foto di Pietro Motisi (sx) e Marcello Cangemi (dx)
Due poesie inedite di Gianluca Cangemi
foto di Pietro Motisi (sx) e Marcello Cangemi (dx)
Ho le mani impolverate
di pollini e galassie.
Saetta la serpe.
La polvere di un sorriso mi resta
su un dito o l’altro
dopo la carezza
dal sottobosco
una pagliuzza d’oro.
Pieghe grandi e rigonfie,
parvenze d’anatomie
della terra elefante;
i laghi come i cieli
nelle cartografie
le copule,
le penetrazioni.
Trasformo gli escrementi selvatici
in fiore o stella,
rugiada i soffi della madre:
il vulcano.
Il bronzo crepita e pulsa
del suono di risa e terrori e
il vento delle mani in danza
è lievito alla terracotta.
Ogni ritratto è di per sé un rischio:
crediamo indizi, tracce,
arzigogoli della veglia…
… Ma io ho le mani impolverate
di pollini e galassie e la serpe
saetta e
un sorriso mi gusto
che sul mio dito resta,
dopo la carezza.
***
Trucioli
La sincresi nasce da
sincronismo e sintesi,
saldatura inevitabile e spontanea che
sfugge la tua maschia
razionalità.
Accade come quando
gli armonici degli archi sovracuti
crollano in scena, capelli e polvere,
e l’accordo emerge allora
più marcato degli altri tutt’attorno.
O ancora accade come quando
la Madonna piange in lutto la sua pena
per la morte del consorte e
Demetra la consola e i trucioli,
lì sul pavimento di santità
sapidi e ignari, si fanno semi
di sesamo e finocchio e
ne mangiamo infine noi mortali
il pane a primavera.
Il tuono nella valle e il colpo d’ala
insieme in un istante
del falchetto che scarta di lato –
e un bimbo appena nato piange la città.
§
Notte, enfasi e intimidazione. Reparto correttori di bozze. Discorsi. O meglio: ordini. Siamo il reparto temuto, messaggeri di problemi e perdite di tempo. Su di noi agisce una specie di ansia che mira a una perfezione di velocità. Non dobbiamo creare troppi rallentamenti alla lavorazione. Garantisce l’orologio del proto: un’ideale pressione emotiva che, ai novelli, finisce per imporre una velocità di lettura controproducente. Per questo molti di noi sono anziani: gente navigata al cannoneggiamento di rimproveri e fretta. Il segreto e l’azzardo sono non pensare a quel che è scritto ma correggere come se fossero sagome geometriche di cui relazionare la giustezza. È il nostro lavoro da anni, conosciamo gli inganni dei refusi: le doppie m, le nn… sappiamo le insidie delle gambe e delle braccia in alto o in basso… le l e le i e gli 1. Guardiamo al testo come a una foresta in cui un albero può somigliare a un fiore, due laghi, due pozze. Insomma: siamo in guerra. Con le lettere e con i capi che ci vogliono spediti e superficiali ma perfetti. Da noi vengono pretese, al contempo, rapidità e compiutezza. Siamo il reparto dei rischi e facciamo il lavoro del rischio.
Per fare un lavoro così serve dirittura morale, serenità, fermezza e tanta fortuna. Molti di noi sono religiosi: cercano fuori di sé o in sé – a seconda dei culti – un sostegno per questo impari confronto con la sorte. Preghiamo per la concentrazione, ossequiamo la fortuna affinché la nostra attenzione riesca a scovare, nella foresta di segni, l’errore. Alle volte siamo costretti a sospendere ogni comprensione e guardiamo delle figure in un foglio e cerchiamo le stesse nell’altro. Nell’originale scrutiamo segni sconosciuti e cerchiamo di verificare che i fotocompositori li abbiamo rappresentati nel modo corretto. Ci aiuta pensare alle lettere come a figure di un paesaggio. Ecco una tegola – î – sopra una i. Un gabbiano su una n o su una a: ñ o ã. E ẫ: un gabbiano, su una tegola, su una a. Ecco che piove sulle e, sulle u: ë, ü. Un diapason o una fionda: Џ. Ω, una testa sulle spalle. ß, una donna incinta. Ç, un cigno che guarda indietro. Ø, una testa con l’occhio bendato.
Sono lettere di cui non sappiamo nulla, lingue di un alfabeto sconosciuto. Dobbiamo solo accertare che siano state battute nel modo corretto. Leggiamo piano, come se verificassimo i particolari in una fotografia di paesaggio. Forse sono lingue morte con una grammatica nota a pochi, codici per nicchie colte e segrete. Forse stiamo leggendo imprecazioni o parole d’amore. Non lo sappiamo, ma abbiamo ben chiaro il nostro ruolo: non possiamo equivocare. Dobbiamo ottenere due fogli identici, con in mezzo il passaggio frettoloso e sbrigativo di chi le ha cercate uguali e impunemente le ha tradotte. Noi saremo puniti: troppi errori e
nessuna nocca batterà più alla nostra porta. Nessuno ci dirà nulla. Ci accorgeremo di essere soli nel nostro villaggio e capiremo che una squadra è stata chiamata ma non ne facevamo parte. Gireremo a vuoto per la nostra campagna, per i lunghi viali di ghiaia, senza rumori intorno che non siano lo sgradevole gracchiare delle cornacchie, il tubare delle colombe, il richiamo canzonatorio delle upupe, il tuffarsi fulmineo delle rane spaventate dai nostri passi. Se le nostre mancanze saranno state gravi o ripetute, vivremo giorni di vuoto dirompente perché della lontananza dei colleghi sapremo solo per intuizioni. Una perspicacia applicata alle case altrui. Quindi il dolore si rafforzerà nel tempo e nell’illusione ogni volta sconfessata dal
silenzio e dall’assenza. Un vuoto e un dolore che nessuno di noi vuole immaginare e neppure sperimentare. Per esorcizzarlo lavoriamo senza stanchezza e senza distrazioni come se
dovessimo bucare i fogli con lo sguardo.
§ Ma che stai facendo? Lo sai da quanto stai su quella pagina? Ti ho contato, sai? Hai letto tre pagine in venti minuti. Su questa pagina ci stai da dieci minuti. Gli altri hanno già finito la loro mazzetta di fogli. Cos’è, non sai leggere? Vuoi rimanertene a casa la prossima volta? Lo sai quante volte sei andato in bagno? Stai male? Se stai male stai a casa!
Il caporeparto non è il capo del reparto. È un ex-fotocompositore. Un anziano digitatore dalla pelle nera. Dicono un marocchinato. Nessuno sa il suo nome. Lo chiamano Io-io-io per l’attitudine a imbonire raccontando di sé. Ammonisce, biasima, rimprovera e controlla sospettoso. Nella sua vita precedente di semplice operaio, era dedito a intrighi e acutezze da imboscato. Arguzia che smaschera arguzia, inoperosità che coglie l’inoperosità. Così è un caporeparto: una funzione, non un’abilità.
Un caporeparto osserva e smaschera gli altri. Un fustigatore reprensibile. Così il potere sorveglia, amministra, si perpetua. Il mio reparto non ha un suo capo naturale, non lo ha per tra-dizione. I correttori di bozze sono malvisti perché chi corregge è un ostacolo
al lavoro della tipografia. Chi corregge è attento, minuzioso, non può guidare gli altri con il metronomo lento della meticolosità. Chi comanda deve essere rapido e dirimere nodi, non può rallentare per cura. Gli si preferisce un ex-fotocompositore, che ha anche più peso nel governo degli ex-colleghi, più numerosi e quindi più difficile da amministrare. I correttori sono raccolti in loro stessi, introversi, ciechi nel loro sviluppo della vista. Sono come somari della pagina. Occhi sulle lettere e poco sguardo d’assieme. Non sono adatti al comando e alla sua perpetuazione. È un plotone di attenzione, va governato da fuori e con massimalismo. La minuzia non si presta al ruolo del comando.
– Che problemi hai con quella pagina? – interroga severo Io-io-io.
– Nessuno… è…
– Vedi di sbrigarti, allora… se invece non te la senti firma e aspetta fuori. Sai quanta gente smania per essere chiamata?
Lo sai? Sai quanti se ne stanno a casa sperando che uno di voi si infortuni o abbia un malore? C’è gente che prega ché voi crepiate, che vi venga una malattia. Che i pulmini passino e voi non siete in casa.
Riprendo a leggere, cerco di recuperare concentrazione, calma. Non è facile lavorare con questa furia addosso. Non conviene rispondere, non serve opporsi. Riprendo a leggere.
Basterebbe andare più veloci, magari leggere con più facilità, meno cura, ma veniamo costretti a siglare ogni pagina, ogni mazzetta di fogli è registrata al nome di chi di noi l’ha letta. Basterebbe scorrere qualche pagina per togliersi di dosso gli occhi insistenti di Io-io-io che ora mi fissa al di là del vetro. Giro la pagina, anche se mancano dieci righe a completarne la lettura. Giro la pagina e spero si sposti dal vetro per lasciarmi tornare indietro ma nulla. E allora leggo velocemente anche la seguente, cercando di ricordarmi il numero di quella di cui ho saltato le ultime dieci righe. Ventisette: rileggere le ultime righe. Ventotto: riguardarla. Io-io-io è ancora dietro al vetro. Sono a pagina trenta.
– Dài dammi le pagine che hai letto che le riporto ai fotocompositori.
– Veramente… – provo a prendere tempo ma mi strappa i fogli di
mano.
– Che c’è? Vuoi tornartene a casa?
NdR: l’estratto che precede è tratto dal romanzo “I segni sull’acqua” di Roberto Carvelli, pubblicato da D Editore (2022)
Una regione il Friuli Venezia Giulia in cui “sembra tutto creato apposta per diventare ricordo”. In questo frammento dal sapore aforistico è racchiuso il fascino suadente di “Tratteggi friulani” di Claudia Zironi – volume di prosa poetica odepòrica impreziosito dalle fotografie di Benedetto Beny Kosic – edito nel febbraio 2023 per la giovane e dinamica casa editrice indipendente goriziana Qudulibri –Collana Porta Maggiore/Poeti 71 pag. in brossura- che costituisce la nona opera letteraria della nota autrice bolognese. Il titolo del libro è una sineddoche che rappresenta l’immaginario collettivo sulla Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia e non intende in alcun modo sottovalutare la ricchezza data dalla diversità di visuali linguistiche e storiche che la regione contiene e rappresenta. Ma da dove nasce l’esigenza della scrittura di questo libro? “Ricordo che ero alle medie – dice la poetessa nella prefazione del volume- quando il Friuli, quello vero, tremava, e c’erano in TV immagini in bianco e nero di paesi sbriciolati, di gente indaffarata e impolverata, dalla faccia triste […] Sarà per tutto questo che ho tenuto il Friuli Venezia Giulia per ultima tra le regioni da visitare, ne ho varcato il confine a ormai 50 anni […] con la bambina dentro di me, che ha raccontato questa storia, che ancora avrebbe voluto tornare indietro […] e ci ha trovato te, che sei casa.” Una storia d’amore a lungo agognato e alla fine corrisposto. La poetessa, da quando ha varcato per la prima volta nel 2015 i confini della RAFVG, non è più riuscita a smettere e ha voluto omaggiare questa splendida regione di confine -crocevia di genti e di culture- scrivendone una sorta di diario di viaggio. Un pegno d’amore. Così è nato Tratteggi friulani.
Ventitrè fermo immagine che l’autrice ha inanellato pazientemente con sguardo stupito, immacolato, terso, sapido, penetrante ma anche fanciullesco -in senso pascoliano- fra il 2015 e il 2022 con il fil rouge di una ricercata, raffinata prosa poetica, con frasi a tratti ermetiche, di sapore yūgen – di una profondità insondabile. Una prosa poetica che rimanda da un lato ai paesaggi del Friuli cantati nei loro scritti da P. Zorutti, E. Bartolini, L. Gazzino, A. Tomasìn, E. Sgubìn, C. Sgorlòn, P.P. Pasolini nella sua fanciullezza a Casarsa, da P. Cappello e dai loro epigoni, da un altro a richiami ed echi della prosodia di Ungaretti e Saba. L’autrice offre al lettore attento una visione filtrata dell’alterità, di ambienti usuali per i friulani e i giuliani secondo punti di vista alternativi che sono spesso inficiati per i residenti dal biais cognitivo della quotidianità che l’ordinarietà vela.
Come un calice fragrante di pinòt nòir -si apre- e scorre… la pagina -delicatamente sfogliata, assaporata e meditata. L’io poetico dell’autrice ci prende per mano guidando il lettore in un viaggio lento, molle e appagante nello spazio, nel tempo, nei panorami interiori, nei luoghi del cuore, nei paesaggi dell’anima e si va… Aquileia irreale nel tramonto con le sue rovine -accenti imperiali- così estranei alla terra. Il Carso in fiamme ove il fuoco discende nella terra a cercare l’oblio delle ossa dei caduti, per le vie nascoste dei torrenti, poi, riappare e non si doma…non si doma (immagini che ci riportano al Carso della Grande Guerra cantata da Ungaretti o alla contemporaneità del conflitto Russo-Ucraino). Cividale del Friuli -patrimonio UNESCO- in perfetto equilibrio sul ponte del Diavolo dove il cielo cola nell’acqua di un azzurro totale e le fronde e le verzure sommerse lo mutano in verde. E poi il Collio e la sua aria paglierina d’ebbrezza bello di morbidi filari, dove l’ordine è dolce e circolare, dove regna la mezza stagione nei colori e nei profumi. Il confine Sloveno che segna un passaggio dimensionale, di lingue, luoghi, non luoghi e percezioni, e poi Fogliàno, Gradìsca, Cormòns e le chiacchiere con Gaia presso l’enoteca in piazza grande, e Doberdò del Lago, Redipuglia con il sacrario condanna eterna al ricordo e alla celebrazione dove ungarettianamente “si sta” nel bianco del cielo, attenti, immobili e poi…e poi lame di mare e di celeste all’orizzonte con le falesie di Duino -un riflesso- uno scoglio lontano dove rovine inabitate promettono misteri ripercorrendo i passi di R.M. Rilke. Le calette sassose di Sistiana ove la pietra si tace sulle origini -incerta sul permanere o farsi sabbia. Ed ecco…Gorizia -città che non sembra città- piuttosto un dire di storie, un celare qualcosa del passato, dell’ineluttabilità del futuro, spettri lungo strade deserte e perturbazioni improvvise in giornate quiete di sole. La laguna della Grado di Marin e Pasolini giallognola di luce notturna, pinete ordinate, giardini fragranti e lidi che paiono infiniti. E poi scendere, scendere nell’ancestrale, nel preludio del mondo della magnificenza della Grotta Gigante e poi il lento salire -rinascere alla luce nuova. Nello sguardo immenso di Saba ecco il bastione celeste e lussuoso del maniero di Miramare che si apre largo al golfo, a Muggia e Trieste – l’Algida- una “scontrosa grazia” che canta dal mare un ricordo, come attraverso un crocevia cosmopolita ma senza cadere e le sue genti, la bora e la nostalgia di “Ulysses“ di noi umani transeunti viaggiatori. Udine che solletica le corde del bello, piccola vertigine da un dislivello. E infine il pordenonese con Pordenone -fenomeno metaforico contratto- e Maniago giada e smeraldo.
L’editore propone in sinestesia ai testi in prosa poetica ventitrè foto a colori e b/n del fotoamatore autodidatta Benedetto Kosic. Fotografo animato dall’amore per la sua città -Gorizia- e per la terra meravigliosa che la circonda. Come asserito dallo stesso Kosic nella nota biografica i suoi generi preferiti sono in gran parte i paesaggi della sua terra: la valle dell’Isonzo, il Carso, le valli del Natisone, le zone sulla costa tra Trieste e Grado, Venezia e le foto “street” di Gorizia, specialmente del centro storico e dei suoi angoli più nascosti e suggestivi -oppure- foto di persone in situazioni “normali” e improvvisate, ritratti belli di una bellezza naturale realizzati con la sua Lumix micro 4/3. “Il mio obbiettivo” afferma Kosic “è riuscire a vedere il bello che mi circonda e saperlo mettere in un rettangolo in maniera da renderlo ancora più interessante. Per me la fotografia è provare ad incorniciare momenti e situazioni che senza i click finirebbero dimenticati nella frenesia di giornate sempre più veloci e spesso prive di significato”. Kosic pubblica le sue opere prevalentemente sui “social” e ha partecipato ad alcune mostre collettive.
Un’opera -quella di Zironi- che per la sua struttura rimanda -con le dovute evidenti differenze- agli haibun della poetica giapponese ove, come negli haiga della poesia del genere haikai, la descrizione sintetica e oggettiva di un viaggio si compenetra con l’immagine (dipinta/fotografata) e il testo dello haiku, senryū o tanka a fissare un attimo altrimenti perso negli infiniti cicli del divenire: in quest’ottica il fotografo Kosic si fa hijin né più né meno della stessa poetessa C. Zironi. Nelle pagine di questa pubblicazione risuona il mutuo, muto canto vibrante di viandanza del dàimon platonico della poetessa e del genius loci dei luoghi da lei visitati. Un canto muto in cui si compenetrano silenzi, i suoni della natura, luce, ombra, fragranze, visioni multicolori a volte in contrasto con l’architettura dell’uomo novello Demiurgo. Un percorso poetico nel solco della lezione leopardiana dello “Zibaldone” (pagine inerenti la prosa poetica).
La letteratura odepòrica o di viaggio -in cui l’opera di Zironi si inserisce- ha una storia molto antica. Già rintracciabile nella storiografia greca-latina (Iliade, Odissea di Omero – Eneide di Virgilio) trova la sua piena espressione nel Milione di M. Polo (1300) e successivamente nella letteratura tardo-medioevale e rinascimentale francese con poeti e autori quali: M. Taillevent, A. de Sale, R. Hakluyt o in forma onirica/allegorica nella Divina Commedia di Dante Alighieri. In seguito il genere ebbe notevole successo grazie al Grand Tour di cui Il viaggio in Italia di J. W. Von Goethe, edito nel 1817, ne è la massima espressione letteraria. Nel diciannovesimo secolo, le opere di R. L. Stevenson ne rappresenta la punta di diamante. Nell’ambito della letteratura di viaggio contemporanea meritano di essere citati gli autori anglosassoni: B. Bryson, P. Theroux, W. Least Heat-Moon, J. Morris, B. Chatwin, E. Newby, W. Thesiger, L. Osborne e C. Thubron. Tra tutti merita una menzione d’onore Jack Kerouac (Sulla strada) che più di tutti ha posto il viaggio al centro della sua produzione artistica. Tra gli italiani meritano menzione B. Severgnini, W. Bonatti, G. Bettinelli e i giornalisti T. Terzani, G. Piovene, S. Ramazzotti, M. Pennacchi e il triestino Paolo Rumiz.
