Questa rubrica è dedicata alle “cose belle” trovate sui Social, a dimostrazione del fatto che fare rete è oggi, più che mai, una risorsa. effeffe
Nota sui classici
di
Nicola Lagioia
Questa rubrica è dedicata alle “cose belle” trovate sui Social, a dimostrazione del fatto che fare rete è oggi, più che mai, una risorsa. effeffe
Nota sui classici
di
Nicola Lagioia
di Gianni Biondillo
Sigrid Nunez, L’amico fedele, Garzanti, 220 pagine, traduzione di Stefano Beretta
Lei insegna scrittura creativa all’Università. È americana, ceto medio, colta, ha un romanzo che deve scrivere e una sempre maggiore intolleranza per i suoi studenti che appaiono interessati solo al successo e non innamorati, come lo era lei da studentessa, dei dolori romantici che la letteratura produce. Da giovane aveva avuto come docente uno scrittore affascinante e coltissimo. Il suo mentore. Che ora si è suicidato, lasciandole in eredità un alano, anziano, enorme, dal nome altisonante: Apollo.
Chi è L’amico fedele del titolo del romanzo di Sigrid Nunez? È lo scrittore a cui si rivolge l’io narrante (aderente all’autrice in modo imbarazzante)? È il cane taciturno, distaccato, che la protagonista doveva tenere solo per qualche settimana prima di trovargli una sistemazione? A chi dà del tu per davvero la narratrice?
Romanzo che è anche metaromanzo, questo della Nunez. Libro che parla di libri, costellato di un’inifinità di citazioni, criptiche od esplicite, che spaziano sull’intero canone occidentale. Ogni pensiero della narratrice ha già avuto qualcuno che lo ha espresso meglio. Capisco come un libro così possa aver entusiasmato la critica americana: finalmente un romanzo dove, nei fatti, non succede niente. Dove l’indagine è tutta interiore e allo stesso tempo letteraria. Una specie di rivalsa della scrittura sulla trama.
A chi parla la narratrice? Di che parla? Di amicizia, il più nobile dei sentimenti umani. L’amicizia perduta con l’amico scrittore. L’amicizia nata con Apollo, ancora più sublime e commovente. E il romanzo in fondo non è altro che una lunghissima seduta psicanalitica (molto newyorkese e letteraria) della protagonista che non ha mai accettato la perdita dell’amico, preparandosi alla perdita inevitabile del cane ormai anziano. Una lunga lettera d’addio, a ben vedere. Il suo modo di superare il lutto attraverso la letteratura.
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Patrik Svensson, Nel segno dell’anguilla, Guanda, 281 pagine, traduzione di Monica Corbetta
Mai avrei immaginato nella vita di entusiasmarmi leggendo un libro che parla di anguille. Potenza della letteratura, capace di rendere ogni argomento un mistero da sondare. Ché Patrik Svensson mica ha scritto semplicemente un libro sulle anguille. Non è un saggio, questo, non è un romanzo, non è neppure un memoir. È un oggetto narrativo indefinibile.
Nel segno dell’anguilla è un libro che parla di passioni e di ossessioni. La passione per la pesca delle anguille del padre e del piccolo Patrik che lo segue nelle notti insonni creando col genitore un legame indicibile (non si dicono praticamente nulla, le poche cose che scambiano riguardano la pesca) e indissolubile. L’ossessione crescente per il misterioso animale che Patrik confessa di non mangiare neppure, trovandolo troppo grasso e saporito. E l’ossessione dell’intera cultura dell’Occidente, che ha dovuto scontrarsi con questo animale curioso, inventando attorno a lui, di secolo in secolo, mitologie e leggende. E poi, alternando capitoli di storia personale a capitoli su scienziati, filosofi, poeti che si sono interessati al mistero dell’anguilla, osserviamo la crescita del narratore, la sua maturità, analoga a quella della scienza che nei secoli – da Aristotele a Spallanzani, da Freud a Schmidt – ha cercato di avvicinarsi al mistero insondabile di questo animale che non sembra neppure un pesce, che nasce in un mare leggendario per attraversare gli oceani e vivere nei fondi limacciosi di rivoli d’acque dolci dell’Europa.
Infine, in parallelo alla fine imminente del padre malato, la fine di una specie animale che esiste da milioni di anni, per colpa dei cambiamenti climatici e dell’intervento umano. Il tempo è l’altro grande tema di questo libro. E l’eternità. Che forse le anguille conoscono e che Svensson cerca di capire osservandole, con passione e ossessione.
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David Grossman, La vita gioca con me, 289 pagine, Mondadori, 2019, traduzione di Alessandra Shomroni
Vera compie novant’anni. Quale migliore occasione per festeggiarla, attorniata da tutta la sua famiglia e dai suoi affettuosi conoscenti del kibbutz? L’esistenza di Vera è stata così intensa che è come se avesse vissuto due vite. Quella della sua giovinezza, in Iugoslavia, dove conobbe l’unico amore della sua vita, Miloš, col quale ha combattuto nella Resistenza. E l’altra vita, quella in Israele, quando si trasferì anni dopo con sua figlia Nina. In mezzo un buco, un vuoto di senso: l’accusa di alto tradimento, il suicidio del marito, la prigionia in un campo di rieducazione, l’abbandono coatto della figlia ancora bambina. Ma è proprio attorno a quel buco, a quel baratro che si gioca il buio profondo di tutti i personaggi presenti in La vita gioca con me.
David Grossman, ispirandosi a un personaggio davvero esistito e davvero ammirato, si pone dalla parte di chi non ha la forza di una irreprensibile dirittura morale quale quella di Vera. Come ci saremmo comportati noi, si chiede implicitamente, di fronte alla possibilità di sfuggire al gulag rinnegando il proprio amore? E quali le conseguenze di tale scelta radicale?
A chiederselo, nel romanzo, è Ghili, la nipote, figlia di Nina (donna tormentata dal rapporto irrisolto col monumento vivente che è sua madre) e di Rafi, il figlio del secondo marito di Vera, conosciuto giunta in Israele. Questi quattro personaggi alla fine progettano, ognuno per ragioni differenti, di intraprendere un viaggio nel baratro del tempo, sull’isola di Goli Otok, in quello che fu il campo di prigionia di Vera. Memoria ingannevole e allo stesso tempo scolpita come pietra, amore incondizionato e irruzione tragica della Storia, patto generazionale e dramma familiare: nelle mani di altri scrittori tale e tanto materiale sarebbe deragliato verso un melò lacrimevole e insostenibile. Ma, fortunatamente per noi, Grossman non è uno scrittore come altri.
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Christopher Kloeble, Quasi tutto velocissimo, Keller editore, 2019, 382 pagine, traduzione di Scilla Forti
Fred ha sessant’anni ma è come se ne avesse sei. Ad accudirlo come un padre è stato suo figlio Albert, diciannove anni appena compiuti, cresciuto senza madre in un orfanotrofio gestito da suore, nel cuore della Baviera. Il loro tempo è scaduto, a Fred, che ha passato la vita a contare le macchine verdi passare per strada o a leggere voluminosi vocabolari, mancano pochi mesi di vita. Albert, prima di perderlo, decide di scoprire le sue origini, di sapere chi era davvero sua madre. Ma Fred, l’unico custode della verità, non può essergli d’aiuto. È solo un peso, “un quarto di genitore”, un incapace.
Messa così sembra una storia triste. Ed in effetti i personaggi e le situazioni che Christopher Kloeble mette in campo, sono intimamente tragici: storie di povertà estrema, di manie, di incesti, di infanticidi, di guerre e di follia. Ma la forza di Quasi tutto velocissimo sta nella capacità di rendere credibile anche il più incredibile dei personaggi, di rendere appassionante anche la situazione più urticante. E ce ne sono tanti di personaggi, uno più eccentrico, sbalestrato, surreale dell’altro. Tutti assolutamente sopra le righe, come se, viene da credere, nelle prealpi bavaresi possano vivere solo freak, matti, inetti o klöble, come li chiama l’autore, evidentemente autoironico.
Eppure nessuno di questi viene trattato come un mostro da baraccone. In questa ricerca delle origini, con una storia parallela che parte un secolo prima e si ricongiunge solo alla fine alla trama principale, Kloeble sembra dirci che la norma, nella vita, è l’eccentricità, che le regole sociali sono puro artificio, che dentro ognuno di noi alligna l’assurdo, il torbido, il primitivo, il lutto. Ma anche la compassione, l’amore e persino estasianti momenti di pura felicità.
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(pubblicati precedentemente su Cooperazione nel 2020)
[Per gentile concessione dell’autore, pubblichiamo un estratto da Il clan Nabokov. Quando l’erede è il traduttore, Mimesis, 2022.]
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di Chiara Montini
Vera e Vladimir Nabokov decidono di far entrare anche il figlio al servizio della loro piccola impresa letteraria, in principio affidandogli traduzioni sotto la loro supervisione e responsabilità. Non vogliono in alcun modo forzare la mano, ma desiderano trasmettere al discendente l’idea che quell’impresa è e sarà anche sua. È una sfida, soprattutto se pensiamo che Nabokov rappresentava il traduttore in catene. Difficile immaginare Dmitri incatenato a una scrivania a scervellarsi su come tradurre gli impossibili giochi di parole nabokoviani. Con quella bella voce da basso profondo, la passione per gli sport estremi e la velocità, l’attrazione seriale per le donne, il suo metro e novantanove di fascino, Dmitri sembra poco portato per un mestiere introspettivo e sedentario come la traduzione. Ma i genitori non si arrendono, e tentano di “instillare in lui un’etica lavorativa offrendogli allo stesso tempo una professione nel caso non avesse successo come basso, in modo da assicurarsi, tra l’altro, che l’opera di Nabokov restasse un affare di famiglia.”
Che il suo destino fosse già segnato quando Vera gli leggeva la traduzione russa di Alice nel paese delle meraviglie? Oppure quando, quattordicenne, affronterà per la prima volta un romanzo del padre? Quella prima lettura, Un mondo sinistro, deve essere stato il frutto di una scelta ponderata. È anche una dichiarazione di amore. Il protagonista, Krug, resta attonito di fronte all’affetto infinito che lo lega al figlio facendo eco ai sentimenti dell’autore evocati in Speak, memory. O forse quel disegno comincia a prendere forma quando, dopo aver sondato le reazioni del figlio, gli verranno date a turno tutte le opere nabokoviane in lettura? Comunque siano andate le cose, si tesse nel tempo un filo indissolubile che lega l’attività del grande Nabokov al piccolo. Quel filo passa dapprima attraverso le lingue, poi la letteratura e infine la traduzione. Il progetto si realizza il giorno in cui i Nabokov decidono di lavorare insieme alla traduzione di A Hero of Our Time, il capolavoro di Lermontov.
Un impiegato reticente
L’iniziazione che dovrebbe permettere a Dmitri di entrare a pieno titolo nella piccola impresa a conduzione familiare si farà quindi su un romanzo di un “estraneo”, cioè di uno scrittore che non è il padre. Quando Nabokov chiede a Epstein l’incarico di tradurre il classico di Lermontov in collaborazione con il figlio si pone a garante di questo primo lavoro. In una lettera indirizzata all’editore non esita a decantare i meriti di Dmitri, ancora inesperto, con un tantino di esagerazione:
“Il mio protégé altri non è che mio figlio, il quale terminerà il primo ciclo di studi a Harvard in primavera. È un giovane slavista nonché un autore americano emergente. Ha fatto alcune traduzioni molto lodevoli per me, e m’impegnerei a verificare, rivedere e lavorare sul testo proposto.”
Pur lodando il rampollo per le sue doti e per le sue capacità, Vladimir Nabokov si assume la responsabilità sul testo finito per rassicurare l’editore. Cosa comprensibile, poiché la traduzione di A Hero è una prova, un trampolino di lancio per entrare a far parte dell’impresa V&V Nabokov.
Quando Dmitri affronta Lermontov ha la stessa età del padre all’epoca in cui traduceva Colas Breugnon di Romain Rolland (Nikolka Persik). Come il padre, non intraprende il lavoro con particolare entusiasmo perché, come il padre ai tempi di quel lavoro, ha ben altre priorità. Ma se Nabokov, nonostante la procrastinazione iniziale, terminerà con successo, autonomamente e in breve tempo il compito affidatogli, il figlio non finirà la traduzione, ma delegherà ai genitori. A questo proposito Vera scrive sconsolata: “Lo scorso anno Dmitri ha cominciato una traduzione per Doubleday e quest’estate V[ladimir] l’ha finita nell’Utah. Anch’io ho fatto la mia parte”. Eppure, Vera aveva dispensato severi e rigorosi consigli a Dmitri affinché portasse a termine la sua mansione: occorreva conoscere a fondo l’opera, l’epoca e i costumi, leggere le altre traduzioni senza plagiarle, tradurre ogni giorno della settimana senza santificare le feste e dedicare a ogni pagina almeno un’ora e mezzo. Per mitigare quei rigidi imperativi offriva l’assistenza incondizionata sua e del marito. E difatti fu lei a occuparsi del contratto a nome del figlio così come fu lei ad accollarsi gran parte delle prime bozze. Il marito si fa invece carico della revisione e della stesura finale. Con l’ironia che lo distingue, riassume all’amico Edmund Wilson la distribuzione dei compiti come segue: “Dmitri ci ha dato una mano, a me e a Vera, per la nostra traduzione di Lermontov”. Pur portando la firma congiunta di Dmitri e Vladimir Nabokov, indispensabile fu la partecipazione di Vera alla traduzione cui il figlio contribuì in minima parte. Più tardi, non senza un certo insolente candore, ammetterà quanto poco si fosse impegnato in quell’occasione:
“Il primo testo che tradussi con Nabokov non era scritto di suo pugno. Si trattava di Un eroe del nostro tempo di Lermontov. Cominciai il lavoro poco dopo aver terminato gli studi a Harvard per poi continuare, con una buona dose di procrastinazione, nel corso di due inverni di scuola di musica a Cambridge e un’estate di scalate nelle montagne nella Columbia Britannica. Durante un lungo soggiorno a Cambridge nell’inverno del 1955-56, mio Padre usava prendermi in giro con una punta di risentimento ogni volta che si imbatteva nella mia vecchia MG eternamente decappottata, al cui interno si trovava, insieme ad ogni sorta di attrezzatura sportiva, una copia russa del volume di Lermontov in balia delle intemperie, talvolta ricoperta di neve, aperta per giorni e giorni sulla stessa pagina, di cui controllava il numero che annotava con cura.”
Quel tono ironico, che talvolta eguaglia quello del genitore, è eloquente. La dice lunga su quali fossero le sue priorità all’epoca in cui esordisce come traduttore: la musica, le scalate, la sua vecchia auto, vari sport più o meno pericolosi, e infine la traduzione. Queste attività furono il suo vanto e… croce e delizia dei genitori. Tra l’ingenuo e il faceto Dmitri si pavoneggia: “Il risultato di queste fatiche, alla fine, con una piccola lucidatura di Vladimir e Vera Nabokov è soddisfacente, accurato e leggibile, e la nostra traduzione è diventata un testo di riferimento in molti corsi di letteratura russa.”
Da quel momento, Dmitri comincerà a tradurre esclusivamente le opere del padre dal russo all’inglese e, contrariamente alla madre che agisce in sordina, si distinguerà esibendo la propria firma su tutte le traduzioni in collaborazione con il padre, compreso, ovviamente, A Hero of Our Time.
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Trl (Traduzione a responsabilità limitata)
Forse l’esperienza ha insegnato ai genitori che, visti i problemi riscontrati nel tradurre il capolavoro di Lermontov, il repertorio del figlio dovrebbe “limitarsi” all’opera del padre. L’amato Dmitri ha alcuni vantaggi innegabili per continuare su quella strada: conosce le lingue, l’opera e il lessico paterno meglio di chiunque altro che non sia la madre.
Inoltre, nella sua qualità di figlio di esuli sa bene che cosa significa vivere tra le lingue. La sua biografia è poliglotta, come quella dei genitori e come l’opera paterna. In casa parla russo, ma abbiamo visto che nasce a Berlino per trasferirsi in Francia poi negli Stati Uniti dove si “americanizza”, in Italia e infine in Svizzera. La madrelingua, o meglio la lingua naturale, per lui non è quella della madre, bensì l’inglese che impara a parlare come un autoctono. Un inglese che, contrariamente a quello di Nabokov, eccellente ed erudito, è attuale, idiomatico, spontaneo. Quanto al russo, lo conosce abbastanza bene da poterlo tradurre, anche se sembra fosse “spaventoso” allo scritto: “al suo primo anno di università, Vladimir scriveva a Roman Jakobson, il famoso linguista strutturalista di Harvard, per dirgli che il ragazzo “non vedeva l’ora di seguire i suoi corsi” e aveva urgente bisogno di studiare la grammatica”. Conosce, inoltre, l’opera del padre. I Nabokov gliene leggono i testi ad alta voce fin dalla sua tenera età per poi darglieli in lettura quando è in grado di capirli. Raggiunta la maturità necessaria, parteciperà alla sua attività creativa come ascoltatore e testimone delle discussioni tra i genitori. Serena Vitale, traduttrice di Vladimir Nabokov, nonché forse l’unica donna che Dmitri fu davvero sul punto di sposare, sostiene che era “– anche per i discorsi sentiti in casa, per quello che gli diceva la madre – uno dei migliori ‘lettori’ dell’opera del padre, capace di intendere sfumature e sottintesi, ecc., che anche a un buon traduttore sfuggono”. Dmitri riconosce con umile onestà quel privilegio:
“Leggere, rileggere e riflettere sulle opere di mio padre col beneficio di averlo conosciuto intimamente, è sicuramente uno di questi. Un altro è l’accesso a materiale privato, che mi permette di sbirciare attraverso gli interstizi e addentrarmi nei meandri del processo creativo nabokoviano. Ultimo e principale è mia madre, che pur nella sua grande modestia, è una studiosa brillante e vanta una conoscenza enciclopedica di Nabokov, della letteratura e delle cose in generale.”
Mettendo il figlio a tradurre il padre, i Nabokov rinforzano l’idea di un’impresa familiare che divulga l’opera del grande autore in varie lingue. Se l’impresa nasce quasi per caso dall’amore tra Vera e Vladimir Nabokov e dalla loro comune passione per le lettere, l’unico figlio della coppia deve la sua posizione di traduttore a contingenze più materiali, a un tentativo di arginare le sue energie centrifughe. Quando Dmitri termina gli studi a Harvard, Nabokov si è potuto guadagnare una certa fama anche negli Stati Uniti. Il lavoro di Vera cresce proporzionalmente a quel successo e occorre qualcuno che possa aiutarla. Dmitri, con l’ausilio del padre e della madre, potrà fare le veci di quel tanto anelato e introvabile “traduttore ideale”. Non possiamo certo affermare che la sua prima traduzione in collaborazione, A Hero, sia stata un esempio di virtuosismo ed etica professionale. Abbiamo visto che il lavoro andò a buon fine solo perché se l’accollarono in gran parte i genitori.
Perché allora entrambe le parti si ostinano a fare di lui un traduttore? Che Dmitri trovi più stimolante tradurre l’opera del padre? Vi sono ragioni per crederlo. Meriterà le lodi dei genitori per la sua versione inglese della sua seconda traduzione (la prima di un testo di Nabokov): Invitation to a Beheading, Invito a una decapitazione. Forse non è un caso che quella traduzione fosse già stata cominciata da Vera, pur restando nel cassetto. Comunque siano andate le cose, quella prima traduzione di un testo di Nabokov pare aprire la strada a nuove responsabilità: “Vladimir è stato felicissimo di sapere che Invitation ti è piaciuto”, scrive Vera Nabokov a Morris Bishop: “Il povero Dmitri non ha avuto grandi riconoscimenti dai giornali, è vero. Per motivi di copyright, era necessario specificare che questa traduzione era stata eseguita “in collaborazione con l’autore”. La prossima volta sarà diverso”.
E invece no, non “sarà diverso” (c’è da chiedersi se Vera crede davvero a quanto scrive). Nabokov continuerà a puntualizzare sistematicamente che le traduzioni inglesi dei suoi testi sono il frutto di una collaborazione con l’autore, il quale si riterrà unico responsabile del risultato finale. Non mi è stato possibile ritrovare i manoscritti di Invitation per poter stabilire quale fu il rispettivo contributo del padre della madre e del figlio, ma come spiega senza malizia lo stesso Dmitri Nabokov in saggi pubblicati dopo la morte dell’autore, la ripartizione dei ruoli è chiara e immutabile: “Il mio compito” –– afferma in un’intervista rilasciata a France Culture – “era di procurargli una traduzione molto, molto letterale che conteneva varie possibilità. Tra queste [Nabokov] ne sceglieva una.” Poi conferma: “La mia versione fungeva da ‘base’, spesso trovava espressioni un po’ maldestre nell’originale che eliminava traducendo […] Gli lasciavo carta bianca. Sapeva che non avrebbe ferito il mio amor proprio di traduttore”. Non contesterà mai né il sapere né l’autorità paterna che gli sono anzi indispensabili:
“I problemi di traduzione, quando mio padre era ancora in vita, si risolvevano facilmente qualora si trovasse nelle vicinanze, a Ithaca, Cambridge, o Montreux. In tal caso, mi potevo rivolgere direttamente a lui. Altrimenti, per certe parole o frasi fornivo due o più opzioni con diverse sfumature. Spesso sceglieva quella che preferiva: in altri casi, invece, rifiutava le alternative proposte e se ne usciva con una brillante trovata nabokoviana che non mi aveva neppure sfiorato la mente. Tra noi regnava un patto inviolabile. Io avrei procurato la traduzione più letterale possibile, sulla quale lui aveva tutta la libertà che desiderava. Talvolta, come nel caso di King, Queen, Knave (Re, regina, fante), aggiungeva o riscriveva interi brani. Oppure, come in “Solus Rex”, o nel capitolo dei Chernyeshevskij in The Gift (Il dono), reinseriva passaggi che erano stati sostituiti da punti di sospensione allo scopo di aggirare i pregiudizi della censura di un’era passata.”
[…] Quando entra a pieno titolo nell’impresa familiare, la collaborazione con Nabokov assomiglia a una pratica di autotraduzione laddove il collaboratore rappresenterebbe una sorta di amanuense specializzato nell’altra lingua. E la sua bozza servirebbe soprattutto a sgravare l’autore dalla parte più cronofagica e prosaica del lavoro. Mai i genitori si lamenteranno pubblicamente dell’operato del figlio che godeva della loro stima e del loro appoggio incondizionato. Il padre, in particolar modo, si dimostrava sempre molto elogiativo nei confronti di quel “traduttore meravigliosamente congeniale” e considera, tra l’altro, la traduzione di Glory “superlativa”, e “splendida” quella di Cose Trasparenti in italiano firmata dal solo Dmitri. Ma Nabokov senior non conosceva quella lingua, come ammetterà in seguito lo stesso Dmitri per criticare un’altra traduzione italiana incensata dal genitore, quella di Lolita ad opera di Bruno Oddera.
Una cosa i Nabokov l’hanno capita. Nessuna pressione sul figlio lo distrarrà dalle sue attività preferite e prioritarie. Quando non sarà disponibile, si rassegneranno e affideranno la traduzione ad altri bilingui anglofoni. È quanto avviene per Дар, poi The Gift (Il dono), di cui Dmitri traduce il primo capitolo per passare la penna a Scammel. Questi incidenti di percorso non scalfiscono il progetto e la gestione dell’opera di Nabokov resta principalmente un affare di famiglia. Ma a che prezzo?
Sembra quasi che, in attesa del momento ineluttabile in cui il grande autore verrà a mancare, i Nabokov, uniti da un interesse comune, preparino il matrimonio a venire di Dmitri con l’opera, in un gioco di specchi e in un succedersi di ruoli che sfiora l’identificazione. Eppure, almeno in principio, la posta in gioco non è la stessa per i genitori e per il figlio. Non sarà la morte del padre a far precipitare gli eventi e a convincerlo a scegliere la strada tracciatagli dai genitori, bensì un incidente che gli fu fatale.

