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Messaggio di Moni Ovadia sul conflitto israelo-palestinese

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Moni Ovadia in occasione di una manifestazione a Savona a sostegno del popolo Palestinese ha inviato questa dichiarazione di totale supporto: mi sembra molto esplicita e senza ambiguità.

Assialità dei legami : fotografie di Isabelle Boccon-Gibod

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di Lisa Ginzburg

Ho conosciuto Isabelle Boccon-Gibod qualche anno fa, perché un’amica la portò a cena da me (ancora si cenava insieme, con quegli “aggiungi un posto a tavola” a movimentare convivialità che è difficile e anche doloroso ricordare nel presente di adesso). Isabelle aveva appena perso sua madre (“appena”, letteralmente): una fine annunciata, ma il dolore le invadeva lo sguardo nel mentre fu nel corso della serata di una levità, profondità e verità che mi colpirono molto. Non cito l’episodio per superficiale irriguardo, ma perché della personalità di Boccon-Gibod è impregnato il suo lavoro, e quella stessa autenticità asciutta, rigorosa, torna in mente e trova particolare conferma nelle sue ultime produzioni.

Structure è un libro fotografico che esce ora in Francia con prefazione di Daniel Mendelsohn (autore de Gli scomparsi) (https://hemeria.com/produit/structure-isabelle-boccon-gibod/). Structure è un libro permeato dalla qualità della misura: lo stesso contenimento umanissimo che avevo osservato in Isabelle Boccon-Gibod quella sera a casa mia, la percezione di un’intensità, l’autorevolezza di un’estetica che trova ragione anzitutto nel saper contenere, imbrigliare, addomesticare: e cosí poter condividere.

Con un passato recente di ruoli di alta dirigenzialità nell’imprenditoria della carta (una nemesi: il suo nonno materno era Georges Fridemann, fondatore della sociologia del lavoro industriale), Isabelle Boccon-Gibod in parallelo percorre da anni una strada creativa in cui convergono traiettorie diversificate, tutte afferenti allo stesso sguardo acceso da curiosità specifiche, chirurgiche.  Un talento di fotografa pensato e vissuto come costante, lento, nitido avvicinarsi a temi distinti ma che sempre trovano struttura nella stessa linea di confine: quel crinale che separa distanza e implicazione, nitore dello sguardo e obiettività da un lato, dall’altro la densità assoluta del coinvolgimento.

Structure si compone di una serie di ritratti di famiglia: scatti in posa, in bianco e nero, dei quali colpisce immediatamente la simmetria e geometria delle inquadrature. Scatti in cui nuclei famigliari diversi e vari per composizione – numerosi o più ristretti, più e meno misti quanto a provenienze – invitati nello studio di Isabelle Boccon-Gibod si concedono al suo sguardo fotografico. Lo studio è un loft a Parigi, dalle parti di Port Royal, un immenso spazio inondato di luce grazie a una gigantesca finestra affacciata sul cielo. Lì i suoi soggetti, obbedienti ma liberi, si sono di volta in volta adeguati a quanto da lei richiesto per esigenza narrativa. Per prima cosa si è trattato per loro di scegliere come disporsi nello spazio, ma lungo griglie invariabilmente fisse, geometriche. In un secondo tempo, in virtù di quell’alchimia specialissima che può essere di un set fotografico, è stato chiesto loro di esprimersi così, nell’obbedienza allo schema prossemico: lasciar trapelare il loro rapporto con il nucleo e con la natura di ciascun legame interno alla struttura. Ogni membro delle famiglie ritratte in Strucuture racconta attraverso postura ed espressione cosa lo leghi sia agli altri, sia al “nucleo famiglia” inteso come struttura di cui lui/lei/loro sono parte. Il risultato è una griglia di linee assiali, segmentate da dinamismi interni tutti ispirati alla linearità.  Geometria come solida sponda di contenimento alle passioni e ragioni dei protagonisti dei ritratti – passioni compresse, che proprio perché compresse lasciano emanare la loro forza. Arabeschi di rapporti dove le emozioni si dispongono e parlano secondo le stesse traiettorie che sono delle posture e disposizioni nello spazio di ciascuno.

Lo scopo estetico resta invariato: sgombrare il campo da ogni orpello, svincolare la raffigurazione da qualsiasi dettaglio o particolare che possa generare qualsivoglia forma di teoria. “Nessun interrogativo sociale da parte mia”, mi racconta Isabelle. Non c’erano domande di partenza; piuttosto la necessità artistica di raffigurare il nesso tra il minuscolo (il singolo soggetto) e il Maiuscolo (il nucleo, la struttura famigliare). Cercare “l’immensità di ciascuno e il suo posto in un sistema genealogico”.  Erigere a criterio narrativo solo e  soltanto la prossemica, il disporsi nello spazio tracciando arabeschi di distanze che a propria volta disegnino traiettorie, linee assiali. Contro il mistero e l’elusività dell’auto-rappresentazione, la verità inoppugnabile delle relazioni, intersezioni involontarie nella cornice di uno scatto in posa.

Structure ha una lunga gestazione, con significative rimodulazioni a segnare un percorso denso e molto riflettuto; per tre anni Isabelle Boccon-Gibod ha lavorato a ritratti di famiglia dove a scattare erano, a rotazione, i componenti di ogni nucleo. Solo dopo quel lungo esperimento ha deciso di capovolgere lo schema, essere lei la fotografa, lei a dover trovare il proprio posto. Spettatrice di relazioni, mai però in senso psicologico. Dalle sue sessioni di fotografia ogni volta Isabelle Boccon-Gibod esce prostrata: il suo collocarsi è fatica, fatica fisica, come altrettanta fatica è sgombrare lo spazio da ridondanze mentali, lasciare che sia la geometria della realtà a parlare. Contenimento, anche lì, nel senso di equilibrio nei rapporti di forza: “né il soggetto mi schiaccia, né io lui ,” puntualizza; “perché è la foto in sé a dover agire da regolatore di empatia. La stessa geometria delle linee deve poter funzionare da contenitore di dramma”. Insiste su quella stanchezza fisica, mai mentale; fisica perché “il grande sforzo è trovare un equilibrio in termini di presenza, in cui nessuno predomina, o fa ombra all’altro”.

Qualcosa si sprigiona dal rigore formale che Isabelle Boccon-Gibod impone ai suoi soggetti (genitori e figli, madre e figlia, coppie), e che fa sviscerando dinamiche, permettendo contiguità o invece distanze. Quanto ai soggetti, molte volte s’è imbattuta in loro per caso, persone adocchiate a una fermata di autobus, stranieri a Parigi o cittadini parigini, come che sia ogni volta puntualmente da lei convinti a posare, persuasi spiegando loro in pochi minuti il suo progetto lineare e ambiziosissimo insieme. Raccontare la famiglia ma senza proiezioni,  secondo un’unica ottica entomologica, raffreddata dall’assenza della freddezza delle teorie. Dissezionare personalità e legami facendolo però nella cornice di uno sguardo sempre lucido, cartesiano. Lavorare di sottrazione, togliere e ancora togliere, finanche il “brusìo visuale”, così che “il ritratto s’imponga al di là di ogni interferenza”. Una visione che a tutti i costi vuol essere neutra, per nulla romantica, in nessun senso enfatica.

La sfida è vinta: famiglia diventa “struttura” perché luogo di costruzione e di distruzione attraverso un disporsi assiale nello spazio che corrisponde a una neutralità di rapporto con il tempo e quindi con lo stratificarsi della vita famigliare (la genealogia). Assialità dell’incanalare un magma di passioni senza supporti di ragioni. Una visione scabra, volutamente orfana di sfumature sentimentali; immagini che fanno pensare come intesa in senso di concetto, di condizione sociale normativa – applicando quel genere di teorizzazione che le foto di Boccon-Gibod non intendono generare – la famiglia smotti, deflagri e si scomponga, riducendosi a figura , a griglia di assi intersecati secondo criteri invisibili e decisivi. “Figura” austera in senso quasi spietato, a dire la ferocia di legami le cui nervature sono capillari, disegnano mosaici. Entità liriche proprio perché refrattarie a ogni forma di poesia.

Non stupisce che Daniel Mendelsohn abbia trovato nelle foto di Structure una chiave di lettura preziosa per rivisitare il proprio stesso lavoro, quelle memoria genealogica della diaspora identitaria che attraversa il suo bellissimo Gli scomparsi (Neri Pozza 2007). Nel rigore formale e nell’assialità delle relazioni famigliari delle foto di Isabelle Boccon-Gibod, lui a ragione rinviene una prospettiva liberatoria, una soluzione diversa di oggettivazione dello stesso concetto di legami e di “passato di famiglia”. Distanziamento, di questo si tratta: mise en abyme, ma senza l’abyme. Punti di vista che in nessun modo attutiscono l’urgenza di interrogativi  psicologici e antropologici su identità individuali e collettive; che non azzerano il dolore e la centripeticità di ogni esilio e trasmigrazione genealogica. Piuttosto, dispositivi in grado di “sistemare” le cose nell’apparenza dello spazio per moltiplicarne la portata lungo la curva del tempo.

L’Anno del Fuoco Segreto – Il camicino da morto

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La descrizione del progetto L’Anno del Fuoco Segreto, si può leggere QUI.

di Loredana Lipperini

Il camicino da morto non era una vera e propria camicia: era una maglietta bianca di lana fine con un paio di ghette in tinta, sempre candide come capelli di demone. La zia di Camilla l’aveva preso grande, 3-6 mesi e non 0-3, perché, diceva, ai bambini i vestiti sfuggono, neanche il tempo di metterglielo una volta e già non entra più. Dovrai, diceva, rimboccargli le maniche e rigirare in vita l’elastico delle ghette, ma vedrai che lo sfrutterà. E’ roba buona, diceva ancora, una bella lana morbida, che non irrita la pelle.
Camilla aveva passato la mano sulla lana: effettivamente era morbida, effettivamente era di qualità, ma le sue dita sopra quel bianco sembravano di cera, e dovette chiedere scusa e sedersi. “Mi manca l’aria”, aveva sorriso. La zia aveva sorriso a sua volta: “Eppure sei nel trimestre migliore. Il sesto mese è il più bello: meno disturbi, tanto appetito, bei sonni filati. Approfittane”. Camilla avrebbe voluto alzarsi, prendere il coltello per il pane che sporgeva dalla brocca blu e piantarlo nella gola della zia. Il camicino da morto non sarebbe stato più bianco ma rosso scuro e il suo bambino si sarebbe salvato. Perché è questo che aveva visto nella maglietta e nelle ghette: un neonato livido in una bara bianca, con le piccole mani chiuse a pugno sul petto, gli occhi serrati, vestito con quell’orribile regalo che sicuramente era dovuto a buone intenzioni, perché tutti hanno sempre buone intenzioni quando vanno a trovare una donna incinta e portano regali, che poi i regali non si dovrebbero fare prima della nascita, Camilla aveva un cassettone pieno di camicine della fortuna scarlatte, tute gialle e verdi e azzurre, scarpine, magliette così piccole che la riempivano di costernazione.
Come avrebbe potuto tenere in braccio una creatura minuscola come quella che stava per venire al mondo? Lei non era capace di far nulla, o quasi, non sapeva girare una chiave nella serratura senza il terrore di non riuscire a compiere il giro, e l’avrebbe sicuramente spezzata e sarebbe arrivato un fabbro brontolone che l’avrebbe guardata malissimo (e non avrebbe, allo stesso modo, spezzato il bambino?). Era arrivata a trent’anni pencolando in un corpo che non sapeva manovrare, e infatti a lungo l’aveva trattato malissimo, quel corpo, affamandolo fino allo sfinimento e rifiutando altro che non fosse uno spicchio mela a pranzo e uno a cena. Poi però se l’era ripreso, il corpo, anche se ancora oggi, quando invitavano amici a cena, continuava a dimenticare le portate. Serviva un vassoio di mozzarella fresca e pomodori (la pasta no, la pasta mai) e doveva alzarsi per prendere l’olio, e di nuovo per portare a tavola il sale, e poi ancora il basilico che pure aveva colto e lavato con cura, ma che misteriosamente era rimasto in cucina. La testa funzionava, quello sì, funzionava benissimo, due lauree, una in filosofia e una in psicologia, che non riusciva a mettere a frutto, se non scrivendo saggi poco accademici e molto onirici che nessuno pubblicava, ma serviva a tenersi occupata, quell’attività inconcludente, fin quando, così diceva Marco, sarebbe arrivato il bambino, e tutto sarebbe andato a posto, la testa congiunta al corpo, saldata, finalmente, dopo tutti quegli anni in cui fluttuavano ognuno in reami separati.
Da quando era rimasta incinta, in effetti, aveva vinto il corpo. Era stato un sollievo. Aveva dormito e mangiato e fatto tutto quello che non si era permessa di fare per anni (persino divorare una pizza a giorni alterni) e aveva cominciato a pensare che finalmente aveva trovato quel che cercava da quando era nata.
Finché non era arrivata la zia, col camicino da morto. Il camicino da morto era, in origine, una fiaba dei fratelli Grimm che le aveva sempre fatto paura: c’era questo morticino, un bambino bello e buono di sette anni, che continuava ad apparire in giardino, in casa, ovunque, perché la madre continuava a piangere e il camicino si inzuppava e lui non poteva dormire, e finalmente la madre smette e il bambino muore del tutto, e la Camilla bambina non se ne capacitava. Piangere doveva, quella madre, per tenere il bambino fantasma nel giardino, in cucina, dovunque volesse restare, invece di lasciarlo andare nella terra per l’eternità. Quindi, davanti al regalo della zia aveva avuto quello che si chiama presagio, e adesso, lo sapeva, il presagio si sarebbe avverato, e naturalmente sarebbe morta anche lei, subito dopo, perché a nulla sarebbe servito avere un corpo a quel punto. Una strega, la zia. Lo aveva sempre pensato, con quella faccia grassa e gentile, tutti i grassi e gentili nascondono cose orribili. Dunque, quel coltello. Dicevamo.
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Non c’erano quando la casa è stata costruita. Sono arrivati sul colle piuttosto tardi, all’inizio della pensione, che li ha colti di sorpresa perché si sentivano ancora i ragazzi che erano stati quando si erano conosciuti, o i giovani genitori nervosi in cui si erano trasformati, e invece si trovavano a studiarsi, le caviglie gonfie di lui, i colpi di tosse da fumatrice di lei, e a rimproverarsi finché non si innervosivano a vicenda, e quello che prendeva il rimprovero più forte usciva di casa per non litigare. E’ stato proprio per smettere di uscire di casa e di litigare che una mattina – la tosse di lei era più cavernosa e le caviglie di lui violacee – , si sono seduti al tavolo della cucina, davanti a una tazza di caffè. Ha preso lei l’iniziativa.
Dovremmo andarcene, ha detto. Lui l’ha guardata subito, attento, mentre abitualmente doveva ripetergli la frase due o tre volte perché era distratto, lo era sempre stato ma ultimamente di più, quindi significava che stava pensando la stessa cosa e non aveva ancora trovato il modo di dirglielo. Si è sentita incoraggiata, e l’ha incalzato. La casa è troppo piccola. Abbiamo fatto bene a traslocare qui e a lasciare quella grande a nostra figlia. Adesso però ci diamo sui nervi a vicenda. Siamo quasi in pensione. Amiamo la montagna, ci andiamo tutte le estati, trasferiamoci.
Era cominciata così, poi era diventata un’occupazione divertente, simile a quando, da sposi giovani, sceglievano i mobili per le loro prime case. Lei immaginava una cosa, lui un’altra. Lui disegnava piantine precise, lei assemblava nella sua testa colori, tessuti, velluti incompatibili con la praticità. Avevano deciso subito la regione: dovevano essere le Marche, dove erano sempre andati, le Marche delle colline, fresche d’estate, secche e nevose d’inverno, con curve dolci e sentieri da percorrere, e anche città dove andare in cerca di una libreria o di un cinema, se ne avessero sentito il bisogno.
Partirono a fine marzo, passarono per Castelluccio di Norcia, addolorandosi per il paese ancora in rovina dopo il terremoto e per la brutta struttura che ospitava i ristoranti. Si fermarono a mangiare un panino pensando che stavano consegnando la vecchiaia a una terra che tremava ogni dieci, vent’anni. Pazienza, si era detta lei. E poi si chiese da dove nascesse il desiderio di sentirsi al sicuro. Facevano parte di una generazione che aveva avanzato controvento, era solo l’età? No, non lo era. Condividevano tutti la stessa incertezza. Lo stesso terrore, diciamolo pure. Ma sul terrore non si costruisce nulla.
Arrivarono nel piccolo borgo sopra Vallescura per comprare ricotta fresca e una forma di formaggio da riportare a casa. La pecoraia disse che c’erano due case in vendita, non molto lontano. Una era, disse, spettacolare, l’altra era una villetta comoda, con un piccolo giardino, non lontano dall’altra. Ma dovete vedere la prima, disse. L’ha costruita un famoso architetto spagnolo negli anni Settanta. Non c’è niente di simile qui. E’ tenuta su da enormi sostegni di cemento armato, sembra la casa delle streghe. E non viene giù neanche a cannonate. Il terremoto non le fa niente, a quella là.
Era bellissima, è vero. Ma finirono per comprare la villetta comoda, perché qualcosa nella casa spettacolare la rendeva inquieta, come se da quei tiranti giganteschi potesse emergere qualcosa che aveva dimenticato. Era proprio una casa stregata: una casa di spettri, ma senza spettri, piuttosto uno specchio riflettente del passato, aveva pensato, che per curve insondabili ti riporta indietro anche quando vuoi dimenticarlo. Marco era comunque contento. E lei pensava addirittura che avrebbe ritrovato quella serenità torpida che aveva provato durante la gravidanza del loro primo figlio e che era finita per sempre dopo la sua morte, trasformandosi in accettazione. Oh, certo, erano andati avanti, lei non era morta e non era impazzita, anche se nel primo anno aveva sviluppato una dipendenza da Valium che era stata difficile da vincere. Però era passata, e aveva trovato uno strano equilibro, una conversione alla normalità che sembrava impossibile per la creatura terrorizzata e nervosa, ma a suo modo geniale, che era stata in giovinezza. Si era trasformata, come gli animali che mutano il pelo, o le crisalidi, o semplicemente come gli umani, che cambiano perché non possono fare altro. E pensare che era stata a un passo dal rimanere com’era. Se avesse davvero preso il coltello, tanti anni fa, e avesse ucciso la zia. Se si fosse uccisa, quando il bambino era nato e dopo pochi giorni era morto ed era stato davvero sepolto con la maglietta e le ghette bianche. Non era avvenuto, e non aveva neanche pianto.
Non voleva piangere, questa era la verità. Aveva paura che piangendo il bambino le sarebbe tornato davanti, correndo con piedini leggeri come polvere nella stanza che aveva preparato per lui, e che le sarebbe salito in braccio mentre sedeva a leggere, e lei non se ne sarebbe accorta perché in quanto spettro non aveva peso, ma a un certo punto una piccola mano fredda le avrebbe accarezzato la guancia. Per vivere, non doveva avere fantasmi intorno. Neanche quello di suo figlio.
Un anno dopo il trasloco, decise di arrivare fino alla casa misteriosa. I tiranti in cemento armato spiovevano diagonalmente, rendendola simile a una baita interrata per metà nel terreno, in cima alla collina. Era ancora vuota. Venivano a vederla, questo sì, ma poi non se la sentivano di prendere un impegno troppo grande, in un punto così isolato. Ma lei sapeva cosa respingeva i visitatori, invece. L’aveva saputo fin dall’inizio, e forse era per questo che, dopo aver tossito tutta la notte e aver sentito nelle ossa i dolori di quella che non poteva che essere vecchiaia, aveva deciso di andare.
Sapeva anche dove, mentre saliva lentamente, ansimando quando la salita si faceva più ripida. Appena sotto la porta d’ingresso, chiusa da anni, c’erano strani, piccoli tumuli di terra. Come tombe. Le talpe, le avevano detto quando erano andati a visitare la casa. Non erano talpe, pensava. E’ che ognuno di quei tumuli aspettava il visitatore giusto. Avrebbe riconosciuto il suo.
Era quello più lontano dalla porta, infatti, e più minuscolo ancora degli altri. Si inginocchiò a terra, scavò con le mani, nulla di difficile, la terra sembrava persino fresca. La trovò quasi subito: non era neanche troppo sporca, la maglia bianca di lana fine, e neppure le ghette candide che erano subito sotto. Se la portò al viso, cercando l’odore dolce del latte che per quel bambino non c’era stato.
“Non hai mai pianto”, disse una voce, ed era una voce di uomo, dietro lei. “Non una sola lacrima”.
Camilla scosse la testa e poi, come era giusto, si sdraiò e chiuse gli occhi.

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Immagine di Francesco D’Isa.

Loredana Lipperini è una scrittrice e conduttrice radiofonica (Fahrenheit su Radio3). Tiene corsi di letteratura fantastica e fa parte del comitato editoriale del Salone del Libro di Torino. Gli ultimi libri pubblicati sono L’arrivo di Saturno, Magia nera e La notte si avvicina (Bompiani). Il suo blog si chiama Lipperatura.

 

Il “Buch der Freunde” di Domenico Mennillo

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ph. Gianfranco Irlanda - 2007

di Ornella Tajani

È uscita per le edizioni morra/e-m arts la pubblicazione dal titolo Buch der Freunde di Domenico Mennillo, che raccoglie gli scritti relativi al lavoro ventennale di lunGrabbe, duo artistico formato dallo stesso Mennillo e da Rosaria Castiglione.
Pubblico in anteprima la prima parte del testo che Ferdinando Tricarico ha dedicato a “Andromaca. Opera neoplatonica in IV stanze ricreative”.

“Andromaca. Opera neoplatonica in IV stanze ricreative” di Domenico Mennillo/lunGrabbe, Palazzo dello Spagnuolo-Fondazione Morra, 2007 – ph. Gianfranco Irlanda

 

Il lavoro artistico di Domenico Mennillo, sviluppatosi nell’arco di un decennio col gruppo lunGrabbe, mostra le caratteristiche di una vera e propria architettura contemporanea, di un solido progetto culturale e non di una mera sequenza di eventi e scritture sperimentali. Architetture apparentemente fuori dal perimetro delle mura storiche della città di Napoli, ma che, a guardar bene nelle fondamenta dell’opera mennilliana, si collocano dentro e fuori la tradizione neoespressionistica partenopea. Tanti, anche intorno alla galleria di Peppe Morra, negli anni, hanno innovato la cultura locale contaminandola con le realtà internazionali più emancipate e, rifiutando coazioni autoreferenziali, (di una Napoli o euforicamente ombelicale, oppure lagnosamente in crisi d’identità), ne hanno disvelato un’anima più profonda ed universale. Ed è proprio nella dinamica intra ed extra moenia il fascino di lunGrabbe, la sua natura mutante, ampia, aperta: non solo per la costante multidisciplinarità espressiva (il teatro, l’arte, la poesia, la musica, il cinema), ma anche e soprattutto per le genìe filosofico-poetiche delle messe in scena, così rigorosamente discontinue, non lineari e plurime. In questi dieci anni, Mennillo, ha favorito l’incrociarsi di storie e mondi differenti, trovandone sintesi transitorie, verità parziali, in un laboratorio permanente qual è la vita stessa (l’artevita di matrice futurista?); da animatore-regista del gruppo lunGrabbe è stato capace di aggregare tanti soggetti per mescidazioni e di esprimere la sua forza artistica nella proposta collettiva (anche qui deludendo i sacri individualisti della napoletanitudine). A me è stato affidato il compito di leggere tra le righe del suo bel lavoro filmato, ispirato all’Andromaca nella versione di Racine, che fece una lettura della tragedia assai più materialistica e corale rispetto all’archetipo omerico. Si tratta di quattro video che, tra le tante suggestioni, ci spingono a riflettere sulle possibili caratteristiche di un’estetica del tragicomico: siamo al cospetto infatti di sequenze misterico-grottesche che annunciano l’imminenza di qualcosa che non accadrà mai, che propongono giochi puntualmente fallimentari in un crescendo d’impotenza espressiva. Ed ecco, a mio avviso, suggeriti alcuni interrogativi dell’Andromaca mennilliana sull’est/etica; la tradizione filosofico-estetica ci ha dato le categorie per smezzare alla grossa gli oggetti artistici razionali da quelli irrazionali: l’apollineo per classificare armonia, equilibrio e misura, il dionisiaco per assumere dentro di sé, il distonico, l’asimmetrico, l’abnorme. E se, invece, ci spingessimo nella terra di nessuno dove lunGrabbe sembra volerci condurre, in quel territorio sospeso tra l’apollineo ed il dionisiaco e ci chiedessimo quale espediente espressivo può tenere insieme conoscenza razionale e pulsione istintuale, quale rappresentabilità può avere una realtà percepita nella sua complessità critica? Le tecnostrutture new mass mediatiche, oggi, predeterminano il gusto, più che “l’oggetto poietico” creano il soggetto impoetico dimidiandone la percezione estetica nettamente: si sovraproducono, perciò, o merci culturali divertenti, d’intrattenimento, confortevoli, oppure si pensa di scuotere il fruitore massificato con l’eccesso irrazionale, la crudezza dell’istinto, l’angoscia dell’incontrollato […].

