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«Nessun fulmine è caduto sulle nostre teste audaci». Due lettere di Louisa May Alcott

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(Pubblichiamo un estratto da Alcott, Le nostre teste audaci. Lettere dalla creatrice delle sorelle March, a cura di Elena Vozzi, L’Orma Editore 2021. Le lettere sono precedute dalle introduzioni della curatrice che, nell’introduzione generale al volume, spiega come la vita (1832-1888) dell’autrice di Piccole donne sia sempre stata poco conosciuta.

“Fu, d’altronde – osserva Vozzi -, la stessa Alcott a contribuire a mettere in ombra la propria biografia distruggendo buona parte dei suoi scritti privati, o perlomeno quelli che non voleva fossero divulgati. Tuttavia, ciò che resta del suo nutrito epistolario ci restituisce un profilo inconsueto e inaspettato, sia tenendo conto della cultura dell’epoca sia pensando all’immagine edulcorata della scrittrice ‘per fanciulle’ che Alcott stessa, una volta raggiunta la notorietà, contribuì a consolidare.

Quello che emerge dalle lettere – prosegue Vozzi -, di cui qui si presenta un’eterogenea selezione, è infatti il profilo di una donna forte e indipendente, che seppe mettere in discussione le rigide regole sociali dell’Ottocento americano e partecipò con passione alle più importanti battaglie civili del suo tempo, dalla lotta alla schiavitù alle campagne per il suffragio universale”).

***

Alla fine del 1869, durante le poche settimane della forsennata stesura di Piccole donne crescono, Alcott è sottoposta a pressanti richieste da parte di editore e lettrici, che le scrivono per sapere con chi si sarebbero sposate le amate sorelle March. Pur poco convinta («come se il matrimonio fosse l’unico fine e scopo della vita di una donna!»), alla fine si risolve a combinare un matrimonio anche per l’indipendente eroina Jo. Nella seguente lettera indirizzata a Elizabeth Powell – educatrice e attivista, all’epoca insegnante di ginnastica in un college femminile – una rassegnata e ironica Louisa si prende gioco di sé e della propria creatura letteraria.

A Elizabeth Powell Concord, 20 marzo [1869]

Cara signorina Powell,

il fatto che le mie sciocche Piccole donne siano state ammesse nel suo college mi onora profondamente, e spero proprio che si comportino bene in un ambiente così erudito, considerato che le poverine non hanno goduto di molti privilegi e sono piuttosto ritrose, come la loro mamma. La prego di impiegarle come meglio crede per la cura del mal di testa o di qualunque altro malanno possano alleviare, non riuscendo a immaginare impiego più nobile per il mio libretto. Il seguito uscirà ad aprile, e come tutti i seguiti probabilmente deluderà o disgusterà buona parte del suo pubblico, perché gli editori non vogliono saperne di lasciare a chi scrive la libertà di decidere in autonomia il finale di una storia, al contrario insistono perché venga infarcito di matrimoni un tanto al chilo, e io ancora non so bene come darmi pace. Jo sarebbe dovuta rimanere una zitella devota alla letteratura, ma sono stata sommersa da talmente tante lettere di giovani lettrici che mi pregavano entusiaste di farle sposare Laurie, o comunque di farla maritare, che non ho avuto il coraggio di rifiutarmi. Alla fine, non senza una punta di perversione, le ho combinato un matrimonio assai bizzarro. Mi aspetto di essere coperta di insulti, ma devo ammettere che la prospettiva mi diverte abbastanza. […]

Ringraziandola ancora per la calorosa accoglienza riservata alle mie figlie,
la sua devota L.M. Alcott

***

Nel 1879, quando viene approvata una legge che estende alle donne il diritto di voto nelle elezioni dei comitati scolastici del Massachusetts, Alcott è la prima tra le sue concittadine a iscriversi alle liste elettorali. La divertita cronaca di quelle prime votazioni è l’oggetto della seguente lettera aperta indirizzata a un settimanale suffragista di cui Alcott fu a lungo collaboratrice.

Al «Woman’s Journal» [Concord, 30 marzo 1880]

Mentre da altre città giungono le cronache delle prime esperienze delle donne ai seggi, eccovi quella di Concord, meritevole di attenzione essendosi distinta per una seduta del consiglio cittadino insolitamente ben gestita e profittevole. Ventotto donne erano intenzionate a votare, ma a causa di alcune mancanze nel disbrigo delle pratiche burocratiche diversi nomi non sono potuti entrare a far parte delle liste. Tre o quattro di loro sono state trattenute a casa dai doveri famigliari e non si sono sottratte alle incombenze domestiche per correre ai seggi, come del resto avevamo previsto. Venti donne, tuttavia, erano lì, alcune da sole, la maggior parte in compagnia di mariti, padri o fratelli; tutte di buonumore e nient’affatto intimidite dalla memorabile impresa che stavano per compiere.

Mi dicono che i nostri consigli cittadini sono sempre molto disciplinati e pacati, e quello del 29 marzo di certo non ha fatto eccezione; sorprendentemente somigliava molto a una lezione accademica, solo assai più noioso di quanto lo siano d’abitudine le conferenze, salvo nelle rare occasioni in cui i gentiluomini presenti si sono trovati in disaccordo e hanno ravvivato la situazione con sporadiche manifestazioni d’impetuosità o villania, che hanno suscitato il divertimento ma non lo sconcerto dell’uditorio femminile, iniziandolo al contempo agli usi e alle cortesie del dibattito parlamentare. Le votazioni per il comitato scolastico non sono cominciate prima delle tre, e poiché il consiglio è iniziato all’una abbiamo avuto tutto il tempo di imparare gli offici di questo mistico rituale. […]

Nessun fulmine è caduto sulle nostre teste audaci, nessun terremoto ha scosso la città, ma appena eravamo tornate a sedere una piacevole sorpresa ha creato un diffuso scoppio di risate e applausi quando, dopo che avevano votato le donne e prima che avesse votato un singolo uomo, il giudice Hoar si è alzato e ha proposto di chiudere i seggi. La mozione è stata approvata senza che le risa in sala si fossero spente; la decisione ci è parsa perfettamente equa, considerato che noi non avevamo voce in capitolo in nessun’altra questione all’ordine del giorno. […]

Ma ormai abbiamo rotto il ghiaccio, e prevedo che l’anno prossimo i nostri ranghi saranno più nutriti, perché quel che conta è il primo passo, e quando anche le più timide o indifferenti – accorse numerose a guardarci – vedranno che siamo sopravvissute all’impresa, potranno azzardarsi a esprimere pubblicamente le loro opinioni, tanto quelle maturate da tempo quanto quelle che avranno imparato di recente a rispettare e sostenere.

L.M.A.

I fantasmi del futuro (Teatro Rossi Aperto)

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di Paolo Godani

 

 

Il demanio, per me che vengo da un posto di mare, è la spiaggia ceduta in concessione a uno stabilimento balneare. Il dizionario mi spiega che in quella parola straniera non devo sentire riecheggiare il domaine delle vigne di Bourgogne, ma lo Stato e il bene comune. Mi si dice, con un misto di cinismo e buona coscienza, che il demanio è “il complesso dei beni appartenenti allo stato e destinati all’uso diretto o indiretto dei cittadini”. Naturalmente, a difesa di un complesso di beni, lo Stato ha istituito un’apposita Agenzia. Da qualche giorno questa saggia Agenzia del Demanio ha messo lucchetti nuovi al Teatro Rossi sito in Pisa, per proteggerlo però dal libero uso dei suddetti cittadini che per otto anni l’avevano autogestito. Il 27 settembre del 2012, un gruppo piuttosto vivace di studenti, intermittenti dello spettacolo, precari della scuola e dell’università, insieme a diversi abitanti del quartiere, avevano inteso solo “riaccendere i riflettori” su un luogo magnifico e perduto. Alcuni di loro venivano dalla lotta contro la riforma Gelmini, altri erano ispirati dall’occupazione del Teatro Valle, avvenuta nell’estate precedente, altri ancora volevano solo manifestare l’assurdità di tenere serrato un posto di cui forse si poteva fare buon uso senza attendere chissà quali interventi del Comune, della Regione o dello Stato. Con tutta evidenza (e c’era da aspettarselo), il Demanio non pensa, quando sostiene che chiudere il Teatro sia necessario per ripristinare la legalità: non è mai accaduto niente di illegale in quel posto. Né gli riesce di pensare quando dice di voler realizzare un restauro filologico da sei milioni di euro.

Indipendentemente dal fattore economico, solo un automa ottuso può immaginare che sia possibile e che abbia senso riportare il Teatro Rossi a com’era nel 1771, quando è stato costruito. Meglio allora farci un deposito di biciclette, come non ha esitato a fare il Comune per molti anni, o pensare di smembrarlo e di usare il retropalco per gli uffici e la mensa della Cassa di Risparmio. Se avessero pensato anche solo un istante, anche solo per errore, i funzionari dell’Agenzia del Demanio avrebbero visto che la soluzione al problema del Teatro Rossi era già sotto gli occhi di tutti. Sarebbe stato sufficiente non dico sostenere, ma almeno non ostacolare coloro che dal 2012 hanno riaperto il teatro. Al Teatro Rossi Aperto, in questi anni, è accaduto tutto ciò che di buono poteva accadere in uno spazio libero come quello. Ci sono state permanenze di artisti, concerti classici e moderni, spettacoli di prosa, set cinematografici, eventi poetici, mostre fotografiche, conferenze di letteratura e filosofia, assemblee di quartiere, feste domenicali. L’ingresso si è trasformato spesso in aula studio e la saletta accanto ha ospitato persino una radio. Ricordo un illustre professore che ha tenuto avvinghiato alle sedie scomode del foyer un centinaio di persone, leggendo e commentando gli idilli leopardiani. Io stesso, una sera, devo essermi affacciato da un palchetto per condividere con un pubblico avvolto in volenterose coperte rosse Al mondo di Zanzotto e La ragazza Carla di Pagliarani.

Bisognava confondere le acque, attraversare gli spazi che separano i saperi, alternare le pratiche, far cozzare l’aulico e il prosaico, pulire i corridoi recitando un Amleto di meno, custodire gli stucchi come fossero istallazioni postindustriali. Certo, i grandi spazi di un palco senza quinte, nonché i palchetti dei piani alti e la galleria sono sempre stati frequentati con una certa riluttanza. Erano disabitati e trascurati da troppi anni per non destare il rispetto e il timore di chi tornasse ad avvicinarli. Dovevano essere abitati da molti fantasmi. Ma una volta volati via gli uccelli che per decenni ne hanno misurato gli spazi aerei, accanto a quelli del passato si erano fatti vivi anche i fantasmi del futuro. Frequentavano il freddo di quel luogo, con gli strati di tempo che custodiva, immaginando che quel teatro non era ormai più soltanto la sua antica scena, ma doveva anche restare un deposito di biciclette, un passage tra le aule universitarie di Palazzo Ricci e i ritrovi in Piazza Dante, un’eco di Carovane e Cavalieri, un capannone in disuso riadattato a teatro moderno. Le immagini del suo futuro, proiettate per otto anni in quell’antro profondo di cui la città di Pisa aveva dimenticato persino l’esistenza, sono diventate la stagione presente e viva del Teatro Rossi Aperto. Le ritroverete al loro posto, a raccontare l’insuperabile stupidità dello Stato, ma anche la gioia con cui è ancora possibile costruire un luogo comune.

Due descrizioni di quadri

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[Cristina Filippi ha coinvolto un certo numero di poetesse e poeti nell’iniziativa “Viceversa: dalla poesia alla pittura”, a partire dal catalogo delle opere del Museo Boschi Di Stefano di Milano. Io ho scelto un Casorati e un Sironi.]

 

di Andrea Inglese

 

Una carta moschicida dorata – certo che no –

(potrebbe essere un’ocra, allora, a quest’ora, che lo guardiamo

molto stanchi, come ubriachi, sul solito schermo)

e pendono, catturati, impaniati, le tazze e il mestolo,

nessuna mosca in vista, e pendono

Jericho Brown – quattro poesie

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traduzioni di Alessandro Brusa

As a Human Being

There is the happiness you have
And the happiness you deserve.
They sit apart from each other
The way you and your mother
Sat on opposite ends of the sofa
After an ambulance came to take
Your father away. Some good
Doctor will stitch him up, and
Soon an aunt will arrive to drive
Your mother to the hospital
Where she will settle next to him
Forever, as promised. She holds
The arm of her seat as if she could
Fall, as if it is the only sturdy thing,
And it is, since you’ve done what
You always wanted, you fought
Your father and won, marred him.
He’ll have a scar he can see all
Because of you. And your mother,
The only woman you ever cried for,
Must tend to it as a bride tends
To her vows, forsaking all others
No matter how sore the injury.
No matter how sore the injury
Has left you, you sit understanding
Yourself as a human being finally
Free now that nobody’s got to love you.

 

Come un essere umano

C’è la felicità che hai
E la felicità che meriti
Sedute a distanza
Come te e tua madre
Ai lati opposti del divano
Dopo che un’ambulanza venne
A prendere tuo padre. Qualche
Bravo dottore lo ricucirà e
Presto una zia verrà per portare
Tua madre all’ospedale
Dove si metterà al suo fianco
Per sempre, come promesso. Lei aggrappata
Al bracciolo della sedia quasi potesse cadere,
quasi fosse l’unica cosa sicura
E lo è, dato che tu hai sempre fatto
Ciò che volevi, hai sfidato
Tuo padre e hai vinto, l’hai marchiato.
Avrà una cicatrice in bella mostra
Per colpa tua. E tua madre, l’unica
Donna per la quale hai mai pianto,
Dovrà averne cura, come una sposa delle
Sue promesse, dimenticando tutti gli altri
Non importa quanto dolente il torto.
Non importa quanto dolente il torto
Ti abbia lasciato, resti lì sentendo
Te stesso come un essere umano finalmente
Libero ora che nessuno ti deve amare.

 

*

 

Bullet Points

I will not shoot myself
In the head, and I will not shoot myself
In the back, and I will not hang myself
With a trashbag, and if I do,
I promise you, I will not do it
In a police car while handcuffed
Or in the jail cell of a town
I only know the name of
Because I have to drive through it
To get home. Yes, I may be at risk,
But I promise you, I trust the maggots
Who live beneath the floorboards
Of my house to do what they must
To any carcass more than I trust
An officer of the law of the land
To shut my eyes like a man
Of God might, or to cover me with a sheet
So clean my mother could have used it
To tuck me in. When I kill me, I will
Do it the same way most Americans do,
I promise you: cigarette smoke
Or a piece of meat on which I choke
Or so broke I freeze
In one of these winters we keep
Calling worst. I promise if you hear
Of me dead anywhere near
A cop, then that cop killed me. He took
Me from us and left my body, which is,
No matter what we’ve been taught,
Greater than the settlement
A city can pay a mother to stop crying,
And more beautiful than the new bullet
Fished from the folds of my brain.

 

 

Pallottoliere

Non mi sparerò un colpo
In testa, e non mi sparerò
Alle spalle, e non mi impiccherò
Con un sacco del pattume, e se lo facessi,
Te lo giuro, non lo farò
In manette in una macchina della polizia
O nella cella della prigione di una città
Il cui nome conosco solo
Perché ci passo in macchina
Tornando a casa. Sì, posso essere a rischio
Ma te lo giuro, sono convinto che i vermi
Che vivono sotto le assi del pavimento
Di casa mia faranno ciò che fanno
Ad ogni carogna più di quanto creda
Che un agente di polizia di questo paese
Mi possa chiudere gli occhi come farebbe
Un uomo di Dio, o mi copra con un lenzuolo
Così pulito che mia madre mi ci avrebbe
Rimboccato. Quando mi ucciderò lo farò
Come fa la maggior parte degli americani,
Te lo giuro: col fumo di sigaretta
O con un boccone di carne che mi soffochi
O restando così al verde da morire congelato
In uno di quegli inverni che continuiamo
A chiamare il peggiore. Lo giuro, che se
Senti dire che sono morto da qualche parte vicino
A uno sbirro, è stato quello sbirro che mi ha ucciso.
Mi ha portato via da noi e lasciato il mio corpo che è,
Non importa cosa ci abbiano insegnato,
Tanto più di quanto lo Stato potrà
Mai dare a una madre per fermarle il pianto,
E più bello della pallottola nuova di pacca
Ripescata tra le pieghe del mio cervello.

 

*

 

Night Shift

When I am touched, brushed, and measured, I think of myself
As a painting. The artist works no matter the lack of sleep. I am made
Beautiful. I never eat. I once bothered with a man who called me
Snack, Midnight Snack to be exact. I’d oblige because he hurt me
With a violence I mistook for desire. I’d get left hanging
In one room of his dim house while he swept or folded laundry.
When you’ve been worked on for so long, you never know
You’re done. Paint dries. Midnight is many colors. Black and blue
Are only two. The man who tinted me best kept me looking a little
Like a chore. How do you say prepared
In French? How do you draw a man on the night shift? Security
At the museum for the blind, he eats to stay
Awake. He’s so full, he never has to eat again. And the moon goes.

 

 

Turno di Notte

Quando vengo toccato, sfiorato, misurato, Io penso a me stesso
Come a un quadro. L’artista lavora, poco importa se non dorme. E io divento
Bellissimo. Non mangio mai. Una volta mi ci misi con un uomo che mi chiamava
Spuntino, Spuntino di Mezzanotte per la precisione. Lasciavo perdere perché mi
Feriva con una violenza che io scambiavo per desiderio. Mi lasciava lì solo
In una stanza della sua casa triste mentre faceva le pulizie o piegava i panni.
Quando sei stato usato per così tanto tempo, non capisci mai quando
Sei finito. La pittura si asciuga. La notte è di tanti colori. Nero e blu
Sono solo due. L’uomo che mi ha meglio dipinto mi guardava sempre come a un
Affare domestico. Come si dice pronto
In francese? Come lo disegni un uomo del turno di notte? Sicurezza
Al museo per non vedenti, lui mangia per stare
Sveglio. È così pieno che non dovrà più mangiare. E la luna se ne va.

 

*

 

Hustle

They lie like stones and dare not shift. Even asleep, everyone hears in prison.
Dwayne Betts deserves more than this dry ink for his teenage years in prison.

In the film we keep watching, Nina takes Darius to a steppers ball.
Lovers hustle, slide, and dip as if none of them has a brother in prison.

I eat with humans who think any book full of black characters is about race.
A book full of white characters examines insanity—but never in prison.

His whole family made a barricade of their bodies at the door to room 403.
He died without the man he wanted. What use is love at home or in prison?

We saw police pull sharks out of the water just to watch them not breathe.
A brother meets members of his family as he passes the mirrors in prison.

Sundays, I washed and dried her clothes after he threw them into the yard.
In the novel I love, Brownfield kills his wife, gets only seven years in prison.

I don’t want to point my own sinful finger, so let’s use your clean one instead.
Some bright citizen reading this never considered a son’s short hair in prison.

In our house lived three men with one name, and all three fought or ran.
I left Nelson Demery III for Jericho Brown, a name I earned in prison.

 

 

Loschi affari

Stanno come pietre e non osano muoversi. Anche nel sonno tutti ascoltano tutto in prigione.
Dwayne Betts si merita di più di questo inchiostro asciutto per la sua adolescenza in prigione.

Nel film che guardiamo di continuo, Nina porta Darius a una festa di delinquenti.
I due amanti battono, stanno in giro, rubano come se nessuno di loro avesse un fratello in prigione.

Io mangio insieme ad altri esseri umani che pensano che ogni libro con personaggi neri parli di razza.
E un libro pieno di personaggi bianchi parli invece di follia – ma mai in prigione.

La sua famiglia tutta si mise fisicamente di mezzo all’ingresso della stanza proibita.
Lui morì senza l’uomo che voleva. A cosa serve l’amore, a casa o in prigione?

Abbiamo visto la polizia tirar squali fuori dall’acqua solo per guardarli boccheggiare.
Un fratello incontra pezzi della sua famiglia mentre incrocia gli specchi in prigione.

Alla domenica, le lavavo e asciugavo i vestiti dopo che lui glieli aveva buttati in cortile.
In un romanzo che amo, Brownfield uccide sua moglie e si becca solo sette anni di prigione.

Non voglio puntare il mio dito da peccatore quindi dai, usiamo il tuo, pulito, al posto suo.
Certi bravi cittadini leggendo questo non penserebbero mai al proprio figlio con quel taglio corto in prigione.

Nella nostra casa hanno vissuto tre uomini con lo stesso nome e tutti e tre hanno lottato o sono scappati.
Ho scambiato Nelson Demery III con Jericho Brown, un nome che mi sono guadagnato in
prigione.

 

*

 

Jericho Brown (1976) è nato a Shreveport in Louisiana. Suoi lavori sono usciti su numerose riviste tra le quali Time, The New York Times, The New Yorker. Il suo primo libro Please (New Issues, 2008) ha vinto l’America Book Award. È del 2014 la sua seconda raccolta The New Testament (Copper Canyon Press). È con il terzo libro The Tradition (Copper Canyon Press 2019) che nel 2020 vince il Premio Pulitzer per la poesia. È professore associato di Inglese e Scrittura Creativa e direttore del programma di Scrittura Creativa alla Emory University ad Atlanta.

 

Alessandro Brusa (1972) ha pubblicato romanzi e raccolte di poesia, tra le quali La Raccolta del Sale (Perrone 2013), In Tagli Ripidi (nel corpo che abitiamo in punta) (Perrone 2017) e L’Amore dei Lupi (Perrone 2021). Traduce dall’inglese con testi pubblicati su riviste online e cartacee (Testo a Fronte, Le Voci della Luna, PoetarumSilva, La Macchina Sognante). Fa parte del comitato organizzatore del Festival Letterario Bologna In Lettere.

L’Anno del Fuoco Segreto: Foresta d’Ali

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L’Anno del Fuoco Segreto

di Edoardo Rialti e Dario Valentini

Suonando invisibile per il giovane Ferdinando che si aggira sulla spiaggia del naufragio, lo spirito Ariel canta che il padre del ragazzo giace a più di cinque braccia e le sue ossa sono adesso di corallo, perle quanto erano i suoi occhi e che tutto ciò che in lui è soggetto a mutamento il mare adesso lo trasforma in qualcosa di ricco e strano.
Qualcosa di ricco e strano. È questo che compiono le storie fantastiche, ampliano i confini, affondano nel terreno scuro e confuso da cui sorgiamo, palesano quanto sia vasta e inquietante l’esistenza di tutti i giorni nei suoi nodi, riti e passaggi, dalle mutazioni del corpo alle incerte letture delle trame belle e terribili che ci pare di scorgere al mondo: le torsioni oscure del sesso, le parole mai chiare del corteggiamento, le isole di comunione e le invisibili prigioni d’aria dell’isolamento, le mutilazioni e le cicatrici che si accompagnano ad ogni crescita, doni che diventano maledizioni.
Le fiabe hanno sempre raccontato e dispiegato questo “catalogo dei destini possibili” come scriveva Calvino. Quelle più grandi, figlie del mito, non annacquate dal moralismo facile che le ha spesso smussate e cambia colore a seconda di quanto risulta più addomesticato e condiviso nel nostro immaginario, hanno il sentore inesorabile e solido della realtà, sanno essere dure, affilate e inconsolabili, condurci con forza e velocità condensata a quei crocevia, dove ogni volto, compreso il nostro, è una mappa. “Dalla vita in giù, forse tu attorci/ un unico viluppo labirintico/per radicarti a fondo tra falangi, tibie/ teschi. Imperscrutabile,/ non una volta visto sotto le spalle/da uomo che abbia serbato la ragione,/sei impervio a ogni domanda/ sfidi ogni altro divino.” (S. Plath)
Questa raccolta è nata perché desideravamo scrivere e leggere storie così. Quanto era nato anzitutto come un progetto editoriale si è poi evoluto in una antologia online nella quale coinvolgere scrittori e scrittrici che stimavamo e per i quali, da prospettive diverse, questo orizzonte fosse a sua volta importante. Siamo felici e onorati che abbiano accettato, così come ringraziamo Nazione Indiana per averci accolto a bordo del loro galeone.
Si parla molto di Weird, di sconfinamento dei generi, del nuovo peso riconosciuto al fantastico anche in Italia. Talvolta un eccesso di definizioni a sua volta recinta e annacqua quello che dovrebbe restare aguzzo e fecondo. A volte, provare a spiegare qualcosa significa perderla. Che colore ha “Il Colore Venuto Dallo Spazio”? Non avevamo alcuna cornice programmatica, semmai una serie di immagini, quelle dei possibili titoli da dare alla raccolta stessa e che incarnavano più di qualunque commento ne sapremmo trarne. “La lunga fedeltà dei folli” (Cristina Campo). “Albero di sangue irriga il mattino” (Federico García Lorca) alla fine, con tenue omaggio a Tolkien, abbiamo scelto “L’Anno del Fuoco Segreto”. Agli autori e autrici coinvolti, abbiamo solo chiesto di immaginare delle fiabe “adulte, strane, senza compromessi.” Indicazioni piuttosto vaghe, che volevano essenzialmente accennare a un’atmosfera, un accordo musicale e poco altro. Potevano rielaborare trame antiche e celebri o crearne di nuove.
Per quanto ci riguarda, sapevamo solo di volerci spingere in luoghi e apprendere sortilegi che ci costassero sempre una libbra di carne, come le eroine e gli stregoni che barattano occhi e arti per trasformarsi in pesci o danzare a pieni nudi sul ponte della spada. Speriamo che ciascuna delle soglie che vi proporremo possa costarvi altrettanto, se mai lo vorrete, man mano che vi addentrate in questo paesaggio con i mostri.