di Giorgio Sica
Ispirato dalla poesia che canta il ritorno al paese, al selvaggio borgo natio che assurge a luogo di purezza ed eroico furore, dove poter amare davvero la donna, liberata dalla retorica stilnovista e tornata finalmente femmina, ho composto un piccolo ciclo di componimenti dal titolo ‘O paese – dedicato a chi sa prendersi una vacanza intorno a una poiana, e perdersi in un filo d’erba.
Cedi il cammino agli alberi
lascia il passo alle pecore
è loro la strada dalla notte dei tempi.
Smettila di pensare
incidi il tuo nome sulla corteccia.
Sii come la poiana, la formica, l’arancia
sii una scarpa infangata nella terra.
Sali al paese a bere del vino
il vino forte sincero spremuto
con i piedi rugosi di zio Tonino.
E sarà l’ebbrezza e la gaiezza
di un tuffo a pesce nella selva oscura
tra le mammelle mature di Annina
che conserva negli occhi ovini
lo splendore del latte.
***
“Togliti le mutande”
provai a dirle con la cura
del prete, la dolcezza
della farfalla.
Volevo attentare alla sua noia
molestare la sua indifferenza
risvegliarla come il lombrico
che fa il buco nella mela.
Ma a nulla servì
la mia ostinazione
devota di formica
e cinque dita, feroci,
bruciano ancora sulla guancia.
***
Una mucca ci deve stare
Non so per cosa
Ma una mucca ci deve stare
Come ci sono le donne, le poiane
Come ci sono i calanchi.
Ci deve essere una mucca
Che sia latte e dio
E carne fresca.
***
Alcune vacche hanno un odore
in fondo alla gola,
un odore dell’essere,
e poi c’è la forma del naso,
la luce delle costole, la voce del campanaccio,
il desiderio che trancia i polsi,
che riempie le vene
di animali fucsia.
Alcune vacche hanno gesti assoluti
dolcezze furibonde.
***
ti cercherò quando più non sarai.
forse non esiste la vita dopo la morte
l’aulivo dopo il calanco
il silenzio dopo il muggito.
Ma getterò i miei elettroni a scatafascio nell’universo
dentro una rana
una femmina
una scarpa.
***
Portami con te
dietro al bar, sotto le fronne dell’aulivo
sul bordo del calanco, portami con te
dentro al caffè, al pronto soccorso
spiegami all’infermiere,
salvami dalla suora e dalla furia
del barelliere.
Portami dal meccanico, portami dal dentista
dal fabbro che il ferro batte
portami dall’anestesista,
che m’addormenti il cuore.
Ma risparmiami l’idraulico e bacia
il filo teso di questo amore
con quella lingua bovina
profumata d’erba.
***
ERMETICA
Furono guance e froge oppure branchie
lo scintillio fugace della perla
l’estasi del campanaccio.
Sempre amore mi mosse
e l’eco della luna
il grido della vacchetella
persa nell’inchiostro
del calanco.
***
Trovati uno scalino, siediti e riposa.
Sfogliala piano questa tua rosa,
petalo a petalo, mentre parli del vino,
mentre lo bevi con lo zio Tonino.
Aspetta che scenda la notte
saluta le stelle, svuota la botte
e corri alla casa di tutta una vita.
Prendi il quaderno, la gomma e la matita.
È così facile essere un poeta.
di Arjuna Cecchetti

Okay, vederla tuffarsi dal pontile non era da mozzare il fiato, le mancava qualche curva nei punti giusti, per lo stesso motivo non mozzava il fiato nemmeno quando risaliva spingendo con le braccia sulle tavole di legno. Però Willy era capace di stenderti nel bel mezzo di una mattina indaffarata, nella calca lungo i corridoi della scuola, fra i tavoli della mensa e ovunque capitasse di incontrarla. Willy era in grado di stenderti persino in quei giorni in cui tutto sembra andare storto e sei costretto a pensare a un mucchio di cose senza senso. Willy ti mozzava il fiato perché non aveva mai fretta, aveva l’aria di essere concentrata su quello che stava facendo nel preciso momento in cui era. Willy non possedeva alcuna abitudine che la proiettasse avanti nel tempo. Non truccava gli occhi e non usava profumi dolciastri, insomma, non tentava in alcun modo di distrarre gli altri su ciò che stava accadendo. Non prometteva nessun dopo. Ad esempio durante uno scambio di battute con un sandwich in mano, Willy dava l’impressione di seguire il discorso e non di pensare a tutt’altra cosa. In quel momento era capace di stenderti, non lo faceva a posta, era solo colpa degli occhi rotondi, dei capelli in ordine color biondo cenere e delle sue labbra che erano mai chiuse sul serio, lasciando uno spazio aperto che ricordava le cose desiderate. Il resto della realtà sfumava, diventava uno sfondo con l’unico scopo di incorniciarle il volto.
Era per tutto questo che Diego aveva deciso di uscirci, che l’aveva baciata e che ci aveva fatto l’amore, ma era successo in inverno e non sarebbe dovuto durare tanto.
“Di’, non fa troppo caldo? Forse non è stata una buona idea venire.”
Willy non rispose, rimase ferma in piedi a sgocciolare sulle tavole del pontile.
“A cosa stai pensando Willy?”
“Venivo qui da bambina.”
“E ti piace davvero qui?”
“Mi ci portava papà, lui si metteva laggiù.”
Willy fece il gesto di tirare indietro la canna da pesca come quando il pesce abbocca.
“Di’, hai mai provato?”
“Qualche volta, ma lo trovavo noioso, preferivo fare il bagno anche se gli spaventavo i pesci. Perché non fai un tuffo?”
“L’acqua è marcia, come fai tu a tuffarti?”
Willy di nuovo non rispose, si era distesa sulle tavole del pontile, le gocce scivolavano dal suo corpo bianco fino alle assi. Willy luccicava al sole. Il corpo di quella ragazza non possedeva le curve di Mary, questo gli era evidente. Mary sapeva muoversi così come piaceva a lui, e non solo a lui. Mary era un’altra cosa, i suoi amici lo avrebbero invidiato se fosse arrivato con lei. Invece quando c’era Willy con lui, le poche volte che erano stati al cinema oppure in un locale del centro, i ragazzi erano sempre impacciati, niente battute, niente argomenti, niente risate. Willy non era mai impacciata o forse lo era sempre. In ogni caso anche lui non era del tutto a suo agio quando c’era Willy e i suoi amici nello stesso posto.
Erano passati lunghi minuti e lei non si era mossa. Supina sul pontile, respirava lentamente, ma lui era certo che non dormisse. Una o due volte una carpa dal ventre verdastro si era rigirata sulla superficie del lago sbattendo sull’acqua scura. Un istante dopo una folata di brezza calda aveva fatto rumoreggiare il canneto. Nient’altro si era mosso in quel posto per tutto quel tempo.
Diego stesso non aveva cambiato posizione, le gambe cominciavano ad indolenzirsi. Da un’ora quasi se ne stava nell’unica porzione del pontile dove il canneto circostante riusciva a proiettare un’ombra secca e frastagliata.
“Che facciamo stasera? I ragazzi si vedono al bar, poi andranno sicuramente da Luca, è il compleanno della sorella. Hanno la piscina. Ti piacerebbe?”
“Mi piacerebbe.”
Era a lui che non sarebbe piaciuto. Non gli piaceva mai quando c’era Willy in mezzo ai suoi amici. Peggio era quando c’erano Willy, gli amici e una festa. Gli sarebbe toccata la solita recita. Starsene tranquillo per gran parte della serata e poi trovare un modo di riportare Willy dai suoi il prima possibile. E solo dopo averla vista risalire per il vialetto di ghiaia e dopo aver visto la luce dell’ingresso accendersi, lui avrebbe rimesso in prima l’automobile e sarebbe tornato alla festa a fare finalmente quello che gli riusciva bene. Mettersi in mostra, farsi vedere da Mary, farsi vedere dagli altri e dimostrare al mondo che nella sua vita Willy era un breve sbaglio di cui si sarebbe liberato presto.
Presto ma quando?
“Di’, ma non dici che ti annoi con loro?”
“No.”
“Sicura che vuoi andare?”
“Io vengo se ti va di andare insieme. Non sono stata invitata, non posso presentarmi da sola.”
Non c’era nessun segno di irritazione nella voce di Willy, non era il tipo da irritarsi per quel genere di cose.
“Puoi fare ciò che vuoi Willy. I miei amici sono i tuoi. Quanti mesi sono che usciamo insieme?”
“Dal cinque febbraio, sono sei.”
Lui non pensava fossero così tanti. Willy teneva le palpebre abbassate, non lo stava guardando. Lui prese a contare i mesi con le dita della mani. Sei. Tanti.
“Andiamo?”
“Un attimo. L’acqua era fredda e il sole mi sta asciugando, vorrei restare un altro po’ per fargli finire l’opera.”
Il ventre piatto si alzava leggermente ad ogni respiro. Il bikini umido lasciava emergere i capezzoli. Il seno era piccolo e certe volte sul letto, sorridendo, lei si era scusata con lui per non avere un bel seno come piace ai maschi. Ma lui non pensava a quel seno acerbo come a qualcosa che non andasse. Willy non era quel genere di bellezza. Almeno su questo lui era d’accordo con sé stesso, Willy le era piaciuta per altro. Per cosa?
“Puoi passarmi il telo?”
La spugna bianca rifletteva il sole abbagliando. Afferrò il telo e lo lanciò attraverso l’aria immobile dell’estate. Il telo atterrò accanto a lei.
“Grazie.”
Lei si mise seduta dandogli la schiena, avvolgendo le spalle con la spugna.
“Ci sono quasi.”
Nel frattempo lui aveva preso la canottiera azzurra di Willy. La canottiera era stata là, piegata tutto il tempo, accanto alla gonna. Diego ci stava affondando il naso, cercava l’odore di Willy. Lei aveva un odore suo. Le altre sembravano sempre non averne. Willy era ancora di spalle e poi si è alzata. Era in piedi a pochi passi da lui. Migliaia di riflessi si alzavano dalla superficie dell’acqua, i bagliori illuminavano lo spazio attorno alle gambe magre e dritte. Cosa ne sarebbe stato di lei se l’avesse lasciata? Doveva convincersi che non era affar suo cosa ne sarebbe stato. L’avrebbe lasciata senz’altro. Sei mesi è tanto tempo. Ma non si erano visti spesso, tre o quattro volte al mese, nelle ultime settimane anche meno. Quel sabato avevano deciso di passare il pomeriggio al lago proprio perché non si vedevano da alcuni giorni. Dalla fine delle lezioni addirittura. Lui trasse un respiro profondo, più profondo di altri. Cercò le sigarette. Erano accanto alla gonna di lei. Ne accese una.
“Vuoi una sigaretta?”
“Si.”
“Prendi.”
Willy ne prese una con le dita leggermente bagnate e provò inutilmente ad accenderla con l’accendino.
“Tieni, prendi la mia.”
Lui ne accese un’altra. Erano più vicini ora. Cosa aveva Willy, perché ancora non era uscita dalla sua vita?
“Quindi stasera?”
“C’ho riflettuto. Andiamo insieme. Ma non devo passare da casa, se passo dai miei poi non mi fanno uscire un’altra volta.”
“Ma dovrai fare una doccia, cambiarti. Queste cose qui, no?”
“La doccia posso farla da te, e per i vestiti vanno bene questi, li ho messi puliti.”
“Dio mio è pur sempre un compleanno! Ci vorrà un vestito, un paio di orecchini, che ne so io.”
“Non irritarti su.”
“Chi si irrita! È solo che sei così… Così difficile.”
Mentre diceva questo non era potuto rimanere seduto, si era alzato, pronto per tornare all’automobile del padre.”Dai vestiamoci.” Quindi, Diego, aveva indossato la camicia. Willy, invece, aveva ancora il telo bianco sulle spalle e la sigaretta in mano. Fece cadere il telo e poi tentò di tirare su la gonna continuando a fumare. Tolse il costume bagnato e indossò le mutandine. Tenendo la sigaretta fra le labbra sganciò il bikini.
“Ti dispiace passarmela?”
Lui prese la canottiera azzurra, desiderava annusarla un’ultima volta, ma lei lo stava guardando. Willy la infilò senza smettere di fumare.
“Guarda!”
“Cosa?”
“Là.”
Willy stava indicando una macchia scura sul cielo azzurro.
“Quello è un nibbio bruno. Potrebbero essercene molti da queste parti. Sono strani i nibbi.”
“Sono falchi no?”
“Più o meno. Guarda deve aver visto qualcosa. Restiamo immobili.”
Rimasero fermi. Il nibbio aveva smesso di volteggiare sopra le acque nere del lago. Il sole era alto, l’azzurro del cielo era infinito. La sagoma del rapace si stagliava scura mentre i raggi solari attraversavano le penne della coda biforcuta. Poi il rapace si era gettato in picchiata verso l’acqua, tuffando gli artigli sotto la superficie, alzando schizzi argentati e sbattendo le ali per rallentare e ripartire. Infine era risalito in alto con qualcosa di guizzante fra gli artigli. Il pesce aveva continuato a mandare riflessi per tutto il resto del volo, poi il nibbio era sparito fra le chiome dei salici circostanti.
“Siamo stati fortunati.”
“Bello, si. Era un pesce quello, giusto Willy?”
“Si. Siamo stati fortunati. Quante altre volte ci capiterà di vedere un nibbio che pesca? Io dico al massimo altre due o tre volte nella vita.”
“Una volta mi ha attraversato un’istrice.” In realtà, Diego, non sapeva perché avesse detto dell’istrice. Il suo obiettivo era interrompere la conversazione, tornare all’automobile, lasciarsi il lago alle spalle, viaggiare col finestrino abbassato per togliersi la calura di dosso e riportare Willy dai suoi. Ci sarebbe stato bene un gelato, magari, per non essere scortese. Allora perché dire dell’istrice e allungare la conversazione?
“Spero tu non lo abbia investito.”
“Ma no, i fari lo hanno illuminato. Ricordo che all’inizio non avevo capito cosa fosse. Cioè chi se lo aspettava un istrice con gli aculei bianchi e neri in mezzo alla strada. Era appena dopo la curva. Ma ti va un gelato… Un drink?” Ecco, la conversazione ora doveva virare sul viaggio di ritorno.
“Ha fatto rumore?”
“Chi?”
“L’istrice.”
“Non so, no.” Invece si. Diego ricordava quel rumore, c’era stato un fischio, una specie di fischio, e poi gli aculei avevano sbattuto fra loro producendo un suono che era stato come quando passa il vento ripetutamente fra la chioma di un albero. L’animale impaurito aveva tremato a lungo in mezzo alla strada e gli aculei avevano continuato a sbattere e lui aveva continuato a sentire quel rumore che era difficile da spiegare soprattutto su un animale vivo. Solo dopo qualche istante l’istrice era ritornato oltre il margine della strada, dentro i cespugli. Era accaduto due o tre anni prima, perché se ne ricordava ancora?
“Andiamo adesso, Willy, ti prego.”
“Eccomi, metto i sandali.”
Anche lui aveva bisogno delle scarpe.
“Willy, hai visto i miei mocassini?”
“Forse li hai tolti quando eravamo in auto?”
Probabilmente aveva tolto i mocassini quando si erano baciati, in auto, prima di scendere. Quando lui aveva creduto di poter fare l’amore e lei aveva detto invece che desiderava tuffarsi il prima possibile per colpa del caldo. Ma i mocassini non erano nell’auto. Lui fece vagare lo sguardo attraverso la densa aria bollente che stagnava sul lago e poi li vide. Li aveva lasciati all’inizio del pontile. Certo che sarebbe stato piacevole fare l’amore un’altra volta con Willy. Magari poteva avvicinarsi e abbracciarla da dietro e farlo lì sul pontile. C’erano solo loro due in quel posto dimenticato. Una volta ancora e poi l’avrebbe lasciata. Doveva lasciarla. Mary glielo aveva chiesto esplicitamente. Una sera gli aveva detto Come fai a uscire con lei? È pazza, lo sanno tutti. Non voglio dividerti con lei, ti do una settimana dopodiché fra noi è finita.
I suoi mocassini di ottima pelle erano là, dove terminava la sponda del lago e cominciavano le assi del pontile. Si abbassò per prenderli e la puzza di melma lacustre gli entrò nel naso. Sbuffò dalle narici per ricacciarla fuori. Intorno a lui ronzavano gli insetti neri. Che diavolo ci faceva lì insieme a Willy?
Lei aveva infilato i sandali, era pronta, aveva la borsa di tela sulla spalla e stava guardando verso il lago un’ultima volta. Intorno a lei il verde della vegetazione e lo scuro dell’acqua erano sovrastati dalla calura estiva. Nulla sembrava muoversi. Solo quei maledetti moscerini che lo stavano aggredendo mentre infilava le scarpe. Perché accettava questo?
Improvvisamente qualcosa si mosse difronte a lui, qualcosa che era dentro alla melma nera del lago, qualcosa di viscido e goffo. Un rospo si era mosso fra il fango vischioso. Ora che lo aveva individuato poteva osservarlo bene. L’anfibio stava scalando una zolla di fango fra la decomposizione vegetale depositata sul fondo del canneto. Le zampe posteriori scalciavano a vuoto nel tentativo di allontanarsi. Quel rospo stava scappando da lui? Avrebbe potuto allungare una mano e afferrarlo. Aveva l’impulso di farlo. Lo stava per fare. Il braccio era pronto, la mano era aperta e le dita protese. Ma perché?
Si voltò di scatto, dovevano andarsene subito. Si voltò verso il pontile. Era vuoto. Willy non c’era, le sue cose non c’erano, il pacchetto di sigarette non c’era, l’automobile non c’era, la serata al compleanno non c’era, i cocktail non c’erano, la musica non c’era, Mary non c’era, la piscina non c’era. C’era solo lui a nove anni, coi piedi nudi sulle tavole del pontile, la schiena abbronzata, il torso nudo, la collana di perline rosse, i capelli ricci sconvolti dalla corsa e un sorriso di soddisfazione sul viso sudato. C’era lui a nove anni sulla punta di quel pontile sopra le acque scure del lago.
Il bambino si era voltato verso gli amici. Laggiù, fra le canne palustri, stavano avanzando il fratellino mezzano e la sorella minore, anche loro affannati dalla corsa. E poi c’era una quarta bambina, una bambina alta e magra, senza maglietta. La schiena era dritta e i capelli di paglia le scendevano lunghi fino al petto e fra le ciocche chiare, lui, aveva notato i seni appena accennati. Willy.
E allora il lui bambino di nove anni ha cominciato a ridere, a ridere rumorosamente. Fiero, ha mostrato agli altri bambini del lago quello di cui era capace, alzando il braccio verso l’azzurro del cielo e mostrando loro il grosso rospo nero che teneva per una zampetta. Il rospo scalciava l’aria e la pelle viscida dell’anfibio riluceva al sole di Luglio.