[Ferdinando Tricarico]

Diario della pandemia dall’Himachal Pradesh # 4

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di R. Umamaheshwari [foto di Sushant]

R. Umamaheshwari è una storica e giornalista che vive in India. Ha pubblicato When Godavari Comes: People’s History of a River (Journeys in the Zone of the Dispossessed), Aakar Books, New Delhi, 2014; Reading History with the Tamil Jainas: A Study on Identity, Memory and Marginalisation, Springer, 2017 e From Possession to Freedom: The Journey of Nili-Nilakeci, Zubaan, New Delhi 2018. Un anno fa ha cominciato a scrivere un diario della pandemia dall’Himachal Pradesh che pubblichiamo a puntate. Qui la prima, qui la seconda, qui la terza. Quella che segue è la quarta.

 

1 Aprile 2020. Che fine fa la donna single?

Che fine fa la donna single, che vive da sola, lontano dalla sua casa (se ne ha una, cioè ammesso che ne abbia una), o dalla sua città, nel mantra che recita “Resta a casa, stai al sicuro” concentrato esclusivamente sull’idolatria della famiglia e sull’idea che ad ogni casa corrisponda una famiglia? Lei non appartiene a nessun luogo.

Comunque, l’idea che la famiglia sia necessariamente quella dove sei nata è piuttosto riduttiva. Quanto a me, io sento di avere famiglie fatte non di parenti di sangue, ma di persone che hanno saputo aprirmi le loro case quando attraversavo i loro villaggi e  città, come viaggiatrice, o come ricercatrice, o come giornalista, o semplicemente come una donna single e sola. E in ogni caso, cosa produrrà questa paura del virus? Porterà via quell’apertura di cuore della gente in giro per il mio Paese e per il mondo, chiuderà le porte e renderà univoca la definizione di famiglia, come singola unità in cui uno è nato? Sarebbe un mondo abbastanza chiuso per una persona come me. Essere senza casa è ancora abbastanza gestibile, ma essere privata dell’accesso alle molte famiglie che incontro, e alle loro case e ai loro cuori sarebbe un durissimo colpo. Sarebbe pura solitudine e morte.

Ma può la basilare esigenza umana di vivere in società e in relazione, e di stringere legami, cambiare così tanto a causa di una nuova malattia? Specialmente quando queste nuove malattie hanno incrociato il nostro cammino solo per pochi anni, dopo secoli? Cosa si intende per “casa”? Io vivo letteralmente in una terra di nessuno, in molti sensi: una minuscola guest house di meno di dieci metri quadrati. Che strano! Solo fino ad un mese fa, avrei potuto sistemarmi in uno spazio di più di cinquanta metri quadri che avrei potuto cominciare a chiamare casa in un prossimo futuro. E adesso, invece, questo spazio che a stento arriva a dieci metri quadri mi sembra un segno di buona sorte. Un rifugio da non sottovalutare, specialmente se considero i molti che sui loro piedi, per strada, camminano verso le loro case, altrove.

Le case sono sempre “altrove”, per qualche ragione: un posto in cui andare, perché il posto da cui si lavora non si chiama mai “casa”. I lavoratori rimangono “migranti” anche se vivono per anni in una città, in piccole case popolari. Sembra che non raggiungano mai lo status o la dignità di “residente”. La residenza è temporanea e improvvisata, come per la maggior parte dei luoghi di soggiorno: molte volte, in baracche o bidonville, con tetti di amianto o ancor più provvisori, fatti con qualsiasi materiale di scarto che chi le abita riesce a trovare nelle città che sta costruendo o per le quali sta lavorando.

Se c’è qualcosa che è accaduto, è che improvvisamente il “lavoratore migrante” esiste nella narrazione dei media, presentato di nuovo come una vittima e non come il lavoratore con dignità di residenza in una città che idealmente lui o lei avrebbe dovuto percepire come “casa”. Lui o lei sono improvvisamente diventati i potenziali vettori di un virus, per una pura questione di percezione e non in base ad un’evidenza basata su parametri scientifici. Così ci si chiede se è la paura del lavoratore migrante portatore del virus che mette questa categoria di persone al centro del discorso, o la pietà e una sorta di condiscendenza verso i poveri. Dovrebbe essere solo uno specchio da mettere davanti alla popolazione del Paese, che ci potrebbe vedere un grande tema: mentre “stare a casa, stare al sicuro” può sembrare una cosa meravigliosa da fare per una certa parte della società, il luogo in cui i lavoratori si guadagnano da vivere diventa realmente “casa”. Ed è veramente una casa sicura?

 

E una domanda ancora più importante: cos’è “casa”?

 

La programmazione televisiva (radio e televisione) è piena di stereotipi sulla famiglia indiana. E sul “tempo della famiglia”, di cui si fa persino un uso eccessivo. La “famiglia” è sempre mostrata, in qualche modo, come la migliore e ideale unità sociale, e universalmente buona per tutto, nonostante i problemi di abuso e discriminazione al suo interno. La donna di casa, durante il lockdown, diventa contemporaneamente la madre, la cuoca, la badante, il sorriso che dà sollievo, colei che porta tutti i pesi del mondo, in modo che i suoi figli, suo marito e forse i suoceri o i genitori possano vivere felicemente, dimentichi di tutte le preoccupazioni del mondo.

I programmi radiofonici per donne (di solito pomeridiani, in ossequio all’assunto che sia questo il tempo che le donne possono dedicare a se stesse), danno ricette e idee che possano servire alle donne per compiacere le proprie famiglie e impegnare i propri figli. Un attore del cinema Hindi tradizionale degli anni passati suggerisce con un gran sorriso quanto divertimento produca lo stare a casa ad ascoltare le storie degli anziani, aiutare i figli a fare i compiti, guardarli giocare, etc. Lo stare a casa è presentato come la più felice cosa da fare. E mi chiedo come si collochi, rispetto a queste immagini, chi è lontano da casa. Specialmente chi non ha uno stipendio sul suo conto a fine mese, e non è così fortunato da “lavorare da casa” per un’azienda o per il governo, e da ricevere alla fine del mese uno stipendio – non importa quanto – sul suo conto in banca. E poi quel che è peggio è sentire che gli stipendiati, i professori universitari, i burocrati, gli insegnanti si lamentano perché lavorano da casa. Persone alle quali lo stipendio e tutte le provviste (grazie alla consegna a domicilio in alcune città) arrivano direttamente a casa e sui loro conti in banca, senza che ci sia alcuna necessità di uscire.

 

 

Spazi Covid-free e alcune altre domande.

 

Che cosa dire degli spazi che non hanno registrato neanche un caso di Coronavirus in India? Ho sentito dello Srikakulam, nella parte nord dell’Andhra Pradesh; o di quella parte dello Srikakulam che conta un numero relativamente più ampio di piccoli agricoltori, o delle regioni abitate per lo più da adivasi o comunità indigene. C’è anche l’esempio di Spiti, nell’Himachal Pradesh, e forse di molti altri villaggi che sono fortunatamente sfuggiti al contagio. Dovremmo anche chiederci perché. Può non essere una coincidenza che queste aree siano relativamente più verdi di altre e contino meno attività commercialmente distruttive e altamente competitive dal punto di vista economico (a parte il turismo, naturalmente).

È anche una pura coincidenza che a Spiti, in questo momento, la natura sia stata d’aiuto. Le strade sono state bloccate dalla neve fino ai primi di Marzo. Così gli abitanti, per alcuni mesi ogni anno, godono di un relativo isolamento, che lascia la gente della regione alle sue attività invernali. Concentrati sulla vita urbana, spesso non ci accorgiamo dell’aspetto più splendente di questi spazi eminentemente rurali, che possono esistere ovunque nel mondo. E l’attenzione che dedichiamo ai disastri nelle città e nei paesi del mondo, che sono stati così distruttivi e travolgenti, produce certe decisioni politiche che condizionano tutti, prese solo per mitigare i danni e calmare l’opinione pubblica.

Provvedimenti che, in futuro, possono creare situazioni avverse dove oggi non ce ne sono. Perché ai non-disastri non viene data uguale visibilità sui giornali? E perché, nel mondo, le non disastrate-zone dovrebbero subire gli stessi interventi di mitigazione delle zone disastrate? Il fatto che questa sia stata dichiarata una pandemia significa anche che essa elude ogni tipo di interrogazione o ricorso legale cui di solito il popolo può accedere nei confronti dei provvedimenti presi dal decisore politico senza consultare tutti i settori. Solo recentemente in India è stato dato respiro ad alcune attività agricole e a pochi altri settori, cui è stato permesso di riaprire anche durante il lockdown.

 

Migranti e esodo.

 

L’esodo di massa di lavoratori migranti dalle grandi metropoli indiane – che era essenzialmente connesso (non tutti sembrano comprenderlo) al ciclo agricolo nelle aree rurali, nelle quali molti di coloro che vivono in città sono impegnati – ha dimostrato la mancanza di una vera consultazione della politica con gli altri settori del Paese prima dell’adozione del lockdown. Molti lavoratori nel campo dell’edilizia provengono dalle aree rurali, che rimangono il loro campo-base, dato che essi incrementano il loro reddito con i lavori agricoli e talora anche tramite la conduzione di piccole fattorie. Molti hanno delle “carte di razionamento” (che garantiscono loro una minima fornitura di grano sovvenzionato) nei loro villaggi, delle quali si servono anche quando lavorano nelle città. Questa gente rimane legata al proprio villaggio anche se vive nelle città e là educa i propri figli nelle scuole private e pubbliche. Sono tutte verità risapute da tempo.

I loro spazi vitali nelle città sono tra i meno invidiabili. Molti costruiscono case per altre persone, ma non possono permettersi di viverci. In una situazione altalenante, in qualche caso, a Hyderabad, alcuni lavoratori dell’edilizia, che costruiscono appartamenti di media grandezza, o anche più piccoli, diventano i portieri del palazzo e quindi ottengono una stanzetta gratis nello stesso complesso. Queste persone diventano lentamente residenti permanenti della città e i loro figli vengono messi in scuole private. Molti di loro si guadagnano da vivere attraverso varie attività in grado di produrre reddito, grazie all’alloggio gratuito ricevuto. In molte città, la gente lavora negli alberghi, o anche in negozietti, come commesso. Ma se durante le crisi, se non hanno un tetto e un riparo, come sta diventando evidente adesso, queste persone preferiscono ritornare ai loro villaggi – anche se all’inizio i loro villaggi (e le crisi agricole) li avevano costretti ad emigrare nelle città.

 

Tempo per fermarsi, guardarsi dentro, disfare, rifare.

 

Indulgenza per i viaggi aerei? Perché la gente si concede viaggi aerei anche non essenziali? Qual è l’impatto ecologico del traffico aereo globale? Che effetto hanno avuto l’aviazione commerciale e i viaggi aerei non essenziali sull’ambiente? E oggi che il traffico aereo è quasi dimezzato, è stato calcolato il vantaggio ecologico? E cosa dire dei viaggi in treno, in uno Stato come l’India? Qual è il vantaggio ecologico dell’attuale lockdown? Ogni momento storico dovrebbe essere valutato soltanto in base all’impatto presumibilmente negativo sull’economia? Non dovrebbe ogni epoca storica essere valutata anche in base al relativo vantaggio ecologico? Il virus sta solo uccidendo, necessariamente, o è il modo in cui il virus è gestito dallo Stato che lo fa? Chi dovrà rispondere di queste morti? Non dovremmo forse guardare più in profondità nella natura dello Stato (e, di conseguenza, anche allo stato di natura), nell’assistenza sanitaria, nell’accesso delle persone svantaggiate alla sicurezza sociale, politica ed economica?

 

Controllo totale dello Stato?

 

Sulla scia del lockdown sorgono alcune domande che molti di noi nel mondo stanno fronteggiando oggi. Mentre il Covid 19 si è preso il centro della scena del dibattito in ogni Stato – nascondendo sotto il tappeto ogni altra questione pertinente – e mentre noi siamo costretti a piegarci a nuovi tipi di app e a nuovi metodi di sorveglianza, nascono alcune domande: che succederà ai diritti civili e alle libertà, durante i tempi dell’emergenza medica come questo? Emergerà in tutto il mondo un meccanismo che attraversi le nazioni e gli organismi internazionali di modo che una pandemia non significhi nel complesso anche la fine delle libertà e, cosa ancora più importante, non renda certe popolazioni o comunità più vulnerabili alla discriminazione e agli attacchi?

E inoltre, le applicazioni tecnologiche saranno tutte ugualmente e rigorosamente testate (proprio come si fa con vaccini e medicinali), prima di costringere o forzare la gente a usarle in nome della protezione e della prevenzione? C’è un urgente bisogno di un meccanismo globale di controllo della realtà fondato sull’interesse dei cittadini, di modo che una pandemia non finisca per favorire la nascita di severi regimi autocratici, che mettano le persone l’una contro l’altra attraverso la creazione di paura e sospetto. Ci saranno meccanismi (se necessario legalmente vincolanti per lo Stato) per proteggere la dignità e il rispetto dei più vulnerabili, specialmente durante periodi di emergenza come questo, piuttosto che vederli fuggire nella paura, incapaci di credere che i loro interessi saranno presi in carico, e rischiando le loro proprie vite in questo processo?

 

Ricordando Joy, e pochi altri.

 

Alla fine dell’anno scorso l’ho incontrata, in un angolo tranquillo. Stava in piedi, non lontano da un piccolo ristorante, con il suo carretto traballante. Aveva tre pentolini, una larga padella, e un vassoio un po’ più largo della padella. In quanto donna single, non particolarmente interessata alla cucina, ho molte volte benedetto questi venditori coi carretti, dove compravo il mio pasto serale da single. Quando infatti il mio cane Malli è stato male per un mese intero, e dopo che lei è morta, questi carretti e altri curry point sono stati la mia salvezza.

Hyderabad ha molti di questi punti di street food, con una sola persona (maschio o femmina) o una coppia che vendono i loro curry (di solito stufati speziati a base di pollo o vegetali) e chapatis (pani spianati di farina di grano, arrostiti su una padella asciutta). Molti lavoratori (specialmente operai celibi) li comprano. Sono a buon mercato e di solito freschi, e possono essere impacchettati in piccole quantità, e portati via, a casa.

Joy, la donna del carretto, inizia verso le sei del pomeriggio, stando in piedi tutto il tempo, e spianando le sue chapatis fino alle dieci. Aveva piccole porzioni di curry e la sua clientela era piccolissima. Doveva aver previsto di poter smettere da lì a pochi mesi. Era un piccolo investimento, per un piccolo ma sicuro guadagno mensile; meglio che candidarsi per lavori che non eri sicuro di poter ottenere.

Numerose località a Hyderabad hanno questi punti di ristoro ai lati della strada, di solito messi in piedi da giovani uomini e donne che dubitano di potersi assicurare un lavoro d’ufficio. Un punto curry assicura sempre una certa clientela di habitué e una rendita dignitosa in fin dei conti. E poi c’erano le donne del Telangana rurale, che sedute sui percorsi delle località abitate dalla middle class, preparavano i jonna rotti (pane fatto di farina di sorgo, una specialità della regione del Telangana), specialmente durante i mesi invernali. Ogni rotti costa dieci rupie, e le donne stanno sedute lì ogni sera, per una clientela affezionata, semplicemente con una padella di ferro, riscaldata da piccoli fasci di rami di tenera acacia (abbattuti regolarmente dal dipartimento dell’elettricità del Telangana in base al loro programma di taglio degli alberi).

Sto pensando anche al bajji taatha, il vecchio uomo che preparava deliziose patatine fritte con le verdure, che si vendono come tortine calde ogni sera in un’altra località a Secunderabad. Il vecchio era accompagnato da suo figlio. Durante l’esperimento della demonetizzazione in India, nel 2016, mi sono resa conto che quel vecchio era uno dei tanti che era totalmente dipendente dall’economia in denaro contante, mentre il governo insisteva nel suo piano di digitalizzazione. Fortunatamente, alcuni di questi lavori basati sull’economia in contante sono sopravvissuti alla digitalizzazione, anche perché il governo ha capito che era il caso che questo accadesse. Ma oggi il Coronavirus ha offerto un altro pretesto per magnificare i vantaggi dei pagamenti digitali.

Ed io oggi sto pensando a Karthik, che vendeva fiori di stagione e ghirlande di fiori, accanto al grande tempio di Secunderabad. Karthik aveva appena dodici anni quando stabilì il suo carretto accanto al tempio, insieme con sua madre. È cresciuto in fretta, considerando che ben presto si è preso sulle spalle il peso di tutta la famiglia, compresa la madre e le due sorelle. Stava lì, alto e dignitoso, per ore, ogni mattina (dalle sei e mezza alle undici o alle dodici) e la sera dalle cinque e mezza/sei alle nove. Tutti i giorni della settimana, tutti i mesi dell’anno. E pian piano riuscì a far sposare la sorella maggiore. Forse aveva preso in prestito un po’ di denaro, che forse ha già restituito, o forse no. Karthik, e molti come lui, non era riuscito a completare la scuola. Mentre molti erano venuti in città con i genitori, facendola finita con l’insostenibile prospettiva dell’agricoltura (i piccoli fattori erano pochi, mentre la maggior parte erano contadini senza terra), alcuni di loro erano nati a Hyderabad e si sentivano essenzialmente figli della città.

Phoolmani, suo marito e i due figli – Jyuti and Dipika – avevano una minuscola baracca da tè accanto alla casa dove io e Malli vivevamo, a Guwahati, alcuni anni fa ormai. Phoolmani era una donna che lavorava sodo, e sapeva gestire la baracca del tè praticamente da sola, anche se suo fratello maggiore Kakaideo (come alcuni lo chiamavano, inclusa me) faceva delle commissioni per mantenere la scorta di soprammobili, miscele salate, biscotti da tè, pacchetti da beedi e sigarette, sempre pronte. Non guadagnavano molto seduti lì, in quella minuscola baracca di fortuna (difficile intuirne la struttura), fuori dalle mura del complesso di appartamenti a Kharguli, sulla strada che si affaccia sul possente fiume Brahmaputra (nei mesi invernali avvolto in una nebbia surreale). Ma erano sempre là, sorridenti. Malli era la loro più gradita cliente, e ogni giorno doveva sedersi lì come un ninnolo, mentre Phoolmani invitava persone per il tè e la mostrava ai clienti, dandole in pasto qualche snack. Molte volte Malli restava lì finché le veniva data la sua parte di quella mistura, che mangiava soltanto dalle mani di Phoolmani. Piuttosto che stare a casa, Malli preferiva ascoltare i pettegolezzi e guardare i clienti all’angolo del tè. I clienti erano per lo più operai dell’edilizia e tiratori di risciò del quartiere. Phoolmani e la sua famiglia vivevano in un minuscolo monolocale: una casa popolare, buia, accanto al nostro complesso di appartamenti. Malli ed io le facevamo spesso visita, talora condividendo un pasto (riso e pesce) con la famiglia. Il fiume Brahmaputra e l’angolo del tè di Phoolmani erano parte di un quadro più grande: quella non-struttura si stagliava con quieta dignità – anima generosa e compassionevole – contro le lussuose case e i complessi di appartamenti che stavano su quel terreno collinare. Penso a lei, e allo spazio oggi privo del suo angolo del tè, e mi chiedo come il destino di quella famiglia debba essere cambiato senza il loro solo mezzo di sussistenza.

Poi c’è Madhavi, che era nato a Hyderabad. Prima accompagnava sua madre, che vendeva fiori messi in un cesto di canna appollaiato su uno sgabello di plastica all’angolo della strada, in una località di Secunderabad. Madhavi non ha un conto in banca. E neanche ha ricavato mai abbastanza dal suo business. Anche pagare l’affitto mensile non le era facile, e alcuni dei suoi clienti abituali la aiutavano di tanto in tanto. L’abbondante e inebriante fragranza dei malle poollu (gelsomino bianco) creava un netto contrasto con le loro vite.

Ognuna di queste persone che si sono fatte da sé sono Dalits. La loro resilienza è di ispirazione per tutti, ma allo stesso tempo è doloroso renderla esotica. La città sembrava dar loro una qualche speranza e opportunità di guadagnarsi la vita. Penso a tutte queste persone durante il lockdown. Penso anche ai carretti qui a Shimla, in alcuni importanti luoghi turistici. Per esempio, vicino all’Indian Institute of Advanced Study. Qualcuno preparava zuppa e noodles e i momos, verdure cotte al vapore, che erano le più vendute ogni sera.

Sono persone che hanno affrontato la città e i loro propri destini con coraggio, e hanno messo su qualcosa di proprio, ricavandone un guadagno piccolo, ma dignitoso e rispettabile. Oggi durante il lockdown mi chiedo come se la passino. Come sarà la vita per loro una volta che “riapriremo”? Loro non fanno parte delle immagini dominanti delle famiglie felici, “che mantengono la distanza sociale” (loro non possono, probabilmente, nel monolocale in cui vivono) nelle loro case. Loro non possono essere felici di “lavorare da casa” – semplicemente non possono – e di ricevere un salario – semplicemente non ne hanno.

La cosa peggiore è che la maggioranza di queste persone non hanno conti in banca. I loro commerci insignificanti erano totalmente dipendenti dal contante e di certo non quel tipo di contante che in banca chiamano “risparmi”. È di solito un’esistenza basata sul passaparola. Una qualunque emergenza medica, come quella che noi oggi chiamiamo Covid 19, colpisce questa gente come disagio economico, prima ancora che come infermità fisiologica.

Non sappiamo cosa accadrà quando la vita tornerà “normale”. Sospinti così indietro fin dal tempo in cui il lockdown è cominciato, saranno in grado queste persone di tornare a rialzarsi e ricominciare da dove erano rimasti? I settori organizzati, anche nell’agricoltura, possono ancora avere incentivi governativi per essere sostenuti durante le crisi, ma cosa accadrà di queste persone, che sono letteralmente ai margini dell’economia, e di cui nessuno si occupa?

 

Una pentola a pressione, un piano a induzione e una padella (e un bollitore da tè)

 

Vorrei aggiungere a questo elenco quattro tazzine col piattino, quattro bicchieri, due cucchiai da tè, nella stanza di una piccola guest house. Quando un tempo io avevo uno spazio di cucina adeguato (e adeguati utensili, per lo più di mia madre e di mia sorella), in una casa che teoricamente possedevo, dove entravano i primi raggi del Sole – uno spazio suggestivo – non cucinavo mai abbastanza. O comunque non ne godevo tanto quanto Malli, se e quando cucinavo un buon pasto (repertorio limitato) per me stessa o per un’amica occasionale, o un parente.

Oggi provo a cucinare in una cucina decorosa e a desiderare qualcos’altro rispetto al riso e lenticchie di ogni giorno. Ma penso anche ad alcuni dei lavoratori migranti qui a Shimla, che non hanno una cucina e sono sfamati nei langars (cucine comuni) da organizzazioni di volontariato, e da privati in alcune aree. Io non dovrei desiderare nulla. E seguo per caso alla radio un programma “per donne” che parla di ricette “per madri”, ansiose di tenere allegri figli, mariti e parenti durante il lockdown. E penso ora che una cucina non significherà la stessa cosa per me quando le cose ritorneranno alla normalità. O almeno alla recente normalità che conoscevo. Per adesso so di quanto poco ognuno di noi abbia bisogno in realtà, e come sia invece possibile accontentarsi di cucinare un umile pasto e, ancor di più, semplicemente di cucinare. La tentazione di non mangiare è grande quando qualcuno è lasciato solo al mondo inaspettatamente, a causa di una morte o di una separazione, o, forse, di un lockdown simile. Ma alla fine, un bel giorno, la fame prende il sopravvento, e tu devi mangiare.

E bisogna ringraziare i produttori di cibo, i numerosi commercianti, gli autisti dei camion, i trasportatori di beni, i negozianti dei piccoli negozi di quartiere per gli acquisti di base, che galleggiano sopra il presente. Che sopravvivono e ci fanno sopravvivere. La sopravvivenza sembra la comune metafora, anche in momenti in cui la gente cammina per migliaia di chilometri, dai loro luoghi di lavoro in città alle loro case nei villaggi. E tu cominci a sentirti orgogliosa, ma anche colpevole della tua buona sorte e della pentola a pressione, del piano a induzione e della padella, e del bollitore.