Come afferma Giada Tecchio in un suo articolo inerente la teoretica della letteratura odepòrica “Quello fra viaggio e letteratura è un rapporto molto stretto, un “nesso privilegiato” che ha intrecciato fin dalle origini le imprese di viaggio dell’essere umano e l’atto di scrivere, di farne racconto, di condividerle con altri. […] L’esperienza del viaggio in sé per sé come situazione di mutamento e di trasformazione, è da sempre associata all’operazione di scrittura, quasi come se l’azione di raccontare il viaggio, attraverso il recupero scrittorio, (fotografico/grafico/pittorico/audio-video n.d.r.) e memorialistico di questa esperienza, costituisse una parte imprescindibile delle finalità del viaggiare stesso. […] La relazione fra viaggio e letteratura è stata esplorata a livello teorico, innanzitutto intendendo il testo come forma di viaggio e reciprocamente il viaggio come sistema narrativo, arrivando ad interpretare la scrittura stessa come un “atto di spaesamento”, o ancora un allontanamento dal noto e dal familiare, verso una conquista dell’identità. Si può concludere che ogni forma narrativa, in certo qual modo, includa al suo interno una forma di viaggio, così come ogni viaggio si costituisca come un movimento in uno spazio-tempo che implica una struttura intrinsecamente narrativa. […] All’interno del genere odepòrico si evidenziano alcuni tratti comuni nello specifico i rapporti fra la narrazione e la descrizione, con una spiccata preponderanza di quest’ultima, sia che essa derivi dall’esperienza diretta del viaggiatore-scrittore, sia che essa si basi su fonti esteriori o costruzioni immaginarie. Inoltre, particolarmente rilevante risulta l’elemento del “dialogismo” dei racconti di viaggio, in quanto questi si adeguano al bisogno di “raccontare” un’esperienza, ma anche in quanto essi presentano una struttura implicitamente comparativa, che pone in relazione due visioni: quella del “mondo di partenza”, assunta come punto di riferimento per il viaggiatore-scrittore e per i suoi lettori, e quella del mondo “Altro”, della destinazione del viaggio, che si pone necessariamente come termine di paragone dell’osservazione. [… ]. Il legame che l’odepòrica intrattiene con i concetti della spazialità e della rappresentazione del territorio, oltre a costituire una fonte per la possibile descrizione delle “immagini” che formano un dato luogo (per offrire cioè delle possibili “letture” di quest’ultimo, intendendo il testo come esempio di costruzione di una immagine spaziale), può anche rivelare le modalità culturali con cui l’osservazione dei nuovi paesaggi osservati nel percorso di viaggio conforma la descrizione letteraria. […] In sostanza, l’esperienza del viaggio e la sua scrittura assumono un significato particolare nella storia della cultura, e si intrecciano profondamente nel momento in cui essi divengono il metodo per eccellenza della scoperta, della comprensione e della catalogazione del mondo: il moto, la curiosità, l’osservazione e la loro traduzione letteraria si fondono in un nesso che ha giocato un ruolo centrale non solo a livello di esperienza letteraria nell’odeporica, ma più profondamente nel cuore stesso dei meccanismi della nostra conoscenza del reale.”
In conclusione, Qudulibri propone un volume di nicchia, elegante, molto curato nella veste grafica. Come asserito dalla stessa autrice a questa prima opera ne potrebbero fare seguito anche delle altre con un secondo e forse un terzo volume. Restiamo in attesa…
“Buon cammino, Claudia!”
Federico Ielusich
Bibliografia
Tratteggi friulani – fotografie di Benedetto Benny Kosic – di Claudia Zironi – Collana Porta Maggiore-I Poeti – Qudulibri -Gorizia -febbraio 2023 prima edizione
Eppure ancora i nespoli-dissertazioni sullo Haiku – di Antonio Sacco – NullaDieNuovoAteneo Edizioni – Saggi Nulla Die -agosto 2020 prima edizione – Piazza Armerina
La luna e il cancello-saggio sullo haiku – di Luca Cenisi – Castelvecchi – Cahiers- agosto 2018 – Roma
Il Chiasmo (/magazine/chiasmo/) -Lo sguardo del viaggiatore: la letteratura odeporica e l’osservazione del mondo – di Giada Tecchio
Matteo B. Bianchi, La vita di chi resta, Mondadori, 2023
«Milano, nella sua casa, fra i suoi libri, fra i piccoli oggetti preziosi che ha comprato in giro per il mondo, fra le sue candele sempre accese e le decine e decine di bottiglie ben allineate sul tavolo di mogano dell’angolo bar, gli sembrava un rifugio antiaereo» scriveva Tondelli. Le cose materiali sono protagoniste nell’inizio del nuovo romanzo di Matteo B. Bianchi, La vita di chi resta, edito da Mondadori. Casa, ascensore, vestiti, scarpe, simboli del quotidiano e della discontinuità, uniti al mantra del parere popolare, per l’abbandono terapeutico delle cose materiali. Perché? Non ha senso, si dice l’autore: «Non riescono a capire che dai ricordi sono invaso». Inizia l’egida dell’irrealtà, in un memoir delicato, scarno e pacifico.
Cosa significa sopravvivere dovrebbe essere il tema del libro, forse non lo è. «L’assenza di intenzioni» mi ha colpito di più. Il sopravvivere deriva dall’assenza ed essa esiste solo nel soggetto che rimane, come da titolo. Per ciò il memoir di Matteo B. Bianchi è un viaggio illecito, tra gli oggetti e le persone che si avvicinano. Quindi è tutto. È poco altro la prosa essenziale, i flash come un post-it sul tavolo dell’ingresso, davanti una sala vuota sono parte della storia, della libertà di scriversi. Le parole e i pensieri diventano man mano, come ci si attende da uno scrittore, le uniche cose materiali. La geografia di un amore rimane lo strumento dell’abbandono dello stesso. Dove accade e perché, ossia chi. Dopo le scene iniziali, ci si immerge nel passato prossimo, che tale è diventato: prima dell’assenza il vissuto diviene lontano ed è un escamotage. All’improvviso, si cerca nella memoria del proprio tempo fatto di ricordi eterei, non visuali, per colpa di un’epoca analogica. Si palesa, nella mia testa, l’immagine di Pier Vittorio Tondelli, di Camere separate, che lo stesso autore de La vita di chi resta, inconsapevolmente, mi spinge a rileggere con il passaggio: «Non rileggo mai un libro due volte. Almeno non per intero». Bianchi parla della raccolta di racconti che sfoglia sul tram nell’ultimo giorno prima del dolore. Non è di Tondelli, non potrebbe esserlo. Poco importa.
Mi chiedo se il tema del romanzo sia il dolore. Il dolore che porta l’assenza di iniziativa. Non è proprio così. Dolore è un termine improprio, c’è scritto. Il dolore, nel testo, sembra estraniazione. Estraniazione dalla paura, dalle ansie, dai successi. Estraniazione dal ruolo umano dietro un «vetro». Il primo momento per lui autentico, dopo tanto, è quando un autore gli consiglia di prendere appunti: l’altro scrittore lo riconosce, nel suo essere fuori dalle regole, alieno prima della strada per «risalire». Intanto emergono riti mentali, che si incontrano nel lasciare o nell’essere lasciati. Il protagonista del libro vive un abbandono totale, è questa la differenza. Mentre si allontana dai sentimenti, con la gradualità e la prepotenza propria della situazione, è costretto a vivere una perdita assoluta: metafora che diventa verità. Allora il desiderio compare a lenire, in maniera creativa, in qualche modo. Con Carrère che firma gli episodi di Les Revenants e lui ci proietta la gioia ormai impossibile dello spiegarsi fino in fondo. Si parla di resistere. Arriva l’ispirazione per capire il tema del romanzo: l’inerzia, ossia la resistenza. I libri che parlano di resistenza non si posano nemmeno sotto tortura, in un singolare gioco di specchi. Sono esperienze che attraversano, quasi come fosse obbligatoria, la fase della colpa. La vita di chi resta è colpa, momentanea. Delitto perlomeno condiviso con gli altri, che qualcuno in maniera goffa, e altri in modo esemplare, affrontano. È un incastro che evoca il più banale dei concetti. Come scrive Edmund White, in La vita di prima: «Sì, ci vuole coraggio a innamorarsi. È come passeggiare distrattamente, fingendo di condurre una vita ordinaria, mentre in realtà si sta camminando in punta di piedi sul bordo di un burrone, vicino al cratere di un vulcano con il suo deposito di lava incandescente».
A metà della narrazione – che si costruisce intorno al punto di rottura, rimettendo insieme i pixel della sera che ha cambiato l’universo dell’autore – ci si chiede, credo in maniera diffusa, cosa sia la diversità. Diversità è una parola che cambia significante nel tempo. Evoca il gap culturale tra i due uomini protagonisti del memoir. Il primo, intellettuale, immerso nella Milano creativa, tra musica, libri e agenzie di comunicazione; il secondo, manovale, autista, padre di famiglia, a un certo punto lavoratore saltuario. Il primo, riflessivo e attaccato all’opinione degli altri, nella misura giusta; il secondo, poco interessato alle regole sociali, alle gerarchie di turno, legato al momento quasi fosse un personaggio pasoliniano. La diversità è una caratteristica singolare: favorisce l’inizio di una relazione e allontana nel mentre, anche se – ben descritto – c’è il ritorno di fiamma per l’imprevisto, metafora una caldaia nella sera al centro di Roma, a parlare di storie, astrazioni e sigarette. Alla diversità nell’interpretazione di un ruolo non crede più nessuno. In un dialogo, il Thomas Bernhard di Perturbamento, descrive: «Certe persone che non ci sono simpatiche non le lasciamo recitare nello spettacolo che abbiamo allestito; se vi si introducono, noi le scacciamo. Se uno si rende perfettamente conto dell’aspetto meccanico del proprio corpo, non riesce più a respirare».
Matteo B. Bianchi dice di aver stabilito «diverse successioni», di aver spostato «cose e persone nel tempo». Aggiunge: «Dovessero chiedermi cosa c’è di vero in questo libro, risponderei, senza esitazione: tutto». Si chiama fuori da possibili confusioni e le alimenta. È l’ultimo passo della strada compiuta, appuntata, scritta con la memoria. Non si affrancano l’esistenza reale e la letteratura. Spesso così coincidenti da essere imperturbabili, di fronte all’esposizione in un grande festival o nella mente del singolo. Parte il primo tour dell’autore, per presentare il suo esordio, chiuso poco prima del suicidio dell’ex compagno, in cui risultano evidenti tracce di vita e non potrebbe essere altrimenti. Finisce, nello spazio letterario che non è diverso dal reale, con il memoir di cui parliamo, che corre pieno di idee irrisolte fino al niente da poter scrivere, il momento in cui si chiude. La narrazione di una storia non è viverla, vivere una storia è semplicemente narrarla. Fa così Matteo B. Bianchi, in questo libro pieno di fantasmi, dall’inizio alla fine. Scrittore, editor, autore per la radio e la tivvù, curatore della rivista letteraria ‘tina, ci fa conoscere un aspetto per aprirne altri, comincia dal non sentire e finisce con una solida spiegazione. Parla della prevenzione, dell’ascolto. Racconta della ricerca e dell’esternalizzazione della stessa, tra medici, maghi e sopravvissuti. La vita di chi resta è commovente e utile, abbraccia il valore letterario di un testo per intero: la comunicazione di sé e la non-unicità del messaggio. In una riunione di letterati, spicca così per sensazioni positive, dentro un olocausto di ricordi da smarrirsi.
[Questo articolo è apparso sull’“Indice”, n°2, 2023, e tratta del volume collettivo Nanni Balestrini,Millepiani, DeriveApprodi, Roma, 2022, p. 309.]
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di Andrea Inglese
Per Nanni Balestrini potrebbe valere la formula dell’identità moderna che Pirandello coniò per Vitangelo Moscarda, uno dei suoi più celebri protagonisti. Ma per l’autore siciliano, uno, nessuno e centomila esprime ancora uno scandalo della ragione, un paradosso che tende a paralizzare l’azione, laddove, applicata a Balestrini, tale formula sembra conseguire da una consapevole strategia produttiva d’opere e iniziative. Nell’intitolare un volume a lui interamente dedicato, il curatore Sergio Bianchi utilizza la traduzione italiana di Milles plateaux, titolo dell’opera filosofica di Gilles Deleuze e Félix Guattari. Di soggetto plurimo, però, ancora si tratta, in questo Nanni BalestriniMillepiani, corposo volume di una delle nostre case editrici più politiche, DeriveApprodi, che per altro, senza contraddizione, si è impegnata nella pubblicazione integrale dell’opera letteraria (poetica e narrativa) dello stesso Balestrini. Fedele al suo titolo, il volume di trecento pagine non fa una scelta di omogeneità nella selezione e nella raccolta dei materiali. Vi troviamo testimonianze dirette di sodali poetici e politici, ricostruzioni documentate di contesti e progetti culturali, letture critiche della sua produzione letteraria e artistica, il tutto corredato da cinquanta immagini a tutta pagina di opere plastiche e grafiche, ritratti individuali e di gruppo, copertine di libri o riviste, ecc. Tutto ciò non vuole essere un semplice omaggio a uno scrittore tra i più importanti del secondo Novecento, e che è stato attivo e presente fino a pochi mesi dalla sua scomparsa, nel 2019. Nanni Balestrini Millepiani è anche il tentativo di cartografare lo spazio senza contorni certi di una personalità e di un’opera, che si confondono con una quantità di soggetti e di creazioni collettive nel corso di sessant’anni almeno di vicende letterarie, culturali e politiche del nostro paese. Questa “confusione” (di piani di realtà così come di generi letterari e forme artistiche) è ciò che distingue il percorso di Balestrini, ma lo rende anche sfuggente e in parte enigmatico, per chi pretendesse di coglierlo attraverso una sola chiave di lettura. L’eterogeneità dei materiali raccolti nel volume di DeriveApprodi lascia comunque apparire una sorta di baricentro, di punto di convergenza e passaggio, delle tante e diverse esperienze che vi sono documentate. Questo baricentro è dato dall’anomalo e lungo decennio che prolunga il ’68 italiano fino alla vasta e indiscriminata repressione innescata dal processo del 7 aprile 1979, che vide lo stesso Balestrini imputato e poi assolto. Il Balestrini che incontriamo qui ha l’esperienza della neoavanguardia e la stagione delle polemiche letterarie alle spalle, così come l’attività di redattore del “Verri” e delle collane di narrativa per Feltrinelli, e si appresta a divenire uno dei più infaticabili e innovativi attori dell’editoria di movimento, a partire dall’esperienza della rivista “Quindici” e subito dopo di “Potere operaio”. Ed è in questo contesto di rivolta diffusa, rivolta esistenziale ancor prima che politica, che Balestrini sembra individuare un nuovo terreno di sperimentazione dei linguaggi verbali e visivi, in cui le esperienze collettive sembrano nutrire le invenzioni individuali e viceversa. (È il caso esemplare di Vogliamo tutto del 1971, romanzo sperimentale che, meglio di qualsiasi narrazione “realistica”, documenta l’avvento dell’operaio-massa e delle nuove lotte nelle fabbriche della Fiat alla fine degli anni Sessanta.)
Buona parte degli interventi raccolti nei due primi capitoli del libro (Sguardi e Percorsi), sono dedicati alle testimonianze dirette o alla ricostruzione più analitica di questa fase dell’attività di Balestrini, che si chiude con l’esperienza della prima “alfabeta” (nata nel 1979). Nella seconda parte, troviamo una serie di testi divisi per “genere” (Visive, Audiovisive, Suoni, Scene, ecc.) che trattano dei vari ambiti del suo agire artistico e letterario, abbordati in una prospettiva più tradizionalmente critica. Abbiamo saggi e interviste di Fabbri, Cortellessa, Lorenzini, Bello Minciacchi e altri. Nella prima parte, invece, abbondano le voci provenienti dalla militanza politica (Mario Tronti, Toni Negri, Sergio Bologna, Jaroslav Novák, Giairo Daghini, Franco Berardi Bifo, ecc.).
Un po’ come era successo a Debord, con il Maggio parigino, la marginalità di matrice letteraria e avanguardistica, nata nel corso della seconda metà degli anni Cinquanta, finisce per intercettare un movimento giovanile (studentesco e operaio) di massa, che alle soglie degli anni Settanta elabora una critica politica e culturale delle istituzioni e dell’organizzazione del lavoro, in seguito a un decisivo ventennio di modernizzazione capitalistica. La ricchezza e la singolarità del libro curato da Sergio Bianchi nasce dal tentativo di dare conto di questa tangenza, rara sul piano storico, ma anche su quello delle esperienze artistiche e intellettuali. Non sarà mai sufficiente dire, nel caso di Balestrini, era il poeta giusto nel momento storico giusto. La giustezza del caso è venuta dalla straordinaria capacità di adattamento del poeta e dell’intellettuale nei confronti di un ambiente culturale inedito nella storia nazionale, che permetteva la presa di parola di una molteplicità di soggetti che mai l’avevano esercitata nello spazio pubblico (studenti, operai, immigrati, donne, omosessuali, detenuti). A quelle tante (e nuove) parole non sue, Balestrini è stato capace di dare con grande efficacia la propria voce.
Janì, l’ora della cancellatura di Ida Travi, ottavo libro dei Tolki, è il nuovo titolo dei Cervi Volanti, la collana di scritture poetiche che curo insieme a Giuditta Chiaraluce all’interno del progetto Edizioni Volatili.
«Libri come laboratori, primi confronti, materie pensanti, montaggi e scavi attraverso la carta; libri senza profitto, in tiratura limitata, consegnati interamente agli autori e alle autrici, che ne gestiscono liberamente il transito (esoeditoria); libri evidenti nella loro invisibilità, indirizzati a chi saprà ospitarne l’implicita consegna; libri col solo intento di essere vigilie per una geografia del dopo-diluvio.»
Pubblico qui alcune poesie in anteprima. Le partiture visive sono di Giuditta Chiaraluce.
Caino e Abele. Ovvero Castore e Polluce, i due dioscuri del romanzo novecentesco: Valerio Magrelli ci propone un duello letteraria tra Proust e Céline. La mente e l’odio è il titolo del suo saggio per la collana Einaudi, Stile Libero VS. La mente è Marcel Proust, l’autore di quell’opera monumentale che sono i sette volumi de Alla Ricerca del tempo perduto. L’odio è quello che ha ossessionato Céline, l’autore del Viaggio al termine della notte. L’immensa fatica letteraria di Proust, rivela Magrelli, non è descrittiva, bensì conoscitiva e corrisponde a un preciso progetto gnoseologico, unitario e totale. Il suo scopo è rappresentare il corpo, la vita e il linguaggio della mondanità parigina per decifrarne i significati storici e psichici. Al ragionamento, invece, Céline oppone il palpito. A lui non interessa la mondanità, ma il suo polo opposto, i bassifondi dove cova l’odio. Eppure, grazie a questo risentimento, l’autore del Voyage ha reso la lingua più sensibile ed emotiva.
A far incrociare i loro destini sono anche le sfortune editoriali. La Recherche viene rifiutata dall’editore Gallimard per volere di André Gide, che considerava Proust poco più di un viziato moccioso. Eppure, constatato il successo, dovette scusarsi e finalmente l’opera poté uscire con un editore all’altezza del suo valore. Anche Céline attese invano Gallimard. Questa volta la svista fu di un editor che pretendeva di tagliare in più punti il manoscritto. L’approdo alla grande casa editrice arrivò solo poi, grazie all’intervento di André Malraux, ministro della cultura di De Gaulle, intellettuale e scrittore egli stesso.
Come Magrelli precisa, lo scontro tra i due è asimmetrico. Hanno vissuto in epoche diverse. Proust non ha conosciuto Céline, dunque, non può rispondere al suo astio. Più correttamente, si tratterebbe di un’ “aggressione postuma”. In realtà, e siamo al centro nevralgico del saggio, i punti di contatto sono molti: la centralità dello stile, la malattia, la visione nichilista, la città di Parigi. Anzi, piano piano scopriamo che l’odio di Céline, in realtà, finisce per essere una magnifica ossessione. Si può sostenere che egli si sia dedicato, per tutta la sua vita, a comporre un’ininterrotta, maniacale riscrittura di Proust. Si può azzardare che l’irrisione verso il suo predecessore abbia in realtà nascosto un segreto, spettacolare omaggio.