di Nick Casini
[Ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale]
Felix è il primo maltese che conosco in vita mia che non sia un cane. Ma non è lui ad accogliermi, al suo posto ha lasciato un ragazzino che ci dice che Felix is not there, is at the beach, come se essere in spiaggia fosse una scusa valida per non farsi trovare al lavoro. Per il ragazzino, però, è tutto normale: ha un’espressione disillusa, arresa all’irrealizzabilità della vita come quella di un architetto finito a fare l’amministratore condominiale. Mi aiuta con i bagagli senza dire altro, struscia i piedi su per un’ampia scalinata marrone con corrimano bianchi e mi accompagna al secondo piano della back villa, la parte meno lussuosa della guest house. È un edificio in stile georgiano-giamaicano di epoca coloniale, di un giallo paglierino molto chiaro abbracciato da colonne senza capitelli, stucchi decorativi e balaustre dai motivi arcuati. L’arredamento è composto da divanetti di legno che fanno venire il mal di schiena solo a guardarli, tappeti di juta e plafoniere in ferro e vetro opalino. La mia stanza si chiama Rodinia, che è il nome dell’antico supercontinente in cui il Congo era un quartiere di San Francisco e l’Australia si trovava ad un tiro di schioppo dalla Siberia. Questo, però, succedeva un miliardo di anni fa, mentre adesso Rodinia è solo una grossa camera con un enorme letto cigolante, un materasso spesso cinquanta centimetri e un bagno delle dimensioni di un monolocale di quelli che a Milano vengo affittati a mille euro al mese (più spese). La stanza ha pure una terrazza di forma semicircolare presa d’assalto dall’arrembante vegetazione giamaicana, che si arrampica tutto intorno come una bestia affamata. In lontananza, bruciate dal sole, si allungano le onde della Cocoa Walk Bay. Una sistemazione niente male.
Felix lo incontro solo a pomeriggio inoltrato. È un tipo segaligno con il pizzetto, trent’anni suonati; indossa una camicia dai motivi floreali, un costume da bagno e tiene i dreadlocks arrotolati sulla testa in una specie di crocchia. Ha lo sguardo vacuo del fumatore d’erba incallito, e infatti ci appartiamo subito a fumare marjuana in una scala che dà sul retro, lontano dagli occhi degli altri ospiti che non si sa mai come la pensino al riguardo. Contrariamente a quanto credessi, fumare marjuana in pubblico, in Giamaica, non è legale (anche se ampiamente tollerato) e Felix, in veste di gestore della struttura, non vuole dare l’impressione di infischiarsene della legge, soprattutto agli occhi degli ospiti giamaicani che, come tutti gli autoctoni del mondo, non amano gli stranieri che si sentono al di sopra delle regole. Dopo avermi passato lo spinello, mi mostra con orgoglio una collezione di vasi dove coltiva salvia, basilico, prezzemolo, menta e una pianta carnivora dal fiore simile ad una bocca di carpa che nutre con piccoli insetti. Tutto molto bello, anche se a spiccare è un arbusto di marjuana alto quasi un metro che in confronto alle altre piante ha la statura di una sequoia.
“Sta qui solo come arredamento”, mi assicura, anche se da come lo coccola dopo averlo bagnato con uno spruzzino sembra tenerci molto più che al basilico e pure alla minacciosa pianta carnivora.
Felix non è solo in questa avventura ricettiva caraibica, ha una compagna che è anche sua socia e la scorgo poco dopo mentre attraversa il salone d’ingresso. Alta, magra, lineamenti mediterranei, perfettamente abbronzata e con indosso solo un paio di shorts e il pezzo di sopra del costume. Da come si atteggia, direi che è lei a mandare avanti la baracca. Mi sorride prima di scomparire dietro una porta, seguita da due tedeschi paffuti muniti di tappetini da yoga. Un Ganesha disegnato su un telo appeso al muro sventola al suo passaggio. Felix si riprende lo spinello. Le sue guance scavate si infossano mentre aspira, la pelle del viso si tira come un tamburo, il tabacco riprende il colore del fuoco. Ha l’aria di un mezzo Prometeo che ha scampato la punizione divina in cambio della promessa di starsene buono nel nido di bambagia che si è ricavato a novemila chilometri da casa. Parla con un marcato accento siciliano che ne tradisce le reali origini, ma mi spiega che la sua residenza fiscale è ormai a Malta da molti anni.
“Sei mai stato a Gozo?”
Mi frugo la lingua per tirar via un pezzo di tabacco che ci è rimasto appiccicato.
“Se ci vai, chiedi di Felix il Rasta: mi conoscono tutti”.
Lo spinello mi torna tra le mani. Il filtro, fatto con un pezzo di carta arrotolato, è zuppo della saliva di Felix. La cartina, sottilissima, lascia intravedere il tabacco mischiato alla marjuana. Faccio un tiro a tutto polmone e poi – come usa tra italiani all’estero – ci lasciamo andare ad un po’ di small talk sulle disgrazie del nostro paese: i politici incompetenti, l’evasione fiscale, la mafia, la Chiesa.
“Nemmeno ci qualifichiamo più ai mondiali di calcio, ormai”.
Annuisco seriosamente e mi reggo alla ringhiera delle scale. Dopo l’ennesimo tiro, i miei occhi hanno smesso di funzionare e adesso vedo solo nero. Non è la prima volta che mi succede, quindi riesco a mantenere la calma. Anni fa, a Roma, mi capitò di rimanere aggrappato ad una saracinesca di San Lorenzo per quasi un quarto d’ora in attesa che mi tornasse la vista. Quella volta, la prima, andai in panico, convinto di esser diventato cieco per sempre, certo di essermelo meritato perché si sa che non si accettano droghe da sconosciuti. Poi tutto era tornato alla normalità, e pace fatta con le droghe leggere. Stavolta, per evitare imbarazzi, invece di schiamazzare e piangere il mio destino, mi limito a rimanere attaccato alla ringhiera e ad annuire a qualsiasi cosa dica Felix, in attesa di tempi migliori. Senza vedere nulla, allungo in avanti la mano che tiene lo spinello per segnalare che ho finito il mio turno, e poi la uso – con molta cautela – per sedermi. Felix continua a parlare dell’Italia: le tasse erano il suo tormento (adesso, mi confessa, se il mio commercialista mi chiama per dirmi che c’è qualcosa da pagare, cambio commercialista), ma si lamenta anche della monogamia che, secondo lui, esiste solo per alimentare la società dei consumi, che si fonda a sua volta sull’infelicità delle persone
“Gli infelici mangiano troppo e comprano auto che non possono permettersi”.
Ne deduco che la sua relazione con la fidanzata sia un po’ in stallo, ma Felix non ne fa menzione. Intanto continuo ad annuire e mi premuro di tenere lo sguardo verso il basso, così da non insospettirlo nel caso stia provando a passarmi di nuovo lo spinello e non me ne stia accorgendo. Per tenermi occupato, mi tocco le ciabatte e cerco di ricordare che aspetto abbiano. Mi concentro su dettagli insignificanti per non perdere la calma. Il logo era giallo o arancione? Dove le ho comprate? Sento un gran freddo alle mani, eppure la fronte e le orecchie mi vanno a fuoco. Da una finestra, credo quella della stanza dove ho visto entrare la compagna di Felix, una voce registrata con un accento indiano ripete ad intervalli regolari sempre le stesse parole.
“I’m not the body… I’m not even the mind. I’m not the body… I’m not even the mind”.
“Vuoi una birra?”
Annuisco. Comincio a sentire un formicolio all’altezza della tempia e spero che sia di buon auspicio. Il buio che mi circonda è attraversato dagli stessi bagliori che compaiono quando si chiudono gli occhi dopo aver fissato intensamente una fonte di luce.
“I’m not the body… I’m not even the mind.”
Sento Felix che si allontana, i suoi piedi scalzi si attaccano alle mattonelle del pavimento. La famelica vegetazione giamaicana sussurra intorno a me. Immagino animali che non vedono l’ora di mettermi le zampe addosso e la pianta carnivora protendere la bocca di carpa verso il mio corpo indifeso. Mi tengo alla ringhiera e spero che vada tutto per il meglio.

A Winnifred Beach c’è una signora che prepara zuppe bollenti. Non è Cynthia – la ristoratrice che compare con Anthony Bourdain in un episodio di Parts Unknown – ma un’altra signora. Gestisce un chiosco a dieci metri dal mare, dove – se si ha la pazienza di aspettare quarantacinque minuti – si può gustare dell’ottimo jerk chicken cotto sul momento. Io pazienza non ne ho, quindi scelgo la zuppa di pesce che è già pronta. La signora me la serve in un bicchiere di carta come fosse del succo di frutta, raccomandandomi di tenerlo dal bordo per non bruciarmi. Non mi dà né un pezzo di pane né qualcosa di solido da mangiarci insieme, solo la zuppa. Sospiro e ci soffio dentro. La zuppa ha un colore rossastro, e quando appoggio la bocca sul bicchiere e provo a bere un sorso qualcosa mi colpisce le labbra. Lascio passare – con cautela – un po’ di liquido e tengo fuori l’oggetto non identificato. Sembra un pezzo di conchiglia, o una grossa lisca, e non è solo. Intanto, la zuppa mi scende lungo la faringe lasciandosi alle spalle un solco di bruciore e piccantezza che mi fa venire le lacrime agli occhi. Seduti ad un tavolo, più astuti e pazienti di me, due signori di mezza età mi guardano e se la ridono. Il loro jerk chicken si sta cuocendo dentro un barile di metallo tagliato a metà, assicurato in orizzontale a un piedistallo di ferro. La brace sfarfalla sotto la carne dorata. Svuoto la zuppa dietro un cespuglio e, dopo aver lasciato passare cinque minuti, torno dalla signora e compro un pacchetto di patatine alla cipolla. Mi siedo a guardare il mare e due cani randagi vengono a farmi compagnia. Hanno il pelo rado e irregolare, la cassa toracica in vista, bozzi intorno alla bocca, ma si stendono sulla sabbia come se non avessero un problema al mondo. Un ragazzo in costume e t-shirt sta nuotando dove l’acqua è così bassa che si riesce a spingersi con le mani. Quando lo guardo, mi saluta e poi prosegue con la sua strana nuotata. È talmente tanta la sabbia che smuove che dà l’impressione di galleggiare all’interno di una nuvola color avena. Il mare, più in là, è immacolato, attraversato da strisce blu che si confondono con i colori del cielo; l’aria profuma di jerk chicken. Noci di cocco sono impilate sotto gli alberi e cartelli scritti a mano chiedono donazioni per mantenere la spiaggia pubblica e al sicuro dalle grinfie degli investitori privati che si sono già presi tutto il resto. Un uomo seduto davanti ad un tavolo da picnic incide canne di bambù con un coltellino. Il ragazzo che nuotava va a sciacquarsi in uno stagno d’acqua dolce nascosto ai margini della spiaggia. Si tuffa di schianto facendo un rumore infernale e poi riemerge scrollando i capelli come una bestia bagnata. Nessuno ci fa caso. In giro – a parte me – non ci sono bianchi; non come a Treasure Beach, nel sud, dove ovunque andassi avevo la compagnia di pallide signore attempate che si bagnavano tra le onde e al tramonto passeggiavano mano nella mano e facevano lingua in bocca con tartarugati fidanzati locali. Che posto, Treasure Beach! Le onde di Frenchman’s Bay che dondolano motoscafi di legno e poi si infrangono ad un passo da casette colorate che fanno sognare la solita vita esotica ed impossibile in riva al mare. L’albergo dove avrei dovuto dormire il cui proprietario era morto da poco e la gente gli stava rubando i mobili dalle finestre. Le crab cakes di Jack Sprat. Le villette fatiscenti in collina e le gite a vedere i coccodrilli del Black River.
Mi tiro su e vado a buttarmi in mare. Faccio il morto, mentre un ciuffo di alghe scure mi solletica i piedi e i cani, ancora stesi, mi guardano con un occhio solo. L’acqua è tiepida, le onde si rompono al largo e a riva giungono solo sussulti schiumosi. La vegetazione avvolge la spiaggia in un abbraccio non ricambiato. Alberi dinoccolati allungano i tronchi verso il mare.
Ogni volta che mi trovo immerso in un luogo magnifico mi viene voglia di farne la mia tomba. È un istinto animalesco e trascendente allo stesso tempo, a metà strada tra la pisciata di un cane e un bisogno di eternità. Winnifred Beach, nonostante la zuppa fatta con gli scarti di pesce, sembra il luogo perfetto per aspettare l’ultimo tramonto della propria vita. Per chi come me non crede ancora nell’aldilà, o nella reincarnazione, la scelta del luogo dove andare a morire è cruciale e definitiva: è l’ultima scena prima dell’eterno sipario.
“Ganja, weed, marijuana?”
Il ragazzo che nuotava spingendosi con le mani sventola una bustina trasparente nella mia direzione. Torno a riva battendo i piedi. Rifiuto la ganja, e allora si mette ad intrecciare un braccialetto con le mie iniziali. Mi spiega che tutti i soldi che fa a Winnifred Beach rimangono a disposizione di Winnifred Beach, ma non so se credergli: vorrei, perché l’idea del braccialetto si addice al mio stato d’animo del momento, a un sentimento di purezza esotica che ho voglia di respirare e in cui voglio crogiolarmi, non importa se illusorio. Compaiono anche Felix e la fidanzata, che mi fanno un cenno di saluto da lontano e poi vanno a sedersi all’ombra. Camminano distanti come una coppia che sta insieme da abbastanza tempo per essersi abituata ai reciproci difetti e aver dimenticato i propri pregi. Appoggio i gomiti nella sabbia. Carezzo i cani tignosi. Il ragazzo mi porge il braccialetto: è fatto di fili e perline, e ha i colori della bandiera giamaicana. Lo compro per cinque dollari americani, anche se all’improvviso mi è venuta un po’ di malinconia.

di Margaret Atwood
I bambini non sempre significano
speranza. Per alcune essi sono tragedia.
Questa donna coi capelli tagliati a zero
perché non si impicchi
si è buttata da un tetto, trenta
volte stuprata e incinta del nemico
che le ha fatto questo. A quest’altra il bacino
l’hanno fracassato a martellate
per estrarre il figlio. Poi si sono disfatti di lei,
era inutile, un sacco strappato. Questa
si è infilzata con degli spiedi d’acciaio,
è morta dissanguata su una tovaglia
di plastica unta, pur di non averne un altro
ancora e oltre il sopportabile. Perché c’è
un limite, ma chi può sapere
quando sopraggiunge? Le tombe
dell’ottocento sono piene di corpicini decomposti
buttati via in preda al terrore. Un aereo
plana troppo basso sopra un allevamento di volpi
e la madre divora i suoi cuccioli. Anche questa
è Natura. Quindi pensaci due volte
prima di adorare il seminato, di prestare
vuoti omaggi ad un pancione
o all’altro, o di pescare una bambina per giocare
alla madre magica in blu
e bianco, lassù sul piedistallo,
perfetta e immacolata, distinta
dalle indegne. Il che vuol dire
tutte le altre. È una questione
di cibo e sangue a disposizione. Se la mater-
nità è sacra, apri
il portafogli per quel che predichi. Soltanto
poi potrai sperare nell’avvento,
qui in questa terra devastata e scintillante,
del miracolo di cui vai
cantando, il giorno
che sarà benedetto ogni figlio.
*
“Christmas Carols” è tratto da True Stories (1981), la traduzione è mia, qui il testo in lingua originale. (rm)

di Ornella Tajani
Nessuna lingua è madrelingua.
M.C.
Nella collana DieciXuno di Mucchi dedicata alla traduzione poetica, di cui ho già parlato in questa sede, è uscito stavolta un volumetto dedicato non a uno ma a due poeti: l’ucraino Vasyl’ Stus insieme a Marina Cvetaeva. Due poesie, prima tradotte da Annelisa Alleva, poi variamente riscritte da Fabrizio Bajec, Massimo Bocchiola, Paolo Febbraro, Roberto Deidier, Rosaria Lo Russo, Paola Loreto, Valerio Magrelli, Annalisa Manstretta ed Edoardo Zuccato.
Come scrive Alessandro Achilli nell’introduzione,
la possibilità di invitare i lettori ad accostarsi, in un unico volume, alla poesia di Vasyl’ Stus e Marina Cvetaeva ci consente non solo di cominciare a trattare la civiltà letteraria ucraina alla pari delle altre civiltà letterarie europee, ma anche di accompagnare una riflessione di carattere culturale e politico al piacere della poesia e, naturalmente, alla riflessione sulla traduzione poetica e alle sue straordinarie risorse.
La nota finale di Antonio Lavieri, direttore della collana, fornisce a chi legge le specifiche di queste operazioni linguistiche e testuali:
La tensione esegetica che scaturisce da questi versi di confine – che Gianfranco Folena avrebbe probabilmente chiamato, come fece per Il ladro di ciliegie di Fortini, «paesaggi di transpoesia» – ci suggerisce che l’incontro/scontro fra due poetiche diverse non può escludere la scoperta e la sperimentazione, che poesia e traduzione non possono eludere il nesso poietico fra imitazione e invenzione, o tralasciare la congiunzione simbolica che lega linguaggio, storia e soggettività. Fra queste pagine, lettore, ti ritroverai in mezzo a ri-scritture in bilico, anamorfiche, eccentriche, oblique, dove scrivere vuol dire già tradurre, dove tradurre vuol dire già scrivere.
Pubblico in anteprima Dentro di me sta già nascendo Dio di Vasyl’ Stus nella traduzione interlinguistica di Alleva e nella riscrittura di Paolo Febbraro, e Inimitabile mente la vita di Cvetaeva nelle riscritture di Rosaria Lo Russo e Valerio Magrelli (Magrelli definisce la sua versione una “estroflessione”, spiegando il termine in nota:
Alla fine ho deciso di chiamarle “estroflessioni”: infatti in biologia, cito, estroflettersi, nell’intransitivo pronominale, sta per «svilupparsi, espandersi verso l’esterno, evaginarsi, di un organo anatomico da un primitivo stato di invaginazione, o di un tessuto da una superficie uniforme». E allora perché non immaginare il testo originale come il primo stato di un processo del genere, destinato a persistere in una sua latenza illimitata, attendendo il compiersi di sempre nuove, possibili “estroflessioni”?)
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Vasyl’ Stus / Annelisa Alleva
Dentro di me nasce già Dio,
memorabile e trascurabile,
né fuori né dentro di me, ma al limite della morte,
dove un vivo — nipote mio o antenato —
sopravvivrà finché io morirò.
Noi viviamo in due. In due esisto
se non c’è nessuno. Tuona la sciagura,
come una cannonata. È lui la salvezza,
io con labbra bianche lo invoco: salvami,
mio Signore. Salvami per un istante,
che poi mi salverò da solo. Me — da me.
Vuole uscire fuori da me.
Per salvarmi cerca di annientarmi,
affinché nella corrente, nelle tempeste di vento,
io esca fuori da me stesso, come la sciabola
esce dal fodero. Vuole andarsene affinché
si spenga la candela del dolore. Affinché
la tenebra della sottomissione salvi me
con un’altra vita. Un’altra vita. Con un nome
ormai improprio: eccola, quella massa,
la governa quel dio impazzito
che ama nascere dentro di me
(e io accenderò quella candela,
perché non si offuschi anzitempo,
candela nera di strada chiarissima,
come una vittoria ottenuta in segreto).
Vasyl’ Stus / Paolo Febbraro
Eccolo, Dio nasce, mezzo presente
mezzo passato, non proprio dentro me,
ma in limine mortis, luogo infrequentato
dai parenti, giovani e vecchi, mi attende
finché sarò spirato. In due con lui son vivo,
e quindi esisto quando sono assente.
E suona la sventura, e vengo bombardato.
Però è salvezza, e con la bocca pura
dico sei il signore, salva un solo istante
e poi placato salverò me stesso,
l’identico me stesso ormai trovato.
Ma lui è l’uscente, salva andando
poiché distrugge, vuole che io cada;
che nella tempesta, nel correre dell’aria,
come dal fodero fuoriesce la spada,
io da me stesso fugga. E lui fuggire vuole
perché si estingua la candela del dolore.
E il nero sottomettermi mi salvi
con un esistere altro, con un nome
scaltro, non più mio. Ecco l’ingombro,
il corpo maneggiato da quel dio
che dentro me rinasce come matto
(e io dichiaro santa la candela
così che il buio accada ma non presto.
Nera candela di splendente strada —
per me vittoria tenue, di soppiatto).
*
Marina Cvetaeva / Rosaria Lo Russo
Come nessuno la vita sa ingannare
Oltre ogni illusione, oltre ogni speranza,
Ma dal fremito nelle vene la riconosci,
È proprio lei, la tua vita.
Siamo sdraiati sull’erba di grano.
Calore, colori, cielo, terra, suoni
(Finzione? E allora?) Nel caprifoglio
Vibra l’estro di cento pungiglioni.
Felicità! E il tuo richiamo!
Non mi rimproverare, amore, se i nostri
Corpi ottundono l’anima a tal punto
Che mi casca la fronte dal sonno.
È perché sei tu a cantare!
Nel libro bianco dei tuoi silenzi
Nella creta selvaggia dei tuoi sì
Lenta abbasso alta la fronte
Sulla tua mano viva.
Marina Cvetaeva / Valerio Magrelli
La vita è palmo, menzogna,
tremore di tutte le vene,
e l’anima crolla nel sogno.
I tuoi sì sono argilla selvaggia.
Grano, erba, azzurro, afa:
sei stato tu a cantare,
sei stato tu a chiamare!