Per non parlare della generosità di poche persone, nel vicinato “esteso”, che ti regalano patate, cipolle e lenticchie, e talora sottaceti per speziare un po’ il cibo, come fa Sunita, la mamma della piccola Bhumika, chiedendomi di non dire a nessuno che lo ha fatto, così che a volte sono costretta a portare il cibo fuori di nascosto.

 

(traduzione di Rosario G. Scalia)

Il Desiderio che combatte il Moralismo: Bad luck banging or loony porn di Radu Jude

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di Daniele Ruini

This Heaven gives me migraine
(Gang of Four, Natural’s Not in It)

Vincitore dell’Orso d’oro all’ultimo Festival di Berlino, Bad luck banging or loony porn (titolo originale Babardeală cu bucluc sau porno balamuc) di Radu Jude è un’opera non solo stilisticamente ispirata ma che ha anche il merito di pungolare con sarcastica lucidità alcuni nervi scoperti delle odierne società globalizzate e iperconnesse. Pur essendo il prodotto della controversa storia della Romania nella seconda metà del Novecento, la Bucarest filmata dal regista romeno –una città involgarita da esibizioni muscolari di consumismo a scapito dei più deboli– rivela infatti dinamiche comuni a tutto il mondo occidentale.

Al centro del racconto, organizzato in tre capitoli più tre possibili finali, c’è Emi (Katia Pascariu), un’insegnante di lettere “colpevole” di essersi fatta immortalare dal cellulare del marito durante un gratificante e movimentato rapporto sessuale col coniuge; i problemi sorgono quando il video amatoriale (mostrato all’inizio del film) viene diffuso su internet e finisce nei cellulari degli studenti di Emi. Durante tutta la prima parte vediamo la protagonista attraversare con inquietudine crescente la città per andare a casa della preside della scuola, dalla quale apprenderà che i genitori degli allievi pretendono per la sera stessa un confronto pubblico per ridiscutere, alla luce di quanto accaduto, la sua credibilità di docente. E il regista, che si dichiara un discepolo di Rossellini, approfitta di questa lunga camminata dalla periferia al centro di Bucarest per esibire il peggio della foll(i)a urbana, tra continui litigi, suv parcheggiati sfacciatamente sui marciapiedi, pubblicità sessiste, lavori in corso e traffico micidiale. In particolare, come ha scritto Davide Turrini, la macchina da presa spesso «sembra come distrarsi, perdendo di vista Emi (che parla al telefono, che entra in farmacia, ecc.) tra i passanti, costruendo linee spigolose e inattese di visione verso i marchi del consumismo industriale e commerciale, verso scritte, pannelli, slogan pubblicitari che invadono letteralmente l’occhio e l’anima dello spettatore».

Il secondo capitolo è una carrellata satirica che mette insieme filmati tratti da archivi storici o pescati dal web, il tutto accompagnato da citazioni filosofiche e letterarie che creano spesso un contrasto caustico con le immagini. Si tratta della sezione più stravagante del film, apparentemente irrelata alla vicenda principale ma evidentemente funzionale a stabilire un filo rosso tra la Storia romena del XX secolo (dal collaborazionismo nazista alla dittatura dei Ceaușescu, dalla vicinanza al potere della Chiesa ortodossa nazionale all’uso dell’esercito per reprimere il dissenso) e i mali del presente (come inquinamento, maschilismo, violenza domestica ai danni dei minori)[1].

Ma è certamente nella terza ed ultima parte che i temi toccati dal film esplodono in un crescendo che contempla tre finali possibili. I nervi a fior di pelle e la «pornografia culturale»[2] mostrati, rispettivamente, nei primi due capitoli s’incontrano durante il “processo” che vede Emi come imputata e i genitori dei suoi alunni nel ruolo di giudici. Ed è qui che la protagonista, che sembrava fino a quel momento aver accettato la propria posizione di colpevolezza, ha la forza di reagire alle critiche nei suoi confronti; se infatti la maggior parte dei genitori prende le mosse dal filmino porno per calunniare la professoressa mettendo in discussione i suoi metodi didattici e i principi di libertà di pensiero che lei ha sempre cercato di insegnare ai suoi studenti, Emi oppone all’ipocrisia dei suoi accusatori un principio di responsabilità: se il video  è finito nei cellulari degli studenti di chi è la colpa? I loro genitori non avrebbero dovuto impedirgli di accedere a siti destinati a persone adulte? E in base a che cosa si considera moralmente riprovevole il modo in cui la docente si è comportata nella sua vita privata? E ciò si accompagna alla rivendicazione degli intellettuali di cui la protagonista ha parlato ai suoi studenti, come Hannah Arendt o Isaak Babel: nomi che viene facile contrapporre a quello di Nichifor Crainic (1889-1972) a cui è intitolata la scuola (di cui la preside vanta a più riprese il prestigio)[3]. In effetti man mano che il “processo” va avanti, diversi tra i genitori fanno sfoggio di dichiarazioni non solo perbeniste ma anche nazionaliste, omofobe e antisemite; e il fatto che Jadu li rappresenti con toni grotteschi non diminuisce la virulenza delle loro prese di posizione[4].

In tutto questo la figura di Emi emerge per la forza morale con cui cerca di respingere chi la vorrebbe mettere in croce; e lo fa –ed è questo il nucleo di maggior interesse del film– contestando anche le convinzioni degli spettatori progressisti: quanti tra coloro che respingerebbero con orrore le affermazioni maschiliste o antisemite dei genitori della classe di Emi sarebbero davvero disposti a riconoscere alla docente (specie se fosse l’insegnante dei loro figli) il diritto a farsi riprendere dal marito durante un rapporto sessuale e a caricare il video su un sito per adulti? Perché qui c’è un’altra questione su cui il film lascia un velo di ambiguità: chi è che ha caricato il filmato su internet? Se inizialmente sembrerebbe essersi trattato di un errore (ed è questa la linea difensiva adottata dalla protagonista), in realtà ciò che emerge è che è stata probabilmente la stessa Emi a metterlo intenzionalmente online.

Si tratta di un aspetto che, come ha sottolineato Elisa Cuter su «Domani», pare essere stato frainteso da molti recensori italiani del film, i quali sembrano convinti –manifestando in questo modo «un residuo di pruderie»– che il filmino amatoriale sia finito su internet accidentalmente[5]. Ma è un punto dirimente: l’obiettivo polemico del regista romeno è evidentemente –anche– la sessuofobia che caratterizza le nostre società, ovvero il moralismo con cui ancora si tende a parlare di sesso. Ecco allora che il filmato amatoriale con cui si apre il film sembra voler incarnare una visione liberatoria del sesso, senza retorica e senza addomesticamento: tutto il contrario di chi esibisce il proprio corpo online mosso dalla preoccupazione della propria accettabilità e spendibilità sul mercato della competizione permanente. Si tratta di tematiche che la stessa Elisa Cuter ha affrontato nel suo interessantissimo saggio Ripartire dal desiderio (minimum fax, 2020) dove, oltre a mettere in discussione alcune posizioni del più recente femminismo, si rivendica il potere disturbante del Desiderio quale possibile antidoto ai dogmi subdoli del Capitale. Come ha scritto Felice Cimatti a commento di questo libro:

almeno dal tempo di Freud è noto che il controllo del sesso è il mezzo principale per controllare anche il resto della vita individuale e sociale. […] Sostenere che il sesso non ha a che fare con il diritto e con la relazione etica ma con la seduzione e il desiderio è ormai un’affermazione inaudita, se non semplicemente incomprensibile per il senso comune conformista del nostro tempo.

Alla prepotenza e all’ignoranza della nuova classe benestante Emi risponde con la rabbia di chi non si riconosce in un mondo che, nonostante la liberazione dei costumi, pretende ancora di dirci chi dobbiamo essere.

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[1] A questo proposito, si trova un’eco delle parole del regista («Sono passati trent’anni dalla dittatura: oggi siamo in democrazia e siamo noi ad averla costruita così. Quindi se le cose non vanno, è anche colpa nostra») nelle osservazioni di Luca Bistolfi, giornalista esperto di cose romene e traduttore dal romeno. Questa l’opinione sull’attualità che troviamo nel suo interessante racconto della Romania ad uso dei lettori italiani: «Ai romeni non importava niente del socialismo: importava, visto che erano soprattutto contadini e intellettuali, della loro terra […]. Erano, e in parte sono rimasti, un intreccio, una mistura di lassismo latino e orientale, di fatalismo e di legame con la tradizione. Questa volevano conservare e questa, nonostante tutti gli scempi compiuti dal regime ceaușista, proprio da quest’ultimo gli era garantita. Ceaușescu innestò su quella concezione dell’esistenza uno sprone: verso il socialismo. Oggi tutto è invece imperniato sull’egoismo e sulla ricerca dell’ultimo modello di automobile» (Crocevia d’Europa: viaggio nella Romania di ieri e di oggi, Lecco, Alpine Studio, 2018, pp. 160-161).

[2] Cristina Battocletti, L’Orso all’insegnante osé, «Domenica, IlSole24ore», 7 marzo 2021, p. XIII.

[3] Scrittore e professore di teologia, Crainic è stato ministro del conducător Ion Antonescu durante gli anni (1941-44) che videro la Romania alleata delle forze dell’Asse durante la Seconda guerra mondiale.

[4] Per quanto riguarda l’antisemitismo, già nel primo capitolo del film si trovano riferimenti alla Shoah: quando Emi entra in una libreria per comprare l’Antologia di Spoon River il libraio le consiglia il poeta americano Charles Reznikoff (1894-1976), autore di una raccolta intitolata Holocaust; e quando, nella scena successiva, la vediamo accomodarsi a un caffè alcuni avventori fanno un’allusione alle condizioni di magrezza dei prigionieri dei lager nazisti. Riferimenti ai massacri dell’esercito romeno ai danni di rom e ebrei sono presenti anche nella seconda parte del film.

[5] Elisa Cuter, Radu Jude spiega perché non teniamo testa alla tecnologia, «Domani», 29 aprile 2021.

