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Miguel Torga: “Il diario”

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[Esce per Mimesis, “La vita inedita”, che presenta per la prima volta in Italia il Diario (1933-1993) di Miguel Torga, una delle più importanti figure della letteratura portoghese del XX secolo. Torga è poeta, romanziere, saggista e drammaturgo. L’edizione è a cura di Massimo Rizzante, di cui pubblichiamo il saggio introduttivo, seguito da alcuni estratti del diario. Di Torga NI si è già occupata, dedicandogli un volumetto: “L’universale è il locale, meno i muri” (collana Murene).]

 

Massimo Rizzante

L’arte di Miguel Torga

Ma com’è bello andare in Vespa ( titolo che non c’entra un cazzo con l’articolo che parla di libri e mercato)

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Il libro di Bruno Vespa e la “mucca sacra” dal latte avvelenato

di Pasquale Palmieri

 

A volte pensiamo erroneamente ai libri come prodotti che stanno ai margini del grande mercato globale. Oggetti per pochi, insomma. Forse anche per questo gli attribuiamo un valore intrinsecamente positivo. Le prime attività commerciali a riaprire dopo la prima ondata di Covid furono le librerie, lo ricordiamo tutti. Con quel gesto, il governo riconosceva il loro ruolo per la collettività, quasi come se fossero pacate custodi della nostra coscienza civica.

 

Poi ci troviamo annualmente ad affrontare il supplizio della pubblicazione prenatalizia di prodotti firmati da Bruno Vespa. E siamo quasi costretti a ribadire, in maniera evidentemente velleitaria, che quei testi sono pura immondizia, costruiti su una micidiale miscela di presunzione, ipocrisia e ostentata ignoranza, finalizzati a confermare pregiudizi dilaganti più che a metterli in discussione. Rimane il fatto che hanno un mercato. Il rito si ripete per una ragione semplice: esiste un pubblico che desidera leggere, o talvolta semplicemente possedere, pagine che propongono quei contenuti. Facciamo anche di più: produciamo e condividiamo vignette satiriche su Vespa, puntiamo il dito contro i suoi lettori, ci avventuriamo in ardite dissertazioni sulle sue grossolane apologie del fascismo. Ci sorprendiamo perfino a pensare che sarebbe meglio chiuderle le librerie, se devono vendere la roba di Vespa.

 

Negli ultimi decenni, gli studi sulla storia dell’editoria e della comunicazione hanno contribuito a complicare lo scenario, aiutandoci a comprendere come la fruizione degli scritti a stampa non debba essere necessariamente considerata come un fattore di emancipazione sociale, tanto nel passato quanto nel presente. Limitandoci all’analisi dello scenario europeo, siamo oggi in grado di osservare che la svolta tecnologica inaugurata da Gutenberg ebbe effetti discontinui e contradditori. La possibilità di riprodurre e diffondere in serie i testi contribuì, infatti, ad abbattere drasticamente i costi e coinvolgere una schiera di lettori molto più ampia. Ne conseguì un potenziamento del comune senso critico e una più intensa partecipazione ai dibattitti intorno a eventi sensazionali o a fenomeni di pubblico interesse, che in alcuni periodi si manifestò in maniera intermittente e in altri in maniera più costante (sul tema si veda il libro di Peter Burke e Asa Briggs, Storia sociale dei media. Da Gutenberg a Internet, Il Mulino). Tuttavia, quella stessa capacità di penetrare in maniera ramificata il corpo sociale riuscì anche a stimolare nuove forme di adeguamento ai dettami delle autorità secolari o ecclesiastiche, dei potentati nobiliari, o degli interessi economici dei ceti dominanti. La stampa aveva quindi i suoi padroni e – seguendo le esigenze dei committenti o le logiche del profitto – riusciva anche a diventare una potente catalizzatrice di conformismo: in altre parole, suggeriva alle persone come comportarsi, cosa pensare, cosa comprare, di cosa fidarsi, di cosa aver paura (su questo versante, sono utili le considerazioni di Mario Infelise, I padroni dei libri, Laterza, e Sandro Landi, Stampa, censura e opinione pubblica in età moderna, Il Mulino).