Lorenzo Cherubini alla luce degli Archigram
di Alberto Giorgio Cassani

Non so se qualcuno l’abbia mai notato o scritto, ma Lorenzo Cherubini, in arte Jovanotti, col suo Jova Beach Party ha realizzato l’ultimo degli iconici progetti utopici usciti dalla mente megastrutturale degli Archigram – gruppo inglese d’avanguardia fondato a Londra nel 1961 – e, nello specifico, da quella di Peter Cook (1936), uno inter pares di quei geniali, allora giovani, laureati in architettura che operarono nella Swinging London tra la fine degli anni Cinquanta e la fine dei Sessanta e che rispondono ai nomi di Warren Chalk (1927-1988), Cook, Dennis Crompton (1935), David Greene (1937), Ron Herron (1930-1994) e Michael Webb (1937). Mi riferisco al celebre progetto di Instant City (1968-1970). Ma andiamo con ordine.

L’idea di questo legame mi è venuta leggendo un testo di Marina Mannucci, scrittrice, impegnata in associazioni femministe e ambientaliste. L’articolo, dal titolo Da Woodstock al Jova Beach Party, ma quanto è green la cultura rock?, pubblicato sul sito web del settimanale RavennaeDintorni.it,1 affronta, fra gli altri, il tema dell’impatto ambientale dei mega-concerti. E proprio Woodstock c’entra, così come vi ha attinenza un tema assai caro agli Archigram: la “conquista” dello spazio. Jovanotti, infatti, ebbe l’idea, nel 2018, di celebrare a suo modo, l’anno seguente, i cinquant’anni del concerto di Woodstock (15-18 agosto 1969) e dello sbarco sulla Luna (16 luglio 1969), realizzando un concerto-happening sulle spiagge libere della penisola italiana. L’intento ludico è ciò che unisce il Jova Beach Party a Instant City.

In una bella intervista – curata da Dezenn, magazine di architettura e design, con la sponsorizzazione di Enscape, all’interno di una serie di video dal titolo VDG-Virtual Design Festival, che si può vedere e ascoltare sul sito di dezeen.com, dentro un articolo firmato da Benedict Hobson,2 – Peter Cook chiarisce quali erano gli intenti di quella proposta: «Instant City era in termini molto grezzi, come un circo culturale» che «prende l’essenza culturale di una città metropolitana e la porta in giro come un circo, in modo che una piccola città o un villaggio possano diventare una specie di città per una settimana». Un ulteriore legame con Woodstock – e dunque anche col Jova Beach Party – era il fatto che Instant City si ispirava all’architettura dei palchi dei concerti pop. Ma, al tempo stesso, era anche la modalità con cui gli Archigram si rivolgevano al pubblico: «Instant City si basava davvero sulla nostra esperienza con Archigram, perché avevamo iniziato a tenere conferenze, confezionare le idee di Archigram e girare con molti proiettori». Un modo di comunicare che stava cominciando a circolare nell’aria. Inizialmente, come scrive Benedict Hobson, «l’idea prevedeva un kit impacchettabile di parti che potevano essere trasportate su strada, ma le versioni successive introdussero elementi più leggeri che potevano essere spostati per via aerea». Successivamente, è di nuovo Cook che parla, «Abbiamo iniziato a ipotizzare, invece di una città che avanzava lentamente sui camion, una che forse poteva essere tutta sospesa a un dirigibile e che sarebbe semplicemente arrivata silenziosamente di notte e tu avresti aperto le tende della camera da letto e c’era la città nel campo dietro di te» (fig. 3). Una sosta di una settimana e poi sarebbe ripartita verso un’altra destinazione. Una città nomade. Un concetto un po’ simile all’opinione che «tutti potrebbero essere famosi per cinque minuti, la cosa di Marshall McLuhan» o di, aggiungiamo noi, Andy Warhol. Il pensiero, sullo sfondo, era quello che lo spettatore sarebbe diventato finalmente lui l’attore protagonista, come nel “Fun Palace”, il rivoluzionario teatro di Cedric Price, l’“anti-architetto”, come egli amava definirsi, commissionato da Joan Littlewood a partire dal 1961 e rimasto soltanto sulla carta. Instant City, vero work-in-progress, non si presentava in modo univoco: «C’era la mia versione – afferma Cook – e c’era la versione di Ron Herron». Quest’ultimo ne aveva ideato una variante per Los Angeles (Instant City at Los Angeles, 1968 e Instant City. Santa Monica & San Diego freeway intersection L.A., gennaio 1969, fig. 2). Come in tutti i progetti degli Archigram, infatti, l’idea era in continuo sviluppo e mutamento: «Ci sono disegni strani – ricorda sempre Cook –, come quello che mostra cosa accade se una Instant City da un dirigibile viene calata in una città, in modo da avere una serie di elementi “parassiti” che sono realmente attaccati alla città stessa».3 Il dirigibile, chiamato dagli Archigram “giant skyhook” (“gancio celeste gigante”), operava secondo due modalità diverse: per Cook, più tradizionalmente, avrebbe portato nel suo ventre l’attrezzatura per poi scaricarla sul posto, mentre Herron aveva immaginato che il dirigibile si potesse aprire in aria in tre parti, «lasciando cadere il suo contenuto tecnologico sul centro sottostante».4 In pratica, in questo caso, per Cook, l’azione era quella di infiltrarsi «in WH Smith o in cima a un autobus. Non lo lasci [il materiale di cui è fatta Instant City] semplicemente in un campo, bello e separato. Voglio dire, c’è un intero territorio lì in cui ci si potrebbe trasferire, che è un misto tra un insieme di parti organizzate e inventate e una sorta di effetto agitprop su una città». Un progetto, quest’ultimo, che Cook dichiara, nel finale dell’intervista, di non avere «[…] mai perseguito, ma c’è un intero territorio che penso possa inviare messaggi all’attuale generazione».5

Quest’ultima frase sembra essere l’assist per il nostro Lorenzo Cherubini, che, benché non possa dirsi un giovane dell’ultima generazione – ha pur sempre cinquantacinque anni, anche se non li dimostra per la voglia che ha di mettersi sempre in gioco – ha appunto colto in pieno lo spirito di Instant City (e, se non ne fosse stato a conoscenza, la cosa sarebbe ancor più significativa). La scenografia del Jova Beach Party sembra infatti essere uscita direttamente dai disegni degli Archigram: strutture provvisorie coloratissime, figure e immagini pop (fig. 4), e perfino il dirigibile Italdron (fig. 5) – anche se con una diversa funzione – per le riprese dello spettacolo dall’alto. Soprattutto un fotomontaggio sembra riproporre perfino la location – che orribile termine! – dei concerti di Jovanotti. Si tratta dell’immagine realizzata da Peter Cook per un’Instant City a Bournemouth (1968, fig. 1), località balneare nel Dorset, sulla costa meridionale dell’Inghilterra. Nel fotomontaggio, si vede una moltitudine di persone lungo la celebre spiaggia di più di dieci chilometri, mentre una serie di palloni aerostatici sta calando a terra mega-schermi, tendoni da circo e impalcature metalliche (pylon-truchs).6 Un’anticipazione di quasi mezzo secolo del Jova Beach Party. Se non fosse una fonte, sarebbe senz’altro una profezia.
Con una notevole differenza: Instant City appariva improvvisamente dal nulla, senza alcun preavviso, da un giorno all’altro, muovendosi preferibilmente di notte, su un territorio o dentro una città; lo Jova Beach Party è minuziosamente progettato e annunciato mesi prima dell’evento. Anche se ciò non sottrae nulla all’aspetto evenementiel della serata del concerto.
Detto questo, rimangono certamente molte domande in sospeso: è veramente ecologia fare mega-concerti sulle spiagge? L’elemento ecologico, d’altro canto, sembrerebbe certificato dalla partnership col WWF, anche se il recente intervento di Legambiente contro la scelta della spiaggia di Barletta per il concerto del 30 luglio prossimo rende la questione del rapporto tra concerto e tutela dell’ambiente quantomeno oggetto di discussione.7 Così come l’altrettanto recente polemica di Italia Nostra contro il taglio dei tamerici per ampliare l’area dei prossimi concerti dell’8 e 9 luglio a Marina di Ravenna, sta a dimostrare.8
Per quanto ne sappiamo, Peter Cook e gli Archigram non si erano soffermati sulle possibili conseguenze dell’atterraggio di Instant City sui territori in termini di scorie, così come non era stato considerato un problema, all’epoca, il lascito di rifiuti sul prato di Woodstock (fig. 6).9
Oggi siamo molto più consapevoli (?) dell’impronta negativa da noi lasciata sul pianeta. Chissà che non si riesca a far convivere, pace, amore e lusus, per dirla coi latini, o fun, per dirla col latino di oggi, nelle prossime Instant City o Jova Beach Party che verranno.

Note:

Poesie inedite
di
Francesca Fiorentin
Mi tiene in piedi un attrezzo, una stampella
posso camminare verso …
ma la cosa più solida che ho – è la, immaginaria.
Devo rassegnarmi
l’inquietudine è mia, il mondo è quieto
coeso, unanime, cecchino.
Non cerco un riscatto dalla colpa che mi accomuna all’ umanità
non porto dentro nemmeno il peccato presuntuoso di voler avere il potere di Dio;
la sua posizione non è scalfibile;
forse, Dio, voglio essere il tuo contrario
immolato come empio.
Da innamorata a – amica madre nemica
– interrotto Eros – (per il quale) sono negata.
Filosofia tu respingi attraverso
lo stile della ragione
hai un metodo
un postulato anche ipotetico;
della saggezza fai molti discorsi;
la pietra fatta di atomi
e il vento e l’acqua scrosciante
non parlano
ti guardano come guarderebbero
un impiccato.
Maria
Mi preghi in ginocchio
smettila di tentare di salvarmi la vita
non vedi che ho ben più di diciotto anni
credimi – quello è il male: qualcosa che la mia pelle non vive –
perché non ho insieme conoscenza e amore, come per il primo motore immobile di Dante;
vivo di innato amore solamente, ho nel grembo una tale pace –
non posso –
anche quando mi dici che lo uccideranno.
Accartocciato il male
bruciò di vivida fiamma
luce divenendo al volto
chiaroscuri vi ondeggiavano in fluttuazioni
delle sue parti finalmente visibili.
di Giulio Spagnol

Di quel giorno mi ricordo che stavo andando al centro trapianti quando vidi lo zingaro accasciato fuori dalla stazione del metrò, con i vigili tutti intorno per evitare che lo linciassero. Trascinato in questura, raccontò tutta la faccenda per filo e per segno. Come ogni mattina, aveva messo la museruola al suo cocker spaniel e si era infilato in metrò. Come ogni mattina, si era trascinato dietro il carrellino della spesa con dentro il walkman e le casse. Come ogni mattina, aveva proceduto dall’ultimo al primo vagone. La sua arte consisteva nel far partire la base preregistrata e strimpellarci sopra con quelle tastiere a fiato, che da lontano, sembrano un giocattolo per bambini con un tubo attaccato all’estremità. Aveva appena appoggiato il tubicino ai due incisivi d’oro e stava per soffiarci dentro Maracaibo quando la base preregistrata, invece di diffondere atmosfere cubane, annunciò che «Il cane è tornato al suo vomito e La scrofa lavata è tornata a rotolarsi nel fango». Tutti pensarono subito a una trovata dello zingaro, e si misero a ridere e a fare i grattini dietro le orecchie al cocker e a lanciargli nel cappello monetine da dieci e cinquanta centesimi fino a farlo strabordare. Cinque minuti dopo, la voce della fermata Porta Genova della linea verde cominciò ad annunciare la fermata della M2 Colonel Fabian a Parigi, e la fermata della M2 Colonel Fabian a Parigi ad annunciare la fermata Rathaus Spandau della U7 a Berlino. Questo generò una notevole confusione tra i passeggeri della linea verde, della M2 e della U7, che, invece di scendere alle rispettive fermate, vennero trattenuti all’interno dei vagoni in attesa di chiarimenti. Andò a finire che alcuni parigini ipotési svennero per il caldo e alcuni berlinesi claustrofobici svennero per la calca. Un milanese che aveva un gran fretta prese la cosa meno sportivamente: quattro passeggeri vennero ricoverati all’ospedale con ferite superficiali alle guance e alla gola provocati da una valigetta ventiquattro ore. Dieci minuti dopo, le macchinette della M11 a Belleville cominciarono a ripetere ossessivamente «bisogna chiavarla, fratello, e chiavarla bene; non vedo altro mezzo per convertirla». Quindici minuti dopo, l’Ansa batté la notizia che in Germania tutti i pedaggi automatici della Bundesautobahn 59 Colonia-Bonn si rifiutavano di alzare le sbarre e recitavano ad alta voce il primo, il terzo, e il quinto atto della seconda parte del Faust. Nelle due città Renane si formò un unico grande ingorgo, e vennero scattate delle foto satellitari che un arguto editorialista del «Süddeutsche Zeitung» definì come «un cordone ombelicale metallico». Toccò poi agli aeroporti. A Malpensa, gli altoparlanti dei gates disertarono in massa il sistema metrico-decimale optando per il Base64, e una comitiva di pensionati giapponesi diretti all’aeroporto di Kushiro, nell’isola di Hokkaido, si imbarcò su un Airbus A340-600 in direzione di Ottawa. Sull’aereo, tre di loro ebbero una sincope quando l’interfono, invece di indicare le uscite di sicurezza, li informò che i corpi dell’l’Imperatore Naruhito e di dodici geishe erano stati rinvenuti morti, gonfi e spugnosi nella Jacuzzi di una famosa stazione termale della prefettura di Gifu. Intanto, i controllori della fermata Duomo cominciarono a ricevere una orrenda serie di telefonate dai superiori che li invitavano, anzi, ordinavano loro di fare qualcosa. Dopo averci riflettuto un attimo, decisero di precipitasti a sequestrare il walkman dello zingaro che, in qualità di prima voce ribelle, doveva per forza essere il capo-banda, il ganglio centrale dell’insurrezione. Dopo averla riascoltata più volte e non averci capito nulla, convocarono l’arcivescovo. L’arcivescovo fu in grado di risalire alla fonte (Pietro 2:22), ma si limitò a fare spallucce e a dire che non aveva la minima idea di che cosa diavolo significasse in quel contesto. I controllori, dopo aver confabulato in un angolo, mandarono avanti quello più anziano a chiedere all’arcivescovo se fosse disposto a sottoscrivere un verbale in cui escludeva la possibilità che il nastro magnetico fosse posseduto dal demonio, o dalle legioni del male. L’arcivescovo rispose che sì, era disposto. Nel giro di un’ora, tutte le voci magnetiche di tutte le fermate della metro si erano messe ad annunciare impunite le stazioni della metro di Tokyo, dei treni a Detroit, o della Via Crucis a Gerusalemme. Molti giurarono di essersi persi dentro un concerto dodecafonico composto da Schoenberg, o da Satana. Altri dissero che era come abitare nella testa di un pazzo. Tutte le stazioni della metro vennero chiuse e i pendolari e quelli diretti agli uffici in centro si riversarono nelle strade bloccando il traffico cittadino. Due ciechi, vilmente ingannanti dai dispositivi per non vedenti attaccati ai semafori, attraversarono e vennero travolti e uccisi da un’ambulanza. Ambulanze che, comunque, procedevano a rilento: un po’ per via degli ingorghi; un po’ perché le sirene, invece di fare il loro dovere, avevano attaccato un saccente monologo solipsistico su quale etica rendesse legittimo l’aborto farmacologico. La maggior parte dei feriti trasportati in ospedale morirono comunque in corsia, dove gli interfoni dei piani spedivano i neurochirurghi in pediatria, i pediatri in neurochirurgia e gli anestetisti al reparto infezioni tropicali. In città, nacquero subito delle leggende sui presunti responsabili. Alcuni sostenevano che i controllori, dopo aver forzato tutte le porte di tutte le stazioni, avevano pescato due ginnasiali che, non sapendo dove andare, si erano chiusi nel centro di controllo e, nel togliersi i vestiti, avevano pigiato alcuni tasti del computer centrale con le loro natiche puberali. Altri, che si era trattato di un sofisticato attacco informatico dei russi, o dei coreani, o degli stati jihadisti. Nessuno fece alcuna rivendicazione. Altri, che in verità si trattava di un tentativo delle forze atlantiste per ricompattare l’opinione pubblica su posizioni moderate in vista delle elezioni. Altri ancora, che erano stati degli immigrati tunisini; altri che invece erano stati gli albanesi che, spodestati dai tunisini, volevano riconquistare la condizione mediaticamente privilegiata di capro espiatorio. Altri ancora, che era stata l’Europa. Alcuni fecero notare che era stato il maggio più caldo di sempre. Altri, che erano stati i soliti ebrei. Naturalmente, la verità non venne mai fuori. Tutti però ebbero una loro storia da raccontare.
Come dicevo, io quel giorno ero al centro trapianti in sala d’attesa. Mia zia Marta era già in chirurgia, anestetizzata e con il torace aperto in due. Soffriva di una rara malattia autoimmune e tutta l’equipe aspettava solo che arrivasse l’ambulanza con un bel paio di polmoni freschi freschi di cadavere per trapiantarglieli. L’ambulanza non arrivò mai per via degli ingorghi e i polmoni, squagliati dal caldo, appassirono come fiori dimenticati. A rendere tutto ancora più patetico, l’interfono della chirurgia, invece di comunicare ai chirurghi che non c’era più niente da fare, cominciò a raccontare una barzelletta oscena su un cannibale superdotato e un’esploratrice britannica. Il giorno del funerale, mi ricordo che al cimitero faceva un caldo giurassico e i carri funebri luccicavano sotto il sole come le corazze delle cetonie. Molti avevano perso qualcuno e la fila di cadaveri da processare sembrava interminabile. Durante la messa funebre, il prete tornò su «Il cane è tornato al suo vomito e La scrofa lavata è tornata a rotolarsi nel fango». Tentò di spiegarci che c’entrava con gli spavaldi e con i superbi, che, in nome del progresso, hanno bestemmiato qualcuno, o qualcosa del genere. Fuori sul sagrato ad alcuni di noi venne da ridere, perché non ci avevamo capito niente. Il marito della zia, in disparte, piangeva da solo con la faccia tra le mani. Mesi dopo, ai pranzi di famiglia cominciò a presentarsi sempre ubriaco e a fumare una Lucky Strike rossa dietro l’altra. Diceva che era ancora giovane, che amava la zia ma aveva bisogno di rifarsi una vita. Vagheggiò di un giro in moto da fare per il paese. Le sorelle della zia lo consolarono e gli dissero che poteva fare quello che voleva, che non doveva chiedere il permesso a nessuno. I fratelli della zia invece si ricordarono del prete, e lo mandarono al diavolo, e dissero che la predica era stata di pessimo gusto. Dissero che noi siamo persone moderne e civili, e che non ci crediamo più a tutte queste superstizioni idiote. Va detto che tutti noi, quando arrivammo al cimitero e vedemmo la bara che si scaldava sotto il sole, bloccata in una fila di bare, con le corone di fiori già appassite dal caldo, sentimmo come una vertigine cieca, giù, in fondo allo stomaco.
( n.b.: modificato su richiesta dell’autore il 9/9/23)