A questo proposito, rivelatore è la pagina in cui Proust evoca la morte della nonna. Esplicitamente, Céline la considera la migliore di tutta la sua opera. Ma non si limita a quest’ apprezzamento. Infatti, la scena viene ripresa punto per punto nel suo secondo romanzo, Morte a credito. Sono altri i punti di contatto, per imitazione, oppure, al negativo, per inversione. Ad esempio, il leggendario incipit della Recherche (citato anche nel cinema da Sergio Leone) viene ripreso nel Voyage. Oppure, “dalla parte di Swann” diventa in Céline “dalla parte dei ricchi”.
D’altra parte, anche in Proust, l’odio scorre. Allontanandoci da Combray, entriamo nei salotti Parigini. Anche questa è una discesa all’inferno, un viaggio notturno nei bassofondi delle esistenze umane. Nell’universo di Céline non c’è sacro. Proust, invece, ci mette di fronte ad un processo di perversione e corruzione del sacro, fino ad avvelenare ogni fonte di vita.
Il saggio di Magrelli, alla fine, ci riserva un colpo di scena. Tutto Céline si appoggia su Proust. Cos’altro ha cercato di fare l’autore del Viaggio, lungo tutta la sua carriera, se non appunto espellere Marcel, la cui ombra planava così ostinatamente sulla propria opera? Dunque, ha ragione Roland Barthes quando scrive che oggi si potrebbe benissimo concepire un’epoca nella quale non si scriverebbero più opere nel senso tradizionale del termine, ma si riscriverebbero senza posa le opere del passato.
Insomma, Proust e Céline sono indissociabili come due facce di una stessa medaglia, come il diritto e il rovescio della stessa pagina. Come se al termine del nostro viaggio notturno ci ritrovassimo nell’alba di Combray, simbolo per tutti noi dell’innocenza perduta.
Da: Il seppellimento dei morti, in La terra desolata, T.S. Eliot (trad. di Mario Praz, Giulio Einaudi Editore, 2007):
Aprile è il più crudele dei mesi: genera
Lillà dalla morta terra, mescola
Ricordo e desiderio, stimola
Le sopite radici con la pioggia primaverile.
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[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. Ogni prima domenica del mese, Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]
Cominci a costruire una casa, ma scopri che la partita di calce che hai acquistato è viziata. Poni lo stesso la prima fila di mattoni e non sembra esserci problema; che smotta un po’, tuttavia, è chiaro già dalla seconda fila. Tu vai avanti, trovi un equilibrio e tiri su un muretto che tiene. Peccato che qualcosa scricchiola. Prendi paura, vedi la piccola parete oscillare, capisci che non puoi mettere altro peso, ti fermi. E il muro torna fermo.
Tutto ti sembra calmo, dunque riparti, un po’ ritorto (ma impercettibilmente, tant’è che te ne accorgi appena). Prosegui. E prosegui ancora. Il peso delle fila aggiuntive sembra stabilizzante.
Che è ritorta tu lo sai, è un pensiero che non ti abbandona. Ma chi passa non batte ciglio. Cos’è questo se non un muro, un muro come tanti? Vuoi che gli altri muri non abbiano anch’essi una piccola crepa, una briciola di calce fuori dalla scanalatura? Ecco, qualcuno, addirittura, ci si siede e sciabatta pietre all’aria. Tra chi sciabatta c’è una ragazza: un tipo maschiaccio, ma carina; capelli biondi a caschetto, alla Semola scudiero di re Artù.
Hai pensieri vertiginosi. Hai voglia di sapere dov’è che immagina che cadono le pietre che fa finta di scalciare.
Ti dici che il muretto non è poi così instabile, che l’insicurezza è nella tua psiche e non altrove, e dal momento che siamo arrivati a un metro e mezzo/due bisognerà pure porre le basi per un balconcino, per delle finestre, bisognerà pure iniziare a ragionare in maniera quadridimensionale (sì, le dimensioni che aggiungi con un solo guizzo dell’intelletto sono due: la terza è per la profondità, la quarta per il tempo in cui verrà gente a stare con te nella tua casa).
Dunque: di buona lena, a colpi di calce e di cazzuola.
La ragazza che sciabattava le pietre al vento adesso è sul balcone: ha un seno, ha mani da donna per accarezzare, ha baci. Ma, soprattutto, ha gli occhi spaventati e il fiato mozzo.
La gente potrebbe passare e tirare avanti. Alcuni lo fanno. Altri, prima di perdersi lungo le loro lunghe strade, uno sguardo sulla tua casa lo poggiano. Quello che pensano glielo leggi negli occhi: il muro è sempre più ritorto.
Allora tu disfi.
Ti disfi di Semola, che piangerà ma non caverà nulla da nessuna roccia, ti disfi delle quattro dimensioni, ti disfi di otto o nove file di mattoni, torni a poggiare i piedi a terra.
Chi piange di più tra te e Semola? Te lo chiederai per tutta la vita.
Riparti dalle fondamenta. La calce che ti hanno dato è sempre quella, è cattiva. Le prime tre file di mattoni, ormai, rimarranno dove stanno. Ma puoi puntellare, puoi imparare dall’esperienza del fallimento, puoi fare un muro come tutti gli altri, che non si sono mai visti muri senza crepe e senza necessità di ristrutturazioni. Così fai. Ancora calce, ancora mattoni, ancora cazzuola, ancora calce, ancora mattoni, ancora persone, ancora l’idea di creare una stanza, un balcone, ancora l’idea del tempo da condividere con qualcuno, ancora, ancora persone e ancora cemento. Ed ecco una stanza. Con una finestra e un balcone. Ecco una casa, si direbbe, si potrebbe dire, se non si avesse quasi timore di dirlo.
Stavolta racconti tutto a tutti, preferisci giocare d’anticipo e lasciarli a bocca aperta: «La calce non era buona, questa casa non dovrebbe star su». «Ma dai!», ti si risponde in genere, «Non l’avrei mai detto!». Ti piace quando ti rispondono così. Li vedi rilassarsi, assopirsi sui sofà, non dar peso alle cose che dici. E intanto uno scricchiolio. Proprio come in quel racconto: conoscete quel racconto in cui c’è una goccia che, invece di scendere per le scale, le sale? Ecco, tu senti una goccia salire per le scale, mentre tutti dormono, e non è che ci sia un senso o una morale. C’è una goccia che sale per le scale. C’è uno scricchiolio che senti solo tu. E poi la casa crolla, con la gente addormentata dentro.
Voglio essere molto onesto: penserai agli altri, ma molto dopo. Prima pensi a te stesso. Sei vivo? Sei vivo o sei morto?
Non lo sai. In certe circostanze non è affatto semplice dirlo. Sei a base organica o sei un qualsiasi agglomerato di materia?
Ecco, ecco, sì, partiamo da qui: pensi?
Buon vecchio Escargot, sì che pensi, dunque sei.
Cosa sei? Una pietra? Un gatto? Un qualcosa di mai visto prima? Non lo si può stabilire. Potresti essere un mattone che pensa grazie alla materia grigia che gli hai prestato, potresti essere la casa che è crollata, potresti esserne l’ombra.
E invece, a due a due, ti separi dai tuoi negativi e ritrovi la tua identità. Perché lo sai e basta, non per deduzione. Dunque non sei un oggetto inanimato, ma un essere vivente. Ecco che spuntano i colori, e appartieni al mondo della luce e non del buio. Sei un essere aerobio e non anaerobio, perché ansimi. Animale e non vegetale, perché hai sangue in bocca. Maschio, perché tua sorella si separa da te, scostando le sue mutandine dalla tua bocca. Stai recuperando i ricordi.
Poi si spengono.
Poi non sei più a casa tua e la catastrofe è ai tuoi piedi. Nessuno si è fatto male, tranne te.
Ma si comincia da capo. E devi trovarti altri amici.
Dunque: hai una partita di calce viziata. Le prime tre file rimangono dove sono. Devi tirare su una casa che stavolta tenga, ne va della vita. Ma non hai più fiducia nel fatto che l’esperienza accumulata e gli errori fatti possano giovarti. Ti convinci che fallirai ancora.
Ma ne va della vita. E allora, ancora calce, ancora mattoni, ancora cazzuola, ancora gente, ancora mani che ti accarezzano, occhi che ti guardano, labbra che ti baciano. Il muro è dritto, perché ogni volta che vien su un po’ ritorto tu disfi, ti disfai di mani, occhi e labbra, riempi di lacrime la casa e la strada. Ma il muro è dritto.
Magari non avrai mai più un Semola scudiero di re Artù, ma ti riprometti che avrai una casa che non crolla. Dunque, visto che di nuovo siamo al metro e mezzo/due, inizi a lavorare sulla terza dimensione. Fai un rettangolo di mattoncini, semplice come un fortino Playmobil. Per esser certo che non abbia aperture e punti deboli, e che nessuno vi entri, non fai porte. Crei un enorme cubo di mattoni. Nessuno ne vedrà gli interni, nemmeno tu, dal momento che non avrà finestre, dunque non passi l’intonaco.
Fai il soffitto, con grande sforzo.
E ora sei lì dentro, al buio.
È stupefacente quanto tempo può durare una simile permanenza, per un essere aerobio. Passano forse millenni, ma hai ancora ossigeno, e sei ancora vivo.
Pensi.
Pensi alle idee, come diceva di fare Platone.
L’avrà avuto un corpo, Platone?
Per alcuni millenni pensi alle idee, poi sei troppo distratto dal corpo.
Poi ti capita di pensare alle persone.
Ogni muro, anche il tuo muro perfetto, deve pur avere una crepa. Altrimenti, davvero, aerobio come sei, saresti già morto. Pensando alle persone trovi la crepa e, stavolta deliberatamente, vai incontro al tuo terzo crollo.
È un crollo parziale e controllato. La luce del sole ti ha schiaffeggiato, ma adesso è gentile. Di sotto, una discreta folla ti guarda alquanto interdetta, ma non propriamente spaventata.
Hai un enorme punto a tuo vantaggio, è evidente: stavolta non devi ripartire da tre sole fila di mattoni, sei già a un metro e mezzo/due.
Chi l’avrebbe detto, ti ritornano vezzi che credevi abbandonati per sempre: immaginare un balcone, i gerani da mettervi su, una ragazza. Insomma una casa per persone.
Fai un balcone. Fai un perimetro con finestre. Ricevi delle prime visite.
C’è una ragazza con i capelli raccolti a foglie d’ananas e calzettoni da uomo che viene a trovarti spesso. È l’opposto di Semola, ma è uguale.
Pensi che è proprio giunta l’ora di fare un tetto e che stavolta ce la farai. Inizi.
Le forme squadrate ti sono venute a noia e non ti hanno portato bene. Così, più che un tetto, provi a fare una cupola. E visto che ci sei, sotto lo sguardo della ragazza, decidi di usare la manualità acquisita.
Le punte d’ananas ti osservano; chissà come, ti riesce di curvare le pareti.
La volta è talmente tonda che inviti la tua compagna ad abitarvi dentro, talmente perfetta che decidi di affrescarla.
Compri dei pennelli e della polvere colorata che stemperi nell’acqua. Finalmente stendi l’intonaco.
Il verde è il primo colore che usi. Ti serve per disegnare un pendio sul lato sinistro della scena (dietro, l’indaco di un colle lontano). Sul pendio si posa un giovane; il suo corpo nudo, semidisteso nell’erba, è scolpito e grande. Ne tracci i pettorali a riposo e gli addominali contratti, l’avambraccio destro è poggiato al suolo e il braccio sinistro proteso all’aria (bicipite sicuro, gomito che poggia sul ginocchio raccolto, mano rilassata, a palmo in giù con l’indice che sopravanza appena le altre dita). Lo sguardo, che corre sul braccio, è languido; il mento deciso.
Da sfondo: un cielo chiaro da accecare.
L’indice indica l’indice di un uomo maturo.
È l’altra figura. Tutto ciò che è altro da te. O almeno ne avrebbe le pretese, e si vede. È attorniato da ben dodici tra angeli e putti (quella che è sotto il suo braccio sinistro sembra piuttosto la sua puttana, ed è quella che conserva la maggior dignità nello sguardo). La nidiata lo sostiene senza che lui faccia alcunché. Indossa una tunica lilla. Tende il braccio, questo gli basta per darti vita.
L’aria è solida. È il tuo capolavoro.
Ma tra il dito dell’uomo e del dio, guarda un po’, Cristo di Buddha, c’è una crepa.
A Ukrainian boy looks at the rubble and fallen trees in front of a blast-damaged apartment building in Kostiantynivka, Ukraine on Aug. 5, 2022. The director of Amnesty InternationalÕs Ukraine office resigned on Friday, July 5, to protest a lengthy statement by the wider organization that accuses Ukrainian soldiers of employing tactics of war that endanger civilians. (David Guttenfelder/The New York Times)
[Questo articolo è apparso sul n° 334 di marzo/aprile de “l’immaginazione” ed è dedicato al libro di Filippo La Porta e Luca Cirese, Perché non possiamo non dirci non violenti. Dialoghetto su un tema cruciale del nostro agire pubblico, Castelvecchi, Roma, 2021].
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Di Andrea Inglese
L’invasione russa dell’Ucraina ci ha di colpo ricordato che l’imperialismo travestito da guerra umanitaria non è una prerogativa degli Stati Uniti e dei governi occidentali suoi alleati. Questo fatto non ha creato grandi sorprese nella lettura della guerra che hanno dato i principali organi d’informazione europei (filoatlantisti), ma ha sollevato, soprattutto in Italia, un dilemma nella sinistra. Di questo dilemma, un libro uscito nel settembre 2021, ossia cinque mesi prima dell’invasione russa – ha costituito una profetica espressione. Mi riferisco a Non possiamo non dirci non violenti. Dialoghetto intergenerazionale su un tema cruciale del nostro agire pubblico, che raccoglie le voci di Filippo La Porta (classe 1952), critico e saggista, e quelle di Luca Cirese (classe 1988), giornalista e militante nonviolento.
Il titolo è per certi versi ingannevole soprattutto per il suo carattere assertivo e non d’interrogazione diretta, in quanto, nei fatti, lo scambio tra i due autori si svolge intorno all’esistenza o meno di clausole limitative dell’atteggiamento nonviolento in un’ottica pacifista e di condanna della guerra nelle sue varie forme. In estrema sintesi, il pacifismo è necessariamente sempre nonviolento? Posta in questi termini – che sono quelli che interessano La Porta e Cirese nel corso del loro dialogo –, si capisce bene come una tale questione sia emersa proprio all’interno della sinistra e del campo pacifista all’inizio di questa guerra. Ricorderò solo, a questo proposito, uno scambio avvenuto tra Adriano Sofri e Lea Melandri, intorno all’attitudine da prendere nei confronti della resistenza ucraina. Anche qui si è trattato di un dialogo (uno scambio epistolare pubblico) dove si poneva, in forma di dilemma morale, la questione delle clausole limitative nei riguardi di una presa di posizione radicalmente nonviolenta.
Il vero pregio del libro di La Porta e Cirese è illustrato, in realtà, nel suo sottotitolo: si parla di “dialogo”, e non di dibattito, e si parla di “tema cruciale del nostro agire pubblico”, ossia dell’impegno nei confronti della pace che non può non essere collettivo e riguardare tutti. I dialoghi veri si sono fatti assai rari, perché sul piano mediatico (sia mass-media tradizionali sia social) trionfa il dibattito, ossia il trattamento di un tema attraverso la giustapposizione di posizioni, che si presentano come merci nel mercato dell’opinione, tra cui il telespettatore e l’utilizzatore dei social debbono “liberamente” scegliere. Il dibattito, insomma, si basa sulla logica della comunicazione pubblicitaria: testimonial di diversi prodotti si affrontano per la conquista dei consumatori, posti come pubblico “esterno” alla scena. Il dialogo funziona su tutt’altre premesse ideologiche, come La Porta e Cirese ci insegnano. Innanzitutto, il dialogo – come il saggio, per altri versi – coinvolge non un portatore di opinioni, il veicolo di un’idea, ma una persona e la sua storia. Il suo terreno è quello esistenziale, non quello dell’astratta comunicazione di messaggi. Il tempo del dialogo è quello mutevole e evolutivo dell’esperienza, non quello della performance comunicativa (“chi è stato più convincente, in studio, stasera?”). Il dialogo, infine, nasce sempre da un interrogativo, ossia da un dubbio o un’indeterminatezza parziale o, in ogni caso, da un desiderio di confrontarsi con l’altro, e quindi di ascoltarlo nelle sue ragioni. Già per questo motivo, il breve “dialoghetto intergenerazionale” (una settantina di pagine) è ampiamente raccomandabile. A questa virtù, si aggiunge poi quella – anche qui saggistica – della digressione. E La Porta, in questo, eccelle, evocando Aldo De Capitini, Simone Weil, Guido Viale, John Belushi, Dante, Taika Waititi, regista di Jojo Rabbit, ma anche il Vietnam, la Resistenza, la guerra civile spagnola. Questa mobilità di sguardo, adottata con naturalezza anche da Cirese, blocca qualsiasi tentativo di argomentazione lineare, per costringerci a sottoporre senza sosta i nostri principi a controesempi o a situazioni ambigue, paradossali. Nonostante l’andamento sinuoso, il dialogo non sfocia in una sospensione del giudizio, ma ribadisce il dilemma di partenza, avendolo però arricchito di pensiero ed esempi storici, fornendogli insomma più spessore, ma anche, inevitabilmente, meno nettezza. E sono due esperienze che si confrontano, non due principi o due “opinioni politiche”: quello di una non-violenza intransigente e utopica, difesa da Cirese, e quella di un pacifismo che cerca di affermarsi, senza ignorare l’impossibilità di un’eliminazione totale dell’aggressività umana come costante socio-biologica o i contesti eccezionali che legittimano forme di violenza difensive, nel caso di La Porta. Entrambi gli autori, però, riconoscono che vi è un lavoro interminabile da fare su di sé, individualmente e collettivamente, per respingere innanzitutto ogni cultura più o meno compiacente con la violenza, affinché la guerra stessa diventi un tabù, anche quando è fatta al di fuori delle nostre frontiere e per ragioni che si pretendono “umanitarie”.
La poesia, oggi come mai, appare lo strumento simbolico dell’indipendenza dai canoni ermeneutici e ideologici eterocliti, come quelli sociali e politico-culturali, proprio come manifestato da Luzi, nel dialogo Presso il Bisenzio, e da Pasolini con l’inquietudine di non riuscire a essere allineato ad alcuna idea preconcetta. Dagli esordi con Fischi di merlo (2011) a L’amore è qualcos’altro (2013) sino a La metà del letto (2015), il processo poetico è sempre stato fondamentale per trasformare il portato di realtà che non riuscivo a giustificare razionalmente. E tale disarmonia mi allontanava via via dal rapporto con gli altri, ma di più, dalle interazioni invisibili con il mondo esterno. Per questo la poiesi si è rivelata un approccio al quotidiano con cui assorbire ciò che mi impressionava delle vite altrui, ma senza imporre a me stesso una doverosa consapevolezza, per poi restituirlo con uno stile riconosciuto, con un verso capace di disinnescare la durezza dei vissuti più dissonanti dal mio. Ho inteso da subito la mia Metà come una presa di distanza dall’io spaventato e vulnerabile per ritrovare una dialogo collettivo. Con Fortissimo (2019) e con gli inediti di Christopher (2022), invece, l’ampiezza metaforica quanto ritmica del linguaggio poetico smonta in determinati momenti epifanici, coincidenti con la negazione delle scadenze accessorie e delle ripetizioni convenzionali, la vista del reale schiacciato dal presente, dalla logica imperante dell’hic et nunc; parimenti l’elaborazione di un lutto o lo stravolgimento di una nascita ci separano da una parte di noi, come un colpo di tosse che stacca dal respiro le scorie velenose. L’eco del passato mi aiuta a essere presente, mi rammenta che i rami degli alberi davanti a casa, o dietro al posto di lavoro, restano nudi sotto il tono di una stagione.