Il matrimonio

1

di Maria Gaia Belli

Seduta sul pavimento della sala d’attesa, ripensi a quella volta che hai visto morire una bambina per la puntura di un’ape. Il dito intorno al pungiglione le era diventato rigido e rosso, il bianco degli occhi aveva iniziato a riempirsi di puntini scuri. Quando avete smesso di giocare, la lingua ormai le imbottiva la gola e muco giallo le colava dal naso. L’ambulanza l’aveva portata via mezzora dopo la puntura, gonfia e viola come un polpo, coperta da due lenzuoli attaccati. Tu subito eri corsa a toccare il cadavere dell’ape che contorceva le zampe al sole.
Che fine pazzesca, ripensi ora, se muoio scoppiata a quel modo su queste quattro mattonelle appiccicose. Ma di certo hai solo preso i pidocchi sulla corriera, o qualche altro parassita che gira in questa città marcia.
«Ehi tu, dal confine», ti chiama la donna in fondo al corridoio, mentre ti gratti la testa. Spingi a calci lo zaino fino all’ufficetto, e non sapendo proprio da cosa iniziare, chiedi:
«Chiudo la porta?»
La donnina dietro la scrivania è insaccata in un completo camicia e gonna. Fa segno di sbrigarti. Non ha tutto il giorno per te e le tue pulci. Spieghi la situazione in poche parole: non posso tornare indietro. Lei scuote la testa, scacciando mosche invisibili con la mano.
«E quanto hai? Contanti?» chiede.
Previdente, avevi già iniziato a setacciare lo zaino. Tasca uno, tasca due, tasca quattro. Mutande ficcate insieme a una mezza busta di patatine sbriciolate. Cuffie dal cavetto spellato. Istruzioni della tinta per capelli ripiegate male, che non stanno più nella scatola. Con una mano scandagli il fondo dello zaino, con l’altra ti scartavetri la nuca.
«Non ho i pidocchi. Credo che la tinta mi abbia fatto allergia. Se muoio almeno non c’è più bisogno… No, scherzo, nel senso che c’era scritto: provare quarantotto ore dall’utilizzo, e io mica avevo tempo due giorni di aspettare che…»
La donna batte il tappo della penna sul tavolo. Hai l’impressione che, se la fai agitare, la sua camicetta si squarterà sotto le ascelle.
«Ecco. Li ho divisi per mille», tiri fuori cinque buste da lettera, stropicciate e unte, ma pesanti. La donna estrae i soldi e li dà in pasto a una macchinetta. Il conto risulta corretto.
«Sono tutti quelli che hai?» è scettica.
«Se potessi ritirare…»
«Ma non puoi, cara. E sono un po’ pochini per trovarti una sistemazione decente tanto di fretta».
Arriccia la bocca in un sorrisetto ripugnante. Il “cara” ti scivola in testa come la carezza di un pervertito. Gratti l’attaccatura della frangetta.
«Mi va bene un po’ tutto».
«Beh…» scuote di nuovo la testa.
Passa la mano su un grosso fascicolo aperto, liscia una scheda che contiene nomi, foto, altezze e lunghezze, pesi, colori, redditi. Lo chiude e lo mette in un cassetto.
«Alzati un po’», fa segno. Ti metti in piedi. Ecco la mercanzia. Cinque sacchi e questa roba qua: almeno non deforme. Fai gesti senza senso, come tirare le maniche della camicia sdrucita, o appuntare le ciocche mal tagliate dietro l’orecchio.
«È che non sei granché. Fossi stata bellina, un uomo in mezza giornata te lo trovavo pure, magari in periferia. C’è sempre qualche vecchio che firma documenti pur di portarsi a casa una ragazzina, ma tu… sicuro non hai meno di vent’anni, eh?» ti prende a occhio le misure. Devi apparirle sconsolata, perché fa un sospiro da mamma. Gira la sedia per frugare in un armadietto. Dai cassetti evapora un odore di carta vecchia, e l’ennesimo alone di polvere va a posarsi sulle foglie di una pianta di plastica.
«Ma si può sapere che cosa hai combinato?» ti rimprovera.
«Rubavo», la butti lì.
«Hai rubato cosa, per dover passare il confine tanto di corsa?»
«Soldi, bambini, galline…» sei vaga. Sceglie un fascicolo nuovo e te lo mette davanti, insieme alla sua delusione personale.
«Posso provare a infilarti qui. Cercano una femmina della tua età da un po’, e non è facile trovare qualcuno per questo genere di incontro combinato».
Sfogli il fascicolo a caso, cercando almeno una foto. Alcune fotocopie in bianco e nero mostrano vecchie colonne di cemento ricoperte d’edera succosa, pavimenti spaccati mangiati da erbe giganti. Una scheda riporta dei dati: metri quadri, edificabilità, risorse idriche, acidità media del terreno, allaccio della luce. Peschi dal mazzo un’immagine scura e la guardi da vicino. Somiglia a una persona di schiena, o al collo di un cavallo.
«Oh, mi va benone», dici senza indagare oltre.
«Sì? Tanto si tratta solo di un pro forma, lo capisci da te. È una specie di trucco per non far costruire su quel terreno, in modo che non si possa tagliare l’albero secolare…» ti indica alcuni punti delle fotocopie più scure.
«Ma lui chi è? Il proprietario?» posi il dito sulla fotografia. «O è più tipo uno speculatore? Uno che ricicla soldi, vero?»
La donna cerchia una macchia grigia con la penna.
«Lui, lei, che ne so io? Non me ne intendo di giardinaggio. È l’albero».
«In che senso», ti chiedi a voce alta.
«Il tuo fidanzato è l’albero, cara. Se firmi e paghi adesso in contanti, concludiamo la cosa oggi stesso. Tempo una settimana e ti faccio avere documenti con il nome nuovo e un permesso di soggiorno».
«Pago», decidi senza aver capito.
«Bene, bene, una firmetta qui intanto sul preliminare poi ti stampo le altre cose mentre mi aspetti in sala d’attesa, quando esci fai entrare il prossimo grazie. E rifatti la tinta per bene, tesoro, si vede un sacco».
«Cosa?» ti tocchi la frangetta storta.
«Che le radici sono nere».
Firmi. Con un piccolo morso in gola, riprendi le cinque bustine vuote, le pieghi e le ficchi in una tasca dello zaino. Lo trascini come un morto fino alla sala d’attesa. Una sedia si è liberata, ma la lasci vuota: scricchiola e cede da un lato. Ti butti di nuovo per terra, nell’angolo opposto rispetto a quando stamattina sei entrata, e ricominci a grattarti lo stesso punto della nuca. In ufficio è entrato un ragazzo magro con addosso una camicia lunga e niente in mano. Ha subito chiuso la porta. Ora che hai cambiato punto di vista, noti che il muro del corridoio è una galleria di trofei: le foto di coppie combinate dall’agenzia. I loro volti sono benedetti da un neon rosa fissato in alto, che forma la scritta “Felici & Contenti”. Dietro i loro sorrisi, le piante fanno solo da sfondo.
La macchina dell’agenzia ti lascia davanti al cancello, con un mazzo di chiavi in mano e una sola regola: non uscire finché non arrivano i documenti. Mai. Addosso hai ancora la camicia sudata dell’altro ieri e un paio di pantaloncini che credevi fossero comodi per scappare dall’altra parte del mondo. La chiave grande serve per aprire un lucchetto spesso come un pugno. La chiave piccola apre la serratura del cancello. Quella media ti resta tra le dita, non sai cosa farne: all’interno non ci sono altre porte. Ci sono invece le zanzare, che navigano leggere per dare il benvenuto alle tue caviglie nude.
«Ciao!» provi a chiamare. Qualcosa scappa dall’erba, va a infilarsi sotto un’edera grassa che ricade dalle mura. Una goccia minuscola, affilata, ti tocca il naso. Guardi in alto: oltre le foglie larghe di un fico e i rami magri di un pioppo, non c’è nulla. Non c’è il tetto. Un nuvolone si sta accumulando sopra questo boschetto urbano, raccolto dentro a una vecchia fabbrica abbandonata.
Ti chiudi bene il cancello alle spalle. Davanti a te c’è ancora una pavimentazione industriale che svicola tra grandi quadrati d’erba alta. Le crepe spaccano la strada, rivelando un ripieno muschioso e umido che profuma di terra smossa. Camminando tra radici scoperte e tubature incrostate, arrivi fino a una vasca di raffreddamento vuota. Un cartello annerito avvisa: attenzione – Vapori fino a 100° pericolo ustioni. Ma sul fondo scuro ci sono solo trenta centimetri d’acqua fangosa, alghe verdastre e nugoli di moscerini.
«Quindi sono sola?» domandi ad alta voce.
Sola sola: non c’è neppure l’eco. Abbandoni lo zaino sotto una colonna, ti togli quello straccio di camicia di dosso e lo butti su un gabbiotto di ferro mangiato dalla ruggine. Le zanzare esultano. Le scarpe ti stanno strozzando le dita dei piedi, ma non osi toglierle per andare avanti: l’erba ti arriva ai fianchi, fa rumori di frasche smosse, bestioline con mille zampe guizzano nell’aria, cantano nascoste tra i rami. Trovi e segui una traccia battuta, dove qualcosa sembra aver già camminato. Incontri una piccola serra di vetro, opaca e coperta di foglie secche. Non ha bisogno di chiave, così sbirci dentro: contiene vasi di plastica, sacchi di terra e di pietruzze, forbicioni, spaghi, pigne vuote, secchi pieni di corteccia, bancali morbidi di muffa. Niente da mangiare, nulla su cui dormire. Prosegui dritta e ti fermi a osservare un cespuglio che gronda bacche azzurrine. No, pensi. Non voglio morire carcerata dentro questa specie di orto botanico.
«E perché no?» ti chiedi, sfinita. La fame ti sta facendo girare la testa, ma non tocchi le bacche. Segui piuttosto dei grossi tubi che si arrampicano sui muri, e il fruscio dell’acqua che vi scorre dentro.
La causa dello scroscio è una fontanella aperta, che butta in una pozza ormai larga da un muro all’altro dell’edificio. Puoi camminare sull’acqua seguendo una scacchiera di cemento. Quando arrivi al rubinetto, scarpe e calze sono gonfie come spugne. Le sfili, togli anche i pantaloni fradici di schizzi e appendi tutto ai buchi di una grata polverosa. L’acqua sa di metallo, ma ne bevi lunghe sorsate reggendoti i capelli vicino al collo.
Appena chiudi il rubinetto cade un silenzio irreale. Il frullo dei passeri e dei merli dal soffitto sfondato, le cicale che scricchiolano e le zanzare che ronzano si congelano per qualche secondo, mentre ti guardi intorno. C’è un odore acre che non sai riconoscere, sale dalla terra e si spande in aria come vapore caldo.
In piedi nel fango, accanto alla fontanella gocciolante, conosci il tuo fidanzato. L’albero si staglia sul fondo della fabbrica abbandonata. Cresce nella pancia sventrata di una struttura di metallo, che serve ormai a reggere il nulla. È molto più alto di quanto lo sarebbe stato il tetto. Il tronco, largo come il ponte di una nave, si regge su spesse radici nodose che affondano nel terreno allagato. I rami si piegano in basso, flessuosi, e lasciano cadere masse di capelli scuri che galleggiano in lunghi filamenti sull’acqua.
«Ciao», ti presenti.
Ciao, pensi che ti risponda. Beh, sei un sacco bello, chiacchieri nella tua fantasia. O bella? Bei capelli, comunque, ma quanto sono lunghi, tipo venti, trenta metri?
Grazie, immagini che dica. Anche i tuoi non sono male, dai.
Ma va’, te la ridi da sola, sono praticamente finti.
Silenzio. Ti guardi intorno. C’è una porticina nel muro che puoi raggiungere. Devi camminare nel fango schifoso, ignorando le alghette che ti solleticano i piedi. I capelli dell’albero, quelli più lunghi e sottili, galleggiano sul pelo dell’acqua e ti pungono le cosce.
La porta si apre con la chiave media, e qui c’è un soffitto, finalmente. Dentro, un piccolo frigo, un fornello da campo, un materasso pulito. Un armadietto metallico contiene scatolame e qualche coperta tarmata. Corri ad aprire il frigo. Trovi un cartone di latte a lunga conservazione, carne in scatola e una focaccia dura come un sasso. La resusciti versandoci sopra un po’ di latte freddo e vai a mangiarla fuori dalla stanzetta, coi piedi nell’acqua tiepida.
«Poteva andar peggio», dici all’albero.
Niente ti risponde.
L’anta destra dell’armadio contiene un piccolo specchio. Ma la stanza è sotto la zona d’ombra dell’albero, e non ci sono finestre né lampadine. La notte è passata, ma hai tempo neanche mezzora per controllare come sei ridotta, poi la luce sale oltre la porta e lo specchio riflette solo un’ombra scura. Vedi la tua faccia gonfia per la nottata gelida. I capelli sparano in alto dietro le orecchie e mostrano almeno due dita di nero dove hai spalmato male la crema decolorante. Sembri bionda solo se ti pettini bene. Questo è il motivo che ti ha convinta a disfare lo zaino, ma dimentichi il pettine non appena la stanza torna in penombra. Fa freddo, sotto questo tetto di cemento armato.
Esci al sole. L’albero non è una compagnia pretenziosa: è immobile, chino sulla fanghiglia. Il terreno ha assorbito il ristagno d’acqua, così cammini fino al tronco, ci giri intorno tre volte, cercando chissà quale imbroglio. Tocchi i ramoscelli più morbidi e bassi, che somigliano a code di gatto, carichi di foglioline pelose. Sottili peduncoli si allungano verso le tue dita, sollevati da elettricità statica.
Attraversi la melma paludosa, ti pulisci i piedi nella verdura e raggiungi un punto del giardino più asciutto. Dormi sull’erba secca le ore che non hai dormito di notte. Sogni di uscire di casa e dimenticare le chiavi, un agente in divisa si avvicina e ti chiede la carta d’identità. Tu fingi di frugarti le tasche e pensi: banale questo sogno. Ma dai pantaloni tiri fuori una manciata di denti. Ti rendi conto d’avere la bocca e gli occhi secchi, così chiedi all’agente dove puoi trovare una fontana. Un rumore di metallo ti sveglia.
Il cancello.
Ti alzi solo per metà, rimanendo acquattata nell’erba: chiunque sia, deve avere le chiavi. Ti sistemi i capelli, controlli d’essere almeno vestita, e decidi di uscire allo scoperto. La stradina di cemento è vuota, ma dalla serra arrivano suoni di plastica accartocciata. Un uomo è chino dentro la porta bassa, ed estrae gli attrezzi alla svelta: la zappa, la pala. Lancia un paio di vasetti sul fondo, e alla fine tira fuori la testa, con un paio di forbici in mano.
«Sei quello dell’agenzia?» chiedi.
«No», risponde, e non ti dà altre attenzioni.
«Niente documenti, ancora?» sei frustrata. L’uomo sposta un sacco di terriccio nuovo all’interno della serra, dunque ti guarda.
«Sei la ragazza per l’incontro combinato?»
Lo saluti con la mano.
«Bene», è il suo unico commento.
Cerchi di non stargli tra i piedi. Non ti è chiaro cosa stia facendo, ma di certo lavora. Il sole comincia a scaldare il cemento, e lui toglie la giacca, la lascia sul tettuccio della serra, va in un’altra zona e torna spingendo una carretta colma di concime odoroso. Si ferma per arrotolarsi le maniche di una camicia macchiata.
«Sei il giardiniere», capisci.
«No», dice di nuovo.
«Sei il proprietario», provi allora. È un uomo sulla quarantina, con la barba mal fatta, i capelli unti raccolti in un codino. È qui solo, a spalare merda in una mattina qualsiasi. Davanti a questa evidenza, senti un brivido alla nuca.
«Sei tu che hai messo l’annuncio, con la scusa dell’albero».
«La proprietaria di questo terreno è A.». Si asciuga la fronte con l’avambraccio. «Io sono il suo… sono quello che l’ha piantata. Sì, ho messo io l’annuncio».
«Allora io sono qui per te», capisci, e l’istinto ti avvisa di tirare la maglia per coprirti meglio le gambe. L’uomo ti dà un’occhiata trasparente.
«Sei qui per A. Come è scritto sul contratto che hai firmato. Hai letto quel che hai firmato, almeno?»
Non attende risposta. Spinge la carretta fino a una striscia di terreno racchiusa nella pavimentazione, e si mette a sradicare le erbacce che circondano la pianta di fico. Non sai cosa fare, dunque lo aiuti. Qualcosa ti punge non appena tenti un approccio: ortica. Sventoli la mano in aria.
«Come ti chiami?» chiede.
«Haga», inventi su due piedi, e ti mordi la lingua. Sillabe a caso. Infatti l’uomo dice:
«Nome finto. Vieni dal confine, eh? No, non me ne frega niente di come ti chiami e da dove vieni. Né se hai letto il contratto o meno. L’importante è che stai qui e tieni un po’ di compagnia ad A.»
«Sarebbe…?» non ne sei certa.
«Il salice», conferma.
Schiacci una zanzara sul tuo braccio. Lo schiaffo lascia un alone rosso, con al centro una striscia di sangue fresco, il punto d’esplosione dell’insetto. Fa male.
«Senti», cerchi di parlargli con calma. «Non ho capito bene cosa fate qui. Ma non mi va di fare strani giochi, con gli animali o i sassi… Insomma, non voglio fare queste cose, va bene? Mi servono solo i documenti, se c’è da lavorare lavoro, ma non fatemi cose strane».
L’uomo butta le erbacce sulla strada e prende la zappa. Mentre dissoda la terra risponde:
«A. è un albero madre. È nata in laboratorio, e ha passato un bel po’ di anni circondata da gente che la studiava, controllata giorno e notte. Quando l’abbiamo messa a terra si è un po’ spaventata, la roba burocratica è andata per le lunghe, ci sono stati dei tagli e un sacco di gente è stata licenziata. Si sente sola. Non può stare sempre tra i ratti e i rospi, e io devo lavorare. Se mi pagassero per stare qui tutto il giorno ci starei, ma devo pur mangiare».
Resti in silenzio, e lui per un momento si ferma, affaticato. Coglie l’attimo in cui guardi il cancello.
«Se scappi ti denuncio all’ufficio immigrazione. Ho pagato l’agenzia con quello che ci restava dei fondi. Se qualcuno non le fa compagnia, A. si seccherà. E poi verrà abbattuta. E visto che il terreno è intestato a lei, chiuderanno tutti i progetti di questo laboratorio. Colata di cemento ed ecco un nuovo centro commerciale», indica intorno con la mano.
«Non ho capito», scuoti la testa.
«Sono un paleobiologo», sbotta. «E questa è una ricerca sulla ricostruzione dell’ecosistema primitivo di un albero madre. Hai capito, ora?»
«Sì», menti.
«Mi chiamo Sari», ti dice. «Dopo ti lascio un cellulare con cui puoi chiamarmi se A. sta male, o se succede qualcosa di spiacevole. Ora lasciami lavorare, devo controllare altre ventiquattro piante prima che questo posto diventi un forno».
«Va bene», fai per allontanarti, ma appena ti volti e cammini sul cemento, Sari impreca.
«Ma sei pazza? Non hai letto nulla, vero? Mettiti le scarpe», ordina. Ti guardi i piedi nudi, sporchi. Uno pizzica, accarezzato dall’ortica. Hai visto i topi, ma non credi ci siano troppe spine, o serpenti, e le scarpe sono ancora appese ad asciugare.
«Va bene», menti di nuovo, e fai finta di andarle a cercare. Alla prima svolta nell’erba alta ritrovi la tua nicchia asciutta e ti accoccoli per terra. Le cicale hanno ricominciato a suonare. Dormi con l’orecchio poggiato sulla terra. Il suono della zappa ti entra in testa, così sogni di nuovo l’agente. Viene con quella lama spessa a spaccare i tuoi denti.
Inizi a seguire Sari verso metà pomeriggio, appena capisci che sta per andarsene. La giacca non è più abbandonata, ma se la porta dietro appoggiata sulla spalla. Le sue chiavi tintinnano attaccate alla cintura e sono molte più di tre. Stai decidendo a quali domande dare priorità – cos’altro mangio? come mi lavo? quando posso uscire? cosa c’è fuori di qui, se esco? – quando ti rendi conto che si è fermato a guardare il terreno molliccio accanto al rubinetto. Guarda anche la porta della stanza lasciata aperta, e poi te, che sei a distanza di sicurezza dall’altro lato del terreno.
«Hai chiuso tu l’acqua?» urla. Poi ti fa segno di avvicinarti, e inizia a slacciarsi le scarpe. Quando raggiungi la fontana, lui si è allontanato verso l’albero, è coi piedi nel fango fino ai polpacci.
«Vedi, che non sei morta?» sta dicendo, rivolto al tronco. «Non è che muori, se non stai tutto il giorno con le radici a mollo. Sai quanto ho pagato d’acqua il mese scorso? No certo, è per dire. Lo so. È che ti ci sei fissata, non ti serve davvero».
«Si stava allagando tutto», ti giustifichi, ma non lo segui. Mette una mano nel fango, scava un po’, sposta la terra e la alliscia.
«Te la riapro. Sì. Ma solo stanotte. Domattina la ragazza la chiude, va bene? Bisogna che te la fai passare, questa cosa. Fammi vedere?» chiede, e raccoglie col braccio una cascata di filamenti neri. Ci passa le dita in mezzo come a pettinarli, ne solleva alcuni e li controlla controluce. «Stai benissimo. Smettila di lagnarti. Chiacchiera un po’ con la ragazza, se proprio t’annoi».
Apri bocca per rispondere e poi la richiudi. Oh mamma, pensi. Sta parlando con l’albero. Questo è matto. Ma matto matto. Gira i tacchi e torna a casa adesso, ti ordini. Esci dal cancello appena se ne va e con il primo telefono pubblico chiami mamma le dici scusa scusa piuttosto torno e vado in galera ma qui sono finita in una situazione proprio brutta, c’è un matto che fa torte di fango e chiacchiera con un albero non so dove sono ti prego vienimi a prendere. Poi lei mi uccide, visto quel che ho combinato, quindi no mia cara, ora te ne stai con il paleopsicopatico. Mamma non ci viene a prenderti.
Invece verrebbe, pensi dal niente. Tu provaci, chiamala. Certo che viene a prenderti. Ma guarda che Sari non è cattivo. È solo stanco.
«Mettiti le scarpe», ripete Sari, dal fondo della fabbrica. Strisciando i piedi nel fango ha oltrepassato l’albero e ti fa segno con la mano. «Almeno le calze. E guarda che vi sento, che sparlate come due oche».
Ti indica le calze ancora appese alla grata, e poi l’albero. Stavolta lo ascolti. Mentre poggi il ginocchio a terra per annodare i lacci, ti prende un senso di delusione cupa. Sari ha fatto il giro del terreno e sta tornando indietro. Ha infilato le forbici da pota nella cintura e porta un rametto coperto di peli neri. Lo aspetti accanto alla fontanella e decidi per un’unica domanda, quella che al momento ti sembra la priorità assoluta.
«Dove posso lavarmi?»
«Eh?» fa lui, allungandoti il rametto tagliato. «Vedi? Te l’avevo detto. Ti ha già incasinata. No, non ti do altra acqua, basta!» urla verso il fondo della fabbrica. «Haga deve mangiare. Se le metti in testa questa cosa dell’acqua la farai morire di fame, come te lo devo spiegare? Vieni», sembra dire a te, e ti indica la porta della stanzetta. Lo segui controvoglia. Ora hai sonno, ti senti le gambe pesanti.
«A. è cresciuta in idroponica», sta dicendo a te. «Toglierle questo vizio è davvero un problema. Sembra un salice, ma non ha bisogno di stare proprio a mollo tutto il tempo. Finirà per ammuffirsi. Non devi darle corda quando inizia con questa scenata dell’acqua, va bene? Massimo mezza giornata di fontanella ogni tre giorni. Appena gliela chiudi fa sempre così. Se non stai attenta a coprirti la pelle, ti farà venire mille paranoie e finirai per passare una settimana senza dormire dalla sete».
«Ah», ti fermi. Ti rendi conto che mentre Sari parlava hai aperto il frigorifero, hai preso la bottiglia del latte. La posi. L’hai già consumata quasi tutta durante la notte.
«Come fai a far parlare l’albero nella testa?» sei improvvisamente sconvolta.
Sari scoppia a ridere, prende la lattina di carne e taglia il coperchio, usando le forbici come un apriscatola.
«Non la faccio parlare io. Parla da sé, con delle scariche chimiche. Esistevano un sacco di alberi così fino a sei, settecento anni fa. Poi con la caccia alle streghe li hanno tagliati tutti e hanno bruciato i terreni. Sono un po’ difficili da gestire, ma se tirati su bene riescono a coordinare da soli ecosistemi di centinaia di chilometri».
«E lei è l’ultima rimasta?» chiedi.
«No. Non ne erano rimasti. L’abbiamo rigenerata da una traccia genetica, è germogliata in vitro. L’idea è quella di farle bonificare tutta l’area urbana da metalli pesanti, residui di plastiche e quella robaccia radioattiva dell’epoca industriale. Ed è anche molto brava a fare questi lavoretti, guarda che bel giardino ha tirato su con niente, in un postaccio del genere. Ma è giovane, e ultimamente sta diventando un bel po’ testarda».
«Quanti anni ha?»
«Quasi venti».
«Oh», esclami. «Pensavo ne avesse almeno duecento. Diventerà gigantesca, allora».
«Enorme», ride Sari, mangiando la carne in scatola direttamente con la punta delle forbici. Te ne lascia metà, e mentre frughi la tua parte con le dita lo vedi avvicinarti le lame al volto. Ti proteggi il viso, e lui fa un’espressione come per dire: ti sembro uno che ammazza le ragazzine con le forbici? Prende per la punta una ciocca di capelli e la taglia. Li controlla da vicino, perché siete quasi al buio.
«Ma sono colorati?» chiede.
«Quante persone con i capelli scuri vedi in giro per il tuo paese?»
«Già. Ma questo ad A. potrebbe dar fastidio. Vediamo. Al massimo non li prende. Tu usa questo, per ora». Afferra il rametto che ha potato, lo piega per ammorbidirlo e te lo lega intorno al braccio, poco sopra il gomito. «Così vi conoscete con più calma, se vai subito a contatto diretto rischia di scoppiarti il cervello. È una chiacchierona».
Lo guardi dal ciglio della porta quando va a buttare la tua ciocca di capelli nel fango. Aspettate, ma non accade nulla. Il terreno non si apre per acchiapparla. Ma che sto facendo, ti dici. Ma perché ci credo? È un matto e basta. Lui e il suo psicoalbero. Dàgli ragione, così non diventa pericoloso.
«Beh, fattela andar bene. Questo abbiamo. Non posso mica tagliarle un dito», dice infatti.
«Eh», ridi nervosa.
Ti fa un cenno di saluto con la mano, ma quando si volta per andarsene inciampa, finisce con entrambe le mani nel fango. Lotta contro la terra gommosa per rialzarsi, ma non t’avvicini ad aiutarlo. Lo vedi tirare una caviglia senza riuscire a spostarsi, finché non mette le mani nella terra e inizia a strappare filamenti neri dai pantaloni.
«E lasciami!» impreca. «Devo andare a casa. Piantala!»
Si libera con uno strattone e fa di corsa gli ultimi passi verso il cemento.
«Stai diventando impossibile», gli senti dire, mentre si allontana. Tu allora ti giri di colpo, rientri nella stanza e sbatti forte la porta. Il botto inaudito si propaga nelle strutture di metallo facendo risuonare il soffitto. Non hai fame. Hai sete. Magari muori, di sete, e domattina Sari ti troverà morta secca fra queste quattro mura schifose. Togli scarpe e calze, ma ti butti sul letto vestita, nel buio completo. La poca acqua che avevi in corpo la sprechi tutta in lacrime.
Ti svegli sfinita. Hai entrambe le narici tappate, gli occhi gonfi, e qualsiasi posizione sul lettino è insopportabile. Fa caldo. Tenti di riprendere sonno tirando i piedi fuori dalle coperte e appoggiandoli al cemento gelato. Il sollievo dura poco.
Una luce fredda filtra sotto la porta e ti rende impossibile tenere le palpebre chiuse. Senti un tamburello nell’orecchio tappato, come potessi ascoltare il lavorìo notturno dei tuoi organi interni. Il soffitto ti pare basso e la stanza stretta, la coperta infeltrita prude e senti che non riuscirai a respirare stando distesa su questo letto.
Ti alzi ed esci. Non è giorno, ma vedi benissimo. L’albero, dal fondo della fabbrica, emana un alone bluastro che illumina il giardino fino alla tua porta, e getta lunghe ombre nere tra le colonne di cemento e le piante. Nell’aria fresca ti senti meglio.
«Che antipatico, quel Sari. Fa caldo. Certo che hai sete».
Apri il rubinetto della fontana a metà. L’acqua scende piano, stavolta, si incanala in un rivoletto scavato dall’uso e scompare, bevuta dal terreno scuro. Fai qualche altro passo, ma il buio completo del giardino ti innervosisce, così cammini verso la fonte di luce. Raggiungi il tronco e finché la terra è ancora asciutta ti siedi alla base. Guardi in alto. Le foglie azzurrine balenano come lucciole, e migliaia di moscerini galleggiano nell’aria istupiditi, mezzi ubriachi. Grappoli di falene cozzano per raggiungere i rami più splendenti. Un rospo, nascosto in qualche buco, protesta per il chiasso.
«Cos’è questa, una festa? E non hai invitato tua moglie?» chiedi a voce alta. Non capisci se c’è risposta. Tocchi il tronco con i palmi delle mani, ci appoggi l’orecchio sopra, come per abbracciarlo. Riesci a contenerne uno spicchio minuscolo, con la tua larghezza umana. Ma non senti niente.
Delusa, fai qualche passo indietro. Lassù nei rami alti se la spassano. Calci via una zolla fragrante e ti allontani. Rischi di cadere mettendo il piede in una buca, e quando ti fermi per spolverare il ginocchio ti rendi conto d’avere la gamba completamente coperta di filamenti neri. Tiri un urlo. L’angoscia ti forma un blocco nella pancia. Provi a strapparli, ma più tiri più la paura cresce. Ti graffi la coscia con le unghie, contorcendoti come uno scarafaggio, e quando riesci a staccarli hai la sensazione allucinata che anche la tua pelle stia venendo via dalla carne. Allora alzi le mani e ti fermi. Stendi la schiena a terra, ti arrendi. Forza mangiami, pensi fortissimo. Mangiami, stupido albero carnivoro. Aspetti senza muoverti. Niente si muove.
Scusa, ti senti pensare. Pensavo mi strappassi.
Eh no, rispondi. Smettila con questo giochetto psicotico, ora mi hai fatto male. Stupido ipnoalbero delle streghe. Perché dovrei strapparti, sentiamo? Così mi faccio una bella scopa coi tuoi rametti pelosi e me ne volo a casa?
No, non volevo cacciarti. Scusa. Ho capito male. Pensavo volessi salire. Avevo paura che mi tiravi.
Ma chi ti tira, chi ti tocca? Hai davvero mille paranoie. Mi hai svegliata tu. Io me ne torno a dormire, tu stattene a mollo, così magari ti calmi.
Ti alzi e provi a fare qualche passo. Più ti avvicini alla porta, più il senso di colpa ti preme sullo stomaco. Quando entri nella stanzetta una morsa ti stritola il cuore. Se ti rimetti a letto adesso, passerai le ultime ore di buio sola, a rimuginare arricciata sul materasso. Torni indietro.
«Pace?» proponi.
L’albero è in silenzio. Passeggi nei dintorni, convinta che stia tenendo il broncio. Che permaloso, pensi, come esca. Ma non abbocca.
I rami cadenti creano tendaggi luminosi sotto cui il terreno è sveglio. Una fila di formiche lavora a una qualche ricetta. Le guardi per un tempo indefinito, e ti rendi conto di sapere dove stanno andando: l’entrata è sotto un sasso asciutto poco più avanti e scende per almeno tre metri sotto terra. C’è da sbrigarsi. Un bel condominio con un sacco di dispense già sistemate. Ma avete comunque ancora fame.
Ti gratti la testa, e cerchi di trovare qualcosa di carino da dire a un albero. Bel fusto: ridicolo. Oh bello questo giardino, è tuo quindi? Davvero un gran lavoro, stupendo. Io non riesco a tenere viva nemmeno una pianta grassa. Ma non ti pare il caso di parlare di lavoro a quest’ora. Ma l’albero, poi, dorme a quest’ora? Dorme in che senso?
Io scavo, pensi all’improvviso. Cerco.
Cerchi cosa? provi a fingerti un po’ interessata.
Cerco lo sporco. E altri che aiutano.
Siete in tanti? chiedi vaga.
Non siamo tutti.
«Hai davvero dei bei capelli», ti esce a voce alta. «Sai cosa sarebbe pazzesco?» ti balena in testa, ma sei certa che stavolta l’idea sia tua. «Aspetta, eh», avvisi, ma tanto, dove vuoi che vada? Sta lì nel campo da vent’anni. Certo non tira su le radici e si mette a correre. Entri nella stanza e frughi nei rimasugli dello zaino, trovi il pettine e lo porti fuori.
«Ti faccio le trecce», annunci.
Un’ondata di terrore ti travolge.
«Non ti faccio male!» protesti. «Non tiro, giuro. Ti prego, fatti fare le trecce».
L’albero è sconsolato. Trovi un ramo dell’altezza giusta, passi le dita tra i filamenti piano piano. Sembrano capelli di bambola: rigidi, fibrosi, senza nodi. Imbarazzati dalla carezza, i peduncoli impazziscono, si sollevano e si richiudono stretti.
Piano, pensi. Lì sento tutto.
Capisci subito che il pettine è inutile: non c’è niente da lisciare. Il tocco dei denti di plastica, poi, ti dà come la sensazione di legno secco sulle gengive. A mani nude dividi il ramo in tre ciocche, le passi l’una sull’altra, stando attenta a non torcerli o spezzarli. Una coccola ti alliscia il corpo.
Bello, pensi.
Non ti avevano mai mai pettinato i capelli? rispondi. Perché è la primissima cosa che viene voglia di farti, davvero.
No. Li misurano, a volte tagliano un pezzetto per farmi domande, oppure lo mettono in acqua per vedere se cresce. Ma non cresco mica dai capelli.
Ti viene da ridere, e ridi da sola per un bel pezzo. Se mi tagliano un dito e lo mettono a bagno, ti dici, mica ricresce un’altra me dal dito.
Tu no, ma altri crescono, risponde A.
La treccia arriva fino a terra, ma non puoi chiuderla. Lasci andare i filamenti bassi che ricadono morbidi, li scavalchi e cerchi un altro ramo. Ne distingui almeno altri quattro, cinque. Forse dieci, e pensi, in alcuni posso fare trecce diverse. Proprio carino.
Ti piaccio? chiede A., e senti un calore spandersi sul viso mentre inizi a preparare la seconda treccia. Massì che mi piaci, rispondi. Sei l’albero più bello che abbia mai visto. Non avrei trovato qualcuno di così bello e simpatico neppure con tutti i soldi che ho rubato.
Ti strofini il viso bollente. Il naso ha iniziato a colare. Lecchi il muco per non sporcarti le mani, e perché smettere di pettinare la treccia adesso ti pare una violenza insopportabile. Gocce di sudore ti pungono gli occhi cadendo dalla fronte, ti scendono dal seno fino alle gambe. Appena arrivi alla fine della seconda treccia ti spogli. Butti via la magliaccia lurida con cui hai dormito. Nell’aria fresca e umida inizi subito la terza treccia.
Hai un buon profumo, ti fa notare A. Ma che dici, puzzo come un cavallo, non mi lavo da una settimana, ridi tu. E poi come lo senti? Dove ce l’avresti, il naso? Lo sento bene. È la tua acqua. Che schifo, ridi ancora. Questo non è sporco, ti fa capire. I tuoi capelli sanno di sporco.
Quando finisci la settima treccia ti rendi conto d’essere sfinita. La fontanella aperta ha allagato buona parte della strada fino alla stanza, e tu non hai voglia di ciaspolare nel fango per poi metterti a letto fradicia.
L’erba qui è ancora asciutta e lo resterà almeno fino a giorno. Ti riposi con la schiena contro il tronco, asciugandoti il viso con la pelle delle braccia. A. non fa più molta luce, ora, e il cielo sopra i rami inizia a essere rosato. Una corrente fredda e gentile ti passa dietro il collo. Chiudi gli occhi pensando: solo un pochino.
Resta quanto vuoi, risponde l’albero nella tua testa.
Di te mi piace proprio che resti.
Sari ti sveglia quasi morta. L’acqua ti arriva appena sotto il mento, ma non per questo sei contenta d’essere svegliata. Non ringrazi. Ti molla uno schiaffo per comunicarti che sei ancora viva, allora t’arrabbi. Scatti per sederti, ma il tuo piede scivola sulle radici umide e le tue gambe affondano in un’acqua fangosa. Sari ti prende sotto il braccio prima che tu beva dal naso e ti solleva. L’acqua gli arriva alla pancia, così ti tiene contro di sé per farti restare a galla.
«Questa volta hai passato il limite! T’avevo detto d’andarci piano, e guarda che hai combinato. Come faccio a metterti in testa che non siamo uguali? Noi affoghiamo. Moriamo più facile di te. Non siamo fatti uguali. L’hai quasi ammazzata, sei contenta adesso?»
Il senso di colpa ti stritola il petto, mentre Sari trascina il tuo corpo fuori dall’acqua. Quando arrivate alla strada pavimentata sei abbastanza cosciente da chiedere:
«Che ore sono?»
«Sono due giorni che hai aperto l’acqua. Cosa che ti avevo detto di fare stando attenta a coprirti la pelle».
«Ma stavamo chiacchierando…» ti giustifichi.
«Mi lasci parlare con Haga in pace, almeno due minuti?» sbotta.
Senti le tue gambe muoversi, ti arrampichi sulla strada con le ginocchia e ti alzi a fatica. Ti guardi le mani. Hai una vaga idea del fatto che servano a chiudersi sulle cose. Utile. Sari ti spinge fino alla stanzetta, e tu entri obbediente. Sotto i tuoi piedi si forma una chiazza d’acqua verde che scivola fino allo zaino buttato per terra. Non ti impegni a spostarlo.
«Due giorni. Vi ho lasciate sole due giorni», sta dicendo, e ora t’accorgi di quanto è arrabbiato.
Non riesci ancora a parlare così veloce.
«Sei un’incosciente. Sapevo che prendere qualcuno da quel postaccio era un guaio, ma non credevo che raccattassero una cretina completa. Ti ho fatto mettere tutte le informazioni su come funziona A. dentro il fascicolo dove hai firmato il contratto, e tu non l’hai nemmeno guardato. Non hai letto una riga. Vuoi per caso morire?» chiede.
«Sì», dici, delusa.
«Te lo dico per l’ultima volta», scandisce bene le parole. «Se un’altra cosa va storta, A. verrà abbattuta. Comportati con un minimo di buon senso ed evita di metterci nei guai».
«Un’altra cosa quale?» rispondi male, tremando per il freddo. Usi le tue stesse mani per scaldarti, ma funziona poco. Questa pelle da sola non copre granché. «Non ho fatto niente di male. Stavamo insieme e basta. Non ti va bene niente, non posso mai parlare con nessuno, sbaglio tutto quello che faccio. Devo solo lavorare». Senti che gli occhi ti pizzicano.
Sari ti guarda sorpreso, si passa una mano sulla fronte. Ha un’espressione stravolta. Si accarezza la guancia fino a calmarsi, poi prende la coperta e viene a mettertela sulle spalle. Ti friziona la schiena e le braccia per asciugarle.
«Non penso che sbagli tutto. Ma sei troppo invasiva, a volte. Bisogna che stai solo più calma, altrimenti la gente si spaventa, e farai la fine di tua madre e di tua nonna. A volte ti comporti proprio come una cazzo di infestante», parla con calma.
«Perché, è male a essere dappertutto?» ti scuoti in un singhiozzo.
Sari ti guarda, e sai che capisce bene quel che vuoi dire. Lui capisce, ma non è capace di far sentire agli altri quello che sa. Non è colpa sua. Ci prova, ma è solo fatto in un altro modo.
«Scusa», gli dici, asciugandoti le lacrime sulla sua camicia.
«Va bene. Ma ora posso parlare un minuto con Haga?»
«Ma è qui Haga. Eccomi», dici.
«Non intendo questo».
Vedi che comincia di nuovo a innervosirsi, e tu proprio non vuoi che diventi nervoso, non ti piace per nulla quando ha i nervi e manda quei pizzichi di rabbia dappertutto che ti fanno sentire secca e troppo piccola, ti vengono le ansie che prenda le forbici e inizi a tagliare e poi hai paura che ti faccia male e faccia finta di non sentire quando dici smettila di toccarmi in questo modo mi stai facendo davvero male ti prego basta. Gli accarezzi il viso sperando che così stia calmo, ché a tutti piacciono le carezze. Ti stringi con la coperta vicino al suo corpo, e ti allunghi a cercare la pelle sotto la camicia. Gli inumidisci il collo con la bocca.
«E basta!» urla, spingendoti indietro. «Sei ridicola. Non sono un maschio della tua specie. Non ce l’abbiamo più, il maschio della tua specie, te l’ho detto mille volte. Smettila di fare queste porcate».
Ti guardi i piedi. Nonostante la spinta che ti ha spostata, non si sono rotti. Stanno bene. Ti guardi le gambe e le mani, poi con la poca luce che filtra dalla porta, vedi una cosa come acqua ferma, che ti rimanda l’immagine della tua faccia. Ti piace la tua faccia.
«Non ho bisogno del maschio», rispondi.
Vedi Sari prendere qualcosa e avvicinarsi. È veloce. Prima che tu capisca come questo corpo può difendersi, afferra stretto il tuo braccio e usa le forbici per tagliare il legaccio. Una depressione cupa ti punge gli occhi, esplode in una rabbia cieca e cade in un mutismo di pensieri.
«Basta», ripete per l’ultima volta, guardandoti negli occhi. Ti lascia il braccio, ti sistema la coperta sulle spalle.
«Se lo fate di nuovo, ti denuncio, e te ne torni al tuo Paese a fare non so cosa. Non posso permettermi una clandestina affogata in laboratorio. State un po’ tranquille, va bene?» chiede.
«Va bene», rispondi, senza pensarlo. Non pensi niente. Ti pare di non sentire niente. L’aria è vuota e la terra è cosa morta. Lo segui in silenzio mentre esce. Appena fuori, chiude l’acqua. Ti dà un’occhiata, ma non riesce a sostenere per molto il tuo sguardo.
«Adesso ti odiamo», gli dici.
Sari scuote la testa, ma non risponde. Lo senti parlare all’albero, mentre si incammina verso il cancello:
«Non è vero. Tu non sei capace di odiare nessuno».
Sei certa che A. non gli risponda. Quello era un pensiero solo tuo.
Ti stai ammalando. Il naso ti goccia e lo soffi su pezzi di magliette abbandonate, gli occhi ti lacrimano senza motivo e il tuo respiro è raschioso e pesante. Ti tocchi la fronte arroventata e decidi di non alzarti dal letto per nessun motivo. Oh mamma, rimpiangi, una tazza di latte caldo. Un pigiama bello spesso. Ma perché mi sono andata a infilare in un guaio simile? Come sto usando la mia vita?
Sari ti trova in questo stato, nella stanzetta buia. Capisce che sei ammalata pure senza avvicinarsi, anzi, gira a largo. Ma fa un po’ di volte avanti e indietro, lo vedi riempire il frigo, e infine torna con una stufetta.
«Te la lascio accesa, oppure ti dà fastidio per dormire?» chiede a voce bassa.
«Eh?» sei confusa e tappata. «Lasciala pure, tanto c’è già la luce dell’albero che mi tiene sveglia».
«Come?»
Se ne va, senti smuovere attrezzi, il cigolio della ruota della carretta. Torna dopo un tempo incalcolabile.
«Hai detto la luce dell’albero?» viene a chiederti. «Hai le allucinazioni?» sembra preoccupato.
«Sì, dai», ti rigiri nel letto. «Quella luce blu che fa di notte. Sembra la segnaletica di un aeroporto».
Sari sembra prendere male questa spiegazione. Entra nella stanza, fa dei passi casuali, apre l’armadietto e cerca dentro.
«No. No, no, no!» lo senti ripetere. «Dove ho messo la roba per il raschiamento?»
«E che ne so io», rispondi. La situazione precipita all’improvviso. Lo vedi buttare giù cose a caso dallo scaffale, svuotare una scatola tirando via cartacce come un esaltato. Oh no, pensi. Ci siamo. Il matto è scoppiato.
«Che succede?» domandi, mettendoti seduta. Il mal di testa ti pressa.
«Un fungo. Ecco che cosa aveva. Ecco perché era strana. Ha preso un fungo. Questa maledettissima acqua sempre aperta!» urla, raccatta un po’ di giochini da scienziato pazzo e corre fuori. Decidi di seguirlo a passetti. Sbirci dalla porta per capire la gravità dei fatti: è in piedi che traffica con una delle trecce, ormai mezze sfatte. Ci sta passando sopra qualcosa, tipo un rasoio. Ti dà la nausea, e preferisci non guardare. Non sai come, ma conservi un vago ricordo di quanto può far male. Guardi la roba lasciata per terra e inizi a rimetterla a posto nell’armadietto, tremando come un pulcino. Ti guardi allo specchio.
«Come sono ridotta?»
Così scopri un fatto tremendo: la ricrescita ti è salita di almeno due dita. Sei a righe. Le occhiaie viola ti affondano gli occhi, e la tua pelle ha preso i colori della muffa.
Apri la bocca per controllarti la lingua e non capisci quel che vedi. Ti avvicini meglio allo specchio. La tua lingua bianchissima è coperta di filamenti neri. Chiudi la bocca e la riapri. Sono ancora lì. Se giri la testa, la parte della bocca che cade in ombra manda una fosforescenza azzurrina. Ti tocchi la lingua con le dita, e scopri che la peluria è attaccata. Fa male se la tiri.
Ti manca il respiro. Lo strillo ti si blocca in gola, quando noti che il nero sulla nuca non è il nero dei tuoi capelli. Ti gratti furiosamente, e questo scatena solo un dolore atroce su tutta la tua testa. Nel panico, butti via la coperta con cui ti coprivi le spalle, sbatti i piedi e ti controlli le dita. Sotto le unghie, la pelle è blu.
«Non è vero», ti convinci, ma quando provi ad abbassarti le palpebre davanti allo specchio ci trovi dentro piccoli peletti neri.
Sari ti sente urlare dall’altro lato della fabbrica. Devi aver urlato tanto e forte, perché arriva senza fiato in un tempo davvero breve. Ti trova sul letto, senza mutande, che ti controlli tra le gambe.
«Aiuto aiuto», lo chiami. «Ce l’ho dappertutto. Aiuto!» urli.
Ha ancora in mano uno di quei gingilli inutili, qualcosa come un vetrino da microscopio, e lo butta sul frigorifero.
«Vieni», ti dice, e visto che non ti reggi in piedi è lui a trascinarti fuori. Ti porta fino al centro del campo, davanti all’albero. Sei nuda sotto il sole, e il sole brucia addosso come fuoco. Cerchi di coprirti la testa, ma Sari te lo impedisce.
«Che hai fatto?» urla verso l’albero.
Che ho fatto? ti senti pensare.
«Non capisco cosa hai fatto e ci metterò troppo a capirlo, quindi spiegamelo», chiede Sari.
Non ho fatto niente, pensi. Lasciami stare. Ho sete. Lasciami, questo posto è secco e brucia, io brucio se non mi lasci, lasciami! Mordi la mano di Sari che ti teneva ferma sotto il sole, e corri all’ombra dei rami, a mettere i piedi nella terra ancora molliccia.
«Giuro che se non mi dici cosa hai fatto vado a prendere la sega!» sta urlando lui dall’altro lato del campo. Scoppi a ridere forte. Per segare questo tronco con quel suo giocattolo ci metterebbe mesi. Mesi in cui dovrebbe tagliare giorno e notte solo per guardare sotto la corteccia. Allora sarebbe costretto davvero a stare qui sempre.
«Ho pulito. Ho fatto crescere. Quello che tu mi hai detto di fare», rispondi.
«Ma non devi farlo alle persone», ti sta rincorrendo. Giocate ad acchiapparella girando intorno all’albero, finché Sari non si stanca. È vecchio.
«Haga», ti chiama, senza fiato. «Vieni qui. Ti porto in ospedale e cerco di farti prescrivere un antimicotico».
La paura ti sciocca. Ma perché, poi? Non avere paura, pensi. Tanto non ci vado.
Non andarci ti prego, senti. Abbiamo una cosa nostra e lui non vuole. Non ha capito. Spiegaglielo tu, perché io non so più come farmi capire. Qualsiasi cosa gli spiego la prende male, ed è solo perché non la capisce.
«Io ho dentro il bambino di A.», dici. «Non ci vengo in ospedale. Lì lo uccidono con i metalli».
«Non dire stupidaggini», ti risponde infatti. «È solo un fungo, e tutte e due lo avete preso».
«Sì», confermi.
«Adesso tu vieni con me in ospedale», ti indica. «E tu stai buona al sole con l’acqua chiusa finché non dico io. Cerco di capire cos’è e poi ti trovo una terapia, prima che finisci ammuffita».
«Noi siamo la madre», cerchi di spiegargli.
Sari fa un sospiro, si copre la faccia con le mani. Non dice più niente. È di nuovo stanco. Senti da dove sei l’odore del suo corpo sudato, il prurito dei capelli sotto l’elastico, il dolore all’articolazione di un ginocchio. Ma hai sete.
«Mettimi sotto», lo supplichi. «Non farmi morire qui fuori».
«No», risponde.
«Ti prego», cerchi di essere gentile, come quando andate d’accordo e vi divertite, e lui è contento che hai trovato piante nuove e sono uscite e diventano forti, e ti dice brava, sei davvero fantastica, tu non ne hai idea ma continua così e salverai il mondo. E tu per farlo contento giorno e notte cerchi, e pulisci, e spingi, e spacchi e trovi, sposti le montagne intere.
«Ti prego. Non posso fare tutto da sola. Mettimi sotto. Sono sempre sola. Non mi risponde mai nessuno quando chiedo aiuto. Ti prego, mettimi giù, così posso far crescere un’altra come me».
«Ma non puoi», ti risponde Sari, sfinito. «Non puoi far nascere una pianta da una donna. Siete due specie diverse. Non potete riprodurvi. Questa è solo un’infestazione da funghi».
«Siamo tutti fatti delle stesse cose», insisti.
Sai che nemmeno lui vuole discutere ancora. Senti che la sua decisione di ferro si sta svuotando. Cammini fino ad appoggiare una mano al tronco e ti siedi sulle radici nodose. Sono umide, ma stanno iniziando ad asciugarsi. Sari è andato fino alla grata dove ha poggiato gli attrezzi, ha preso la pala e ora è fermo a guardare la terra. Scuote la testa come gli facesse male, ma non sente dolore. È solo spaventato.
«Fidati tu di me, per una volta», gli dici. Ti guarda. Guarda i rami in alto, socchiudendo gli occhi per il sole. Non hai paura quando si avvicina con la pala. Di solito ti dà fastidio se scava qui intorno, rompe i lombrichi che lavorano il cibo, riempie le tane e taglia i tuoi nervi più sottili.
Lo guardi scavare, e una bolla di eccitazione ti cresce in petto, una smania tale che non riesci a star ferma. Ti avvicini a guardare la terra smossa, anche se l’odore ti dà la nausea. Sari sta piangendo. Non fa scene, ma le lacrime gli scendono dal viso e cadono nello scavo.
«Non hai capito, vero?» sei delusa, anche se ti sta dando retta.
«Sì, ho capito. Ma non deve anche piacermi», ti allontana.
Aspetti ferma all’ombra, seduta per terra. Quando smette di scavare e ti raggiunge hai solo sonno. Sbadigli. Un torpore pesante ti sale dai piedi fino alla pancia, rendendoti sasso.
Non senti niente quando la pala ti batte in testa. Il suono dell’osso che si rompe, il naso che si stappa. L’acqua costretta dentro i muscoli di questo corpo dà una scossa e scappa via. La riacchiappi tutta attraverso l’erba. Stai ancora poco sotto il sole, poi Sari ti prende da una parte e ti trascina. Fai piano! gli dici. Sei sempre il solito, con queste manacce.
«Vuoi star zitta un minuto?» protesta, e la sua voce adesso manda onde arricciate di tristezza. Sta male. Qualcosa di pesante gli blocca il respiro, mentre chiude il sole con la terra, coprendo con cura la pelle indifesa. Tutto quello che era nel suo stomaco si rovescia sull’erba.
Va bene così, gli dici. È fresco, ora va bene. Grazie mille. Ma aprimi l’acqua prima di andare via, per favore. Poi riposati.
«Non vado via», singhiozza. «Non voglio più andare da nessuna parte», urla, e butta via la pala, che tocca il cemento con la punta di metallo. La vibrazione si spande per metri e chilometri di terra tutto intorno, sveglia le talpe, fa crollare i soffitti alle formiche. Un coro di proteste si alza da tutto il giardino, disturba anche quelli che crescono fuori dalla fabbrica, fino alle campagne oltre le strade della città.
Basta! scoppi. State tutti zitti, o giuro che vi soffoco.
La tua famiglia infinita cade nel silenzio. Non vedete che cosa ho qui? li rimproveri. Per una volta che invece di occuparmi di voi ho messo una piantina mia, fate tutto questo macello? È appena nata e voi non riuscite lasciarci tranquille un secondo.
Scacci una falena che ti gira attorno da mezzora e fulmini un passero che becchetta testardo la corteccia.
Silenzio.
Sari si è seduto contro il tronco, tiene la faccia verso terra e tutta la sua acqua, salata e schiumosa, cade tra le radici. Non piangere, gli dici. Piangi solo perché non capisci. Invece ora bisogna che conservi la tua acqua e riposi, perché quando spunterà nostra figlia dovrai aiutarmi a crescerla, va bene? Insegnerai anche a lei a parlare con le vostre parole. Tu sei bravo in questa cosa.
L’aria che si muove fa vibrare i rami, sciogliendo le masse di filamenti che pendevano intrecciati. Ti spiace, perché c’è voluta molta energia e molta acqua, ed era bella la pesantezza che scendeva fino all’erba, il tepore delle foglie nascoste nella piega interna, il tocco delicato della pelle che le lisciava e spostava.
Ci fai le trecce?, chiedi a Sari.
«Sei grande ormai per queste cose», si rifiuta.
Questo dice, ma non sa davvero fin dove toccano le tue radici. Non gli hai ancora fatto vedere tutte le strade che muovete sotto la terra, quanto lontano arrivano. Ora siete grandi, ma siete solo in tanti. Quando sarete tutti sarete il mondo.

