono i colori. L’ordine di esecuzione dei brani riprende in modo certosino l’ordine del secondo disco di The Dark Side Of The Moon, e come nell’originale, il momento più lisergico rimane la Us And Them di Rick Wright.
Una progressione di quattro accordi che Michelangelo Antonioni liquidò con le seguenti parole:
È meraviglioso, ma è troppo triste. Mi fa pensare a una chiesa
Strano pensare che sia stato il momento in cui chiunque si è sganciato dai propri limiti ontospaziali. Sarà che sono quattro accordi, sarà che l’Hammond di Wright era l’unico strumento a poter introdurre un brano del genere, o forse sarà proprio quel terzo accordo dissonante nella progressione, unico nella storia del rock degli anni ‘70, ma a metà di Us And Them ho smesso di ragionare sulle logiche astratte e concrete della descrizione del reale e ho baciato chi mi stava accompagnando in questo viaggio. Questi brevi secondi rimarranno il momento più alto della mia esperienza nella sua estrema complessità narrativa.
Al limite delle nostre voci e delle nostre sensibilità, il fauno sacerdote decide di interrompere il tutto, ci fa sorridere col suo italiano affannoso, si beve un bicchierino sul palco e ci dice:
I feel the empathy in this room
Non ho mai visto una rockstar, un performer, un artista, un illustre medico o ingegnere gestionale così umano e così vulnerabile. Roger Waters, l’uomo vero, il Satiro barbuto, ha denunciato la civiltà come illusione e ci ha al contempo dato speranza nell’umanità. Per un attimo non ho condiviso la descrizione nietzschiana della figura del satiro, quella di un uomo greco, semi-animalesco, che corrisponde ad uno stadio pre-umano dell’umanità stessa, anteriore ad ogni forma di civiltà, e dinanzi al quale ogni civiltà si svela come menzogna, in quanto si edifica sull’occultamento del dolore. No, in questa celebrazione non vi era occultamento del dolore. Per un momento, a fine concerto, Roger Waters si è appoggiato su un pianoforte, mi ha raccontato della morte di suo fratello, di sua moglie, di Bob Dylan, ha reinventato la forma canzone, ha pianto di fronte a me, lo giuro con i miei occhi, ha sollevato il suo pubblico contro l’armamento nucleare, ci ha terrorizzati tutti quanti, e ci ha mandati in pace, in nome dell’umanità. Adesso siamo liberi di poter scrostare i resti della pelle dal nostro corpo, perché siamo noi ad esser diventati satiri.

Il poeta e lo storytelling

2

di Andrea Inglese

Di che genere di storia sei portatore?

Christian Salmon

 

Il demonio si avvicina per dirti: “C’è in realtà un enorme bisogno di poesia!” o “È incredibile quanto la nuova generazione s’interessi di poesia!” o “C’è una sorprendente rinascita della poesia!” Io non ci credo ovviamente. Al di fuori dei suoi momentanei effetti consolatori, o di circostanze sociali e storiche abbastanza rare, la poesia e le scritture affini interessano poco e pochi, ma non per forza un gruppo socialmente omogeneo. (Altra cosa di cui sono convinto, per inevitabile lezione della storia – ma sempre possibile di smentita –, è che la poesia ha interessato a lungo, ossia possiede una sua strana permanenza transculturale, pur nella sua palese mancanza di caratteristiche unitarie o essenziali.) Le ideologie che essa veicola possono essere molteplici, ma il suo terreno di predilezione rimane il linguaggio preso a controtempo e contropelo – almeno dai Romantici in poi ­ per uscire dal o entrare “diversamente” nel mondo. Di fronte all’imperativo diffuso di esprimersi, che è veicolato dalle forme di vita attuali, il/la poeta o simile dovrebbe perlomeno sentirsi in perfetta inadeguatezza: che pretesa ha il suo enunciato di dire diversamente il sé e il mondo di fronte all’inesauribile produzione giornaliera di enunciati sul sé e sul mondo? Le strategie possono essere varie, ma le soluzioni ottimali scarseggiano.

Si può sempre, però, tentare di rovesciare lo scenario, e proporre il poeta come figura adeguata al qui & ora. Basta costruirsi una storia del poeta che si è o si pretende di essere. Oggi chiunque sia portatore di una storia, foss’anche un poeta, suscita un’immediata solidarietà e interesse. Che la storia del poeta poco c’entri con la poesia – che non costruisce storie semplici – sembra proprio una contraddizione. Ma qui è meno la coerenza che conta, quanto l’efficacia sul piano pragmatico. In quest’ottica è addirittura necessario che la poesia galleggi il più possibile fuori dalle circostanze storiche che l’hanno prodotta, che ne sia insomma avulsa, e che quindi conquisti uno statuto almeno apparentemente immune dalle insidie a cui è esposto il linguaggio nella sua storicità. Per questo motivo è necessaria una storia, ma non per ciò che è scritto, ma per colui che la scrive. Le storie facili, comprensibili, ripetitive e ripetibili, sono le sole che ognuno può costruire fuor di qualsiasi difficile e incerto apprendistato letterario, e infatti la maggior parte di esse non hanno alcuna pretesa letteraria, e servono soltanto a fornire prestigio alle persone che ne sono portatrici. Perché mai qualcuno che scrive poesia non dovrebbe inserirsi nel filone, e annunciare che anche il poeta come tutti ha una sua storia, ed essa implica in subordine l’esistenza della poesia? Quello che però conta è che, in questo caso, la poesia c’è perché c’è il poeta. Non è la scrittura che dovrà portare in qualche strano modo al mondo, e verificare la sua pregnanza e rilevanza in questo esercizio. No, sarà sufficiente – perché poesia ci sia – la storia del poeta, che è storia di qualcuno che sta nel mondo ben conosciuto e condiviso, qualcuno che esibisce atteggiamenti e posture del tutto adeguate al presente, con il suo colorito specifico, il suo turchino poetico o fucsia lirico. E a quel punto si potrà dire che finalmente la poesia può interessare tanti, può raggiungere tutti (come sostiene di tanto in tanto il demonio).

Libertà selvatica

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di Paolo Costa

( il brano riportato è tratto da L’arte dell’essenziale: un’escursione filosofica nelle terre alte, La bottega errante, Udine, 2023, euro 15, di Paolo Costa)

Ora non ricordo più se l’ho letto in uno dei suoi libri o gliel’ho sentito dire di persona – probabilmente entrambe le cose sono vere – ma so per certo che Reinhold Messner ha più volte spiegato la sua sovrumana capacità di uscire vivo da situazioni apparentemente senza scampo con la forza ciclopica della sua collera, della sua «aggressività congenita». In una situazione di grande pericolo, per citare le sue parole, «mi trasformo in una specie di animale selvatico. Mi si dilatano le pupille e il mio corpo sprigiona energia, coraggio, rabbia. Ho scariche di adrenalina al massimo livello. Una sorta di aiuto inconscio per sopravvivere. In certe situazioni senza questo tipo di istinti tanto io quanto alcuni dei miei compagni saremmo morti». Se capisco bene il punto, quello che lo scalatore altoatesino ci sta dicendo con il suo solito stile ruvido è che nei momenti in cui la montagna ci porge il suo volto più freddo, ostile, se non si vuole soccombere, l’amore, il rispetto, la pazienza, devono lasciare spazio a una furia cieca, animale: a un arcaico desiderio di essere lasciati in pace.

Vorrei far notare qui, en passant, come l’emozione dell’ira sia strettamente legata alla critica sociale, al desiderio di emancipazione, di riscatto. I profeti biblici, per fare un esempio classico, sono spesso inviperiti col popolo di Dio, talvolta persino con Yahweh. E lo stesso vale per i profeti secolari. Partendo da Giordano Bruno per arrivare fino a Marx, non si può certo dire che nel pantheon moderno degli intellettuali militanti ci sia stata carenza di brutti caratteri. La rabbia, d’altro canto, è spesso la principale risorsa contro l’oppressione sociale e il migliore antidoto al fatalismo che essa di norma genera in chi è stato abituato ai soprusi fin dall’infanzia. Se, come ho suggerito sopra, il senso d’impotenza, l’inermità, può essere una conseguenza della povertà-di-mondo – del sentirsi cioè abbandonati a sé stessi nel proprio sforzo idealistico di appagare il desiderio umano di pienezza – è però anche, a maggior ragione, l’effetto perverso di un mondo povero, un mondo che ti condanna senza colpa alla servilità.

Nell’amore per la libertà, detto altrimenti, non può mai mancare un fondo di collera, di sano odio per l’ingiustizia o, più banalmente, di insofferenza verso il paternalismo di chi si sente in diritto di trattarti come un bambino e può permettersi di umiliarti senza alcuna giustificazione razionale.

Se non sbaglio, l’equivalente dell’abito emotivo del teorico critico in montagna è l’attaccamento a una libertà che non saprei come definire se non “selvatica”. In questo caso, la reazione alla overwhelmingness della Natura, al suo assolutismo, si manifesta a un livello minimale come adesione spontanea alla propria fatticità naturale, al dato primitivo dell’essere vivi. Non solo si vive senza farsi troppe domande, ma si accetta di vivere senza risposte. Si vive perché si è al mondo e tutti coloro che pretendono qualcosa in più risultano di per sé sospetti.

C’è effettivamente qualcosa di liberante in questo modello di esistenza a una sola dimensione in cui la vittima predestinata della sorte si accomoda negli interstizi di un cosmo che ha un suo rozzo ordine naturale con cui è possibile venire a patti senza pagare costi inaccettabili. Citando obliquamente il filosofo francese Étienne de la Boètie (XVI secolo), si potrebbe parlare in proposito di “servitù non volontaria”: una condizione di subordinazione che, almeno comparativamente, potrebbe rivelarsi meno doma di quanto non sembri. Di fronte a una montagna che ci sovrasta ci si può sentire cioè “liberi” come i servi scaltri di un padrone svogliato e distratto.