 

Le indagini storiche ci permettono di osservare in una prospettiva diversa anche la situazione odierna. Commettiamo infatti un enorme errore nel pensare che i libri siano ai margini del mercato globale. I libri – in tutte le loro forme, dal digitale al cartaceo – sono al contrario una delle forze propulsive del nostro sistema economico. Potremmo dire di più: essi detengono le chiavi dell’ecosistema comunicativo che connette i consumatori ai prodotti. Ad esempio, offrono a un’azienda come Amazon l’opportunità di entrare in punta di piedi nel nostro mondo. Attraverso i libri che acquistiamo, consentiamo al colosso di Bezos di comprendere una parte importante di quello che desideriamo, quali luoghi vorremmo visitare, cosa vorremmo guardare in tv o sulle piattaforme digitali, che musica amiamo ascoltare, per chi votiamo, quanto possiamo spendere, quanto preferiamo risparmiare, quanto tempo libero abbiamo, cosa consideriamo necessario, e persino quello a cui siamo disposti a rinunciare.

 

I libri coprono una fetta piccola dei profitti possibili, ma aprono indirettamente le porte a un universo infinito di consumi e suggerimenti pubblicitari. Con i nostri ordini o le sottolineature del nostro kindle, condividiamo parti di noi che sarebbero destinate a rimanere chiuse in un cassetto. Come ha scritto di recente Martin Angioni (Amazon dietro le quinte, Raffaello Cortina Editore), i libri sono la “mucca sacra” del gigante dell’e-commerce. E Bruno Vespa è lì, pronto a invadere ogni anno il nostro piccolo mondo prenatalizio, e a riproporci la triste evidenza del libro come incentivo all’appiattimento e al conformismo, avvalendosi anche dei processi idealizzazione degli oggetti a stampa che continuano a crescere indisturbati nella nostra cultura, inventando gerarchie inesistenti nella complessa realtà dei paesaggi mediatici. È lì forse anche per ricordarci una dinamica tanto banale quanto sfuggente: quella “mucca sacra” produce anche latte avvelenato.

 

Il tono del risentimento. Il romanzo umoristico di Sergio La Chiusa

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[Questo articolo è apparso su “Alias”, supplemento del “Manifesto”, il 13/12/20, con un titolo redazionale.]

di Andrea Inglese

 

La violazione della verosimiglianza, in ambito narrativo, è considerata oggi una duplice offesa, che si perdona a pochissimi e gallonati scrittori, di preferenza già morti. È un’offesa nei confronti di un intreccio ben costruito, che non malmena le attese del lettore, e lo è ancor più nei confronti di quel vero, o di quel reale allo “stato puro”, che una certa narrativa insegue tenacemente, utilizzando le vie della cronaca nera, della storia con molte maiuscole o dell’esplorazione dell’io, che l’autofiction fornisce di contorni molto elastici.

La natura urbana

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di Gianni Biondillo

Perdonate se faccio una lunga digressione storica. La cultura europea occidentale è una cultura solidamente urbana, vede nella città una promessa e un destino. Spesso ha avuto periodi di antiurbanesimo ma le forme che ha elaborato sul territorio sono la testimonianza fisica dell’idea di identità che oggi chiamiamo europea. La storia spesso si muove come una sinusoide. Dopo il crollo dell’impero romano, si impose un antiurbanesimo cristiano che frantumò i territori, distrusse la rete viaria, dimenticò le città, spesso sovra dimensionate, per una vita agricola. Eppure non bastarono 500 anni di cultura antiurbana: le città risorsero attorno all’anno mille. I Comuni del medioevo, cercando autonomia dall’imperatore, e dinamismo economico, crearono una maglia di realtà urbane. La città diventa così l’habitat naturale dell’uomo. La città rende liberi mentre la natura spaventa, deve essere addomesticata, col lavoro dei campi, oppure tenuta fuori dallo sguardo. È il luogo del selvaggio, delle leggende, il bosco delle fiabe, che non deve essere attraversato se non si vuole essere mangiati dal lupo. La nostra è una estetica urbana che da sempre cerca di esorcizzare il paesaggio selvatico, il paesaggio della paura.