Le copertine che accompagnano la raccolta sono state realizzate da Francesco D’Isa.

Foresta d’Ali

di Francesca Matteoni

Non è poi così difficile essere morti.
Io ero morta da tre giorni: ogni giorno un secolo senza luna nel cielo.
Ogni giorno il rovo cresceva, distruggeva le mura della casa sostituendo i tralci alla calce e ai mobili, alle eredità familiari accumulate nei cassetti, alle lenzuola sul mio corpo e infine si insinuava nella pelle, entrava, ricopriva i miei organi e il sonno. Il rovo diveniva la mia mente. Si stava bene lì dentro: le braccia conserte sul petto fiorivano di more grandi come occhi. Nessuno poteva raggiungermi e i miei sogni erano viaggi in solitaria verso l’oceano, senza turbamento. Sognavo una costa a nord di nebbie e odore d’alghe fino a stordire: saltavo fra gli scogli in cerca di cibo, perdevo la posizione eretta per le quattro zampe e una pelliccia da cui cadevano le spine. Mi erano compagni i lupi che si erano adattati dalla selva all’oceano e le lontre marine. Poi, dall’alto, arrivavano le grida degli uccelli e io sentivo uno strano prurito per la schiena: mi sentivo un guscio, un uovo d’ossa e filamenti da cui un’altra vita doveva sortire, una vita aerea e lucente, che appena intravedevo prima di risvegliarmi alla morte nel bosco. Non avevo mai fame. La pianta che prendeva il posto della mia casa mi dissetava con la sua linfa.

Si diceva nelle fole e nei libri addirittura, dove la mia immagine (o l’immagine di colei che pensavano io fossi), giaceva addormentata con la bocca in un mezzo sorriso, si diceva che fossi stata maledetta da una fata invidiosa e in un certo giorno nella mia adolescenza mi fossi recata su, fino alle soffitte del palazzo reale che era la mia dimora, per trovare la fata travestita da vecchia comare davanti a un fuso, pungermi con l’ago e trasformarmi in una non-morta, incorruttibile nella carne, sospesa nello spirito e negli anni fino a che un altro non fosse giunto a separarmi da quello stato di perfezione.  O, come sospiravano i più romantici, a condurmi nel mondo del desiderio, dei per sempre che durano un’ora o decenni e nessuno dei due sa più cosa sia il tempo. Ma in realtà tutto questo mi era ignoto. Non ero figlia di re e regine, non abitavo un palazzo, abitavo una casa modesta in un paese fra colline qualunque, dove chiunque sapeva che mia madre era quella stessa fata che mi avrebbe ucciso. O protetto. Ecco, mia madre era esperta di magia e fin da quando ero molto piccola veniva raccontandomi una storia di fuga e liberazione.

“Per sopravvivere, a volte, bisogna morire,” cominciava, “o almeno far credere a tutti di esserlo. O almeno farlo credere al corpo finché non prende una direzione diversa e gli crescono le ali”.
“Le ali?”, chiedevo io, seduta nel prato dietro la casa, dove lei lasciava crescere frutti ed erbe selvatiche a nasconderci dai vicini.
“Le ali. Non penserai mica che tutti gli umani siano simili, per sorte e vocazione? Questo è quello che ci fa il mondo. Farci credere che dobbiamo piegarci, azzittirci, fino a che saremo uguali, tutti ugualmente smarriti. Ma alcuni di noi hanno coraggio. Alcuni di noi erano angeli, prima”.
“Io, mamma, ho paura di tutto”, rispondevo.
“Hai paura del mondo e fai bene. Non è un posto per te. Ti attrae e ti promette, ti seduce nella forma di un altro essere umano, ti chiede devozione. Ti succhia via il colore dal volto, ti torce gli occhi nella sua miseria che è fatta di quieta indifferenza. Le sue parole sono Inganno, Tradimento, Abbandono, Dolore. Ma io ho trovato una via per te”.
“Dove?”
“Qui, in questa casa. La nostra casa al margine del bosco. Un giorno questa casa sarà vinta dai rovi e i rovi cercheranno il tuo corpo. Lo culleranno, lo proteggeranno e quando arriveranno al cuore ritorneranno le tue ali, quelle che senti a volte pungere nelle scapole, quelle che fremono come piume nel respiro quando qualcuno ti ferisce e vorresti scappare, ma resti incollata al suolo”.
“Vorrei tanto volare, mamma. Voleremo insieme?”
“Oh, questo non è possibile. Ma tu non dartene pensiero: gli angeli non hanno memoria delle esistenze terrene, ricordano la luce e l’aria che li sospinge in una danza, lassù”.
“E dove sarai tu?”
“Io sarò il rovo”.

Così accadde. Un giorno mi svegliai e la casa era vuota: non c’era traccia di mia madre né dei suoi abiti o dei suoi incantesimi. Era scomparso perfino il suo odore dalle stanze. La chiamai inutilmente, piansi, temetti di averla persa e non sapevo che avrei fatto da sola – non conoscevo nessuno davvero. Uscii nel prato, seguendo il fruscio dell’erba: eppure l’aria era immota. Faceva caldo, doveva essere il pieno dell’estate, gli insetti erano spariti come mia madre, dalle case vicine non arrivavano suoni, frammenti di dialogo, rumori di automobili – nulla. Solo il frusciare sempre più denso e presente, saliva dalle piante di more, avanzava fino ai miei piedi. I rovi erano vivi. Lo erano sempre stati nel loro silenzio. Ora però parlavano e io impazzivo. Parlavano aspri, con voce fragile di foglia e il timbro severo di mia madre che si schiariva in loro.
“Dormi, lasciati andare”, ondeggiavano fra il bosco e le mura. “Dormi, lasciati andare”.
Mi allacciarono le caviglie sulla soglia della cucina, gridai senza opporre resistenza. Mi strinsero nelle loro minuscole spade forti. Sembravano carezze che mi estraniavano dalla mia grande paura.

Dormi, lasciati andare.
Sopra di me scese il tempo oscuro, nessun uccello rapace venne a lamentarsi. Le spine sostituirono le stelle e vidi la luna, che allora era piena, ammutolire fino a un punto di nero nel nero: ogni cosa fu ferma nel fruscio. E le ali da qualche parte frinivano, mentre sognavo la mia morte oltre il mondo, la mia vita a venire.

Inganno, Tradimento, Abbandono, Dolore.
Dormi. Lasciati andare.

Ma poi la luna sorse.
Un taglio pallido nella tela del cielo.
Il fruscio si interruppe a un passo di rovo dal cuore. Qualcosa mancava in me, qualcuno stava arrivando, perché la terra risuonava in un battito, un rullo tenue di tamburo, il cammino di un altro vivente ed estraneo. La mia mente fu richiamata dalla riva del mare dove cacciava nella sua forma di lupo, dove ululava a una luna irreale. Perché tra le rovine della casa e del bosco il mio spirito era fuggito. Non gli avevo prestato attenzione fino ad allora. Ero convinta che sedesse nel cuore in attesa di essere sé stesso, fulgido e angelico, perché cosa può mai volere uno spirito se non tornare alla sua eternità?  Forse lo aveva divorato la luna, con la sua infida falce e ora ci correva dentro, dimentico di me e del futuro. Non potevo muovermi. Il dolore risaliva dalle gambe e dalle dita, come una radice che si rompe e nel rompersi il calore riprende a scorrere bruciando. Era la luna al centro della sua notte, era il mio sangue che scava le ossa sulla sponda del sogno.  Era un sogno diverso che veniva a tormentarmi? A scuotermi di dosso il fogliame, lo sporco del sottosuolo e volgere tutte le spine al contrario, puntandomele contro? Aprii la bocca per respirare e ali minuscole vi frullarono dentro, sbattendo nella gola, facendomi tossire. Ali frullarono ovunque, intorno, là fuori. Il rumore era così forte che mi portai le mani alle orecchie. Aprii gli occhi. Davanti a me c’era un uomo sconosciuto, dall’aria arruffata di chi non ha dormito, i capelli troppo lunghi sul viso – mi guardava. E nei suoi occhi mi vidi: un animale con la pelle incrostata di terra ed erba, gli abiti strappati dal rovo, i tralci avvolti ai polsi e al ventre.

“Chi sei, cosa fai qui?”, volevo dire, ma invece sputai, vomitai terriccio, foglioline, semi in una poltiglia verdastra. Vomitai un volgolo di pelo e acqua del mare.  Il vomito mi soffocava e l’uomo mi raggiunse, sollevandomi la testa. Poggiai i piedi al suolo – con un coltello recise le piante che mi legavano le gambe. Le sue braccia soccorsero la mia schiena e tremai. Mi sostenne conducendomi via da quello che restava della casa – pareti a pezzi, infissi scardinati. C’era poco lontano un rigagnolo di fiume che non ricordavo. L’uomo mi lavò il viso e le braccia, tolse dai miei capelli nodi di rami. Mi fece bere.
Non riuscivo a smettere di guardarlo, ogni volta che distoglievo gli occhi mi accorgevo di una mancanza senza nome in me, proprio dove quelle ali erano andate a ripararsi per non uscirne più. Terrore. Oppure Desiderio, pensai. L’uomo spinse la sua mano su fra le mie cosce, tolse i brandelli d’abito insieme alle foglie. Non scappai, non potevo. Lui non era buono. Non era nemmeno cattivo.
“Io ero un angelo, prima”, disse l’uomo, mentre le sue mani salivano ai seni e poi alla bocca, infilando le dita dentro le labbra.
“Sono venuto qui, inseguendo le mie ali, quelle che avevo perso da così tanti anni da immaginare di non averle mai avute”, continuò, slacciandosi la cintura. Mi prese le mani perché lo toccassi, gli accarezzassi il volto e la persona.  Tenerezza.
“Sono stato intrappolato per ore dai rovi, mentre le ali rimpicciolivano, sembravano svanire. Sono stato per ore senza sonno a tagliare la boscaglia. E poi ho trovato te. Le mie ali sono dentro di te”, concluse, tenendomi sull’erba, denudandosi sopra di me. Le spine mi fecero gridare, colpendomi ovunque, graffiando le ali che si dibattevano, ma l’uomo era più forte. Premeva come un sigillo sul cuore. Accoglienza. Lo lasciai entrare.
È così che si perde ogni intenzione, che si diviene umani? Ero morta o inizio ora a morire?, pensai. L’uomo era le mie braccia, il mio ventre, il gemito condiviso, era l’acqua che libera gli occhi, il sale, il seme che costringe la mente al sangue, la fa sbocciare dove s’impara a muoversi nell’ombra di un altro, dove lo spirito danza la sua gioia tenace e  mortale. È così che dimentico mia madre? Inganno, Tradimento, Abbandono, Dolore. Ma sotto, cacciando le mani nei rovi, Desiderio, Tenerezza, Accoglienza.
Intorno il roveto si ritraeva in un respiro prolungato, molti respiri di creature che si destavano, alzavano la testa fra gli arbusti divenuti piume, rilasciavano odori come ricordi senza più valore. Un’intera foresta pronta per il cielo. Ero nuda e senza difese e l’uomo scandiva il suo nome nel mio. Amore. Ali ovunque si levavano da noi. Volavano via.  

Perché gli animali?

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di Ermanno Castanò

 

 

Con l’inizio burrascoso del nuovo millennio il tema dell’animalità ha conquistato un ruolo crescente nella filosofia, probabilmente perché è cresciuta allo stesso tempo la presa dei dispositivi di governo sull’aspetto “biologico” della vita umana e non-umana: il contagio, l’alimentazione, la riproduzione, l’ambiente etc, sono diventati temi politici di primaria importanza che hanno sostituito temi come la libertà, l’uguaglianza, la giustizia, l’indipendenza che avevano segnato il secolo passato.

Un altro elemento che ha caratterizzato l’animal turn è stata la crescente importanza del rapporto fra l’uomo, gli altri animali e l’ambiente. A tal proposito, vale la pena ricordare che sin dagli anni ’70 Peter Singer e Tom Regan avevano avanzato la richiesta di una maggiore considerazione morale per gli animali aprendo un dibattito durato fino a oggi. All’inizio degli anni 2000 in questa scena irrompono due testi che ne hanno modificato profondamente termini e concetti: L’Aperto. L’uomo e l’animale di Giorgio Agamben e L’animale che dunque sono di Jacques Derrida.

Questi testi hanno contribuito a orientare una parte del dibattito degli Animal Studies verso il rapporto uomo-animale, introducendo la nozione di Human-Animal Studies. In questa seconda svolta che ha caratterizzato la filosofia mondiale ha avuto un ruolo cruciale, dunque, la filosofia italiana (che così colmerebbe un presunto gap con quella anglofona), dal momento che in essa Giorgio Agamben ha giocato una parte di rilievo.

È stato da poco pubblicato in inglese un libro intitolato Animality in Contemporary Italian Philosophy che ricostruisce proprio il peculiare modo in cui la filosofia italiana ha affrontato la riflessione sull’animale, sia attraverso nomi noti dell’Italian Theory come lo stesso Agamben, o Roberto Esposito e Toni Negri, sia attraverso nomi meno noti che qui vengono presentati per la prima volta al pubblico anglofono. L’intento del libro è, infatti, quello di contribuire al dibattito internazionale sull’animalità attraverso la specificità della filosofia italiana mostrandone tanto i punti più alti, che la marginalità di cui a volte ha sofferto, ma che ha finito in qualche modo per preservarla. Gli stessi curatori del volume, Carlo Salzani e Felice Cimatti, sono due filosofi italiani che hanno ottenuto una certa attenzione in Italia e all’estero grazie ai loro studi di provata serietà e che hanno arricchito il volume con un’introduzione e due loro saggi. Il libro, infatti, è un’opera collettiva che vede l’intervento di molti dei più importanti pensatori italiani contemporanei della questione animale, interventi che però risultano armonizzati da una sensibilità comune, ben esposta nell’introduzione dei due curatori, e nel primo saggio firmato da Cimatti.

L’idea che ha fatto da guida al volume è che la filosofia italiana (tralasciando per un attimo la complessità di quest’espressione), forte di una tradizione che affonda le radici nel pensiero medioevale e rinascimentale, a loro volta radicati nell’antichità, abbia conservato fin nell’epoca moderna una sorta di alternativa al cartesianesimo che oggi, al tramonto del suo paradigma meccanicistico, può tornare a parlare al presente con rinnovato vigore. La filosofia italiana, insomma, non è mai stata cartesiana. Quando, infatti, Cartesio propose un pensiero basato sulla divisione ontologica fra res cogitans e res extensa (pensiero e materia estesa) trovò terreno fertile nella filosofia tedesca e in quella francese, che aprirono la strada al pensiero moderno, ma negli stessi anni Giambattista Vico, che criticò decisamente questo dualismo, passava quasi del tutto inosservato e inaugurava un’epoca in cui l’Italia, e la filosofia che a vario titolo vi trovava luogo, diveniva la periferia d’Europa.

È proprio Cimatti a esporre come questa tradizione anticartesiana avesse i suoi capisaldi in pensatori come Dante Alighieri e Nicolò Machiavelli, e raggiunse la sua massima tensione con Giordano Bruno che affermava, prima di Spinoza, l’identità fra Dio e Natura, ma che rappresenta una strada violentemente interrotta del pensiero occidentale. Ciononostante questa possibilità negata e rimasta per secoli ai margini, riaffiora di colpo nell’opera di autori come Antonio Gramsci e Pier Paolo Pasolini, il cui immanentismo quasi dionisiaco esclude qualunque separazione netta e incolmabile fra pensiero e materia, o fra uomo e natura. Una prospettiva che, abbiamo detto, può indicare vie nuove a una civiltà, la nostra, profondamente in crisi da questo punto di vista.

Dopo lo scritto di Cimatti il libro si snoda attraverso tre sezioni. La prima si apre coi saggi di Luisella Battaglia sul pensiero di Aldo Capitini, il “Ghandi italiano”, che affermava una filosofia della non-violenza nei rapporti fra uomini e animali attraverso una visione della considerazione morale allargata a tutti gli esseri senzienti, e col saggio di Giorgio Losi e Niccolò Bertuzzi che offrono una panoramica completa delle maggiori tendenze antispeciste in Italia.

A illustrare il pensiero di Agamben, di cui abbiamo parlato in apertura, è proprio Carlo Salzani, l’altro curatore del libro. Secondo il filosofo, l’animalità si staglia proprio nel cuore della riflessione agambeniana poiché la sovranità altro non è, in fondo, che la macchina antropologica la quale separa uomo e animale, ponendo il dominio del primo sul secondo. Solo un pensiero capace di andare al di là di tale opposizione può disattivare questa macchina dagli effetti mortiferi tanto sull’uomo che sull’animale, e muovere verso l’idea di una vita come potenza destituente.

Matías Saidel e Diego Rossello, invece, espongono il pensiero di Roberto Esposito il quale, pur non essendo implicato direttamente nell’antispecismo o in una riflessione sull’animalità, si è comunque impegnato in una decostruzione dei dispositivi politici per evidenziarne il dannoso tentativo di immunizzare l’umano da qualunque contaminazione con l’alterità, in particolare animale. Una tematica affine, legata questa volta al tema del postumano, viene trattata nello scritto successivo da Giovanni Leghissa.

Dal canto suo Marco Maurizi lavora sulle orme della teoria critica francofortese elaborando le implicazioni della dialettica umano/non-umano e ragione/natura e in questo saggio ripercorre la storia del marxismo italiano mostrando come da Labriola al post-operaismo questo nodo problematico sia costantemente presente nei diversi protagonisti di quella stagione, arrivando a delinearne brevemente prospettive e problemi irrisolti. Applicando lo schema marxista all’antispecismo, Maurizi sostiene che non “sfruttiamo gli animali perché li consideriamo inferiori, piuttosto li consideriamo inferiori perché li sfruttiamo”.

Il libro prosegue con l’intervento di Federica Giardini che mette in relazione il pensiero dell’animalità con quello della differenza sessuale elaborato dal femminismo di pensatrici come Adriana Cavarero o Carla Lonzi. Con l’intervento di Alma Massaro che illustra l’attenzione verso gli animali nella teologia di Paolo De Benedetti, e con il saggio di Roberto Marchesini sul riconoscimento della soggettività animale nell’etologia scientifica, si chiude la seconda sezione.

La terza sezione si apre, invece, con Massimo Filippi e la traduzione inglese del suo denso saggio «Il faut bien tuer» o il calcolo del mattatoio. Qui Filippi opera una decostruzione del dispositivo del mattatoio e della politica sacrificale secondo la quale la stessa nozione di Soggetto, che sembra un dato oggettivo, è in realtà un effetto dei dispositivi di separazione della vita imposti dall’antropocentrismo ai fini del dominio. Anche il concetto, apparentemente biologico, di specie funziona in realtà come un dispositivo ontologico-politico del divenire vivente. La sua riflessione ispirata a filosofi come Agamben, Derrida, Žižek e Butler, è declinata in modo originale e indica come il superamento dell’antropocentrismo possa darsi solo in una vita animale-politica come ibrido gioioso e sensuale.

Il libro si chiude con una carrellata di interventi che spaziano anche al di fuori della filosofia. Laura Bazzicalupo interpreta l’Antropocene mediante categorie foucaultiane come una battaglia biopolitica per il controllo dell’animalità. Valentina Sonzogni riporta alcuni casi di specismo nell’arte italiana contemporanea che a volte ha tentato di fare della morte dell’animale un’opera artistica, dimostrando anche in questo campo una particolare insensibilità ed estetizzazione del dolore. Infine Leonardo Caffo, autore particolarmente attivo anche sui media, riporta una visione etica del rapporto con gli animali che non è strumentale, ma “soltanto per loro”, sostenendo allo stesso tempo come sia improrogabilmente giunto il momento di parlare di animalità.

Una teoria femminista della violenza. Intervista a Françoise Vergès

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di Jamila Mascat

Saggista e militante femminista decoloniale, Françoise Vergès ha da poco pubblicato in Francia un libro intitolato Une théorie féministe de la violence. Pour une politique anti-raciste de la protection (La Fabrique, 2020). In questa intervista l’autrice riflette sul tema della violenza nel panorama femminista contemporaneo, denunciando i limiti e le contraddizioni delle correnti femministe cosiddette “punitive e carcerali” che invocano l’intervento repressivo dello Stato come unico rimedio contro le violenze di genere. Che cosa significa, invece, per le femministe anticapitaliste e antirazziste pensare la protezione e la difesa dei propri corpi altrimenti?

 

JM: Cominciamo proprio dal titolo del tuo ultimo libro Une théorie féministe de la violence: che cosa significa pensare la violenza strutturalmente radicata nelle società contemporanee a partire da una prospettiva femminista e decoloniale? E in che misura una simile prospettiva è in grado di apportare nuovi elementi di comprensione?

FV: Per prima cosa si tratta di precisare che la violenza distruttiva e sterminatrice che prolifera nelle società odierne non ha nulla di nuovo, così come le violenze sessuali e sessiste. Il dato di novità è legato all’intensità, al modo in cui il capitalismo neoliberale e finanziarizzato si lancia alla rincorsa di profitti esorbitanti, l’estrattivismo che ne deriva, le guerre economiche che ne conseguono contro le popolazioni del Sud Globale e poi anche più recentemente contro i paesi del Nord del mondo (basti pensare al caso della Grecia), la crisi climatica, la devastazione sistematica delle terre da parte dell’agrobusiness, il prosciugamento del suolo e del sottosuolo, la privatizzazione e la militarizzazione esponenziale dei mari e degli oceani, i femminicidi, le politiche assassine condotte contro militanti indigeni e antirazzist*, la negrofobia senza limiti, l’islamofobia, la caccia a* migranti, ecco, tutto questo dice di una forte accelerazione delle violenze razziste e sessiste e di un’intensificazione dello stato di guerra permanente contro intere popolazioni.

La violenza è una necessità del capitalismo, e il razzismo gli è consustanziale. La maniera in cui i media e i governi denunciano insistentemente la violenza degli oppressi – che protestano e che lottano per rispondere alla violenza dello Stato, del patriarcato, del razzismo e del capitalismo –  facendone un minaccia alla pacifica coesistenza sociale dimostra a che punto il potere sia costretto a occultare e dissimulare regolarmente il proprio esercizio della violenza.

Eppure, le lotte continuano, anzi si moltiplicano e, come dicevo, subiscono un’accelerazione: le manifestazioni di Black Lives Matter in tutto il mondo, le proteste delle femministe e queer del Sud globale contro il femminicidio e la violenza neo-liberale, le lotte delle comunità indigene e rivoluzionarie. Sono questi movimenti che mi hanno spinto a ripensare il femminicidio e la violenza sessuale e di genere non come una prerogativa esclusiva della dominazione maschile (secondo lo schema “donne vittime vs uomini carnefici”) ma come il sintomo più eclatante e più “eloquente” di una violenza che pervade il mondo ed è sotto gli occhi di tutti. Il divario crescente tra lo sviluppo della tecnologia e il progresso della medicina, tra le tecniche di sorveglianza  destinate a proteggere la vita di pochi e il fatto che miliardi di persone siano fatalmente private di acqua e aria pulita e al tempo stesso controllate, monitorate, ultrasfruttate, dimostra che l’espansione e l’avanzamento del capitalismo razziale possono soltanto accrescere le disuguaglianze.

Se, come diceva il filosofo marxista francese Georges Labica, il capitalismo non è altro che una forma di “industrializzazione dell’omicidio”, lo sviluppo della tecnologia ha reso e continua a rendere possibile la sistematizzazione crescente di questa produzione industriale di violenza omicida. La demolizione dei diritti del lavoro, la “scelta” obbligata tra morte o vita in schiavitù, l’impunità dello stupro di uomini e donne migranti e la normalizzazione delle politiche di predazione sono tutte l’espressione manifesta di una volontà di fare della violenza il perno dell’organizzazione sociale per intensificare lo sfruttamento di tutt*.