Mi spiego meglio perché l’idea si presta a molti equivoci. In montagna, al culmine dello sconforto, della miseria, dell’abbandono, la scoperta di quanto sia profondo il nostro bisogno di “selvaticità” può essere vissuto come un’autentica liberazione. Parlando di selvaticità mi riferisco qui precisamente al bisogno di essere affrancati da parti di noi stessi che ci sono diventate estranee, ingombranti, persino nemiche. In questo senso il termine è da intendersi come un sinonimo di semplicità.

Ma fino a che punto ha senso definire “libera” questa condizione priva di interiorità, senza voce, il cui modello implicito è un’esistenza vissuta sulla pura superficie? Non c’è qualcosa nella nostra mentalità di uomini moderni che ci impedisce di aderire totalmente a questa prospettiva? Può esserci libertà dove c’è abbassamento, regressione, contrazione del sé?

La mia risposta a questa domanda è sì, esiste un nocciolo di libertà primaria che dipende dal contrarsi più che dall’espandersi, dall’aderire alla propria natura selvatica anziché dal distanziarsene. Già Messner, con il suo riferimento non casuale all’animalità, ha indicato la direzione in cui vorrei far procedere l’analisi ora. Pensiamoci su. La pietra dello scandalo nel caso della natura selvatica è evidentemente la noncuranza. La meraviglia che si può provare di fronte a una forma di vita animale o vegetale indipendente, autosufficiente, che sembra chiedere soltanto di essere lasciata in pace, è una sfida insidiosa ad alcuni pilastri dell’immaginario filosofico moderno. Come si può infatti giustificare o dare senso a un’esistenza che si esaurisce nel suo atto, che non rinvia ad altro da sé, che non è segno di nulla? Non dà in fondo la nausea una simile pienezza d’essere che non ammette l’idea che le cose potrebbero essere diversamente da come sono, che è semplicemente “in sé” senza essere mai “per sé”?

Per chi non ha già risposto affermativamente a questa domanda, il punto, credo, è proprio stabilire se non vi sia qualcosa, se non di fallace, di incompleto nel modo in cui la maggioranza dei moderni ha concepito la libertà (ossia come una forma di autodeterminazione, di fuoriuscita da una condizione di servile passività). Una lezione significativa che si può forse ricavare in quella dichiarazione implicita di estraneità a ogni progetto di riforma, riscatto o redenzione dell’esistente incorporata nel concetto selvatico di libertà suggerito sopra risiede proprio nel suo essere una pietra d’inciampo per l’attivismo moderno, per l’idea cioè che si possa essere in pace con sé stessi solo aggiungendo qualcosa a ciò che si dà spontaneamente.  C’è una parte di noi che ha forse qualcosa di essenziale da guadagnare dalla constatazione che vi è un fondo dell’esistenza – anche dell’esistenza umana – che si accontenta semplicemente di essere là, prima di qualsiasi «giustizia o misura», per evocare una bella canzone di Chico Buarque de Hollanda, O que será, che parla con perspicacia di «quel che non ha governo / né mai ce l’avrà / quel che non ha vergogna / né mai ce l’avrà / quel che non ha giudizio».

La mia impressione, per esprimersi fuori dai denti, è che ci sia qualcosa di filosoficamente denso da meditare in montagna in quegli attimi disarmanti che mandano a gambe all’aria le scissioni moderne tra forza e debolezza, libertà e necessità, senso e non senso. Non ha però le sembianze di una lezione che si possa tradurre compiutamente in parole. Assomiglia piuttosto a un sospiro di sollievo o a un urlo liberatorio: «Allora c’è altro oltre la commedia o la tragedia umana! Non tutto dipende o non dipende da noi! Esiste semplicemente un senza-di-noi!». Anche se questa intuizione non racchiude tutta la verità di cui abbiamo bisogno, ne è nondimeno un tassello importante. Tanto più oggi, di fronte al possibile catastrofico fallimento del sogno moderno di ricondurre il mondo intero a un ordine senza eccezioni.

La voglia fortissima di non essere chi rimane – poesia e fotografia in Mia Lecomte

1

di Massimiliano Damaggio

 

Forse non molti sanno che Mia Lecomte è anche fotografa. E che la sua attività di fotografa – la capacità di vedere di ogni cosa un momento, un aspetto unico e irripetibile – è strettamente legata alla sua scrittura. E viceversa. In lei poesia e immagine sono entrambe risultato dello sguardo, del modo che ha di restituirlo allo sguardo del mondo. Come risulta evidente mettendo in dialogo i testi dalla sua ultima raccolta poetica Lettere da dove (InternoPoesia, 2022, con una nota di Ugo Fracassa) e le fotografie che lungo gli anni lei ha pubblicato ed esposto, in gran parte raccolte nel suo sito personale.

In Lecomte, la fotografia è ulteriore angolazione e lente d’ingrandimento. Non tanto su un “particolare”, ma su un “non particolare” di vuoto e assenza che la sua poesia spesso provoca quando la scrittura, improvvisa, brusca, si ferma, finisce, s’interrompe e chi legge sente chiaramente che dopo c’è qualcos’altro – che non è dato leggere. È la mancanza, le mancanze che la fotografia dell’autrice sembra cercare. L’inquadratura del “bianco” di cosa non è detto. Gli smottamenti di “nulla” fra i versi. Asciuttezza, assoluta assenza di foschia, nella fotografia come nella parola, per percepire tutto il detto, il non detto e il forse.

 

 

Caro XYZ

 

ora raccontami di te
dammi notizia
qui le tue lettere
non sono mai arrivate
Dietro le porte
come una luce voci attorno
sta la famiglia
Per il resto
tutto l’inverno è vuoto

 

(da Lettere da dove, 19)

 

Come si guarda il vuoto? Come se ne scrive? Come lo si rappresenta?

Nelle fotografie, come nelle poesie di Lettere da dove – in particolare nella prima delle cinque sezioni in cui è suddiviso il libro – molto, se non tutto, è passato, è stato, è andato. Non è rimasto. Molto non è mai stato. Una stanza vuota piena di un letto vuoto. Una figura senza volto, a metà coperta da una tendina, dietro la finestra di una cucina. Una battaglia immobile fra soldatini a cavallo che corrono verso un nemico fuori dell’obiettivo. I segni lasciati sul muro da ciò che una volta potevano essere i gradini di una scala. La prospettiva glaciale di panni stessi su fili perfettamente paralleli, e un tavolo di fòrmica, e un grembiule viola attaccato al muro, vuoto, liscio, senza il minimo ricordo del corpo che l’ha indossato. Immobilità, “trattenersi” in un luogo e in un tempo dove ciò che non c’è più si fa “trattenere” in tutta la sua assenza.

 

SGOMBERO

 

Il primo giorno hanno smontato il superfluo:
non luccicava neppure sul lato meno ruvido
l’hanno dovuto appoggiare

il secondo dedicato all’imballo:
riponevano necessità piccolissime
in scatole all’orizzonte
più e più lontane

il giorno che si dice terzo è soltanto molto vuoto
un abisso non in grado di stare

(intanto pare abbia avuto inizio
la sesta estinzione di massa)

 

(da Lettere da dove, 47)

 

 

In scrittura questa creazione di vuoto e assenza, oltre che con la “secchezza” e il rigore espressivi – che evitano pericolose derive sentimentalistiche quando si tratta di temi come l’assenza – è dovuta anche a un puntiglioso lavoro di giustapposizioni visive, di dettagli su dettagli, immagini a cascata su altre immagini che invece di produrre caos visivo, semantico, rumore di fondo, “intagliano” negli occhi del lettore una precisissima forma del vuoto: l’assenza che si scava il proprio spazio nel pieno delle cose.

Poesia, fotografia, sguardo. Il momento in cui la luce penetra l’occhio e crea, ricrea, ricostruisce, mette a dimora un seme destinato a sbocciare quando sul bianco della pagina si apre e richiude l’obiettivo, e la forma si congela in un’immagine immobile, fotografica, e in una evanescente, scritta. Due pesci morti che nuotano insistentemente sul ghiaccio del bancone, gli occhi vivissimi, cristallo perfetto che ancora riflette, nella sua definitiva fissità, tutto il movimento che manca.

 

 

MANUTENZIONE STRAORDINARIA

 

Oggi si è rotto ancora qualcosa
Dettagli dalle fondamenta
al tetto nelle strutture
pezzo a pezzo
un elenco crescente dal passato
verso la completa distruzione
La casa in cui mi trovo
prosegue il vuoto
per cosmiche variazioni
Da qui a breve
pulire non sarà più mio compito
dio mi perdoni
potrò concedere ai detriti di posare

 

(da Lettere da dove, 49)

 

 

Leggendo, guardando le poesie di Mia Lecomte, il percorso è quello su un sentiero di “velamenti”, di partenze, arrivi e subitanee ripartenze. Sembra a volte un giocare a nascondino, un non voler esserci a tutti i costi. Sembra quasi che l’autrice, in poesia e in fotografia, in realtà non ci sia, non sia dietro la macchina, non abbia in mano la penna: sembra essere qualcuno andato via con altri, di cui rendiconta l’assenza. Come nelle immagini della Versilia a fine stagione, quando “sono andati via tutti” e regna un sentimento di sospensione a tempo determinato che solo i luoghi in “disuso” riescono a dare, dove anche il mare con le ombre dei bagnanti è già ricordo, anticipazione del ricordo. “Goloso anticipo della morte”, citando Carlo Bordini. È un’immagine bellissima, che Lecomte reitera spesso nella sua scrittura, nel suo fingere (sembra) di non essere l’unica rimasta, l’ultima a testimoniare la pensilina vuota dopo la partenza: chi desidera far parte del quadro, del ricordo, dell’assenza, e infine del vuoto che lei stessa ritrae. La voglia fortissima di non essere chi rimane.