È nel Settecento che nasce il mito del ritorno alla natura come madre generosa e buona. Perché proprio in questo periodo cambia la nostra idea di paesaggio naturale? Perché stavano cambiando le città, in modo repentino e massivo; è il passaggio epocale prodotto dall’illuminismo e dalla rivoluzione industriale. Nasce la città moderna. Una nuova urbanità, mai vista prima. Il XX secolo è stato il secolo della civiltà delle automobili, e le infrastrutture viabilistiche ne sono l’unica vera eredità. Infrastrutture che omologano il linguaggio delle forme creando città sempre più simili. La città è vista come meccanismo non come organismo, dove occorre regolare i flussi di traffico. La città del Novecento conosce via via sempre più la dispersione e lo sprawl. La città ormai non ha più un disegno unitario riconoscibile. Oggi questo paesaggio antropizzato – che per millenni ha saputo trovare un equilibrio fra le esigenze di chi lo abitava e il rispetto per il ciclo delle stagioni – ha subito nell’ultimo secolo troppi shock, troppi strappi sulla tela.

Siamo di fronte a un bivio che non permette più ripensamenti. Non sarà la pandemia a farci tornare indietro. Fra dieci anni due terzi della popolazione mondiale vivrà in un contesto metropolitano che, già oggi senza tregua continua a rubare terreno, impoverire il suolo, abbattere il patrimonio arboreo, aumentare a dismisura la produzione di CO2. Il cambiamento climatico già in atto da decenni ne è la prova inconfutabile. Ecco il bivio: le città da problema devono diventare una soluzione. Quindi energia sostenibile, riciclo, cubatura zero, mobilità condivisa, e su tutto, forestazione urbana.

Trovare, insomma un nuovo rapporto fra artificiale e naturale fin nel cuore delle nostre metropoli. Una nuova narrazione che veda nella Natura né una madre generosa né una nemica spaventosa. Gli esempi non mancano. Il più famoso, addirittura paradigmatico non solo in Italia, è stato l’esperienza del Bosco Verticale. Boeri, Barreca e La Varra (i tre progettisti) in fondo non hanno fatto altro che, con raffinato gusto filologico, riproporre architetture per nulla nuove a Milano (penso a un capolavoro come quello di via Quadronno degli architetti Mangiarotti e Morassutti). Ma se l’esperienza si fosse fermata lì avremmo solo due edifici a disposizione di ricchi abitanti meneghini. Il Bosco Verticale, nei fatti, è invece un manifesto. Ha una forza simbolica che supera quella estetica. Le città possono convivere con la natura. Anzi: la natura deve diventare, per la pura e semplice sopravvivenza della specie, elemento centrale di ogni progettazione urbana.

Si apre così un nuovo modo di concepire l’urbanistica: restituire permeabilità al suolo (ci sono esperimenti già in atto di de-asfaltizzazione delle strade parigine), progettare la mobilità dolce attraverso corridoi verdi che collegano parchi e giardini esistenti. Idearne di nuovi: parchi che non hanno solo la funzione di luoghi di svago, ma, come propugno da anni, che siano spazi di produzione alimentare a chilometro zero (parchi edibili). Abbattere le isole di calore urbane rendendo i tetti coltivabili e trasformando le barriere infrastrutturali in facciate verdi. E su tutto impiantare milioni di alberi. Milioni, sì. Non più parchi ma foreste. Che dovranno essere gestite così come si gestivano nel medioevo (quindi anche capaci di essere produttive in termini di materie prime), ma anche luoghi dove la biodiversità possa esprimersi, mitigando la dannosa presenza umana e qualificando la resilienza dell’ecosistema.