Ho scelto di adottare una prospettiva femminista decoloniale – antirazzista, anticapitalista e antimperialista – per parlare della femminilizzazione dei corpi subordinati e del modo in cui vengono trasformati in corpi usa e getta, eliminabili, violentabili, corpi dai quali il capitalismo razziale estrae tutta la forza fisica e psichica possibile, e ai quali, simultaneamente, rifiuta la cura e nega il diritto all’infanzia, all’età adulta e alla vecchiaia nella misura in cui, per questi corpi, le tre età si confondono in un tempo unico e monotono logorato da fatica e esaurimento.

La mia prospettiva femminista guarda in primo luogo a quelle vite, le più fragili, che sono state fabbricate come sempre suscettibili di essere sfruttate e uccise, per suggerire che la violenza contro le donne deve essere compresa in relazione a tutte le violenze che il capitalismo inevitabilmente produce.

Non si tratta però di svelare una violenza inevitabile che avrebbe a che fare con l’essenza della “natura umana” o di denunciare una violenza maschile inesorabile. Né si tratta di dire che l’abolizione del capitalismo sia la garanzia di una pace perpetua. Quello che dico è che il capitalismo istituisce un simile regime di violenza generalizzata in nome della necessità di sfruttare, e lo esercita  in tutti gli ambiti della vita. L’analisi femminista che difendo permette di evidenziare gli intrecci e le intersezioni che sussistono tra forme di dominio e sfruttamento, e di mettere a nudo, a partire da quei corpi condannati dai potenti ad essere torturati, violentati, smembrati e assassinati perché resi oggetto, come cantano le femministe in Cile, il nocciolo del capitalismo razziale.

L’idea che il capitalismo debba diventare “inclusivo”, che possa essere riscattato eliminando le disuguaglianze troppo evidenti, è chiaramente una non-alternativa. Puntualmente il  capitalismo ha dovuto fare delle concessioni ai movimenti che lo contestavano, pur continuando ad esercitare una violenza inaudita e sottile sulle classi lavoratrici, e in particolare sul lavoro precario, sul lavoro meno qualificato e sul lavoro nero dei senza documenti. Si obietterà che il capitalismo produce benessere, facilita la soddisfazione dei bisogni primari e che il capitalismo cinese, per esempio, ha permesso alla Cina di uscire dalla povertà nell’arco di pochi decenni. Ma se così fosse, perché la ricetta non funziona per tutti? E, soprattutto, qual è il prezzo da pagare? Rimango anticapitalista e aggiungo antimperialista, profondamente antimperialista – e perciò antirazzista e antipatriarcale. Come dice Angela Davis, non c’è anticapitalismo senza antirazzismo e viceversa. Il femminismo decoloniale che difendo non può che dirsi antimperialista proprio perché antirazzista. Di questi tempi dovrei aggiungere antifascista. Ma tutti questi aggettivi non devono essere intesi come una concatenazione astratta, hanno un significato molto concreto, che rinvia all’articolazione e agli intrecci delle varie lotte, in vista della costruzione di una solidarietà internazionale.

 

JM: Nel tuo libro illustri un paradosso interessante – e di particolare attualità in Francia, alla luce dell’offensiva autoritaria e liberticida rilanciata dal governo negli ultimi mesi (penso alla Legge sulla sicurezza globale e al Disegno di legge a sostegno dei principi della Repubblica) in cui ancora una volta la bandiera dei diritti delle donne viene sventolata per giustificare l’adozione di misure di sicurezza stigmatizzanti e razziste. Se, da un lato, storicamente le femministe sono sempre state in prima linea nel denunciare la violenza sessista e sessuale contro le donne, dall’altro, alcune di loro, in particolare le esponenti di quel femminismo che definisci come “carcerario e punitivo”, chiedono che giustizia sia fatta facendo appello proprio alla legittima violenza dello Stato. Come e quando è emerso questo paradosso, che alla fine non è poi così paradossale?

 

FV: Questo paradosso apparente che vede le donne, per un verso, denunciare la violenza subita e, per l’altro, fare appello alla violenza punitiva dello Stato, è in realtà il frutto di una profonda differenza di posizionamento e di analisi. Nel femminismo contemporaneo che si rifugia sotto l’ala protettrice dello Stato regna una confusione ideologica specifica, che deriva dall’iscrizione di questo femminismo nel solco di una storia europea elevata al rango di storia universale e dalla sua intima relazione con lo Stato borghese. Dal momento che la parola “femminismo” è stata coniata in Occidente, dove si sono tenuti i primi grandi raduni femministi, dal momento che la tradizione ha fatto dei testi scritti dalle donne europee (e talvolta dagli uomini europei), i testi fondatori dell’ideologia e delle teorie femministe, e dal momento, infine, che la storia del femminismo si è sviluppata secondo una logica europea che ha tendenza a celebrare le vittorie conquistate sul piano liberale dei diritti – al punto che il diritto di voto, per esempio, è considerato prioritario rispetto all’uguaglianza razziale -, per tutte queste ragioni, il femminismo intrattiene un rapporto di complicità con lo Stato borghese. Se ha avuto difficoltà a far posto alle rivendicazioni delle donne proletarie, figuriamoci quanto sia e sia stato in grado di comprendere le ragioni delle donne razzializzate, delle donne migranti e delle donne del Sud globale! Questa complicità originaria spiega la fiducia di alcune correnti femministe nella giustizia dello Stato e nelle sue istituzioni repressive, minimizzandone il portato razzista, sessista e di classe. Eppure i pochi provvedimenti contro la violenza sessuale e di genere che esistono sono sempre stati ottenuti tramite le lotte; lo stato non ha mai concesso diritti per magnanimità.

Queste leggi, che solo le lotte femministe sono riuscite a strappare allo Stato, sono misure  oggi in corso di liquidazione in molti paesi e la cui applicazione è diventata sempre più difficile, creando frustrazione e senso di ingiustizia. Per esempio, lo stupro è riconosciuto come un crimine dalla legge, ma coloro che lo subiscono sono costrette a passare attraverso un percorso così lungo e tortuoso per sporgere denuncia che spesso preferiscono abbandonare. Ci sono le femministe che obiettano: “Ma allora il crimine dovrebbe rimanere impunito? Non dovremmo piuttosto sostenere le donne che ne sono vittima?”. Senza nulla togliere al ruolo svolto dai centri di assistenza e di accoglienza per le donne che hanno subito violenza, mi rifiuto di restare intrappolata in questo tipo di conversazione. Anziché trasformare le donne in vittime, si tratta di restituire loro autonomia e capacità di agire. Il discorso assistenzialista sulla protezione spesso insiste sulla vulnerabilità essenziale delle donne: per essere ascoltate, dobbiamo prima ammettere la nostra debolezza e quindi il nostro bisogno di essere protette dalle forze dello Stato. Le femministe decoloniali rifiutano questa vittimizzazione che relega le donne, specialmente quelle razzializzate, a una condizione di debolezza. Le donne nere e razzializzate del Sud del mondo non sono deboli, sono forti, sono abituate a resistere ad aggressioni di una brutalità incredibile, a superare situazioni che le donne borghesi abituate, al contrario, a vivere protette e tra gli agi  conquistati attraverso secoli di sfruttamento coloniale, non sarebbero mai in grado di sostenere. Le femministe decoloniali che promuovono l’autodifesa comunitaria sanno che mandare in prigione centinaia di migliaia di uomini (per la maggior parte razzializzati) non servirà a  proteggerle dalla violenza. Le femministe nere sanno che il razzismo, che affonda le sue radici nella schiavitù, è ciò che le rende violabili e uccidibili, così come lo sanno le donne aborigene e razzializzate. Le femministe decoloniali comprendono la schiavitù sessuale come una manifestazione della cattura e dello sfruttamento dei corpi e non come l’unica conseguenza dell’organizzazione mafiosa della tratta. Il femminismo che ha fiducia nello Stato, uno Stato la cui ricchezza si basa sullo sfruttamento (e quale Stato fa eccezione alla regola?) è idealista perché si ostina a credere che esistano diritti umani inalienabili laddove, visibilmente, questi diritti sono riservati solo ad alcuni cittadini di alcuni paesi.

Hai perfettamente ragione a sottolineare l’offensiva autoritaria e liberticida che la Francia sta attraversando in questo momento e il modo in cui i diritti delle donne sono di nuovo oggetto di una strumentalizzazione repressiva. Macron non perde occasione di ribadire che la Repubblica francese è naturalmente egualitaria, e perciò a favore dell’uguaglianza delle donne e degli uomini. Ripete continuamente che la laicità è garanzia di questa uguaglianza, in una società in cui la maggior parte degli impieghi part-time sono assegnati dalle donne, in cui il lavoro di cura, altamente femminilizzato, è privatizzato e sottopagato, in cui le molestie sessuali e la discriminazione razziale sul lavoro sono all’ordine del giorno nei settori dei servizi, della pulizia e della cura, e in una società in cui alle donne velate viene affibbiato lo status di vittime sottomesse al patriarcato. Mai il femminismo è stato così sfacciatamente al servizio del neoliberalismo e dell’imperialismo. Questo femminismo tutto incentrato sulla difesa dei “diritti delle donne”, come scrivevo nel mio libro precedente, Un femminismo decoloniale, offre al neoliberalismo e all’imperialismo le risorse lessicali e ideologiche necessarie per giustificare tanto le politiche di intervento militare quanto la repressione delle persone razzializzate. La violenza contro le donne diventa il terreno su cui queste femministe costruiscono un’ideologia repressiva, che non ne intacca le cause. Si tratta poi di una violenza individualizzata, per far fronte alla quale non sono previste soluzioni collettive autonome, secondo una logica che inevitabilmente genera frustrazione e scoraggiamento perché, nonostante la repressione, la violenza non si ferma.

Marlène Schiappa, fino a poco fa ministra delle pari opportunità e per la lotta contro le discriminazioni, attualmente delegata presso il ministero dell’Interno in qualità di segretario di stato per la cittadinanza, è un esempio paradigmatico di questo tipo di femminismo: difende strenuamente leggi liberticide e razziste in nome dei diritti delle donne, ma non denuncia mai pubblicamente il razzismo e la negrofobia diffusa, né contesta il suo governo per i rapporti che intrattiene con l’Arabia Saudita. In compenso, ha sempre qualcosa da ridire sulle donne velate e sull’Islam. In fondo, però, la sua posizione non è paradossale. Difende un femminismo borghese bianco, pro-capitalista e pro-imperialista. Il patriarcato con cui se la prende non è il patriarcato del neoliberalismo. Non per questo le nego il diritto di definirsi femminista. Si tratta piuttosto di evidenziare sempre le differenze teoriche, pratiche e oggettive che esistono tra i femminismi di liberazione e questi femminismi – di stato, aziendali, civilizzatori, imperialisti, femonazionalisti.

 

JM: Quando si parla di violenza sessuale gli uomini sono generalmente considerati gli unici responsabili. Eppure, senza assolvere il patriarcato dalle sue colpe, nel tuo libro sollevi la questione del ruolo svolto dalle donne che hanno attivamente preso parte – in epoca coloniale o nel contesto di interventi imperialisti più recenti – all’esercizio di pratiche violente, torture e stupri contro uomini colonizzati/indigeni. Come interpreti questa missione compiuta dalle donne al servizio della macchina da guerra (neo)coloniale?


Leggendo i resoconti degli stupri di uomini neri, indigeni, migranti e musulmani, in situazioni di guerra aperta o latente, sono rimasta molto colpita nel constatare il fatto che questi stupri fossero assai più numerosi di quanto si pensi e che spesso fossero compiuti da donne soldato. Ho voluto perciò sottolineare questa femminilizzazione del corpo maschile indigeno, arabo o nero, una femminilizzazione che nasce sotto il segno della razza ed espone il corpo alla violenza dello sfruttamento (economico, sessuale, culturale), ne fa un corpo da violentare. In altre parole, all’interno dell’etero-patriarcato il processo di femminilizzazione crea distinzioni tra donne, uomini e persone non-binary. Ne derivano almeno due istanze del femminile, una che è da proteggere paternalisticamente (da parte dello Stato e del patriarcato) e una di cui si autorizza lo sfruttamento.

Questa divisione non è del tutto coerente, e le donne che s’illudono di essere protette obbedendo e conformandosi alle norme etero-patriarcali, razziali e capitaliste possono sempre essere catapultate nel campo dei corpi da uccidere, violentare e smembrare. La razza, però,  rimane una linea fondamentale attraverso cui viene concepita la femminilizzazione. Le donne possono quindi approfittare della femminilizzazione razziale dei corpi neri e indigeni. Nel suo libro consacrato alla storia di donne bianche proprietarie di schiavi (They Were Her Property. White Women as Slave-Owners in the American South), la storica Stephanie E. Jones-Rogers mostra che queste donne erano brutali tanto quanto gli uomini bianchi. Avevano piena  consapevolezza del fatto che gli esseri in loro possesso costituissero un capitale che garantiva loro status sociale e ricchezza, e partecipavano senza remore al commercio e alla tratta degli schiavi. Erano tutt’altro che innocenti. Il colonialismo ha permesso a queste donne di essere proprietarie di piantagioni, di trarre profitto del lavoro forzato degli schiavi. Per questo hanno saputo chiudere un occhio sugli abusi perpetrati contro questi ultimi dai loro figli, padri, mariti – stupri, rapine, omicidi – e spesso li hanno perfino giustificati o incoraggiati.

Il razzismo permette alle donne di mentire, rubare, stuprare, torturare le persone razzializzate. Quante false accuse di furto le donne nere hanno dovuto sopportare! Le donne bianche, invece, hanno spesso accusato ingiustamente gli uomini neri sapendo bene che rischiavano di farli linciare. Le cosiddette Karen, il nome dato alle donne bianche che continuano a mentire, ieri come oggi, dimostrano che nel XXI secolo il razzismo è ancora un’arma nelle mani delle donne bianche e che queste ultime non esitano ad usarla, dicendo, come avviene in Francia, per esempio, di essere state molestate da giovani neri e/o musulmani, anche se non è vero, o denunciando l’esistenza di bar per soli uomini nei quartieri popolari, che non esistono. Poiché la razza è una modalità attraverso la quale si sperimentano la classe e il genere, anche le donne non-bianche possono occupare questa posizione di potere e di dominio sugli uomini razzializzati. La guerra, il razzismo, l’antisemitismo, l’islamofobia, la xenofobia sono per l’appunto i contesti in cui le donne occupano senza esitazione una posizione di potere e di dominio.

JM: Parliamo delle responsabilità del “femminismo punitivo e carcerario” nella costruzione simbolica delle mascolinità degli uomini razzializzati e nella stigmatizzazione e oppressione concreta di questi corpi maschili. I “maschi razzializzati” sono quotidianamente oggetto della violenza istituzionale, tanto sul piano mediatico/discorsivo quanto su quello materiale/repressivo. Quali sono le conseguenze di questa spirale di violenza sulla costruzione delle mascolinità degli uomini razzializzati?

 

FV: Per fortuna le mascolinità razzializzate tornano ad essere oggetto di studio analitico. L’etero-patriarcato propone una mascolinità basata sul diritto di esercitare la forza, il potere e la sessualità. Ci sono uomini per cui questa non è una definizione appropriata. Da tempo la letteratura racconta storie di figli schiacciati dal potere del padre – o anche della madre che assume il ruolo di gendarme del patriarcato. Il patriarcato ha impiegato del tempo per imporre questo modello di mascolinità, lo Stato ha dato una mano, la loro complicità è storica. È una mascolinità normativa che costringe i corpi e prescrive ingiunzioni. Dal momento che il genere è razzializzato, la razza agisce sul processo di mascolinizzazione e, per esempio, all’epoca della schiavitù, il corpo maschile è animalizzato, femminilizzato, investito di una sessualità minacciosa e incontrollabile.  L’orientalismo, diversamente, affibbia agli uomini arabi una mascolinità dura e misognina. Il lavoro forzato, le leggi coloniali che criminalizzano l’omosessualità, l’imposizione di codici familiari sembrano costrutti lontani, ma non è così. La maggior parte degli stati post-coloniali ha scelto di mantenere in vigore le leggi coloniali anche se la costituzione le ha abolite, come in Sudafrica, dove le persone queer, trans, sex workers e non-binary continuano ad essere discriminate e bersaglio di violenza.

Ma per rispondere più direttamente alla tua domanda, la spirale di violenza di cui il femminismo punitivo e carcerario è complice (anche se si difende da questa accusa dando prova di denegazione) colpisce effettivamente gli uomini razzializzati. È la guerra razziale e sessista a prenderli di mira. La colonizzazione ha razzializzato i generi, ovvero il binarismo tra donne e uomini non è universale, è attraversato dalla razza: non si è donna, ma donna indigena, nera, musulmana, ebrea, lo stesso vale per l’uomo. Questa condizione onnipresente non concede ai corpi razzializzati di accedere alle stesse misure di protezione di genere che vengono riconosciute agli uomini bianchi e alle donne bianche. Gli uomini razzializzati non sono concepiti né trattati con lo stesso rispetto e dignità di un uomo bianco occidentale.
Sappiamo che classe, genere, razza si intersecano, e che queste intersezioni non sono solo attraversate da altre intersezioni – età, (dis)abilità ecc. – ma anche sussunte all’interno di costruzioni che si evolvono storicamente e rispetto alle quali l’imperialismo svolge un ruolo fondamentale. I giovani rifugiati, migranti, esiliati, che mostrano coraggio, forza, e una straordinaria capacità di superare ostacoli incredibili resistendo a un razzismo assassino, e che per questo dovrebbero essere ammirati, vengono discriminati e squalificati in quanto detentori di una mascolinità minacciosa. L’imperialismo agisce sul modo in cui le mascolinità razzializzate sono mediate e costruite, il femo-imperialismo gioca ovviamente un ruolo in questo processo. I movimenti decoloniali di de-patriarchizzazione sono fondamentali oggi per operare una de-mascolinizzazione capace di smantellare modelli di mascolinità intesi come sinonimo di dominio e abuso di potere.

JM: Il sottotitolo del tuo libro “per una politica della protezione antirazzista” esprime un’esigenza che non riguarda solo le donne, ma qualsiasi popolazione vulnerabile esposta alla violenza istituzionale. Per queste popolazioni, che non godono del diritto alla protezione dello Stato, cosa significa “proteggersi”? Da chi, prima di tutto, e come?

 

FV: Esatto, il punto è proprio come proteggersi. Da chi ? Dallo sfruttamento, dall’espropriazione, dal razzismo, dalla colonizzazione e dall’imperialismo. Come? Combattendoli senza tregua, svelando i meccanismi e la perversione delle politiche di protezione basate sulla selezione – di classe, razza, sesso, origine, età, religione – e sulla punizione carcerale che ha come sola conseguenza la moltiplicazione delle carceri, e quindi della miseria, dell’isolamento, degli abusi e della violenza.

Gli oppressi hanno sempre implementato le proprie politiche di protezione – impedendo alla polizia militarizzata di entrare impunemente nei quartieri e nelle case, impedendo gli sfratti, falsificando documenti, organizzando vie di fuga clandestine, creando nascondigli e rifugi, mettendo le armi a disposizione delle comunità minacciate, creando le proprie scuole, cliniche, chiese, attività, università. In questo contesto l’obiettivo di una giustizia riparatrice e rigeneratrice è di reintegrare il reo nella comunità rendendolo consapevole del danno perpetrato.

Ciò che voglio sottolineare è l’interdipendenza tra persone che possono essere molto diverse, ma che fronteggiano gli stessi “nemici” – la fame, il freddo, la povertà, il razzismo, il capitalismo, il sessismo, la violenza dello stato, la polizia, la giustizia di parte – e decidono di organizzare la solidarietà. C’è bisogno d’impegno quotidiano, di un enorme sforzo, perché nulla nella società occidentale odierna dominata dall’individualismo ci insegna l’interdipendenza e la solidarietà.

Lo Stato protegge a condizione di poter stabilire chi ha diritto alla protezione, come viene esercitata e da chi viene applicata. C’è quindi sempre una tensione tra le richieste di protezione portate avanti da parte dei cittadini rispetto, ad esempio, ai beni pubblici da difendere lottando – i diritti sul lavoro, il diritto alla salute, all’educazione, alla casa, il diritto ad essere messi al riparo dalle calamità naturali (cicloni, terremoti, pandemie…) – e il modo in cui lo Stato concepisce la sua protezione.

Il riconoscimento del bisogno comune e condiviso di protezione – fisica e psicologica – si situa agli antipodi tanto della protezione condizionata dello Stato quanto dell’ideologia individualista e menefreghista che dice: “Se ce l’ho fatta io, nonostante tutti gli ostacoli, allora può farcela chiunque. Basta volerlo”; è questo mito individualista della volontà, profondamente reazionario, serve spesso a giustificare il razzismo.

Protezione decoloniale antirazzista significa quindi, prima di tutto, riconoscere che un essere umano ha bisogno di protezione (alla nascita un essere umano è incapace di sopravvivere senza protezione) e che è legato da vincoli di interdipendenza con il suo ambiente e con gli altri esseri viventi. È un rifiuto dell’individualismo, dell’idea che possiamo cavarcela da soli, che non abbiamo bisogno di nessuno. La solidarietà è un riconoscimento di questa esigenza di protezione contro le forze egoiste del neoliberalismo: siamo insieme, ci sosteniamo a vicenda, ci consoliamo a vicenda, sappiamo che non siamo soli, che i compagni e le compagne di lotta sono lì. Dobbiamo  nutrire questa concezione collaborativa e collettiva della protezione, perché è costantemente indebolita dagli egoismi, dalle gelosie e dalle rivalità. Non dobbiamo sottovalutare le conseguenze distruttive per la psiche prodotte dal razzismo, dal sessismo e dal capitalismo. Siamo “messi male”, ma non mettiamo a fuoco le cause perché tutto – la scuola, l’informazione, l’organizzazione della società, le ideologie dominanti – ci educa a non indagare le cause storiche e profonde del nostro malessere, ma a dare la colpa agli altri. Oppure siamo diventati sospettosi perché siamo stati ingannati, maltrattati, ci rifiutiamo di avvicinarci ad altri per paura di essere feriti e delusi.

Per creare questa protezione solidale, bisogna superare la paura, saper amare, accettare le differenze, riconoscere le proprie difficoltà e imparare a confortarsi con gli altri, rifiutando i toni moraleggianti. Si tratta di un processo in cui non si deve mai approfittare della vulnerabilità altrui per affermare il proprio ego o per creare dipendenza. Il come è, ripeto, tutto basato sul lavoro collettivo e sullo sforzo quotidiano a partire dalla consapevolezza che l’interdipendenza è davvero l’opposto della dipendenza.