Anche l’inquadratura fotografica, così come la parola, è rigorosa, precisa: un modo per avere sotto controllo tutta la scena, esaminarla e ricomporne le tessere sulla carta. Angolazione perfetta, geometrica, punto di fuga all’infinito, impalcatura essenziale delle cose, lessico scarno, colori algidi che tendono a sbiadire. Come il ricordo. Fotografia fredda, indagatrice, poesia frontale: un’eco di Ghirri e l’iperrealtà di una realtà imprigionata in momenti di impossibile immutabilità, poesia che non cede mai – o non vuole – alla carnalità di uno Jodice, ad esempio, dove la pietra della statua non è pietra ma altro.

Nella poesia di Lecomte avviene il contrario a tutti gli effetti: il suo sembra un compito di testimonianza ultima – e quindi freddo disincanto, distanza – di cosa si è spento. E in questo più che l’immagine riesce la parola, capace di sottili sfumature di senso e significato. A volte, anche nella sua apparente nitidezza semantica, una parola porta in sé, etimologicamente o per utilizzo acquisito, una sorta di diluizione del proprio significante in altre immagini, in rimandi, in echi. Cose che un’immagine non può. Ed è questa possibilità che l’autrice approfondisce in scrittura: il suono dell’eco, dello straniamento, della presenza di un’ombra in uno dei tanti musei “delle cose morte”.

 

 

TRA I REPERTI

 

Restano le meteoriti
c’è scritto sotto:
effetto dell’impatto e della combustione
Occupano la sala grande
tra mucchi di cenere tizzoni verticali
Brillano spente
rotolano immobili
tanto fredde che sembrano scaldare
Al centro del museo delle cose morte
non c’è che una didascalia
la loro
si legge ancora:
eppure queste (malgrado le apparenze)
stanno vivendo
D’altra parte
è giusto chiedersi
quando l’amore consuma fuori orbita
cosa ne può restare
La notte a volte
qui scende così in fretta

 

(da Lettere da dove, 77)

 

 

Autobiografie non vissute, Terra di risulta, Intanto il tempo, Al museo delle relazioni interrotte, Là dove hai il corpo. Sono i titoli di libri di poesia di Mia Lecomte. Come per questo Lettere da dove, il lettore si chiede: dove è chi scrive? Dove viene fatto entrare chi legge? Non c’è luogo, non c’è corpo. L’inquadratura è quella di una finestra da un interno, una tenda leggera che la copre, come una nebbia, e lascia vedere solo l’ombra di un fuori che potrebbe essere “casa”.

La poesia in fondo è forse una questione di sguardo. Di come uno sguardo riesca a farsi guardare da altri – gioco di trasferimenti di realtà (o irrealtà) da uno sguardo a un altro. Fino a quando l’immagine chiede di essere solo sé stessa, basta la fotografia. Quando chiede di muoversi, di ondeggiare, di farsi e disfarsi negli occhi altrui, letta, è necessaria la parola. Soprattutto per guardare adesso il vuoto che sarà poi.

 

 

BLACK FRIDAY

 

Prima di morire sarò già morta
una questione di mesi forse anni
o avrò deciso in un unico giorno
Me ne sarò andata ogni sera
a tavola la forchetta nel piatto
o tutto a un tratto
una mattina improvvisa d’estate
Sarò già morta amore mio
già ordinata la cassa
(scegli oggi per risparmiarti il domani)
aperta in uno sbadiglio fiammante
Dovrai solo scomporre le lettere
vocali e consonanti non necessitano
in alcun modo di punteggiatura
detradurre il tradotto
lasciare che ricominci al contrario
avvolta da capo ogni recondita agonia
quello che sarà stato di me

 

(da Lettere da dove, 89)

 

 *

[Le immagini sono di Mia Lecomte, tratte da https://www.mialecomte-ph.com/]

 

La Catabasi vorticosa della memoria. Una conversazione poetica con Andrea Donaera

0

di Chiara Donnini

All’inizio di marzo è uscita per l’editore fiorentino Le Lettere la raccolta poetica di Andrea Donaera, Le estreme conseguenze, nella collana novecento/duemila diretta da Diego Bertelli e Raoul Bruni. Ne parliamo qui con l’autore.

Chiara: Ciao Andrea, la prima domanda che vorrei farti origina dall’esergo della tua raccolta, Le estreme conseguenze. In apertura tu poni due narrazioni suggestioni che mi sembrano già un’esplicita dichiarazione di poetica: una di Alberto Savinio che racconta la fine del poeta Apollinaire, quasi al termine delle prima guerra mondiale, vista attraverso gli occhi dell’amico Ungaretti che sul letto di morte gli porta i sigari toscani: “La giornata è caldissima. Il grasso del poeta cominciava a decomporsi” e una di Walter Benjamin che si sofferma sul “rimuginatore”, collezionista e custode di ricordi reliquie, Baudelaire: “Il labirinto è la patria dell’esitazione. La via di chi teme di arrivare alla meta traccerà, facilmente, un labirinto”. Di esse mi si imprimono due parole immagini: il corpo e il labirinto.
Partendo dall’etimologia e dalla definizione di poesia, che deriva dalla parola greca poiesis, ovvero il fare, il produrre composizioni verbali in versi, cioè secondo determinate leggi metriche, o secondo altri tipi di restrizione e il cui slittamento semantico si trasferisce poi su tutte quelle opere o parti di opere ritenute particolarmente ispirate e suggestive, ti chiedo: cosa è la poesia per te? E’ soprattutto corpo (il corpo del poeta, il corpo del testo), quindi metrica, scansione rimica, restrizioni, o è soprattutto labirinto, quindi ispirazione, suggestione, smarrimento, incantamento?

Andrea: Per me la poesia è un accadimento: mi succede, mi capita. C’è alla base un processo di scrittura generale: a volte prende la forma di una storia, di un romanzo, di un racconto; altre volte mi piace provare a costruire dei versi, a comporre qualcosa in quella strana libertà che è la scrittura poetica. Ma sostanzialmente è tutto un grande discorso, tutto uno scrivere, che si conforma in base al momento o in base all’idea che sto provando a sviluppare. Sicuramente la poesia non è uno sfogo, non è una scrittura di getto – anzi, è la scrittura a cui dedico più tempo, più rigore, più riscrittura e più revisione. Perché ho degli obiettivi e delle intenzioni, quando mi capita tra le mani la scelta poetica: dare concretezza e corporeità ai concetti – non (solo) descrivere qualcosa, esporre un pensiero, ma farlo emergere con una sorta di natura tattile. Un fatto visionario, naturalmente, ma un buon motore, per me, nella ricerca di scrittura. E poi l’intenzione principale, sin da quando ho cominciato a scrivere (non solo poesia) è quella di evocare – non solo qualcosa, ma qualcuno: la poesia per me è un esercizio di negromanzia, un tentativo (quasi sempre disperato) di riesumare, attraverso la parola (nella sua vocazione più magica possibile), qualcosa o qualcuno che non c’è più, smarrito dietro. E dato che, nella vita, brucio tutti i ponti alle mie spalle, c’è parecchio materiale che può essere soggetto a un atto negromantico.

C: Ecco, parli di poesia come negromanzia, che era, sì, l’evocazione dei defunti ma aveva anche uno scopo divinatorio. Da questo slittamento origina la mia seconda domanda: la poesia tra il monito delfico “conosci te stesso” e il tentativo di comprendere il mondo, la metafisica, tra la narrazione mitica di ciò che accade, epos, e la comprensione ultima del senso, telos. Come diceva William Blake tradotto da Ungaretti (ecco che ritorna): Vedere un mondo in un granello di sabbia e un cielo in un fiore selvatico,/tenere l’infinito nel cavo della mano e l’eternità in un’ora: la discesa nell’animo del poeta consente al poeta di vedere anche l’altro da sé? La poesia che fa introspezione, fa anche metafisica?

A: Credo che tutta la metafisica sia un modo di fare introspezione – e viceversa. Se scavo troppo e troppo avidamente, in fondo, dentro di me, e scopro un demone antico che mi abita da sempre… è difficile non chiedersi come sia potuto accadere, anche in termini non mondani.

C: Ricollegandoci alla prima domanda sul significato della poesia e del poetico, tu, Andrea, sei riconosciuto anche come narratore in prosa (Io sono la bestia, 2019 e Lei che non tocca mai terra, 2021 sempre NN Editore) e qui infatti alterni una narrazione in versi a una narrazione in prosa. Puoi dirci del senso e dei pesi che hai voluto dare alle due forme in questa tua raccolta?

A: Come accennavo poco sopra, per quanto mi riguarda, da anni, sto semplicemente scrivendo un unico discorso, il quale assume diverse forme. Si sta sviluppando un unico mondo di scrittura, con personaggi, idee, luoghi, temi, forme, stili, che ricorrono e si rincorrono. Questo libro di poesie è una sorta di spin-off del racconto “La notte delle ricostruzioni” (Tetra, 2022), ma contiene anche pezzi dal romanzo “Io sono la bestia”, senza tralasciare che il protagonista è l’Andrea di “Lei che non tocca mai terra”, e inoltre ci sono prose da “Una Madonna che mai appare” (la silloge che fu pubblicata nel XIV Quaderno di poesia contemporanea edito da Marcos Y Marcos nel 2019).

C: Sempre a proposito della struttura della raccolta, scegli di usare una seconda persona singolare nei versi, un tu, e una seconda persona plurale, un voi, nella prosa. Ci puoi parlare di questa tua scelta in termini formali e in termini simbolici? In che relazione stanno tra loro?

A: Nella mia ottica rappresentano l’incapacità del protagonista di dire io – di dirsi, di definirsi, smarrendosi in una ricerca plurale, sia esso uno specchio fantasmatico o una collettività dove mischiarsi. Ho imparato questa tensione tra smarrimento di sé ed esposizione lirica in uno dei miei romanzi preferiti: “Un uomo che dorme” di Perec – al quale queste poesie devono molto.