Un programma di ridefinizione del paesaggio che deve coinvolgere l’umanità ad ogni scala della catena decisionale. Il cambiamento climatico porta con sé carestie, povertà, migrazioni bibliche. Non basta riforestare le ricche metropoli occidentali, occorre interrompere la desertificazione inesorabile che sta colpendo come un maglio i paesi più poveri della terra. E dobbiamo farlo noi. E subito. Molto egoisticamente perché ci conviene, pena la nostra stessa estinzione.

(precedentemente pubblicato su L’Ordine del 22 novembre 2020. Le pessime fotografie sono del sottoscritto)

Prosa in prosa (Inglese, Zaffarano, Giovenale, Broggi)

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Le edizioni Tic hanno recentemente ripubblicato Prosa in prosa, originariamente uscito nel 2009 per la collana fuoriformato de Le Lettere.

Ospito qui alcuni estratti di Andrea Inglese, Michele ZaffaranoMarco Giovenale e Alessandro Broggi, insieme alla bandella originale del libro, firmata da Andrea Cortellessa.

 

 

ANDREA CORTELLESSA

Bandella di Prosa in prosa (2009)

 

L’abitudine che ci fa usare la dizione da manuale, poesia in prosa, può far dimenticare come essa, in realtà, segni un paradosso. Ma – ha spiegato il suo maggiore studioso italiano, Paolo Giovannetti – proprio tale «ambiguità esibita» è il suo «carattere fondante». Posizione ambigua, dunque, e anche scomoda: troppo «asciugata» dal poetico per i lettori di poesia (almeno per chi si riconosce nel poetese, più che nel poetico); troppo autoreferenziale e «lavorata» – troppo «poetica», insomma – per coloro che della prosa ammettono un’unica specializzazione merceologica, quella della narrazione (e diciamo, anzi, direttamente la fiction).

Eppure la prosa come forma del limite è stata una delle poche vie di fuga che abbiano consentito alla nostra scrittura poetica, negli ultimi decenni, di non rinchiudersi nel repertorio di se stessa. Negli anni Settanta autori come Giampiero Neri, Cosimo Ortesta e Cesare Greppi hanno messo a frutto la lezione dei maestri francesi di un secolo prima; mentre è del 1989 un episodio isolato ma significativo come la silloge Viceverso, curata da Michelangelo Coviello. Né sorprende che oggi i trenta-quarantenni di Prosa in prosa guardino di nuovo Oltralpe (e Oltreoceano), mutuando il loro stesso titolo da Jean-Marie Gleize.

Quanto meno subliminalmente, l’espressione poesia in prosa rinvia poi al concetto di traduzione: un «contenuto», in sé poetico, che verrebbe «trasposto» in prosa. Ma se il «contenuto» è già prosastico, qui, che cosa viene in effetti «tradotto»? La prosa in prosa, risponde Antonio Loreto, ha qualcosa del ready-made: senza sovraccaricare la scrittura di effetti speciali (la «prosa d’arte» dalla quale i Sei si guardano bene) è mediante il suo isolamento (in lasse, blocchi, serie variamente ordinate) che se ne muta sottilmente il senso. Basta incorniciare l’oggetto, come ha insegnato appunto D­uchamp, per fargli dire qualcosa di diverso – e inatteso. Qui piuttosto lo si «inquadra»: e non stupiranno, allora, i frequenti riferimenti all’universo dei media visivi, dalla fotografia allo schermo del computer.

Così facendo si segnalano, nella prosa del mondo, una serie di mutamenti inavvertiti. Come in un certo gioco enigmistico, ci accorgiamo d’improvviso di dettagli incongrui, particolari inquietanti. E finiamo per capire, insomma, come qualcosa nelle nostre vite sia da tempo mutato: a un livello microscopico, magari, ma con conseguenze non meno che catastrofiche.