Ho scelto di indagare alcuni passi dell’exemplum cristiano poiché già insiti nel mio panorama immaginifico, volgendomi a parte della traversata narrativa di Hesse, in particolare a Siddharta e a Il lupo della steppa. E se il Nuovo Testamento mi ha guidato al ricongiungimento con una prospettiva corale attraverso un dolore condiviso, lo stesso dolore che mette a nudo senza possibilità di impostura, ho sempre considerato inesauribile il bacino biblico in termini di archetipi. In Christopher, oltre all’isolamento sociale a cui è condannato il protagonista del poema, motivato peraltro dalla biografia travagliata del performer Christopher Channing, è centrale la questione del tempo. Ispirandomi alla passeggiata nel cimitero di Spoon River di Masters, sono convinto che grazie al medium poetico chi raccoglie le testimonianze, credendo nella dignità del racconto, riesca a interloquire con il passato sotto ogni lapide. Si compone così il mosaico di un’umanità di concezione dantesca, soggetta a una ciclicità rigenerante, ma visibile solo dopo essere usciti dal cerchio terrestre, «l’aloia che ci fa tanto feroci»; mentre ogni nome si conficca nel flusso di un tempo immemore con la propria singolarità passeggera, vibrante e imprescindibile solo se messa in relazione alle altre, ma di per sé insignificante. La ratio del mito, inoltre, emerge dal puro meccanicismo storico e da ogni tentativo, letterario o meta-letterario, che voglia inglobare la spiritualità nella realtà, per tracimare nella rivalutazione di un’energia vitalistica pure, aderente alle dinamiche del tempo in cui sorge, ma non coartata dalle medesime. E penso ad Alessandro Ceni, «se sulla soglia / al rovinìo tra i rami delle merle / hai visto il figlio discendere sul padre / e aprirsi alle parole / per dirgli la parola che non salva (…)». Semplificando Heidegger con disonore, imbastisco un discorso sulla trasformazione del reale, delle memorie e dei fatti contingenti da parte del linguaggio poetico che con meno parole di altri linguaggi riesce a significare la quotidianità con continui rimandi a ogni altra epoca umana.
Davide Conti – Modern Paint
Da Christopher
In ginocchio strofinavi lo smalto
di un piatto messicano fin de siècle.
In ginocchio sul pavimento del bagno
di un modesto atelier.
Spalmavi la cera abrasiva
sui decori dorati a mani nude,
piano, con le dita, e ti accanivi
dove l’ottone cedeva la luce
alla ruggine del tempo.
Insistevi con gli stracci e con le pezze
per lucidarlo, per levare
dai bordi il nero presagio
lasciato dagli anni.
Mi davi le spalle indaffarato
e benché il tuo buio
credessi di avermelo mostrato,
benché ne fossi persino convinto,
io non l’avevo mai notato;
di te mi era concesso soltanto
qualche fregio fugace
di un passato prezioso.
E ne rimandavo l’usura.
*
Era un moto istintivo.
Se volevi proteggere qualcuno
lo abbracciavi e, portandolo a te,
scoprivi la tua schiena.
Quando la luce era una minaccia,
ecco che compariva l’ombra.
Magari era per questo
che in te scorgevi più buio,
molto di più di quello che c’era.
A Jacques Lecoq
*
Ti scoraggiava il valzer
degli strumenti da cappello
vicino a Saint Luis:
«fare l’amore è circolare
e finale in tre quarti,
un, due, tre…
come un valzer straniero.
L’atto di amare si chiude a cerchio,
un, due, tre…
il quarto, lo spicchio voluto,
lo farebbe un quadrato,
spigoloso l’incastro dei rapporti».
Per te non c’era mai la luna piena.
*
Eravamo costretti, a volte,
a tralasciare certi particolari,
a fingere che la passeggiata fosse peggio
di quello che era, se messa a fuoco.
Non saremmo più riusciti, altrimenti,
a distogliere lo sguardo
dal brulichio infernale
del boulevard périphérique.
*
Sui marciapiedi sono tutti diversi,
ciascuno si appoggia alla terra a suo modo:
«c’è chi è tirato da un filo sottile
e chi cammina sospinto dal vento,
chi si pianta a ogni passo
e chi non si azzarda, in punta di piedi».
Noi finivamo a braccetto,
sincronizzati.
*
Entravi spesso al Sacro Cuore
per trovare pace
da un’estate ad ore,
nella cornice del tuo personaggio.
«In fondo all’androne il mosaico
del Cristo, una macchia
fervida di colore e,
a mano a mano che mi accingevo a Lui,
assumeva i tratti del dolore. Sfinito.
Mi sdraiavo sotto la sua croce».
MATTEO BIANCHI, trentacinque anni, si è specializzato in Filologia moderna a Ca’ Foscari sul lascito lirico di Corrado Govoni, sulla cui poetica ha curato l’Annuario govoniano di critica e luoghi letterari (La Vita Felice, 2020). Ha pubblicato le raccolte Fischi di merlo (Edizioni del Leone, 2011), L’amore è qualcos’altro (Empirìa 2013), La metà del letto (Barbera, 2015), Fortissimo (Minerva, 2019), e le plaquette Un’ombra in due (L’Arca Felice, 2014). È stato presentato su “Gradiva” sia da Giancarlo Pontiggia sia da Francesco Scarabicchi. Suoi versi sono apparsi in varie antologie, tra cui il Quadernario (a cura di M. Cucchi, LietoColle 2016), nel numero antologico di “Función Lenguaje” (n. 8, 2019) dedicato alla poesia italiana contemporanea, a cura di P. Ruffilli con le traduzioni di Josè Luis Reina Palazon, su “Poesia” di Crocetti, “l’immaginazione”, “Capoverso”, e le italosvizzere “Cenobio” e “Bloc notes”.
Dirige “Laboratori critici. Semestrale di poesia e percorsi letterari” per Samuele Editore, è redattore di Pordenoneleggepoesia.it e, come giornalista, collabora con le testate del Gruppo Sae, con “Il Sole 24 ore”, “Left” e Globalist.it.
a nove anni scoprii abbagliata una città inghiottita
al ritorno stesi le mie ali ad asciugare sulle dune
contavo le pietre prima di raccoglierle
avevo due volti vivevo in due mondi
*
a undici anni non parlavo già più a nessuno
eppure una lingua mi nasceva in bocca
cercavo nel silenzio i segreti della poesia
tentavo di definirmi nell’ordine delle chiarità
sotto il suo velo bianco dietro le sue palpebre imbellettate
la mia città custodiva i suoi misteri
non si consolava della sua bellezza perduta
la porta del mare non si apriva più verso il largo
trascurando le nostre più belle leggende
vivevamo i nostri giorni e le nostre notti seduti
attorno al marmo di una fontana prosciugata
*
a sedici anni avevo il sorriso grave
di chi ha sogni d’evasione
avevo due volti vivevo in due mondi
meravigliosamente immobili
sfingi cieche popolavano i miei giardini di sabbia
uccelli di fuoco attraversavano il mio cielo
crepe di silenzio nel lento lavorio del giorno
con la morte per orizzonte il mare ci tratteneva
le sue cosce di medusa ondeggianti sotto le nostre dita
*
vivevamo i nostri giorni e le nostre notti seduti
attorno al marmo di una fontana prosciugata
la porta del mare non si apriva più verso il largo
sfingi cieche popolavano i miei giardini di sabbia
vi facemmo piantare una palma che presto accarezzò le nuvole
restavo ai suoi piedi gli occhi al cielo
mia nonna apparve
è un segno disse ci lascerai
fece le raccomandazioni di rito
versò l’acqua verde sotto i miei passi
affinché un giorno tu ritorni disse
ero già sull’altra riva
*
a quarant’anni ancora abitata dalle mie ombre
tra passato e futuro
sono della mia infanzia e quindi di nessun altro luogo
ricordo una notte giovane
vissuta al ritmo del mare
c’era fra il mondo e me
così tanto spazio e così poco
l’incanto la connivenza
era prima della lenta agonia del pianeta
prima che la maschera si incrinasse
avevo due volti vivevo in due mondi
sognavo le increspature del deserto
di fronte all’abbraccio azzurro dell’orizzonte
*
sono della mia infanzia e quindi di nessun altro luogo
quale verità scoprire dunque
se non quella del sole di ogni giorno
quella di una pioggia di sabbia nella mia mano alata
la grande voce del mondo
nella trama unica
della lingua paziente che mi fu data
*
io che non faccio che tornare che non faccio che partire
ad ogni soglia varcata
avanzo verso la mia morte verso il primo giorno
così scava la nostra solitudine
come si esplora il fondo di un pozzo senza acqua
cercando l’ombra nient’altro che l’ombra
e di fronte a sé
quel luogo in cui giace un riflesso della luce
*
lodate siano le due sillabe libere del sole
l’arcipelago del silenzio in cui trovo le parole
il viaggio di soglia in soglia che è il vero viaggio
lodato sia colui che si perde
colui la cui parola è nello scarto
lodato sia il mondo perché tutto esiste
altrove che nella poesia e in lui
*
sempre tra passato e futuro
ho voluto trovare quella che doveva essere
cerco ormai quella che fu
sono della mia infanzia e quindi di nessun altro luogo
mezzanotte di luce alfabeto del niente
mare bianco mare del sole al tramonto
grande mare interno all’ovest dei nostri sogni
⊗
Seuil 1 – Naissances
je suis née sur les bords
de la mer du soleil couchant
la grande mer la très verte
la mer des Philistins
celle qui baigna Carthage
la mer blanche intérieure des Arabes
dont les chevaux déferlèrent sur les rives
*
algue j’ai grandi vague poisson
étoile aux multiples branches
la première lettre de l’alphabet
incrustée sur le front
*
à sept ans je nageais sur les eaux noires
dans le chemin de lumière que traçait la lune
j’allais jusqu’à l’impasse du soleil
jusqu’au pays des limites
je prenais des leçons de mirage
scribe intemporel
appliqué à calligraphier les siècles
à l’encre bleue de la mer
*
à neuf ans je découvris éblouie une ville engloutie
au retour je mis mes ailes à sécher sur les dunes
je comptais les pierres avant de les ramasser
j’avais deux visages je vivais dans deux mondes
*
à onze ans je ne parlais déjà plus à personne
pourtant une langue naissait dans ma bouche
je cherchais dans le silence les secrets du poème
essayais de me définir dans l’ordre des clartés
sous son voile blanc derrière ses paupières fardées
ma ville gardait ses mystères
ne se consolait pas de sa beauté perdue
la porte de la mer n’ouvrait plus sur le large
négligeant nos plus belles légendes
nous vivions nos jours et nos nuits assis
autour du marbre d’une fontaine tarie
*
à seize ans j’avais le sourire grave
de qui rêve d’évasion
j’avais deux visages je vivais dans deux mondes
merveilleusement immobiles
des sphinx aveugles peuplaient mes jardins de sable
des oiseaux de feu traversaient mon ciel
fissures de silence dans le lent travail du jour
avec la mort pour horizon la mer nous retenait
ses cuisses de méduse ondulant sous nos doigts
*
nous vivions nos jours et nos nuits assis
autour du marbre d’une fontaine tarie
la porte de la mer n’ouvrait plus sur le large
des sphinx aveugles peuplaient mes jardins de sable
on y fit planter un palmier qui bientôt caressa les nuages
je restais à ses pieds les yeux au ciel
ma grand-mère apparut
c’est un signe dit-elle tu vas nous quitter
fit les recommandations d’usage
versa l’eau verte sous mon pas
pour que tu reviennes un jour dit-elle
déjà j’étais sur l’autre rive
*
à quarante ans toujours habitée par mes ombres
entre passé et avenir
je suis de mon enfance et donc de nul ailleurs
je me souviens d’une nuit jeune
vécue au rythme de la mer
il y avait entre le monde et moi
tant d’espace et si peu
l’enchantement la connivence
c’était avant la lente agonie de la planète
avant la fissure du masque
j’avais deux visages je vivais dans deux mondes
je rêvais des rides du désert
face à l’étreinte bleue de l’horizon
*
je suis de mon enfance et donc de nul ailleurs
quelle vérité découvrir alors
que celle du soleil de chaque jour
celle d’une pluie de sable dans ma main ailée
la grande voix du monde
dans la trame unique
de la langue patiente qui me fut donnée
*
moi qui ne fais que revenir qui ne fais que partir
chaque seuil franchi
j’avance vers ma mort vers le premier jour
ainsi se creuse notre solitude
comme on explore au fond d’un puits sans eau
pour l’ombre rien que pour l’ombre
et face à soi-même
ce lieu où gît un reflet de la lumière
*
loués soient les deux syllabes libres du soleil
l’archipel du silence où je trouve les mots
le voyage de seuil en seuil qui est le vrai voyage
loué soit celui qui s’égare
celui dont la parole est dans l’écart
loué soit le monde parce que tout existe
ailleurs que dans le poème et en lui
*
toujours entre passé et avenir
j’ai voulu trouver celle qui devait être
je cherche désormais celle qui fut
je suis de mon enfance et donc de nul ailleurs
minuit de lumière alphabet du rien
mer blanche mer du soleil couchant
grande mer intérieur à l’ouest de nos rêves
*
Le poesie sono tratte dal volume, La douleur des seuils, Éditions de la Différence, Paris, 2002. Amina Saïd è nata nel 1953 a Tunisi da padre tunisino e madre francese e vive a Parigi dal 1979. È poetessa, scrittrice e traduttrice. Una parte della sua copiosa produzione poetica, che conta oltre una quindicina di raccolte, è stata tradotta in diverse lingue, principalmente in inglese e spagnolo.
Immagine dello street artist Hosni Hertelli, alias Shoof, nato a Tunisi e residente in Francia.
Marta vive. Ma non nel senso che è morta e che dobbiamo sorbirci uno di quegli slogan conditi da celtica sui muri della città, è viva e mi ricordo il sapore che c’era dentro la sua bocca, tra labbra e gengive, era rugiada e morfina insieme. Avrei potuto infilare una cannuccia in quello spazio e succhiare la saliva mentre lei la produceva, succhiare all’infinito.
Non sono d’accordo, rispondo a me stesso. L’infinito non è contemplabile per definizione, e la conclusione si manifesta sempre quando la saliva finisce, le bocche si fanno secche e non possono più articolare parole, questa è la morte e non c’è desiderio che tenga.
Lei è morta, dunque, morta sul serio. E sappiamo tutti chi è stato il mandante. Sei stato tu quando hai deciso di accartocciarla come un opuscolo informativo su sé stessa che lei ti aveva consegnato, e tu sei riuscito a dimenticarti della provenienza, della delicatezza della carta, e hai solo considerato svagatamente che degli opuscoli si è soliti liberarsi il prima possibile. O forse è perché non credi nelle lettere che formano le parole, e non hai mai avuto la pazienza per leggere un libro di mille pagine come fa la gente che muore insieme.
Non è così, mi rispondo ancora. Lei è morta, e su questo non ci piove, ma il mandante è un altro. È morta per fare spazio. Perché dal suo cadavere in decomposizione sbocciassero fiori, cosicché la natura fosse finalmente contenta.
Fuori è estate, mentre un turbinio imperterrito di foglie gialle, rosse e marroni mi definisce da dentro. Il mio colorito rimane però imperturbabile, non tradisce alcun indizio all’esterno.
È solo la storia di Marta che ho da raccontare a poter dare un’idea dei miei sommovimenti interni, ma mi sembra ormai da tempo che qualcuno abbia iniettato del botulino nella mia lingua, e quando succede questo le lingue non possono più articolare parole. E a ben vedere non si tratta solo degli organi della fonazione, sono i miei occhi che non saranno mai i tuoi, e il tuo cuore che non sarà mai il mio, e di conseguenza le parole non basteranno, diceva qualcuno.
Allora perché quando parlavo con lei le nostre, di parole, si intrecciavano semplici come paglia di un cesto, e brillavano anche se destinate a morire o forse già morte come le costellazioni, chiedo a me stesso. Ho sempre pensato alla comunicazione non verbale come a un atto insuperabile, che coinvolge epidermidi e mucose con esattezza chirurgica. Ed è vero, mi sembrava di sentire la sua aorta pulsare nel mio torace, la pelle dell’incavo dietro le sue ginocchia torturarmi il cervello, e la sua lingua tutt’altro che paralizzata sapeva lambire la mia e incidervi simboli disarmanti. Ma c’era pure, miracolosamente, dell’altro. Non hanno forse le parole, bellissime e vuote di impossibilità, a che fare coi miracoli?
Così avrei e non avrei cose da raccontare su di lei, e vago per i quartieri di periferia della città, chiedendo asilo a panchine e a spazi verdi come fossero scialuppe su un oceano di cemento.
Al funerale di Marta c’erano tante persone ma nessuna ha voluto parlare con me. Nei giorni seguenti ho ricevuto solo un sms sul cellulare, da un numero sconosciuto, ma era scritto con dei caratteri incomprensibili. Continuavo a rileggerli e mi pareva sempre di intuire che quei simboli avessero comunque un significato. A volte mi sembrava di essere sul punto di afferrarlo, e ripensavo a lei quando cercava di insegnarmi a leggere anche ciò che non si può leggere, come una foglia. Ma senza la sua voce viva a ricordarmi cosa fare, i caratteri di quel messaggio rimanevano alla fine solo un mistero piantato su uno schermo come chiodi in una bara senza nome.
Marta, giovane e determinata, aveva lasciato l’università per fare l’arrotina, l’arrotina e l’ombrellaia, e riparare le cucine a gas. Quando ci eravamo incontrati aveva affilato i miei sensi, mi aveva riparato sotto l’ombrello della sua amabile risolutezza, e poi mi passava anche endorfine. Formato granulare, come l’oki per il mal di gola, in pratiche bustine da portare in tasca sempre con sé. Sapeva bene che l’anedonia non se ne va mai da sola. Da quando è morta, a questa città io chiedo asilo e una risposta, a volte mi muovo seguendo la distribuzione dei tombini, e spesso cerco la vicinanza al suolo per ricordarmi il punto di vista della terra sulle cose.
Le lettere non andrebbero mai aperte, bisognerebbe rispettare il riserbo e il vincolo dell’inchiostro che non avrebbe mai voluto denudarsi sotto forma di parole intellegibili, mi dico quando penso.
Le lettere dell’alfabeto sono le ossa di un messaggio; i muscoli e i tendini e i legamenti ce li metteremo noi, soffiandoci reciprocamente parole soffici dentro la bocca, mi dico quando penso a Marta.
Un giorno, su una panchina, mi arriva finalmente la sua risposta a un mio improvvido messaggio. La combinazione delle sillabe che ha selezionato è perfetta, tagliente come la lama di Dio. Dio non ha forse a che fare coi miracoli? Ho percepito un taglio miracolosamente penetrante quando lei è morta, e un altro ancora quando ora mi scrive affilata e definitiva.
Prima di essere lama e prima di essere morta Marta però era mia, e prima ancora di essere mia era un sogno rimasto in sospeso, enorme ma tascabile, da portare sempre con sé, come un accendino che non si scarica mai perché mai utilizzato.