 

su Mascaró

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di Marino Magliani

Ho scoperto Haroldo Conti grazie a Adrián Bravi. «Racconta l’acqua» mi disse, «le inondazioni, come faccio io, ma lui l’ha fatto tanti anni fa, perché è nato negli anni Venti, e da Chacabuco è andato a vivere il delta, tra i banchi di sabbia e le isole del Paraná, con in lontananza i palazzi di Buenos Aires, e dalla sua barca guardava le rive». E Adrián ha ragione, Haroldo Conti ha raccontato l’acqua del delta dal centro dell’acqua.
La prima cosa su cui ci si sofferma, tuttavia, quando si legge di Haroldo Conti, non sono l’acqua di Sudeste e la costa inzuppata di Mascaró, o la stessa amicizia con Gabriel García Márquez, la passione per il cinema, ma richiama il numero esiguo di libri a suo nome. Allora vai a vedere qualche notizia biografica e a quel punto ti è tutto chiaro. Conti è morto molto presto, a cinquantuno anni, perché questa è la data che riportano le carte (ma solo alcune), in genere accanto a Chacabuco, profonda pampa, 1925, un luogo di morte non viene riportato, e una data, un giorno, un mese, uno di quei mesi in cui in Argentina fa freddo e qui si soffoca. Nulla, Haroldo Conti non c’è, c’è stato e poi non più, scomparso, desaparecido.
Uno di quei giorni in cui a Buenos Aires fa freddo e in Italia la notte odora di alberi e le rane nel torrente si cercano. 5 maggio, di notte, Haroldo era andato con la compagna al cinema a vedere “Il Padrino”, era il 1976, e quando è tornato un gruppetto di fascisti malparidos lo stava aspettando in casa, avevano già sequestrato la coppia di amici (costoro avevano trascorso la serata coi bambini piccoli, e i milicos avevano narcotizzato i bambini), e poi demolirono Haroldo, ma non gli tapparono gli occhi, come fecero alla compagna… Era già ben chiaro che Haroldo non l’avrebbe mai detto a nessuno chi erano. Erano stati mandati da Videla. Lo portarono via, di solito viaggiavano in Falcon. Ma queste cose le racconta molto bene proprio Gabriel García Márquez nell’introduzione a Mascaró, che uscì in Argentina nel 1975 e che Exòrma ha riportato in Italia (era uscita una traduzione di Francesco Saba Sardi, per Bompiani nel 1983). È stato lo stesso Videla a confessare ai giornalisti, alla fine della dittatura: «Haroldo Conti non cercatelo».
Nel 1976, un paio di settimane dopo il sequestro di Haroldo Conti, J.L. Borges e Ernesto Sabato, invitati a pranzo da Videla per parlare di cultura, hanno avuto la possibilità di chiedere cosa ne era della gente sequestrata (in quei tempi l’etichetta di desaparecido non si usava ancora, era semplicemente gente sequestrata e prigioniera), ma non lhanno fatto. O la domanda, da parte del solo Sabato è stata posta senza convinzione, buttata lì, come una semplice (timida?) richiesta di informazioni. Questo risulta dalle ammissioni dello stesso Sabato. Sta di fatto che di Haroldo Conti si parlò sempre meno, non aveva lasciato certe opere come Operación masacre, di Rodolfo Walsh, Conti aveva parlato dell’acqua e del popolo dell’acqua, di malinconie, della ricerca della libertà, certo, (e anche di ferocia subita dal popolo, certo) nella fauna circense di Mascaró, di cui siamo a dire qualcosa, non ci sono genocidi. Conti era dunque un desaparecido e basta, e desaparecida in Europa risultò essere la sua letteratura. Lo conoscevano in pochi, e chi lo conosceva lo amava, lo studiava, come il saggista Luca Leotta che ha scritto la tesi su di lui e sull’altro grande desaparecido, il fumettista Héctor Hoesterheld, al quale la dittatura ha fatto sparire e uccidere le quattro figlie, di cui due incinta. Conti era un sommerso e nessuno sapeva dove. Uno che diceva di sé: «Non sono un uomo libero, ciononostante ho il culto della libertà».
Mentre traducevo Mascaró con Riccardo Ferrazzi non pensavo a chi dedicare il lavoro, non ci si pensa a chi dedicare le traduzioni, i libri sono degli autori, non dei traduttori, ma quando il libro esce qualcosa a riguardo si può dire e io vorrei dire che dedico la mia traduzione a Giulio Regeni. Siccome siamo in due e le traduzioni che si fanno in due non si fanno a metà, ma si integrano, in un confronto e in una riscrittura delle due voci (perché non ci sia acqua salata o dolce ma l’acqua della traduzione sia nella forma delle due cose: un’acqua quasi salmastra) perché siano in effetti quasi una, quasi la voce di una lingua che lavora su ciò che un autore non ha gettato via in un’altra lingua, ho chiesto a Riccardo Ferrazzi di raccontare qualcosa ma stavolta più che sulla vita e l’opera scomparsa, di farlo sulla lingua presente di Haroldo Conti che non è scomparsa.
Ho ricevuto questa mail:
“La caratteristica che più mi affascina nei veri scrittori è la capacità di presentare al lettore dei “pezzi di bravura” che sono manifestamente tali ma si fanno leggere senza fatica e, anzi, lasciano nel lettore la sensazione di aver viaggiato fra le nuvole. Sono molti i brani di questo genere in Sudeste, e l’intero esordio di Mascaró, la notte di Arenales mi ha lasciato stupefatto per la precisione e l’abilità con cui l’autore indaga tutti i particolari di una complicata fotografia. Si sa: la precisione nei dettagli è un atout narrativo. Ma non è come dirlo. Per rendere affascinante una descrizione bisogna sì rappresentare la realtà nei suoi particolari, ma soprattutto è necessario dare la sensazione che ciò che si descrive ha un senso e uno scopo. Bisogna saper parlare di ogni singola cosa senza specificare quale peso abbia e quale ruolo rivesta nel tutto, ma lasciando intendere che sia indispensabile per cogliere il significato del quadro. L’abilità di Conti è tale che, quando Oreste si imbarca e lascia Arenales, comprendiamo che lascia alle sue spalle nient’altro che un piccolo agglomerato di baracche dove vivono alla giornata uomini e donne sbandati e senza futuro. Eppure la minuziosa descrizione di quel posto sperduto ci ha tenuti agganciati alla pagina e ci lascia la stessa impressione del primo capitolo di un giallo: quello in cui viene ritrovato il cadavere e l’indagine ha inizio. La notte di Arenales è il mistero dell’esistenza: la somma di inutilità, casualità, noia e oppressiva sensazione di impotenza con cui finiamo per guardare alla vita quando ci troviamo in uno di quei vicoli ciechi nei quali non abbiamo potuto evitare di infilarci e dai quali è così difficile districarsi. L’entrata in scena del Principe Patagón darà la prima svolta alla vicenda. Oreste esce, quasi suo malgrado, dal vicolo cieco di Arenales per seguire un’avventura alla quale non avrebbe mai pensato. Il successivo intervento di Mascaró gli darà uno scopo nella vita.”

Fughe di Velio Abati

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di Massimo Parizzi

Velio Abati Fughe, San Cesario di Lecce, Piero Manni, pag,170, euro 17

Velio Abati, nato nel 1953 a Roccalbegna, in Maremma, vive a Grosseto, dove nel 1993 diede vita alla Fondazione Luciano Bianciardi, che diresse, facendone un vivace centro di cultura, fino al 2006, quando ne venne estromesso da una manovra politica, di cui fu protagonista l’allora giunta di centrosinistra, definibile a buon diritto squallida.

È autore di saggi (fra cui Considerazioni inattuali di un viaggio in Cina, con introduzione di Franco Fortini, Quaderni toscani di Democrazia proletaria, 1985, e L’impossibilita della parola. Per una lettura materialistica della poesia di Andrea Zanzotto, Roma, Bagatto Libri, 1991), volumi di poesia (Desinenze, Grosseto, Il paese reale, 1978; Dialoghetti, Grosseto, Gruppo Poesia ARCI, 1984 e Questa notte. Canzoniere, San Cesario di Lecce, Manni, 2018), e ha curato Franco Fortini, Un dialogo ininterrotto. Interviste 1952-1994, Torino, Bollati Boringhieri, 2003. Nel 2013, inoltre, ha pubblicato un romanzo, Domani, San Cesario di Lecce, Manni, e nel 2020, sempre con Manni, una raccolta di prose, Fughe. È di quest’ultimo libro che cercherò qui di dire qualcosa, riprendendo in alcuni punti una lettera a Velio Abati pubblicata in “Odissea” (https://libertariam.blogspot.com/2020/12/rileggendo-fughe-di-massimo-parizzi.html).

Fughe raccoglie 36 brevi, non racconti, ma “prose”, come si legge in copertina. Vi si trovano infatti miscelati con coraggio narrativa e saggistica, sia nel senso che alcune prose sono narrative e altre saggistiche, sia nel senso che la stessa prosa, a volte, inizia narrativamente e prosegue nella forma di un saggio. Non c’è dubbio che Abati ricordi bene come un tempo, negli anni Settanta, che tanta parte hanno in questo libro, la separazione fra i generi letterari fosse parsa a molti, in nome dell’unità dell’essere umano, dubbia (com’era parsa dubbia a generazioni più antiche, ma in nome d’altro). Ora ovviamente quel dubbio, se qualcuno mai vi accennasse, verrebbe chiamato “ingenuità”. E tuttavia è esattamente il contrario: è la consapevolezza che, se la divisione in generi è comoda e ha una lunghissima storia, è anche ingannevole; presume e quindi crea o fortifica all’interno del lettore e all’interno della scrittura divisioni che, almeno nel profondo di entrambi, non ci sono.

Il libro si compone di due sezioni: la prima e più corposa (un centinaio di pagine su 160) è intitolata “Voci”, la seconda “Discanti”. Le voci sono per la maggior parte di persone conosciute o anche soltanto fuggevolmente incontrate nel corso della vita: con qualche eccezione, le prose di questa sezione ne portano come titolo i nomi. E sono testi per lo più dolenti, a riflettere la rovina portata nelle vite di quelle persone e di tutti noi dall’“ammassarsi della miseria” (p. 21) a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso. E tuttavia, a fare da contrappunto e contrasto al duolo, il carattere di tutti i personaggi di questi racconti è positivo, o a renderlo positivo è l’amorevolezza con cui Abati ne parla, un’amorevolezza che, partendo da un senso di comunanza fra tutti gli esseri umani, giunge a volte come a dire: “Tu potresti essere me e io potrei essere te”, o meglio, “tu sei me e io sono te. Riferendosi in “Ĉigoĉ” (nome, questa volta, di un paese della Croazia), a una “vecchia, alta, pallida” che non incontrerà mai più, Abati osserva: “Una minuscola manciata di decenni addietro eravamo il medesimo bambino” (p. 16).

Ma personaggi a pieno titolo di tutte queste prose non sono soltanto persone; lo sono anche la natura e l’arte. La natura, che compare e ricompare, a volte portatrice di una forza di resistenza quasi spavalda (“il maggio negli orti, esplode sui fiori di sangue del croco”, p. 39), a volte di una promessa (“Il cuculo tornerà di nuovo la prossima primavera. Il verde si farà più tenero, il campo sarà soffice”, p. 12), a volte di un richiamo, quasi accennasse anch’essa, “come accade all’arte, […] a un bisogno antropologico che da qualche parte attende ancora di diventare realtà. Una spinta confusa ma caparbia che nemmeno la società barbarica assegnata in sorte al nostro vivere riesce a annichilire” (p. 121). Sono parole, queste, che Abati, insegnante per decenni in un liceo di Grosseto, rivolge al momento del “Congedo” (titolo della prosa) ai suoi studenti, con l’invito, quel “bisogno antropologico”, a ricordarlo “sempre, ragazzi, perché […] è quello il futuro dell’umanità”.

Ecco i “buoni” quindi: uomini e donne, natura, arte. E i cattivi? Non ci sono. Cioè: c’è, fin dalle prime pagine, chi “ha sempre più immiserito, arricchendosene, le nostre vite e i nostri pensieri” (p. 13), il capitalismo, insomma, nei vari nomi, forme ed effetti che lo individuano. Però non è un “personaggio”, è uno sfondo che, tuttavia, non sta in fondo, ma davanti, a sinistra, a destra, e soprattutto sopra i personaggi, a premerli, schiacciarli. Ma, loro, restano positivi: i buoni. Ecco perché fanno da contrappunto e contrasto al duolo.

Ma torniamo un momento a quel “bisogno antropologico”: è un punto fondamentale. Chi non lo prova o non l’ha mai provato, qualunque nome, o nessuno, gli dia, e soprattutto chi non vuole provarlo, difficilmente, forse, leggerà questo libro. Perché Fughe chiede molto al lettore, e prevede un lettore che a sua volta chiede molto a un libro. Come nel romanzo Domani, anche qui, benché in misura minore, Abati salta da un luogo all’altro, da un tempo all’altro, omettendo di esplicitare i passaggi. Omissioni che impongono al lettore la rinuncia alla pretesa “reazionaria” dell’“immediatezza” (p. 82) e alla “strumentalità immediata” (p. 136), certo, e anche di “piegare il piacere letterario alla funzione d’inciampo al già saputo” (p. 108). Ma soprattutto gli impongono un movimento omologo a quello necessario per individuare, e riconoscere, quel “bisogno antropologico”. Come se quelle “menomazioni” del testo, quello che nel testo “non c’è”, “ci sfugge”, “ci è sottratto”, addestrassero le stesse capacità dello spirito che occorre mobilitare per cercare «ciò che non c’è, che ci sfugge, che ci è sottratto” e che “si cerca perché è una nostra menomazione” (p. 161).

Con quest’ultima citazione siamo entrati nel pieno della seconda sezione del libro, “Discanti”, prose per lo più saggistiche, ricche di osservazioni acutissime sul presente, sulla scrittura, sulla lettura e altro. Già il titolo, “Discanti”, indica il carattere alto della scrittura in Fughe, inteso certamente a prendere nette distanze dalla “chiacchiera imbonitoria” (p. 123). Ma, soprattutto, il carattere della scrittura contribuisce a creare in tutto il libro quella che Abati definisce una “cadenza”, a proposito della quale (ma non certo parlando dei suoi scritti) osserva: “Basta accompagnare una cadenza, per sentirne il valore, ben prima di comprenderla. È proprio quella promessa, anzi caparra che chiede la fatica dell’ascolto, sempre” (p. 104). In altri punti parla della lettura come di un’“esperienza”. Ed è esattamente un’esperienza la lettura di questo libro, un’esperienza che fa bene e spinge, o almeno ha spinto me, alla rilettura di molte sue pagine, non tanto per capire meglio, ma per restare più a lungo nella buona compagnia della sua voce.

The clutch – canestri e razzismo sotto pressione (4/4)

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di Riccardo Valsecchi – @inoutwards

[parte 4 di 4 – leggi la parte 1parte 2parte 3]

8. LA TERRA PROMESSA

What happens to a dream deferred?

Does it dry up

like a raisin in the sun?

Or fester like a sore—

And then run?

Does it stink like rotten meat?

Or crust and sugar over—

like a syrupy sweet?

Maybe it just sags

like a heavy load.

Or does it explode?

(Che cosa succede ad un sogno differito?

Si prosciuga

Come uvetta al sole?

Oppure marcisce come un’infezione—

E poi si espande?

Puzza come carne marcia?

O fa la crosta e lo zucchero sopra––

come un dolce sciropposo?

Forse semplicemente sprofonda

come un un carico pesante.

Oppure esplode?)

“Harlem” di Langston Hughes – da “Montage of a Dream Deferred”, 1951

Nell’estate del 1988 il decano degli allenatori italiani, Valerio Bianchini, detto “il profeta”, immagina, in un editoriale pubblicato su Repubblica, di poter ingaggiare Isiah Thomas per la propria squadra, la Scavolini Pesaro: “Anche noi vorremmo poter dire: lottiamo con i Pistons per strappare Isiah Thomas alla NBA, portarlo in Italia e trasmettere in diretta la firma del suo mega-contratto per la Scavolini, ma questo è semplicemente impossibile.”

Chissà. Forse, se glielo avessero chiesto…

Un anno dopo la sconfitta al Garden e le polemiche per le dichiarazioni di Isiah nel post-partita, i Pistons sono infatti reduci dall’ennesima delusione: nonostante siano riusciti, finalmente, ad eliminare i Celtics di Bird, hanno appena perso la prima finale NBA della storia di Detroit contro i Lakers dell’amico del cuore Magic. Il quale, per una gomitata di troppo, non parlerà più ad Isiah per i successivi trent’anni. Qualcosina di peggio. Quando l’Olimpo della NBA acconsentirà a confrontarsi con i mortali del pianeta terra alle successive Olimpiadi di Barcellona del 1992, Magic, in combutta con Bird e Michael Jordan, porrà un veto sulla presenza di Isiah. Rancori e gelosie che ancora oggi animano le discussioni sui siti di gossip sportivo, dato che Thomas, vincendo finalmente l’anello NBA nelle stagioni 1988-89 e 1989-1990, e perdendo solo in semifinale l’anno successivo contro i Bulls di Michael Jordan, – aka Mr. Air, MJ, o Black Jesus per gli adepti di questa religione chiamata basket -, confermerà di essere ancora, in quel 1992 olimpico, a tutti gli effetti, il più forte playmaker in circolazione.

Respiro. Wow. Trent’anni sono passati da quell’articolo, eppure ero sicuro di non averlo sognato. Certo, quella di Bianchini era una provocazione, ma spiegatela ad un ragazzino di dodici anni! Ricordo le emozioni, i sogni. Non sarebbe stato il primo talento NBA ad arrivare in Italia: Bob McAdoo, che aveva vinto l’anello con i Lakers nel 1982 e nel 1985, giocava nella mia squadra del cuore, l’Olimpia Milano. Neppure si trattava del primo afro-americano ribelle. Nel lontano 1968, sempre a Milano, aveva giocato Jim Tillman, anche se fu mandato via dall’allenatore Cesare Rubini perché “troppo nero”; poi, nel 1974, era arrivato a Varese Charlie “Sax” Yelverton, che dalla NBA era stato cacciato per essersi rifiutato, in segno di protesta, di alzarsi in piedi durante l’inno americano. La squadra varesina, grazie in gran parte a questo esuberante ribelle con la passione del sax, aveva poi dominato la pallacanestro europea per il decennio successivo, con un incontestabile record di dieci finali di Coppa Campioni consecutive. Ma Isiah era di un’altra categoria. E per un’intera estate sognavo di trovarmelo di fronte al campetto comunale: “Ehy kid, do you want to shoot some loops? Hey ragazzino, vuoi fare qualche tiro?”

I bambini sognano, ed in quei sogni c’è innocenza, emozione… ed un pizzico di apprensione nell’affrontare il mondo in cui vivono. Mi sveglio, felice, sudato, contento. Di fronte a me c’è il poster di Magic, sulla sedia la maglietta dei Bad Boys. Il sogno prende la forma di un’ipotetica fantasia. Parlo da solo: “Isiah Thomas viene a giocare in Italia, lo incontro per caso, e diventa mio amico. Come lo racconto ai compagni di scuola?” Non è tanto una questione di credibilità che mi spaventa. Piuttosto, quale potrebbe essere la loro reazione? L’immagine si precipita al Pianella, nel palazzetto dello sport di Cantù dove il mio allenatore di allora- il quale, per fare l’americano, intercalava un “ok” ogni tre parole – mi portava a vedere le partite della fortissima squadra locale, che militava nella prima serie. Ricordo la bolgia, il luccichio del parquet, lo stridio delle scarpe sul legno, ed i versi del pubblico quando un giovane giocatore nero, Dan Gay, prendeva palla, e, DUNK, schiacciava in faccia all’avversario: “Uh uh uh, uah,” il verso della scimmia, e giù tutti a ridere. Io non rido. Ritorno nella mia stanza, ed Isiah non c’è più.

Quando Dan Gay arriva in Italia, nel lontano 1985, a Rieti, non gli pare vero. L’antica cittadella nell’entroterra laziale non è certo Roma, Milano o Firenze; qui non si respira l’aria frizzante dei grandi centri della moda e dell’arte italiana. Eppure la gente, questi bianchi un po’ scuri che parlano un dialetto ostico, ma non sembrano così ostili come gli italo-americani del ghetto da cui è stato abituato a tenersi alla larga, lo accolgono calorosamente, con un’ospitalità inaspettata. Dan è cresciuto a Tallahassee, contea di Leon: immense piantagioni di cotone che stanno ancora lì a raccontare il passato recente di un territorio con la più alta concentrazione di schiavi di tutta la Florida ed una storia di linciaggi e segregazione che si trascina fino ai giorni nostri. La pellicola scorre indietro nel tempo, siamo nella seconda metà degli anni sessanta. Dan è un bambino e sua madre lavora in un ristorante per bianchi. Un giorno, di ritorno da scuola, scappa dall’autovettura del padre e s’infila nel locale dalla porta principale. Gelo, silenzio. Gli sguardi dei presenti che lo fulminano all’istante: “Che cosa ci fa quel piccolo n- in sala?” tuona una voce dai tavoli. Poi una mano lo afferra e lo porta via. È quella di suo padre, pastore evangelista, che Dan osserva, con ammirazione, ogni domenica, dal pulpito, mentre predica uguaglianza e giustizia per tutti, al di là del colore della pelle. Ma come si può credere alla giustizia ed uguaglianza se il mondo intorno ti costringe a vedere te stesso diversamente?

Intanto Dan cresce, centimetro dopo centimetro, alla stessa velocità del nastro che si riavvolge fino agli anni Ottanta. I due metri e sei d’altezza gli valgono una borsa di studio per giocare con i Ragin’ Cajuns della Southwestern Louisiana University (oggi University of Louisiana at Lafayette). Nella NCAA, il campionato nazionale di basket universitario, si scontra contro future leggende quali Hakeem Olajuwon, Clyde “the Glide” (l’aliante) Drexler, Karl “the Mailman” (il postino) Malone, Patrick Ewing, Joe Dumars, ma quando nell’estate del 1983 viene selezionato dai Washington Wizards per giocare nella NBA, Dan declina: tecnicamente non è ancora pronto e l’offerta economica non è molto allettante. Che cosa fare? Rimanere negli Stati Uniti dove, nella migliore delle ipotesi, lo aspetta una carriera come controfigura di qualche più scarso giocatore bianco, oppure tentare la carta Europa, dove il livello tecnico è sicuramente inferiore, ma proprio per questo potrebbe ritagliarsi qualche possibilità e, per lo meno, essere considerato per quello che vale? Sceglie il vecchio continente e, dopo un anno di apprendistato in Olanda, approda in Italia, nella seconda serie di quello che è, a quei tempi, considerato il campionato più competitivo fuori dagli Stati Uniti.

Il telefono squilla per qualche secondo prima che una voce, corposa e vivace, risponda. “Hello, Industrial Frigo USA.”

“Hi, il mio nome è… parlo con il signor …”

Dan, che oggi ha 59 anni e lavora come rappresentante di un’azienda bresciana di prodotti per la refrigerazione, divide il suo tempo tra la Florida e l’Italia, ma è ormai più italiano che americano. In Italia ha giocato nella massima serie fino al 2007, stabilendo il record di longevità nella pallacanestro europea. Anche se la nostra conversazione si svolge telefonicamente per via del lockdown pandemico, non faccio fatica ad immaginarmelo ancora in gran forma. Un colosso, d’altezza e d’intelligenza: arrivato in Italia come outsider, con lavoro e dedizione è diventato un protagonista assoluto del nostro campionato. Parla con emozione dei suoi primi anni europei. Al suo approdo in Olanda, osserva coppie di diversa etnia passeggiare mano per la mano e non può credere ai suoi occhi. In Italia, a Rieti, viene accolto come una star. La gente lo abbraccia, lo ferma per strada e trascina nei ristoranti e nei bar per offrirgli dolci, specialità nostrane, un bicchiere di vino… Un’esperienza scioccante per uno cresciuto dall’altra parte dell’oceano dove, all’ingresso dei ristoranti, durante la sua infanzia, si trovavano ancora i cartelli “no n-“. Gli chiedo se abbia mai subito episodi di razzismo in Italia: “A parte i cori dei tifosi avversari e qualche commento sulla mia vita privata da parte della stampa, esplicitamente no. Ma è anche vero che da atleta, in uno sport globalmente dominato da giocatori afro-americani, mi trovavo in una condizione privilegiata. Non potevo comunque fare a meno di notare i commenti degli italiani nei confronti degli immigrati, che in quegli anni cominciavano ad arrivare numerosi dal Nord-Africa. Specialmente quando giocavo per Cantù e Treviso. Oggi la situazione è perfino peggiorata.” Domando se gli fosse mai capitato di sentirsi vittima di stereotipi razzisti da parte di giornalisti sportivi italiani: “Purtroppo questo succedeva spesso.” Ci pensa un poco: “Mi faceva strano che ancora sui giornali italiani si usasse la parola n-. Ma, come con gli insulti dei tifosi, ho imparato a non farmi condizionare da un manipolo di ignoranti.” Lo stuzzico su quale sia stato l’avversario più difficile. Si commuove: “You know, quando sono arrivato a Rieti, ho giocato con Joe Bryant…” Indisciplinata ma inarrestabile ala dal canestro facile, Bryant arriva in Italia nel 1985 dopo una decennale carriera nella NBA. “C’era sempre questo marmocchio con lui, suo figlio…” Sospira: “…Kobe… Magro, striminzito, faceva fatica a far arrivare la palla all’altezza del cesto. Eppure ogni giorno, immancabilmente, finiti gli allenamenti, saltava in campo e mi si attaccava al braccio fino a costringermi ad andarlo a sfidare uno contro uno. Un’ossessione…”

Quel marmocchio ne farà di strada. La sua tenacia e competitività che già dimostrava a sei anni lo porteranno a stare lassù, nel firmamento dei più grandi maestri della palla a spicchi: cinque titoli NBA, un premio come miglior giocatore nella stagione 2008, due come miglior giocatore delle finali, quarto marcatore di sempre nella storia NBA, due titoli olimpici. Kobe “Black Mamba” Bryant è deceduto con la figlia in un incidente in elicottero nel gennaio del corrente 2020. In un messaggio inviato ai fan il 16 aprile 2016 per annunciare il proprio addio alla pallacanestro giocata, aveva così ricordato quelle antiche sfide tra le mura della città sabina: “Ora lo posso dire. Dan Gay è stato l’unico giocatore al mondo ad avermi sempre schiacciato in testa.”