 

ANDREA INGLESE

Prato n° 102 (collage e stucchi)

 

Praticello con pescheria (e dadi di tonno rosso mattone nella cunetta di ghiaccio, da cui affiora un orlo di prezzemolo), stivali di gomma blu, vasche di polistirolo, e pompa arrotolata (e mercato del pesce di Tokyo, tonni segati in due, sequenza a rallentatore di Bill Viola). Praticello con pulegge, stoviglie lavate, e orme fresche. Praticello tipo Sierra Nevada senza avvoltoi. Praticello in cui il bisogno di un padre buono, onnipotente e amoroso viene soddisfatto da una poltroncina mobile, elegante e dallo schienale ampiamente flessibile. Praticello con alcune bestie che parlano, non per esigenze spirituali ma a causa di impulsi elettrici (ed altre bestie mute, addestrate ad inviare impulsi, e addestratori umani incapaci di tutto, salvo di addestrare). Praticello con gradevole luce, su forcone appeso al muro, e colata di vernice. Praticello delle sei e mezza di pomeriggio (d’estate, e personaggi vari che a quell’ora provano angoscia immotivata). Praticello da cui uscire solo morti o amputati (infrequentabile). Praticello con uomo dai molteplici delitti, un cuore putrido, poteri paranormali, e una fortuna sfacciata alle corse dei cavalli. Praticello in cui mi ricordo di tutti i seni indovinati dietro una stoffa leggera, e dei piedi nudi femminili, nei periodi di riscaldamento climatico. Praticello in disuso, con grandi ammassi di pneumatici in fiamme, e materassi sventrati o fradici, e gatti finiti nelle tagliole, o in brodo. Praticello di poca luce, con fontana, e fagiani al suolo, immobili, probabilmente impalati. Praticello borghese, fine novecento, con tubuli, maschere, bombole, quadranti, per respirazioni prudenti, rarefatte, e bistecche al sangue, rognoni, roast beef, per masticazioni frenetiche, perenni. Praticello per allievi impudenti, studentesse feroci, giochi di mortificazione fisica e mentale. Praticello dei cannibali, tutti quanti essendolo diventati, dopo aver ognuno attraversato un certo numero di difficoltà alimentari. Praticello della musica, da fare all’improvviso quando ci si passa. Praticello in cui è impossibile masturbarsi, mancando foto, video, disegni, persino ogni materiale psichico (e sorgono ricordi invece d’equazioni, di sequenze numeriche, di documentari zoologici). Praticello in cui l’alcolismo è un metodo tra i migliori per rispondere all’assenza di un padre buono, onnipotente e amoroso. Praticello con ministro della pace, ufficiale delle Schutz-Staffeln, profeta, e lucido da scarpe (e un solo paio di stivali, un solo slogan per dirigere la gioventù, e meno di quattro capri espiatori disponibili). Praticello come vero, in cui si fa l’amore e si dorme, si beve e ci si carezza (e non mancano i viveri), e ci si muove con cautela, si parla a bassa voce, per non interrompere il sogno o modificarne l’intreccio. Praticello dove chi scrive, conosce bene le arti marziali del pensiero, e anche di tutti i cinque sensi, e delle zone erogene, e di ogni poro (e guarda a lungo la luce dentro un bicchiere d’acqua). Praticello ad alta tecnologia, ma pulita e produttiva, dove ogni pensiero del canguro, ed il suo fiato, e la pressione arteriosa, e i tic nervosi, e le unghie, il manto, i denti, sono assolutamente registrati, copiati, riprodotti, trasformati, resi utili, in tempo reale, a tutti i possibili clienti, anche nelle zone remote, dal clima difficile, e dalla politica energetica incerta. Praticello delle droghe belle, con un codazzo di dementi, che non sanno comporre una frase di commiato, e si intrappolano sempre più a vicenda, sempre più ridendo, assieme.