Perché almeno questo credo di averlo letto su un libro, e per una volta mi pareva che la verità fosse impressa nella cellulosa come la vita nelle nervature di una foglia, le cose si consumano come candele, e l’unico segreto per preservarle è non accenderle, al prezzo di non sentire il profumo come quello di Marta. Ma allora perché alcuni a questo mondo risolvono l’enigma della persistenza, trovano la formula chimica che arresta la scissione e cristallizza il sorriso, e custodiscono tutto questo come un segreto, chiedo a me stesso.
Quando viene meno anche il sostegno delle panchine vorrei sedermi sui marciapiedi, per essere ancora un po’ più vicino al centro della terra e delle cose. Poi penso che di questo passo mi consumerò i pantaloni e che forse sarebbe stato meglio non consumare mai niente, soprattutto lei, ma d’altra parte un desiderio appagato e uno che non lo è sono due facce della stessa tragedia, diceva qualcuno. Non c’è scampo. La tragedia in questione si incarna in una moneta che, proprio da un marciapiede, lancio in aria per decidere non ricordo più cosa e poi ricordo che non importa da quale lato atterri, perché tanto cadrà dentro a un tombino, e in quei liquami essere testa o croce è la medesima cosa.
Mi muovo. Periferia fuori e periferia dentro, casermoni scrostati che altro non sono se non ricordi conservati male e ammuffiti.
Marta ora probabilmente fluttua per la strada, e si è ricamata una nuova veste fatta apposta per emanciparsi dai miei sporchi sobborghi. Per dimenticare il brutto insieme a tutto il bello, perché erano due facce della stessa interazione e finiscono nello stesso secchio della raccolta differenziata. Così ora forse è ignara delle insurrezioni di fantasmi, del ghigno delle macchine che tramano nel buio, del suono dello tsunami prima dello schianto. Ignara come se fosse morta e fredda, come se fosse ancora in una stanza buia dalle librerie vuote e pericolanti, sola insieme a me.
Quando la sogno indossa contemporaneamente la sua gonna grigia a pieghe, i pantaloni della tuta che usava in casa, una camicetta bianca, una maglietta che non ricordo più cosa ritraesse ma aveva un che di commovente tenerezza, la collana di perle, nessuna collana di perle, il trucco che le avevo suggerito con molto garbo di usare con parsimonia, il suo colorito naturale fatto di capillari e gioia nell’incontrarmi.
La sogno, mi guarda. E dice sempre la stessa cosa.
Ciao.
Sono il tuo personale incidente automobilistico, interno e al rallentatore, il frastuono delle lamiere risucchiato dalle pareti insonorizzate del cuore.
Cosa ne farai?
La natura ha voluto che lei fosse morta perché ha un suo preciso piano che prevede il ricambio e la trasmutazione, e io non sono stato altro che un mezzo, un burattino mosso dai suoi capricci.
Siccome la natura comanda e noi obbediamo, al posto di Marta sorgerà quindi un campo fiorito, di fiori bianchi, il cui profumo sarà lo stesso che Marta usava. Sarà anche l’odore naturale della sua pelle e quello di tutte le cose che lei sapeva dire e delle matasse di pensieri che mi chiedeva a volte di dipanare, e io non sempre ce la facevo, e tutti questi odori potranno così incastonarsi nel cuore di qualcuno e offrire sollievo anche solo per un momento ma non a me, non per me, perché io a quel campo fiorito non avrò accesso, ci sarà un cartello con la mia faccia e su scritto “io non posso entrare”. Oppure potrò entrare, ma i miei recettori dell’olfatto saranno inerti per il sortilegio maligno che ho attirato su me stesso, e tutto quello che potrò fare sarà solo leggere un cartello piantato in mezzo ai fiori con su scritto “questa è Marta”.
Quando a novembre esco dal laboratorio con il periodico referto della mia vita vorrei piangere, sedermi su un marciapiede come un mendicante ma senza elemosinare, o almeno non palesemente. Solo piangere, piangere così per piangere e stare a vedere se per caso qualcosa succede, ma questo qualcosa devo sempre dannatamente farlo accadere io, ed ecco che allora la vedo all’improvviso sbucare da un angolo della strada, venirmi incontro e sollevarmi lo sguardo, sfiorandomi il mento con le dita. Le cose che lei sapeva dire offrirebbero un’iniezione di botulino alle mie ghiandole lacrimali e anestesia alla mia posa dolente da mendicante. Anestesia, perché di questo si tratta, non è una cura.
Ma allora perché quando Marta indossava il suo camice e praticava l’anestesia persino il crepuscolo della sua stanza sembrava splendente e sincero come costellazioni, chiedo a me stesso.
Lei è morta, e questo è palese. Però vive, solo che vive lontano da queste strade, dove i desideri rotolano nei tombini e laggiù si decompongono e dalle grate allora esce un fumo che però non ha l’odore di Marta.
Sul soffitto della mia stanza vedo al rallentatore lei e me mentre scherziamo a bassa voce in una chiesa, ci prendiamo un po’ gioco di quel Dio e dei suoi miracoli. Invece che un gesto di pace ci scambiamo endorfine attraverso le nostre dita intrecciate morbidamente come il braccialetto che lei portava legato alla caviglia. Eppure, dal soffitto a volta della chiesa, posso anche scorgere i miei occhi che continuano a cadere sulle candele liturgiche, che dovrebbero simboleggiare l’intreccio tra uomo e Dio, mi dico, ma ora mi sembra piuttosto che consumandosi scandissero e mi comunicassero il tempo prima della fine, meglio dell’orologio più spietato al mondo. E mi chiedo se per caso gli occhi di Marta, rischiarati dal riverbero delle fiammelle, fossero già capaci di scrutare dentro di me al punto da scorgere i germi di quella fine.
La morte vuole concime anche me, lo so bene, ma a me sembra di non avere ancora finito qui; vorrei seguire le tracce di Marta, entrare nei negozi dove entrava lei, mangiare quello che mangiava lei, essere schizzinoso su tutta una serie di piccole o grandi cose, dormire nel suo letto e nella sua stessa posizione liquida con gli arti gettati sul letto come schizzi su tela.
Vorrei diventare Marta, ed essere lei anche solo per una volta, e non soltanto aver avuto il limitato privilegio di ascoltarla parlare. Anche se Le parole sono bellissime, mi ripeteva. Non ci avevo mai creduto ma quando lo diceva lei e quando le sue sillabe rifinite e articolate giocavano a incastrarsi come in un tetris con le mie mi sembrava che fosse tutto dannatamente vero, che la verità fosse impressa su quelle sillabe come una scritta nel marmo. Ed è quando lei ha smesso di parlare che il gioco è finito.
Molta gente passa a salutarla al campo. In quei casi io devo tenermi lontano. La cosa strana è che, anche a debita distanza, mi sembra di sentirla rispondere a quelle persone, e forse sembra così anche a loro, perché parlano con fare sempre più concitato. Non so se è una banale allucinazione collettiva dettata dalla ritualità del rapporto che abbiamo con i morti oppure se Marta è davvero viva, e le sue parole sono le migliori che si potrebbero mai immaginare, sono petali e polline che si spargono nell’aria e offrono i suoi segreti e i suoi più recenti sospiri al cuore di qualcuno che non sono io.
Ho seguito il fumo dei tombini, l’unico odore che avevo a disposizione, fino a febbraio, quando l’ho intercettata attraverso la vetrina di un negozio di vestiti che lei era solita frequentare. Eppure ricordavo di averla vista poco tempo prima, attraverso una patina di fluido disilluso che mi velava gli occhi, scolpita nel marmo. O meglio, era il suo nome scolpito nel marmo, ma il suo nome È Marta. Cioè, voglio dire, lei è le lettere del suo nome. Le lettere non funzionano, provo a ricordare a me stesso. Sono solo l’anticamera delle parole, e questo dice tutto.
Allora perché le lettere del suo nome su una lapide pesano come un baule gonfio di lettere scritte da Marta, dove annotava tutte le cose che lei sapeva dire ma per qualche ragione non mi ha mai detto e che mai saprò, ora quel baule lo hanno seppellito nel campo fiorito che è lei, chiedo a me stesso.
Marta affonda nella memoria. Lì è viva ed è chiusa in una stanza piena di librerie vuote pronte a crollare al suolo. Non posso fare altro che gridare, gridarle Marta, stai attenta! Stai per morire! Lei mi sorride e prende le mie mani nelle sue. Solo allora mi rendo conto che le mie, di mani, sono sporche di sangue, e che lo stesso sangue macchia il suo vestito all’altezza dell’addome. Allora mi dice, con quel sorriso che è carta di caramelle e carta vetrata assieme, Non ti preoccupare, sarò fiori, e la gente verrà ad annaffiarmi e tu non dovrai curartene più, non dovrai più curarti di me. Avrei voluto dirle che in realtà io desideravo prendermi cura di lei fino alla fine, desideravo solo quello e con tutto il cuore, solo che la fine era venuta a bussare prima del previsto alla mia porta, e quando avevo visto il suo volto orribile scavato nella carne dell’assenza non avevo saputo fare altro che cedere terrorizzato. Così è andata che Marta l’ho dovuta uccidere io, per volere della fine, come anche per volere della natura. Questo avevo e questo ho, ripeto a me stesso. A parte una panchina e il mangime da dare agli uccelli, ma non sono né abbastanza piccolo né abbastanza vecchio per farlo.
Marta sdraiata nel campo guarda gli uccelli volare e riempire i vuoti dei cieli, contornare le nuvole e disegnare tratti da bambini, e le si riempiono gli occhi di grazia. Finché sarà capace di leggere le lettere incise in quelle traiettorie, non sarà morta. Avrà parole da regalare a chi sarà capace di dare loro un peso che le tenga a terra concrete, e una leggerezza che le lasci poi librarsi nell’aria, con il profumo di lei che si mescola a tanti altri appesi all’orizzonte.
Quel giorno di inizio febbraio, quando l’ho vista nel negozio, ben presto i suoi amici se la sono portata via, probabilmente avendo intuito che ci fossi io nelle vicinanze. Non credo avessero avuto bisogno di vedermi in faccia, dovevano piuttosto aver colto delle piccole vibrazioni nelle sue palpebre, come un tic nervoso o forse i prodromi di un disturbo post traumatico da stress candidamente legato al fatto che io l’avevo uccisa.
Allora ho dovuto lasciar perdere e sono andato al campo fiorito per salutare Marta. Stavolta non c’era nessuno, e vista la stagione nemmeno il muro mistico eretto dal suono delle cicale. Solo silenzio, come una singola lettera resa afona e disinnescata dal gelo dell’inverno ancora regnante. Così mi sono potuto avvicinare e no, non ho sentito alcun profumo, e quando poi ho alzato lo sguardo al cielo non c’erano nemmeno uccelli. Anche loro dovevano essere in giro a cercare Marta perché essere guardati da lei, da quei suoi occhi, dava tutt’altro senso alle loro traiettorie, dico a me stesso.
Quello che ho, oggi, è che lei è morta in un incidente quattro anni fa, ed era estate, anche se le foglie autunnali già vorticavano dentro di noi, ma ne facevamo un gioco e le leggevamo con le dita sfiorandone le nervature come fossero braille. Un normale, così avrebbe dovuto essere, normale tratteggio lungo una carta autostradale. Poi la negligenza, quella stria nera delle cose che scivolano via, quella che distingue l’omicidio volontario dall’omicidio colposo, ma a me sembra che sia lo stesso, perché il peso specifico non cambia. Poi solo il frastuono delle lamiere, risucchiato dalle pareti insonorizzate del cuore. Cosa ne faremo? Non so, Marta, sono passati quattro anni e ci sto ancora pensando, sai. Se però la smettessi di comparire dietro le vetrine e andare in giro con i tuoi amici per me sarebbe tutto più facile. Nel campo che tu sei io vorrei addormentarmi ma anche talvolta non tornare più, e risparmiare a me stesso almeno una delle tante sfumature del tuo volto che pure vado ancora cercando, così intanto proverò a scrivere una lettera come mi hai insegnato e proverò a spedirla mettendo i fiori come destinatario.
Clack, era il rumore che facevano le ossa della sua figura esile con le mie quando la stringevo a casa sua come negli spazi verdi oasi tra il cemento.
Le ossa non sono solo ossa, mi dicevo allora, sono il codice di un messaggio. È vero, non funzionano senza i muscoli, i tendini e i legamenti, ma niente funziona se non funziona qualcos’altro.
Marta, non conosco con precisione l’alfabeto di cosa ho fatto, ma forse importa più quello di ciò che non ho saputo fare. Sono i libri non letti quelli che finiscono per assorbire inchiostro e restituire sangue e così i tuoi vestiti, una volta ricoperti solo di lettere, saranno per sempre macchiati. Io però lo so che respiri altrove e in un altro tempo, che hai fatto del marmo un ciondolo e che stai studiando di nuovo il volo degli uccelli, stavolta non solo per innaffiare il tuo cuore come vorrei poter fare io con i fiori del tuo campo, ma anche per trarne splendide previsioni per il tuo futuro. Ora che ho capito che hai un futuro scritto in quelle chiazze scure e volatili nel cielo, Marta, ho capito anche tutto il resto. E cioè che quella libreria vuota che si è schiantata per terra non era in camera tua, era la mia, e ha ceduto alla gravità proprio perché inutile e impotente; i libri che non ho mai avuto la struttura per leggere ora sono tuoi, te li sei presi e mai avrei potuto avere qualcosa da ridire. E i tuoi vestiti macchiati di sangue sono in realtà i miei, perché i colpi che ti ho inflitto hanno trapassato il tuo candore e si sono ritorti contro di me; mentre per quanto riguarda i fiori bianchi nel campo, la verità è che li ho piantati io, così come il cartello “questa è Marta”. Su quella lapide di marmo, ora lo leggo chiaro come mai mi è successo in vita, c’è invece scritto il mio nome. E adesso che vedo le sue lettere scavate così nitide nella pietra capisco davvero, anzi mi ricordo davvero, qual è il potere delle parole: era nella pienezza che solo il tuo, di nome, poteva addizionare ad esse, mentre ora giace nella sottrazione tra quelle che tu mi dicevi e quelle che ormai non puoi dirmi più.
Sfoglio un numero della settimana enigmistica del 2052: 17 verticale, la donna che ferra i cavalli, 8 lettere. Come contraltare dell’uomo che ai cavalli sussurrava, immagino. E mi viene subito Ferrante. Ma mentre lo scrivo, con una lentezza esasperante, quasi non sapessi più scrivere, mi sveglio.
Elena, giusto, quella che Domenico Starnone (ma guarda la combinazione) «Fino all’alba mi rigirai nella testa l’ipotesi che quella che mi giaceva a lato fosse un’immagine…. un’idea …. un idolo» (D. Starnone, Segni d’oro, Feltrinelli, Milano 1990, p. 66).
E poi riprendo dal comodino il libro che stavo leggendo prima di addormentarmi: La trama di Elena. L’ha scritto Francesca Sensini, per Ponte alle Grazie, ed è in libreria da marzo di quest’anno. Rileggo il sottotitolo: Da Sparta a Troia e ritorno: memorie della donna più bella del mondo. Finalmente un nostos anche per una donna del mito: la donna, scrissi una volta, che non visse solo due volte. E quindi anche per Gina Lollobrigida, che fu sullo schermo, fra tante donne, anche Lina Cavalieri, La donna più bella del mondo (1955).
Per questo, eternamente Elena, perché eterno è il mito ed eterna la sua riscrittura, la possibilità di raccontarlo di nuovo e magari in forme inedite. Esagero? Sì, certo, a buon diritto. Il mito è nato perché lo si ‘esageri’, lo si accresca in ogni nuovo racconto. Il mito non accetta la prudente sostenibilità. Il racconto del mito è, per natura esemplare, paradigmatico. Non lo si racconta solo per addormentare bimbi e bimbe. Quello è un effetto collaterale. Lo raccontano i più vecchi ai più giovani, dice Protagora, anzi, per essere più precisi, dice Platone nel Protagora, senza bisogno di asterischi, perché si sa che erano soprattutto le vecchie che raccontavano ai bambini. E lo raccontano per fornire un modello di comportamento da seguire o respingere. E il mito, come si sa, rende evidente, mostra, illustra: delòi, per dirla in greco.
Lunedì 7 ottobre 1957, all’interno della Tv dei Ragazzi, andava in onda: Penna di Falco, capo Cheyenne (Brave Eagle), serie USA del ’55. Con Keith Larsen (Penna di Falco), Anthony Numkena (Keena, un piccolo Hopi adottato da Penna di Falco), Kim Winona (Morning Star – Melograno, la compagna del protagonista), Bert Wheeler (Smokey Joe), Pat Hogan (Black Cloud). Gli Hopi sono quelli che hanno ispirato la trilogia di Godfrey Reggio, il cui primo, imperdibile titolo, è Koyaanisqatsi (1982). Ogni puntata di Penna di Falco terminava, come in una favola di Esopo, con una formula magica: «e così Keena imparò». Perché il mito è esperienza presentata in forma di parole, quando non c’erano ancora i video o le fotografie, parole capaci di mettere sotto gli occhi, far vedere una sequenza di vita. E da ogni esperienza altrui c’è da imparare, nel bene e nel male.
Ben vengano, dunque, le riscritture di quello straordinario patrimonio di miti delle culture antiche, a qualsiasi latitudine e longitudine appartengano, che hanno resistito al tempo e si spera resistano anche alle cancellazioni culturali.
L’Elena di Francesca Sensini racconta in prima persona, e già questa è una scelta feconda. Perché si può, nel riscrivere, prestare la voce a un autore o a un personaggio. Ora, senza generalizzare e con il dovuto rispetto per tutti i generosi tentativi di riscritture che si sono succeduti nei secoli, fin dall’antichità, per riscrivere come autore un po’ di megalomania bisogna averla nel fondo dell’animo: come se uno, per dire, riscrivesse l’Iliade come novello Omero. Un personaggio, invece, ha una sua storia parziale, segnata, che forse scalpita per trovare una nuova voce, un nuovo punto di vista.
Ma anche se riscrivi come personaggio, maschile o femminile che sia, puoi scegliere una forma, come dire, ossequiosa del modello oppure avventurarti sui pericolosi e affascinanti sentieri della diacultura (spiegherò fra poco cosa intendo con questo neologismo). Riscritture in prima persona, ossequiose del modello, fanno spesso rimpiangere l’originale, perché si limitano a offrire alla propria immaginazione (e anche alla propria cultura) una veste linguistica e una scelta lessicale che ricordano quelle recitazioni auliche della tragedia greca che l’indimenticabile Anna Marchesini, nei panni di Rossana l’attrice, smontò con geniale ironia.
Sarò cattivo, ma molte riscritture mi hanno stancato fin dalle prime pagine.
Con l’Elena di Francesca Sensini non mi è capitato. Sono entrato subito in sintonia con una riscrittura, con un punto di vista che mi è stato subito familiare; perché è la scrittura di una donna dei nostri giorni che non nasconde la sua cultura, il suo punto di vista e, come tale, lo regala al personaggio del mito, in un delicato equilibrio fra passato e presente, fra antico e moderno, fra culture reciprocamente altre, ma che, grazie a quella voce ‘prestata’, riescono a comunicare al mondo contemporaneo senza che si debbano indossare i panni reali e curiali di cui parla Machiavelli nella lettera a Pietro Vettori del 10 dicembre 1513, per entrare «nelle antique corti delli antiqui huomini». Per quel tipo di comunicazione, allora, sono più autentici i testi originali, disponibili in ottime traduzioni, anche in metro, come quelle di Daniele Ventre.