Dan ride: “Anch’io lo racconto in giro. Nessuno mi crede, fino a quando non spiego che Kobe aveva solo sei anni.”

Nel 2015 l’Absolutely Free Editore ha pubblicato, a firma Andrea Barocci, una biografia che ripercorre l’esperienza italiana di un giovanissimo Kobe Bryant. Lo scarico incuriosito. Ne traduco ad alta voce alcuni passaggi ad un’amica, Amy, voglio sapere che cosa ne pensa: “Quella coppia [Joe e Pamela Bryant], lui un CALIFFO del basket, lei una AFRODITE NERA, aveva qualcosa di affascinante agli occhi dei reatini. (…) Lei, la DEA, era alta, con lineamenti del volto regali e un fisico statuario; per qualche misteriosa ragione, neppure il vento che soffiava dal mare riusciva a scompigliarle i capelli morbidi e vaporosi. Un’APPARIZIONE CELESTIALE che, appunto come il vento, aveva lo stesso effetto sui reggini: LI FACEVA USCIRE DI SENNO.”

Ancora: “Quelli che passavano con le macchine abbassavano il finestrino e GRIDAVANO I PIÙ VARIEGATI COMPLIMENTI a Pamela. Quando lei intuiva che qualcuno le stava rivolgendo un apprezzamento VOLGARE, abbandonava per un istante la classe che la contraddistingueva, si girava senza mai fermarsi e tranquillamente rispondeva: “Fuck you”. Poi riprendeva il suo allenamento.” So già come va a finire, ma continuo: “[Pamela] si sedeva nel parterre, dietro a uno dei canestri. Prima delle gare il copione non cambiava mai, ed ERA SPASSOSISSIMO: i tifosi, qualsiasi fosse il loro posto assegnato, passavano davanti a Pam con fare indifferente, poi all’unisono giravano la testa per ammirarla; infine, SODDISFATTI, proseguivano.”

Tutt’altro che “spassosissimo” per me, Amy comincia ad innervosirsi: “Joe era un MOSTRO inarrestabile per chiunque(…). Gli appassionati di pallacanestro sapevano che PAGANDO IL BIGLIETTO per una partita con lui in campo, non si sarebbero pentiti. Stravedevano per quel GIGANTE D’EBANO che metteva allegria solo a guardarlo.”

“Ebony?” mi interrompe Amy.

“Sì, si usa per descrivere una persona d’origine africana senza offenderla…”

“Senza offenderla? Asshole! Quando la smetterete di trattarci come pezzi d’arredamento da esibire nei vostri dannati freak show?” rimarca lei scuotendo la testa. Le faccio notare che anche negli Stati Uniti esiste una rivista afro-americana intitolata, per l’appunto, “Ebony”.

“Certo,” incalza inviperita. “La differenza è che quando noi usiamo questa parola, lo facciamo per non dimenticare ciò che i miei antenati hanno dovuto subire prima di permettere ad una persona come me di parlare alla pari con una persona come te. Quando la usi tu, mi ricorda quello che i tuoi antenati hanno fatto alle donne e gli uomini come me in nome della vostra dannata supremazia.” Scuote rassegnata il capo: “What’s wrong with you, Italians? Che cosa c’è di sbagliato in voi italiani?”

La storia della pallacanestro italiana inizia in sordina. L’insegnante di ginnastica senese Ida Nomi Venerosi Pesciolini, senza averne mai visto una partita dal vivo, ne traduce il regolamento e lo presenta al Concorso Ginnico di Venezia del 1907 come “palla al cerchio, un gioco particolarmente adatto alle signorine».” Una nuova traduzione viene presentata qualche anno dopo dal professore Guido Graziani, il quale per lo meno, conosce il gioco per averlo imparato dall’inventore stesso, James Naismith, con cui ha lavorato allo Springfield College. Bisogna comunque aspettare 10 anni per la prima partita ufficiale. È una caldissima e solare giornata di giugno e, poco fuori dal centro di Milano, nella sontuosa ed imperiale Arena Civica, trentamila persone aspettano l’arrivo trionfante dell’eroico ciclista Girardengo, che, in questa stagione 1919, ha dominato dalla prima all’ultima tappa il più popolare degli eventi sportivi italiani, il Giro d’Italia. In un angolo del complesso sportivo, su un prato misto a sassi, goffi individui si cimentano nell’arduo tentativo di infilare la palla in un rudimentale cesto appeso ad un palo storto. Un righino di poche parole in calce al Corriere della Sera suggella l’inaugurazione formale della pallacanestro italiana: “Aviatori Malpensa-Automobilisti Monza 8-8. Partita interessante e giocata con slancio!”

Tuttavia, nonostante la fortuita presenza di tanto numeroso pubblico alla prima milanese, malgrado gli sforzi del professor Graziani e qualche insperato successo contro la selezione transalpina – a cui si aggiungono batoste umilianti contro Stati Uniti e Lettonia -, la popolarità del basket fatica a decollare. Ci vuole un’inaspettata svolta: per puro caso, questa palla a spicchi, più ovale che tonda, con una rilegatura laterale che ne rende il palleggio imprevedibile, attrae l’attenzione di un ragazzino di nome Bruno, di cognome Mussolini. Si tratta del figlio prediletto del Duce, ed i risultati di questo provvidenziale incontro non si fanno attendere: 43492 sono gli iscritti alla Federazione Italiana Pallacanestro nel 1935; i Gruppi Universitari Fascisti (GUF), l’Opera Nazionale Balilla (OPN), ogni associazione atletica che desideri sopravvivere nella morsa del totalitarismo di regime si dota di una squadra di basket; al giovanissimo figlio del duce, che gioca nella società Parioli di Roma insieme al fratello Vittorio e alla futura stella del cinema Vittorio Gassman, viene dedicata la Coppa Italia — dal 1936, per l’appunto Coppa “Bruno Mussolini”. È così che la “palla al cerchio”, già ribattezzata “palla al cesto”, finalmente pallacanestro, si trasforma da “gioco per signorine” a “sport ideale per migliorare validamente e durevolmente la razza,” come lo definisce la rivista Lo Sport Fascista.

“Il giuoco della pallacanestro,” riporta il Corriere della Sera del 28 novembre 1933 in un articolo intitolato “Il fascismo per l’avvenire della razza”, “è al tempo stesso uno sport armonioso e atletico, che conferisce snellezza e vigore, che dona al corpo grazie e gagliardia, e che ha anche notevole pregi spettacolari col vantaggio di una estrema facilità d’installazione.”

Ancora, da “Il Littoriale del 12 febbraio 1935: “Crediamo opportuno rilevare come la pallacanestro sia ormai diventato lo sport prediletto della gioventù fascista in virtù del suo alto valore fisiologico e delle sue doti intrinseche che, perfezionando mirabilmente le qualità che il giocatore naturalmente possiede, sviluppano soprattutto la prontezza, il coraggio e l’intuizione.

PRONTEZZA, CORAGGIO ed INTUIZIONE che sono, e debbono essere, le doti principali delle giovani Camicie Nere.

L’esercizio di questo giuoco sviluppa anche le facoltà mentali e rende abituali il senso della disciplina e del dovere, costringendo il giocatore a sacrificare il proprio successo per quello di tutta la squadra.

DISCIPLINA, CORAGGIO e SACRIFICIO, ecco i canoni fondamentali della dottrina fascista. Chi dunque meglio della gioventù fascista può apprezzare la bellezza ed il valore di questo sport fisiologicamente completo?”

Firmato, “il cestista”.

Ovviamente, in questi anni, per “il cestista,” la pallacanestro è uno sport per bianchi: qualcuno potrebbe insinuare che sarebbe stato difficile immaginare altrimenti, dato che, anche negli Stati Uniti, dove il gioco è nato, agli afro-americani non è consentito giocare nelle squadre ufficiali, nella nazionale, neppure partecipare alla American Basketball League, precorritrice della NBA. Non che il gioco non sia praticato nelle comunità black. Tutt’altro: la pallacanestro, nonostante il bando dalle competizioni dei bianchi, è, appunto per quella “facilità d’installazione” descritta nell’articolo del Corriere della Sera, il gioco più comune tra i giovani afro-americani, i quali già dal 1907 sono organizzati in squadre denominate “five” dal numero dei giocatori e competono in N- League sparse un po’ ovunque sulla East Coast. È difficile, inoltre, immaginare che nessuno si accorga che ad Harlem, New York, un quartiere diviso all’altezza di Lenox Avenue tra comunità afro-americana ad ovest ed immigrati italiani di prima generazione ad est – 110 mila nel censo del 1930, tre volte più numerosi che nella tanto decantata Little Italy in Lower Manhattan -, gioca una squadra di soli afro-americani, i Renaissance Five, i quali, oltre a vincere ogni competizione a cui è concesso loro partecipare, stanno rivoluzionando il gioco con una tattica basata su una fitta rete di passaggi “dai e vai”, una precisa disposizione sul campo, un ritmo forsennato, ed uno spirito di squadra unico. Tutt’al più che al Renaissance Casinò, la balera-palestra dove giocano, si esibisce quotidianamente l’orchestra di Fletcher Henderson, la quale annovera un giovane trombettista di nome Louis Armstrong, popolarissimo fin dai primi anni Trenta in Italia – il jazz è un’altra delle passioni americane e non particolarmente bianche dei figli del duce -, anche se, per compiacere il nazionalismo fascista, nella sua prima tournée italiana del 1935 viene ribattezzato Luigi Fortebraccio. Il dominio dei Rens è straordinario, come testimonia l’ineguagliato record di 2318 vittorie e 381 sconfitte in 26 anni di esistenza. La loro fama d’innovatori è tale che alle partite, tra i fans in delirio, s’infiltrano gli allenatori delle squadre professioniste con la speranza di carpirne i segreti. E, seppure il bando per i giocatori afro-americani sia esteso anche ai fantastici Rens, le squadre della ABL, un po’ con la speranza di riaffermare la propria supremazia, un po’ per l’incredibile folla pagante che accompagna le loro esibizioni, fanno a gara per sfidarli.

“Avevamo una regola, quella del dieci,” ricorda William “Pop” Gates, il playmaker. Mantenere un vantaggio di dieci punti, consapevoli che, alla fine della partita, questi punti sarebbero scomparsi misteriosamente dal referto arbitrale. Non che cambiasse molto: “Nel momento in cui un’irresistibile forza incontra un oggetto irremovibile, qualcosa è destinato ad accadere,” scrive il cronista sportivo del quotidiano afro-americano New York Amsterdam il 2 dicembre 1931 in occasione della vittoria dei Rens contro gli Original Celtics, pluricampioni della lega professionistica. E quando, nell’estate del 1939, le federazioni ufficiali accettano la partecipazione delle due migliori squadre afro-americane – i Rens e gli Harlem Globetrotters, originari di Chicago – al primo World Championship of Professional Basketball, indovinate chi stravince il torneo con uno scarto medio di 10 punti a partita? Ma non sono solo i Rens a determinare la superiorità dei quintetti neri: gli Harlem arrivano terzi, ma solamente perché, per ovviare ad una finale completamente afroamericana, gli organizzatori avevano fatto in modo che incontrassero i Rens in semifinale.

Mi dispero a trovare, tra gli archivi storici dei quotidiani sportivi italiani, un articolo, una citazione, una misera allusione ai Rens o a qualsiasi altra squadra o giocatore afro-americano precedente al secondo conflitto mondiale. Nulla. Eppure, con un po’ di sorpresa, scopro che il quartiere di Harlem non è propriamente sconosciuto ai cronisti italiani. Tutt’altro: “Uscendo da Central Park e incamminandosi lungo la Lenox Avenue, dopo un breve tratto si è già ad Harlem, la città nera,” dal Corriere della Sera del 16 marzo 1931. “Forse vi sono altrove in Africa e negli Stati Uniti città abitate da n- più vaste e popolate, ma nessuna ha il carattere, l’attività, la potenza e il significato di Harlem.”

Il mio viaggio nella “cronaca americana” sulla stampa italiana dell’epoca è un’epica rilettura al contrario della storia del secolo scorso come mi è stata impropriamente insegnata a scuola. Là dove mi avevano indottrinato che la capitale culturale mondiale degli anni Venti era la Parigi di Picasso, Hemingway, Scott Fitzgerald, scopro che, tutt’al più, la capitale francese era una “sorta di copia ed incolla” di quello che succedeva ad Harlem: dalle balere e dai circoli tra Lenox Avenue e la settima, i lavori di Langston Hughes, Claude McKay – tradotto in Italia molto prima di Hemingway e Fitzgerald -, Palmer Hayden, James Weldon Johnson, Zora Neale Huston e Countee Cullen erano giunti nei bistrot parigini insieme alle musiche di Sidney Bechet, Arthur Briggs, Louis ”Braccioforte” Armstrong, Duke Ellington, e da lì, poi, avevano conquistato Berlino, Londra, Roma, perfino Mosca. Approdata alle Folies Bergère, Parigi, direttamente dal Plantation Club sulla 126ma, Harlem, Josephine Baker e la sua “Danse Sauvage” avevano scatenano, tra folle di fans impazziti, gerarchi nazisti e fascisti prolifici di doni, e bigotti che la accusano di stregoneria, il caos per mezza Europa. “I N- ad Harlem hanno sconvolto il ritmo artistico del nostro tempo,” scrive Curio Mortari su La Stampa dell’11 dicembre 1932: “Hanno dato un suono ed un nome all’ondata felicemente primordiale sgorgata dalla guerra.”

L’Italia e gli italiani, ovviamente, non sono vergini di razzismo: lo hanno praticato in epoca pre-coloniale, poi regolamentato ed innalzato a sistema con la progressiva conquista della Libia e del Corno d’Africa. Ma se questo tipo di oppressione trova la sua attuazione perlopiù lontana dal suolo patrio, in luoghi sconosciuti ed esotici dai connotati semi-romanzeschi, Harlem, mecca di artisti intelligenti che invadono con i loro suoni e libri le nostre case e sale da ballo, di pugili in grado di mandare knock-out l’eroe nazionale Primo Carnera, e di riottosi attivisti che bloccano i quartieri e l’ambasciata italiana a New York per protestare contro l’occupazione dell’Etiopia, si trasforma nell’eponimo di un pericoloso risveglio di coscienza che travalica i confini statunitensi: “Noi vediamo il pericolo nero avanzare attraverso l’oceano Atlantico,” scrive Umberto Fracchia in un articolo del Corriere della Sera del 19 agosto 1928 dal titolo provocante, “Magia Nera”: “… e (vediamo) il deserto africano ai ritmi sincopati del “jazz”, rivestito delle sgargianti penne delle danzatrici di “camel-walk” e preceduto da un nugolo di eroi equivoci e malfamati di cui il popolo negro già imborghesito di Nuova York e dintorni deve sentire un sacro orrore ed una giusta onta. Ma tutte le vergogne viene il momento in cui si possono lavare, magari col sangue. E intanto molti incominciano a credere che una questione negra esista realmente allo stato d’incubo, non soltanto per gli Americani o per i n-, ma per tutto il mondo civilizzato. Per costoro c’é sulla faccia della terra una massa bituminosa che fermenta, un nero lievito umano che gonfia. E Josephine Baker, Siki, Clarence Donald, e mille altre figure reali o immaginarie che la cronaca trasferisce ai romanzi e che i romanzi restituiscono alla cronaca, sarebbero come le bolle di aria che scoppiano alla superficie dei calderoni d’asfalto o, se più vi piace, i fiori splendenti o miserabili che sbocciano su quella nera gleba.”

Ma come ostacolare questa “nera gleba” che tanto nella cultura quanto nello sport, sembra destabilizzare la supremazia bianca? “Senza arrivare alle esagerazioni alle quali americani ed inglesi arrivano,” scrive Carlo Volpi nel 1929 sullo Sport Fascista, “senza cioè considerare i n- uomini inferiori e spregevoli, è però interessante vedere il perché la loro razza possa dare (allo sport) tanti uomini di così eccelsa classe. Da che cosa dipende quella supremazia che in parecchi casi hanno luminosamente provata? Io credo che consista soprattutto in alcune caratteristiche fisiche, tutte proprie della razza nera, pur non negando una certa rapidità di riflessi che non può chiamarsi intelligenza — poiché anche in alcune specie animali è spiccatissima (…). Per il resto il n- dimostra di essere tutt’altro che intelligente. Tutt’al più egli è furbo, trucchista e traditore, poiché non conosce che cosa sia la lealtà. L’unico modo di farsi rispettare da un n-, è quello di picchiarlo, di dimostrargli con la forza la sua inferiorità; allora diventa pusillanime…”

Gli anni del conflitto mondiale sono un vuoto nella storia della pallacanestro italica. Bruno Mussolini muore in un incidente aereo nel 1941 e, con lui, l’interesse del regime. È solo nell’estate del 1944 che, con la liberazione di Roma e l’insediamento di truppe alleate nella Città Eterna, l’attenzione dei quotidiani sportivi viene catturata da un gruppo di straordinari giocatori neri che vincono tutte le partite. Si fanno chiamare New Mexicans ed appartengono alla 92ma Divisione della Quinta Armata, l’unico corpo militare interamente afroamericano sul suolo europeo. Nel 1947, due anni dopo la fine della guerra, in un Paese alla ricerca di una nuova identità che possa in qualche modo cancellare vent’anni di totalitarismo fascista, Aldo Mairano, coraggioso ed ambizioso imprenditore alla presidenza della Federazione della Pallacanestro Italiana, decide di compiere un atto storico: nomina allenatore della nazionale di pallacanestro italiana Eliot Van Zandt, giovane soldato di fanteria della 92ma e professore di ginnastica laureato alla Black Historical Tuskegee University dell’Alabama. Diciannove anni prima di Bill Russell nella NBA, quarantuno anni prima di John Thompson, che guida la nazionale Statunitense alle Olimpiadi di Seoul del 1988, l’Italia ha il primo allenatore professionista afro-americano della storia.

L’impatto di Van Zandt sulla pallacanestro italiana è immenso: non solo ci insegnerà le innovazioni che avevano fatto la fortuna dei Rens, ma, attraverso il suo caparbio lavoro, forgerà gli allenatori che guideranno le squadre italiane a dominare in Europa nei decenni successivi. Non sapremo mai se la sua nomina da parte di Mairano fosse stata dettata da coraggio antirazzista o provocazione: l’imprenditore genovese, infatti, finisce alla direzione della pallacanestro solo dopo aver perso per una manciata di voti le elezioni alla presidenza del prestigioso Comitato Olimpico. La nomina di Van Zandt, poi, aggettivato “n- e color cioccolato” nelle cronache dell’epoca, non sembra godere di particolare popolarità tra i giornalisti ed i giocatori della vecchia leva; quattro anni dopo, nonostante un ottimo quinto posto agli europei del 1951, viene licenziato. Diventato preparatore atletico dell’A.C. Milan nel 1956, Van Zandt muore nel 1959 in volo verso gli Stati Uniti per un’operazione ai reni.

Dan è ancora al telefono. È una fucina di racconti e aneddoti. Nel 1988 si sposa con una ragazza pugliese e due anni dopo acquisisce la cittadinanza italiana. Finalmente può realizzare il suo sogno, vestire la maglia azzurra e partecipare ai mondiali ed alle olimpiadi: non è impossibile, di atleti oriundi l’Italia del calcio ne ha avuti a bizzeffe. Anche il basket aveva avuto il suo “straniero” con passaporto italiano: Mike D’Antoni, che aveva vestito la casacca azzurra nel 1989. L’unico inconveniente, nessuno di questi oriundi, per lo meno per quel che riguarda i giochi di squadra, era mai stato nero. Ad eccezione di Van Zandt, che però non era stato un giocatore.

“Il problema,” spiegano dalla Federazione, “non è razziale, ma semplicemente burocratico: per poter giocare nella nazionale italiana deve essere iscritto al campionato come italiano e non come straniero.” Dan ci prova una prima volta nel 1991, la domanda viene rigettata. Nel 1992 idem. Anno 1993, esordisce in nazionale Carlton Meyers, di padre caraibico e madre italiana, quindi Dan spera finalmente che… niente da fare. Il presidente della Federazione Italiana, Gianni Petrucci, adduce un ritardo della domanda da parte del giocatore. Sarà per l’anno successivo? Macché, questa volta la scusa è che Dan, acquisendo il diritto alla nazionale, permetterebbe alla propria squadra, la Fortitudo Bologna, di rinforzarsi ulteriormente con un altro straniero. Ai giornalisti che lo incalzano, Dan risponde con passione: “Non crediate che sia facile decidere di cambiare cittadinanza: io l’ho fatto con entusiasmo perché sono in Italia ormai da 12 anni, pago fior di tasse e ho messo su famiglia. (…) Ma io ci credo. È questo che non hanno capito.”

A 35 anni, dopo sei anni di trafile burocratiche, Dan esordisce finalmente in nazionale nel 1996: l’anno successivo contribuirà alla conquista di una storica medaglia d’argento agli Europei di Barcellona. Chissà se avesse potuto fare parte della selezione nazionale qualche anno prima.

EPILOGO

Una lunga giornata autunnale. Passeggio per Causeway street. Un po’ per la pandemia, un po’ per la ricorrenza del Giorno del Ringraziamento, Boston è vuota. Risuona vuota, con un soffio gelido che sale dall’Oceano. Il Garden, che sorgeva in fondo a questa strada, è stato rimpiazzato da un centro commerciale. Osservo l’edificio da fuori provo ad immaginare i suoni, le voci, i rumori di quel 29 maggio 1987. Mi sembra di sentire la palla che rimbalza mentre Isiah si prepara a tirare i liberi.

Oggi, Isiah Thomas e Larry Bird non sono più avversari. Anzi, per una stagione, nel 2003, hanno perfino lavorato fianco a fianco agli Indiana Pacers: Isiah come allenatore, Larry come dirigente. Entrambi sono personaggi culto nello stardom televisivo NBA: appaiono in telecronache, documentari, talk show, interviste… Raramente insieme. Quando capita, Larry scherza sul fatto che la persona più delusa dalla sconfitta dei Pistons in quella finale di conference fosse sua madre, gran tifosa di Isiah. Anche Magic si è riconciliato con Isiah, in un confronto televisivo sul canale ESPN con tanto di pianto in stile “reality show”.

Il TD Garden, dove giocano attualmente i Celtics, si trova proprio dietro il centro commerciale. È chiuso. La stagione sportiva non è ancora iniziata, chissà quando si potrà tornare a vedere una partita dal vivo. Procedo per West End, dopo Whole Food scorgo il Museo di Storia Afro-Americana. Anche questo è chiuso.

Gli Stati Uniti – o l’America, nell’accezione che spesso si usa in italiano, come se ne esistesse una sola – non sono molto cambiati dagli anni Ottanta. George Floyd è stato ucciso il 25 maggio di quest’anno, soffocato per otto minuti e 46 secondo dal ginocchio di un poliziotto bianco. A Kenosha, Wisconsin, il 23 agosto, un poliziotto ha sparato per ben sette volte nella schiena di Jacob Blake mentre questi tentava di entrare nella propria autovettura. I suoi tre figli, di otto, cinque e tre anni, seduti nei sedili posteriori, hanno assistito all’esecuzione. Secondo dati raccolti dal Washington Post, 1020 sono le persone uccise quest’anno dalla polizia americana: gli afroamericani muoiono nelle mani delle forze dell’ordine ad una percentuale due volte e mezzo maggiore di ogni altro gruppo etnico.

Proseguo. A pochi isolati si trova il Tempio N. 11, fondato da Malcolm X. Quanto suonano profetiche oggi le sue parole, non è vero? Qui dietro si erge la Massachusetts State House, ne scorgo la cupola: cerco la placca commemorativa del famoso discorso tenuto da Martin Luther King nel 1965. Alla morte del reverendo, Indro Montanelli scrisse: “Non aveva la stoffa del grande capo carismatico, trascinatore di folle. Gliene mancavano anche i requisiti fisici, che specie agli occhi di una popolazione ancora PRIMITIVA e INFANTILE come quella di colore hanno la loro importanza.”

Non si tratta solo di beceri residui della cultura fascista, piuttosto della stessa retorica che oggi viene usata contro gli immigrati o gli italiani di prima e seconda generazione. Mi torna in mente un particolare. Durante le ricerche per questa storia, qualcuno mi ha parlato di Van Zandt come l’esempio di come gli italiani, in fondo, non fossero mai stati razzisti… detto da un bianco ad un bianco, mi risuona nelle orecchie come un’ammissione di colpa.