 

 

 

 

MICHELE ZAFFARANO

Venti & ventinove

da Wunderkammer, ovvero Come ho imparato a leggere

 

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L’autentico. Oppure il libro che non sarebbe mai stato scritto se le parole non avessero assunto questa forma particolare di bêtise. Il lavoro, gli aneddoti raccontati. Nessun dubbio che ciò che viene letto possa finire per restare impresso. Nello stesso tempo, l’ascolto percorre i suoi sentieri, inganna chi resta all’interno dell’ambito. Se ancora, in casa, c’è un ambito, se ancora ci sono le categorie di interesse, i manichini non convenzionali, la possibilità di un racconto pensato per lamentarsi. Nel corso di queste righe, non c’è alcuna intenzione di rivelare fatti intimi, alcun desiderio di esibirsi in modo sconcertante. Di questo parleremo in seguito. Intanto: togliere di mezzo, ripulire con cura, non scrivere nulla per nulla, offrire le stesse astute bêtises del quotidiano, farle durare, sentirle esistere, resistere, e poi eliminarle, parlare, parlare. Spesso capita che dalla scrittura il dubbio su ciò che viene letto sia posto addirittura dagli invitati. Qualcosa di autentico avanza comunque, si rivela.

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Lentamente si modificano i campi visivi e comincio allora a tastare il terreno, a cavalcioni, o seduto di fianco, alla maniera delle donne. È piena di lordura la distanza più breve tra un punto e l’altro, ha inghiottito gli ostacoli. Non viaggio, descrivo linee a cerchio. Sta scritto: «ka multo vendarete kara questa fatiga et l’altre ke son per natura loro fatigate mollemente, et sunt gravate de infirmitate». Lentamente il tempo scivola e si scioglie e si dilata, profondamente solitario, installato in piena fantasmagoria e consonanza e clarità. L’altra è perduta, la mia è ferma e senza tempo, mi fugge sotto falsi nomi lungo la teoria dei meandri e contemplo allora spettacolo, mi sembra il cuore mi si spezzi, e il tempo e la speranza, la vita, i ritmi. Il fenomeno è volto a finalità immaginarie, index sui et falsi. Io sono l’immagine della pietra. È a cavallo che passo la vita, «en celo coronato cum la Vergene Maria». Desiderose, pendolari, alterne nei movimenti, le leggi della matematica razionale sono come una tempesta sul mare. Un grave percorre la sua orbita intorno al globo, era tutto un gridare di orbite intorno al globo, ma il movimento era fisso e teso, decelerato. I deliri sono provocati dalla sardonica integrità delle strade percorse, i sensi rispondono a chiunque entri, provocando uno stato speciale. «Tute quante lo sostengate», s’intenda: le cavalcature, ma anche: la quiete della morte, che sarà atto di giustizia. «In pace ka cascuna sarà regina». La strada da prendere è la stessa, l’uscita all’entrare, sempre addormentata. Qui mangio restando piegato sul collo degli alberi. Qui la voce che ho scritto fascia per un tempo troppo breve l’azione: gli adulti sono in fuga, la vita è altrove.

 

 

 

MARCO GIOVENALE

2 da corpus iuris

da giornale del viaggio in italia

 