C: Collegandoci al tu noi ancestrale che narri – ancestrale perché racconta di una terra ancestrale, il Salento, e perché origina dal tuo passato, l’adolescenza – in che senso questa raccolta è anche una narrazione di formazione? Da quali domande interiori parte, quali segreti racchiude? E quali sono i sentieri di crescita che traccia – lineari, ricorsivi? E, infine, a quali desideri, sogni aspira, ritorna?

A: La ricerca di una “golden age” della nostra vita – un’epoca in cui tutto era bello e niente andava storto – credo sia drammaticamente fisiologica in ogni essere umano: circoscriviamo un momento, lo mistifichiamo, e a quel frangente connettiamo un falso passato splendente da far corrispondere a un presente che non ci soddisfa. Questo succede a me con l’adolescenza, e questo processo torbido e poco sano è una delle colonne portanti del palazzo di carta che sto provando ad allestire con i romanzi, i racconti e queste poesie. Inoltre, attraverso un percorso di analisi, ho finalmente constatato con nitidezza un elemento: ancora oggi scrivo per gli stessi identici motivi per cui scrivevo quando avevo quattordici anni. Non è una cosa buona, ma la letteratura, per me, è anche capitalizzare le cose poco buone che ci riguardano.

C: Grazie, Andrea, per averci raccontato un po’ del poetico che ti abita e ti dico arrivederci con una tua suggestione.

Es
Ricordi d’essere stato certo, un tempo:
d’essere davvero solo corpo-schizo:
             tutto macchina, tutto desiderio:
                     tutte cose che non saprai mai più:
sai solo che non era e non è vero –
sai che non sai quali sono le cose
vere:
hai letto che nel cervello non sono presenti i ricettori
del dolore; ti hanno detto che le cellule del cervello
crescono con il passare del tempo; pare che il cervel-
lo abbia una memoria tra i tre e i mille terabyte; è
certo che l’80% del cervello sia costituito da acqua:
eccetera: ed ecco:
e quindi: sai solo che sei una macchina:
ma rotta, stanca, ferma:
tanto inferma da non essere più
(e tu non sei più tu:
se mai ci fosse stato un qualche tu).

Disfacimenti

1

di Manuel Maria Perrone

 

illustrazione di Ettore Tripodi

Abbiamo parlato troppo.

Abbiamo detto tutto.

Però:

a me piaceva quel profumo,

le notti d’estate,

quando si stava zitti.

Quante immagini ci stanno in un occhio ?

E quante parole in una bocca ?

E poi ?

Poi si diventa ciechi ? O poi si tace ?

Si muore quando si sono viste troppe cose ?

O quando lo si è detto tutto ?

Prima almeno c’era la televisione.

Adesso siamo noi la televisione.

Siamo l’intrattenimento per un pubblico che si intrattiene da solo.

Che si dice troppo,

che lo fa vedere tutto.

Ti ricordi la televisione ?

Almeno la si poteva spegnere:

poi abbiamo perso il telecomando.

Abbiamo perso il controllo,

siamo rimasti accesi.

Per ore e per anni.

Parlando ininterrotti,

guardandoci esterrefatti

(aprile 23)

La vita è infinita finché non scopri che finisce

Sono caduto dall’altro

E ho capito me stesso

(marzo 23)

Sono triste che entriamo in guerra:

mi ero appena abituato all’apocalissi 20/21.

Posso almeno tenere la mascherina ?

La mascherina mentre guardo cadere le bombe .

O posso ammalarmi per non mettere l’uniforme ?

Perché nella vita le istruzioni per l’uso sono sempre sbagliate o scadute?

Come se ogni volta

usassimo l’aspirapolvere

con le istruzioni del tostapane.

Che poi i tostapani sono sempre uguali.

E anche gli aspirapolveri.

Che tanto si rompono.

Gira e rigira serve sempre una scusa alla miseria.

E gira che gira di scuse ce ne sono cinque.

La rabbia.

La fame.

La paura.

Il rancore

e la vergogna.

Che sono poi tutti sinonimi dell’ ignoranza.

Vorrei vaccinarmi contro la miseria.

Non la mia ma quella del mio pianeta.

Perché mi spiace che quando facciamo fatica ripetiamo sempre gli stessi errori:

continuiamo a infilare il pane nel posto sbagliato

e a mangiare polvere.

(Marzo 2022)

Gli spagnoli sanno

che il protagonista è Sancho.

Che la storia non la fa chi va avanti,

ma quelli che seguono borbottando.

Che si – certo- c’è quell’Hidalgo allampanato che combatte il vento

ma quella figura eterea è un lontano miraggio

mentre noi siamo qui a lottare contro la materia di cui è fatto il mondo.

Che per ogni eroe ci sono milioni di penelopi

che aspettano il loro momento.

Milioni di Sanchi

che riparano mulini a vento.

Che la vita non è occhio per occhio, ma chiodo piu chiodo piu chiodo

uguale casa.

E se non casa almeno qualcosa.

Lo sanno i faraoni che senza schiavi gli imperi sono miraggi.

Ci guardavamo poco, nel bus e nella metro.

Poi è venuto il telefono ad abbassare gli sguardi,

e poi le maschere, a fare mummia i volti .

Il mondo ha perso i confini e nessuno guarda più all’orizzonte,

la speranza è materia da illusi e la rabbia concime per tonti.

Sono scomparse le stelle e restano solo alcuni grumi,

che continuano a splendere, postumi, lontani nel tempo.

Si sa che non c’è amore ma solo prendersi in prestito a cambio di un sorriso;

e un regalo.

E i soldi, si sa, non sono mai stati una questione di sopravvivenza.

Ma i sogni, i sogni erano l’anima del mondo,

il suo respiro sottile – e adesso:

seppellite le speranze, resta solo un corpo stanco che chiede di dormire.

Viviamo un mondo che dorme in piedi correndo: un mondo che dorme il proprio ritardo.

Ma perché dobbiamo alzarci la mattina?

Se non c’è spazio per porsi domande,

se lottare è il sintomo di una psicosi latente,

perché dovremmo alzarci, ancora e per sempre?

Essere giovani ha un unico e sporco difetto: invecchiare il più in fretta possibile,

facendo finta di niente.

Ricominciamo dalle rose

2


 
di Nadia Agustoni
[Inedito 2022]
 
mastica duro il cane della ricchezza
le ossa bianche del paese
le nostre ossa
spolpate

vuole frasi soffici il pancino molle
una lingua adeguata
all’industria
agli obitori.

ammutoliamo nei macelli
ma splende
la sordità
di chi accumula

i loro fucili puntati dai giornali
la realtà creata
per acclamazione
e a ogni lauto pasto

le patrie servite
col cicchetto dei potenti:
ma chiamateli porci
i porci.

non ci affligga la claquè
col demerito
paghiamo noi il conto
tenetelo a mente

pulite il culo
ai ricchi
ai partiti
a chi volete voi

qui ricominciamo dalle rose
portiamo fiori per ognuno
scriviamo poesie
laviamo ogni pensiero laviamo la morte

le vostre menzogne.
 
Picnic sull’erba [2007]

Palermo (la città interna)

0

di Noemi De Lisi

 

La città-stomaco ti ha inghiottita
smembrata, disciolta dall’acido gastrico
(eppure esisti ancora).

Hai fatto un patto con la città-stomaco.
Ti sei lasciata mangiare, distruggere,
in cambio volevi scomparire solo per me
e diventare una moltitudine.
Frantumata in proteine, grassi e zuccheri,
ora sparsa nel sangue sei il sangue
nutri la città in forma microscopica
(è la mia città interna).

La città-stomaco ti ha scomposta
ti ha divisa, ma solo per riprodurti.
Ora ci sono molte parti di te che vivono
dentro l’organo muscolare della città.
Sei all’interno, ti spandi come un’infezione
(gorgoglio, gorgoglio, parlami).

Ce l’hai fatta, hai attraversato una digestione,
e hai dovuto sacrificare il nucleo più vero di te.
Cosa ricordi prima del massacro?
La città prima della masticazione, noi.
I vicoli di crepe e di buche
li imitavamo per non cadere.
Ci adattavamo così alla città, fingendoci la città
(ti allenavi già al processo di sparizione).

Sei ovunque fatta a pezzi e sei sparita.
Solo a tratti la comparsa della tua moltitudine:
ogni schiena nei vicoli di crepe
il calcestruzzo bruciato sui denti
l’acciaio contro le bocche
i colpi, i colpi
e le ombre in tremori addensate ancora
attorno alle pozzanghere elettriche sull’asfalto
i riflessi, i riflessi
(quello che di te è sopravvissuto).

 

*

 

Fratture, macerie
sono queste le tue nuove parole,
l’alfabeto genetico della città.
Per parlare non devi aprir bocca.
È così, non la apri.
La città è il tuo messaggio – dentro le budella.
La pelle sepolta, i teschi, i mattoni, le finestre aperte.
Cerco la tua voce nelle cose distrutte.
Le crepe ovunque, le vene di questo cemento,
c’è una casa che crolla, sei tu che mi chiami?