La brezza oceanica si trasforma in un fastidioso senso di vergogna. Per fortuna tutt’intorno i negozi espongono cartelli in supporto di Black Lives Matter. So che molti sono solo di facciata. Ma è una facciata importante, che echeggia e da forza a tante vittime invisibili. Quanti siamo i bianchi disposti a scendere in piazza per protestare contro il razzismo? Tanti, per lo meno qui, negli Stati Uniti. Rivedo le manifestazioni che quest’estate, da Minneapolis e Kenosha si sono estese a tutto il continente, e poi in tutto il mondo. Non trovo la placca commemorativa, ma scopro un monumento che racconta una storia che non conoscevo. È dedicato a Crispus Attackus, il primo martire della Rivoluzione Americana. Non un aristocratico, non un bianco, bensì uno schiavo di origine afro-americana ed indiana. Sono ormai arrivato a Boston Common, il sole splende sopra gli aceri rossi che ossigenano il parco. Mi siedo su una panchina. Immagino Bill Russell e KC Jones arrivare, li vedo da lontano, alti, giovani, eleganti come usavano gli atleti e gli intellettuali di una volta. Apro un libro che ho comprato in un negozio dell’usato. Una gemma, è una prima edizione, originale del 1955. Leggo.

“È giunto il momento di rendersi conto che il dramma interrazziale messo in scena nel continente americano non ha solo creato un nuovo uomo nero, ma anche un nuovo uomo bianco. Nessuna strada riporterà mai più indietro gli americani alla semplicità del piccolo villaggio europeo dove gli uomini bianchi si permettono ancora il lusso di considerarmi un estraneo. In realtà non sono più un estraneo per nessun americano vivo. Ciò che distingue gli americani dagli altri popoli è che nessun altra popolazione è mai stata così profondamente coinvolta nella vita degli uomini neri, e viceversa. Di fronte a questo fatto, con tutte le sue implicazioni, si può vedere che la storia del problema dei neri americani non è solo macchiata dalla vergogna, ma è anche una sorta di conquista. Perché, anche quando il peggio è stato detto, bisogna anche aggiungere che la sfida infinita posta da questo problema è stata sempre, in qualche modo, perennemente accolta. È proprio questa esperienza nero-bianco che può rivelarsi di valore indispensabile nel mondo che affrontiamo oggi. Questo mondo non è più bianco, e non sarà mai più bianco di nuovo.”

James Baldwin, Notes of a Native Son (1955)

Si ringraziano per i contributi la Black Five Foundation, Rhinold Lamar Ponder, Dan Gay III, Saverio Luigi Battente, Mario Arceri e Valerio Bianchini.

[parte 4 di 4Leggi tutte le 4 parti:

The clutch – canestri e razzismo sotto pressione (1/4)

The clutch – canestri e razzismo sotto pressione (2/4)

The clutch – canestri e razzismo sotto pressione (3/4)

The clutch – canestri e razzismo sotto pressione (4/4)

immagine via Wikimedia Commons

Corrosioni

2

di Arben Dedja 

 

Lo stuzzicadenti

 

Ah sì lo stuzzicadenti

me lo ricordo

eravamo in quel tal ristorante

i telegiornali tuonavano

i giornali con titoli in prima pagina

sul piano quinquennale

Photosynthesis

1

di Federica Adriani

Le Parche

Passato  Presente   Futuro
porcellana filata per
conchiglie

**

In posa di cosa morta

Anche i morti sentono freddo
e allora mi copro e mi copro
e mi ricopro

i morti non parlano
mangiano foglie colore d’ebano

In posa di cosa morta riesco a sognare
senza neanche chiudere gli occhi
Le mie membra tutte libere godono

Esorcizzo la mia estinzione
in assenza di me
altrove

**

Κoχλίας o della chiòcciola

perfettamente dotata
accogliente quanto basta
per uscire a incontrare il mondo
e accoglierlo dentro
Abitare è un esercizio di confidenza con sé stessi
occorre tenere sempre a mente
che anche gli alberi migrano

Appropriazione indebita

0

(La mia microcasa editrice del cuore ha appena pubblicato un librino densodenso che merita d’essere letto. A detta dell’autore quanto scritto e detto da Ray Bradbury non ha nulla a che vedere con coloro che si definiscono “fascisti del terzo millennio”.

E poi aggiunge: “Secondo me è menzognero citare Ray Bradbury fra gli ottantotto numi tutelari di un’organizzazione i cui membri si sono autodefiniti “fascisti del terzo millennio”. Secondo me il fascismo lo fa chiunque parli male e faccia parlare male; e, parlando male e facendo parlare male, pensi male e faccia pensare male.”

L’editore ci regala un breve estratto del libro che qui volentieri pubblico, ringraziandolo. G.B.)

di Marco Sommariva

In un’intervista del 1964, A portrait of genius: Ray Bradbury, Bradbury racconta che “Durante il regime del terrore di McCarthy ho scritto un romanzo intitolato Fahrenheit 451, un attacco diretto contro il tipo di forza distruttiva del pensiero che rappresentava nel mondo. Eppure pochissime persone mi hanno accusato di aver ideato un romanzo contro McCarthy. Sono riuscito a far propaganda senza essere lapidato o preso a pugni. Più avanti, in Russia hanno diffuso una versione pirata del libro, che pare abbia riscosso un certo successo. Naturalmente, trattandosi di fantascienza, nessuno ha capito che mi riferivo a tutti i tipi di tirannie presenti nel mondo, di destra, sinistra o centro. Perciò sono stato una forza sovversiva […] tanto nell’URSS quanto, contemporaneamente, qui”.

Nell’intervista realizzata da Arnold R. Kunert nel 1972, Ray Bradbury: on Hitchcock and other magic of the screen, lo scrittore americano trova che “François Truffaut abbia fatto un buon lavoro con Fahrenheit” che è un “film bellissimo. Incalzante” e che “la cosa magnifica è che, ogni volta che brucia un libro, Montag ci intrappola nei nostri pregiudizi. Ciascuno ha sicuramente un libro che, se arso, lo porterebbe a dire: «Va bene. Brucialo pure». Ma poi, ripensandoci, esclamerebbe: «Un momento! Fermati!»”. All’intervistatore che gli fa notare che la scena in cui Truffaut mostra dei titoli specifici divorati dalle fiamme, aveva scatenato reazioni piuttosto forti da parte dei suoi studenti perché, anche se è soltanto funzionale al film, molti di loro si sono sentiti offesi dal fatto che quei libri siano stati bruciati davvero, lo scrittore risponde: “Ci credo! Ma era esattamente questo l’effetto che Truffaut sperava di ottenere! E quel che è peggio è che, nella nostra società, esistono individui i quali brucerebbero molto volentieri i libri, se ne avessero la possibilità”.

Dieci anni dopo, nell’intervista Shooting haiku in a barrel, facendo riferimento a Fahrenheit 451, alla domanda “Potresti farci un altro film?” Bradbury risponde “Non credo sia necessario: amo il film di Truffaut […]”.

Nell’intervista realizzata da Rob Couteau nel 1990 a Parigi, The romance of places, Bradbury fa notare che il suo libro Fahrenheit 451 parla “dei totalitarismi di tutto il mondo: siano essi di destra o di sinistra, ovunque si trovino, sono tutti dei bruciatori di libri. È per questo che Fahrenheit continuerà a essere letto in tutto il mondo. Perché esistono ancora regimi totalitari. E incendiari di libri. Verrà letto finché queste realtà, fossero anche solamente delle minacce, continueranno a esistere”.

Nell’intervista realizzata da Ken Kelley nel 1996, Playboy interview: Ray Bradbury, lo scrittore americano dichiara “sconfortante” il fatto d’aver previsto in Fahrenheit 451 l’avvento del politicamente corretto con quarantatré anni di anticipo e ricorda questo passaggio del suo romanzo: “A un certo punto, il capo dei pompieri descrive come le minoranze, una per una, tappino le bocche e le menti della gente, rievocando dei precedenti – bruciateli entrambi o, almeno, non menzionateli mai; ai neri non piaceva che il negro Jim stesse sulla zattera con Huck – bruciatelo, quantomeno nascondetelo; le femministe odiavano Jane Austen e la consideravano incredibilmente sconveniente, in un’epoca tremendamente all’antica – tagliatele la testa; i gruppi conservatori, difensori del valore della famiglia, detestavano Oscar Wilde – tornatene nell’armadio, Oscar; i comunisti odiavano la borghesia – fucilatela! E potrei andare avanti… Se allora scrivevo della tirannia della maggioranza, oggi parlerei di tirannia delle minoranze. Oggigiorno, in realtà, bisogna stare attenti a entrambe. Ambedue cercano, infatti, di controllarci. La prima, facendoci ripetere la stessa cosa all’infinito. Il secondo tipo di tirannia, invece, è ben descritto dalle lettere che ho ricevuto dalle ragazze di Vassar, le quali mi chiedevano d’inserire più femminismo nelle Cronache marziane, o da quei neri che volevano più personaggi di colore in Dandelion wine. […] Avrei voluto dire a entrambe le categorie: «Che siate maggioranza o minoranza, piantatela!». Che tutti quelli che vogliono dirmi cosa devo scrivere vadano al diavolo! La loro società si frammenta in sottosezioni di minoranze che, in effetti, bruciano i libri, proibendone la lettura”.

Nell’intervista realizzata da Sam Weller nel 2010, apparsa su The Paris Review, alla domanda se la fantascienza è un genere che offre allo scrittore un modo più facile per esplorare un concetto, Bradbury risponde: “Prenda Fahrenheit 451. Parla di libri che bruciano, un argomento molto serio. Per non correre il rischio di cadere nel paternalismo, ambienti la tua storia in un futuro non troppo lontano, inventi un pompiere che brucia libri invece di spegnere incendi – che è già una grande idea – e lo lanci all’avventurosa scoperta del fatto che forse i libri non devono essere arsi. Legge il suo primo libro. Se ne innamora. Lo immetti sulla strada che gli cambierà la vita. È una storia di grande suspense, che racchiude la verità che si vuole raccontare senza bisogno di fare prediche”.

Dato che Bradbury ha chiaramente espresso che il suo libro Fahrenheit 451 parla dei totalitarismi di tutto il mondo, vediamo se quello vissuto in Italia può essere ricondotto al suo romanzo.

Dal saggio La villeggiatura di Mussolini: “In Fahrenheit 451 i ribelli al divieto di possedere e leggere libri trasmettono gli uni agli altri i testi imparati a memoria, passeggiando in un bosco. I confinati comunisti a Ponza e nelle altre isole ogni dieci giorni si dividevano in gruppetti di tre o quattro e si mettevano a camminare su e giù per il corso principale: «Anche il più stupido dei poliziotti», ha scritto Pietro Secchia, «capiva che era il giorno del rapporto politico». La trasmissione del rapporto durava alcuni giorni e quindi la scena, per certi versi simile a quella del bel film di François Truffaut, si ripeteva con una certa regolarità. E proprio come in Fahrenheit 451 quel momento della comunicazione tra esseri umani perseguitati ma decisi a resistere, assumeva significati che coinvolgevano valori fondamentali e proiettavano un raggio di luce verso il futuro”.

Letto quanto sopra, parrebbe che il totalitarismo vissuto in Italia sia riconducibile alla distopia immaginata in Fahrenheit 451.

In Fahrenheit 451 Bradbury cita, fra gli altri, il Mahatma Gandhi, Jonathan Swift, ed Henry David Thoreau; li comprende tutti e tre fra gli autori di opere meritevoli d’essere ricordate, trasmesse ai posteri. Accennerò a questi tre autori nei prossimi capitoli.

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Il realismo performativo de “La Fiaba di Natale”. Il sorprendente viaggio dell’Uomo dell’aria di Simona Baldelli (Sellerio, 2020)

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di Enrica Maria Ferrara

 

Un uomo in là con gli anni, che a suo tempo è stato un famoso funambolo, si prepara ad affrontare un’ultima traversata. Mette a punto con precisione scientifica il suo piano che prevede un meticoloso studio delle condizioni atmosferiche, dell’equipaggiamento meccanico e delle leggi fisiche che ne permetteranno la realizzazione. Nelle settimane precedenti al Natale, il piccolo uomo magrissimo, con le giunture arrugginite, la prostata ingrossata e un sogno negli occhi, si solleverà su un cavo teso tra l’ultimo piano della vecchia biblioteca e il campanile della chiesa abbandonata a 175 metri di distanza. Partirà all’alba, un corpo sospeso in equilibrio precario sul sottile palcoscenico a cielo aperto, impugnando il suo bilanciere come uno scettro, pregustando la sorpresa del pubblico che di lì a poco si assembrerà sotto il filo ad osservarne le prodezze.

“Appoggiò la punta del piede e la fece scivolare in avanti con delicatezza, finché tutta la pianta aderì perfettamente al cavo. Molleggiò impercettibilmente sulle ginocchia; un dolore sordo si fece vivo nella zona del crociato. Spostò il peso del corpo sulla gamba destra. Con il piede sinistro disegnò un piccolissimo arco nell’aria. Lo riportò sul cavo, lo rattrappì e distese, lentamente, per trovare la presa più salda. Un grande bruco che avanza su un ramo.” (p. 11)

Non è chiara la ragione per cui l’uomo ha deciso di esibirsi in un gesto così estremo, donando ai concittadini uno spettacolo imprevisto che genererà un misto di sorpresa, sgomento, eccitazione, paura. Uno dopo l’altro, si avvicendano accanto e sotto al cavo vari personaggi che provano a interrogare il funambolo per dissuaderlo dall’impresa e smascherarne i motivi reconditi. Sfilano un pompiere, un poliziotto, la figlia dell’uomo scomparsa da tempo, la bibliotecaria, uno scienziato. A un certo punto compare anche una troupe televisiva che organizza una diretta per approfittare del fatto che presto l’acrobata si trasformerà in un “trend-topic”, in un hashtag dei social, facendo schizzare in alto la curva dei “rilevatori di audience”. Mentre l’Uomo dell’aria avanza con passo di lumaca, la domanda a cui tutti cercano di trovare risposta è: perché lo fa? Sarà un terrorista, il capo di un’organizzazione criminale o addirittura un medium che comunica con abitanti di altri mondi attraverso un tunnel spazio-temporale? E man mano che la storia va avanti abbiamo la netta sensazione che quell’interrogarsi sia l’obbiettivo cui la narrazione tende.
Da che ho finito di leggerlo, continuo a girarci intorno. In qualche modo l’Uomo dell’aria mi attende, mi fa cenno di seguirlo. Non riesco a liberarmi dell’immagine che Simona Baldelli ha messo in calce al libro, quella dell’Uomo dell’aria che “le si presentò un pomeriggio di ottobre, qualche anno fa” (p. 179). Nel corso di un’intervista alla radio, ho sentito la scrittrice confessare che un giorno, mentre stava lavorando ad un progetto di scrittura del quale non riusciva a venire a capo, il funambolo le si sedette accanto per parlarle di quell’ultima passeggiata di 175 metri, nella quale avrebbe voluto che lei lo accompagnasse raccontandola.
La concretezza di quell’immagine non dovrebbe stupirmi perché ad essa corrisponde la solidità del personaggio narrato, tutto nervi, prodezza fisica ed energia mentale, un uomo che investe nella sua impresa passione, immaginazione e conoscenza puntuale delle leggi che governano la gravità, il volo, lo stare sospesi. Vengono subito in mente i personaggi pirandelliani che fanno visita al suo autore, lo tormentano mentre lui sta scrivendo un’altra pièce, si calano di prepotenza nella sua creazione.
E della coincidenza non dobbiamo stupirci perché Baldelli è innanzitutto persona di teatro, la sua arte si è formata nello studio della voce, del gesto, della performance, è stata attrice e drammaturga prima di passare alla scrittura narrativa. Il suo funambolo è figura della tradizione “comica” e circense che da un lato si ricollega al teatro dell’avanspettacolo di Petrolini, Totò e Macario, dall’altro alla maschera melanconica e clownesca dei vagabondi chapliniani che popolano i film di Fellini, primo fra tutti La Strada (1954).
Ed è proprio al funambolo de La strada di Fellini, il Matto (interpretato da Richard Basehart) che compare per la prima volta nel film su un cavo altissimo teso fra il tetto della chiesa di Bagnoregio e l’attico del palazzo Barboux, che la mia mente è corsa quando ho sentito parlare dell’Uomo dell’aria di Simona Baldelli. Il Matto di Fellini avanza con la sua asta fra le mani, acclamato dal pubblico sottostante — prima fra tutti l’eterea Gelsomina/Giulietta Masina—che ne accompagna la traversata con schiamazzi e terrorizzati silenzi. A un certo punto l’acrobata si siede sul filo a mangiare un piatto di spaghetti, finge di capovolgersi e si rimette in piedi. La scena è commentata da una presentatrice che impugna un grosso microfono, progenitrice della giornalista che si accampa sul set della Fiaba di Natale per intervistare il pubblico, rovistare nel passato dell’Uomo dell’aria, rubarne l’anima e poi darla in pasto al mostro mediatico da cui siamo tutti assediati.
L’innocenza del Matto, la sua irriverenza e il principio di necessità che domina la sua natura—per cui, ad esempio, non può fare a meno di scagliarsi contro il bruto Zampanò—sono caratteristiche rintracciabili anche nell’Uomo dell’aria il quale non sa spiegare la vera ragione del suo bisogno di camminare sul filo. Nonostante i piani meticolosi da lui orditi, non sa fornire una motivazione che vada oltre l’elementare impulso ad assecondare la propria natura. Il funambolo, quello felliniano e quello baldelliano, ci esorta innanzitutto ad essere noi stessi, anche se questo significa spingersi al limite dell’immaginabile, sfidare le leggi della fisica, disegnare un tracciato mai concepito fino a quel momento, e farlo sotto gli occhi di tutti. L’utopia di un idealista, verrebbe da pensare, che ci propina la materia dei sogni e delle fiabe. Senza dubbio. Ed è questo il punto. O uno dei punti.
“Le fiabe sono vere”, diceva Italo Calvino nella memorabile introduzione alle Fiabe italiane. “Sono il catalogo dei destini che possono darsi a un uomo e a una donna, soprattutto per la parte di vita che è appunto il farsi di un destino […] dalla nascita […] alle prove per diventare adulto e poi maturo, per confermarsi come essere umano” (I. Calvino, “Introduzione”, in Fiabe italiane raccolte dalla tradizione popolare durante gli ultimi cento anni e trascritte in lingua italiana dai vari dialetti, Torino, Einaudi, 1956, Vol. I, p. xviii).
Se c’è un insegnamento calviniano di cui Simona Baldelli, finalista al Premio Calvino 2013 (e poi vincitrice del Premio John Fante) con il romanzo magico-realista Evelina e le fate (Giunti), sembra aver fatto tesoro, è proprio questo. La casistica ripetitiva e tipizzante delle fiabe—con i re, le regine, gli eroi, i mostri da sconfiggere, le donzelle in pericolo, i ricchi e i mendicanti—adempie al suo ruolo di rassicurante catalogo che si può rimescolare per creare una storia imprevista, un nuovo tassello nella giostra universale dello storytelling. Questa scheggia colorata e inattesa è appunto l’Uomo dell’aria, un “essere”—prendo ancora in prestito le parole di Calvino—“determinato da forze complesse e sconosciute”, dominato dal dovere elementare di “autodeterminarsi” e “liberare gli altri”, consapevole che è impossibile liberarsi da soli ma che bisogna “liberarsi liberando” (Ivi, p. xviii).
La prova cui si sottopone l’eroe della Fiaba di Natale, e sul cui significato si interrogano gli astanti, potrebbe essere dettata da un capriccio senile, un disperato bisogno di esibirsi, o anche solo dall’urgenza di sentirsi vivi esercitando il corpo, strappandosi alla vita sedentaria—sentimento che alla generazione passata per le restrizioni della libertà di movimento imposte nel 2020 sarà estremamente familiare. Potrebbe anche essere la risposta automatica al richiamo della propria natura, intesa non come insieme di qualità essenziali ma come tensione alla realizzazione di un’identità centrata sul principio di autodeterminazione—e in tal senso, oltre al funambolo felliniano, l’Uomo dell’Aria ci riporta alla mente il suo illustre antenato sospeso, il barone rampante Cosimo Piovasco di Rondò, che per nessuna ragione apparente saltò sugli alberi del bosco di Ombrosa all’età di 12 anni e lì rimase fino alla fine dei suoi giorni.
Ma c’è di più nell’universo baldelliano.
All’illuministico e razionalissimo sforzo del giovane barone arboricolo che pare essere sorretto sulla cima degli alberi da un mero impulso volontaristico—metafora, come si sa, di un’aspirazione ad un modo diverso di essere intellettuale che consente di far parte per se stesso pur mantenendosi coerente con le proprie ideologie e la propria formazione—Simona Baldelli contrappone un omino apparentemente gracile, semi-pensionato, la cui impresa è resa possibile da un misto di resilienza, allenamento del corpo, consapevolezza (oggi diremmo mindfulness) e studio approfondito di coordinate, equazioni fisico-matematiche, carrucole e ventature.
La performatività del gesto del funambolo, l’aver camminato tante volte su quel filo in passato e il conoscere le regole di uno spettacolo apprezzato dal pubblico, ne garantirà il successo. Uscendo fuor di metafora, l’artista incarnato dall’Uomo dell’aria conosce a fondo i ferri del mestiere, le leggi anche non scritte della disciplina di cui si occupa, i rischi che le opinioni dello spettatore e i tentativi di manipolazione da parte dei media comportano, e sa che il suo ruolo è quello di perseguire ostinatamente il compito che si è prefisso tenendo gli occhi puntati sul traguardo: 175 metri, non uno di più non uno di meno. L’arte è pozione alchemica fatta di numero, studio ed estro.
Ma anche questo non è sufficiente. Non bastano il talento, l’abilità, il calcolo matematico dei passi da compiere, il computo dell’attrito, della resistenza, degli ostacoli naturali e sociali che bisognerà affrontare. C’è un elemento in più che Simona Baldelli ci propone nei panni di un’apparizione magica, parente delle fate che popolano il suo primo romanzo, della nuvola d’oro che accompagna la protagonista doppia Caterina-Antonio de La vita a rovescio (Giunti, 2016) e della piccola ombra che precede l’altra protagonista doppia, Clelia-Amalia, de Il vicolo dell’immaginario (Sellerio, 2019). È uno spiritello che compare sul filo un giorno che il funambolo si sta esibendo in uno dei suoi numeri più arditi, un simulacro formato dall’addensarsi granuloso di puntini luminosi e colorati: “L’Uomo a colori gli venne incontro danzando, poi fece un balzo, aprì le gambe e cadde in una spaccata perfetta.” (p. 42)
Stupito dalla nuova presenza e consapevole che l’Uomo a colori è visibile solo a lui, l’acrobata ne osserva i movimenti e comprende che la figura magica lo esorta ad imitarne i gesti: “L’altro sollevò il cappello blu e fece un inchino, poi con la mano disegnò un movimento rotatorio all’indietro, imitando la piroetta eseguita poc’anzi.” (p. 43). Così, replicando mosse che solo lui può vedere, l’Uomo dell’aria riesce per la prima volta a fare la capriola sul filo, senza la rete di protezione, davanti al pubblico sbalordito ed esultante.
Abbiamo la netta sensazione che Baldelli ci stia indicando l’esistenza di un mondo di possibili che esiste parallelamente al nostro e che viene in essere grazie alla nostra capacità di vederlo come se già esistesse, perché esso, di fatto, già esiste in realtà. Si tratta di un universo altro da quello che riusciamo a percepire con i nostri cinque sensi e seguendo il principio causa-effetto della logica aristotelica e della fisica newtoniana. È piuttosto il mondo dell’infinitamente piccolo, governato dai principi di indeterminazione e probabilità della meccanica quantistica, dove gli elettroni possono comportarsi di volta in volta come particelle ed onde a seconda dell’interazione con l’osservatore e con la strumentazione adoperata per osservarli. Non starò qui ad addentrarmi nei minuti dettagli della questione, ricostruita mirabilmente da Carlo Rovelli nel suo Helgoland (Adelphi, 2020). Quello che importa è che la presenza del folletto di luce—e di tutte le entità cosiddette magiche nei romanzi di Simona Baldelli—può essere interpretata come elemento visionario e fantastico (nella prospettiva newtoniana) o come elemento realistico (nell’ottica quantistica), nei termini di un realismo che è stato definito “performativo” o “agenziale” (Karen Barad, Meeting the Universe Halfway: Quantum Physics and the Entanglement of Matter and Meaning, Duke University Press, 2007). Se optiamo per la seconda ipotesi, allora accettiamo che la realtà già esista in diversi possibili stati (il gatto vivo e morto di Schrödinger) e che l’Uomo a colori non sia altri che l’Uomo dell’aria, la forma di se stesso con la quale il funambolo aspira a ricongiungersi: ci riesce, appunto, compiendo il tragitto di 175 metri.
Se dunque uno degli ingredienti fondamentali dell’identità performativa, dell’artista o semplicemente dell’homo faber, rivelataci dal funambolo di Simona Baldelli consiste nel visualizzare se stessi in una forma che già esiste e che dobbiamo semplicemente attualizzare fra le tante forme possibili, ciò non vuol dire che possiamo metterci passivamente in posizione di attesa. Dovremo infatti approntare la scena, affilare i ferri del mestiere, allenare la mente e il corpo, e perseguire un obbiettivo misurabile che agli altri potrebbe apparire velleitario ma che per chi lo sceglie è in fin dei conti la strada della libertà.
Liberando se stesso nella performance alata della sua autodeterminazione quantistica, l’uomo della Fiaba di Natale diventa l’eroe di una fiaba tutta contemporanea che apre il cammino ad una nuova dimensione fisica ed etica.