Le parole che suonano
di Lisa Ginzburg
(“l’Unità”, 3 giugno 2002)
“Non so se l’ho mai Capito veramente. Ho sempre scritto poesie, sin da bambina, ma come una specie di atto naturale, non accompagnato da nessuna consapevole ambizione. Poi a un certo punto della mia vita qualcuno di cui mi fidavo mi ha detto che ero poeta. E io ci ho creduto. In un certo senso sono stata obbligata a crederci (o forse a fingere di crederci), e per ragioni che non hanno niente a che fare con la poesia. Comunque m’imbarazza definirmi poeta, c’è qualcosa che non mi torna, preferisco dire che a volte scrivo poesie”.
Le parole sono magiche, in qualche modo, allora. Siamo a colloquio con Patrizia Cavalli traduttrice di grandi opere (tra i tanti, La tempesta e Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare, L’anfitrione di Molière), soprattutto poeta. Ha pubblicato con Einaudi le raccolte di versi Le mie poesie non cambieranno il mondo, Il cielo Poesie e Sempre aperto teatro, la quale ha vinto il Premio Viareggio nel ’99.
Chi era questo qualcuno?
Elsa Morante.
Le ha dato da leggere le sue poesie?
No, non l’avrei mai fatto. Avevo visto subito gli eccessi del suo carattere. Come trattava certi sconsiderati aspiranti scrittori. Se le davano da leggere qualcosa che lei giudicava brutta o mediocre se ne sentiva insultata. Pur di dire la verità, Elsa era, disposta penino a troncare un’amicizia. E le sue delusioni erano terribili e definitive. Ma era anche generosissima. Dove riconosceva un valore, avrebbe fatto di tutto per difenderlo. In ogni caso, io tenevo troppo alla sua amicizia per correre certi rischi. Prima di conoscere Elsa ero piuttosto sola, frequentarla fu come passare dalla miseria alla ricchezza: non soltanto per l’orgoglio e il piacere di esserle amica – non era mai un piacere calmo, ma sempre teso e sonoro- ma anche per la meravigliosa sensazione di entrare in un mondo di amici e di abitudini tutto nuovo, e che a me pareva il meglio che avessi mai sperato. Ufficialmente io studiavo filosofia, ero giovane, intelligente e molto disponibile. Credevo che potesse bastare per esistere ai suoi occhi. E infatti all’inizio bastò. Ma un giorno, la frequentavo già da un anno, mentre dal ristorante La Campana ce ne andavamo in silenzio verso Piazza Navona, si ferma d’improvviso, si gira verso di me e quasi spingendomi contro il muro mi chiede: “Ma insomma tu, che fai?” E io: “Beh….scrivo poesie”. Fece un sorrisetto – non lo dimentico – un po’ divertito e un po’ crudele e disse: “Ah sì? E allora fammele leggere. Non per motivi letterari, sai, voglio solo vedere come sei fatta”.
Una specie di minaccia.
Il massimo della minaccia! Seguirono mesi di pena. Trovavo scuse per non andare a pranzo svicolavo, scappavo, sperando che col tempo la cosa venisse dimenticata. Ma ogni volta Elsa mi chiedeva: “E allora queste poesie?” “Eh, le sto ricopiando” rispondevo. Ma la verità è che non c’era quasi mente da ricopiare, perché le poesie che avevo mi sembravano inservibili: letterarie, imitative, inesistenti. Io, per me, avrei persino imbrogliato, ma pensare di imbrogliare Elsa era un’idea ridicola. E se scopriva che ero fatta male?
E come se l’è cavata?
Mi sono messa a scrivere nuove poesie, intanto cercavo di capire quali di quelle già scritte fossero o non fossero poesie, cosa era mio e cosa non lo era, dove era il vero e dove il falso. Fu il mio primo esercizio di consapevolezza. Mi misi in ascolto, come in preghiera, sì, fu un esercizio, in un certo senso, morale. Riuscii alla fine a consegnarle un gruppetto di poesie brevi (nella brevità c’erano meno rischi, davo il minimo di informazioni). Mi chiamò dopo neanche un’ora dicendomi: “Sono felice, Patrizia, sei una poeta”.
E dopo?
E dopo ero felice anch’io, e molto più di lei. Non tanto di essere poeta (di questo non si può essere né felici né infelici) quanto dei vantaggi che me ne sarebbero venuti. Sarei stata al sicuro nell’affetto e nella stima di Elsa e dei suoi amici, e già sentivo intorno a me un generale clima di accresciuta benevolenza. Si, tutti mi volevano più bene. E dunque mi conveniva essere poeta. Del suo giudizio mi fidavo, come potevo non fidarmi? Però avevo anche un po’ il sospetto o la paura che magari non fosse vero o quantomeno che potesse cambiare idea. Ma non stavo troppo a indagare, mi tenevo con vile prudenza alla superficie. Forse nasce da qui questa strana sensazione di imbarazzo, quasi di impostura che provo quando qualcuno fa le mie lodi. Credo che poi ho cercato di diventare quel che temevo di non essere.
Ma non avrà continuato a scrivere poesie solo per ottenere dei “vantaggi” affettivi?
Sa, io sono molto pratica e mai disinteressata, e per la Poesia come ente superiore non ho alcuna particolare devozione. Però è vero, quando scrivo non faccio calcoli, non mi chiedo a cosa serve e cosa mi darà. Lo faccio e basta. Ma dopo, queste poesie che ho scritto, cerco in qualche modo dì metterle a frutto.
La poesia secondo lei, da dove viene?
E’ una cosa molto misteriosa. Credo provenga da una certa area del cervello che sta a metà tra quella della musica e quella della parola. Perché suona. E’ una parola che suona. Ma in un modo tutto suo che non ha veramente a che fare con la musica, è un altro genere di sonorità. Io credo all’ispirazione, come a un’affezione biologica, una forma del patire, un essere esposti. Ma l’ispirazione da sola non basta alla poesia, bisogna saperla riconoscere e accoglierla.
Come si manifesta?
C’è qualcosa che percuote le mente e la commuove e forse la convince a sciogliersi, a uscire dalla sua compatta unità. E allora è come se la nostra sostanza si facesse volatile e staccandosi da quel che la tiene insieme esce dai propri margini per mischiarsi al mondo in uno spazio comune, perché anche il mondo si muove verso di noi: due empiti che s’incontrano a metà strada, né dentro né fuori, ma lì vicino o tutt’intorno, come un’aura. Ma nel vuoto che si crea per questo cedimento di sostanza resta scoperto un nucleo vibrante: lì stanno le parole, che bisogna andare a cogliere porgendo ascolto. E’ uno strano esercizio di attività passiva o forse di passività attiva. Perché intanto il giudizio procede nelle sue funzioni: sceglie, accetta, elimina. Ma lo fa in un modo così veloce, anche se frigido, da trasformarsi quasi in istinto. Con questo non penso certo di rivelare la formula operativa o gli ingredienti della poesia. E’ soltanto uno stato psico-fisico nel quale mi ritrovo abbastanza spesso, anche se non è sempre così. Certe poesie brevi, per esempio, sono lì già pronte, si sono formate a mia insaputa, arrivano tutte allegre cogliendomi di sorpresa, loro bussano e io apro, devo solo trascriverle. Senza nessuno sforzo.
Insomma non lavora mai.
Non mi piace lavorare, però lavoro anch’io. Correggo, sistemo, ricopio, traduco: questo è un lavoro. Ma per lo più riesco a lavorare solo se non me ne accorgo.
E’ utile la poesia?
In assoluto non lo so. A me serve per essere immortale. Non nel senso dei posteri, per carità. Ma a essere immortale lì per lì, mentre scrivo. Mi salva dal tempo, mi restituisce l’interezza, scorre la mia ansia. E poi, questo infine l’ho capito, è l’unica cosa che riesco a fare senza sofferenza.
E le condizioni necessarie per crearla?
Il silenzio senz’altro, l’ozio, l’immobilità. E anche un’attenzione disarmata, lo stupore, e un io precario.
Un io precario? Lo dice proprio lei, che parla sempre di sé?
E’ un malinteso. Non ho nessuna speciale predilezione per Patrizia Cavalli. Ai miei occhi non sono nient’altro che un oggetto di indagine che suscita in me sentimenti e considerazioni, come potrebbe farlo chiunque. La differenza è che avendomi giorno e notte tra i piedi, sono diventata di me conoscitrice esperta e forse mi sono un po’ affezionata. Tutto qua. Essendo umbra, fossi nata nel duecento sarei stata una famosa mistica.
Ha legami con l’Umbria? E con la sua infanzia?
Vado spesso in campagna dalle parti di Orvieto. A Todi, dove sono nata, non ci vado volentieri. L’infanzia non sta mai dov’era, si sposta. E’ più facile che io la ritrovi nel deserto dei Gobi che non nella piazza di Todi. Così è la memoria.
Com’è il suo rapporto col denaro?
Ottimo. Mi piace la sua effervescente versatilità. Ho concepito molte teorie sul denaro: la principale è che non bisogna mai aspettare tristemente la sua fine ma finirlo prima che finisca da solo, visto che comunque è destinato a finire. Insomma meglio una fine violenta che per estenuazione. Un’altra mia teoria, che è piuttosto un’osservazione pratica, è che i soldi vanno spesi con entusiasmo, quasi gettati con un gesto ampio e vigoroso che imprima gancio al loro movimento, in modo che, dopo aver fatto una bella corsa, tornino volentieri, e per di più irrobustiti, nelle mani di chi li ha saputi gettare così bene. Invece, se li tiri fuori con un gesto corto e costipato, quelli ti cascano quasi sui piedi e li restano inerti, tramortiti, per sempre. E non li rivedi più. Io comunque ho l’Angelo dei soldi: mi vuole molto bene e non sopporta di vedermi disperare per così poco. Così, quando finiscono, arriva l’Angelo che me li consegna a domicilio.
Lei gioca a carte…
Si, è tra le cose che preferisco. Non mi annoia mai. Il gioco ha tante virtù. Quella, per esempio, di poter sempre ricominciare. Anche se perdi, finché resti in gioco non hai mai davvero perso. Sei dentro un cerchio, nel tempo circolare. Mentre nella vita il tempo procede dritto, per quanto io faccia di tutto per rompere questa orrenda procedura. Giocando si può anche capire qual è la nostra relazione con la sorte, ovvero con quel movimento subitaneo della mente, quel concentrato massimo di tutte le facoltà che é l’intuito. L’amore, la poesia e il gioco, quando vanno per il verso giusto, un po’ si assomigliano, perché in loro il tempo si sospende, quasi si redime. Non c’è più la morte.
Ha paura?
Non ho paura di niente. No, non è vero, ho paura dell’aereo e ho paura di morire. Anche se aver paura della morte è davvero una cosa assurda. E’ sciocco, lo so, è ridicolo, ma non la sopporto. Mi viene in mente cosa diceva Elsa quando il suo gatto Caruso stava morendo: “Che robaccia! Che mostruosità! Ma non potevano inventare qualcos’altro?”. Mi fa un tale orrore che neanche riesco a piangere i miei morti. Forse per questo passo la vita in uno strano gioco, che è uccidere e resuscitare, uccidere e resuscitare. Ma non sempre mi riesce.

di Davide Ramusio*
A S., A. e F.: la migliore compagnia
Succede anche questo nella scuola pubblica italiana: un consiglio di classe si riunisce per partecipare a uno scrutinio di fine anno e finisce per ritrovarsi davanti a un plotone di esecuzione. Neanche il tempo di entrare in aula e sedersi che, di fronte alla luce ipnotica dello schermo su cui è proiettato il tabellone con le valutazioni degli studenti, la dirigenza scolastica sorprende noi docenti con un attacco non previsto: puntare, mirare, fuoco!
Di quale colpa così grave ci saremmo macchiati, perché ci venga rinfacciato di avere una visione della scuola evidentemente incompatibile con quella della dirigenza? Beh, prima di tutto di non essere d’accordo con i voti di condotta –insolitamente bassi– già caricati dal coordinatore di classe insieme alla dirigenza. «Ma come? Pretendete di dare dei 9 a gente che ci è stata descritta» –non si capisce bene da chi– «come degli stronzi maleducati?
Poi è la volta della mitragliata di insinuazioni: non solo ci saremmo accordati con gli studenti della classe (una quinta) per agevolarli all’orale dell’Esame di Stato con delle domande già preparate (cosa ovviamente falsa), ma saremmo condannati a una figuraccia certa di fronte al Presidente di commissione pretendendo di ammettere alla Maturità persone immeritevoli che non sarebbero neanche in grado di coniugare i verbi.
Cerchiamo di reagire ma non è facile: siamo inermi, non eravamo pronti a subire una tale carneficina. Io provo a difendere la nostra integrità, ma mi rendo conto che le parole che mi escono di bocca sono rese meno efficaci dalla rabbia e dalla costernazione che mi paralizzano.
E non finisce qui: come abbiamo potuto dare voti così generosi? Un 10 di matematica, un 10 di storia, dei 9 di italiano o di inglese, «ma vi rendete conto?» In questo modo rischiano di ricevere un diploma con una votazione più alta di quella di studenti “normali”: come abbiamo potuto?
Eh sì, perché quella di cui stiamo parlando non è una quinta standard: si tratta di studenti di un corso serale, gente tra i 25 e i 45 anni colpevole di aver abbandonato la scuola (ovviamente solo per demeriti loro) e di voler provare a recuperare il tempo perduto. Ma come: «non gli basta che lo Stato si sobbarchi i costi di organizzare dei corsi serali pagando dei docenti per insegnare a classi spesso composte da non più di una decina di iscritti? Dobbiamo pure premiarli con voti chiaramente esagerati che liceali diciottenni si sognerebbero?».
Anche perché, «non ci sono più le classi serali di una volta», ci mancherebbe! Quelle frequentate, per esempio, da rispettosissimi carabinieri che non si perdevano una lezione e che bruciavano di motivazione. Ora avremmo invece solo dei perditempo, che si iscrivono ai corsi per adulti prendendoli per diplomifici a costo zero: d’altra parte –è questo l’assunto sprezzante che sottintende tutto il discorso– se non sono stati in grado di diplomarsi quando era il momento, beh, qualche problema ce l’hanno. Del resto viviamo nel neoliberismo: la responsabilità dei fallimenti personali, lo sanno tutti, ricade solo sul singolo, non è vero?
Mi arrendo, sono triste e rassegnato. E pensare che una classe così bella non l’avevo mai avuta (nemmeno nelle mie precedenti esperienze al serale). E neanche dei colleghi così in gamba, coi quali intendersi a meraviglia. Sarà forse perché si tratta di docenti che si sono confrontati per la prima volta con l’insegnamento provenendo da altre esperienze lavorative. Non è che alla base della loro capacità di creare una sinergia con gli studenti c’è stato, oltre al loro impegno, proprio il fatto di non essere ancora stati plagiati dall’approccio burocratico e conformistico che contraddistingue ormai questo lavoro?
E allora penso alla scuola serale –questo mondo a parte dove, non senza difficoltà, l’insegnamento si presta a farsi davvero aiuto a chi ne ha bisogno– come a un sassolino in grado di far saltare –per usare le parole del compianto Alain Goussot– la catena della «pedagogia neoliberista» che interpreta l’istituzione scolastica alla stregua di un «puro ingranaggio funzionale al mondo dell’impresa e ai bisogni del mercato».
E d’altra parte basterebbe riflettere sullo specifico rapporto didattico che si stabilisce tra un docente e un alunno adulto. Diversamente dagli adolescenti, che al di là di tutte le potenzialità che incarnano non dispongono ancora di un bagaglio di esperienza significativo, gli allievi con cui ci si confronta al serale stanno davanti al professore con tutto il loro vissuto. E questo fa molta differenza, sarebbe ipocrita non riconoscerlo. Come ignorare che ognuno di loro potrebbe facilmente assumere il ruolo di insegnante se il discorso si spostasse, per esempio, sul loro ambito lavorativo? O come posso non dar valore al fatto di avere in classe persone giovani che hanno già responsabilità genitoriali? Persone che cercano di conciliare la routine lavorativa con la frequentazione delle lezioni e lo studio a casa nel weekend: anche se le motivazioni di ognuno di loro possono essere talvolta opache e molto varie, legate come sono alla loro specifica situazione anagrafica, lavorativa e famigliare, non bisognerebbe ammirare ed apprezzare ogni sforzo proteso all’obiettivo di rimettersi in gioco per provar ad ottenere un diploma? E questo ancora di più in un Paese in cui l’istruzione fatica moltissimo a fare da ascensore sociale, ovvero a ridurre le disuguaglianze e la relazione ancora troppo stringente tra il livello socio-culturale della famiglia di provenienza e la carriera scolastica degli studenti[1].
Nei giorni seguenti non riesco a smettere di pensare al modo in cui siamo stati trattati, e proprio da quella figura che, in teoria, dovrebbe essere la prima ad apprezzare il lavoro degli insegnanti. Il che forse accade solo quando le prestazioni dei docenti sono finalizzate a migliorare la visibilità delle scuole: dalla cura del sito internet, ai sempre più ricercati rapporti con la stampa locale, fino all’organizzazione degli ormai irrinunciabili open day e open night[2].
E però, nonostante l’amarezza, so che quest’anno abbiamo fatto davvero un bel lavoro: abbiamo bucato la «concezione efficientistica della didattica»[3] che non s’interessa della persona e ci siamo fatti comunità. I bistrattati studenti che entrano in classe alle 17 hanno dimostrato –tra difficoltà e parziali smarrimenti– che si possono avere speranze di rivalsa anche quando il copione sembra dire che si è ormai fuori tempo massimo.
E quante cose mi hanno insegnato: non dimenticherò le discussioni di politica con D., le competenze di storia contemporanea di A., la voglia di giustizia in ambito di diritti civili di S. e le aperture musicali di A. e S.; o ancora la discrezione con cui S., l’ultimo giorno di lezione, mi ha chiamato fuori dall’aula perché c’era bisogno di soccorrere una persona.
Come ha scritto Saul Bellow, «Tutti i tesori sono difesi da draghi. È così che uno s’accorge che hanno valore». Io e i miei colleghi siamo usciti dalla sfida col drago pieni di graffi e di risentimento, ma anche volendoci più bene di prima: un bel tesoro che il destino aveva in serbo per noi.
[*pseudonimo]
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[1] Christian Raimo, Tutti i banchi sono uguali: la scuola e l’uguaglianza che non c’è, Torino, Einaudi, 2017, pp. 18-27.
[2] Termini che, tra l’altro, rientrano in quella «neolingua ammiccante» che rappresenta un tassello non secondario della penetrazione nella scuola di «forme elementari di marketing». Si pensi anche a parole come crediti e debiti, rendimento e profitto, i quali riflettono la più generale diffusione nell’università e nella scuola, così come nelle altre istituzioni della vita sociale, di un vocabolario di matrice economica (Eleonora de Conciliis, Che cosa significa insegnare?, Napoli, Cronopio, 2014, p. 44; Mauro Boarelli, Contro l’ideologia del merito, Bari-Roma, Laterza, 2019, p. 62. E si veda questo pezzo di Daniele Lo Vetere per alcuni esempi della neolingua «performativa» del Ministero dell’Istruzione ).
[3] Massimo Recalcati, L’ora di lezione, Torino, Einaudi, 2014, p. 26.

di Roberto Todisco
«Credo di tornare a voi in un’altra forma» scrive Aldo Moro dalla prigionia alla moglie Noretta. Aveva ragione. L’altra forma è quella dello spettro, che da più di quarant’anni agita i sogni di un intero Paese, soprattutto quelli delle persone che di questo Paese gestiscono il potere. A evocare di nuovo il fantasma del Presidente della Democrazia Cristiana, ucciso dalle Brigate rosse nel maggio del 1978, è Marco Bellocchio, che torna su uno dei momenti più bui della Repubblica, dopo quasi venti anni. Da Buongiorno, notte a Esterno notte, un discorso che ha come continuità, appunto, il buio, la notte, come momento di incubi, di visioni oniriche e di fantasmi. Il tema del carattere fantasmatico di Aldo Moro è così evidente nei due lavori di Bellocchio dedicati ai tragici 55 giorni di quella primavera di fine anni Settanta, che il regista ci scherza su. In Buongiorno, notte con la scena della seduta spiritica, e nel secondo episodio di Esterno notte, il più delirante, con il grottesco personaggio del medium calabrese in cravatta sgargiante, cui un allucinato Cossiga presta attenzione.
Il film del 2003 e la serie televisiva in uscita in autunno per la Rai e presentata in due blocchi di tre puntate in questi giorni al cinema, pur se lontani per stile e passo narrativo, appaiono legati da una fitta rete di parallelismi. Tralasciando per un momento, per riparlarne in chiusura, la prima sequenza di Esterno notte, tutta la prima puntata è caratterizzata dalla presenza di Aldo Moro sullo schermo, cui la straordinaria interpretazione di Fabrizio Gifuni dà corpo, voce e gesti, in un’operazione di tale mimesi che ha il sapore della reincarnazione. Una reincarnazione, fra l’altro, che travalica il perimetro della finzione di questa serie, dal momento che Gifuni aveva già interpretato il Presidente della DC nel film Romanzo di una strage e da anni porta a teatro il Memoriale, il corpus dei testi di Moro dalla prigionia. Un inizio, dunque, che fa da contrappunto alla totale assenza dell’immagine di Moro nella prima parte di Buongiorno, notte. Ma più è carnale la presenza all’inizio della serie, tanto più si fa potente il ritorno in forma di spettro nelle quattro puntate successive, dopo il rapimento. Sia nel film che nella serie, Moro entra ed esce dai sogni (anche a occhi aperti) di tutti i personaggi che popolano l’interno (il covo dei brigatisti) e l’esterno della vicenda. Quella fra interno ed esterno è la dialettica che anima entrambi i lavori di Bellocchio, due mondi che si incontrano solo nelle frequenti inquadrature dallo spioncino di una porta, ma restano tragicamente distanti. Solo il fantasma di Moro ha la facoltà di attraversare quella soglia.
«Le circostanze avevano trasformato Moro in un loquace fantasma postumo, un fantasma dattiloscritto, però, di quelli che non possono fare paura», scrive lo storico Miguel Gotor, consulente di Bellocchio per la serie, nella sua edizione delle Lettere dalla prigionia. La scrittura in effetti svolge un ruolo centrale nell’affaire Moro. Innanzitutto le lettere recapitate dai brigatisti durante la prigionia, poi le lettere non recapitate e il Memoriale, ritrovati in fogli dattiloscritti nel novembre ’78 in un appartamento di Via Monte Nevoso, a Milano, e infine le fotocopie degli originali, saltate fuori da un tramezzo di gesso nello stesso appartamento, ma solo, incredibilmente, nel 1991. Tutti questi scritti costituiscono la manifestazione materiale della presenza fantasmatica di Moro. È la sua voce che torna e ritorna.
Bellocchio insiste molto sulla scrittura. Non solo utilizzando, soprattutto in Esterno notte, le parole di Moro affidate alla voce fuori campo di Gifuni, ma riflettendo esplicitamente sul potere della parola, e sul suo fallimento. In Buongiorno,notte il Moro interpretato da Roberto Herlitzka esprime il più classico dei tormenti dello scrittore, quando dice di cercare «la parola che arrivi al cuore, ed è una sola, non sono due». Chiunque scriva cerca quell’unica e precisa parola, figuriamoci se da essa dipende la vita e la morte. Moro per 55 giorni si è aggrappato al potere della parola. In Esterno notte c’è una scena che più delle altre ritorna su questo tema, ma, appunto, all’esterno del covo. Papa Paolo VI, un tormentato Toni Servillo, chiama nel cuore della notte don Cesare Curioni, il tramite del Vaticano per la trattativa con i brigatisti, per avere la sua opinione sul testo del discorso che vuole rivolgere ai rapitori. Lo stesso tormento della parola.
La parola scritta ha scarnificato il corpo di Moro, lo ha reso un fantasma, come abbiamo detto, ma non lo ha salvato. Anche perché la parola del prigioniero è stata da subito assediata. I suoi scritti hanno prima subito diversi livelli di censura, da parte dei brigatisti, che hanno scelto quali lettere recapitare e quali no, e da parte del governo e dei servizi segreti. Poi lo Stato, durante i giorni del sequestro, ha deciso, come strategia di controguerriglia, di delegittimare le parole di Moro, attribuendole a un uomo ormai non più padrone delle proprie facoltà. In seguito, dopo i primi ritrovamenti nell’appartamento di Via Monte Nevoso, ne ha messo in dubbio l’autenticità. Ma se la parola è destinata al fallimento, Bellocchio, sia in Buongiorno, notte che in Esterno notte, prova ad affidarsi al potere salvifico delle immagini, altro strumento fantasmatico per eccellenza. La serie si apre esattamente come si era chiuso il film, con l’immagine di un Moro liberato: sorridente e sollevato, Roberto Herlitzka cammina per le strade di Roma all’alba; Fabrizio Gifuni arrabbiato in un letto di ospedale, da cui guarda in tralice Andreotti, Cossiga e Zaccagnini, mentre fuori campo la voce dell’attore pronuncia il misterioso passaggio del Memoriale in cui Moro ringrazia le BR per averlo liberato, e annuncia che da uomo libero avrebbe lasciato la Democrazia Cristiana. Dunque Bellocchio, come il Tarantino di Bastardi senza gloria e C’era una volta a Hollywood, riscrive la storia e salva Moro? L’operazione del regista italiano appare più complessa. In entrambi i lavori propone la liberazione di Moro come una delle possibilità, e in tutti e due i casi, forse, come un sogno. Addirittura in Esterno notte la fine della prigionia di Moro è messa in scena tre volte, in tre modi diversi, e uno di essi è esplicitamente finto, metacinematografico. È come se, per Bellocchio, quello che è successo la mattina del 9 maggio 1978 sia qualcosa di così accecante da non poter essere “filmato” una volta per tutte, come fosse un prisma che non può che restituire tante immagini diverse. Molto significativo uno dei finali possibili proposti da Bellocchio: Moro chiuso nel bagagliaio della Renault 4 rossa, vivo, e come controcampo gli edifici simbolo dello Stato e dell’unità nazionale. Ancora interno ed esterno, il destino dell’uomo Moro e quello della Repubblica fatalmente connessi.
Alla fine della visione di Esterno notte, tuttavia, restiamo con l’idea che, dopo la parola, abbia fallito anche l’immagine. Bellocchio infatti ci lascia davanti alla realtà inoppugnabile dei filmati di repertorio e alle didascalie rosse che raccontano come sono andati i fatti negli anni seguenti. D’altronde aveva fatto dire alla brigatista Chiara, quella che in Buongiorno, notte “libera” Moro, che «l’immaginazione non ha mai salvato nessuno».
Di Aldo Moro resta il fantasma, mostrato da Bellocchio di volta in volta spaventoso, inquietante, tenero, minaccioso, a seconda della persona a cui “appare”. Sicuramente la sua “presenza”, la sua «dolorosa immagine» come la definirà Pertini nel suo discorso di insediamento, mette a nudo l’inadeguatezza e la meschinità dello Stato e del Paese, un Paese «dalla passionalità intensa e dalle strutture fragili», come lo ha definito lo stesso Moro, nel suo ultimo discorso alla direzione della Democrazia cristiana, il giorno prima di essere rapito. Poi è iniziata la notte.
di Tancredi Blu Silla