Testo tratto da: AA.VV. Hortus Mirabilis. Storie di piante immaginarie (Moscabianca, 2021)

I poeti appartati: Davide Lucantoni

1

Livio Borriello, poeta appartato laureato, mi ha segnalato qualche giorno fa un autore, Davide Lucantoni, e un libro Mem, Arcipelago Itaca, 2020. Ho chiesto all’autore una copia e devo dire che la lettura è stata un’immersione dove il respiro, le souffle, non mancava di certo per seguire sul fondo di questo strano mare – ma forse era un lago, una palude, una pozzanghera, o tutte insieme queste cose, può darsi-  ogni solco, relitto adagiato e dimenticato d’un quotidiano assorto nei pensieri. Un libro di pensieri delicato come gli esercizi che solerti maestre affidavano agli scolari, i pensierini, minimi assalti ai massimi sistemi. Qui ne propongo alcuni sperando di indurre qualche lettore da quella parte dove se ne stanno i miei poeti. effeffe

 

L’uomo personificato V

Appena uscito dal negozio di scarpe
raccoglie le sue buste e si rimette in viaggio.
Procede verso il centro della Zona
industriale, dal punto di arrivo. Prosegue
guardando le stelle che cadono e
«tremano in modo inquietante»
desidera solo di avverarsi
e così si esprime

 

(…)
Il contapassi appeso alla cintura infatti
non tiene mai conto della direzione ma
fornisce una misura abbastanza accurata
della distanza, del tempo che passa
e quanto di sé brucia in un passo,
spesso però conta come passi
anche altri movimenti – tipo
allacciarsi le scarpe, accasciarsi
e morire;
o anche i movimenti degli altri.

*

Comparse I

Ora mio padre sta sul piazzale intento a drenare
la fogna che perde e per evitarci una multa
scolla le mattonelle una a una, disfa il fondo
lo guardo seduto dal balcone mentre il sudore
mi sgocciola dai piedi incrociati sulla ringhiera
fa una pozza e si riversa nella grondaia
così mi dico che il baratro che abbiamo davanti
alla fine è un buco alla turca, ma è solo un’idea
poco profonda, mi dico
e priva di fondamento.

Comparse V

Ma anche quest’anno passerà, e tutto
tornerà così come ora torno a casa, solo
che non trovo le chiavi, che ho fatto rifare
– tra l’altro – usando la forma di queste poesie
perché mi fossero necessarie o perché
facessero al mondo ancora testo, di nuovo
torno a cercarle girando io a vuoto.

 

Come degli illusi
*
Alla fine restiamo soli distesi sul prato
in piccoli mucchietti di cenere, ognuno
al vertice del suo raccoglimento;
lo stesso prato dove corrono dei bambini
crescendoci incontro.
36

*
Poi torniamo a casa coi piedi per terra
o immaginiamo di farlo e ci guardiamo
le spalle, fino a sparire dalla nostra vista,
fino a dove, come vedi
di tutti i passi che abbiamo fatto
tornano solo i nostri piedi.

Totò Modo

0

Scherza con i fanti e, soprattutto, con i Santi…

 

di Gigi Spina

 

Avevo conosciuto Paolo Isotta al convegno napoletano Diagonale Totò, nel giugno 2017 (Atti non ancora pervenuti, purtroppo). Quando l’avevo visto elencato fra i relatori (io avrei parlato del latinorum di Totò), ero stato molto contento. Avrei finalmente stretto la mano a un critico musicale, professore, musicologo, autore di saggi eruditi e coinvolgenti … e tanto altro che, rarus nans o, se preferite, vox clamantis in deserto, scriveva ‘gli opera omnia’ e non, come quasi tutti, ‘l’opera omnia’, espressione che attribuisce a omnia (come una volta avevo segnalato a Michele Serra) lo statuto di aggettivo femminile, sinonimo di completa, intera, ragion per cui, sostenevo, avrei voluto essere omnio anche io. Mi presentai e glielo dissi, a Paolino – come l’avrei poi chiamato in questi quasi quattro anni, con privilegio di amico – che ero curioso di conoscerlo, proprio in quanto filologo classico. Il mio intervento gli piacque molto (vedi a p. 70).

L’ho pubblicato con qualche ritocco in una benemerita miscellanea, Compagni di Classici (2018), del Club di Cultura Classica Ezio Mancino di Torino, col titolo Il latinorum di Totò: castigat ridendo grammaticos, e poi l’ho portato in giro come conferenza, facendone addirittura uno spettacolo a Solofra con Enzo Marangelo.

http://luigigigispina.altervista.org/wp-content/uploads/2020/01/SpinaToto%CC%80.pdf

Mi sono soffermato su qualche dato autobiografico, spero non invadente, per giustificare perché mi senta doppiamente autorizzato a parlare del libro postumo di Paolo Isotta, San Totò, la cui Avvertenza risulta completata il giorno del suo settantesimo compleanno, 18 ottobre 2020 (p. X). Paolo Isotta è morto il 12 febbraio 2021 (giorno, 110 anni prima, della nascita di mio padre, Francesco).

Il libro, un libro di devozione, che mancava, in questa esplicita veste, nella ricca bibliografia totoiana, è stato scritto «in ricordo del mio Papà, che per primo mi portò per mano a vedere i films di Totò e mi raccontò di lui a teatro». Devozione per il padre, che gli trasmise la devozione per Totò, attraverso un contatto diretto con i films (rispetto le ‘fissazioni’ linguistiche di Isotta), ma soprattutto attraverso i racconti sul teatro di Totò, le vere fondamenta della sua arte somma. L’educazione totoiana è dunque antica e si imprime in Isotta sin da ragazzino.

Isotta è stato un critico implacabile come un estimatore senza mezze misure. Dalle nostre parti, in Campania, si dice: ‘dove vede e dove ceca’. E Isotta era così: se approvava, lo faceva ai massimi livelli; se criticava, lo faceva distruggendo. Ne hanno fatto le spese in molti e molte, fra cantanti, musicisti, direttori d’orchestra, politici e intellettuali (un esempio: la citazione non proprio lusinghiera, forse imperdonabile, di Sandro Pertini, pp. 45-46). Con Totò, la cui qualifica di Santo aveva preso in prestito da Federico Fellini, ma anche visto certificata, per così dire, da chi si recava a pregare sulla tomba del Principe, Isotta si sentiva al riparo da ogni possibile miscredenza:

«Per me Totò è un Santo: per l’altezza della sua arte, per la gioia da lui per decennî donata a milioni di persone: gente del popolo, piccola borghesia, poi persino alta, ma anche autentici reietti. Per essere riuscito, con la risata che suscitava, a far per un attimo dimenticare a tutti, non solo ai reietti, le loro tragedie. E, incredibile, per essere l’idolo dei ragazzi di ogni ceto, da molte generazioni. Affatto disgiunti dalla realtà storica e sociale che aiutò a generarne l’arte, vedono i suoi films e pronunciano le sue battute, entrate misteriosamente nel loro gergo» (p. VIII).

Il libro di Isotta nasce da questa devozione, espressa senza alcuna remora.

Erano da poco in libreria due nuovi volumi su Totò: La paura fa Totò. Le parodie thriller e horror del principe della risata, di Giuseppe Cozzolino e Domenico Livigni (CentoAutori 2020); e, di Emilio Gentile, Caporali tanti, uomini pochissimi. La Storia secondo Totò (Laterza 2020), anch’esso nato da una passione adolescenziale favorita dai genitori, ma forse non da una devozione. Isotta è andato avanti deciso nel suo atto d’amore (non credo avesse particolare curiosità di conoscere questi volumi), che non immaginava certo avrebbe suggellato la sua vita di studioso. Anche questo dato della sorte sembra paradossale: Isotta stesso, nell’Avvertenza, spiega bene perché, pur non essendo un critico cinematografico né uno storico del cinema, né un cinefilo, sentiva di poter parlare di Totò, argomento universale, con qualche arma in più, in quanto capace di esprimersi nel napoletano ‘vero’ e quindi più vicino a un’anima e a una persona come Totò. Chi ha frequentato Isotta sa che alternava la cura di un parlare forbito e cadenzato – attento, nel trasformarsi in scrittura, al rispetto delle tradizioni – alla graffiante, colorita e spiazzante espressione dialettale, con un passaggio rapido e improvviso che non turbava, ma immetteva subito in una dimensione più a pelle, popolaresca, ma di quel popolare dei gentiluomini napoletani.

Il volume si divide in due parti: la prima si intitola Tentiamo un ritratto e conta quasi 80 pagine. La seconda, più corposa, fino a p. 302, bibliografia e indici compresi, contiene le schede di tutti i films di Totò, con trama, curiosità, osservazioni ed eventuali critiche. Schede del tutto personali, nello stile di Isotta. Un piacere leggerle e ricordare i films o, magari, trovare lo stimolo per rivederli – chi li vedesse per la prima volta sarebbe stato sicuramente appellato con appropriato formulario napoletano dall’Autore.