 

*

 

 

ESERCIZI #3 PALERMO (LA CITTÀ INTERNA)

La Legge della scienza personale è semplice da seguire. L’alchimia non è una scienza, si azzarda qualcuno fuori da noi; e allora vattene, gli rispondiamo, schifoso, vattene! Abbiamo bisogno di fede in questo momento, tutta la fede del mondo. Rimasti soli, allora, igienizzati da cattivi presagi e sfortune, possiamo prepararci a compiere il nostro atto di fede nella scienza personale. Secondo la Legge N°8884, ora è possibile resuscitare le persone. Dobbiamo solo decidere se resuscitare un morto o un vivo. È tutta una questione di fisica e materia umana. La Legge ordina di cercare un luogo al chiuso specifico per la trasmutazione dei piani reali. È necessario trovare la città interna. Si tratta di un buco dentro le budella, uno spazio rinchiuso dentro al chiuso, una stanza minuscola e profondissima scavata dentro al dentro. Attenzione a trovare quella vera. Questo è un luogo specifico, che non scava in gravità libera verso il basso, ma attraverso un piano orizzontale: più scava e più tocca tutte le superfici. La città interna è rinchiusa dentro ogni cosa contemporaneamente. Solo gli schifosi senza fede non potrebbero mai trovarla. Adesso che siamo rinchiusi qui, non voglio chiedervelo ad alta voce cosa scegliete, tanto abbiamo gli stessi desideri. Non voglio proprio dire niente a prescindere qui, shhh zitto e pure tu stai zitta. Parliamoci con la mente, tanto lo sapete fare, non mentite. Scegliamo di resuscitare un vivo, certo. Secondo la Legge N°8884 della scienza personale, è possibile resuscitare un vivo donandogli l’iper-esistenza: una vita nella vita, un’addizione dei piani reali, una presenza strabordante. Basta la trasmutazione elettromagnetica di un ricordo sul piano reale della materia presente, affinché la persona-oggetto di un ricordo la smetta di vivere svanita nella città esterna, ma si rigeneri in una nuova iper-esistenza nella città interna. Per avviare il processo è necessario un sacrificio. Siamo pronti a tutto per resuscitare quel vivo. Scateniamo la pelle, il prurito, schiocchiamo le ossa, sfregano, si consumano, diventano polvere, e la nostra polvere viva, frenetica, la mischiamo con i nostri liquidi più veri, le lacrime, il mestruo, le lacrime, il muco batterico, l’acido gastrico. Le nostre ossa si contagiano fra di loro e la polvere diventa fango. Abbiamo dovuto sacrificare i nostri scheletri, certo. Occorrono molte macerie umane, materia dura e forte. Occorre sacrificare la durezza, e renderla tenera, melmosa, una palla di fango, un nucleo, che ci riassume. Nella fase successiva del processo, la Legge ordina una radiazione elettromagnetica spontanea per generare una vita nella vita, per questo è necessario ricordare. L’elettricità neurale della memoria eccita il nucleo del sacrificio innescando a sua volta il ribaltamento dei piani reali. Bisogna resuscitare quel vivo qui accanto a noi, dentro ogni cosa contemporaneamente, qui, nella città interna, quella dove possiamo comandare tutto e cambiare le sorti.

  • Cos’è questo rumore? Siete voi che battete i denti oppure… oppure viene da fuori, dalla città esterna? È un tremore liquido, forse è la pioggia. Non vi distraete, siamo così vicini. Ricordate, ricordate ancora.
  • La memoria è strabordante, l’elettricità è tanta, così tanta che la città esterna, fuori dal nostro buco, ci trova. Ci sta crollando addosso.
  • Il nucleo si è aperto in mille pezzi, si è spento. Non funziona più niente. Dove siete? Non vedo senza luce. È stato un massacro.
  • Me lo sentivo, non volevo dirvelo per non farlo accadere, ma sapevo che sarebbe andata a finire così. È la punizione per aver cercato di cambiare i piani reali della materia umana. Una Legge pericolosa… eppure eravamo così vicini a riabbracciare quel vivo.
  • La città ingoia i morti e i vivi, li incatena allo stesso piano, non restituisce niente. È stato fatto tutto il possibile e abbiamo sbagliato. Siete pronti a dimenticare anche i vivi adesso?

*

[L’immagine in evidenza è un dipinto di Rafel Bestard]

Divise senza corpi. Mitopoiesi di Erich von Stroheim

0

di Gabriele Doria

 

 

“L’uomo sano tollera la nudità. Negli uomini e negli animali. L’uomo perverso non la tollera. L’uomo sano percepisce ogni abbigliamento come oggetto erotico. Per l’uomo sano ogni abbigliamento deve apparire spudorato […]”

Adolf Loos, Nudità

 

“You’re born naked and the rest is drag

RuPaul

I.

Ne l’Image-mouvement, parlando del naturalismo nel cinema, Deleuze spiega che esso “non si contrappone al realismo, ma ne accentua i tratti prolungandoli in un surrealismo particolare”, quello del mondo originario, che “si definisce in virtù di un inizio radicale, una fine assoluta, una linea di massima pendenza”.  Il mondo originario è ciò che ribolle sotto tutti gli ambienti.

L’immagine naturalista per Deleuze, l’immagine-pulsione, si compone di simboli e feticci, pulsioni e frammenti, pezzi strappati ad un ambiente reale che ne rivelano tutta la violenza e la crudeltà, il fondo terribile. L’oggetto della pulsione è sempre l’oggetto parziale, il frammento strappato, il feticcio: “quarto di carne, pezzo crudo, rifiuto, mutandine, scarpa”. La pulsione lacera, disarticola, e la perversione è la sua derivazione, la sua espressione nell’ambiente derivato.  Non si tratta tanto delle qualità intrinseche della conquista possibile, perché la più grande gioia è “nella potenza di scelta, nel desiderio di cambiare ambiente per esaurirlo”, per quanto ripugnante, disgustoso possa essere. E’ un rapporto costante predatore-preda.

Nel cinema naturalista, ad esempio, il falso ricco penetra nell’ambiente povero per catturarvi le sue prede (in Bunuel, e più tardi in Losey, si considera invece il fenomeno inverso, forse più terrificante, “più prossimo alla iena che sa attendere”, del servo che penetra nell’ambiente ricco) ma “poveri o ricchi, le pulsioni hanno lo stesso destino: fare a pezzi, accumulare rifiuti, costituire il grande campo d’immondizie e riunire il tutto in una grande, generalizzata pulsione di morte.”

II.

E’ nella veste impeccabile del militare, sciabola tra le gambe, mani guantate sull’elsa , che appare in Blind Husbands (1919) il “tenente” von Steuben (cito dalla didascalia che lo presenta: “un millantatore che usa l’uniforme da ufficiale per compiere più facilmente le sue furfanterie”) interpretato dallo stesso von Stroheim. Nella sequenza iniziale è già mostrato tutto l’impianto su cui poggerà la trama, attraverso i movimenti della macchina da presa nel ristretto spazio diegetico della diligenza che porta i nuovi ospiti alla pensione. Siamo al confine italiano-austriaco, Monte Cristallo, Cortina. I tre personaggi mostrati alternativamente sono il dottor Armstrong, impassibile lettore di giornale, la signora Armstrong, che giocherella civettuola col velo del suo cappellino, e per l’appunto von Steuben. Il militare è fin da subito impegnato in un’esibizione sia per la dirimpettaia che per gli occhi dello spettatore. Quando la signora Armstrong decide infine di togliere il velo, scoprendo gli occhi e il viso che il militare stava da tempo cercando di decifrare,  inizia il gioco di malizia e seduzione tra questi due compagni di perversioni. In tutto ciò il signor Armstrong viene definitivamente relegato nel terreno amorfo dell’irrilevanza, neghittoso in ogni occasione almeno fino a che il desiderio, sotto forma di gelosia, lo spinge a riaffermare i suoi diritti, e lo condurrà su un inaccessibile pinnacolo dolomitico insieme al suo rivale, col segreto intento di ucciderlo. Quando scoprirà che infedeltà non vi era stata, “se non nella volontà perversa dello spettatore di crederci”, sarà troppo tardi. Steuben, come tutti i personaggi di Stroheim, va incontro al suo disfacimento, al proprio personale precipizio.

L’invincibile fascino per la divisa, per il portamento aristocratico e militare, allarga il campo a una questione fondamentale nel cinema di von Stroheim: il feticismo della veste. Come scrive Cappabianca, Stroheim non indossa la divisa, “vi sembra nato dentro, intrattenendo con essa quei rapporti di perfetta familiarità e di aderenza plastica, che gli altri non riescono a stabilire neppure col proprio corpo.”

Ancora: abbigliarsi seguendo pedissequamente le regole, offrirsi con la massima rigidità al reticolo delle convenzioni prefissate, significa offrirsi alla gioia narcisistica di un esibizionismo puro, un modo di essere completamente nudo in scena. Il von Steuben/von Stroheim accuratamente incartato, che assale l’inquadratura, rappresenta l’ingresso dell’Assolutamente Altro, che increspa lo schermo e instaura la dittatura del desiderio. In Baudrillard: “solo il rito è violento, solo la regola del gioco è violenta, perché pone fine al sistema del reale: questa è la vera crudeltà […] e la perversione in questo senso è crudele. […] Perverso non è ciò che trasgredisce la legge, ma ciò che sfugge alla legge per abbandonarsi alla regola”, quindi forma ritualizzata, cerimoniale.

Le codificazioni rigide dell’Impero asburgico dovevano pretendersi incrollabili quanto l’immutabile apparato che le sorreggeva e il culto della divisa non ne era espressione secondaria. Già nella nostalgia letteraria mitteleuropea, in opere come Radetzkymarsch di Joseph Roth, ma anche in un film tedesco come L’ultima risata di Murnau, in cui la rovina di un uomo inizia con la perdita del suo diritto a indossarne una, sia pure da portiere, la divisa rappresenta quel baluardo di ordine e armonia in contrapposizione ai presagi della finis Austriae, emblema di un universo familiare, centrato sui propri rassicuranti cardini, ma anche proiezione semi-conscia di un’identità basata sul vuoto, lavorio immaginativo di un io lacerato.

(E’, non a caso, Robert Musil a parlare della condizione di quelle mosche rimaste intrappolate in quella materia “vischiosa, tossica e gialla” della carta moschicida Tangle-Foot, le quali, inseguendo in volo rassicuranti principi di stabilità e regolarità hanno finito in realtà per negare se stesse e quella vita che volevano rappresentare e col vedere svanire per sempre ogni possibilità di riprendere il volo.)

III.

Il fantasma della vecchia Europa  da bancarotta metafisica che cerca di infiltrarsi nella serenità coniugale della coppia americana, è un portato di quella più grande invasione europea nella Hollywood degli anni trenta ( David Robinson parlerà ironicamente di Ernst Lubitsch come dell’ invasore straniero coronato dal successo più duraturo).