Omosessualità e vittime
( o “La castrazione dell’omosessualità maschile e perché superarla”)
Quando ho raccontato a mio cugino di dieci anni di essere fidanzato con un uomo, la prima cosa che mi ha chiesto è stata: “Vi hanno mai picchiato?”
Come poteva essere quella, la prima cosa che mi chiedeva? E d’altra parte era ovvio – pensavo mentre tornavo a casa – era ovvio che mi avrebbe chiesto quello (in fondo, anche altri miei parenti mi avevano guardato con occhi languidi dicendomi non è che non mi vada bene, eh, è solo che so che avrai una vita difficile). Ma possibile, davvero, che nella mente di un bambino che allora sapeva leggere da quattro anni, che giocava ancora al “facciamo che io ero il supereroe e tu il cattivo” esistesse già – così perentoria, predeterminata – l’associazione tra omosessuale e vittima?
Da queste domande nasce questo testo. Da dove arriva, tutto questo? Che cosa succede nella mente di noi maschietti che ci porta a un tale livello – diffusissimo, ahimè, anche oggi – di castrazione e negazione della nostra sessualità? E poi, che cos’è (perché è) la violenza inflitta da un eterosessuale nei confronti di un omosessuale? Mi preme arrivare a esplorare come la liberazione del desiderio omoerotico, e, quindi, la liberazione sessuale in toto di tuttƏ, significhi non solo liberare le persone queer dallo stato imposto di vittime, ma anche liberare i nostri carnefici dal loro ruolo.
Cercherò di esplorare questi processi passando per le tre fasi principali di elaborazione e rimozione del desiderio omoerotico maschile: il desiderio e la sua negazione, la sublimazione del desiderio e l’alienazione del desiderio.
Desiderio e negazione
Kochan, il giovane protagonista del romanzo-memoria di Yukio Mishima Confessioni di una Maschera (1949), è un perfetto caso-studio della psicologia di un uomo castrato, della potenza indomita del suo desiderio e di tutte le forze che lo contrastano.
Esiste al mondo un desiderio simile a un dolore lancinante[1], ci dice la voce narrante del romanzo. Il protagonista manifesta sin dall’infanzia una pulsione verso i corpi degli uomini. Col crescere del suo desiderio sessuale in adolescenza, aumenta progressivamente il dolore che egli prova. Si esercita su di lui una forza castrante che sembra avere due matrici: sociali e ereditarie. Le prime, hanno a che fare col modo in cui il mondo si presenta a Kochan. Siamo nel Giappone imperiale a cavallo della Seconda Guerra Mondiale, e il ragazzo viene cresciuto da una mentalità profondamente militaresca, maschilista e nazionalista. A scuola, come nel resto della società, l’omosessualità sembra che neanche esista, e Kochan non può trovare nell’intrico una via chiarificatrice che faccia emergere in modo sano le sue latenze e il suo desiderio. Le forze ereditarie, invece, sono più inafferrabili, influenzano in modo diretto quelle sociali, ne sono matrice. Sono un tramando generazionale e sono, per lunga tradizione, profondamente omofobe. Mishima riesce a raccontare queste forze invisibili perché le conosce sulla propria pelle. Mostra come la mente di Kochan, e la nostra, siano già piegate dal pregiudizio anti-omosessuale (nelle parole di Edmund Husserl: i pregiudizi sono oscurità derivanti da una sedimentazione tradizionale[2]”) nel momento in cui si sviluppano in noi semi di una sessualità.
Ho tantƏ amicƏ eterosessuali. Ho pochissimƏ amicƏ che non abbiano, almeno una volta, provato desiderio verso una persona del proprio sesso, che non mi abbiano raccontato di quella che ci siamo masturbatƏ nello stesso posto, che ci siamo vistƏ nudƏ e ci è venuto un dubbio, o di quella volta che in adolescenze si sono chiestƏ sono gay? O hanno guardato un video porno omosessuale. Per alcune persone esperienze di natura omoerotica si sono verificate in modo più massiccio ed evidente, mentre per altre attraverso canali più latenti o inconsci. La sessualità – ormai, lo abbiamo capito – è uno spettro fluido in continuo cambiamento, ma osserviamo comunque che, se quando si è giovani si sperimenta, si desidera, si guarda, ci si tocca, quella spontaneità va via via scomparendo nell’età adulta per quanto riguarda tutta l’area del desiderio omosessuale.
Non voglio, con questo discorso, passare per la persona queer che vuole ardentemente provare agli amici etero che in realtà sono queer pure loro. Non è questo che sto dicendo. Proprio perché la sessualità è fluida e complessissima, sarei sciocco se mi mettessi a sostenere che “tuttƏ in realtà siamo…” o che “tuttƏ in realtà desideriamo…”. In più, oggi, l’idea che il desiderio sessuale sia un fatto universale, è negata dalla visibilità ottenuta da parte delle persone asessuali, e non lo vediamo più come un bisogno cosmico universale. Riconosciamo la nostra, innegabile, ossessione col sesso che – talvolta – lo deforma a un dato fin troppo abusato nello spiegare il nostro funzionamento. Ma, proprio perché la sessualità è innegabilmente fluida e complessa, allora è impossibile – per definizione – darla come un fatto assodato e inequivocabile. Specialmente quando un maschio – attraverso meccanismi chiaramente castrati, repressi e neganti – impone sugli altri la propria indiscutibile eterosessualità (ovvero, l’Orientamento Sessuale della Norma Vigente) con le classiche frasi: Ma io mica sono ricchione, o: Io non ho nulla contro i gay, però…, non appena si insinua nel discorso un velo di dubbio dialettico che incrini la sua etero-corazza.
In media, moltissimi uomini hanno, nel loro sviluppo sessuale, attraversato desideri anche omosessuali – in forme, complessità e intensità differenti – almeno una volta. Moltissimi uomini sono stati quindi, in qualche modo, almeno una volta, non-etero. E, al contempo, molti di loro, a un certo punto della vita si sono imposti il seguente paradigma: Io Sono Etero, punto. Non provare a metterlo in dubbio.
Confessioni di una maschera mostra, nel suo acume narrativo, come le nostre menti e i nostri corpi siano un ammasso indicibile di contraddittorie complessità. Crescere e nutrirsi come spugne nella tossicità dell’educazione etero-patriarcale ci rende, inevitabilmente, soggiogatƏ. Come potrebbe, un bambino dell’età di mio cugino, aver già introiettato una tale avversione nei confronti dell’omosessualità? I suoi genitori sono etero come altri, ma non peggio di altri. Dubito che abbiano agito su di lui come le guardie di Arancia Meccanica su Alex, ecco. E, per quanto non metta in dubbio che a scuola (anche io, alle elementari, usavo gay come insulto, pensando significasse scemo, un po’ come Kochan) o nelle narrazioni che ha incontrato fino ad ora abbia trovato una forte omofobia intrinseca, sono altresì convinto che queste non bastino a rendere un bambino di dieci anni omofobo (senza che egli capisca neppure cosa significhi).
Sublimazione e violenza
C’è una scena, nello straordinario Beau Travail (1999) di Claire Denis, in cui il sergente maggiore Galoup fronteggia, nel preludio di una lotta che ricorda quella tra un matador e un toro, la giovane recluta Gilles Sentain. I due – torso nudo, corpo pronto a combattere – si avvicinano lentamente, muovendosi in cerchio come in una danza sul terreno riarso del Gibuti.
Denis non mostra lo scontro, ma, solo, il suo principio. Disegna le tensioni dei loro corpi sudati e muscolosi, e, con la raffinatezza che la caratterizza come regista, incarna in una sola scena l’intera complessità di rapporti tra i due uomini. Da un lato il militarismo, le sue dinamiche, i suoi ruoli, le sue gerarchie. Da un altro la sottesa, ma scalpitante, tensione omoerotica, il desiderio di Galoup verso Sentain.
Beau Travail è uno dei più grandi esempi di cinema che racconti il processo di sublimazione sessuale violenta che agisce tra una figura di potere e un suo sottoposto. Che racconti cosa succede quando un individuo maschile sessualmente represso può sfruttare la propria posizione di potere (istituzionalizzata, militarizzata) per sublimare, in modo fisicamente e psicologicamente violento, il proprio desiderio omosessuale castrato.
Galoup prende di mira (e condanna) il giovane Sentain per un motivo apparentemente legato al suo bisogno di potere. Bisogno che vedrebbe in Sentain un perfetto capro espiatorio per via della sua posizione di debolezza (è timido e taciturno, è meno muscoloso, meno fisicamente massiccio degli altri legionari ed è l’ultimo arrivato). Il processo inconscio sembra essere il seguente: Galoup è un piccolo potente che non si sente visto, apprezzato, dal generale, suo superiore. Ha potere, però, sui cadetti. Vede in Sentain l’anello debole tra di loro, e scatena – subdolamente – su di lui, la sua rabbia.
Quello che Denis fa, però, è aggiungere un elemento all’equazione: racconta il legame tra desiderio omoerotico e violenza istituzionalizzata. Che i giochi di potere, la sopraffazione e la violenza siano insiti nelle dinamiche gerarchiche militaresche, un po’, lo sapevamo già (non dò il fatto per scontato, ma, per i fini del discorso, lo metto per ora da parte). Quello che pochƏ registƏ hanno fatto finora, invece, è chiedersi: E se tutta quella violenza fosse solo perché il sergente era ricchione?

Elementi di Critica Omosessuale (1977) di Mario Mieli è uno dei (pochi, pochissimi) pilastri di teoria queer scritti in Italia. È, a mio vedere, tutt’oggi, un grandissimo testo, nonostante vi si trovino pensieri superati, ora decostruiti. Tesi centrale del suo discorso è sostenere l’universalità del desiderio omoerotico e trovare in esso una delle chiavi per la liberazione delle genti tutte dallo schiavismo della società tardo-capitalistica. E, parlando dei quesiti alla base del film di Claire Denis (ma più in generale di tutti i quesiti per cui cerco di trovare – intuire – qui, una risposta) mi torna profondamente utile. Nel terzo capitolo del saggio (I maschi eterosessuali ovvero le criptochecche) Mieli analizza le forme di sublimazione ed estroversione del desiderio omoerotico negli uomini. Dopo aver passato in rassegna i diversi luoghi sociali in cui tale estroversione si sublima (dallo sport, al cameratismo al patriottismo – e, qui, occhiolino a Mishima), esplora come la violenza inflitta da un (presunto) etero nei confronti di un non-etero non sia altro che la più alta, ed estrema, forma di estroversione negativa del desiderio castrato. Nello specifico – e qui, secondo me, la critica di Mieli si fa illuminante e sottile – scrive:
“In queste società, il sadismo si presenta quasi sempre sotto forma alienata. Ciò avviene (…) quando la manifestazione delle tendenze sadiche si accompagna alla repressione di un’altra componente del desiderio e alla sopravvalutazione complementare di un’unica espressione dell’Eros. Così, riconosceremo una forma di sadismo alienato combinata con un impulso omosessuale stravolto e con un’ostentazione dell’eterosessualità nelle aggressioni (…) nei confronti di noi gay”[3].
Il ragionamento che Mieli delinea è complesso quanto sublime: osserva come nello Stato della Repressione si goda del sadismo subito (cioè, della repressione subita) esperendo la violenza inflitta come piacere. Secondo lui la violenza di un etero contro un non-etero non è che una violenza che l’etero infligge anche a stesso per sublimare il proprio desiderio castrato. Quindi, godere nel fare del male a un gay è godere in modo masochistico. Kochan, nel romanzo di Mishima, è attratto da immagini di corpi maschili nudi e martoriati. Si eccita guardando il dipinto di San Sebastiano martire e le immagini dei muscoli sanguinanti. In lui, troviamo l’apice del masochismo evidenziato da Mieli. E, a un certo punto del romanzo, il giovane espliciterà proprio questo paradosso. Dirà di se stesso, in una delle proprie fantasie: Mi estasiava la visione della mia forma prostata a terra, contorta ed esanime[4].
A mio vedere, Mieli ha ragione nel dire che ci sia del masochismo nella violenza di un etero nei confronti di un non-etero. Credo anche, però, che per quanto ci sia – innegabile – una dose di sublimazione da parte dell’etero anche del proprio desiderio omosessuale, più in generale si possa parlare di masochismo perché l’etero che picchia agisce sotto il controllo implicito di una società castrante e opprimente. Egli è (aldilà del proprio orientamento sessuale latente – che questo ci sia o meno, intendo) un represso che agisce sotto l’ascendente della castrazione. È omofobo perché gli è stato insegnato ad esserlo. Fa del male anche a se stesso, perché non sa agire al di fuori delle proprie gabbie.
Jean Genet esaspera – con tutta la classe della sua eccentricità – il rapporto tra repressione del desiderio omosessuale e violenza, nel suo romanzo del 1947 Querelle di Brest. L’attraente e ombroso marinaio Querelle approda nella città di Brest lasciando dietro di sé una serie di cadaveri e spasimanti. Genet vede nell’archetipo del bel marinaio una delle più alte incarnazione della dicotomia tra omoerotismo e violenza di cui raccontano Denis, Mishima e Mieli e aggiunge al discorso una nuova, preziosissima, sfumatura.
Querelle uccide. Il suo corpo viene preso da una forza esterna che lo rimuove e al suo posto mette un oggetto (così, scrive l’autore) freddo e spietato, che ammazza le proprie vittime. Querelle uccide coloro che lo attraggono, che lo eccitano sessualmente: più alto è il desiderio, più impetuosa sembra essere la forza annichilente che prende il suo corpo e lo rende un omicida. Se Genet si fosse fermato qui, nulla di nuovo. Ma quello che fa, brillantemente, è un passo in più. Dopo aver ucciso il marinaio Vic nel bosco Querelle si dirige alla Feira, il postribolo della città. E lì, gioca a dadi con Nono, il proprietario del locale. Le regole sono semplici quanto brutali: se è Querelle a ottenere il numero più alto, allora può andare a letto con la padrona del locale, Lysiane, ma se perde, Nono lo scoperà.
Querelle, volontariamente, bara, per ottenere un numero più basso di Nono. E, lì, prima che venga penetrato per la prima volta, Genet scrive: Querelle non avrebbe più dovuto rispondere di nulla, perché colui che aveva commesso l’omicidio era morto[5]. Ci dice quindi, qui, tutto della psiche del nostro protagonista e fa, nello studio della sessualità maschile castrata, un (gaio) passo avanti: Querelle uccide non per sublimare un desiderio castrato, ma per trovare in sé una scusante per esaudire (e giustificare a se stesso) il proprio desiderio omosessuale. In poche parole: l’inconscio di Querelle lo porta a uccidere perché poi lui possa dirsi mi merito di essere penetrato da Nono, è l’unico modo per espiare, è l’unico modo per uccidere l’assassino che è in me.
La penetrazione è anche qui raccontata come un fatto umiliante e punente che abbassa il maschio a status di passività. Lo destituisce dal suo trono di figura dominante e, in qualche modo, lo uccide. Ovviamente, Genet racconta questo preconcetto conscio della sua irrealtà. Lo mostra per dirci di tutte le sovrastrutture castrate nella mente degli uomini che respingono (ma desiderano) l’amore omosessuale. E lo dice, incarnando queste contraddizioni proprio nella mente di un omosessuale. L’unico modo che Querelle ha per espiare il suo ruolo di carnefice (ma in realtà per appagare il suo desiderio omosessuale) è diventare una vittima.
Alienazione e paradigma della vittima
Mio cugino mi ha chiesto se sono mai stato picchiato perché gli è stato detto che due uomini che stanno insieme sono in costante pericolo. Essere checca è essere deboli, passivi, non-maschi. Alienare il desiderio omosessuale significa renderlo un fatto cristallizzato ed esterno da sé. Su un versante (come abbiamo visto) ciò avviene attraverso un lungo processo di negazione e deformazione dell’esperienza gay, che risulta in meccanismi psicologicamente e fisicamente violenti; sull’altro versante – quello del perbenismo tollerante – l’omosessualità viene alienata come un fatto di martiri e di vittime, in cui si finisce per accettarla come condanna che non si sceglie, un dolore da compatire perché implica per forza di vivere da reietti. Vittimizzare significa sia allontanare da sé per permettersi di tollerare (non è che non mi vada bene, eh, è solo che so che avrai una vita difficile) che, al contempo, rinnegare la propria potenziale non eterosessualità.
Continuare ad alimentare il paradigma della vittima significa permettere al cieco perbenismo di sussistere. Significa normalizzare commenti come quelli che moltƏ di noi si sentono fare ogni giorno perché siamo vistƏ come poverƏ martiri. Accettare questa lenta erosione non è dissimile dall’accettare la violenza che subiamo, anzi, è la stessa cosa. È solo l’altra faccia della medaglia. È il motivo per cui mio cugino mi ha chiesto se fossi mai stato picchiato. Non è giusto, in primis per noi, che dobbiamo – addomesticatƏ – sottostare alla violenza sistemica celata nelle parole dei benpensanti e, in secundis, non è giusto per lui che viene a sua volta piegato da un mondo che non ha scelto.
Il mondo anti-omosessuale che ci culla fin dal grembo è un mondo che per definizione si erige su un paradigma strettamente fallico ed etero-centrico e che applica meccanismi analoghi (di rimozione, marginalizzazione e violenza) nei confronti di tutte quelle categorie che sembrano non farne parte. Possiamo trovare solo in uno spirito intersezionale e intercomunicante una via per la liberazione. Prima di tutto riconoscendo i singoli caratteri, propri di ogni fenomeno di marginalizzazione e, poi, intrecciando questa esperienza a tutte le altre. Un pensiero di liberazione queer non può esistere senza la lotta femminista (il riconoscimento, in esso, di analoghi meccanismi di assoggettamento e sopraffazione da parte del potere fallico – aggiungo, chissà perché registe come Denis, Hittman o più recentemente Campion, siano state in grado di raccontare così bene l’esperienza di uomini sessualmente repressi…) o quella anti-razzista o tutte quelle che ambiscono alla liberazione totale di tutte le soggettività marginalizzate e, in ultima, alla liberazione stessa dei nostri carnefici.
Nelle parole di Mario Mieli: ciò che di noi checche è maggiormente biasimato contiene gran parte della nostra gaia potenzialità sovversiva. Il mio tesoro lo conservo nel culo, ma il mio culo è aperto a tutti.
[1] Y. Mishima, Confessioni di una maschera, 1949
[2] E. Husserl, La crisi delle Scienze europee, 1972
[3] M.Mieli, Elementi di Critica Omosessuale, 1977
[4] Y. Mishima, Confessioni di una Maschera, 1949
[5] J. Genet, Querelle di Brest, 1947