La prima parte si apre con la morte di Totò e col suo memorabile funerale in tre tempi cui l’allora sedicenne Isotta prese parte nella sequenza napoletana. Nel giro di un paio di pagine (5-7) Isotta ha modo di citare: Federico Fellini; un sommo artista, il direttore d’orchestra Giuseppe (Pippo) Patanè; Sil’vestr Ščedrin, che ritrasse, in un quadro che Isotta possedeva, la basilica del Carmine; Nino Taranto, che pronunziò l’orazione funebre; il compagno di scuola Fabrizio Perrone Capano; Torquato Tasso e Giambattista Marino e, infine, il suo amato Ovidio. Perché Isotta non riusciva a tener fuori dalla sua prosa e dal suo eloquio la sua cultura e le sue passioni umane. Per questo era bello ascoltarlo, ogni volta ci si immergeva in racconti, aneddoti, mai neutri o oggettivi ma sempre vitali, pieni di pathos. Anche nel ritratto ‘tentato’, che occupa gli otto capitoli della prima parte, i nomi si affollano e partecipano alla messa in scena prima dell’infanzia, poi della presenza scenica e infine di quella filmica di Totò; introdotti e ‘catalogati’ dalla voce di Isotta, in continuo dialogo con Totò nel cuore di Napoli. Il teatro; il ruolo e i nomi delle cosiddette ‘spalle’; la vita sentimentale di Totò; le riflessioni più intime, quella che a Isotta piace chiamare l’essenza di Totò; le quattro Napoli della ‘rappresentazione spettacolare’; l’ipotesto della fescennina iocatio, cioè il patrimonio comico e satirico della cultura romana e dell’arte dell’improvvisazione teatrale su un esile canovaccio; infine il Totò musicista e poeta. Questa prima parte termina con il ricordo del convegno Totò Diagonale e di un bell’intervento su Aristofane, quasi improvvisato all’ultimo momento, di Gennaro Carrillo, professore del Suor Orsola Benincasa, la cui sintesi Isotta ha meritoriamente inserito nel volume.

Frazionate in una periodizzazione che ha forse una sua intima ragione (1937-1949; 1950-1959; 1960-1967), le 98 schede, che comprendono films ed episodi di films non sono un’arida elencazione di dati e contenuti, ma corrispondono, con dimensioni diverse, a una rivisitazione del tutto personale di ciascun film. Farò un solo esempio: Miseria e nobiltà, del 1954, con regia di Mario Mattoli, sceneggiatura di Ruggero Maccari, produttori Carlo Ponti e Dino De Laurentis. La scheda si estende da p. 160 alle prime 6 righe di p. 169. Si tratta di un film che rivedo continuamente e conosco quasi a memoria.

Scrive Isotta: «Miseria e nobiltà è una delle più belle commedie di Scarpetta: il testo è di tale valore che continua a essere in repertorio a onta della trasposizione cinematografica: oltre tutto l’Autore l’ha dotata di una comicità surreale che pare richiedere la presenza di Totò, come se in parte lo inventasse. La sceneggiatura di Maccari si discosta poco dall’originale, ma aggiunge strepitose battute e strepitosi gags dei quali non si riesce a tenere il conto». In questa breve premessa c’è il modo di ‘schedare’ i film: filologia ed erudizione, entusiasmo e acutezza di sguardo e orecchio dello spettatore. La scheda si dipana tra piccoli gioiellini linguistici, come la descrizione di Luisella (Dolores Palumbo), convivente di Felice Sciosciammocca (Totò) come «una vera janara, una strega», inseriti anche in utili spiegazioni: «Pasquale [Enzo Turco] e Felice , per non incontrare il padrone di casa, si nascondono presso una bella modista torinese che abita al piano di sotto: Franca Faldini è doppiata occorrendole un marcato accento taurinense». Quanto poi al cafone che detta a pagamento la lettera a Felice scrivano, ecco la precisazione di Isotta: «Ricordo solo ai non napoletani, e ai napoletani che hanno dimenticato la loro lingua, che ‘cafone’ non è solo un aggettivo ma, in primis, un sostantivo: significa ‘abitante del contado’ e viene dal latino caupona, ‘trattoria di campagna’. All’origine non significa, dunque, persona grossolana: ciò discende naturalmente dal fatto che gli abitanti del contado erano solitamente rozzi e ignoranti; e si lavavano poco o mai: un tempo». Alle precisazioni servono anche le note (poche) a pie’ di pagina, come quella (22, p. 162) che puntualizza il dialogo fra Felice e Pasquale per la vendita del cappotto: «dallo charcutier alla cantonata. E chi è questo sciacquettiere? Il casadduóglio?». Ecco la nota: «In italiano casadduóglio si dice ‘venditore di generi alimentari’ o più velocemente ‘salumiere’. L’etimo del vocabolo è il matrimonio fra caso (‘cacio’) e uóglio (‘olio’)». E poi la stoccata critica: «Il punto debole del film è il personaggio di Gaetano Semmolone. Noi ce lo immaginiamo rozzo, ignorante, ridicolo: un vero plebeo napoletano che tira fuori le manie di grandezza e le arie, salvo avere una feticistica venerazione per i parenti nobili di Eugenio. Ma l’interprete, Gianni Cavalieri, uno scarto della compagnia di Baseggio, ha un così marcato accento padovano da rendere del tutto implausibile la parte in tal modo recitata». Per converso, Isotta valorizza (alla nota 24, p. 166) la resa comica del toscaneggiare fasullo dei finti nobili (Felice e Pasquale innanzitutto), ma per tirare una nuova stoccata ad alcuni suoi concittadini: «La toscanizzazione forzata, l’abolizione delle doppie, con risultati di involontaria ed enorme comicità, vengono ancora praticate presso i pezziente sagliute, i parvenus, che oggi abitano prevalentemente la via Petrarca, con le sue splendide vedute. Ne do un esempio che a Scarpetta non cede in nulla. Una massaia trasferitasi, appunto, a via Petrarca, diceva a una mia amica: “Signò, i’ po’ ’a casa l’aggia fatta nova, d’ ’a capa ’o ’pere. Primma cosa, aggio fatto l’intera topolatura!”. La ‘zoccolatura’ le appariva un parlar sconveniente, per via del traslato zoccola, letteralmente ‘topaccio di fogna, in puttana, come vien e abitualmente adoperato il vocabolo». Eppure, proprio alla fine della scheda Isotta è impreciso; peccato non possa più chiedergli come mai: «Nell’andarsene, Luisella così insulta a Felice: “Uheeee! Funicolare senza corrente!”». Ora, questa, che è uno dei più fantasiosi insulti napoletani, abbastanza unico, non è rivolto da Luisella a Felice, il suo convivente, bensì alla moglie di Pasquale, Concetta (Liana Billi), che era intervenuta nella lite, tant’è che Pasquale precisa, con battuta ancora più comica: “No, mia moglie la tiene la corrente”. Funicolare senza corrente è insulto rivolto a persona inutile e per di più ingombrante, quale, appunto, Luisella ritiene Concetta.

Le schede di Isotta sono, dunque, un continuo invito a rivedere il film, a cercarne i particolari che sfuggono, a commentarlo insieme. Schede, quindi, molto diverse da quelle che appaiono in alcuni titolo della bibliografia totoiana.

Concludo con un’ultima precisazione, che non coinvolge, però l’Autore, bensì l’editing del volume. Nell’indice dei nomi appare uno Spina, Luigi, citato a p. 70 e a p. 255. Dal momento che lo nacqui, Spina Luigi, mi riconosco in quello citato con affettuosa amicizia da Paolino a p. 70, mentre rilevo che a p. 255 si tratta di Grazia Maria Spina, Isabella nel film Totò contro il pirata nero (regia di Fernando Cerchio, 1964). Grazia Maria Spina, che in realtà – ho scoperto solo ora, per l’occasione – si chiama Spinazzi, non è mia parente, però … però, una volta venne a Salerno per uno spettacolo (direttamente dalla Televisione Italiana, si diceva allora), quando io avevo una decina d’anni. Mio padre – questi padri, quante cose ci hanno insegnato, anche con il solo esempio! – volle che andassimo a salutarla. Ci presentammo, disse che ci chiamavamo Spina anche noi. Ricordo che lei sorrise e ci congedò gentilmente. Peccato non poterne ridere, ora, con Paolino, peccato davvero.

 

Lumelli: (tutte) Le poesie

2

[Presento qui un estratto del libro che raccoglie l’opera poetica di Angelo Lumelli “Le poesie”, a cura di Eugenio Gazzola, il verri edizioni. È un libro molto importante questo come lo è il suo autore, che ha sfidato, nel suo percorso, tutte le corsie ben riconoscibili. Oggi, in particolar modo, dovrebbe essere degno di grande attenzione da parte di chi legge e pratica scritture sperimentali, di ricerca, non assertive. A. I.]

di Angelo Lumelli

Da Vocalises 2008

.

1.2

non uno degli innumerevoli

nemmeno uno per fare una partita

alla fine ho visto un incompiuto

che ogni tanto mi guardava

carta di un gioco sconosciuto

qua la mano ho detto

e ho visto la mia che mancava.

*

1.3

a volte basta mettersi in coppia

uno a destra uno a sinistra

spingere avanti le cose

come mandare a letto i pulcini

non c’era nessuno soltanto noi due

chi ha detto che è davvero accaduto?

ogni piccola cosa la fa grande il suo vuoto

talvolta nel cuore si accende una spia

come l’assenza che non va via.

*

1.10

da mirabili spaventi

un piccolo buongiorno

anima che porta gonne a fiori

compagne di scuola

vanno sui tacchi

lontane dall’infanzia

ginocchia nascoste

muovono il vestito

c’è il non fatto

per non farlo sparire

secchi cardi

nella fiamma dei venti

splende il nulla

che fa bene alle cose

ponticelli di minuti

come parole sospese

oh righe degli indovini

mentre cadono lacrime oscure

sui quaderni bagnati dei bambini.

*

4.3

[(vecchi muri con nuovi geroglifici

un graffio indica la pista – un’altra fontanella potabile)]

[(aumenta qualcosa insistendo anche sul niente

se uno da Via Nirone arriva a Santa Marta

e non incontra anima viva?)]

[oh

(i zampeggianti ondulanti bovi – come traduce Emilio Villa!)

(quel complicato profumo sono vacche da latte

da via Torino sempre dritto verso sud

fino alle fruscianti – voi rogge padane)]

[(clandestini! – candidati a fare poemi)

(anime esterne – versi con un piede alzato)

(scuote la groppa – bufalo dei vostri polmoni

poesia – vuoto di un tamburo)]

[(e i sassi bianchi del Monte Ventoso?)

(in ordine d’arrivo: Francesco Petrarca 1336

luglio 2000 Marco Pantani – con il vento contro)]

[(deludono le cose? – finché non saranno trasparenti

e la trasparenza più niente?

(in pratica: andate al sodo – dopo il corpo viene il bello!)

(illic a corporeis ad incorporea volucri cogitatione transiliens)

(bambini occidentali

che infatti in quel passaggio trasalite – lacrime di piccoli padroni)]

[(e i sassi? la loro siccità? le disperate imitazioni?)]

[(chi continua a trattare la mancanza come un credito?)]

[(cambia colore un filo nel tappeto persiano?

si appella un colore a un altro colore?

si accoppia davanti alle signore?

è stato fedele?

ha conservato la vita interiore

l’ira primordiale il primo amore?)]

*

Da Trattatello incostante (1980)

.

  1. candid camera

quando siamo rimasti in due

siamo diventati insufficienti

abbiamo giocato a biglie

ma erano lacrime di vetro

la bravura è mancare il bersaglio

come assicura il lanciatore di coltelli

a volte basta una tovaglia

come se fosse di domenica

quando tirò il sasso nello specchio

non avrebbe immaginato di sparire.

appare qualcosa – e non significa l’amata

con cento rimedi vaneggia – favoloso sapere

(vuoi fare il contenuto? fai il palo?)

(o l’amore guardiano

mentre fa il suo giro?)

soltanto l’accaduto è abitato

grandissime dalie

(segni delle donne)

(aiuole di civiltà mature)

manca un colpo da maestro?

un riquadro di finestra – da dove riguardare?

mentre si prepara qualcosa

da qualche parte – a quest’ora

ci sono i minuti contati

sale d’aspetto – che di notte

chiudono alle due

e se dopo ci fosse il mare?

se non fosse Cesano Boscone

ma spalancato vuoto

tra acqua e cielo?

alla finestra – un rumore di vele

poi cieli mutevoli – soffitti dipinti

belli come i seni del respiro

dunque è vero: sei tu che non finivi

le equazioni per paura dell’uguale?

*

proteggevi le persone tra parentesi

antiche donne – con grandi grembiuli

mio amato

non voglio arrivare – in fondo al problema

non voglio quell’altro sapere

senso compiuto che fa presto a finire.

rimargina

il risultato – visto nell’insieme

foresta con tutte le foglie

poi uomini e donne

tantissimi – meno delle foglie

ma tanti – luci azzurrine

ciabatte bianche a buchini

turni di notte delle infermiere

potente infanzia – pensiero ardito

a scuola

chiamati per nome – gli abbandonati

godono il loro nome inaudito

adesso la collisione è vicina

scattano viticci – serpenti

nelle nobili vigne – tutti i quadri

sono fuori dalle cornici

break per carità

break – specie senza cuore

che osa continuare!

*

Da cosa bella cosa (1977)

.

4

(apri l’uscio apri l’uscio

c’è il presente senza guscio)

adesso sono visibili foglie di zucca

filari di fagioli

(è prevista

una descrizione per il lungo?)

(per tutto il tempo? per stare alla pari?)

(senza mai finire?)

ma dove parole e cose si biforcano

arde fuori di sé

la mente nel suo cielo

precipita la piccola fine

sembrano strilli di gioia

vano è il grande restare

tenere il posto occupato

mentre batte le palpebre l’amato

svanisce

l’oscuro che ci ha salvato.

*

5

potrebbe essere quella la scena:

lei che lava i piatti

il grembiule sulle anche magre

(attendere

è diventare colpevoli)

(chi non è subito

diventa un altro)

così non so

se quello era il tuo seno

sotto quel grembiule

se c’ero anch’io.

*

6

c’era da aspettarselo:

il tempo si mangia i tavoli le sedie

inutile fermarlo con le mani

ma sul suo corpo si calmava

le unghie brillavano nei sandali

le gambe si innalzavano.

*

8

siliqua sistro sonaglio

banda di gusci di ceci

a quintali vocali fagioli

nelle stoppie la quaglia

le mele nella paglia

giocando si può dire

la ginestra che è gialla

l’azzurra farfalla

cosa bella cosa

nome senza cosa

cosa che non osa

mondo bel mondo

buio senza fondo

è micidiale lì fuori

senza una parola

e tu devi esclamare esclamare.

*

18

ci sono altre descrizioni possibili

c’è il tendone del bar (a righe rosse e blu)

si trattengono l’un l’altro – sguardi

ma chi aspetta l’errore?

o capovolgere il rovescio – bella mossa

c’è crisi nel continuo

gridano aiuto le sirene

casi d’urgenza – che portano salvezza

finalmente – oh benvenuta

sulla prua del nulla

sconosciuta!

*

23

non sono fatti

(per tutta la notte

grilli – respiri)

(pensa all’effervescenza)

(all’idrolitina – anni cinquanta

dei contadini)

pensa al mandorlo che fiorì

e sta fiorito di notte

(in quantità enormi – l’accadere)

ma cosa singola (una prova del nove)

(come l’appello – per nome

e cognome)

(il presente è lungo

dal presente non si sbuca)

vai più indietro

se vuoi la foto con tutti

non abbracciare la sua gonna

all’altezza dei ginocchi.

Di non sapere infine a memoria

0

di Vito Bonito

canto dei bambini monocellulari

gli organismi monocellulari
sono la forma di vita
di maggior splendore

un’esistenza parassitaria
che non ha bisogno alcuno
di svilupparsi ulteriormente

senza cervello              senza nervi
immortali                     perfetti

solo ciò che è perfetto
non continua a svilupparsi

lo sviluppo non è altro
che un indice di imperfezione

e allora bisogna
pensare in grande
andare oltre
la striminzita misura umana

la morte non finisce mai
la morte finisce

me l’ha detto mia mamma
quando è morta per la sesta volta

anche il frigorifero muore spesso
di notte lo sento cantare
ogni notte

– i bambini sono i fiori della vita
e la terra dei ricordi
è fior che si consuma –

tutti amano i bambini
noi nuotiamo nell’aria
e abbiamo visto il bruco
prendere il colore delle foglie

da ciò abbiamo capito
che iddio non esiste

e ora crediamo
crediamo

in luce da luce per ogni lucissima
luce crediamo

alle meduse al ronzio

abbiamo sempre la febbre
ci brucia preghiamo                 sangue
dalle nostre teste di ferro

nessuno sa dirci                       nessuno
quale ipotesi di felicità
gli uomini hanno sognato

prima di morire

Koba e il grande timoniere guardano la tv

1980 –

I

– ero un uomo di chiesa

un mistico un sensore
di stelle galassie
orbite rivoluzioni
parlavo parole altrui

per tutti sognavo
meravigliosi giorni bui

ho vissuto dentro un ascensore
della vita l’ultimo pastore

su e giù dentro la storia
sovranamente fiero
dell’umana gloria –

II

– coi piedini dentro il ghiaccio
e senza comunione –

si insegnano ai malati
le arti belle

soffocato il respiro
si vedon le stelle

III

– la vita è diventata
più allegra

ho ucciso
i miei giganti immaginari
le scimmie e i serpenti

sessanta bambini
ho fatto arrestare

con l’accusa celestiale
di odiarmi
come bianchi angioletti
contro
rivoluzionari
al servizio
si sa
del fantasma capitale

altri ne ho condannati
e poi riabilitati
a una vita senza alcolici
ed occhiali

respirare…
l’unico tormento –

imperscrutabili sono il mondo
Koba
e il firmamento

IV

– i morti arrecano benefici
possono fertilizzare il terreno –

– volevo imparare il ricamo
ho fatto i pediluvi
ho pregato –

V

– i ricordi dell’infanzia
non li porteranno
a recare aiuto
là dove regna la tristezza
il dolore –

disse il giardiniere                    al timoniere

il timoniere annuì
– Sì dolce
del disìo il tormento –

Andrea Astolfi: c’è un passaggio

1

 

di Andrea Astolfi

 

 

c’è un passaggio

un passaggio

white

*

treno in corsa

ad un certo punto

forse vedo un vhs

*

a sapporo

o a sapporo

wonderful ball

*

silence

where are all my toys?

colui che non può scrivere

*

lo sconto

è abbastanza

le colline portano poesie

*

cantano le cicale

cercavo sollievo nella poesia.

non scrivere

*

senza sonno scrivo due righe

la ventola gira

mia madre è di là che dorme –

*

cerca nella posta

sviluppate subito

brown sugar

*

cane di taglia minuta

è tutto qui

foto

*

vista dell’altopiano in primavera

dobbiamo scendere a

a dèrgano

*

brutta tuborg

l’arte fa schifo

i need

*

albero della

sussurrio

sussurio

*

albero frotta di case

maestro

oggi è oggi

*

c’è un passaggio

treno in coda

a sapporo

 

 

Non praticare il cannibalismo

0

di Ron Padgett

POESIA D’AMORE

Siamo pieni di fiammiferi a casa.
Li teniamo sempre a portata di mano.
Ora la nostra marca preferita è Ohio Blue Tip,
ma un tempo amavamo la marca Diamond.
Era prima di scoprire i fiammiferi Ohio Blue Tip.
Sono confezioni perfette, piccole
scatole robuste, blu scuro e chiaro e i contorni bianchi,
le parole che sembrano un megafono,
come per urlare al mondo
“Ecco il fiammifero più bello del mondo,
un pollice e mezzo di pino flessibile e in testa
granelli di un viola intenso, sobri, impetuosi e
ostinatamente pronti a esplodere in fiamme,
magari accendendo la sigaretta della donna che ami
per la prima volta, e mai più è stato lo stesso
dopo. Tutto questo ti daremo.”
È quello che tu hai dato a me, io
divento la sigaretta e tu il fiammifero, o io
il fiammifero e tu la sigaretta, sfolgorio
di baci stemperati sotto il cielo.

Traduzione di Paola Del Zoppo

 

PENSARE ALLA LUNA

Da bambino pensavo che la luna
esistesse solo di notte:

eccola lì
nel cielo buio.

Poi la vedevo alla luce del giorno
e sapevo che era la luna

ma non quella vera.
Era quell’altra.

La luna vera aveva luce lunare,
argento e blu.

E la luna piena era così grande
da sembrare vicina, ma

a cosa? (Non sapevo
di essere sulla terra).

Traduzione di Paola Del Zoppo

 

LE VARIAZIONI GOLDBERG

Quando ho sentito parlare Glenn Gould
oggi alla radio – la sua voce di molto tempo fa –
ho capito che non importa quanto eccentrico quanto
complicato quanto acido sarebbe potuto essere
ho capito che mi sarei fidato di tutto ciò che aveva da dire
e l’ho fatto, erano così ben strutturate
le sue frasi, e precise le parole,
e per un momento
mi dispiacque di non averlo mai conosciuto
non credo che avrei potuto parlare tutta la notte
al telefono con lui ma forse
poi ci sarei riuscito soprattutto quando
ero abbastanza giovane da uccidermi per l’arte.

Traduzione di Riccardo Frolloni

 

SAI COSA

Di tanto in tanto mi succede
di essere una vibrazione
forte come una creatura vivente
e che quella creatura sono io.
Mi succede quando la guardo fuori dai miei occhi
e sguscia via
in una zona oscura.

Ma sai cosa?
Prendi la tua filosofia
e mettila in una busta di carta
e portala in un posto
e aprila e vedi
se ti guarda
e se lo fa
allora stai succedendo
perché anche lei sta succedendo.

L’ho imparato nella mia infanzia
e io ho avuto un’infanzia migliore di tante altre
ma mi innervosivo
quando mia madre si innervosiva
e mio padre era sempre silenziosamente nervoso.
A volte eravamo un fascio di nervi segreti
e altre volte ce la passavamo bene
specialmente mia madre ed io.

Duettavamo in macchina
in armonia.
A volte lei faceva la voce alta, a volte la facevo io.
Era stranamente appagante
arrivare a un segnale di stop
e fermarci.

La Lituania
non è qualcosa di cui abbia sentito parlare
e Stalin pensavo fosse un personaggio dei cartoni animati
perché aveva un nome solo e i baffi.
Nessuno in America aveva i baffi
perché Hitler li aveva e lui
non era divertente quando urlava
e scuoteva il volto con aria nervosa.
La nostra famiglia aveva un’aria nervosa ma non così.
Lui aveva un problema serio, noi ne avevamo uno leggero.

Un giorno qualcuno mi disse di rilassarmi.
Non sapevo cosa significasse,
ho pensato che fossimo semplicemente quel che eravamo.
Avevamo nomi e identità e sapevamo
l’altro chi fosse e cosa dire.
Quindi cosa vuol dire “rilassante”?
È trasformarsi in qualcun altro col tuo corpo
che in ogni caso è quel che accade in ogni istante
ma così lentamente che non possiamo vederlo –
in effetti non sta succedendo
anche se in realtà sì.

Traduzione di Cristina Consiglio

*****

LOVE POEM

We have plenty of matches in our house.
We keep them on hand always.
Currently our favorite brand is Ohio Blue Tip,
though we used to prefer Diamond brand.
That was before we discovered Ohio Blue Tip matches.
They are excellently packaged, sturdy
little boxes with dark and light blue and white labels
with words lettered in the shape of a megaphone,
as if to say even louder to the world,
“Here is the most beautiful match in the world,
its one-and-a-half-inch soft pine stem capped
by a grainy dark purple head, so sober and furious
and stubbornly ready to burst into flame,
lighting, perhaps, the cigarette of the woman you love,
for the first time, and it was never really the same
after that. All this will we give you.”
That is what you gave me, I
become the cigarette and you the match, or I
the match and you the cigarette, blazing
with kisses that smoulder toward heaven.

 

THINKING ABOUT THE MOON

As a child I thought the moon
existed only at night:

there it was
in the dark sky.

When I saw it in daytime
I knew it was the moon

but it wasn’t the real one.
It was that other one.

The real moon had moonlight,
silver and blue

And the full moon was so big
it seemed close, but

to what? (I didn’t know
I was on Earth).