In un clima affamato di cliché europei, registi come Max Ophuls o Ernst Lubitsch dovranno ricreare nostalgie patrie sotto forma di cartoline, misura di un duplice straniamento,  Polibio dalla parte dei vincitori (inquietudine espressa molto più tardi da un altro esule della diaspora, Billy Wilder:  “ We wondered where we should go now that the war was over. None of us – I mean the émigrés – really knew where we stood. Should we go home? Where was home?”)

Tra produttori affamati di immagini di “un’Europa impastata di differenze di classe e fantasie romantiche”, il punto di riferimento privilegiato diviene Vienna, segno e simbolo  al pari solo di Parigi. Vienna come “città dei paradossi” (Musil), delle lotte di classe da operetta, in cui padroni e straccioni si trovano fianco a fianco a ubriacarsi nelle stesse bettole, accomunati dall’avversione verso il borghese emergente dal suolo sfaldato dell’impero durante gli ultimi giorni dell’umanità.

Von Stroheim va oltre, e non solo col tempo pretenderà di ricostruire in scala 1:1 intere porzioni di questi sogni esotici da cartolina (in Foolish Wives, del 1921, ricostruirà la piazza centrale di Montecarlo) ma a uso e consumo del meccanismo produttivo Hollywoodiano si costruisce l’immagine dell’aristocratico decaduto e decadente, austro-ungarico, (raddoppiando quindi i connotati di messa in scena e recitazione) corrispondente a quel forsennato ideale di perfezione che esibiva sulla scena, lui figlio di un modesto cappellaio immigrato ( il  “von” di Erich von Stroheim è auto-attribuito, come von Sternberg, e von Trier ). Stroheim sarà quindi corpo-divisa realizzato nella vita reale, archetipo in vita rimodellato dall’industria, muovendosi all’interno della quale riuscirà a far coincidere ogni gesto ogni parola alla maschera che non toglie mai (quella da cui il vero dandy secondo Barbey D’Aurevilly beve il proprio sangue che cola, rimanendo mascherato) per poter arrivare a spendere il proprio mito come moneta sonante. Da quel momento, sarà Erich von Stroheim per sempre, nelle memorabili parti tagliate su di lui (e non potrebbe essere altrimenti)  da Renoir ne La grande illusion (1937), e da Wilder in Sunset Boulevard (1949), così come nella parte che sceglierà per sé stesso, interpretata fuori da un film, sul set di Greed (1924), quando da regista orienta il costo (inteso come valore monetizzabile, e quindi reclamizzato) verso gli abissi dello spreco, ovvero tutto ciò che non può avere un immediato impatto col pubblico e quindi, per l’industria, irrecuperabile.

IV.

In Foolish Wives (1921) questa volta l’antagonista è il falso conte Karamzin, avventuriero, spacciatore di denaro falso e seduttore senza scrupoli, che si accompagna alle false principesse Olga e Vera. Colei che questa volta cercherà di irretire nelle sue trame è la moglie dell’ambasciatore americano Hughes.  Karamzim è fisso, stretto nella divisa attillata, “sigaretta che appartiene alla sua bocca non meno di quanto il monocolo appartenga al suo occhio”, si tura il naso per proteggersi dagli odori dell’esterno, si muove con precisione millimetrica.

Non sapessimo dell’appartenenza di Stroheim all’area della Mitteleuropa, basterebbe la forza con cui si impone fin dal primo film il nodo del rapporto Servo-Padrone. La smorfia di disgusto dell’elegantissimo damerino trascolora in desiderio oscuro, che lo attira nelle delizie “del basso”, “degli inferiori”. L’oscura disponibilità alla degradazione spingerà il Karamzin di Foolish Wives verso una domestica e una ragazza ritardata, ed è una pulsione di morte. Archiviato il tentativo di seduzione della ricca donna americana, mentre la città dorme e il suo volto acuminato super-carezzato dalla macchina da presa è irretito da un fumo espressionista sotto la luce spiovente del lampione (Stroheim usa l’espressionismo come Bunuel il surrealismo: se ne serve, ma per finalità del tutto diverse, quelle di un naturalismo onnipotente), la maschera di cera von Stroheim, tra poco maschera mortuaria, si lascia a sua volta sedurre dal basso istinto. Sorpreso nella camera della giovane catatonica dal padre di lei, sarà fatto a pezzi e chiuso in un sacco, gettato nelle fogne attraverso un tombino. Parallelamente alla rovina di Karamzim, avviene quella delle due complici, che finiscono arrestate dalla polizia. Privata della parrucca bionda da principessa russa, Olga, come del resto Vera, non si rammarica poi troppo: “impersonava quella parte da tanto tempo, che aveva finito per crederci anche lei.” Confessione che d’altra parte potrebbe essere di Stroheim stesso.

V.

Karamzim è uno straniero, dice di essere nobile, ha portamento militare, viene da un paese lontano (la Russia) nel paese del gioco (Montecarlo); Stroheim è uno straniero, dice di essere nobile, ha portamento militare, viene da un paese lontano (l’Austria) nel paese d’un altro gioco (Hollywood). L’equazione lampante tra personaggio e autore non è meno evidente tra Montecarlo e Hollywood: entrambe sono piene di perdenti, rovinati al gioco, che hanno voluto nonostante tutto giocare, entrambe sono piene di divise senza corpi, al di qua o al di là della castrazione che le attende. Inquietante e rivelatore, come notato da Cappabianca, è il personaggio impassibile dell’ufficiale in mantellina nera, in Foolish Wives. Lo troviamo all’inizio impettito e quasi alieno all’ambiente circostante, quando non raccoglie il libro appena caduto a Madame Hughes (Karamzin, in agguato, ne approfitterà subito per farsi notare con la sua galanteria da rettile). Successivamente, all’interno di un ascensore, ritroviamo Mme Hughes e l’ufficiale. A lei cade la borsetta, l’uomo resta nuovamente impassibile, e accade la sconcertante scoperta: quella che si credeva sprezzante alterigia è invece mancanza, assenza: l’ufficiale è senza braccia. La divisa nasconde un vuoto, “la forma ha divorato il corpo che avrebbe dovuto vestire”. Il “fantasma del corpo senza braccia”, scrive Cappabianca, senza braccia per dirigere, è quello che attenderà Stroheim alla fine della sua parabola.

La nostalgia per l’intero si fa col tempo manifesto di un’opera programmaticamente incompiuta, col colosso rinnegato Greed (1924) che diventa massimo monumento alla depense, del piacere perverso di lavorare in pura perdita, della minuzia spettacolare, mettendo su il set più inaudito e singolare mai realizzato per un film e gettando le basi perché questo sforzo enorme, inutile e controproducente, non sia visto da nessuno (progenitore del Kubrick di Barry Lyndon, che pretese i costumi di scena comprendessero anche indumenti intimi del Settecento). Le 42 bobine iniziali di Greed (circa sette ore di titanica durata) furono ridotte dai produttori, tagliando interi personaggi ed episodi, fino a 10 bobine (108 minuti). All’uscita, il film fu un fiasco.

La tendenza al gigantismo, il rovello del set che porta alla ricostruzione completa negli studios della Place Centrale di Montecarlo, del Casino, del Café de Paris, con interni dotati di soffitti (pratica avulsa dal contesto della scenotecnica dell’epoca, ripresa più tardi da Orson Welles) questo delirio di raddoppiamento della realtà, come per il Caden Cotard di Synecdoche New York, porterebbe al sospetto di un inconscio antagonismo, di un adoperarsi per precipitare. Per Cappabianca, si tratta del “privilegio accordato all’hic et nunc del cinema, al momento primigenio e irripetibile” che deve fare i conti con la sua riproducibilità tecnica, la sua maledizione e perdita di realtà (essendo il cinema, nelle parole di Carmelo Bene, “quanto è già abortito, un oltraggio all’attimo presente”, nient’altro che la natura morta del set) e quindi un inconscio senso di colpa verso il materiale girato e la pellicola impressionata, “tale da provocare, come coazione a ripetere, gli infortuni e le mutilazioni inferte ai film dopo le riprese.”

Allora ci si accanisce contro la “fine” tradizionale del film, perché mostrare la verità è mostrare quel di più che segue il tradizionale finale: quando si scruta l’uomo, lo si abbraccia tutto, ostinatamente ribellandosi al divenire familiare del rimosso, che diverrebbe un ex-non mostrabile riassorbito dal senso generale, ormai svilito. “Come ogni pratica artistica anche quella di Stroheim sarebbe quindi una pratica di nominazione del nulla.”

Barthélemy Amengual legge tutta la parabola di Stroheim alla luce di un divorante senso di colpa. Dalla rimozione conscia dell’infanzia e dell’adolescenza povere, fonti di possibili umiliazioni, nascerebbe un meccanismo di auto-punizione, una pervicace insistenza nel ripetere gli stessi errori, per andare incontro alle stesse fatali conseguenze.

I biografi scopriranno la verità sulle sue origini solo dopo la sua morte.

 

 

Coda

In Sunset Boulevard (1949), di Billy Wilder, Stroheim si trova interpretare una parte singolarmente crudele: se stesso. “Max von Mayerling” è un ex-regista, al servizio di una ex-diva dei tempi del muto (Gloria Swanson, realmente diva del muto e per di più diretta da Stroheim nell’incompiuto Queen Kelly) che riceve false lettere da ammiratori immaginari, scritte in realtà dal proprio maggiordomo nel tentativo di non farla impazzire di solitudine. L’idea delle lettere, confessò Wilder, fu di Stroheim.

A concludere una parabola di somma derisione, all’ex-regista verrà infine concessa dal connazionale l’agognata occasione di tornare a dirigere per un’ultima volta, nella finzione, ma sarà “un film-fantasma da girare per un attimo, lungo una scala, prima che il buio inghiotta definitivamente la vecchia star, il set, Stroheim e, forse, il cinema.” (Cappabianca)

Insegnare alle macchine la noia dell’umanità. La svolta dell’intelligenza artificiale dal machine learning a ChatGPT.