di Ornella Tajani
Un romanzo deve somigliare a un viale pieno di sconosciuti,
in cui passano solo due o tre creature che conosciamo a fondo. (cit.)
La vicenda editoriale di Tempesta in giugno di Irène Némirovsky, da poco apparso per Adelphi, è complessa, travagliata e reca i segni del secolo che ha dato vita al romanzo. Si tratta di una nuova versione di Suite francese, basata su un dattiloscritto posteriore al manoscritto originale. Così come l’edizione francese, edita da Denoël, questa italiana è stata curata da Teresa Lussone e Olivier Philipponnat, che mediante gli accurati paratesti guidano il pubblico fra le tappe della genesi dell’opera. Oltre a tradurre i capitoli inediti e rivedere la traduzione di Laura Frausin Guarino, Lussone ha scritto una brillante postfazione, intitolata Un romanzo molto chic. La riscrittura di «Suite francese», in cui fornisce, sotto forma di decalogo, il commento alle modifiche apportate dall’autrice rispetto alla precedente stesura, fra cui: l’eliminazione di ogni episodio che rallentasse il ritmo della narrazione, la soppressione di passaggi caratterizzati da un realismo troppo brutale, l’amplificazione di effetti umoristici e grotteschi, la più marcata «tipizzazione» dei protagonisti, la maggior cura nei riferimenti alla natura (come Rimbaud, Némirovsky sapeva che a ogni autore o autrice che si rispetti tocca «connaître un peu sa botanique»). Il percorso finale tracciato dalla curatrice diventa così non solo un approfondimento per chi già conosceva la prima versione del romanzo, ma si offre anche come un percorso dell’opera di questa autrice per chi si ritrovasse a leggerla per la prima volta.
Che cos’è Tempesta in giugno? È l’affresco dell’esodo parigino nei giorni dell’occupazione nazista: un romanzo corale, in cui la fuga è declinata in funzione della classe sociale dei fuggitivi: se il celebre scrittore Gabriel Corte si lamenta perché i profughi pidocchiosi gli sviliscono quel bel «clima da tragedia» che ha davanti, i proletari, a proposito dei ricchi, commentano «Non è che siano cattivi. È che non conoscono la vita». Sulla base di un’esplicita intenzione dell’autrice (si veda ancora la postfazione), le vicende si susseguono veloci e avvincenti «come in un film» – sicché chi legge ha l’occasione di assistere tanto al racconto delle avventure notturne di un gatto, anche lui travolto dalla ritirata, quanto a una mirabile riscrittura dell’episodio di Fabrice Del Dongo nella Certosa di Parma di Stendhal, in cui il protagonista si ritrova sperduto su un campo di battaglia, senza sapere che è Waterloo.
Il romanzo si chiude sulla parola «terra» e la prosa classica e densa di Némirovsky in italiano suona così:
Il vento si era placato; nato chissà come, se n’era andato chissà dove. Nella sua furia cieca aveva spezzato rami, squassato tetti; aveva disperso le ultime tracce di neve sulla collina, e adesso da un cielo scuro e burrascoso cadeva la prima pioggia di primavera, fredda ancora ma impetuosa, fitta, e si apriva un varco sino alle radici nascoste degli alberi, sino al nero e profondo cuore della terra.
È interessante notare che lo stesso termine apre il romanzo sin dall’esergo (presente solo in questa versione, non in Suite francese, e dunque aggiunto a posteriori):
“La Terra è una sfera che non poggia su niente”.
Libro di geografia per bambini
Esergo sconcertante, che spalanca una voragine ai piedi di chi legge, preludendo alla tempesta storica che verrà nelle pagine seguenti: il pianeta Terra è sospeso, infinitamente vulnerabile, eppure la vita, la morte e la guerra lo attraversano con la furia di un vento che finisce per raggiungerne il cuore. Il romanzo di Némirovsky costituisce una splendida descrizione di questo attraversamento.
E, se è vero che esistono diversi motivi per ritradurre un libro – storici, filologici, editoriali, estetici -, il caso della scoperta di una nuova versione dell’opera resta uno dei più succulenti.
di Giorgio Mascitelli

Non vorrei essere nei panni del recensore del Dossier Benjamin di Fredric Jameson ( trad.it di Flavia Gasperetti, a cura di Massimo Palma, Treccani, Roma, 2022, euro 26) perché sono tali e tanti gli stimoli che questo libro contiene che renderne conto, anche solo per sommi capi, nel breve spazio di una recensione è fatica improba. Eppure è possibile riassumere in maniera immediata il motivo per cui esso è di grande interesse anche per i non specialisti: infatti, sebbene non abbia senso indicare per un autore così poliedrico e improvviso quale Benjamin un erede spirituale, individuale o collettivo, ma tutt’al più una serie di snodi decisivi che sono stati sviluppati e talvolta pienamente compresi solo nelle epoche successive, bisogna indicare in Jameson colui che ha proseguito lo sviluppo di uno dei nodi più importanti. Alludo alla riflessione sugli stretti rapporti che intercorrono tra forme della cultura e dell’arte e quelle dell’esperienza sociale delle rispettive contemporaneità, la tarda modernità per il tedesco e la postmodernità per lo statunitense, colti in una prospettiva analitica e straniante, che potremmo definire al contempo materialista e inattuale.
Il sintomo più eloquente di questa affinità tra i due è la libertà quasi iconoclasta di giudizio con cui Jameson tratta alcune delle opere più acclamate di Benjamin. Per soffermarsi sul discorso, a parer mio, più importante per un operatore culturale e per un artista del XXI secolo, vale la pena di ricordare il giudizio di Jameson su L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, secondo il quale questo testo non ha un vero oggetto né una tesi centrale, quanto piuttosto ‘una serie di temi il cui centro di gravità non fa che oscillare di sezione in sezione’ ( pp.276-77), addirittura tale saggio andrebbe letto come un seguito della meno nota e più settoriale Breve storia della fotografia.
Alla base di queste oscillazioni starebbero lo stesso concetto di aura, che a parere di Jameson indicherebbe da un lato la bellezza, la pura contemplazione estetica, e dall’altro un’esperienza altamente mobile e completamente individuale, e in particolare il vano tentativo benjaminiano di fissarlo entro una categoria astratta coerente ( p.295). Non che in passato siano mancate le critiche anche autorevoli a questo concetto ( per esempio Adorno o Brecht), ma qui Jameson sembra sottolineare i limiti intrinseci ( e al contempo la sua irrinunciabilità) di un termine che aspirerebbe a tradurre in termini sociologici e percettivi un’esperienza estetica che sembra essere apparentata con la dimensione del sublime. L’aura appare il portato di un’esperienza individuale connessa con il sorgere tra il Seicento e il Settecento, a cominciare dalla Francia, dell’idea del buon gusto estetico, che entrerebbe in crisi con l’apparizione delle possibilità di riproducibilità tecnica dell’opera. Giova ricordare che non è la possibilità tecnica in sé, ma i rapporti di produzione entro cui questa opera che determinano la fine dell’aura. Il gusto, per quanto ragione di vita per alcuni di noi, non è per niente più definibile dell’aura in una maniera astratta entro una dottrina estetica, ma è una singolarità storica del tutto congiunturale. Non è forse un caso che Jameson spenda alcune pagine nel VI capitolo per descrivere il debito di Benjamin verso Riegl, che con il concetto di Kunstwollen ha messo in primo piano la possibilità di un giudizio estetico radicalmente storicistico.
La perdita dell’aura in Benjamin non è connotata come inestimabile, nel senso di una nostalgia alla francofortese di un rapporto di fruizione con l’opera d’arte presentato come ideale e assoluto, nonostante sia a sua volta nato in un momento storicamente dato, ma semplicemente come una trasformazione sia tecnologica sia sociale del rapporto di fruizione, che si incrocia pericolosamente con l’ascesa del fascismo e con la sua tendenza all’estetizzazione della politica. Il limite di Benjamin, secondo Jameson, si deve scorgere nel fatto che lo sforzo di collocare il fenomeno della perdita dell’aura entro quelli che sono i rapporti di produzione della società capitalistica produce un cortocircuito perché questo materialismo rigoroso tende a considerarli in maniera troppo statica, non tenendo conto dell’innovatività della tecnologia anche verso direzioni imprevedibili. ( p.334)
In realtà, secondo lo studioso americano, Benjamin in un altro saggio, L’autore come produttore, individua una nozione di tecnica più interessante: sebbene essa non coincida con la tecnologia, ma piuttosto con le pratiche dell’avanguardia, come per esempio il ready made dadaista, essa avrebbe la funzione rivoluzionaria di far uscire l’autore dal paradosso della letteratura impegnata, la cui forma contrasta con il contenuto di denuncia sociale perché la colloca ancora dentro le istituzioni borghesi. In questo caso la tecnica è l’elemento concreto di rottura e di differenziazione che svolge una funzione positiva. Da qui è possibile cogliere un aspetto centrale e fertile e attuale del pensiero benjaminiano ovvero la distinzione tra il progresso, concetto inutile che consiste nel prospettarsi un futuro a immagine e somiglianza delle proprie illusioni storiche o se si preferisce della propria filosofia della storia, e il nuovo che non è nient’altro che il punto di rottura del presente ‘così travolgente da far svanire qualsiasi vaga idea del futuro come le profezie di un mago’ ( p.330). Per Jameson, insomma, la tecnica così intesa può essere strumento di rottura e dell’esperienza del nuovo.
La lettura di Jameson tende in questo modo, da un lato, a staccare definitivamente Benjamin da qualsiasi critica francofortese all’industria culturale, e successive evoluzioni, per esempio la società dello spettacolo debordiana, e dall’altro nel farlo diventare un teorico dell’avanguardia come pratica rivoluzionaria e non solo meramente estetica. Non spetta a me discutere la pertinenza filologica di una simile lettura ( perdipiù relativa a un autore per cui la frammentarietà è una cifra epistemologica ed estetica del proprio discorso), dico solo che questa lettura mette Benjamin strettamente in contatto, sia come sale sulle ferite sia come caffeina, con le contraddizioni del nostro tempo e a questo livello il testo deve essere discusso.
Jameson individua tre circostanze in cui l’aura risorge nella contemporaneità a dispetto di ogni riproducibilità tecnica, anzi grazie a essa. La prima ha a che fare con quella che l’autore chiama l’Erfahrung televisiva collettiva, in cui in occasione di certi eventi, come nel caso dell’omicidio Kennedy, vi è una partecipazione del pubblico che non può essere ridotta a pura passività; il secondo è il lavoro informatico dei programmatori e degli hacker, che ha una sua dimensione di artigianalità; infine le nuove forme televisive delle serie sembrano favorire una nuova forma di hic et nunc che avrebbe una sua dimensione auratica. Innanzi tutto di queste proposte colpisce che due su tre riguardino ambiti non immediatamente estetici, segno che un’estetizzazione diffusa è ormai trionfante. Ora, per quanto il senno di poi abbia mostrato che l’equazione benjaminiana tra estetizzazione della politica e fascismo funzioni solo negli anni Trenta, credo, in quanto concittadino di Berlusconi, di essere nelle condizioni di poter affermare che l’estetizzazione diffusa comporti anche in assenza di fascismo qualche problema per la democrazia e la politicizzazione delle masse. E del resto lo stesso Benjamin nei citati anni Trenta si trovò nelle condizioni di dover denunciare il ruolo di Marinetti, che, quanto a maestro di nuove tecniche, non fu certo inferiore ai dadaisti e ai surrealisti.
Se confrontiamo questo approccio jamesoniano con quello situazionista, cioè di quell’avanguardia che più sistematicamente ha coltivato quell’idea, e quella prassi, di stretto rapporto tra attività estetica e rivoluzionaria, ciò che colpisce è che in Debord lo spettacolo, il televisivo e forse il visuale in generale sono momenti del falso, di una forma di alienazione della coscienza umana che viene sottomessa dal feticismo delle merci, di cui lo spettacolo è la forma concreta e percepibile, mentre Jameson, pur consapevole di tutti questi elementi, sottolinea gli effetti imprevedibili di pratiche e tecniche magari nate per quelle finalità che i situazionisti denunciavano. Anzi, riconoscendo che la nozione di spettacolo è in qualche modo erede della riflessione benjaminiana sulla fantasmagoria delle merci ( p.245), Jameson tende ad attribuire un aspetto positivo al visuale in Debord, per cui almeno marginalmente la contemplazione avrebbe un effetto di conoscenza e di azione. Qui forse Jameson non tiene sufficientemente in considerazione che nell’autore francese l’azione è sempre azione di un’avanguardia, politica e artistica, che ha caratteri di superiore consapevolezza teorica. Ciononostante bisogna ammettere che la posizione di Jameson è dialetticamente più dinamica e vitale, ma a patto di riconoscere che l’esperienza del nuovo non è destinata di per sé a produrre nessuna dinamica positiva. Per esempio la forma di fruizione delle serie televisive non sembra affatto aver prodotto nuove forme di consapevolezza, abbiamo al contrario una fruizione che ha favorito nuove forme di conformismo ideologico, sia pure progressista, e nella quale l’hic et nunc si traduce in un senso di appartenenza a un club esclusivo di raffinati spettatori di opere cult, secondo i dettami di quel fenomeno postmoderno che è il camp.
Sembra insomma che la lettura di Jameson, in un’opera peraltro assolutamente importante e densa di stimoli, trovi il suo punto di arrivo in una considerazione delle possibilità dinamiche della tecnica come automaticamente e/o tendenzialmente liberatorie. Vale allora la pena di ricordare che lo stesso Benjamin dell’Autore come produttore trova la possibilità di una dinamica positiva della tecnica in una presa di coscienza della posizione sociale dell’artista nella società che quindi attua consapevolmente la sua azione artistica. Si tratta cioè di un’azione volontaria o militante, se si preferisce, che può trasformare le situazioni create dalla tecnica in qualcosa di imprevedibile al di fuori delle dinamiche sociali vigenti. In altri termini la questione è quella di non affidare alla tecnica un ruolo salvifico oggettivo, prova ne sia che le tecniche dadaiste e surrealiste hanno avuto un significato rivoluzionario laddove gli artisti che le realizzavano erano legati a un’idea e a un prassi di trasformazione sociale, ma usate per esempio poi nella pubblicità hanno perso ogni significato del genere.