 

THE GOLDBERG VARIATIONS

When I heard Glenn Gould talking
on the radio today – his voice from long ago –
I knew no matter how eccentric how
difficult how crabby he might have been
I knew I’d trust whatever he had to say
and I did, so well-structured his sentences
were, and precise his words,
and for a moment
I felt regret I never knew him though
I don’t think I could have talked all night
on the phone with him but then
maybe I would have especially when
I was young enough to kill myself for art.

 

YOU KNOW WHAT

Every once in a while
it occurs to me
that I am a vibration
as hard as a living creature
and that that creature is me.
It occurs when I look out of my eyes
at it and it skulks away
into the dark area.

But you know what?
Take your philosophy
and put it in a paper bag
and carry it to a destination
and open it and see
if it looks back at you
and if it does
then you are occurring
because it is occurring too.

I learned that in my childhood
and I did have a childhood it was better than most
but I got nervous
when my mother got nervous
and my father was always quietly nervous.
We were a bundle of secret nerves sometimes
and at others we had quite a good time
especially my mother and me.

We would sing duets in the car
in harmony.
Sometimes she’d take the alto sometimes I would.
It was oddly satisfying
to come to a stop sign
and stop.

Lithuania
wasn’t something I had heard of
and Stalin was I thought a cartoon character
because he had only one name and a mustache.
No one in America had a mustache
because Hitler had had one and he
wasn’t funny he was shouting
and shaking his face around a tight nervous fit.
Our family was a little nervous but not like that.
He had a real problem we had a slight one.

One day someone told me to relax.
I didn’t know what they meant,
I thought we were just the way we were.
We had names and identities and we knew
who each other was and what to say.
So what is “relaxing”? It is turning
into someone else in your own body
which is what is happening every moment anyway
but so slowly we can’t see it —
in effect it isn’t occurring
though really it is.

Testi tratti da: Ron Padgett, Non praticare il cannibalismo. 100 poesie (Del Vecchio Editore)

Mots-clés__Sabbia

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Sabbia 
di Daniele Ruini

Eddie Vedder, Out of Sands -> play

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[Italo Calvino, Ricordo di una battaglia, da I. Calvino, Romanzi e racconti,
edizione diretta da Claudio Milanini; a cura di Mario Barenghi e Bruno Falcetto; Vol. 3: Racconti sparsi e altri scritti d’invenzione, Milano, Mondadori, 1994, pp. 50-58]

Non è vero che non ricordo più niente, i ricordi sono ancora là, nascosti nel grigio gomitolo del cervello, nell’umido letto di sabbia che si deposita nel fondo del torrente dei pensieri: se è vero che ogni grano di questa sabbia mentale conserva un momento della vita fissato in modo che non si possa più cancellare ma seppellito da miliardi e miliardi d’altri granelli. Sto cercando di riportare alla superficie una giornata, una mattina, un’ora tra il buio e la luce all’aprirsi di quella giornata. Da anni non ho più smosso questi ricordi, rintanati come anguille nelle pozze della memoria. Ero sicuro che in qualsiasi momento mi bastava rimestare nell’acqua bassa per vederli affiorare con un colpo di coda. Al più avrei dovuto sollevare qualcuno dei grossi sassi che fanno da argine tra il presente e il passato, per scoprire le piccole caverne dietro la fronte dove s’acquattano le cose dimenticate. Ma perché quella mattina e non un altro momento? Ci sono dei punti che emergono dal fondale di sabbia, segno che intorno a quel punto girava una specie di vortice, e quando i ricordi dopo un lungo sonno si svegliano è partendo dal centro d’uno di quei vortici che si srotola la spirale del tempo.

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[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. Ogni prima domenica del mese, Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]

Intervista a Mario Calabresi

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Mario Calabresi, noto giornalista e in diversi periodi direttore dei quotidiani La Stampa e Repubblica, è figlio del commissario di polizia Luigi Calabresi, ucciso nel 1972 – secondo quanto accertato dalle successive indagini – da un commando di persone che facevano riferimento alla sinistra estrema di quegli anni. L’uccisione doveva vendicare il suo presunto ruolo nella morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli, illegalmente trattenuto in questura il 16 dicembre 1969, deceduto in seguito alla caduta da una finestra della questura milanese (“malore attivo” si disse!). Ora che vari componenti di questo commando sono stati arrestati in Francia come dai noti accordi intervenuti tra Draghi e Macron, Mario Calabresi (che aveva due anni quando il padre fu ucciso) è stato ovviamente intervistato in quanto figlio di una delle vittime; volentieri riporto qualche brano dell’intervista apparsa sul Corriere della Sera, perché mi sembra inaspettatamente interessante, pacata ed estranea alle polemiche varie tra giustizialisti e indulgenti.

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D.: Invece qual è il suo sentimento privato e personale?
R.: «Come mia madre e i miei fratelli, non riesco a provare alcuna soddisfazione. L’idea che un uomo anziano e molto malato [allude a Giorgio Pietrostefani, probabile mandante dell’uccisione] vada in galera non è di alcun risarcimento per noi».
D.: La fuga in Francia non è stata una scelta ben precisa?
R.: «Come no. Durante il processo di revisione a Mestre, un giorno mio fratello Paolo si rivolse a mia madre. Guardalo bene, le disse, che secondo me non lo rivedi più. Sapevamo che sarebbe successo».
D.: Perché due anni fa decise di incontrarlo?
R.: «Era giunto il tempo di guardarlo in faccia. Di fare una cosa per me stesso. Fu la prima cosa che gli dissi quando ci vedemmo in un hotel a Parigi. Sono qui non come giornalista, non come scrittore, ma come figlio del commissario Calabresi».
D.: Ha trovato le risposte che cercava?
R.: «Il nostro colloquio di quel giorno rimarrà sempre una questione privata, tra me e lui. Per me è stato un momento di pacificazione definitiva, che mi è servito molto. Credo che a livello emotivo non sia stato facile neppure per lui».
D.: Che impressione le fece?
R.: «Un uomo stanco e malato. Molto diverso dalla persona spavalda vista durante i processi. Oggi non provo livore o rancore nei suoi confronti».

[ . . . . . . . .]
D.: Firmerebbe una eventuale domanda di grazia?
R.: «Non siamo nel Medioevo. Non sono le famiglie delle vittime a dover decidere, ma le istituzioni. Si tratta di un percorso e di decisioni da prendere nell’interesse generale. Al netto delle condizioni di salute di Pietrostefani, penso piuttosto a un provvedimento generale, che arrivi alla fine di un percorso collettivo. Qualcosa di simile alla Commissione per la verità e la riconciliazione presieduta da Desmond Tutu in Sudafrica. Clemenza, in cambio della verità su quegli anni».
D.: O dell’ammissione delle proprie colpe?
R.: «Non mi aspetto alcun autodafé. Ma credo che queste persone ci debbano qualcosa. Ci devono pezzi di verità. Sono uomini e donne che hanno partecipato a delitti che hanno segnato la storia di questo Paese. Ci mancano ancora dettagli, e soprattutto le loro voci per ricostruire quei fatti così tragici. Penso che dovrebbero assumersi le loro responsabilità».
D.: E se lo facessero?
R.: «Sarei il primo a chiedere un gesto di clemenza nei loro confronti. Credo che oggi raggiungere una verità definitiva abbia molto più valore che tenere quelle persone in galera per il resto della loro vita. All’improvviso abbiamo una occasione inattesa e irripetibile per fare un bilancio compiuto, con il contributo degli ultimi latitanti arrestati in Francia. Se si riuscisse a coglierla, sarebbe quasi doveroso un provvedimento che sancisca la fine di quella».

Incipit da Transagonistica – Gabriele Galligani

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Incipit del romanzo d’esordio di Gabriele Gallegani per Battaglia Edizioni (2021)

La sua maglietta quasi galleggia sulla punta delle lame d’erba.

Dall’alto, la stoffa è una macchia scura dai contorni irregolari: increspata come lago immobile, giace non vista a bordo-campo.

Le telecamere inquadrano l’arbitro mentre spinge l’indice a cacciarsi l’auricolare nel timpano. Arresta la corsa e alza le braccia nel gesto calcisticamente codificato dell’interruzione di gioco; è la seconda volta in mezz’ora e giocatori e tifosi protestano senza capire. Il frastuono è di quelli da tappi nelle orecchie per gli abitanti del circondario. Ancor più dubbi semina il suo gesto calcisticamente non-codificato: allungando il dito su ciascuno, l’arbitro prende a contare i giocatori.

Il primo indice del tifoso si muove per imitazione. Dopodiché gli altri lo seguono come percependo la mancanza di qualcosa o di qualcuno. Non è usuale lo spettacolo di migliaia di mani sugli spalti che si sollevano a contare le stelle in campo. La conta risulta sempre in difetto e quel gesto dello stadio intero concretizza l’assenza scesa tra loro. Sono le 15.41 di una delle tante domeniche calcistiche, quando l’arbitro segnala che un giocatore non c’è più.

Non bastano ore a chiarire quanto accaduto nei minuti in cui gli occhi di tifosi e telecamere indugiavano sulle tette della manifestante. Persino i calciatori avevano dimenticato il gioco per ammirare la bellezza che correva nuda tra loro. I suoi capelli rossi bruciavano il campo. Oltre alle sue grazie, sfoggiava la rivendicazione a caratteri neri sullo sfondo abbronzato della schiena. Tra le acclamazioni, l’invasione si protraeva per lunghi secondi nei quali la ragazza irrideva i tentativi di placcaggio degli steward e i tackle degli agenti. Quando i poliziotti erano riusciti a coprirla, lo stadio aveva salutato l’uscita con un applauso. Nessuno s’era accorto della scomparsa del calciatore.

Anche dopo la sostituzione in contumacia e la ripresa del gioco, i giornalisti continuano a parlare di lui, la sua sola assenza più intrigante delle altre ventidue comparse. Nell’attesa di comunicati, gli opinionisti crogiolano in frasi precotte sul genio tormentato, il talento controverso dal look eccentrico, quello che irrideva gli avversari e non esultava nemmeno per il gol. I complottisti ipotizzano un legame tra la sua scomparsa e l’invasione della donna.

Nell’udir le prime voci, i compaesani non si scompongono. Nessuno lo ammette ma vera soddisfazione scorre di sguardo in sguardo nel sentire che l’unico tra loro a esser diventato qualcuno, d’un tratto è scomparso. Tirano in ballo anche il paranormale, ironia della sorte per un calciatore soprannominato “Alieno”. Rapimento extraterrestre, smaterializzazione o teletrasporto – quale che sia l’ipotesi, funge da copertura per l’invidia d’un paese intero.

Nelle interviste, i compagni di squadra non si lasciano sfuggire una parola. Negli spogliatoi si guardano complici e fingono che nulla sia successo.

L’Alieno tra loro non doveva starci.


Gabriele Galligani è insegnante di italiano e storia nella scuola media. Laureato in cinema a Bologna, ha frequentato la Sorbonne e lavorato per produzioni cinematografiche parigine e berlinesi. Film documentari e cortometraggi da lui montati e scritti sono stati selezionati da festival italiani e internazionali. Con “Il vino cattivo” ha vinto il premio di migliore sceneggiatura presso il RIFF – Rome Independent Film Festival 2020. Suoi racconti sono stati pubblicati su Carmilla Online, Malgrado Le Mosche e in antologie collettive curate da Wu Ming 2.

Di lavoro, non ne parliamo per favore

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di Andrea Inglese

Parliamo di lavoro, del nostro lavoro, nelle vetrine personali di Facebook? Mi sembra poco. Le nostre esperienze lavorative, in genere, per entrare nella vetrina personale devono essere in qualche modo attraenti: un contratto ottenuto, soprattutto se prestigioso, si può celebrare in collettività ristretta. Nulla si dirà, invece, se ce ne fossero, sui retroscena: attese, spaventi, umiliazioni, piccole o grandi sopraffazioni, machiavellismi. È che il mondo del lavoro è un po’ il buco nero delle nostre vite. Lo si riesce a poetizzare davvero a fatica. E quando qualche poeta si specializza in una sfida così ardua, lo si saluta come un caso eccezionale, quasi avesse inventato un sottogenere. Lavorare è necessario, lavorare molto è spesso indispensabile, e lavorare male è quanto accade quasi sempre. Il male e il lavoro sono ancora una volta strettamente, biblicamente, legati. La rivoluzione socialista non c’è stata, non si parla più di alienazione, e se qualche soprassalto contestatario emergesse, si ricorda subito, con fare seccato, che la pandemia mondiale non fa sconti. Chi ha problemi in ufficio o in fabbrica, sofferenze strane, si rivolga allo psicologo o al medico, ma lasci perdere il sindacalista. Siamo ritornati al punto di partenza: possiamo rileggerci William Morris o Marx come se fossero novità editoriali. Eppure nessuno vuole parlare davvero male del proprio lavoro, ovvero nessuno vuole parlare male di sé, mettere in cattiva luce quella fetta importante della sua vita passata a svolgere un’attività salariata. Che ne sarebbe del nostro narcisismo di persone civilizzate, di preziosi individui quali siamo, densi di potenzialità, competenze, talenti semisepolti, che bisogna estrinsecare a tambur battente, prima dell’arrivo inopinato della vecchiaia?

Un giorno, nel nuovo secolo, sbarcò un termine magico e liberatorio: “precariato”. Sembrava una moda generazionale, si appiccicava meravigliosamente ai giovani, che entravano allora nel mondo del lavoro. Poi si è capito che era la forma che aveva preso il lavoro salariato nel suo insieme. Di colpo, le vite stesse di quelle persone semisommerse nel tempo costretto, a volte malandato, del lavoro, per il principio dei vasi comunicanti si sono precarizzate. Tutta l’instabilità è risalita nelle fibre intime, psichiche, delle persone. Ma non tutto il male viene per nuocere: si è aperto così un nuovo filone, dove è ormai indissociabile l’attività produttiva e da quella di consumo: l’identità. Se ne fanno circolare a mucchi. Ma in modo anarchico, libero: di-ai-uai, Do It Youself. Ognuno si rimbocchi le maniche, e quando è uscito dal buco nero del lavoro salariale, vada altrove, sui social network ad esempio, a strofinare, laccare, addobbare la propria identità. Tutti abbiamo una vita fuori dal lavoro: bisogna pur farne qualcosa, esibirla, fotosciopparla, brandirla come la prova di un’esistenza degnamente umana e individualizzata. Nel caso, invece, che il lavoro funzioni abbastanza bene – a volte accade –, si tratta di approfittare del periodo fasto: lasciare che la brillantezza del contratto prestigioso, della mansione incoronata di ammirazione e timore, riluca sulla miseria della vostra vita privata. Avete rinunciato a ogni arcaica, sorpassata, forma di vita affettiva, privata, familiare? Illuminate tutto grazie al fascio di luce installato nel tempo lavorativo: sere e fine settimana vuoti, troppo ordinati e prevedibili, saranno redenti dallo sfavillio dei successi professionali.

Di tutto il lavoro salariato del nuovo secolo, quello culturale è il più crumiro. Serve davvero ricordarlo? Ma che dire, allora, di tutta quella attività culturale – come questa che sto realizzando nella mattinata libera dalle ore d’insegnamento – che non rientra neppure nella categoria del lavoro salariato, in quanto non è poco o mal pagata, ma allegramente gratuita? È possibile scrivere un pezzo di scontentezza generale sul buco nero del lavoro salariale nelle nostre vite, senza essere remunerato? È un gesto liberatorio, emancipatore, o l’ennesimo rituale innocuo del coglionazzo? Qual è il più compromesso, corrotto, inquinato alla radice, dei lavori: quello culturale a pagamento o quello culturale gratuito? Sto lavorando, in questo momento, per esorcizzare le mie ore d’insegnamento – il mio lavoro salariato, di cui non parlerò nella pubblica piazza, nel caso il mio datore di lavoro ci passasse per caso? Oppure sto lisciando l’identità dello “scrittore impegnato”, che dovrò poi far circolare anche nei social network, aggiungendo al tempo speso nella redazione quello speso nella diffusione? Queste contraddizioni sono frutto solo di scostumatezza, sbrindellamento intellettuale, mollezza di carattere, o già radicano in quella che è quasi una contraddizione antropologica: come è possibile non identificarci nel lavoro che facciamo? Non nutrirlo della nostra vita più intima e più vasta? La circolazione delle identità sui social è forse il prezzo che si paga quando questa identificazione è diventata impossibile o semplicemente quando è troppo faticoso, doloroso, sostenerla?

Guardiani

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di Bianca Battilocchi

Io, ero stata cancellata
dal fuoco, sono stata invasa
dal verde strisciante
(come
è lucida la stagione)

Col tempo gli animali
sono arrivati ad abitarmi

prima uno per
uno, di nascosto
(le loro tracce abituali
bruciate); poi
marcati i nuovi territori
sono tornati, più
convinti, anno
dopo anno, due
a due…

(Margaret Atwood, Brevi scene di lupi, trad. Renata Morresi)

Sagome d’ombra

la statua che fissa
i suoi fori penetranti
bivacco dell’esploratore

(ore e ore ore ?)

mentre il filo della lampada connette
fonte – mezzo – oggetto d’attenzione

una forbice sognata                         divide
quel canale vivificante

e l’oggetto perde definizione
i           bordi si         assentano
come   un ritorno      al fluido    oscuro
che si allarga                                                             si allarga

ci si sistema su una sedia
che continua a vorticare
sui suoi cinque rami di rotelle
disegni mantici
tracciati sul pavimento
dall’errare dei cerchi ripetuti

e ripetuti di continuo ripetuti

ricordi ancora qual era l’oggetto?
le sue dimensioni? i suoi colori?

bisogna montarlo da capo
girandosi e rigirandosi
spostando la traiettoria anche

Nel tufo

fonetica abissale del tamburo

tum tu tumm

attrazione nell’imbuto del trapezio
nell’antro dell’emblema accanito

tum tum tu tumm

trova lei         lei il contatto sorgivo
che ricorda

il sibilo da sbirciare
nel tufo

in fondo arrotolata
la presenza ofidica
prima dei colori

Soglie nelle steppe

resiste
la frontiera magica della yurta

confine sicuro
argine dei corpi caldi

il suo feltro e cuoio lunare
è forma dell’anima
è essa stessa animale

pensa il territorio
che allarga che lei diventa

accorpa afflati
cura cicatrici

evoca il nucleo

Totem

ecco loro ora parlano col becco
ai propri spiriti

la parentela in trance
i gridi di uccelli
le corna di renna tracciate dalle fiamme

l’oltre nelle radioonde

sono tutti voli
di un romanzo teriomorfo

coralità khubilku
verso una casa mai vista
e tuttavia casa

si comprende meglio nel sogno

Mindscapes – Valhalla

il monaco si addormentò e al mattino scrisse (qualcuno però lo udì cantare):

un brindisi da corna ricurve
nelle pieghe profonde dell’orecchio di pietra

al suo centro             la fonte di tutti i corsi

un labirinto o crocevia
si fanno piramide nell’oro verticale di Glasir
albero d’aurora ma pure saetta

angeli e girovaghi
in un utero ondivago di pesci

l’apocalisse d’aquile li attende
ultima impresa di scudi e asce
e poi?

le trecce dei guerrieri verranno sciolte?

lo scoprirà nella notte
quando diventerà lupo

***

Fotografie di Bianca Battilocchi

Convegno sull’eredità critica di Francesco Orlando

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Dal 6 all’8 maggio si svolge on line un convegno interamente dedicato all’eredità critica di Francesco Orlando. Qui di seguito il programma. [ot]
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LETTERATURA RAGIONE REPRESSO
L’eredità critica di Francesco Orlando

Organizzato da: Stefano Brugnolo, Francesco Fiorentino, Gianni Iotti, Luciano Pellegrini, Sergio Zatti

Pisa, 6-8 maggio 2021

Su Microsoft Teams: iscriversi a convegnorlando2021@gmail.com e su Youtube: Seminario d’Interpretazione Testuale – Mimesis – YouTube

Giovedì 6 maggio, ore 9:00

Saluti e apertura dei lavori:

Alessandra Lischi Delegata del rettore dell’Università di Pisa per la comunicazione e la diffusione della cultura

Roberta Ferrari Direttrice del Dipartimento di Filologia, Letteratura, Linguistica

Gianpiero Rosati Preside della classe di Lettere della Scuola Normale Superiore di Pisa

Presiede e introduce: Paolo Tortonese Université Sorbonne Nouvelle – Paris 3

Relazioni:

Alfredo Stussi Scuola Normale Superiore di Pisa – emerito, Francesco a Pisa negli anni della Normale

Raffaele Donnarumma Università di Pisa, La formazione di compromesso. Sull’estetica di Francesco Orlando

Aurélie Gendrat Sorbonne Université, La ricezione di Francesco Orlando in Francia: un tentativo di chiffonnage

Giovedì 6 maggio, ore 15:00

Presiede e introduce: Mariolina Bertini Università di Parma

Relazioni:

Federico Corradi Università di Napoli “L’Orientale”, Francesco Orlando e il Barocco. Tra Rousset e Matte Blanco

Francesco Pigozzo Università eCampus, La letterarietà dei discorsi fattuali: il caso delle memorie personali

Iacopo Leoni Università di Napoli “L’Orientale”, Referenti, codici e ritorno del represso nel romanzo francese tra le due guerre

Venerdì 7 maggio, ore 9:00

Presiede e introduce: Guido Mazzoni Università di Siena

Relazioni:

Walter Siti scrittore, Come si digerisce un maestro fuori moda

Fabien Vitali Christian-Albrechts-Universität zu Kiel, La doppia scommessa. Per e malgrado Lampedusa

Christian Rivoletti FAU Erlangen-Nürnberg, Costanti testuali, espansione di senso e rappresentazione della realtà

Carlo Ginzburg Scuola Normale Superiore – emerito, Pascal “al servizio dell’irreligione”

Venerdì 7 maggio, ore 15:00

Presiede e introduce: Carla Benedetti Università di Pisa

Relazioni:

Alessandra Ginzburg psicoanalista, Francesco Orlando dalla repressione all’inconscio non rimosso di Matte Blanco

David Quint Yale University, The Belatedness of the Thought of Francesco Orlando

Valentino Baldi Università per Stranieri di Siena, L’identificazione emotiva

Valentina Sturli Sorbonne Université, Le figure dell’invenzione: una ricerca incompiuta di Francesco Orlando

Sabato 8 maggio, ore 9:00

Presiede e introduce: Massimo Fusillo Università dell’Aquila

Relazioni:

Guido Paduano Università di Pisa, Francesco Orlando e la drammaturgia musicale

Cristina Savettieri Università di Pisa, Storicità ed epoche nell’opera di Francesco Orlando

Luca Danti Università di Pisa, Le figure del ciarlatano: una ricerca potenziale di Francesco Orlando

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Segreteria: Giulia Bullentini, Iacopo Leoni, Mario Gerolamo Mossa

Per informazioni: convegnorlando2020@gmail.com

Radio days: Mirco Salvadori & Arlo Bigazzi

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Ding Dong You’re Dead

di musica, perduta indipendenza, tenebra e rivoluzione

Mirco Salvadori in conversazione con Arlo Bigazzi

 

Il battello sul quale stiamo viaggiando arranca a fatica affrontando le forti correnti avverse. Ci sta trascinando nei territori della penombra, lì dove le note suonano in modo diverso, capaci di trasformarsi in feroci sirene, abili nell’ammaliare e irrimediabilmente ingoiare chi si pone impreparato al loro ascolto. Siamo in due, sul ponte di questa piccola e malandata imbarcazione. A discutere, replicare e obiettare ciò che sostengo, un capitano di lungo corso che ha deciso di condividere la mia stessa sorte. Fossi cresciuto a manga e cartoni animati negli anni ’80 lo chiamerei Capitan Harlock ma la mia età mi obbliga a pensare ad altre assonanze come quelle legate al nome di Capitan Marlow. Forse è per questo che ci ritroviamo a galleggiare su queste scure e torbide acque alla ricerca di una risposta complicata da ottenere, cercando di capire cosa nasconde la fitta foresta che circonda la nostra barca. Ci confronteremo affrontando un invisibile Kurtz che su questa verde e umida penombra impera.

Il cappello da capitano di Marina a coprire il bianco dei capelli raccolti in un codino, la perenne sigaretta accesa e il marcato accento che contraddistingue la sua provenienza, Capitan Arlo Bigazzi se ne sta seduto sul ponte di questo trabiccolo a vapore sorseggiando il suo chinotto. Lo guardo e penso che ho di fronte a me una parte consistente del suono indipendente italiano, colui che assieme al fratello Giampiero ha fondato la Materiali Sonori, un’etichetta discografica nata nel 1977 e cresciuta nel credo dell’indipendenza artistica e nell’internazionalità dell’offerta culturale. È assieme a questo novello Capitan Marlow, musicista e produttore toscano, che attraverserò la tenebra, in uno scambio di idee e pareri rigardanti la feroce decadenza musicale in un paese che a sua volta si rintana sempre più nell’intrico della jungla profonda, lì dove si annida l’orrido.