2

di Nicola Ludwig (*)

 

“Dobbiamo mettere in pausa l’avanzata dell’intelligenza artificiale”, sostengono in una lettera aperta pubblicata martedì 28 marzo oltre mille esperti e ricercatori del settore, tra cui Elon Musk, amministratore delegato di Tesla. La richiesta dell’appello promosso dal Future of life institute (1) è di sospendere per sei mesi la ricerca sui software della generazione successiva a GPT-4, il software conversazionale lanciato a metà marzo dalla società californiana OpenAI. Il codice di intelligenza artificiale noto come ChatGPT è talmente addestrato alla lettura e al riconoscimento di strutture ripetitive del linguaggio umano da essere in grado di sostenere una conversazione con umani in modo totalmente mimetico: l’utente, non a sua volta addestrato, non è cioè in grado di riconoscere nell’interlocutore una macchina o un altro umano.

La moratoria dovrebbe essere utilizzata per sviluppare sistemi di controllo del software, ritenuto “pericoloso per l’umanità” o meglio secondo il principio di Asilomar redatto già nel 2017 “i sistemi di IA avanzati possono rappresentare un profondo cambiamento nella storia della vita sulla Terra e dovrebbero essere monitorati e gestiti con appropriate cura e risorse” (2).

 

Gli ultimi mesi hanno infatti visto i laboratori di intelligenza artificiale richiusi su se stessi in una corsa incontrollata per sviluppare e implementare sistemi di IA sempre più potenti, scoprendo strada facendo che nessuno – nemmeno i programmatori stessi – può comprendere, prevedere o controllare in modo affidabile cosa essi siano in grado di fare. Uno degli aspetti più inquietanti, peraltro non imprevisto ma cercato per motivi di ottimizzazione del tempo dei programmatori, è la capacità dei software di scrivere autonomamente parti di codice, cioè di se stessi e quindi in ultima analisi di replicarsi e autogenerarsi, creando, almeno secondo alcune teorie, le basi per una nuova forma di vita virtuale. Il cosiddetto machine learning, cioè l’uso di macchine in grado di imparare dall’esperienza e  quindi in grado di modificare il proprio comportamento è passato in pochi anni dall’apprendimento in ambito robotico a quello linguistico-conversazionale.

Ciò che più ha colpito l’opinione pubblica, sicuramente più attenta al tema della sostituzione tecnologia nel lavoro che allo sbocciare di nuove forme di vita, è tuttavia la perizia con la quale i nuovi algoritmi riescono a usare il linguaggio umano per intrattenerci, forse per ingannarci, probabilmente per superarci. Perizia che dimostra, da un lato, l’immensa potenza raggiunta dai sistemi basati sull’accesso al cloud, la banca dati virtualmente infinita della conoscenza umana in rete, dall’altro il fatto che i linguaggi umani non sono poi così inaccessibili a sistemi basati su connessioni elettroniche invece che sulle sinapsi cerebrali.

A questo proposito sono numerose le testimonianze, le più riferite alla capacità di ChatGPT di scrivere tesi o temi scolastici assolutamente indistinguibili da un compito di medio valore, privi di errori tanto quanto di originalità. Tutte riconducono al nocciolo del funzionamento del codice: costruire testi a partire da un patrimonio quasi infinito di esempi linguistici, letterari, saggistici o in generale attingendo al vasto patrimonio di testi messo in rete negli ultimi 20 anni, dall’inizio dell’era dell’internet di massa. Una funzione che in parte ricalca proprio il metodo con il quale gran parte dell’umanità, o perlomeno parte cospicua dei media, comunica in forma scritta: copiando. Curiosamente i limiti attuali dei codici di IA sembrano essere proprio nel ragionamento astratto e nella capacità di risolvere problemi matematici, le cui soluzioni non sono evidentemente reperibili in rete. Fra le più spassose e forse volutamente scherzose testimonianze, visto il coinvolgimento di Microsoft nella start up californiana, c’è quella pubblicata da Bill Gates sul GatesNotes lo scorso 21 marzo (3). In essa il fondatore di Microsoft riferisce che una IA richiesta di programmare le tappe di un viaggio può inventare hotel inesistenti o proporre quelli già al completo. Non distingue cioè il contesto della richiesta: la differenza fra un viaggio pensato e uno da programmare realmente. Secondo la CNN, Gates, inizialmente fra i promotori della lettera avrebbe in seguito ritirato il proprio appoggio.

Su un piano meno faceto i firmatari rilevano il pericolo che i nuovi sistemi di IA diventino in un futuro imminente competitivi con l’attività umana nello svolgere compiti generali con il risultato di inondare la società di informazioni non verificate o puramente propagandistiche nonché di rendere automatizzati molti lavori intellettuali, considerati creativi o comunque non tediosi. Il rischio sarebbe quello di sviluppare menti non-umane in grado in via definitiva di superarci, renderci inefficaci, obsoleti e infine sostituirci. Fino a lanciare il drammatico grido “possiamo rischiare di perdere il controllo della nostra civiltà?” e soprattutto invitare lopinione pubblica a riflettere sul fatto che decisioni in merito allo sviluppo di queste IA  possono essere delegate a personalità non elette democraticamente.

Questo articolo nell’esperienza del suo autore umano avrebbe potuto essere scritto da ChatGPT utilizzando circa un decimillesimo del tempo, ma sarebbe stato nettamente più prolisso, noioso e avrebbe potuto inserire notizie del tutto non verificate.

(*) Professore di Fisica applicata presso l’Università statale di Milano

Berlino

2

di Alberto Comparini

.

7.

nel foglietto illustrativo le istruzioni per l’uso

scandiscono in liturgie e formule chimiche

il confine biologico tra la vita e la morte

assomiglia in fin dei conti a questo gesto

svegliarsi ingoiare delle pastiglie in bagno

lasciare nello specchio prima di ogni pasto

un segno di decenza vomitare e apprendere

tra le gocce di sangue il conto alla rovescia

 

7.1.

il superstite soffre di superstizione

lascia attraversare la strada ai gatti

neri non mette il cappello sul letto

dispone in fila le sedie degli ospiti

 

7.2.

il superstite ha il dono della presenza

può testimoniare il vero e il falso non

ha vincoli morali è vivo per miracolo

il superstite ha assistito alla sua storia

 

7.3.

il superstite vuole essere un sopravvissuto

fanno a gara a chi ha vissuto di più la morte

è un atteggiamento compulsivo dei corpi

sopravvivere è un lusso riservato a pochi

 

7.4.

il superstite ha una seconda vista ci vede

doppio forse è solo strabico il superstite

non è convinto alza la voce è arrabbiato

all’oculista grida di conoscere il passato

 

7.5.

il superstite è veggente non ha assistito ai fenomeni

preferisce guardare il basket è un lavoro più stabile

nessuno gli vuole credere quando prevede i risultati

degli esami potrà smetterla di sopravvivere ai morti

 

7.6.

il superstite non si riconosce più nel presente

ascolta dei superstiti agli incontri settimanali

capisce di non capire più niente dei superstiti

cosa rimane dopo la chemio sono tutti uguali

 

7.7.

il superstite diventa il testimone di un superstite

alla fine la famiglia gli ha fatto pure causa dove

sei finito figlio fratello ma quando diventi marito

vogliamo un nipote smettila di fare il testimone

 

7.8.

il superstite sopravvive nel futuro anteriore

le nostre parole sono già compiute e incerte

è come nel paradosso di Schrödinger siamo

vivi e morti aspettiamo di superare la notte

 

7.9.

il superstite non si sveglia alle sei del mattino

si rivela nella finestra una copia del tuo corpo

siete identici la prospettiva è inversa resistete

in silenzio al pronto intervento dei paramedici

*

Immagine di Laszlo Moholy-Nagy (Berlin-Weimar, 1925). Fondo RMN.

Gente che chiacchiera, che mormora, che cincischia: una lettura di “Ridondanze”

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di Giuseppe A. Samonà

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Mentre leggevo Ridondanze (anzi, / ri.don.dànze /, Exòrma, 2022), strampalata – a prima vista – raccolta di storie romane, o meglio testaccine,  composte da Paolo Morelli, mi è tornata in mente la mia polverosa insegnante di greco del ginnasio (ahimè, agli antipodi dei rari insegnanti, che poi ci sono stati, capaci di incendiare d’amore i ragazzi per questa splendida lingua), la quale, al chiacchiericcio mormorato ma continuo che opponevamo alla rigida noia che lei cercava di instaurare, esplodeva con il mantra: cosa? cosa? gente che chiacchiera, che mormora, che cincischia…. Ecco, Morelli chiacchiera, anzi, strachiacchiera, stracincischia, e in generale stra-perde-tempo: è un fiume in piena, ma appunto sommesso, come se mormorasse al vento. La letteratura, molto spesso (non sempre) racconta storie e ogni tanto, nel raccontare, divaga, ma in questo libro è la divagazione a regnare sovrana, è il centro della narrazione, e sembra essere la vera direttrice del tutto.

Spesso parlando dei suoi libri (e anche di questo) si è chiamato in causa Manganelli (di cui ricorreva nel 2022 il centenario della nascita, e ancora non si è spento l’eco delle commemorazioni, arte in cui la necrofila critica italiana eccelle) o Celati (morto anche lui, proprio nel 2022, e il delizioso In viaggio con Gianni, Celati, Tic 2021, appunto di P. Morelli, ne è stato una sorta di profetica, anticipatrice – rieccola… – commemorazione), o ancora Malerba. E cominciando il libro si potrebbe anche essere tentati di scomodare il Moravia un po’ bozzettistico dei Racconti romani, o ancora il Benni di Bar sport, che il bozzettismo lo immerge in una surreale comicità; un po’ più avanti nella lettura, e per certi versi all’opposto, si penserà magari a Campanile o a Ionesco, per l’uso devastante che fanno della surrealtà (per altro ben più profondo di quello di Benni).