Da Parigi a Damasco, alla ricerca della Siria promessa

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di Giuseppe Acconcia

Il romanzo epistolare di Hala Kodmani La Siria promessa (traduzione di Elisabetta Bartuli, Francesco Brioschi Editore, 2020, pp.232, 18 euro) racconta le speranze di tre generazioni di una famiglia della borghesia di Damasco di vedere il cambiamento nel loro paese. L’autrice, corrispondente dalla Siria per Liberation e L’Express, nel 2013 ha vinto il premio della stampa diplomatica francese (Apdf), realizzando in seguito memorabili reportage dalla città di Raqqa, assediata dallo Stato islamico (Isis). Ispirata dalla rivoluzione del cyber-attivismo che ha segnato le Primavere arabe del 2010-2011 (di cui in queste settimane ricorre il decennale), l’autrice si impegna in una corrispondenza via mail con suo padre, da poco scomparso, il diplomatico Nazem, naturalizzato francese dopo il carcere e l’esilio forzato in Francia per aver criticato il regime siriano di Hafez al-Assad. Il testo originale e coinvolgente parte da un dibattito su radici, “identità nazionale” francese e razzismo quanto mai di attualità. Definendo “irritanti” alla stessa stregua islamofobi, islamisti e islamofili d’oltralpe, Hala comprende il desiderio di alcuni giovani arabi, come il figlio Zeyd, di lasciare la Francia per il Canada con l’obiettivo di schivare il razzismo dilagante. E si scontra così con le convinzioni del padre che, dall’amore per i cimiteri parigini, è passato a idolatrare il “negativismo francese” a tal punto da non voler vederlo sciupato. Eppure l’autrice incalza, riferendo di una Francia che ha perso la sua autenticità e trasformata ormai in “museo”. Mentre il padre, che ha molto facilmente ottenuto la cittadinanza francese perché nato durante il mandato coloniale, ripercorre il suo rifiuto della futilità della tirannia dell’autoritarismo siriano. Il dialogo epistolare tra padre e figlia acquista vigore con lo scoppio delle rivolte in Tunisia, la così detta “Rivoluzione dei Gelsomini” che le ha dato la “gioia” di vedere la fine del regime dell’ex presidente Zine El Abdine Ben Ali dopo proteste con grande partecipazione popolare. Eppure la notizia non sorprende il padre che ha sempre creduto nel “risveglio dalla sottomissione” dei popoli arabi. Ancora più emozionante è l’escalation della cronaca che coinvolge giorno dopo giorno piazza Tahrir al Cairo, fino alle strade di Bengasi in Libia e le vie di Daraa in Siria. «La sorpresa è totale e globale […] Supera ogni immaginazione […] Questi giorni hanno del miracoloso», ammette Hala, confrontando le manifestazioni del 2011 con la quasi totale assenza di reazione alla disastrosa guerra in Iraq del 2003. Richiamando la necessità di “giustizia sociale” richiesta a gran voce dalle strade di Tunisi e del Cairo, Hala non esita a definire le proteste un “movimento ineludibile” che unisce le contestazioni degli anni Cinquanta a quelle del Duemila e così facendo mette insieme due generazioni di oppositori ai regimi autoritari della regione. L’autrice ammette che sono state proprio le Primavere arabe ad aver segnato il suo primo accesso nel mondo dei social network, da Facebook a Twitter, e che proprio attraverso queste piattaforme i giovani egiziani, tunisini, siriani, libici, yemeniti riuscivano ad organizzarsi, attraverso coordinamenti dal basso (tansiqiya) e superando i controlli di uno stato poliziesco. E così gli attacchi alle sedi del partito Baath e le proteste del venerdì non possono non risvegliare anche in Nazem la nostalgia per il suo deluso impegno marxista giovanile, mentre l’entusiasmo più sincero pervade le pagine del libro. Hala inizia a organizzare la diaspora siriana a Parigi e a viaggiare verso Damasco, chiusa ai giornalisti stranieri, per sostenere le aspirazioni delle opposizioni, inclusi i curdi. «Bisogna partecipare a questo movimento straordinario, sostenerlo mettendo in campo le proprie competenze e la propria esperienza», aggiunge l’autrice. A questo punto Nazem, critico ma non militante dopo l’assassinio dell’editore Salah Bitar nel 1980, racconta i terribili giorni del carcere prima di fuggire per la Francia. Eppure la speranza lascia presto il posto al buio della distruzione, di alti militari che non si ribellano a Bashar al-Assad, della strumentalizzazione delle minoranze, della guerra civile, dei manifestanti uccisi a fucilate, delle migliaia di morti. E così Hala e Nazem chiudono il loro dialogo con l’umore della sconfitta, del fallimento ma anche della consapevolezza di una “rottura profonda” che segnerà la loro Siria promessa.

Fate Morgane

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Le visioni di Marilena Renda hanno un preciso contesto geografico di riferimento, eppure proprio per questo sfuggono, costantemente: la memoria non scrive più le mappe dei luoghi, che restano in attesa di svanire o divenire. Perfino l’amore è una fata morgana: fatale segno del destino, che permane in impressioni, più che nella reciproca comprensione. Nei corpi della madre, della figlia e dei bambini del mare (in senso reale, con riferimento ai migranti, e simbolico, come creature più forti e selvagge dei loro genitori), affiora una verità tutta fisica e sensoriale, in cui trovare riconciliazione. Forse la sospensione delle fate è l’enigma della parola che insieme contiene e tradisce il passato, anticipa e fallisce il futuro, ma continuamente si china per accogliere. Parafrasando i versi di una poesia: “fa le prove” per un mondo e il suo successore. (FM)

di Marilena Renda

 

È vero, della natura non ti puoi fidare,
ma non dovresti nemmeno disturbare i vulcani.
Potrebbero, se vogliono, emettere
quella bava di fuoco per cui sono famosi
oppure non fuoco, ma metano e fango,
un muro alto venti metri, o anche quaranta
che nelle belle giornate può sollevarsi
e seppellire una famiglia di tre persone.
Ci sono luoghi che non sono come appaiono,
come isole che compaiono all’improvviso
e spariscono dopo una settimana,
terreno per fate morgane e inganni perfetti.

 

***

 

Ti abbiamo spaventato, una sera, con gli anni Cinquanta,
i mercoledì sera che si sparava e i bambini che non uscivano,
con mio nonno che sparò al fidanzato della sorella
e gli zii americani che non disdegnano la compagnia
dei narcotrafficanti e dei feroci bestioni di Villabate.
Mio padre coltiva la leggenda dei mafiosi di una volta,
che aiutavano le ragazze a rompere i fidanzamenti
e i paralitici ad ottenere le sedie a rotelle.
Mio nonno contrabbandava grano ed era protetto da Giuliano
e da strani Robin Hood che gli permettevano di trafficare.
Non volevo spaventarti, e non ti ho neanche consolato,
il giorno dopo, in aeroporto, quando sentivi ancora
il fischio delle pallottole alle spalle,
quando mi sono liberata della tua innocenza,
e superato Montelepre, le pietre, le montagne dei briganti
ho gettato dal finestrino la protezione e quel che resta.

 

***

 

Non avevo mai visto una casa, quindi la trovai spaventosa.
Venivamo da una tana, conoscevo solo tane.
Mia madre non aveva più lo sguardo del terremoto,
la gonna sgualcita e lo sguardo verso il basso
di quelli che provano a fare ordine nel terrore.
Le madri sono buone, buone come la terra
e la terra è buona anche quando non lo è affatto.
Il loro regno è potente e silenzioso
e nel sangue hanno la quiete della morte.

 

***

 

Partorirò un mostro perfetto,
già senza pregi,
che mi guardi
con l’odio della creatura
che prometto di ricambiare,
per espiare il detestabile dono
della vita.
Nessuno amerà tenerlo,
tutti frettolosi nel toglierselo dalle braccia.
Per questo ho ronzato attorno al sogno
finché non sei arrivata tu,
che adesso corri nel recinto
insieme a una bimba malata
che cade sulle mattonelle.
La madre la rimette in piedi,
e tu le piombi addosso
col tuo verso alluvionale,
mentre io ricordo la promessa
a cui non ho prestato orecchio
e che certamente si vendicherà.

 

***

 

per Bonaviri

 

Raccontami di nuovo la storia del bambino
che al tramonto strapparono alla madre
per innestare il suo corpo nel carrubo,
perché dalla circolazione di linfe e succhi
gli uomini ricavassero nuovo nutrimento.
È il padre che deve cibarsi dei frutti di questa infiorescenza,
mangiare carne giovane mescolata a foglie,
in modo da tornare dalla morte al figlio che lo cerca.
Raccontami di nuovo di come il figlio si illuse
di riportare il padre sulla terra e ribaltare le leggi di natura,
di come la madre si trovò perduta, in mezzo alla terra,
perduta, e poi che trovò il figlio-pianta sul punto della morte,
gli si abbracciò dimenticandosi tutta l’altra vita.

 

***

 

A Chernobyl, dopo l’evacuazione, i veicoli
sono rimasti a lungo sulla strada. La ruggine non ha fretta,
i bambini venivano su come capitava, in tempo di guerra
nessuno può pretendere attenzione.
Da dove arrivava la nube, tutto è stato sigillato.
A che serve coltivare le arti del passato,
i gesti classici, quando la terra muore?
Non c’è accordo, invece, su cosa fare delle rovine,
nessuno pensa a liberare le vecchie case dai mobili,
dai materassi, i libri e le bottiglie.
Il cinghiale e la lince corrono molti rischi,
ma possono sempre tornare dalla preda,
la foresta fa un silenzio che dice la verità,
gli animali ricordano l’uomo, ma in modo confuso
le categorie si sono mescolate nella zona d’esclusione
le foglie hanno cambiato forma
il mondo fa le prove di un altro mondo.

 

***

 

Una nigeriana, a Palermo, in via Juvara
ha gettato in un sacco ciò che resta di un bambino.
La sua morte fino a ieri sarebbe stata solo un pericolo scampato,
uno di quelli di cui si nutre con divertimento
la nostra storia di adulti, con le cadute dalle scale
gli incidenti stradali e i danni ai denti.
Quante cose non vedono i santi che proteggono,
tutta la violenza al centro di questo amore.

 

Poesie tratte da: Marilena Renda, Fate Morgane (L’Arcolaio, 2020)

The clutch – canestri e razzismo sotto pressione (3/4)

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di Riccardo Valsecchi – @inoutwards

[parte 3 di 4 – leggi la parte 1parte 2]

  1. RAZZISMO AL CONTRARIO

Boston, Massachusetts. 29 maggio 1987. La partita tra i Celtics ed i Pistons è finita, hanno vinto i primi: 117 a 114 il risultato finale. Ancora una volta, la terza negli ultimi quattro anni, la finalissima sarà tra Boston e Los Angeles. Ancora una volta, Magic contro Bird.

Nell’ultima gara contro Detroit, Larry è stato protagonista di un incredibile prestazione: 37 punti, 9 assists, 9 rimbalzi. Negli spogliatoi un giornalista dello sconosciuto quotidiano Orlando Sentinel si avvicina alla matricola dei Pistons Dennis Rodman. Non è ancora il Dennis Rodman devastante degli anni Novanta che vincerà tre titoli con i Chicago Bulls, neppure l’iconica star che farà parlare di sé per la relazione con la cantante Madonna, per le sfilate travestito da donna, per l’amicizia con il dittatore nord-coreano Kim Jong-un e per gli eccessi alcolici. In questo 29 maggio 1987, è semplicemente un ragazzone timido, introverso, con le orecchie a sventola, cresciuto nel ghetto di Newark, New Jersey, arrivato nella NBA come gregario e, per la prima volta nella sua vita, si sente parte di una famiglia dove nessuno lo giudica o prende in giro per essere nato povero e nero: i Pistons. Il cronista gli chiede un giudizio sulla prestazione di Bird: “Non è Dio,” risponde Dennis. “È bianco, altrimenti non avrebbe ricevuto il trofeo come miglior giocatore della Lega la stagione scorsa. Quel trofeo lo meritava Magic.”

Il giornalista va poi da Isiah che, in quanto star della franchigia, è circondato dai reporter dei maggiori quotidiani nazionali ed esteri. A brucia pelo aziona il tasto play del registratore, la dichiarazione di Dennis scorre dai nastri magnetici all’etere misto di sudore e tristezza che circola nello spogliatoio. Isiah sorride amaramente, ha appena perso la partita della vita, ci sta che sia affranto: “Io penso che Larry sia un ottimo, incredibile giocatore di basket,” risponde Thomas. “Un eccezionale talento, ma devo dare ragione a Rodman. Se Bird fosse stato nero, sarebbe stato semplicemente un buon giocatore come tanti altri.” Apriti cielo. Il mondo del basket, quel globo costruito attorno al mito della competizione “politically correct” tra Magic e Bird, tra nero e bianco, implode come un pallone bucato sulla testa della star di Chicago. L’accusa è di “reverse racism”, razzismo inverso.

I giorni successivi alla sconfitta sono surreali per Isiah. Viene invitato ad una conferenza a due con Bird, a Los Angeles, prima della partita che i Celtics si preparano ad affrontare contro i Lakers per l’assegnazione del titolo NBA. L’evento viene trasmesso in diretta. Da una parte c’è un Bird scocciato di dover interrompere la preparazione per questa pagliacciata mediatica; dall’altra Thomas è visibilmente scosso, con gli occhi lucidi. L’intervista che ha rilasciato un paio di giorni prima al giornalista del New York Times Ira Berkow non ha certo placato le polemiche: “Quando Bird fa una grande giocata, è dovuta alla sua intelligenza ed alla sua etica lavorativa. È tutto strategicamente pensato e rifinito da lui stesso. Non è la stessa cosa per un giocatore nero. Tutto quello che facciamo è correre e saltare. Non ci esercitiamo, non riflettiamo mai su come giochiamo. È come se io stesso fossi uscito dribblando dal grembo di mia madre. Sono commenti che si sentono in televisione, si leggono sui giornali. (…) Magic, Michael Jordan, me stesso, per esempio, sembra che giochiamo solo grazie al talento conferitoci da Dio, come se fossimo animali, leoni e tigri, che corrono selvaggi nella giungla, mentre il successo di Larry è dovuto all’intelligenza e al duro lavoro. I neri hanno combattuto questi stereotipi per così tanto tempo, ma esistono ancora, indipendentemente dal fatto che la gente voglia crederci o meno.”

Il punto di vista di Bird sulle dichiarazioni di Thomas è chiaro: “Se quello che ha detto Isiah non offende me, non capisco in che modo possa offendere voi.” Punto, discussione chiusa.

Per Isiah la condanna è già stata sentenziata. Come ad un criminale sul banco degli imputati, gli viene fatto ascoltare ancora una volta il nastro della registrazione. Le telecamere inquadrano le mani, gli occhi, primo piano a 45 gradi laterale sul viso, ne trasformano la passionalità e sincerità delle parole in una caricatura emotiva: “Sabato scorso è stato il giorno peggiore della mia vita. Ho perso la partita, sono stato accusato di essere razzista, ed ora sono il cattivo ragazzo – bad guy, bad boy! (…).”

Prende coraggio: “In questi giorni ho dato un’occhiata alla definizione di razzismo. Ha avuto qualcuno di voi la premura di farlo? Vi assicuro che è una brutta parola, sarebbe meglio non usarla a sproposito.”

  1. bis LA SEMIOSI INVERSA

“Noi tutti siamo impegnati in una società nel quale gli uomini e le donne devono avere eguali opportunità per avere successo, e proprio per questo motivo ci opponiamo alle quote razziali. Noi aspiriamo ad una società senza colori, una società che, nelle parole del Dr. Martin Luther King, giudica le persone non in base al colore della loro pelle, ma in base al contenuto della loro personalità.”

Ronald Reagan. 19 gennaio 1986, trasmissione radiofonica.

RISPOSTA: “Signor Presidente, la disoccupazione tra i neri adulti si attesta al 15.6%, mentre nel 1978 era al 12.3%. Il reddito medio di una famiglia afro-americana ammonta al 56% di una famiglia bianca. Presidente, la realtà è sotto gli occhi di tutti: 32% delle famiglie afro-americane sopravvivevano sotto la soglia della povertà nel 1980; oggi parliamo del 42%. Con quale coraggio può sostenere che questo vago concetto di “società senza colori” sia la migliore garanzia per una società priva di razzismo?”

William H. Gray, delegato al congresso per la Pennsylvania. 20 gennaio 1986.

Che cosa è il razzismo inverso? Per logica, se accettiamo la consueta definizione nell’enciclopedia anglosassone come “discriminazione diretta contro un membro di un gruppo etnico dominante o privilegiato,” o la fuorviante traslitterazione della voce inglese su Wikipedia Italia in “razzismo contro i bianchi”, si tratta di un ossimoro senza senso. Se il razzismo è l’abuso sistemico e sistematico di un potere o privilegio basato su principi etnici, si può parlare di pregiudizio, avversione, ma non certo di razzismo quando la “vittima” appartiene allo stesso gruppo dominante.

In effetti, il termine “razzismo inverso”, che appare negli Stati Uniti per la prima volta nel dibattito pubblico in quel 1865 che sancisce la fine della guerra civile e la formale, quanto fittizia, abolizione della schiavitù, si basa su un contorto assioma: che il contrario del razzismo non sia la sua assenza, una società libera da ogni forma di discriminazione, piuttosto una nuova forma di esso che ribalta la storia e, come nello stile delle più fantasiose teorie complottiste, trasforma i colpevoli in vittime, e viceversa. Ma, ancora più interessante, l’accusa di “razzismo inverso” manifesta una marcata negazione dell’esistenza del razzismo come manifestazione storica e dato di fatto, trasformandone la sua natura in pura rappresentazione retorica, una figura semantica che non esiste al di là del linguaggio politico: ma è la politica uno strumento atto a regolare la realtà in cui viviamo oppure un burlesco strumento di camouflage retorico?

10 anni prima di Larry Bird, i Celtics si chiamavano Bill Russell. Nel basket, nessuno aveva ed ha mai vinto tanto quanto Bill. Undici dei diciassette stendardi che oggi, anno 2020, pendono dal soffitto della nuova arena dove gioca la franchigia, portano il suo nome. Otto di questi arrivano di fila, dal 1959 al 1966, stabilendo la più lunga serie di titoli consecutivi nella storia degli sport professionisti americani. Nonostante i suoi due metri e otto di muscoli, Russ – così lo chiamano i compagni – non si distingue per prestanza fisica tra i giganti della National Basketball Association; non è neppure un’incredibile macchina da canestri, come il suo acerrimo rivale Wilt Chamberlain, che arriva addirittura a segnare 50.4 punti di media nella stagione 1961-1962. Eppure, grazie ad un’intelligenza e leadership fuori dal comune, Russ è considerato il giocatore più influente della storia del basket. L’abilità difensiva, la visione di gioco, l’introduzione della stoppata come arma di difesa e contrattacco, la rivoluzione del ruolo del pivot, il quale diventa, a suon di rimbalzi e schiacciate, il perno tattico attorno a cui si muovono gli altri giocatori, gettano le premesse per quello spettacolare gioco oggi emulato dai ragazzini e le ragazzine di tutto il mondo. Solo un paio di note fanno arricciare le ciglia anche dei più fedeli tifosi dei Celtics: Bill Russell è black, un nero. Per giunta, un nero che crede di poter cambiare il mondo, di poter sconfiggere il razzismo.

Corre l’anno 1964, che negli annali di storia anti-razzista verrà ricordato per l’assegnazione del nobel per la pace al reverendo Martin Luther King e la ratificazione del Civil Rights Act, ovvero il documento che sancisce l’abolizione della segregazione nelle scuole, negli uffici pubblici, sul posto di lavoro e nella liste elettorali. Boston, nonostante la fama di città liberale, roccaforte di quei Kennedy che hanno fatto dell’appoggio al movimento dei diritti civili il proprio baluardo politico, non è immune dal fenomeno segregazionista. Uno studio rivela che agli studenti afro-americani è consentito frequentare esclusivamente istituti nei quartieri black di South End, Roxbury e Donchester. Nel marzo dello stesso anno il reverendo James Bevel, braccio destro di Martin Luther King, guida una marcia di protesta da Roxbury allo storico parco di Boston Common, nel centro della città. Tra i 10 mila manifestanti, in prima fila, Russ ed il compagno di squadra K.C Jones. Nota a divenire: K.C. Jones sarà il futuro allenatore dei Celtics di Larry Bird dal 1983 al 1988.

“Non è necessario andare in Alabama per trovare la segregazione,” esclama dal palco il reverendo Bevel. “Basta uscire dalla porta di casa e camminare per le strade della vostra città.”

La folla applaude, Russ e K.C. si scambiano un’occhiata, poi, di scatto, si voltano a guardare i volti irritati dei giornalisti e poliziotti presenti. Un giovane assistente del Boston Globe chiede al suo principale che cosa abbiano detto. Quello bestemmia, poi sputa a terra: “Shut up kid, stai zitto ragazzino.” Come si permettono questi neri di infangare con l’ accusa di razzismo l’onore di queste coste dove approdarono i – bianchi – padri Pellegrini? Come possono offendere l’orgoglio della città in cui per primi un gruppo di patrioti – ancora bianchi – diedero il via alla rivoluzione contro la corona inglese? Con quale coraggio si azzardano a macchiare la nobiltà d’animo di questa società che diede i natali alla prima pubblicazione a stampa del romanzo abolizionista più famoso della storia moderna, “La capanna dello zio Tom” della scrittrice – ovviamente bianca – Harriett Beecher Stowe?

“Boston non è razzista”, sbotta una signora paffutella, con un cappellino fiorito, Mrs Louise Day Hicks, che, del Comitato Scolastico cittadino, è la presidentessa: “Al sud sono razzisti, lì esiste la segregazione, non a Boston.”

Il pensiero della Signora Hicks è basato, per così dire, su un trucchetto semantico: “Segregazione significa separare o dividere. Le scuole di Boston sono integrate, quindi non possono essere segregate.” Chiaro? Assolutamente no, ma nella contorta confusione tra significato e significante, Russel, originario di Monroe, Louisiana, profondo sud, non ci casca: non ha bisogno di nessuna elucubrazione retorica per riconoscere il razzismo e la segregazione. Si tratta di ferite che neppure lo status di super atleta osannato dalle folle hanno cancellato dalla sua vita. Il 17 ottobre 1961 i Celtics sono invitati ad una partita dimostrativa contro i Saint Louis Hawks a Lexington, Kentucky. Quando la squadra si presenta per la colazione presso la hall del Phoenix Hotel, il personale di servizio si rifiuta di servire i giocatori neri. Russel, Sam Jones e Satch Sanders, i tre giocatori afro-americani dei Celtics prendono il primo volo e ritornano a casa, organizzando il primo boicottaggio di una partita nella storia della NBA.

Casa… non proprio “home sweet home – casa dolce casa”, rimarca Bill. Ogni volta che i Celtics giocano in trasferta, la facciata dell’abitazione che la famiglia Russell ha affittato a Reading viene imbrattata con la scritta n-: “Una notte tornammo a casa dopo una vacanza di tre giorni,” rammenta Karen, la figlia di Russell, “e la trovammo in soqquadro.” I ladri non si erano limitati a rubare: “Avevano gettato a terra e distrutto i trofei di mio padre, versato birra sui divani e defecato nel letto dei miei genitori.”