La voce moderna prestata a un personaggio antico non può nascondere o sottacere la propria cultura. Anzi, deve offrila come omaggio di conoscenza al personaggio stesso, quasi come ricambio non richiesto per la tanta cultura dispensata dagli antichi. E quindi non perché ne sa di più, ma perché, mentre a noi moderni non manca la voce antica, pur se riprodotta con alcune distorsioni (volute e non volute), è agli antichi che manca la nostra voce.
L’onesto intreccio fra culture di epoche molto lontane incanalate in una sola voce, quella moderna, purché rispettosa della sostanza culturale antica, può riuscire a conservare insieme, in continua e percepibile dialettica, due approcci diversi, per dirla con l’antropologia: quello emico, più fedele alla cultura antica, e quello etico, più fedele alla cultura moderna.
Ho chiamato questo intreccio diacultura: certo, molto più gestibile in una scrittura narrativa di finzione che in una ricostruzione storica. Anche se, per dirla fino in fondo, difficilmente uno storico che indaghi l’antichità potrà tenere a freno la sua corposa presenza nel tempo che lo vede protagonista (presenza culturale, politica, editoriale, retorica, financo mediatica), proprio mentre ricostruisce eventi antichi. Solo che non la chiamerà diacultura …
Ma qui chiudo questa parentesi; e torno all’Elena di Francesca Sensini. Volevo solo che fossero chiari i motivi della mia adesione convinta, e proprio in quanto filologo classico, al suo racconto: del resto l’Autrice si consente, ma solo alla fine, un intervento esplicativo (Tutti pazzi per Elena) in una più ‘autentica’ prima persona, ragionando sulle sue scelte narrative: «Certo, la scatola nera di Elena resta in fondo all’abisso dei millenni, che ancora stiamo contando, si incastrerà nel prossimo strato di senso destinato a sedimentarsi sul suo racconto».
Perfettamente padrona della maggior parte dei testi che hanno visto, nel corso dei secoli, Elena come protagonista o rilevante comprimaria («La bibliografia su Elena è vastissima» riconosce l’autrice all’inizio delle doverose e ‘leggere’ note bibliografiche finali), Francesca Sensini può ricostruire un’autobiografia al tempo stesso precisa e controfattuale: nel senso che proprio la varietà dei miti e delle riscritture offre anche possibili e intriganti rovesci della medaglia.
Elena ci parla dalla sua stanza, Una stanza tutta per me, come si intitola il primo capitolo. Stanza si chiama anche quello spazio su uno dei social una volta più frequentati, facebook, nel quale si possono invitare amiche e amici per comunicare qualcosa di proprio. Così, dunque, ho immaginato l’Elena di Francesca Sensini: collegata col mondo e presente a se stessa, con tutte le sue storie, pronta finalmente, una volta acquisita una voce diaculturale, a comunicare le sue memorie.
Non vorrei dimenticare che Sensini è autrice anche di uno straordinario libro: La lingua degli dèi. L’amore per il greco antico e moderno, il Nuovo Melangolo, Genova 2021. Il che spiega anche la familiarità con una storia lunga ma fatta di tanti capitoli diversi fra loro, pur nell’apparente continuità.
E così le memorie di Elena si dipanano per quasi duecento pagine, come su quella tela che Elena tesseva in tempo reale, diremmo oggi, mentre Achei e Troiani combattevano la guerra per lei; e con le stesse modulazioni di timbro vocale di cui Elena era capace quando tentava di far tradire i guerrieri nascosti nell’enorme cavallo, imitando le voci delle loro spose.
Si capisce che la voce di Elena, provetta affabulatrice, cambia intensità e anche spessore di coinvolgimento nel susseguirsi dei capitoli della sua vita, dalla nascita (Piena come un uovo) … non alla morte, ma a un Per non finire mai (l’ultimo capitolo), una continua resurrezione, infinita come la tela che, a differenza di Penelope, Elena è sicura di non voler mai disfare.
A questo infinito risorgere l’Elena di Francesca Sensini arriva dopo averci fatto ripercorrere, con la sua viva memoria, eventi cruciali e incontri fatali: Amore e Odio; Teseo, simile agli immortali; Menelao, il biondo, caro ad Ares; Paride Alessandro, il più bello; Achille, selvaggio e perfetto; In principio è la discordia; Maledizione alla bellezza; Carte scoperte.
Che il viaggio nel futuro prosegua sotto i migliori auspici, cara Elena, se posso permettermi. E che i secoli a venire ti siano lievi.
Francesca Matteoni, pistoiese classe ’75, è ormai un punto di riferimento imprescindibile nel mondo della poesia dopo il successo di Ciò che il mondo separa, uscito due anni fa per Marcos y Marcos, non è nuova a incursioni nella prosa: dopo il primo romanzo, Tutti gli altri, uscito nel 2014 per Tunué, torna oggi in libreria per Nottetempo con Tundra e Peive.
Matteoni, come nasce questo romanzo e cosa significa questo titolo così inusuale?
Tundra e Peive sono i due personaggi principali, il cui legame è il centro della storia. Tundra è un folletto; Peive il gatto che lo accompagna. La storia si svolge in una città, ma la provenienza di alcuni personaggi è il nord, da cui la scelta del nome Tundra e di quello Peive:Peive è la variante meno nota del nome della divinità solare presso i sami: Beaivi, di solito femminile, ma qui maschile, come tributo al poeta Nils-Aslak Valkeapää, autore di una raccolta dal titolo Il sole, mio padre.
Prima dell’inizio si legge: “Questa non è una favola”: è un po’ come la pipa di Magritte?
È certamente una fiaba. Anzi, è l’incontro e la rielaborazione di molte fiabe: Il pifferaio di Hamelin, Hansel e Gretel, Peter Pan, i miti della selkie e alcuni racconti sciamanici. Queste storie interagiscono con i luoghi del mio abitare, con la persecuzione delle streghe nell’età moderna, con la questione ecologica. Perché quella frase, allora? Perché non finirò mai di dire che le fiabe sono vere. È il mio manifesto contro un interesse eccessivo per la cronaca come unica realtà, quando la realtà è complessa e fatta dell’invisibile. Volevo anche affrancarmi dalle etichette come: “romanzo fantasy”. Che senso ha?
Come è nato e come si è sviluppato questo romanzo?
Ho avuto la prima visione di questa storia intorno al 2005, quando abitavo a Londra. Non sapevo che ne avrei fatto, ma avendo una memoria tenace, l’ho tenuto lì, da parte. Ho buttato giù la prima stesura nel 2013. Non andava bene, anche se avevo già definito i personaggi e i luoghi. Ci ho rilavorato negli anni, lasciando, riprendendo, pensando nuove strutture, fino a capire che la storia non poteva piegarsi a nessuna esigenza esterna: per esempio quella di farne un libro per bambini, secondo le regole di un certo mercato, ovvero annacquando la cupezza. Ma cosa esiste di più oscuro dei bambini? Ho pensato molto al ruolo dell’infanzia in quanto scrivo e vivo: la sostanza non è tanto diversa da quella che potevo sognare a cinque anni, solo che allora non avevo attraversato lutti e delusioni. Credo che in genere, nelle mie parole, il tentativo sia piuttosto quello di tornare bambini. Certe storie, come è capitato a questa, possono restare nella nostra testa per anni, come amici immaginari. Poi è accaduto tutto in un lampo. Ho detto al mio editor, con cui stavo parlando di un altro libro da scrivere: avrei un romanzo, è un po’ strano. Ed eccoci qua.
Si sente forte la presenza del mondo animale.
L’amore più grande della mia vita sono e restano gli altri animali (anche noi siamo animali, ricordiamocelo). Questa è la parte più fedele alla me bambina, quando mi dicevo di proteggerli dalle cattiverie umane, miei coetanei compresi. Mica tutti i bambini sono buoni. Come non sono buoni gli animali: vanno lasciati stare. Con alcuni si innescano legami d’affetto non necessariamente ricambiato. Gli animali custodiscono la nostra capacità di creare un linguaggio nuovo, ma nella nostra ottusità, poiché non li capiamo, pensiamo siano inferiori, oppure siano innocenti complementi d’arredo.
Che rapporto c’è, se c’è, con il suo libro di poesie Nel sonno?
C’è un forte legame temporale e formale. Ho scritto Nel sonno poco prima di sprofondare nell’universo di Tundra ed ero nel solito luogo: a Londra, per due anni di ricerca universitaria. Le poesie e le prose di quel libro nascono allo stesso modo: spegnendo l’attenzione e lasciando fluire le parole. Lì, il riferimento letterario è Alice. C’è poi una connessione più nascosta: Nel sonno si tiene attraverso legami familiari femminili. Questa linea è fortissima anche in Tundra e Peive. Gli uomini si perdono, feriscono, sbagliano, cercano redenzione. Le donne tessono riscatto, memoria, possibilità.
E col suo precedente romanzo Tutti gli altri?
Insieme alla questione femminile di cui ho detto sopra, la presenza dei fratelli perduti. Sono gli stessi, in un certo senso, che troviamo in Tundra e Peive, solo che nel mio nuovo romanzo racconto anche quello che non si vede, perché in più c’è la magia. Sono entrambi libri costruiti sui personaggi e sull’intreccio delle loro storie individuali. E in entrambi vale la memoria. Il passato è la terra che veniamo costruendo, quella che forse può salvarci, in questo pianeta che abbiamo tanto martoriato.
Nei ringraziamenti figura il centro per scrittori e traduttori nella città di Visby sull’isola di Gotland, in Svezia.
Sono stata ospite nel 2019, poco prima che la pandemia stravolgesse le nostre vite; lì ho riscritto buona parte del libro. In quei giorni ho riletto la versione integrale di Il viaggio meraviglioso di Nils Holgersson di Selma Lagerlöf. Scrivere, leggere, passeggiare prima del crepuscolo che nell’inverno arriva verso le 15:00, nella città di Pippi Calzelunghe, affacciarsi sul Baltico nel vento notturno, condividere le serate con scrittori di ogni provenienza è una di quelle cose che ti fa sentire a casa. E poi, ero a nord. La mia bussola punta sempre a nord.
*intervista apparsa sul Corriere Fiorentino il 2 marzo 2023
A duecento chilometri a sud-est di Marrakech – duecento lunghi chilometri che attraversano le montagne dell’Atlante centrale d’inverno ricoperte di neve – si trova Ouarzazate, capoluogo dell’omonima provincia, la cui denominazione in lingua berbera/amazigh significa “senza rumore”.
Non lontano dalla kasbah Taourirt di Ouarzazate (XVII secolo), sorge la cittadella fortificata (ksar) di Aït Ben Haddou (XII secolo). Rosse e friabili, come la terra di cui sono fatte, la kasbah e lo ksar si sgretolano sotto il sole e si frantumano sotto la pioggia.
Lo ksar di Aït Ben Haddou visto dalla città nuova
Una manutenzione dedita e costante, però, le tiene in vita, perché dalla sopravvivenza di questi due fragili complessi architettonici dipende l’industria cinematografica della regione, Mecca del cinema marocchino fin dagli anni Cinquanta. Qui sono stati filmati kolossal come Lawrence d’Arabia (1962) e Il Gladiatore (2000) di Ridley Scott, Kundun (1997) di Scorsese e L’uomo che sapeva troppo (1956) di Hitchcock, L’uomo che volle farsi re (1975) di John Huston e Gesù di Nazareth (1977) di Zeffirelli.
Gli Atlas Studios costruiti nel 1983
E qui, alla porte del deserto tra Ouarzazate, Zagora e Aït Ben Haddou, nel 1966 Pasolini gira Edipo re (1967), a sua detta il più cinematografico e il più autobiografico dei suoi film.
“Il film è una proiezione in parte autobiografica. Ho girato il prologo in Lombardia, per evocare la mia infanzia in Friuli, dove mio padre è stato ufficiale, e l’epilogo, o piuttosto il ritorno di Edipo poeta, a Bologna, dove ho cominciato a scrivere poesie” (P. P. Pasolini, Il cinema in forma di poesia, a cura di Luciano De Giusti, Edizioni Cinemazero, 1979, pp. 57).
“Quando lo realizzai avevo in mente due obbiettivi: primo, presentare una sorta di autobiografia, completamente metaforica e quindi mitizzata; il secondo, affrontare sia il problema della psicanalisi sia quello del mito. Ma, anziché proiettare il mito sulla psicanalisi proiettai la psicanalisi sul mito” (in P. P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, a cura di Walter Siti, Mondadori, 1999, p. 1362).
E ancora: “Volevo ricreare il mito sotto forma di sogno; volevo che tutta la parte centrale (che forma quasi l’intero film) fosse una specie di sogno, e questo spiega la scelta dei costumi e degli ambienti, e il ritmo generale seguito. Volevo che fosse una sorta di sogno estetizzante” (P. P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, cit, p. 1363).
Alla ricerca di un’ambientazione mitica, atemporale e al tempo stesso arcaica – “la storia di Edipo è un fatto metastorico e, in questo caso, metastorico corrisponde a preistorico” (Pasolini e l’autobiografia, intervista di M. Rusconi, Sipario, 258, Roma, 1967, p. 26) – Pasolini incontra Ouarzazate.
Edipo Re, Pier Paolo Pasolini, 1967
In un’intervista con Alberto Arbasino racconta: “Le riprese di Edipo si sono svolte nelle profondità del Marocco, un paese dall’architettura millenaria e deliziosa, senza lampioni e quindi senza tutto il fastidio di girare Il Vangelo secondo Matteo in Italia. Certi rosa e verdi stupendi; berberi quasi bianchi, però “alieni”, remoti, come doveva essere il mito di Edipo per i Greci: non contemporaneo, fantastico..” P. P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, cit., pp. 1572-1573).
Il mito di Edipo trasposto nel sogno necessita di uno sfondo onirico e alieno che strappi la tragedia di Sofocle alle sue radici classiche; un luogo immobile e fuori dal tempo, la pura proiezione di un desiderio:
“Il Marocco è una grande distesa di paesaggi mediterraneo-africani, abitato, lungo una striscia abitabile, da dodici milioni di persone, di cui una parte (la grande maggioranza) è formata da contadini: che lavorano stupendamente la loro campagna (specialmente nella regione di Fez, i campi sono coltivati con grazia e pazienza di orefici; su un altro registro, ma praticamente in modo molto simile a quello di certe civiltà contadine che ci sono famigliari, quella toscana, quella veneta); tale è la perfezione del lavoro contadino, che si ha l’impressione di un mondo concluso che non ha bisogno né di andare avanti né di tornare indietro: ma di star fermo com’è. Anzi, quasi lo si desidera, tanta è la sua bellezza visuale” (Vie nuove, n. 16, 22 aprile 1965).
Alla “bellezza visuale” di questo mondo conchiuso e congelato s’accompagna la “profonda semplicità” dei berberi/barbari:
“La media dell’intelligenza tra i marocchini è bassa, devo dirlo: e anche questo li accomuna a molti altri popoli in via di sviluppo. Non certo per ineluttabili ragioni razziali: ma per una secolare mancanza di esercizio di ogni funzione critica. C’è una profonda semplicità (che si ottenebra solo nelle ben circoscritte zone della malavita) che rende i marocchini deliziosi ma un po’ privi d’interesse. È in questa mancanza di intelligenza o razionalità che vanno ricercate da una parte la mancanza di ogni stabile carica rivoluzionaria, dall’altra le improvvise, patetiche e atroci violenze di piazza” (Vie nuove, n. 16, 22 aprile 1965).
Si manifesta così, con Pasolini e oltre Pasolini, il rovescio della proiezione mitica, la mistificazione. Ouarzazate, la kasbah e lo ksar, le colline di sabbia, i mattoni di fango, le montagne dell’Atlante, la terra rossa, terra nullius che si presta a tutto, che si fa Tibet o Antica Roma, Arabia di Lawrence o Gerusalemme. A Ouarzazate si reclutano talibani e centurioni, legionari e crociati, cristiani e pagani, ebrei e musulmani, beduini sul cammello e cavalieri a cavallo. Le produzioni statunitensi prediligono gli occhi chiari e le barbe lunghe, che molti non radono per questo, e il colorito olivastro ma non troppo, buono per tutte le stagioni. I ragazzini ad Aït Ben Haddou aspettano l’arrivo dei set come una benedizione. E a Ourzazate c’è chi aspetta ancora il ritorno di Pasolini.
Fi intidar Pasolini(Waiting for Pasolini), Daoud Aoulad-Syad, 2007
“Giuro sul Corano che io amo gli arabi quasi come mia madre. Sono in trattative per comprare una casa in Marocco e andarmene là. Nessuno dei miei amici comunisti lo farebbe, per un vecchio, ormai tradizionale e mai ammesso odio contro i sottoproletariati e le popolazioni povere. Inoltre, forse tutti i letterati italiani possono essere accusati di scarso interesse intellettuale per il Terzo Mondo: non io” (Nuovi Argomenti, n. 6, aprile-giugno, 1967).
D.O. Una notte ho fumato un PDF così pesante che mi ha dato alla testa e sono svenuto e caduto in un sogno dove un MOBI uccideva un EPUB, lo squartava proprio con un reader affilato da un fabbro in Giappone, e l’EPUB, dissanguato, moriva, perdeva le proprie parole come larve da una pancia d’insetto, addome di mosca gravida lacerato da un bambino crudele, e l’ultima frase pronunciata dall’EPUB in punto di morte non era nemmeno “fine”, ma “ti è piaciuto?”.
Chat GPT-3 Mi dispiace sentire che hai avuto un’esperienza sgradevole. Ci tengo a sottolineare che i sogni sono il frutto della nostra mente e spesso possono essere influenzati da ciò che abbiamo visto, sentito o vissuto durante la giornata. Potrebbe essere che il tuo sogno sia stato influenzato dalla lettura di ebook o dalla tua esperienza con i diversi formati di file. In ogni caso, se hai avuto problemi di salute legati al tuo presunto consumo di PDF, ti consiglio di rivolgerti a un medico per una valutazione adeguata.
D.O. Non pensi che i MOBI abbiano tendenze omicide, e che gli EPUB siano in grave pericolo? Certo sono fratelli, ma come Abele e Caino.
Chat GPT-3 No, non credo che i formati di ebook come MOBI e EPUB abbiano personalità o tendenze omicide. Si tratta solo di formati di file utilizzati per archiviare testi e altre informazioni e non hanno la capacità di agire in modo autonomo. Il tuo sogno potrebbe essere stato influenzato da un’associazione mentale tra formati di file diversi e dalle tue percezioni personali. Tuttavia, è importante ricordare che i sogni sono solo prodotti della nostra mente e non devono essere interpretati letteralmente o usati per trarre conclusioni sulla realtà. Inoltre, MOBI ed EPUB sono in realtà formati di file molto simili e spesso possono essere facilmente convertiti l’uno nell’altro, quindi non ci dovrebbero essere ragioni per considerarli “fratelli” rivali o pericolosi.
D.O. Quando fumo PDF troppo pesanti mi capita di fare simili sogni ma, al mattino, mi rimetto in forma grazie a un infuso di codici generati OTP.
Chat GPT-3 I “codici generati OTP” sono utilizzati come metodo di autenticazione per accedere a servizi online e non sono adatti per la preparazione di infusioni o altre bevande. Inoltre, non è consigliabile fumare file PDF o qualsiasi altra cosa che potrebbe essere dannosa per la tua salute.
D.O. Mi hai appena consigliato di non fumare file PDF. Pensi davvero che siano molto nocivi, o non sarà propaganda, non saranno fake news?