di Laura Mancini
La voce brusca dello zio e quella fioca del nonno riscossero Adamo dalla sua beatitudine. Si voltò e li vide sbracciarsi oltre il cancello mentre un uomo vestito di lenzuola sbatacchiava il lucchetto. Adà, sfiatava il nonno, Adamo! tuonava lo zio. Adamo fece un nodo al respiro. Appena cessato il chiasso lo zio e il nonno gli corsero incontro seguiti dall’uomo di lenzuola. Che fì, com’è success, piagnucolava il nonno accelerando il passo sciancato che gli aveva sempre conosciuto. Per lo spavento di quell’intonazione dolente che gli era invece estranea, Adamo poggiò la fronte sulla pietra e chiuse gli occhi. Si sentì sollevare e i calzoncini stretti sul ventre, i suoni confusi, l’aria di terra. Prese a scavare la pietra con la punta delle dita per arpionarsi ai segni di ferro che non sapeva essere lettere e numeri. 1923-1946.
Poi venne agguantato, arrotolato in un maglione e, in una pasta di lacrime e moccio, subito tradotto fuori dal cimitero, dove aveva trascorso ore felici sul marmo ghiacciato, in ascolto dei grilli, della civetta e del sentiero scricchiolante di ghiaia che i ragazzini di giorno discendevano in picchiata sgommando. Mè, mo torna Adamuc’, gli aveva suggerito il padre, ma lui era rimasto a contemplare le foglie dell’albero lucidate dal vento della notte. Supino, con le gambe raccolte sul busto, aveva ammirato quelle foglie e dietro le foglie le stelle, ammucchiate e scintillanti come dal gradino di casa non apparivano mai.
Il cimitero era circondato dai frutteti dove molti di domenica pranzavano al sole, sdraiati su tovaglie bucate. Vagando per quei giardini Adamo riceveva in dono ciliegie e pesche succose. Shìne com’ no confermava il padre, poteva accettarle, ringrazia e Adamo ringraziava. Un pomeriggio, lontano dalla madre da tanti giorni quanti rendono corti i vestiti e lunghi i capelli, aveva trovato su un uscio un cestino di mele e lo aveva preso pensando, ma non sentendo, shine com’ no. Poco dopo due uomini in divisa avevano bussato alla porta chiedendo vostro nipote è in casa? È stato denunciato per furto. La nonna aveva ululato per l’onta e la protesta, ma allo stanarlo sul retro con il cestino tra le ginocchia e le guance gonfie di frutta, era scoppiata a ridere, e con lei gli uomini in divisa. Avevano riso, e riso, tutti tranne Adamo, prostrato dal mal di pancia. Ia’, mo vattinne a papà, ma non si era mosso. Aveva percorso la strada in discesa dietro il carro del prete, e in salita con i soli nonni, ma poi di nuovo in discesa, senza altri che il buio e le stelle, per fissare il punto esatto in cui gli uomini che gli toccavano la testa con mani di legno avevano lasciato il padre. Nella foto incorniciata indossava una camicia bianca con un fiocco di carta al collo. Ti sì fatt’ grande, gli aveva detto per premiare il coraggio del bambino che Adamo non poteva più essere. Mammà mo risposa, zizì è pateto. Adamo aveva continuato a guardare le foglie ballare indifferenti.
Canta Adamuc’, gli aveva proposto il padre al mattino, e lui aveva cantato lungo tutta la strada sterrata che portava alla spiaggia, riempendo i polmoni di aria salmastra e restituendo alle chiome dei nespoli le sue fantasie più dolci, il desiderio di vivere libero in città, divertirsi e guadagnare. Erano verde, erano verde ’e fronne, intonò scendendo dalle fratte all’arena. Aveva temuto di scoprirsi la voce spezzata come le costole, il fiato corto, il passo molle, e invece riusciva ad accontentare il padre con i più schietti vocalizzi. La fine del mondo, lo sentì infatti gongolare. Me pare ancora ’e sèntere sì a vita mia, insisté Adamo esaltato dal riconoscimento. Era felice che il tono tenesse nonostante i fianchi contusi, la giornata di vacanza era lunga e ancora piena di occasioni.
Al mare c’erano solo coppie appartate e qualche pescatore in riva. Adamo passeggiava controvento, rifiatando dal cicaleccio che sulla corriera, a scuola e al bar avvolgeva ogni suo sorriso e ogni suo silenzio. Cussì ci piace a nuie. Così piaceva a loro, era vero, si disse, scalciare pietre senza pensieri, fumare e cantare con sentimento. Il mare era di vetro, il cielo una coperta. Adamo si massaggiò in segreto i due ematomi sulle anche, ovali corti e larghi come le suole delle scarpe che li avevano impressi. O come le foglie di magnolia che avrebbero ombreggiato il suo sonno cittadino, tra le braccia della destinataria della lettera nascosta in tasca. ’Sta vita che sarìa s’io nun tenesse a te? Ispirato dalla visione, aggiunse il verso nello spazio bianco che precedeva la firma. Mancavano due mesi alla comparsa natalizia della bella guagliona, come lei non avrebbe tollerato di essere definita se avesse udito ciò che solo Adamo poteva. Ma assai bella, brav’ rintuzzava il padre a sorpresa di tanto in tanto, per ricordargli a quale fine fossero destinati i suoi dispiaceri quotidiani. Era un puro caso che la sera precedente Adamo avesse ricordato di trasferire la lettera nel vestito della domenica, prima che quello della settimana fosse messo a bollire. Immaginò gli occhi da gatta fondersi in un orrore ciclopico, la bocca accartocciarsi in un cruccio e ridacchiò imbarazzato. L’amour, l’amour, che te fa fa’ l’amour, buttò lì il padre per calmare il tremolio di ginocchia in cui sempre l’idea di lei lo precipitava.
Poi le nuvole stesero un velo sulla spiaggia e nel cuore trillante di Adamo, il vento increspò il mare con piccoli mulinelli di schiuma e la sabbia si sollevò in un nastro feroce. S’è fatt nir nir, sospirò il padre per avvisarlo e Adamo mirò dritto alla gola del porto, dove trovò la coppola, le braccia conserte e la bocca serrata in un taglio. Per un minuto o due non fece altro che registrare le onde dietro di sé, quanto eterne e vere, sentendo la potenza del mare allargargli le spalle, raddrizzargli la schiena, tendergli i muscoli, uno a uno. Sullo sfondo del panorama al contrario erano il muro di sassi, lo sbattere delle persiane, la chiesa, la piazza, il bar del corso, le saracinesche abbassate, la villa, le panchine, la fontana e quella cattiveria piccola così. Corr’ Adamuc’ precisò il padre colpendo forte al centro della mente buia di Adamo, poiché mai, nemmeno nei giorni più duri, lo aveva spinto lontano.
Li vede questi? gli chiese il medico. Adamo non confermò l’ovvio tenendo gli occhi fissi sulla lastra. Sa che cosa sono? Sembravano foglie di una talea ben radicata nel terreno, o piccoli funghi germogliati all’ombra di un boschetto. Metastasi, e uccideranno sua madre. Suo padre è informato? Suo padre era morto, ed era vivo, e non aveva mai sentito la parola metastasi, avrebbe puntualizzato Adamo se di fronte non avesse avuto uno dei morti, ma uno dei vivi. Cosa possiamo fare, commentò piatto invece, per fingersi interessato e andare al sodo. Niente, non possiamo fare niente. Adamuc’ lo chiamò il padre per sollecitarlo a dire altro. Adamo controllò l’orologio facendolo roteare sonoramente sul polso e strinse la mano al medico; poi, giunto al pianterreno del corpo B, telefonò al fratello e gli riferì ciò che gli era appena stato illustrato senza note di biasimo per l’interrogatorio patibolare. Più tardi, mentre percorreva il centro a passo d’uomo sgrullando la cenere più all’interno che all’esterno dell’abitacolo, sentì le parole del padre carezzargli la barba lunga due giorni. Starebbe bene partire consigliava con il tatto che sempre gli usava, ma poi, come spaventato dalla mancata reazione del figlio, aggiunse: Sì tu il primo. Adamo sapeva di essere il primogenito, e l’unico ad avere dimestichezza con le carte, la casa, la banca, ma anche che nulla sarebbe riuscito a farlo retrocedere nel passato, nemmeno il commiato da chi lo aveva messo al mondo. Non sia mai, non seppe trattenersi dall’infierire il padre, che ti penti quann’ è tardi. No, replicò Adamo fermo, era sfuggito alla risacca delle onde e non si era scusato per aver rubato le mele, la sua piccola storia aveva tentato continuamente di attribuirgli colpe che colpe non erano.
Nel pomeriggio andò a prendere le bambine al corso di musica e con la scusa di voler sentire quanto fossero progredite dispose le sedie in balcone per suonare qualcosa insieme. L’acqua te ’nfonne e va, urlarono con due chitarre e tre voci al boschetto su cui affacciava la palazzina. Angeli sono, stelle del firmamento gli sussurrò il padre perché capisse che gli era vicino in ogni istante, dalla sua parte ovunque fosse. Canta Adamuc’ e Adamo cantava, assecondando le stonature delle figlie con tutto il fiato che aveva in corpo e gettando ogni dubbio residuo a quel tramonto monco d’oro e di rosso nella certezza che il brutto potesse infine scivolare sulle piastrelle lucide, mutare in linfa, penetrare la terra secca del giardino e generare un altro platano, che il sodalizio attorno al quale l’asse della sua vita aveva girato non subisse intrusioni, che i vivi restassero coi vivi e i morti coi morti con quell’unica, personale eccezione, e che l’eccezione durasse in eterno, tramandandosi. Piangi? gli chiese la piccola. Ti prego piangi! lo spronò la grande, ti vuole consolare, disse indicando la sorella, è la fissazione del momento. Ma nessuno è più felice di me, replicò Adamo, ed era vero: nessuno era più felice di lui.
Nel Giorno dei Morti, che era il giorno dei vivi, Adamo tornò a controllare in quali condizioni versasse ciò che si era lasciato dietro. Il cielo era bianco e i rami degli alberi lo additavano agonizzanti come a dire sai e non parli, tu lo sai e non dici niente. Una coppia di mezza età puliva a testa china il vialetto con rapide mosse decise, l’uomo spazzava affastellando la sterpaglia in capannelli che la donna travasava dentro grandi buste nere. Adamo li salutò prestando attenzione a non interferire coi loro mucchi e distratto dallo schivarli si trovò di colpo al cospetto della foto e della pietra – il fiocco di carta, gli occhi di fuoco, 1923-1946 – senza riparo dall’emozione, ma l’emozione era il sollievo e non recava violenza. Sempre chesto sono, ribadì il padre snervato dalla sua circospezione, la senti anche tu la voce, che giovane rimane. Adamo si mise in tasca una foglia secca prefigurando il milione di frammenti puntuti che ne sarebbe derivato, tra i ricci crespi della fodera del montone. Un pizzico per ogni ragione del bene, un pizzico per ogni ragione del male. Semp’ a penzà e ripenzà lo redarguì il padre morbido. E morbido era tutto, di quel giorno, il prato, il muschio, la stoffa, i petali, il suono aperto e poi chiuso del proprio nome che Adamo sentì cantilenare quando era ormai prossimo all’uscita. Da una siepe tosata di fresco sbucava il volto raggrinzito di un buon amico, furbo e triangolare come il tempo lo aveva conservato. Il padre, tramortito dal riconoscimento, strepitò ved’ tu come s’è fatt’! trovando il bambino di un tempo canuto e zoppo, invecchiato com’era il figlio, e come lui non era. C’incontriamo nella terra dei vivi, disse l’amico quando fu tanto vicino da toccare la spalla di Adamo. Rivelava nel portamento una maestosa decadenza che la parlata lenta, come di chi voglia essere meglio compreso, non smentiva. Hai ancora la Olympia blu? gli chiese Adamo per camuffare quanto gli fosse duro quel morbido, quanto nero quel bianco. L’amico emise un sibilo che era forse ironia e guardandolo dritto negli occhi scandì fuori contesto: ho sempre avuto di te una stima, un’ammirazione. La prima foglia si ruppe sotto la pressione delle dita, e continuò a sminuzzarsi mentre l’amico infilava tra i pensieri sconnessi nuove implacabili e definitive sentenze. Passano gli anni, ma i sentimenti tuoi non si spengono. Poi tacque, aspettando una reazione. Adamo scosse confuso la testa per chiarire che anche lui credeva in quella negazione e no, si risolse a dire rimestando la foglia rotta in tasca, non si spengono. Adamuc’, disse il padre, jammucenne.
Ricevo e volentieri diffondo:
«Quando abbiamo lanciato la Scuola in piena pandemia, una Scuola nuova che non c’era, crediamo sia stato in parte un gesto di grande coraggio e allo stesso tempo di estremo rischio. Sono le componenti che spingono in genere quelli che hanno un sogno ma anche una grande passione, come noi. Abbiamo superato difficoltà che sembravano insormontabili, la formula che avevamo immaginato non solo ha retto nel concreto, ma ha entusiasmato docenti ed allievi, creando nel contempo un clima speciale a Torre di Palme, dove il rapporto con la comunità locale è stato magnifico, così come ci ha entusiasmato il fatto che subito la Scuola si è fatta conoscere in tutto il panorama nazionale ed oggi è già un punto di riferimento per chi vuole raccontare i grandi temi internazionali attraverso il reportage, mettere insieme creatività e voglia di scoperta. Un’altra soddisfazione è sapere i nostri allievi già al lavoro!Siamo certi che insieme ai nostri sostenitori, a cominciare dal Comune di Fermo, ai docenti, tutti professionisti di grandissima bravura ed esperienza, daremo al nostro territorio una istituzione concepita come una finestra sul mondo. È solo l’inizio di una grande avventura.
Angelo Ferracuti e Giovanni Marrozzini
Nata nel 2020 da un’idea dello scrittore Angelo Ferracuti e del fotografo Giovanni Marrozzini, la Scuola di letteratura e fotografia Jack London è riuscita nei suoi due primi anni di vita a portare a termine il suo obiettivo: insegnare il mestiere del reportage e portare i suoi allievi “sul campo” nella migliore tradizione londoniana, con stages e concrete possibilità per il futuro. Una scuola per imparare un mestiere, quello del raccontare, declinato non solo sulla letteratura e l’arte, ma anche e soprattutto sul giornalismo, sul racconto delle aziende e delle realtà, per dare alla comunicazione il valore etico e sociale che oggi più che mai è necessario.

La Scuola è stata promossa dall’associazione culturale “Jack London” con il contributo del Comune di Fermo, dell’Ambito Territoriale Sociale XIX delle Marche, con il sostegno della Fondazione Carifermo e dalla Daca di Tre Elle, con la partnership della Fototeca provinciale Fermo e dell’Archivio Mario Dondero, il Centro Studi Osvaldo Licini, con il patrocinio del Parco nazionale dei Monti Sibillini e del Parco nazionale di Frasassi e della Gola Rossa, e ha trovato poi, lungo il percorso, partner quali Fondazione Lavoroperlapersona e Premio Ghergo a sostegno degli stage formativi, l’Agenzia France Press, Cospe Onlus, la casa di produzione MaxMan, l’Agenzia fotografica Contrasto, le testate Rai Radio Tre, Fatto Quotidiano, Left, Redattore Sociale e Ristretti Orizzonti: proprio grazie a questi partner è stato possibile formulare stage di grande impatto, dai reportage sulla povertà in Italia a quelli sui nuovi lavori, dall’impiego in redazioni giornalistiche fino alla possibilità di essere autori radiofonici o raccontare l’Africa come fotografi insieme a France Press Africa, o l’Amazzonia colombiana con Cospe. Tra questi, il progetto “Un passo dopo l’altro” finanziato dalla Fondazione Lavoroperlapersona: un viaggio a piedi lungo la via Emilia, da Rimini a Piacenza, a firma di una allieva della scuola. Rai Radio Tre, inoltre, ospiterà i reportage della scuola che saranno protagonisti dei podcast della trasmissione Tre Soldi.
Fondazione Carifermo e Daca Tre Elle sosterranno inoltre due delle tre borse di studio in palio per gli iscritti.
Insegneranno alla scuola Jack London nell’anno 2022/2023: Andrea Bajani (scrittore), Daniele Benedetti (Brand manager di Trentino Marketing, Christian Caliandro (critico d’arte), Annalisa Camilli (giornalista di Internazionale) Giovanna Calvenzi (fotografa e photo editor), Matteo Cavezzali (scrittore), Ascanio Celestini (attore, regista), Christian Elia (giornalista e consulente ong) Francesco Faeta (antropologo), Renata Ferri (caporedattore photoeditor di IoDonna), Alberto Giuliani (fotografo), Helena Janeczek (scrittrice, Premio Strega 2018), Carlo Lucarelli (scrittore), Marco Longari (France Press Africa), Alessandra Mauro (Direttore editoriale casa editrice Contrasto), Santa Nastro (critico d’arte e giornalista) Franco Pagetti (fotoreporter), Claudio Palmisano (fotografo), Massimo Raffaeli (critico letterario), Luca Rocco (Canon Europa), Alberto Rollo (editor Mondadori), Michele Smargiassi (giornalista di Repubblica).
Le ore di lezione previste sono 250. I corsi avranno inizio il 31 ottobre 2022. Dopo la pausa natalizia (dal 23 dicembre) le lezioni riprenderanno dal 10 al 28 gennaio 2023.
Le iscrizioni sono aperte sul sito www.jacklondon.it dove è possibile leggere il bando per intero e conoscere tutte le modalità per conseguire le 3 borse di studio in palio; si chiuderanno il 30 settembre. Il costo complessivo del corso è di 3.300 euro. Saranno selezionati 28 partecipanti, tra i quali i 3 borsisti. Le lezioni si terrà nella stessa location che ha ospitato la prima edizione e quindi nello splendido Borgo di Torre di Palme».
Terzo e ultimo intervento tra Federica Guglielmini (FG) e Dome Bulfaro (DB) per valorizzare la boxe e riflettere sulla boxe. Dopo i loro due rispettivi articoli monografici il terzo e ultimo intervento avviene in forma di gioco come se si assistesse ad un incontro tra loro due, su quattro domande, pensate come se fossero quattro round della durata di poche righe ciascuno.
Il primo e secondo round si possono leggere QUI e QUI.
1) Il pugilato sta ritornando nei cuori dei giovani e degli artisti perché?
FG: I giovani rivedono nei pugili e nelle pugilesse icone sportive e culturali a cui sentono di appartenere; vederli lottare, prepararsi con dedizione, ascoltare le loro storie vere che spesso sono anche simili alle loro, li coinvolge. Ugualmente gli artisti si sentono chiamati a rispondere alla spettacolarità della boxe con l’impulso creativo che li contraddistingue. Arte chiama arte.
DB: La boxe è il crocevia di ogni essere umano. Nessuno può esimersi dall’incrociare i pugni con l’altro e con se stesso. Nessuno. Ognuno di noi, se vuole veramente evolvere spiritualmente, non dovrà solo salire, combattere e scendere dal ring ma dovrà imparare a farlo con arte. La catarsi che vivono un pugile, un rapper, un poeta performer è analoga: passa dall’affermazione di se stessi. È il primo stadio, quello giovane, quello in cui l’istinto alla sopravvivenza avvia un processo di trasformazione ma in cui l’ego svolge ancora un ruolo trainante.
2) Perché ami il pugilato?
FG: Perché ha salvato anche me. Lentamente, come quell’amore che dura per tutta la vita, che cresce e non smette mai di bruciare ricordandoci di essere vivi. Il pugilato ti invita a celebrare le tue paure, ombre e sogni senza mai tirarti indietro. L’essere umano è cifrato dalla lotta, sin dal primo giorno che viene al mondo. Guardo la boxe e vedo la storia dell’uomo, di tutti noi. Nati per essere qualcuno con un nome, di cui possiamo farne ciò che vogliamo. Guardo la boxe, scrivo la sua storia, ed è come rinascere sempre.
DB: Non amo tutto del pugilato: ad esempio non amo il virilismo congenito del pugilato, almeno quello che abbiamo conosciuto fino ad oggi. Amo la boxe perché come la poesia è un’arte della nudità: così come il boxeur sale sul ring, a pugni stretti, armato solo di se stesso e null’altro, allo stesso modo il poeta performer sale sul palco, armato solo della sua voce e di quello che egli è e sa fare. La poesia si fa, in sostanza, come la boxe: a mani nude e a voce nuda.
3) La boxe è ?
FG: Un’invenzione umana, uno sport attraverso cui ci diamo l’occasione di misurare quanto siamo disposti a sentire la nostra carnalità così fragile, così forte, così mortale. Ha bisogno di un pubblico, dei suoi protagonisti e di chi sappia raccontare le sue gesta.
Io esisto al pari della natura,
degli elementi che la compongono,
io sono la mia specie,
la sua furia.
(Federica Guglielmini)
DB: La poesia è davvero potente quando si manifesta dove non diresti mai: nel pugno della boxe la poesia è esplosiva. Nel gergo pugilistico, quando un pugile ha un pugno che picchia duro, si dice che ha una bella “castagna”. La boxe è come una castagna: brutale come i suoi aculei, dura come il suo guscio, carnosa e gustosa come il suo frutto.
4) Il pugilato è una nobile arte perché?
FG: Perché fa della sua impresa sportiva, un racconto eroico fra due sfidanti, desiderosi di essere giudicati, letti come i migliori libri di poesia. L’estetica della boxe esiste da millenni. La danza, compiuta sul ring dai pugili, procede come a passo di musica. La boxe è l’orchestra della vita.
DB: Il pugile è disposto a mettersi alla prova. Come Arjuna nella Bhagavadgītā, è chiamato ad affrontare la sofferenza [BG 1.20-46] per nobilitare il proprio spirito. Il pugile si mette volontariamente di fronte a quello che per tutto l’incontro sarà il bivio: restare e combattere o abbandonare. In svariati modi potrebbe abbandonare anziché restare nella difficoltà e nel dolore: alzando il braccio, voltandosi di spalle rispetto all’avversario, mostrando il paradenti. Invece no, sceglie di restare.

di Roberto Bolaño
[Traduzione di Dario Valentini]
La mia idea era di intervistare John Malone, il musicista scomparso. Da cinque anni ormai, Malone aveva abbandonato quella zona oscura dove dimorano le leggende e adesso, in realtà, non faceva più notizia, anche se i fan non avevano dimenticato il suo nome. Negli anni Sessanta del ventesimo secolo Malone, insieme a Jacob Morley e Dan Endycott, era stato uno dei fondatori dei Broken Zoo, uno dei gruppi rock di maggior successo dell’epoca. Nel 1966 i Broken Zoo registrarono il loro primo LP. Fu un album magnifico, all’altezza delle cose migliori che si facevano in Inghilterra in quel periodo, e sto parlando di anni in cui erano in attività Beatles e Rolling Stones. Poco dopo uscì il secondo LP e con sorpresa di tutti fu ancora migliore del primo. I Broken Zoo fecero un tour europeo e poi uno negli Stati Uniti. Il tour nordamericano si prolungò per diversi mesi. Mentre viaggiavano di città in città il disco scalava la classifica delle vendite e alla fine raggiunse la prima posizione. Quando tornarono a Londra si presero qualche giorno di riposo. Morley si chiuse dentro a una villa che aveva appena comprato nella periferia di Londra dove aveva uno studio di registrazione privato. Endycott si è dedicò a rimorchiare tutte le belle donne che giravano intorno al gruppo, finché una di queste bellezze non rimorchiò lui, comprarono una casa a Belgravia e si sposarono. Malone, dal canto suo, sembrava più spento. Secondo alcuni biografi dei Broken Zoo, partecipava a strane feste, pur senza specificare cosa intendessero loro, i biografi, per strane. Immagino che nel gergo dell’epoca, ciò significasse un mix di droga e sesso. Poco dopo Malone sparì e dopo un tempo ragionevole, un mese? due mesi? Il manager del gruppo tenne una conferenza stampa dove annuciò quel che era già sulla bocca di tutti: John Malone aveva lasciato il gruppo senza dare spiegazioni. Poco dopo si presentarono Morley ed Endycott, insieme al batterista, Ronnie Palmer, e a un altro dei musicisti, Corrigan, e diedero la loro versione dei fatti. Fatta eccezione per Ronnie Palmer, Malone non si era messo in contatto con nessuno. Aveva telefonato a Palmer circa tre settimane dopo la sua sparizione solo per dirgli che stava bene, di non cercarlo e non aspettarlo perché non aveva intenzione di tornare. Molti a quel punto diedero il gruppo per spacciato. Malone era il migliore di loro e senza di lui era difficile immaginare come i Broken Zoo sarebbero potuti andare avanti. Allora Morley si rinchiuse per un mese o giù di lì nella sua villa in periferia e Endycott ogni giorno passava dieci ore a lavorare a casa di Morley, finché non composero il terzo LP del gruppo. Al contrario di ciò che i critici si aspettavano, il terzo album dei Broken Zoo fu migliore del primo e del secondo. Nel primo, il settanta per cento delle canzoni erano state scritte da Malone. Sia testi che musica. E anche nel secondo, il settanta per cento delle canzoni erano opera di Malone. Il resto era stato composto rispettivamente da Morley e da Endycott, ad eccezione di una canzone del secondo LP in cui il testo era stato scritto a quattro mani da Morley e Palmer e che rappresentava senza dubbio di un’eccezione. Nel terzo disco, invece, il novanta per cento delle canzoni furono scritte da Morley ed Endycott e il restante dieci percento diviso tra Palmer, Morley, Endycott, e un nuovo musicista, Venable, che si era unito al gruppo quando era stato chiaro che Malone non sarebbe tornato. Sul disco c’era una canzone dedicata a Malone. Senza alcuna amarezza. Solamente con amicizia e ammirazione. Intitolata “When Are You Going To Come Back?”, fu pubblicata come singolo e in meno di due settimane raggiunse la prima posizione nella top ten londinese. Malone, ovviamente, non tornò, e sebbene diversi giornalisti del tempo si fossero messi a cercarlo, tutti i tentativi risultarono vani. Si arrivò persino a sostenere che fosse morto in una città francese e i suoi resti sepolti in una fossa comune. Per quanto riguarda i Broken Zoo, al terzo album seguì un quarto, unanimamente apprezzato, e dopo il quarto vi fu un quinto album e poi un sesto, doppio, che fu l’apoteosi, l’LP insormontabile. A quel punto rimasero senza suonare per un po’, ma poi tirarono fuori un settimo LP, abbastanza buono, e poi un ottavo e a metà degli anni ottanta pubblicarono il loro nono album, di nuovo doppio, e Morley ed Endycott sembrava avessero fatto un patto col diavolo, poiché il nono ebbe un successo travolgente in tutto il mondo, dal Giappone all’Olanda, dalla Nuova Zelanda al Canada, passando come un tornado attraverso la Thailandia, che è tutto dire. Infine il gruppo si sciolse, anche se di tanto in tanto tornarono a riunirsi per suonare in posti molto speciali, in giorni speciali, le loro vecchie canzoni. Nel 1995 un giornalista di Rolling Stone scoprì dove si trovava Malone. L’articolo suscitò un certo stupore solo nei fan della prima ora dei Broken Zoo, quelli che conservavano ancora i loro primi dischi in vinile. Alla maggior parte dei lettori interessava ben poco il destino di un tipo che quasi tutti davano per morto. La vita di Malone, per tutto quel tempo, in un certo senso, sembrava essere stata una morte in vita. Quando aveva abbandonato Londra non aveva fatto altro che tornare a casa dai suoi genitori. Questo era tutto. Per due anni era rimasto lì, senza far nulla, mentre i suoi ex compagni si lanciavano all’arrembaggio dell’universo.