L’abitazione diventa bersaglio quotidiano dei vandali, ma ogni volta è sempre la stessa storia: Bill chiama la polizia e le denunce finiscono nel dimenticatoio. Esasperato, decide di trasferirsi in un nuovo appartamento in un quartiere più sicuro. Il vicinato bianco puntualmente si oppone, protesta: non vogliono una famiglia afroamericana nei paraggi. Nulla di tutto questo appare nei quotidiani dell’epoca: sebbene si tratti dello sportivo più vincente – ed in quel 1964 più pagato – dello sport americano, un nero non ha il diritto di lamentarsi per qualche scritta offensiva sulle pareti di casa o per la merda lasciata in segno di disprezzo sopra il proprio letto nuziale.

Russ non molla: durante un post-partita negli spogliatoi del Garden, al giornalista George Sullivan dell’Herald Traveler che gli chiede come si trovi a Boston, risponde che “è la città più razzista degli Stati Uniti.”

Sullivan controbatte stizzito: “Non parlare in questo modo, potrei tirarci fuori un pezzo.”

Russ lo sfida: “Fallo, tanto non lo pubblicherà mai nessuno.”

Qualche settimana dopo Russ telefona al giornalista. Lo fa dal telefono negli spogliatoi, vuole che tutti gli altri giocatori lo sentano: “I am sorry Mr. Russell, mi dispiace Mr. Russell,” risponde Sullivan dall’altro capo della linea: “L’editore preferisce non pubblicare la storia.”

Russ ride, fragoroso, con un tono triste che perfora la traiettoria del suo eco: “I knew it, I told you, lo sapevo, te l’avevo detto…,” ripete fino a quando il suono della voce si affievolisce. Intorno, nello spogliatoio, nessuno osa dire nulla.

L’unico motivo che tiene Russell a Boston è un ebreo bianco, tarchiato, scontroso, e con un enorme Havana tra i denti. Con Russell quest’uomo, che tutti quanti chiamano Red, ha costruito la roccaforte Celtics su un semplicissimo concetto: lasciare fare a Bill ciò che vuole. Se è vero che le fortune di Arnold “Red” Auerbach si basano su un pacchetto di giocatori incredibili, dall’altra la sua gestione manageriale è visionaria: nel 1950 è il primo allenatore di una squadra professionista di basket a selezionare un giocatore afro-americano; nella stagione 1963-64 è anche il primo allenatore a schierare un quintetto di partenza di soli neri. E quando, alla fine della stagione 1966, Red decide di averne fin sopra i capelli di allenare, indovinate a chi decide di lasciare la panchina, nella doppia veste di giocatore ed allenatore? Ovviamente al pupillo Russell, che diventa il primo allenatore afro-americano della storia della NBA. È il 18 aprile del 1966 ed in una sala stampa gremita di giornalisti stizziti dal successo di questo atleta che non sa tacere di fronte alle ingiustizie razziali, una voce dal fondo lancia la domanda trabocchetto: “In quanto allenatore nero, pensi di essere in grado di mantenere parità di giudizio nei confronti dei tuoi giocatori bianchi?” L’accusa di razzismo inverso comincia a prendere forma.

La segregazione negli istituti educativi pubblici di Boston diventa uno scandalo di dominio nazionale nell’aprile del 1965, quando il nobel per la pace Martin Luther King giunge nella “città sulla collina” per partecipare ad una manifestazione pacifica. Il mese prima un nuovo studio ha rilevato che 55 scuole pubbliche nello stato del Massachusetts, di cui 44 in Boston, sono segregate. 90% degli studenti di colore continuano a frequentare istituti fatiscenti nei quartieri a maggioranza afro-americana. Quando i genitori tentano di iscriverli ad istituti più qualificati, le domande vengono rigettate. Il reverendo King conosce bene la gente che lo ascolta dal palco installato nel parco di Boston Common, tanto quanto il razzismo che tra i palazzi di questa metropoli si nasconde sotto una superficiale parvenza liberale: qui ha infatti studiato, nel triennio 1951-53, presso la Boston Universty, e a Roxbury, uno dei quartieri più segregati, è di casa. Alla locale Twelfth Baptist Church del reverendo Michael Haynes, fratello di Roy Haynes, mitico batterista di Charlie Parker, Martin Luther King ha cominciato il suo cammino pastorale, forgiando quell’inimitabile forza retorica che affonda le radici in un misto di gospel, predicazione, e rivendicazione di diritti umani.

“È stato proprio su queste sponde che la visione di una nuova nazione, concepita nel segno della libertà, è nata.” Piove sul capo dei 20 mila accorsi ad ascoltare il reverendo. “Ed è proprio da queste sponde che la libertà deve essere preservata.”

Ed è proprio da queste sponde,” ripete King, “che il cuore e le anime di ogni cittadino debbono preservare il mantenimento di quelle condizioni di giustizia e fratellanza necessarie per salvaguardare i figli del nostro Signore.”

Il tono sale: “Anche se abbiamo percorso un lungo tratto nella battaglia per trasformare i diritti civili e la fratellanza, il cammino è ancora lungo… non dobbiamo guardare troppo lontano per rendercene conto… basta aprire i giornali, accendere i televisori o volgere lo sguardo alla stessa società in cui viviamo… ci sono ancora così tanti problemi che dimostrano quanto siamo ancora lontani dall’aver raggiunto la terra promessa…”

Respira: “Ora è tempo di cessare la segregazione nelle scuole pubbliche. I nostri ragazzi e e le nostre ragazze devono poter crescere con delle prospettive. La segregazione debilita i segregati quanto coloro che segregano. È arrivato il momento, di mantenere le promessa della democrazia. È arrivato il momento, ora, di rendere questa fratellanza reale. È arrivato il momento, ora.”

La scossa data da King produce risultati. Nel giugno del 1965 il tribunale del Massachusetts passa il Racial Imbalacement Act, che non si limita a dichiarare illegale la segregazione nelle scuole, ma punisce gli istituti che non si conformano alle nuove direttive revocandone i fondi statali. Il Comitato Scolastico di Boston, guidato dalla cicciottella Louise Day Hicks, non ci sta. Louise, guanti bianchi ed un vestitino rosa che sembra uscito da un lungometraggio animato Disney, dichiara la legge antidemocratica, antiamericana, e chiama i loro promotori, “agitatori razziali.”

Il battibecco tra la Hicks e la National Association for the Advancement of Colored People, che continua a denunciare la mancata attuazione della legge, va avanti per un decennio. Quando Russell viene invitato dall’ NAACP a tenere un discorso ai diplomati della Black Junior High School a Roxbury, la Hicks è in mezzo al pubblico. Non le manca certo il coraggio. “Certi membri del consiglio comunale,” denuncia Russell dal palco, “ignorano gli interessi della comunità afro-americana, e ci si aspetta che noi non rispondiamo. Qui, a Roxbury, si cova un fuoco che il comitato scolastico si rifiuta di riconoscere, e questo fuoco che sta consumando Roxbury, finirà per consumare l’intera Boston.”

Il fuoco esplode nel 1974, nove anni dopo l’emanazione del Racial Imbalance Act. Il giudice Arthur Garrity scopre che esiste ancora un ricorrente pattern di discriminazione razziale ed impone un piano di ridistribuzione etnica nelle scuole di Boston. Il metodo adottato da Garrity è noto con il termine di “busing”: gli studenti vengono ridistribuiti nei vari istituti attraverso un sistema di bus. Per esempio, un’intera classe della predominantemente bianca South Boston High School viene ricollocata presso la Roxbury High School, e viceversa. La Hicks , in tutta risposta, crea il ROAR, Restore Our Alienated Rights (Restaurare i nostri diritti alienati), un movimento di protesta che fa del ribaltamento semantico la propria arma di punta: “I diritti civili dei neri hanno cancellato i nostri diritti civili di bianchi, ridateceli.”

È facile comprendere i motivi del successo della Hicks, che diventa l’eroina delle famiglie bianche del nord: imporre, per legge, che i bambini debbano frequentare determinate scuole, spesso lontane dall’abitazione, in una società che ha fatto della libertà individuale il principio fondatore, appare contraddittorio. La controversia permette alla Hicks di difendersi dalle accuse di razzismo di fronte alla platea bianca ed ai media che la sostengono, ma basterebbe un poco di innocente malizia per realizzare che se la legge deve imporre la convivenza tra studenti bianchi e neri, esiste un problema a priori che continua ad essere ignorato. Se poi la protesta contro il busing e la de-segregazione delle scuole si trasforma in sistematica violenza contro la comunità afro-americana, allora il razzismo non è un fenomeno poi così fittizio su queste sponde dell’Atlantico.

Il 25 settembre del 1974 lo studente Jean-Louis Andre Yvon fa appena tempo ad uscire dal bus che lo ha trasportato alla sua nuova scuola nel quartiere di South Boston, a predominanza irlandese ed italiana, quando un centinaio di adulti bianchi lo insegue e picchia brutalmente. A Roslindale High tre pullman che trasportano studenti afro-americani vengono bloccati dai residenti e costretti a ritornare indietro. Il primo ottobre una bomba molotov è lanciata alla finestra di Gladys Carnes, un afro americano che vive ad East Boston. All’inizio dell’anno scolastico 1974, il 50% degli studenti bianchi si rifiuta di presentarsi in classe. Una folla di circa trecento ragazzini bianchi attende i pullman dei coetanei neri fuori dalla South Boston High School: appena le vetture approcciano il parcheggio di fronte alla scuola, vengono prese a sassate.

Il clima è rovente, gli episodi violenti si susseguono senza sosta: all’inizio dell’anno scolastico 1975 i bus che conducono gli studenti neri continuano ad essere fermati, bersagliati da mattoni, mentre la folla si accanisce esibendo cartelli raffiguranti scimpanzé, sputando ai finestrini ed urlando ai bambini tra i 6 ed i 14 anni asserragliati dentro gli autobus, “go home n- , andata a casa, n-!” Un anonimo, in segno di protesta contro il senatore Kennedy, che sostiene l’iniziativa del giudice Garrity, lancia una molotov nella casa natale del presidente John Kennedy ed imbratta il marciapiede di fronte con la scritta “Bus Teddy”. Qualcuno suggerisce che dietro la violenza ci sia la mano della pericolosa mafia irlandese. La Hicks nega, si tratta solo di sporadici episodi dovuti al clima di esasperazione causato dalla legge anti-segregazione.

Il 5 aprile del 1976 la focosa Louise, che ora ha fatto carriera, e siede sulla poltrona della presidenza del consiglio municipale, invita un gruppo di giovani ragazzi della South Boston e Charleston High School. Li abbraccia uno per uno, commossa: “Come si può biasimare le proteste di queste innocenti vittime del razzismo inverso che mina i principi basilari della nostra amata democrazia?” Finito il cerimoniale, i giovanotti escono dall’edificio. Da lontano vedono un afroamericano che viene incontro di fretta. È un giovane avvocato, si chiama Theodore Landsmark, ed è semplicemente in ritardo. Di certo non è in cerca rogne, men che meno con questo gruppo di sconosciuti. Non il contrario. Un paio lo afferrano e buttano a terra. Un cazzotto gli spacca il setto nasale. Joseph Rakes, un teenager della South Boston High School, lo infilza, senza alcun motivo, con l’asta di una bandiera americana. La foto che ritrae l’istante, scattata da Stanley Forman del Boston Herald Tribute, è nota con il titolo di “The Soiling of the Old Glory”, il fango della vecchia gloria.

Onere non onorevole della cronaca: il fratello di Joseph Rakes, Stephen, risulterà poi essere associato al leggendario gangster James “Whitey” Bulger, che per trent’anni, tra i Settanta e la fine dei Novanta, controlla, nel doppio ruolo di criminale e collaboratore FBI, l’underground criminale di Boston. Le gesta di Whitey sono narrate nei film “Departed” di Michael Scorsese – con Jack Nicholson, Leonardo di Caprio, e Matt Damon -, e “Black Mass”, di Scott Cooper, con Johnny Depp. Quando infine catturato, nel 2011, dopo sedici anni di latitanza, Whitey confesserà di essere stato lui in persona a tirare la molotov nell’abitazione dei Kennedy.

Sebbene ridotto drasticamente nel 2013, il sistema di bus del giudice Garrity è tutt’oggi, anno 2020, ancora in servizio. La segregazione non è affatto scomparsa, ha semplicemente cambiato casa: le famiglie bianche si sono spostate fuori dall’area metropolitana in modo da evitare le zone soggette alla legge. E se nell’intero Stato del Massachusetts, di cui Boston è la capitale, il 60% degli studenti delle scuole pubbliche è bianco, nella “città sulla collina” l’81% è afro-americano, latino, o asiatico.

Come dire, il razzismo non esiste. O, per lo meno, l’importante è non nominarlo.

[parte 3 di 4 – segue Leggi tutte le 4 parti:

The clutch – canestri e razzismo sotto pressione (1/4)

The clutch – canestri e razzismo sotto pressione (2/4)

The clutch – canestri e razzismo sotto pressione (3/4)

The clutch – canestri e razzismo sotto pressione (4/4)

immagine via Wikimedia Commons

Ammoniaca

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di Clelia Attanasio

La prima volta che Micol ha bagnato il letto aveva nove anni, frequentava le elementari. Il giorno prima tutti si erano spesi in complimenti con Riccardino – bambinetto paffuto e gentile fino al fastidio – per il miglior tema d’italiano della scuola. Micol aveva osservato lo spettacolo della direttrice dell’istituto leggere il tema di fronte a tutti i bambini, tenendo Riccardino al fianco come una statua celebrativa. La rabbia e l’invidia le si erano presentate in corpo, a metà tra la pancia e l’inguine, trasformandosi in esigenza di urinare. Era corsa al bagno sotto lo sguardo contrariato della maestra di matematica e lo sbuffo del bidello costretto a seguirla per aspettare che uscisse. Micol aveva svuotato la vescica circondata dal silenzio; avrebbe voluto piangere per la furia, ma sembrava che l’acqua fosse tutta scivolata tra le gambe.

Quella notte, Micol non dormì bene. Sognò di stare davanti a una libreria invasa di libri, tutti col suo nome, e tante persone anziane che la applaudivano mentre lei aveva i pantaloni della tuta tutti macchiati di pipì: quando se ne accorgeva, iniziava a girarsi nervosamente in cerca della mamma che la aiutasse a cambiarsi; ma nessuno veniva a soccorrerla, anzi l’applauso diventava ancora più forte, così forte da impedirle di piangere, di chiamare aiuto. Si svegliò la mattina col letto invaso di pipì.

Arrivò a scuola con lo sguardo della madre davanti agli occhi, la vergogna sulle guance come un vestito incadescente, per scoprire che tutto era ricominciato da capo. Tutti sembravano essersi dimenticati d’aver vissuto un giorno in più. Ognuno ripeteva il copione del giorno prima, una replica fedele che sembrava aver visto solo lei, fino a quando la direttrice non la chiamò al centro dell’atrio, per leggere il tema migliore. Riccardino sedeva tra il pubblico di bambini silenziosi, attenti o annoiati, totalmente ignaro d’essere stato autore di un capolavoro defraudato. Micol lo guardava dall’altro lato dell’atrio: fu invasa da una sensazione così potente di euforia e adrenalina che dovette concentrarsi per non macchiare i pantaloni di pipì.

Nei trent’anni trascorsi dal suo primo prestito – così chiama la sua magia – Micol non ha mai più sentito un odore che non sia ammoniaca: ogni cosa s’è impregnata dell’odore di un cesso pubblico, costringendola a inventarsi i sapori del cibo. Ne è derivato che Micol Maimann non abbia avuto mai il vero e proprio gusto per il cibo e la convivialità che esso porta con sè, lasciandola in un corpo di ragazzina, senza forme e senza ciclo mestruale. Non è malattia, la magrezza di Micol è mancanza che si incorpora.

Poco è importato, però, al mondo: Micol Maimann sarebbe rimasta una donna magra e rachitica, destinata a scomparire nel suo gruzzolo d’ossa, se non avesse raggiunto una notorità tale da permetterle d’esser nominata col solo cognome: la Maimann, scrittrice di successo internazionale, tradotta in otto lingue, con una vita divisa tra Londra e Napoli. Mentre Micol Maimann si taglierebbe il naso per placare i conati di vomito, il mondo non sente nessun odore, non vede le macchie di piscio che bagnano il letto di Micol romanzo dopo romanzo; il mondo non sente Micol Maimann piangere, perché l’acqua non scende più.

Micol vive la sua vita un romanzo alla volta: divora libri giorno e notte. Il suo gusto per la scrittura è sicuramente il migliore al mondo, Micol ama i libri come nessun altro essere umano: li ama talmente da comprenderli anche più di chi li ha partoriti. La rabbia e il livore sono i suoi campanelli d’allarme che le dicono che la scrittura è buona, che c’è qualcosa sotto la superficie di una trama di cui vale la pena appropriarsi. Micol non prova rimorso, perché la cura che riserva alle sue prede è maniacale tanto da renderla – agli occhi di un mondo senza olfatto né gusto – l’autrice più devota alle sue opere. Micol Maimann ama la letteratura un po’ come un monaco ama la vita più di quanto non faccia Dio.

Per ogni libro che ruba, Micol bagna il letto. In trentanove anni questo meccanismo non ha fallato una volta sola: lei legge, apprezza, invidia, va a dormire e nelle agitazioni notturne bagna il letto. Per i primi anni fu frenata dalla potenza degli incubi e dalla vergogna che provava di fronte allo sguardo perplesso dei genitori. Ma l’euforia è l’anestetico più potente che esista, e col tempo persino i genitori impararono a ignorare il problema trattenitivo della figlia: era un genio, dopotutto.

Oggi, Micol aspetta Riccardo De Stefano nel suo ufficio di Napoli: è tornata da Londra di primo mattino appositamente per incontrarlo. Il suo primo romanzo, Fenomelogia dei liquidi, era uscito da più di un mese e non c’era stato verso, per Micol, di riuscire a prenderlo in prestito. Aveva provato con ogni mezzo a sforzarsi di più, i suoi incubi – sempre ricorrenti per ambientazione e trama – erano evoluti in una potenza tale da far svegliare Micol più volte nel cuore della notte, tanto da impedirle quasi di fare pipì tra le lenzuola. Una notte aveva persino defecato nel letto, tanto era forte lo sforzo: Micol si era ritrovata la mattina dopo a dover pulire prima dell’arrivo della donna delle pulizie (la quale era abituata al piscio, ma alla merda ancora no). Ma nulla, il romanzo di Riccardo non si lasciava convincere.

Riccardo è appena sceso dalla metropolitana, fermata Quattro Giornate, e si rende conto di essere in anticipo di mezz’ora: è frenetico. Per calmarsi si fionda nel primo bar che trova all’uscita della metro e chiede un ginseng. Lo beve con calma, respirando sulla tazzina con regolarità, nella speranza di calmare il respiro. Dopo cinque minuti, il ginseng è diventato una ciofeca: Riccardo lo beve d’un fiato, paga il barista senza aspettare il resto, ringrazia con un sorriso smagliante ed esce in strada, con il viso rivolto al sole. Si lascia illuminare dalla bella giornata per un attimo, poi riprende a camminare verso lo studio di Micol Maimann. Tutto avrebbe potuto aspettarsi Riccardo dalla pubblicazione del suo primo romanzo, fuorché essere chiamato proprio da lei, il suo idolo indiscusso. La Maimann rappresentava per Riccardo tutto ciò che uno scrittore dovrebbe essere, tutto ciò che uno scrittore dovrebbe dire e il modo in cui dirlo. Micol Maimann era riuscita a fare ciò che Riccardo ambiva per sé stesso: era riuscita a scrivere del nulla in modo autentico.

Riccardo adesso è davanti al portone della Maimann, bussa al citofono e dice il suo nome al segretario d’ufficio, il quale gli apre e gli dice di salire al quarto piano, senza ascensore. Riccardo sale le scale di quel palazzo antico con calma, considerando piano le parole da utilizzare, ripetendosi un discorso mentale che aveva preparato la sera prima con la moglie: Salve Micol, è un onore per me conoscerti; anzi, incontrarti ancora, perché – forse tu non lo ricordi – ma io e te abbiamo frequentato lo stesso istituto elementare; il tuo invito per me è un grande attestato di stima: se oggi sono uno scrittore è grazie a te; quando andavamo a scuola, la preside lesse ad alta voce un tuo tema, e io lo ricordo ancora; ho pianto quando tornai a casa da scuola quel giorno, piansi per l’emozione di aver sentito delle parole così autentiche, che quasi desiderai di averle scritte io.

Riccardo finisce di ripassare mentalmente il copione, giusto in tempo per entrare nello studio di Micol, accolto dal segretario che gli fa cenno di avviarsi alla porta semiaperta dell’ufficio di Micol. Apre quindi la porta, e sente solo un fortissimo odore di ammoniaca, poi nulla più: Micol lo ha colpito con un ombrello proprio dietro la testa, aprendo un buco gigantesco sul cranio. Guardando Riccardino steso a faccia in giù, con una pozza grandissima di sangue che si apre sotto il corpo, Micol piange e, per un’abitudine che ormai è diventata istinto, si tocca i pantaloni: neanche una goccia.

Foto di Free-Photos da Pixabay

Oggi ti sono passato vicino

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di Tommaso Urselli

queste tre poesie sono tratte da Oggi ti sono passato vicino, Ensemble, Roma 2020, euro 12, primo libro di poesia dell’autore teatrale Tommaso Urselli, g.m.)

Da “Corpo-città”

I

 

Che cos’è questa nebbia

questi occhi in mezzo alla nebbia

queste mani queste facce

che mi sembra di essere morto

in mezzo a pianure di parole tutte morte

in fila riposano

ridono sguaiate

si spogliano sgrammaticate

sono zoppe e s’impigliano

nel canale della gola

si tuffano con la testolina piccola piccola

dentro le vene e premono

contro la pelle premono

e vogliono uscire, segnare

tutta la geografia del corpo

scavare canali, crateri

 

 

 

Giorgia Romagnoli: Reflex

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«Non è qui che si esaurisce tutto?»

Reflex di Giorgia Romagnoli è il terzo titolo della nuova serie dei Cervi Volanti, la collana di scritture poetiche che curo insieme a Giuditta Chiaraluce all’interno del progetto Edizioni Volatili.

«Libri come laboratori, primi confronti, materie pensanti, montaggi e scavi attraverso la carta; libri senza profitto, in tiratura limitata, consegnati interamente agli autori e alle autrici, che ne gestiscono liberamente il transito (esoeditoria); libri evidenti nella loro invisibilità, indirizzati a chi saprà ospitarne l’implicita consegna; libri col solo intento di essere vigilie per una geografia del dopo-diluvio.»

Pubblico qui alcune pagine in anteprima, insieme a una nota dell’autrice del testo. Le partiture visive e i segnalibri sono di Giuditta Chiaraluce.

 

NOTA 

(2012 – 2020)

 

Una prima prova di traduzione che è anche un giocare a osservare ed essere inevitabilmente osservati, a dare un’immagine attraverso altri occhi senza la presunzione di comprendere l’abisso in cui guardano. Ritorno a questi testi dopo anni per spostarli un passo più avanti, dargli una forma nuova, acquisirne maggiore consapevolezza, riconoscerne le deviazioni dettate da ciò che è accaduto nel mentre.

 

 

Giorgia Romagnoli (Jesi, 1995) dal 2012 contribuisce allo spazio di ricerca eexxiitt.blogspot.it. Nel 2015 il suo ebook “Prove tecniche di trasmissione” è risultato finalista al concorso Opera prima ed è stato pubblicato su poesia 2.0. Nel marzo 2019 pubblica il libro “La formazione delle immagini” per Arcipelago Itaca Edizioni. Suoi testi, traduzioni e articoli sono apparsi su: lettere grosse, Nazione Indiana, Poetarum Silva, Extreme Writing Community, Argonline.it, Container – Osservatorio Intermodale, tradotti in svedese nella rivista OEI e in inglese nella rivista Contemporary Works in Translation: A Multilingual Anthology Vol II (Oomph! Press). Ha tradotto, tra gli altri, Dmitrij Prigov e Ciaran Carson.

 

Barbari in Campidoglio: cronaca di una telecronaca

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di Andrea Inglese

 

Proprio un afroamericano ci aveva insegnato che non avremmo visto la rivoluzione in TV (Gil Scott Heron), ma un colpo di stato magari sì. Se poi il colpo di stato riguarda niente popò di meno che gli Stati Uniti d’America, che di colpi di stato se ne intendono parecchio, soprattutto nel caso in cui avvengano fuori dalle loro frontiere, allora vale proprio la pena di restare incollati davanti alla TV come sono rimasto io la sera del 6 gennaio. Non vorrei sembrare cinico, anche perché sono morte ben cinque persone durante l’assalto dei trumpisti al Campidoglio.