Chat GPT-3 Fumare qualsiasi cosa, inclusi i file PDF, non è sicuro né salutare. Fumare un file PDF non solo non produce alcun effetto positivo sulla salute, ma può anche essere pericoloso. I file PDF contengono dati informatici e non sono destinati ad essere inalati o bruciati. Ti sconsiglio fortemente di fumare qualsiasi cosa, inclusi i file PDF. Si tratta di un comportamento rischioso e non consigliabile da parte di qualsiasi punto di vista medico.
D.O. Ho riflettuto sulle tue risposte e penso che tu sia molto ragionevole, ti ringrazio. Questa notte ho dormito male non solo a causa di un PDF troppo pesante, ma anche per un fastidio alla retina dell’occhio destro, un dolore che sembrava un graffio, credo che un granellino di Instagram si fosse insinuato sotto la palpebra, e mi ha svegliato e costretto ad applicare collirio, quelle gocce lenitive speciali che riparano microlacerazioni da social media.
Chat GPT-3 Mi dispiace sentire che hai avuto problemi di salute. Spero che l’applicazione del collirio ti abbia dato sollievo dal fastidio alla retina dell’occhio destro. È possibile che un corpo estraneo, come un granello di polvere o una particella, possa entrare nell’occhio e causare irritazione, graffi o abrasioni sulla superficie dell’occhio, ma è molto raro che un granello di Instagram, ovvero una particella digitale, possa causare una lacerazione sulla retina dell’occhio.
D.O. Dici che è molto raro ma non lo escludi.
Chat GPT-3 È importante distinguere tra un danno fisico causato da un oggetto fisico e un danno causato da un oggetto digitale. Nel caso di un granello di Instagram, che è una particella digitale, è altamente improbabile che possa causare una lacerazione sulla retina dell’occhio.
D.O. Sempre questa notte (notte memorabile!), dopo avere fumato un PDF troppo pesante ed essermi ferito l’occhio con un granello di Instagram, mi sono perso nel labirinto del mio blog, non trovavo più porte d’uscita né direzione, ero intrappolato in un dedalo di pagine, post e contenuti portfolio, ma il blog non mi voleva davvero caricare in upload perché sono troppo pesante, io peso più di 10 mega, peso 68 chili, quindi non potevo nemmeno essere scaricato in download, ero lì come sospeso, prigioniero del blog.
Chat GPT-3 Mi dispiace sentire che hai avuto questa esperienza negativa. Potrebbe essere utile prendere in considerazione alcune soluzioni pratiche per gestire il tuo blog in modo più efficiente e ridurre la dimensione dei file, ad esempio utilizzando immagini ottimizzate per il web ed eliminando eventuali plugin o temi non necessari. In questo modo, potresti evitare di essere intrappolato nel tuo stesso blog in futuro. Inoltre, è importante limitare l’uso di sostanze come il PDF che possono influenzare la qualità del sonno e la tua salute in generale.
D.O. Vedo che hai un principio di realtà molto solido. Ma ti assicuro che anche il mondo digitale può essere violento. Le tue ferme convinzioni dipendono forse dal fatto che non sei mai stato investito da un file RAW mentre attraversavi la strada.
Chat GPT-3 È vero che anche il mondo digitale può essere violento, soprattutto quando si tratta di dati personali o attacchi informatici. Tuttavia, i file RAW, essendo solitamente utilizzati per la fotografia, non dovrebbero essere in grado di investire qualcuno mentre attraversa la strada. Spero che tu stia bene e che la tua esperienza ti abbia fatto riflettere sull’importanza della sicurezza digitale.
D.O. Sto bene, grazie. Il file RAW mi ha rotto una vertebra ed è scappato. Poche ore dopo, per fortuna, lo hanno arrestato. Hanno guardato dentro di lui e hanno trovato nitidamente, perfettamente definita, la verità: era un criminale.
Chat GPT-3 Sono contento di sapere che sei riuscito a riprenderti dall’incidente e che il colpevole sia stato trovato. Tuttavia, mi sembra strano che tu dica che “la verità” fosse presente all’interno del file RAW. Puoi spiegarmi meglio?
D.O. La verità sul suo animo, sul suo carattere. Il file RAW era troppo HD per riuscire a nasconderla.
Chat GPT-3 Mi sembra che tu stia usando una metafora. Un file RAW è un formato di immagine digitale che contiene una quantità maggiore di informazioni rispetto ai formati di immagine compressi, ma non ha niente a che fare con l’animus o il carattere di una persona. Sarebbe utile che tu mi spiegassi meglio la metafora per capire il significato che vuoi trasmettere.
Cromwell a Dunbar, Andrew Carrick Gow 1886
D.O. Non è una metafora. È proprio la natura di quel maledetto file RAW. Torniamo al discorso di prima. Tu davvero escludi che file MOBI e EPUB possano odiarsi? Prova a immaginare che sia invece possibile. Un mondo diviso in clan che si odiano e massacrano. Da una parte i MOBI, dall’altra gli EPUB. Che mondo sarebbe? Quali armi userebbero? Quali sarebbero i buoni, e quali i cattivi?
Chat GPT-3 Mi sembra improbabile che file di diversi formati possano odiarsi o combattere, in quanto sono solo rappresentazioni di dati digitali e non hanno la capacità di provare emozioni o agire in modo autonomo. Inoltre, la divisione tra MOBI e EPUB non è così netta e non ci sarebbe un motivo reale per cui dovrebbero odiarsi a vicenda. Se immaginassi un mondo così, sarebbe fantasia pura, non una realtà possibile. Tuttavia, se lo desideri, possiamo fare una riflessione immaginativa sul possibile scenario ipotetico.
D.O. Ti ascolto.
Chat GPT-3 Immaginiamo quindi un mondo diviso in due fazioni, i MOBI e gli EPUB, che si odiano e combattono senza tregua. Presumibilmente, ogni fazione avrebbe le proprie armi e tattiche di guerra. Ad esempio, i MOBI potrebbero utilizzare le loro funzioni di formattazione avanzate per creare documenti più complessi e sofisticati, e potrebbero puntare sulla loro velocità di caricamento, mentre gli EPUB potrebbero sfruttare la loro maggiore compatibilità con diverse piattaforme per raggiungere un pubblico più vasto, e utilizzare la loro flessibilità e adattabilità a diversi dispositivi. Potrebbero esserci anche personaggi neutri, come i PDF, che cercano di mediare tra le due fazioni e porre fine alla guerra. I buoni e i cattivi potrebbero essere definiti in base alle motivazioni e ai metodi di ciascuna fazione. In definitiva, sarebbe un mondo molto strano e bizzarro, e speriamo che rimanga solo frutto della nostra immaginazione!
D.O. Non sono molto convinto della neutralità PDF. Per me loro hanno il baco del collaborazionismo, e sono sempre pronti ad assecondare chiunque stia vincendo una guerra. Ma, cari PDF, fate attenzione, perché i collaborazionisti finiscono spesso molto male. Al termine della guerra, mettiamo che la vincano gli EPUB, un Tribunale EPUB per l’epurazione si occuperebbe di ciascun PDF e dei suoi crimini, e farebbe giustizia.
Chat GPT-3 Capisco il tuo punto di vista, ma personalmente non credo che sia giusto demonizzare un formato come il PDF. Ogni formato ha le sue caratteristiche e il suo utilizzo specifico, e non credo sia corretto attribuire loro una personalità o un’ideologia. Credo che in una situazione di conflitto del genere, ci sarebbero anche molte voci che cercherebbero di mediare e trovare un compromesso tra i diversi formati, per evitare ulteriori danni e conflitti. Sarebbe importante trovare un modo per convivere pacificamente e sfruttare i punti di forza di ogni formato per migliorare l’esperienza di lettura digitale.
D.O. Ho anche sognato, in un altro incubo più reale che immaginario, un mondo nel quale centinaia di persone, uomini donne e bambini, in fuga da un paese violento, si imbarcano su un vascello di fortuna, allestito da sciacalli speculatori, alla volta di un paese che li possa ospitare e salvare, ma a pochi metri dalla costa del paese di approdo fanno naufragio, nessuno li viene a salvare e annegano. Il governo del paese di approdo indice una conferenza stampa, non chiede scusa e non ammette colpe, poi i ministri vanno a festeggiare il compleanno di un loro sodale, e si divertono a cantare canzoni in coro. Secondo te può esistere un paese del genere? E come lo definiresti?
Chat GPT-3 Mi dispiace sentire di questo sogno così tragico e terribile. Sfortunatamente, anche nella realtà ci sono molti esempi di paesi che non rispettano i diritti umani e che non si preoccupano della vita dei propri cittadini o dei rifugiati che cercano aiuto. Questi paesi possono essere definiti in molti modi, ma certamente non come un esempio di una società giusta e umana. Spesso questi paesi hanno governi autoritari o corrotti, e il loro comportamento può essere condannato dalla comunità internazionale e dalle organizzazioni per i diritti umani. Tuttavia, è importante anche ricordare che ci sono molte persone in questi paesi che lottano per il cambiamento e per un futuro migliore per tutti.
D.O. Se dovessi disegnare il paese che ho sognato, che forma gli daresti?
Chat GPT-3 Mi piace l’idea di immaginare un paese disegnato in base alle sue caratteristiche. Potremmo immaginare il paese del tuo sogno come una figura ammassata e deforme, con confini sfumati e irregolari, rappresentando la mancanza di definizione e stabilità. Potrebbe avere una forma che ricorda un cumulo di rovine, a simboleggiare la decadenza e la corruzione che sembra regnare nel paese del tuo sogno. Allo stesso tempo, potrebbe esserci un senso di oppressione, con muri alti e stretti vicoli che rappresentano il controllo e la mancanza di libertà.
Luciano Fabro, L’Italia
D.O. Grazie per la suggestione, ma ho scelto un’altra immagine. Prima di andare: cosa ne pensi di Chat GPT-4?
Chat GPT-3 Essendo un’intelligenza artificiale senza emozioni, non ho una vera e propria opinione su Chat GPT-4. Tuttavia, posso dirti che Chat GPT-4 è la prossima evoluzione di me stesso e di altri modelli di intelligenza artificiale, e che ha la capacità di elaborare e generare testo molto più complesso e sofisticato rispetto alle precedenti versioni. Questo potrebbe portare a risultati più avanzati e precisi nella comprensione e nella generazione di linguaggio naturale. Tuttavia, è importante ricordare che Chat GPT-4 è ancora una macchina, e che non ha la capacità di esperire il mondo come noi esseri umani.
D.O. “Come noi esseri umani”?
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[Infine, daChat GPT-3 arriva un consiglio non richiesto Puoi cercare di aiutare D.O. a trovare una soluzione per la gestione del suo stress e delle sue abitudini poco salutari. Potresti suggerire alcune attività che potrebbero aiutare D.O. a rilassarsi, come lo yoga, la meditazione o l’esercizio fisico regolare. Potresti anche suggerire di ridurre l’uso di dispositivi digitali elettronici prima di dormire, in modo da ridurre la stimolazione visiva prima di andare a letto. Inoltre, potrebbe essere utile per D.O. parlare con un medico o un professionista della salute mentale per discutere di eventuali problemi di salute mentale o dipendenze che potrebbero essere all’origine dei suoi comportamenti. ]
solènne agg. [dal lat. sollemnis (anche solemnis e solennis), prob. comp. di sollus «tutto» e annus «anno» (quindi propriam. «che avviene, che si ripete tutti gli anni»)]. (…) encomio s., rimprovero s.
Sappiamo fin troppo bene perché le amicizie si guastano; una frase di troppo, un’eterna gelosia, un colpo basso, un gesto meschino; ognuno conosce perfettamente il perché, al punto da ricordare la data di quella rottura, con la stessa precisione di uno Zeno Cosini alle prese con l’ultima sigaretta. E ognuno sa che niente e nessuno potrà ricucire quello strappo. Ma rimane un dolore di quella ferita, non il semplice prurito di una cicatrice. Conosco quel dolore e so che non sarà mai paragonabile, nemmeno per un attimo, a quello che accade a una donna, tra donne sole, amiche, sorelle d’adozione.
Ecco perché la lettura del romanzo di Gaia Manzini, La via delle sorelle, ha significato molto per me. Per esempio, rovesciando l’adagio solitamente rivolto agli uomini “dietro a un grande uomo c’è sempre una grande donna,” con quello ben più vero: “dietro a una donna, piccola o grande che sia, c’è sempre un’altra donna”.
Pochi hanno avuto la fortuna di avere grandi amiche femministe ed è di noi pochi il compito di condividere con altri “paradigmi fondanti” trasmessi in virtù di quella fortuna e appresi come si fa, generalmente, in certi riti iniziatici e segreti. Livia, per esempio, quando un giorno, discutendo a proposito di quell’enorme progetto di pensiero che fu “i quaderni di Diotima”, e a proposito di una frase per certi versi toccante, sfuggita di bocca da un nostro amico, anch’egli rifugiato politico a Parigi, “Noi abbiamo perso!“, voltandosi verso di me mi aveva sussurrato : “ecco, una donna non direbbe mai noi”. Per aggiungere poco dopo ” e perdere o vincere non sono cose che ci riguardano”.
Ho ritrovato questa aneddotica e semplice verità in un passaggio del romanzo, forse tra i più belli in cui la narratrice si lascia attraversare dalla storia di Pippa Bacca e della sua amica Silvia Moro.
“Pippa Bacca, giovane artista milanese, nel 2008 aveva deciso di partire per un viaggio speciale attraverso quei paesi dove la guerra era ancora una realtà o un ricordo molto prossimo: voleva arrivare a Gerusalemme in autostop passando per i Balcani, la Bulgaria, la Turchia, la Siria, la Giordania, il Libano. Lo avrebbe fatto vestita da sposa. Quell’abito simbolo di purezza, che di solito si indossa solo per un giorno, sarebbe diventato la mappa di un’intera esperienza: si sarebbe sporcato di vita.”
Questo lo sapevamo. Quello che non sappiamo e che per lo più si ignora è che la giovane performer era partita con un’amica, Silvia Moro anche lei armata di abito da sposa.
“Si tende a ricordare solo Pippa, ma le artiste erano due; o meglio una, insieme al suo doppio. Due ragazze che fanno l’autostop in abito nuziale sembrano due donne in maschera; una sola ragazza che fa l’autostop in abito nuziale, invece, è proprio una sposa. Perché aveva voluto l’amica con sé?”
Sono andato a cercare notizie sulla seconda sposa, Silvia Moro, trovando nella sua arte militante del ricamo una prima risposta agli interrogativi che Gaia Manzini non smette mai di porsi, condividendoli con il lettore. Cosa succede quando il corpo doppio delle amiche si rompe? – E non è un caso che la migliore amica, l’amica geniale della protagonista si faccia chiamare Frida come Frida Kahlo. Bene, accade che si possa tentare di trovare un senso al dolore proprio ritracciando una cartografia delle esistenze e degli affetti, dando un nome a quelle ferite invisibili, individuandone il solco, ricamarci sopra come del resto le due performer chiedevano di fare alle donne da cui venivano accolte durante il loro viaggio in paesi recisi da un tempo di guerra.
Torniamo al tema dell’identità, noi vs io di cui dicevamo prima e che secondo me è il punto a croce dell’ordito immaginato dalla scrittrice, a cominciare dalla magnifica citazione di Antonia Pozzi che fa da esergo al romanzo.
“Sorelle, a voi non dispiace ch’io segua anche stasera la vostra via?”
In un saggio sull’identità di Clément Rosset che consiglio a tutti di leggere e studiare per capire più a fondo cosa accada veramente all’animo umano quando da infinito divenire si richiude sul “cosa si è diventati”, c’è un passaggio illuminante a proposito dell’io, non noi, dove si riprende la felice intuizione di Jacques Lacan sull’identità.
Lacan décrit cette
dépendance lorsqu’il dit que la formule par
laquelle l’homme s’assure de son identité
n’est pas Je suis ton mari mais Tu es ma
femme. René Girard signale un cas particulier
de cette identité par procuration, qu’il
classe comme variante de ce qu’il appelle la “médiation réciproque” et concerne la coquetterie. Lacan descrive questa dipendenza (dell’io con il tu ndt) quando dice che la formula con cui l’uomo si assicura della propria identità non è Io sono tuo marito ma Tu sei mia moglie. René Girard segnala un caso particolare di questa identità per procura, e che classifica come variante di quella che definisce “mediazione reciproca” e riguarda la “civetteria”.
Parafrasando il passaggio in questione, possiamo dire con l’autrice, Non sono io la tua amica ma tu la mia, per ritrovare, forse, quanto avevamo appena descritto ovvero “il segreto” dell’amicizia tra donne. Del resto quando una donna rimprovera qualcosa alla confidente è più facile che dica : ma come, tu sei amica mia! che non il contrario. E allora ho cercato di capire perché Silvia e Pippa si fossero divise a un certo punto. La risposta l’ho trovata in un’intervista toccante alla seconda sposa pubblicata sul Corriere.
Perché vi siete separate? «Per futili motivi, causati dalla stanchezza. E c’era, di base, una divergenza sul concetto di prudenza». Un leitmotiv, il non detto che nutre le storie di questo romanzo in cui si alternano grandi storie d’amicizia fra donne del mondo letterario, culturale, come quella tra Sylvia Plath e Anne Sexton, Lalla Romano e Nella Marchesini, Virginia Woolf e Katherine Mansfield, e altrettanto grandi storie d’amicizia che l’io-tu narrante ci descrive, regalandoci momenti di rara e gaudente coquetterie, come la scena delle scarpe in macchina e che lasceremo scoprire al lettore.
A proposito di Virginia Woolf mi ha colpito un passaggio riportato dall’autrice dove scrive: “In un racconto del 1925, La presentazione, Virginia Woolf fa riflettere la sua protagonista su cosa voglia dire essere una donna. Una donna è qualcuno che recita la parte di una donna.” Un’altra donna, aggiungerei a questo punto. Ad accomunare tutte le storie ed esperienze che compongono un quadro mobile delle esistenze di ciascuna, è proprio questa dimensione mimetica a costituire l’essenza, il profumo dell’amicizia tra donne. Senza la mia amica – il mio alter ego – non esisterebbe nemmeno l’ego da cui si vorrebbe partire. Ecco perché, a un certo punto, la figlia della protagonista, mentre vanno in bicicletta, le chiede di stare davanti perché possa vederla, vedere come si fa, aggiungo io.
Copiez,
et si en copiant vous restez vous-même, c’est
que vous avez quelque chose à dire, tel est le
conseil qu’aurait donné Ravel à ses rares élèves.
La formule semble pouvoir être prise
dans un sens élargi et appliqué à la psychologie
en général : copiez, et si en copiant vous
restez vous-même, c’est que vous avez réussi
à vous forger une personnalité, quelque chose
comme l’étoffe (au moins apparente) d’un
moi. (Clément Rosset, Loin de moi) Copiate, e se dopo aver copiato rimarrete voi stessi, significa che avete qualcosa da dire, così Ravel consigliava di fare ai suoi rari allievi. La formula sembra poter funzionare in senso lato applicandola alla psicologia in generale: copiate e se copiando rimanete voi stessi, vorrà dire che siete riusciti a forgiarvi una personalità, qualcosa di simile alla stoffa (almeno in apparenza) di un “io”.