 

Arlo Bigazzi e Chiara Cappelli – L’infanzia da “Majakovskij!”

 

Mirco Salvadori: Non è semplice affrontare una discussione del genere, vista l’ampiezza degli argomenti che si dovrebbero trattare. Non solo musica ma anche il contesto nel quale viene prodotta e diffusa e la sua qualità in funzione del destinatario finale. Come prima cosa però vorrei cercare di capire se il mio sentire è anche il tuo, se ti senti sempre più estraneo a un mondo che un tempo ti apparteneva e ti rappresentava. Una realtà che aveva dei principi di massima che man mano sono scomparsi nell’appiattimento generale di un’offerta che mira sempre più alla semplificazione basica inducendoti a rifugiarti nell’unico angolo di mondo dove ancora ti riconosci.

 

Arlo Bigazzi: Fisicamente, sì. Ma per il resto non mi rifugio molto. Mi sento parte del mondo, mi piace starci, anche se poi rimango abbastanza ai suoi margini. Non sono attratto dall’idea di vivere in isole protettive, di appartenenza. Riserve indiane dove ce le cantiamo e suoniamo persuadendoci di essere “i migliori”. Ma non mi piace neppure essere in mano alla “Grande Industria”. Allineato al Sistema. E poi non sono mai stato affascinato dai lustrini, sono d’indole francescana. Come diceva un mio amico, “noi abbiamo molte cose in comune con loro, sono loro che non hanno niente in comune con noi”.

 

Sinceramente ti invidio, ti invidio perché riesci a bere il chinotto che da sempre detesto ma ti invidio soprattutto per la tua capacità nel mediare.

 

Mediativo penso di esserlo poco, in verità. Mi guardo intorno, rifletto, a volte mi viene di farmi un’opinione. Non è detto che sia giusta ma prendo comunque la mia strada. In fin dei conti non credo di avere grandi convinzioni da far valere o da proteggere, però ho l’urgenza, la necessità quasi fisica di inseguire un’ Utopia, pertanto cerco di abbandonare cinismi e diffidenze e vado da quella parte. Magari non prendo neppure la strada giusta e provo a cambiarla se me ne rendo conto, ma vado comunque da quella parte.

 

Ti passo un altro chinotto che dici? Ok, siamo forse simili e giungiamo comunque dallo stesso passato ma ovviamente apparteniamo a due realtà diverse. Tu suoni e produci, sei un musicista ed io tento di de-scrivere ciò che tu e molti altri tuoi simili cercate di dire con il vostro lavoro. Al tuo pari lo faccio da una postazione che mi permette l’assoluta indipendenza espressiva, una riserva come tu la chiami, nata spontaneamente, per sottrazione.

 

Aspetta. Capiamoci: per “riserva” intendo quando evitiamo un confronto concreto con il mondo, quando ci rifugiamo tra animali della stessa specie. A me piace il confronto ma pure io, in fin dei conti, vado per sottrazione: raramente ascolto e guardo cose che so già che poco m’interesseranno. Mi sembra tempo sprecato.

 

Sai che penso? Penso che quella porzione di mondo sarà pure una riserva, ma è attiva. È poco conosciuta e zero valutata ma, diosanto, se è viva! Lo è perché chi vi suona lo fa usando ancora la curiosità della ricerca e i mezzi che essa ha avuto modo di mettere al nostro servizio, le macchine che possono interagire con il suono degli strumenti, dar loro una voce altra, innovativa. Lo è perché le musiciste e musicisti, le sound artist e i soundartist, video artist, sound designer, multimedia artist che tentano di descriverla lo fanno con la passione dimenticata dei vecchi barricaderi, protetti dallo sbarramento che solo la reale indipendenza può fornire. Guarda caso la maggioranza di loro agisce diffondendo il proprio lavoro su etichette discografiche estere perché da noi ben poche sono le label che si preoccupano di indagare e pubblicizzare realtà che non siano di facile fruizione, pronte per il possibile utilizzo per la massa.

 

 

                         Enrico Coniglio e Giulio Aldinucci – Stalkin the Elusive

 

Fermiamoci Arlo, proviamo ad analizzare questo termine: indipendenza e la valenza che ancora può avere nella realtà musicale italiana. Ovunque ti giri vedi gran sventolii libertari sempre abbinati a termini quali rock o indie. Da anni ripeto una frase che ormai si è trasformata in un mantra, sono le stesse parole usate da Simon Frith per il titolo del suo libro uscito, bada bene, nel 1988. Music for pleasure, tradotto in un definitivo Il Rock E’ Finito e con il rock anche il fenomeno indie, aggiungo.

 

Dipende da cosa vogliamo intendere per indie. Adesso sono tutti indie. L’industria discografica, le Major, che io sappia, hanno ormai pochissimi artisti direttamente sotto contratto. L’industria discografica fa parte del sistema consumistico ed ha la necessità di trarre profitto in breve tempo, quindi tende a esaurire velocemente la merce ed è per sua natura poco interessata a prodotti utili culturamente e socialmente e che necessitano d’investimenti diversi. In ogni modo, la crescita culturale del pubblico non è certo il suo obiettivo. Ha pure imparato a vendere l’ideologia, il costume. Il marketing, poi, uniforma il prodotto e il metodo di consumo. Anche se poi il rock – nato comunque come prodotto per i consumatori giovani – non è finito. Il rock è un’attitudine, ce ne vorrà di tempo perché si esaurisca…

 

La mia è ovviamente una provocazione, il rock fischia ancora ma bisogna saper cercare per trovare la vera bufera. Ciò che mi crea ansia è che in questo nostro piccolo angolo di mondo tutto italiano si insiste a voler vedere e vendere la musica per quello che non è. Ricordo bene i primissimi festival delle vere etichette indipendenti degli anni ’80. Il confronto con quelli organizzati per esempio dal MEI, che continua imperterrita a vivere fuori dal tempo pubblicizzando le sue manifestazioni come somma espressione dell’ormai defunto popolo indie-rock, è impietoso. I’acronimo stesso lo indica senza remora alcuna: MEI con la I di indipendenti.

 

Sai, io ho fatto le prime esperienze in quel periodo dove “indipendenti” significava essere antagonisti al Sistema. Provare a cambiarlo se non abbatterlo. Per me indipendenti erano Ivan Della Mea e Giovanna Marini con I Dischi del Sole, oppure Rough Trade, la Factory e Recommended Records in Inghilterra. La Schneball degli Embryo in Germania e la Ralph Records negli Stati Uniti. Il contenuto musicale, quello estetico, erano anche contenuto politico. “Rock In Oppositions”, per capirsi. Quel movimento, avviato da Chris Cutler degli Henry Cow nel finire degli Anni Settanta, in opposizione, appunto, all’industria discografica che aveva come unico scopo il profitto. Di conseguenza anche il “contenuto economico” era politico: non venivano realizzati album avendo alle spalle i finanziamenti delle Major. Non distribuivamo volantini ma provavamo a distribuire musica. Era fare attività politica in modo diverso. Pensa anche al punk: stilisticamente mi ha poco attratto ma è stata una bella lezione d’indipendenza. Adesso si è persa quella connotazione ma “indipendente”, pur sapendo che società e costumi sono cambiati molto, dovrebbe mantenere quel significato. L’uso del termine indie, com’è usato oggi, non so cosa possa significare, se non “aziende che non fanno direttamente parte di una multinazionale”. De Gregori è indie? Ha una sua etichetta, la Caravan. Oltre ai suoi dischi ne ha prodotti anche per il fratello. Non vorrei sbagliare, ma credo che anche Gigi D’Alessio sia un indipendente. Ha la GGD, specializzata in musica napoletana. Però, come per la Caravan, è distribuito Sony Music. Sono quindi indipendenti? Per me, non molto. Come non lo è qualunque musicista che abbia avuto finanziamenti da una Major. Per il MEI si vede che lo sono. Che ti devo dire… Forse pensano più a far conoscere il mercato musicale in genere che a promuovere un prodotto che abbia una valenza culturale e una scelta di campo. In quella logica sono indipendenti anche il Clan Celentano e la Sugar di Caterina Caselli. Ma quasi tutte seguono una logica squisitamente commerciale. Non hanno come obiettivo un progetto politico culturale. E neppure hanno alle spalle un movimento culturale com’era invece negli Anni ’70 e ’80. Infatti l’Independent Music Meeting che si teneva a Firenze a metà degli anni ’80, tendeva a sostenere un movimento culturale. Cercava di creare un confronto tra le realtà culturali di quegli anni. Poi è andata com’è andata, ma adesso si punta quasi esclusivamente alla quantita, accantonando la qualità. Oggi, vedi, si cunsuma “cultura di sinistra” e non si prova a creare ed evolvere una cultura come invece cercavano di fare i citati Della Mea, Chris Cutler o le Liberation Music Orchestra di Charlie Haden. E questa nuova cultura di sinistra, edulcorata, appiattita, omologata, la consumiamo pressappoco con gli stessi riti e nello stesso modo piuttosto acritico con cui consumiamo la cultura dei talent o dei Sanremo, per capirsi. Che hanno pure una loro logica e se fosse costruita con intelligenza, buon gusto e cultura meriterebbero rispetto, ma sono proprio un’altra storia: sono dentro il Sistema. Lì non sei indipendente, per niente antagonista e penso che sei persino poco utile socialmente e culturalmente…     

                                                  

Luigi Grechi De Gregori e Francesco De Gregori – Senza Regole

 

Con un nodo alla gola ti quoto Arlo: dove stiamo andando, cosa è realmente rimasto della realtà indipendente un tempo sovrana e ora usata come desueto marchio di fabbrica. Cosa fare per distinguersi da questa bolgia di nomi e musica indefinita se non sparare a raffica dalla propria barricata quella che un tempo era definita controinformazione. A volte ho come l’impressione che la cultura underground si stia rivalutando e coloro che si muovono come noi, alla luce del sole, ne siano i sognanti e folli portatori.

 

Cosa è rimasto… Di realtà che fanno musica alternativa ci sono – o che parola bella sarà “alternativa”? Peccato non si usi più. Pensa alle label di musica tradizionale, elettronica, world, jazz. Sono ai margini, non riescono ad avere una loro visibilità. Neppure un riconoscimento culturale, se non di vendite, come potevano averlo la Cramps, L’ultima Spiaggia o L’Orchestra degli Stormy Six. Forse bisognerebbe tornare a parlare di “cultura underground”. Di controcultura. È un po’ difficle farlo, sembreremo dinosauri in estinzione, ma erano belle parole, bei concetti e belle intenzioni. Probabilmente dovremmo chiamarla in un altro modo, ma dovremmo trovare quell’orgoglio che avevamo quando pensavamo di essere utili: costruire cultura e non solo intrattenimento.

 

Il punto è questo! Se escludi il circuito musicale contemporaneo che vive in un suo mondo a parte per altro decisamente impenetrabile e permettimelo supponente, la stragrande maggioranza della massa musicale prodotta sembra seguire dei dettami inventati di sana pianta da chi si spaccia per navigato esperto e l’unica cosa che insegue è l’apparizione a qualche talent o festival sanremese.

 

Sì, penso che una colpa del circuito contemporaneo e anche di quello classico, sia di essere poco inclusivi. O hai gli strumenti per comprendere – almeno atteggiarsi – o ne sei escluso. Io sono un “naturale”, ho una cultura disordinata e provo ammirazione e invidia per chi ha una cultura approfondita e organizzata, però non apprezzo molto quel modo di sentirsi un territorio a sé, esclusivo. Di non volersi sporcare le mani per divulgare le loro conoscenze. Di non usare linguaggi comunicativi utili a raggiungere e condividerle con più persone possibili. Il risultato, se la cultura non è diffusa, è che ne faranno da padrone i talent e la melma sanremese, più attenta ai dress code che alle note e alle parole usate. Se consideri che oggi non abbiamo molti luoghi dove potersi provare, sperimentare, fare gavetta, la scelta non rimane che i talent, i rock contest. Le gare, insomma. La musica colta ha il suo circuito esclusivo, mentre per la musica extra-colta o di confine, com’era chiamata una volta mantenendo una sua dignità, non ci sono gli spazi per crescere e farsi conoscere, come accadeva invece in passato.

 

È un comportamento che si è diffuso in modo malsano, coinvolgendo non solo la realtà canzonettistica italiana, come è giusto e logico, ma anche e purtroppo quel mondo impegnato nel produrre reali contenuti culturali su disco. Tutto questo sostenuto da frotte di giornalisti anch’essi un tempo schierati su barricate dedite alla controinformazione. Senza nascondere una punta di voluta durezza mi chiedo perché affermati cronisti che nei ’70 lavoravano nelle redazioni di giornali da trincea come Muzak, ora gridano al miracolo del ritrovato rock che nuovamente rivoluziona la scena musicale e lo fanno riferendosi a una boyband che è l’esatta risultanza di una coltivazione in vitro, o personaggi che saccheggiano la stanca iconografia rock sapendo che nessuno metterà mai in dubbio la loro baracconata in stile Goldifinger o se preferisci Sette Uomini d’Oro, che lì almeno c’era una immensamente bella Rossana Podestà che si specchiava nuda nella musica di Armando Trovajoli.

 

È curioso, in effetti. Mi è capitato di pensarci. È vero che invecchiando diventiamo più reazionari – diciamo più riflessivi… – ma ancora non capisco come sia possibile dimenticare completamente quello cui avevamo creduto e sperato negli anni dell’incoscienza e dell’entusiasmo. Posso capire che uno stipendio sicuro – magari neppure tanto basso – una posizione sociale di buon livello, ti facciano rielaborare certe convinzioni, ma come si possa aver scritto «Il pop, inteso come fenomeno totalizzante e complessivo, dopo la “grande illusione” degli anni ’60, stenta a farsi voce portante dei nuovi bisogni culturali» per poi arrivare a tessere anni dopo, su uno dei maggiori quotidiani italiani, un elogio all’ultimo album di Paola & Chiara non riesco a capirlo molto. Va bene, erano epoche diverse, il mondo cambia, ma è proprio come l’inutile discernere oggi sul ritrovato rock in contesti dove il rock ha poco a che vedere e per forza di cose. A volte mi chiedo come sia possibile. A proposito, per caso sai che fine hanno fatto Paola & Chiara? Le ho viste una volta per uno showcase al defunto Salone della Musica di Torino, e devo ammettere che la biondina, con quell’aria da diva imbronciata, era proprio caruccia. In ogni modo, tornando a quella generazione in cerca di nuove speranze e nuovi confini, è come se a un certo momento si fosse accorta che non sarebbe riuscita a cambiare il mondo e allora, forse per rabbia o per vendetta, abbiano deciso di peggiorarlo. Comunque, su Muzak, divoravo gli articoli di Giame Pintor e Sandro Portelli.

 

Appunto, perché lo fanno, visto che senz’altro non possono essere convinti di ciò che scrivono. Come dicevo la regressione e il decadimento che sta coinvolgendo la società italiana non risparmia neanche il mondo della musica e a farne le spese sono coloro che ancora credono nella capacità del suono di produrre arte, arte vera. Da poco la norvegese Rune Grammofon ha rilasciato il nuovo disco della chitarrista, cantante e compositrice Hedvig Mollestad con il suo trio, un vinile contenente vere esplosioni elettriche che bada bene, non sono semplicemente jazz virato rock ma rappresentano una vera ricerca sul campo. Dovessi tornare sulle barricate della controinformazione militante, credo sventolerei una bandiera con su scritto il titolo di questo lavoro: Din Don You’re Dead.

 

Hedvig Mollestad Trio – Live at Jazzahead! (2019)

 

Sì, ok, you’re dead… però ti voglio svelare un mio piccolo segreto per non morire troppo. Sul Note del cellulare, perché non ho una gran memoria e non me la voglio scordare, mi sono scritto una frase di Bruno Misefari, misconosciuto poeta e attivista anarchico vissuto tanti anni fa. L’ho scoperto per caso: è nato il mio stesso giorno. Dal poco che sono riuscito a leggere delle sue poesie, a dire il vero, non mi è sembrato un gran poeta ma una bella cosa l’ha scritta di certo. Te la leggo: «Un poeta o uno scrittore – ed io direi che in questo caso ci possiamo prendere la licenza di aggiungiungerci anche “un attore e un musicista” – che non abbia per scopo la ribellione, che lavori per conservare lo status quo della società, non è un artista: è un morto che parla in poesia o in prosa. L’arte deve rinnovare la vita e i popoli, perciò deve essere eminentemente rivoluzionaria». Bello eminentemente, non trovi? Senti che bel suono che ha. Senza parlare poi di quanto sia bella ri-vo-lu-zio-na-ria.

 

Caro il mio Capitano, per onorare il ricordo non posso non quotare il tuo apprezzamento per il leggero duo femminile, Amoremidai è stata una traccia che ho profondamente accarezzato nelle mie notti da scapestrato fuori tempo massimo. Vedi però, in questo caso siamo in pieno – e piacevole – mainstream canzonettistico che non si nasconde dietro falsi costumi di indipendenza come succede ed è successo anche a grosse formazioni della nuova onda nostrana che la sventolavano dipendendo comunque da major con i loro dirigenti in capo.

Tu parli di rivoluzione, certo che ci vorrebbe una rivoluzione ma la dovrebbero iniziare coloro che ora sono portatori di restaurazione come i vari festival dei tanti Primo Maggio, le molte etichette discografiche che rincorrono l’incubo sanremese scambiandolo per un sogno, i meeting delle etichette ancora indipendenti, i giovani stessi in quanto consumatori finali ormai avvolti nei fumi dei mille talent che hanno loro tolto il desiderio di bellezza. A tal proposito mi torna in mente una poesia di Hezy Leskly, si chiama La Ventiquattresima Danza:

 

La farfalla ingoia le lacrime della tartaruga

e mangia la carcassa della scimmia

caduta dall’albero.

Il lettore frettoloso potrebbe

concludere da quanto è qui riportato

che

in Patagonia

la bellezza

si nutre di disperazione e di nulla.

Errore. In Patagonia come a Tel-Aviv

la bellezza

si nutre del dibattito sulla bellezza.

 

Ciò che manca in questo mondo nel quale ci sentiamo per certi versi estranei, mio amato amico e Capitano, non è la bellezza ma il dibattito di cui si nutre.

 

Sono d’accordo con te ma hai usato un termine che personalmente non trovo esatto. Non penso debba essere chi gestisce certi spazi a dover “iniziare” una nuova rivoluzione – forse sarebbe pretendere troppo – semmai dovrebbero “sostenerla” creandone le basi, le strutture che magari già gestiscono, perché ciò possa accadere. Questo compito appartiene più alle giovani generazioni. A noi dovrebbe stare il compito di affiancarli, memori di quanto si è fatto e prodotto in epoche che ora sembrano remote. E magari anche memori dei nostri errori. Vedi, invece di puntare come dicevamo, alla quantità, dovremmo avere la fortuna di ritrovare quell’incoscienza che ci permeava mille anni fa. Quando ci inventavamo performance assurde con la speranza di far pensare. Come quella volta, agli albori di Materiali Sonori, che invademmo un paesello vestiti praticamente da marziani e diffondendo con degli orrendi altoparlanti una musica che all’epoca era sicuramente assurda: tentavamo, con tanta inesperienza e ingenuità, di far riflettere sul disastro di Seveso. Non vendevamo intrattenimento.

 

Gli albori della Materiali Sonori – performance “Ossido” a Incisa Valdarno (1977)

 

La ruota del nostro malridotto battello a vapore ci sta spingendo lontano dalla tenebra. Sullo scrostato tavolino, testimone di ben altri incontri, una selva di bottigliette di chinotto e vuoti calici di Hirundo. Dalla radio di bordo esce una canzone che giunge a infrangere il silenzio creatosi lungo la parte finale di questa lunga attraversata. Al pari di due vecchi compagni di antiche e inutili battaglie ci guardiamo sorridendo, forse iniziare a cantare quella canzone servirà come base per la costruzione di una nuova e solida barricata risplendente bellezza.

 

Out of the dark into the light

Looking for a way around it

When it calls we wan’t hear

We will shout and we’ll drown it out

(Comsat Angels – 1981)

 

Toya: al-Ashmawy batte gli stereotipi

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di Giuseppe Acconcia

Toya (Francesco Brioschi Editore, 18 euro, 244 pagine, traduzione di Elisabetta Bartuli e Giacomo Longhi) di Ashraf al-Ashmawy è un sorprendente romanzo di formazione. L’autore, ex magistrato e giudice della Corte d’appello in Egitto, si è occupato per tutta la vita di contrasto al contrabbando di antichità storiche e proprio con Toya è stato tra i finalisti dell’International Prize for Arabic Fiction del 2013. Come il più noto in Italia, medico e scrittore egiziano, Alaa al-Aswany, anche al-Ashmawy è un uomo di legge prestato alla scrittura. Eppure rispetto all’acclamato autore di Palazzo Yacoubian, al-Ashmawy mantiene la genuinità di una prosa non prevedibile nel suo sviluppo. Il protagonista del libro è il giovane e ambizioso Yussef. Studente e dottorando di medicina, vorrebbe aprire alla fine dei suoi studi una clinica in Egitto per concretizzare le sue aspirazioni di ascesa e prestigio economico. Sin da subito però, si intuisce che Youssef è in realtà un ragazzo alla ricerca di una ragione di vita, non lo convince il mito di Gamal Abdel Nasser e il suo panarabismo che aveva conquistato il popolo egiziano ma neppure la fredda Inghilterra, incarnata nella città di Liverpool da cui proviene la sua famiglia materna. Se il Regno Unito delle tante estati, dell’algida Katherine, promessa sposa caldeggiata dall’apprensiva madre, Mrs Brown, e della “debordante occupazione” dell’Egitto, lo annoiava, l’Egitto diventava ai suoi occhi sempre di più il “terreno fertile per far fiorire le sue ambizioni”. Sebbene nel tentativo di crescita della consapevolezza di sé, Yussef venga descritto come un “pavone”, “azzimato e snob”, “obnubilato da se stesso”, l’aspirante medico è anche impegnato a difendere l’Egitto e gli stereotipi che albergavano nella mente della borghesia inglese verso il suo paese. Ma la sfida, pur partendo dai pregiudizi generali, si concretizza anche nella messa in discussione degli stereotipi dello stesso Yussef per cui la professione medica percepita come fonte di “prestigio sociale” diventerà una “missione”, il Kenya e l’Africa selvaggia da luogo, fatto di “povertà, malattie e usanze bislacche” nel quale stare il più breve tempo possibile per approfondire le ricerche sulla lebbra e concludere il dottorato, si trasformerà nell’amore della sua vita. Così come l’algida Inghilterra non è solo incarnata nell’arrivismo di Katherine ma anche nelle aspirazioni di fare della professione medica una missione, come suggerito dal professor Randall che spinge Yussef a partire per Nairobi e approfondire i suoi studi, nonostante le resistenze iniziali del giovane che vorrebbe semplicemente aprire la sua clinica al Cairo. Se per Yussef il viaggio in nave verso Nairobi è un “salto nel vuoto”, Randall ha ben chiaro che quel percorso porterà il giovane a liberarsi “dall’egoismo e dal narcisismo”. A sconvolgere i pregiudizi di Yussef arriva però la magia delle foreste dei Kikuyu, “un posto che mai avrebbe immaginato potesse esistere su questa terra” e la bellezza “genuina e naturale”, propria delle “sacerdotesse dei santuari”, della giovane Toya. L’amore a prima vista per Toya scoppia impetuoso mentre si approfondisce l’amicizia con il piccolo e sfortunato Dono. Un amore che sarà anche unità di intenti contro il traffico di organi imposto dal perfido Neville a cui si sottomettono i capi locali per le loro ambizioni, da Mingo a Irai, e al quale Toya si ribella aiutando Yussef a curare i malati di lebbra e per questo firmando la sua condanna a morte. L’amore completo tra Yussef e Toya supererà ogni limite, tanto che al rientro da Liverpool dove il giovane medico raccoglierà i riconoscimenti che merita per le sue ricerche mediche, lascerà il Kenya da vincitore perché le cure contro la lebbra funzionano e i bambini Kikuyu sono salvi, i criminali locali, dal traffico di organi sono costretti a dedicarsi all’esportazione di diamanti e, una volta in partenza in nave verso il suo Egitto, Yussef porterà con sé tra le braccia la sua piccola Toya, il frutto dell’amore interrotto con la sua amata.