Questi possibili punti di riferimento però sono come scontati, persino banali: Morelli infatti non li imita, neanche li cerca, anche se certo li conosce, e (almeno i primi sunnominati) li ha senz’altro assunti e digeriti, disciolti nella sua prosa – che non in essi tuttavia trova la chiave della propria originalità. Così, mentre avanzavo nella lettura, è un altro lo scrittore che mi si è delineato all’orizzonte, il più grande di tutti e, mi verrebbe da dire, il Maestro dello straparlare e del divagare: Miguel de Cervantes. Intendiamoci, non è che voglia paragonare Morelli al genio spagnolo (e universale), del resto è probabile che lo stesso Morelli non lo abbia neanche pensato come esplicito punto di riferimento (ma forse sì, mi piacerebbe chiederglielo); voglio semplicemente dire  che mentre mi perdevo nelle pagine di / ri.don.dànze /, inizialmente anche esasperandomi per questo filo che perdevo e ritrovavo in continuazione, mi è tornata in mente la lunga, dapprima faticosa, poi appassionante, insostituibile lettura del Qujote. E di più: quando mi è venuta in mente mi sono reso conto che mi si era già affacciata dentro – ma come un’ombra, come quelle associazioni che non riusciamo a compiere sino in fondo, e restano allo stato larvale – leggendo più o meno un anno prima Il cielo per Roma (2021), di Mariano Bàino, sempre edito da Exorma.

Ora questi due libri sono diversissimi, e mai sarei stato probabilmente tentato di confrontarli: il primo (Bàino) è infatti aereo, come fantascientifico, letteralmente intergalattico, in quanto capace di viaggiare attraverso le epoche, e garbatamente ma intensamente dotto; il secondo (Morelli) è terrestre, avvitato al suo spazio, e ancor di più al suo (mitico) tempo, ai suoi riferimenti ristretti, rionali, anche se dottissimo anche lui, pur se in modo molto più nascosto, e ironico. Ma ecco: per poterli seguire veramente, l’uno come l’altro, si deve accettare di perdercisi dentro. Voglio dire: ci sono libri, la maggior parte di quelli che si impongono oggi nel mercato, in cui il filo, l’incastro dei dettagli, quel che vi si racconta, sorprese incluse, sono programmati secondo schemi precisi, il lettore deve solo restare concentrato, per navigare tranquillo (tranquillo anche nelle sorprese), e per carità! evitare di perdere colpi, battute,  altrimenti non capirà più nulla: se però giustamente resta attento, il risultato è garantito. Altri libri, appunto come quelli di Bàino e Morelli, richiedono invece pazienza, rilassatezza più che concentrazione, anzi la concentrazione (ansiosa), l’attenzione ossessiva al dettaglio, al filo, l’intreccio, porta il lettore inevitabilmente alla resa. Fanno parte insomma di quella categoria di libri che più che meticolosità logica richiedono abbandono, persino distrazione, e un consapevole, paziente atteggiamento di lasciar venire. (Immagine: andare a vedere un film di Tarantino, aspettandosi Antonioni o Bergman, o anche – il che è forse peggio – viceversa…).  Per l’appunto (ed ecco il collegamento): pazienza, abbandono, gusto per la distrazione etc. sono i requisiti indispensabili – nella mia esperienza – per gustare a fondo il capolavoro dello scrittore spagnolo, che a sua volta sviluppa ulteriormente queste disposizioni, insegnando in un certo senso ad esercitarle nella vita, è leggendo il Qujote che mi ci sono per la prima volta consapevolmente confrontato.

Dice (di nuovo la mia professoressa di greco): dice? dice? ma che dice? gente che chiacchiera… (io), etc… È vero, sto straparlando, sto divagando anch’io – ma lo faccio per scelta, nel senso che un po’ di straparlìo divagante è il modo migliore per avvicinarlo, questo libro, prima di dire cosa concretamente racconti. In due parole, si tratta di una dozzina di storie, dodici variazioni (più una premessa e un’appendice), tutte ambientate nel “rione”, cioè il Testaccio, e tutte rocambolesche: tre amici, appunto testaccini, fanno un incidente di macchina sulla strada del ritorno, da cui segue un’improbabile gita sulle montagne della Maiella per vedere in una cappella  gli affreschi di un improbabile pittore che rappresentano il Ciclo delle quattro notti (e ogni personaggio, ogni cosa, ogni Notte, entra in una nuova scatola, con un meccanismo alle Mille e una notte, dove le storie sembrano non aver quasi nulla a che fare l’una con l’altra, invece…); uno  sconvoltone (la droga…) esce ogni giorno dal rione in bicicletta e passa sempre alla stessa ora di fronte a un antico monumento dove centinaia di turisti scattano sempre la stessa foto e lui ci si ritrova dentro sino a diventare, come il monumento, eterno; due nemici-amici, fortunato l’uno, sfortunato l’altro, vittorioso e sconfitto, riuscito e fallito (dove la riuscita è, alla Cossery, fare un lavoro che permetta di non lavorare, elevando la scioperataggine a virtù civile), mettono retoricamente le loro vite a confronto; sempre al rione si confrontano i destini paralleli degli artisti e dei topi, che prima erano grassi e pochi (e morti di fame, perché la fame paradossalmente li ingrossa, gli artisti e i topi) adesso molto più numerosi ma rimpiccioliti; il redattore di una rivista di viaggi trova la formula per narrare e difendere dall’assalto delle folle i posti belli ancora da scoprire (il dilemma: solo il silenzio protegge la bellezza, ma la bellezza scoperta dà voglia di parlare, soprattutto al Testaccio, dove nessuno viaggia ma sono tutti gran chiacchieroni – appunto… Ma è ancora possibile viaggiare? Esistono ancora i posti belli? Ecco, sto divagando…) – e segue il suo racconto… etc. O forse si dovrebbe meglio dire: non storie testaccine, ma variazioni dello stesso Testaccio, sinfonia della sua essenza. Di tempo e appunto di musica più che di spazio: di fatto  chi cercasse nel libro di Morelli (ed ecco un altro punto di contatto con quello, pur diversissimo, di Bàino) tracce concrete del Testaccio, e di Roma, vie, piazze, monumenti, descrizioni, rimarrebbe molto deluso. Il Testaccio di Morelli è un’utopia, è un luogo che non esiste, o se vogliamo una realtà derealizzata, fatta di sogni, di ricordi, di speranze, di pura immaginazione anche, di suoni – come la lingua che si avvita in alcune ruggenti cadenze romanesche, verosimili più che vere, opera di fina letteratura più che di riproduzione vernacolare (viene ovviamente da pensare al romanesco di Gadda), o ancor più semplicemente come i nomi dei personaggi, Pocaluce, Volume, Battiscopa, Merdara Rognoso, Ritorti, Sarchioni, Ruggero Maglione… Non sarà inutile, in tal senso, notare che il libro di Morelli come quello di Bàino non solo sono editi dalla stessa casa editrice, ma anche appartengono alla stessa collana: quisiscrivemale (questo è il suo nome!), che antifrasticamente evoca una letteratura libera dai generi omologati e lisci – quelli che dominano il mercato, insomma, anche grazie alla loro facile fruibilità – ma ossessivamente attenta alle parole, allo stile.

Dice (di nuovo lei, l’insegnante, che avrebbe probabilmente fulminato Morelli): gente che parla, gente che ripete. Ma senza ripetizione (e diciamolo, ossessività) non c’è arte. Così, la chiacchiera, il ritornare sugli stessi incatenamenti variandoli all’infinito – e in questo senso straparlano i personaggi non meno del loro autore – dirige il libro e lo fa rigurgitare di parole, come un fiume in piena, un delirio febbricitante, come quando qualcuno ti attacca un implacabile bottone che non la finisce più – ma a un certo punto (lo dicevo, occorre pazienza), ci si accorge che quella febbre ha un senso, e il fiume in piena comincia a scorrere maestoso, persino educato, calmo. Le storie si sciolgono l’una nell’altra, alcuni personaggi (la ripetizione) riaffiorano qua e là, forse è un romanzo? no, piuttosto un ipnotizzante esercizio zen – per questo occorre non cercare di afferrarsi a un ramo, a un dettaglio, ma semplicemente lasciarsi trasportare  – che finalmente, come se di colpo si alzasse la nebbia, fa emergere nitidi i contorni, il senso di tanto raccontare. Sì, c’è un mondo, fatto di cose, di gesta, di emozioni, ma noi in realtà non lo vediamo, ne vediamo solo la crosta, la sua vera vita si dispiega al di là di quella: il (rac)contatore  ci permette appunto di coglierla.

Gli antichi Greci esaltavano, in alternativa alla logica della visione/immagine, quella dell’audizione/parola, che dava accesso al misterioso universo del mondo-tempo: non a caso il cantore che trasportava il pubblico era antonomasticamente cieco – le orecchie vedono, non gli occhi. Ecco, è in questo senso profondo che Morelli mescola l’Oriente lontano con l’antica tradizione epica Occidentale,  in cui l’immaginazione e il raccontare sono più importanti dei fatti raccontati, anzi questi fatti, ora glorie e trionfi ora disgrazie, sono distribuiti dagli dèi agli uomini affiché altri uomini futuri possano svelarle nel canto, e solo in questo canto, o racconto, acquistano finalmente senso. Insomma (se esiste, è questa la morale del libro) raccontare è tutto, raccontare e divagare (perché non si può raccontare senza divagare), a resuscitare tramite la parola mondi, gratuitamente, dando fondo all’immaginazione, ridendo e danzando, appunto, ridon-dan(zan)do: per diventare liberi. Cioè per conquistare pienamente la propria umanità.

Un 25 aprile indimenticabile

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Il coro Inni e canti di lotta della Scuola popolare di musica di Testaccio canta Bella ciao a Porta San Paolo. È accaduto a Roma in un giorno di sole. Un 25 aprile indimenticabile.