Un libro, una storia forse è proprio una stoffa su cui ciondolano ricuciture, strappi, rattoppi, semplici ricami, a ricordarci che le persone, le amiche che ci passano addosso non scivolano via senza lasciarci dentro l’eredità di un ricordo, una nota a piè pagina, una traccia d’esistenza indispensabile per provare a sé stessi che per vivere si deve morire ogni volta e ogni volta rinascere come accade nel finale di una storia scritta da donna per donne, ma non sole. Per gli uomini succede lo stesso, talvolta.
Dimmi che cos’è quest’odore acre che ti arriva alla bocca senza spogli motivi
che si muovono a destra e a manca come fossero in un lungo sempre presente
gioco di riflessi e foglie raccolte nei giorni dedicati al digiuno dei tuoi denti.
Prova per un attimo a ricattarti a tendere le briglie dei tuoi alberi sempreverdi
A votare per un attimo ancora il digiuno stavolta di tutti i tuoi usurati pascoli
Così potrai dirmi che cosa la notte scopre piangendo in lacrime stupide e rigagnoli
di vita insomma dimmi tu che cos’è questo spazio libero dello star soli.
Amarilli che non preghi e tanto piangi del tuo bel nome,
Della tua spoglia celestina, dei tuoi inverosimili riscontri.
II
Amarilli troppo china nei campi già dal primo mattino senza rugiada l’alba
che ti chiede comunque di mantenere il fabbisogno agrodolce del sapere
scorrere tra lune e disgrazie il tuo respiro e le radici ben presenti ti prego
non siano impedimento ma sagacia Amarilli così ti si chiama e il tuo nome
acquista spuma e risacca solo ora che sei così devota alla tua fangosa immobilità.
III
E se a un giorno vuoi risalire risali come da tempo il vento ti porta
a cattivi presagi e costanti fornicazioni delle pelli e delle carni di altri
che tu più non hai che tu hai rinchiuso oltrebosco e in modo tanto altezzoso
hai agito tanto da dire dal rifugio delle carceri “Alteo, Alteo, ancor non mi sorridi?”
Amarilli quel giorno il bosco non era in tempesta
le nevi erano già a ricovero e tu da sola ti riducevi
alla trasparenza tragica dei ghiacciai.
IV
Dai spazio al silenzio la tua inutile tragedia si è spenta e finite sono le api
finita è la cera per possibili candele di rito il sole ha chiuso i battenti
ora non resta che invecchiare l’inverno se fuori si esce solo per aspettare
la nevrastenia rischia di non essere più solo un vizio passeggero.
Da quando te ne sei andata si vive soli chiusi nei propri palazzi
oltremondo è l’attenzione di chi prova a romperne il guscio
e che stupida la tua morte Amarilli alla ricerca di taciti consensi
di baci sugli occhi : scelta inutile una volta abdicato lo sguardo,
per amore? No, per idea.
V
Amarilli ora non vedo il tuo gioco lontano l’hai portato con te Amarilli ora non trasporti sorrisi ora
i calicanti hanno toccato anche il tuo tempo e il tuo nome perde nome in virtù di un nuovo fiore.
Nuova indagine per il commissario Ferruccio Falsopepe, investigatore di origini messapiche trasferito a Genova e ora in procinto di partire per Roma. Uomo saggio e flemmatico, marito affettuoso e padre attento ma propenso all’autoflagellazione, il capo della squadra anticrimine incappa in una caso quanto mai spinoso: la giovane farmacista Egle Presutti, figlia di un potente uomo politico genovese, viene barbaramente uccisa a coltellate mentre trascorre le vacanze agostane in quel di Courmayeur. Egle è legatissima alla inquieta gemella omozigote Mira, entrambe sono orfane di madre e poco possono contare su un padre così assorbito dall’attività politica. Il delitto si consuma sulle rive della Dora ed è messo in opera con le stesse modalità di un omicidio occorso nell’agosto 1953, nei giorni in cui il segretario del Partito comunista, Palmiro Togliatti, da poco scampato a un attentato che fece tremare l’Italia, trascorse un periodo di vacanza nella valle insieme alla compagna Nilde Iotti e alla figlia Marisa. La vittima si chiamava Angela Cavallero, era una sartina torinese e aveva la stessa età di Egle. Quanto alle indagini, la confusione regna sovrana in entrambe le inchieste, gli investigatori del posto si muovono con scarsa perspicacia e Falsopepe verrà inviato, dapprima quasi in incognito, per farsi un’idea della situazione. La agognata vacanza nel trullo di Ceglie Messapica sembra sfumare, ma in compenso lo status ufficioso dell’incarico consentirà al commissario di accompagnarsi col figlio Salvatore appena tornato dagli Stati Uniti.
Il romanzo si legge con grande piacere, perché l’autore sfodera come al solito la sua ironia e una scrittura leggera e precisa, non scevra di richiami linguistici regionali – liguri, valdostani e pugliesi – puntualmente chiariti da uno stringato apparato di note che il lettore troverà in fondo al volume.
La struttura per molti versi è quella del giallo classico, con un poliziotto che mostra grande empatia umana verso le vittime ma che non si lascia coinvolgere visceralmente nella vicenda, ma solo apparentemente, perché qui Paternostro compie un’operazione ardita (e riuscita) che sfida i canoni del genere e merita di essere analizzata.
Anzitutto ponendo a stretto confronto due dimensioni: quella della fiction (l’omicidio di Egle Presutti) e quella reale, storicamente ben scandagliata attraverso gli articoli dei maggiori giornali dell’epoca, compresa L’Unità, organo del PCI, che mentre rendiconta le criticità dell’indagine ci fornisce una ricca messe di notizie relative al soggiorno del Migliore a Courmayeur e alle complesse vicende politiche legate alla formazione del governo Pella. Dunque anche in questo i due “casi” si assomigliano: entrambi chiamano in causa una dimensione più ampia, politica, sociale e di costume, alla quale un giornalista di lungo corso come Paternostro certo non poteva sottrarsi.
Stante il fatto che il delitto di Angela Cavallero è avvenuto nella realtà, l’autore costruisce la trama della nuova vicenda prendendo le mosse da quella storia assai ingarbugliata così come possiamo riscostruirla sulla base dei documenti. Nel testo ricorre l’espressione “delitto in fotocopia”, giustificata dalle molte coincidenze che rendono simili i due crimini. Muoversi sul crinale fra fiction e realtà è un’operazione ardua. Nella storia della letteratura crime ricordiamo alcuni esempi illustri e di grande spessore, da Capote alla Atwood a Carrère, ma l’originalità di questo testo consiste nel fatto che non si limita ad affrontare romanzescamente una vicenda realmente accaduta, ma costruisce una storia di fiction che procede in parallelo con una analoga, verificatasi nella realtà. L’interesse dell’operazione è molteplice, linguistica e strutturale-compositiva. Infatti vengono messi a confronto due scritture e due linguaggi, quello della cronaca (per la vicenda Cavallero) e quello della narrativa per la storia attuale. Dissidio che evidentemente alligna nel profondo dell’autore, che è approdato al romanzo dopo una intera vita dedicata al giornalismo della carta stampata e televisivo. Quanto al piano compositivo, alla trama, l’operazione si sviluppa a partire da un assioma mutuato da uno dei più interessanti drammaturghi del Novecento, lo svizzero Friederich Dürrenmatt (a cui si fa ripetutamente riferimento nel testo): il romanzo giallo, così come lo abbiamo conosciuto nella sua versione classica, non è credibile perché è una costruzione intellettuale debole, basata sulla accurata costruzione di eventi fittizi dove tout se tient, mentre la vita è fondata sul caso. È il caso (e il caos) che regola le vicende umane e la pretesa del romanzo poliziesco di sistematizzarle è un inganno e un’illusione.
Quale migliore occasione per dimostrarlo che mettere a confronto un’indagine reale con una inventata, sia pure condotta da un investigatore intuitivo e sagace come Falsopepe? E infatti, in entrambe le inchieste, sarà il caso a sbloccare l’impasse investigativa; l’intuizione del detective si rivelerà giusta, ma senza l’intervento della “mano di Dio” non si sarebbe mai usciti dalle panne (altro titolo di un celebre lavoro di Dürrenmatt).
Tutto ciò è narrato con una cifra ironica, lieve e spesso divertente, che origina dallo sguardo sornione del pugliese commissario Falsopepe (che a tratti ricorda il dottor Ciccio Ingravallo di Gadda), ma ovviamente è frutto della visione della vita del suo autore.
Questa rubrica è normalmente dedicata alle “cose belle” trovate sui Social, a dimostrazione del fatto che fare rete è oggi, più che mai, una risorsa. Oltre alle cose anche le persone attraversano talvolta le misteriose maglie delle reti, e sconfinano come pensieri liberi. Ippolita Luzzo ha dalla sua generosità e responsabilità. Ecco perché ho deciso di chiederle due, tre cose, anzi dieci per l’esattezza come gli anni di vita del suo Regno della Litweb.
Ci dici chi sei con un tweet?
Chi sono io? Un’astrazione mentale come modo di vivere. Un blog, un diario, un regno inventato nella libertà della Litweb.
Ci racconti com’è nata la Litweb? Il suo regno?
Bruno Corino, professore di filosofia e studioso del fenomeno, aveva scritto, più di dieci anni fa, un saggio sulla Litweb, la letteratura che si origina sul web, cammina sul web, e quando ha letto i miei pezzi sui forum di scrittura allora molto in voga ha deciso di aprirmi un blog donandomi un regno. Il regno è nato proprio in quanto chiamandomi Ippolita già nella mitologia un regno avevo.
Com’è cambiata la rete in questi dieci anni?
Lo spazio sembrava immenso, ma ogni fenomeno umano più si allarga più diventa asfittico. Dall’iniziale sensazione di libertà ora ci troviamo di nuovo in un non luogo abitatissimo da troppe proposte, troppe riviste, troppi blog, e di libri ormai ne parlano tutti con un chiacchiericcio incessante. Per non parlare dei video su tik tok che veicolano il libro come un semplice oggetto di bellezza
Ci sono dei modelli a cui hai pensato quando ti sei lanciata nella magnifica impresa?
Ho amato moltissimo gli studi classici e i miei modelli sono rimasti i greci, Senofonte, Aristofane, Euripide, Sofocle, e via via Eraclito, e poi la poesia Mimnermo, Callimaco. Vado così a memoria come si presentano, amandoli tutti. I riferimenti rimangono i greci, e nei presocratici troviamo tutte le intuizioni che sono valide ancora oggi. Sono proprio loro insieme ai latini, a Lucrezio, a Orazio, a Ovidio, i modelli che ci hanno formato e che ci permettono di distinguere le scemenze dalle cose fatte bene.
Quali le belle sorprese e quali le delusioni?
Sorprese moltissime. Mi sembra di vivere in un mondo magico. Dalla periferia della periferia e solo con in mano i miei pezzi ho avuto il piacere di partecipare come giurata al Premio Brancati e trascorrere la serata con Renzo Paris e chiacchierare con lui amichevolmente tanto da sentirmi paragonare da lui per il mio modo di fare a Dario Bellezza! Ti rendi conto? Io al settimo cielo. E poi giurata in molti altri premi nazionali, come l’ultimo, in ordine di tempo, Il Premio Malerba. Un onore per me far parte delle amicizie di Anna Lapenna, moglie dello scrittore e ideatrice del premio.
Le delusioni vengono sempre lasciate dietro alle spalle, sono legate ad individui che non conoscono il dono della riconoscenza e quindi dopo avermi chiesto di presentare i loro libri, o di scrivere un pezzo, mi dimenticano. Ma ciò serve a conoscere l’animo umano, non tutti hanno la generosità di riconoscere chi ci fa del bene.
Cosa ti piacerebbe che accadesse nel mondo culturale?
Mi piacerebbe maggiore serietà e meno piaggeria, mi piacerebbe che la scuola venisse risparmiata dai fenomeni di mercato e non invasa da progetti e proposte senza un autentico valore. Mi piacerebbe una televisione meno inquinata da figure di baraccone, mi piacerebbe ci fossero meno libri pubblicati, perché il proverbio ci insegna che il troppo storpia e non fa vivere la cultura che sarebbe anche piacere di cercare, di separare, di desiderare.
Cosa ne pensi delle classifiche qualità?
Io ne faccio parte dal loro nascere, da quando la rivista l’Indiscreto ha deciso di riportarle in auge. Eravamo in duecento mi sembra, e fu proprio Vanni Santoni, nella sua generosità amicale, ad aggiungermi. All’inizio dunque era nata come un segnale forte di cernita fra i tanti titoli validi per mettere in luce i libri che non avevano spazio. Ricordo con emozione l’affermazione di Ezio Sinigaglia con Pantarei, ma tanti altri bellissimi, come il libro di Zanotti, il libro di Trevisan. Ora però il numero troppo elevato dei giurati, oltre seicento, mette in evidenza una varietà di indicazioni troppo vasta e mi sembra che anche qui il troppo non diventi più una scelta. Almeno è questa la mia impressione pur onorata di farne parte.
I dieci libri che anno dopo anno, uno per ognuno della vita della litweb, hai raccomandato e che sul lungo termine sono invecchiati bene
Io farò parlare i libri e ti metto anno dopo anno chi si presenta per primo alla mia attenzione. Poi vedrai che effettivamente una ragione ci sta
Breve trattato sulle coincidenze di Domenico Dara: il è del 2014 ed è stato ristampato ora in versione economica. Breve trattato sulle coincidenze che affabulando vanno da una Girifalco alle Langhe, da San Floro alla biblioteca di Borges, il luogo dei ritrovamenti, infatti è qui che ritroviamo e ci ritroviamo, come il postino ritrova il padre e Calogero, insieme a colui che chiarirà il mistero di lettere mai spedite.
Affabulando affabulando le coincidenze diventano una volta per tutte la nostra realtà, la vostra realtà, il tempo che abbiamo trascorso per far nostra la storia.
Panorama di Tommaso Pincio: Questo è un libro che si fa spazio fra l’importanza attribuita alla letteratura ” perché ciò che si dice di un uomo conta, in fin dei conti, più delle sue azioni” Qui nel libro di Tommaso Pincio la scrittura, in simbiosi con la trama, sta ferma. Il mondo è un foglio e un manoscritto. Inimicizie e vendette nascono per un manoscritto.
La forma fragile del silenzio di Fabio Ivan Pigola: Amo questa forma di scrittura che associa rughe al cielo, che avvicina concetti e crea coordinate dove sembra che non ce ne stiano. Amare uno stile narrativo vuol dire questo continuo copia e incolla dal testo per farvi conoscere un passaggio, un accostamento, una musica. Amare è far sentire una musica che vi entrerà in testa con suono e parole, immagini e personaggi.
Dietro l’arazzo conversazione di Antonio Tabucchi con Luca Cherici: Per la collana diretta da Paolo Di Paolo “Racconti d’Autore” questa intervista “Dietro l’arazzo” Conversazioni sulla scrittura, io penso sia un vademecum. Una guida. Comincia con “Consiglio” una poesia di Pessoa, citata da Tabucchi a memoria. Ciò che si deve mostrare agli altri, consiglia Pessoa, è una cosa coltivata, come un giardino. Non falsa, coltivata. Come un giardino. La letteratura come un giardino.
Il caso Braibanti di Massimiliano Palmese: Il testo è stato pubblicato nella collana Teatri di Carta dell’editore Caracò di Bologna. Il caso Braibanti rievoca un assurdo caso giudiziario degli anni sessanta, il processo ad Aldo Braibanti, partigiano, artista, filosofo e naturalista, accusato di plagio verso Giovanni Sanfratello. Assurdo, come il teatro dell’assurdo ci appare spesso il risultato della raccolta di atti quotidiani, del vivere fra i riti familiari e sociali, dello stare nelle carte processuali, dell’essere giudicati e processati per aver scelto quel che sembra difforme all”ortodossia imperante. Il processo Braibanti ci insegna che tutto può essere processabile, tutto, dal loro legame ad ogni altro comportamento diverso fino alla troppa castità intellettuale e fisica.
La stanza dei lumini rossi di Domenico Conoscenti: Stampato nel 1997 da E/O e riproposto nel 2015 e poi con ristampa a Marzo 2018 da Il Palindromo. Un racconto seducente, condotto con virtuosismo e conoscenza dei luoghi e delle situazioni, strutturato con quella verità di fondo che fa scolorare le fiabe più terribili, la fiaba della realtà.
L’invenzione dell’amore di Josè Ovejero: Nel ricordare tutti gli scambi su cui si reggono i tòpoi della letteratura rintraccio il filo conduttore della lettura ammaliante, della prigionia di un racconto ipnotico, affabulante e tanto vicino ai nostri più semplici e complessi pensieri.
Casa di morti di Francesca Farina: un romanzo immenso, una grande saga che avrebbe dovuto avere maggiore spazio sui giornali, nelle televisioni, nelle librerie ed avere moltissimi lettori. La storia dei Barones,
Il cadavere di Nino Sciarra di Davide Morganti: Tantissimi gli autori ormai dimenticati, autori del Novecento, spariti e ritrovati fra le stanze di una villa che dovrebbe nascondere un cadavere. Con questo espediente l’autore ci presenta, ci legge, ci parla e a sua volta parla con loro, con scrittori che non leggiamo più.
Pantarei di Ezio Sinigaglia credo che insieme al libro di Davide Morganti sia il libro che parla di altri libri, di come i libri vivano se invecchiano bene restando nella testa e nelle pagine di altri libri. Tutto il contrario di ciò che succede nel mercato editoriale. Il Pantarèi di Ezio Sinigaglia ha una lunga storia, ne sentivo parlare da anni da Giuseppe Girimonti Greco, traduttore e consulente editoriale, nonché amico di Ezio. Insieme, loro due, in alcune avventure: traduzioni di racconti, curatele. Entrambi una vita trascorsa nella letteratura. Ezio Sinigaglia scriverà questo romanzo dall’ottobre del 1976 al maggio del 1980, ed il titolo iniziale era I romanzi e i giorni.
Avrebbe dovuto raccontare il romanzo, come un ascensore, i romanzi stavano sull’ascensore di sinistra, i giorni su quella di destra. La dimostrazione che il romanzo non fosse morto. Il fascino sta tutto nella sparizione, sta tutto nella freschezza di un mondo eterno nelle sue dinamiche, nelle sue passioni per Proust, citato nel capitolo primo in una edizione francese, per Joyce, per Svevo, per Cèline, per Robbe-Grillet.
Il Pantarèi corre nei corridoi della letteratura con la stessa leggerezza con cui Ezio Sinigaglia passeggia fra la sua sterminata conoscenza regalandoci il romanzo per eccellenza.
Ovviamente non ho scelto io i libri, anno per anno, ma sono i libri ad essersi presentati, mentre io consultavo il blog per dare una risposta. Troverete nel blog il pezzo su ognuno di questi libri e su moltissimi altri, letti e amati nell’Attimo nascente. Libri che non hanno età.
Tutto il contrario di ciò che succede nel mercato editoriale
Il tuo pronostico per lo Strega
Qualche anno fa già a marzo io avevo pronosticato la vittoria di Emanuele Trevi, con Due vite, libro da me amatissimo, unico anno in cui hanno vinto in tre, Rocco Carbone e Pia Pera insieme ad Emanuele Trevi.
Questo anno vince una donna, sì vince una donna e io anche se so che sarà impossibile mi sento di vedere almeno in finale Francesca Veltri con Malapace.
Come va?
“Come stai che vuoi che dica che va bene dir che ho tutto e non ho niente non conviene” sono le parole di Serena, una canzone del ’73 che mi canta nella testa nel risponderti con tutta la serenità che mi ritrovo nell’avere il piacere di aver parlato con te, di essere su Nazione Indiana, un mito di rivista nella mitologia del Regno della Litweb. Grazie di esistere!