I

anche il cieco può adottare o essere adottato, poiché taluno fu istituito erede per l’intero, intanto non può attaccare d’inofficioso, perché ha la falcidia, ma se si ottenne la vittoria, quando il principio di questa legge parla d’universalità, poiché è assai più comodo astringere l’avversario a sobbarcarsi ai pesi propri di un attore, stando altri in possesso in nome altrui, che può tagliare la selva cedua, il salceto, i pali della selva, o del canneto, dell’alluvione, finché non si numeri il prezzo, la sentenza di giuliano è più umana, dopo perduto, se locò le opere sue, istituì un servo, togliendo tutto, indeterminatamente, il muro per sostenere il peso stia così, in perpetuo, alla stessa maniera, perché non gli si può concedere condurre l’acqua, frapponendosi il fiume pubblico, la servitù della via, o se si può passare a guazzo, od abbia un ponte, è diverso se sia passato su pontoni, così la va, se il fiume corre pel fondo di un solo, indi venga il fiume, ma vediamo se la disposizione sia la stessa, se fossero comuni le case, se comprerò da te il permesso di immettere lo stillicidio dalle mie case sulle tue, e poscia, a tua saputa, ve l’abbia immesso a titolo di compra, onde si tolga ciò che illegalmente fu fatto, poiché quel che il pupillo ha è quotidiano, se corse l’acqua, nella condizione in cui era, dell’impeto del fiume, e della ruina.

[…]

 

III

in riguardo agli animali irragionevoli, se mai per effervescenza, spavento, o per ferocia abbiano cagionato un danno, in nome di altri, ci si vieta avere il cane, il porco selvatico, il cignale, l’orso, il leone lì dove ordinariamente si passi, nei gradi delle cognizioni, ristretti in nostra custodia, con animo di profittarne, delle cose che sospette sieno, il fondo cogli attrezzi, la duplicazione elide le replicazioni, è grande poi la differenza delle cose, sono in luogo di naturali, questa si chiama volgare, perché si numerano i giorni continui

 

 

ALESSANDRO BROGGI

Daily Planet

 

Nessuno ha mai avuto in mente la maggior parte di ciò che accade.
John Cage

Per vendicarsi, una prostituta violentata da un gruppo di sbandati fa quasi massacrare l’unico che l’aveva difesa. Per poter vivere l’amore che provano l’uno per l’altra, Pedro e Cati dovrebbero superare il loro attaccamento morboso. Rapito dai ribelli del Blood Brotherhood, Orked è addestrato alla guerra, drogato, indottrinato e spinto a compiere crimini orribili. Durante la dittatura di Augusto Pinochet, un movimento indipendente di fotografi cileni documenta la repressione militare e la resistenza della popolazione fotografando quello che i media ufficiali nascondono. Da oltre vent’anni l’associazione Special Olympics lavora per integrare gli handicappati mentali nella società per mezzo dello sport. In Ghana esiste un fenomeno chiamato Ayan, o “drum poetry”, dove il tamburo parla ed è considerato un vero e proprio linguaggio. Batad è una località incantevole sulle montagne terrazzate delle Filippine, dichiarata luogo a rischio della terra dal World Heritage Committee. Theo vive con un unico sogno: diventare un modello di fama e affermarsi nella società del marketing e della pubblicità. Bunny chow è una specie di pane ripieno di carne e verdure che si mangia in compagnia. Dana vive con la nonna, la madre e il fratellino, il padre è partito in cerca di lavoro e non è più tornato. Autista e narratore di storie, Abdelrazzak trasporta le persone sul suo pullmino verso un luogo nel deserto dove officia una famosa guaritrice. Chen, killer professionista, riceve le sue commissioni via Internet. Sei ragazze di Porto Said condividono un appartamento al Cairo come studentesse. Christoph lascia la moglie, la famiglia e il lavoro di avvocato per vivere in modo solitario e anonimo in un quartiere popolare di Anversa. Il giorno del suo compleanno Jeanne scopre dalla madre di avere un padre indiano. Benicio si asciuga lo sperma prima di addormentarsi sul divano. Durante il battesimo, Edo vede gli arcangeli pulire il volto di Cristo dalle ferite della sofferenza umana. Stoffer si comporta normalmente. Le donne di Haenyo, Corea, per vivere si immergono 20 metri sotto il mare e trattengono il respiro per 2-3 minuti raccogliendo frutti di mare, alghe e altri prodotti marini. Per sfuggire alla miseria e soddisfare i bisogni famigliari Mocktar decide di lavorare in una miniera d’oro del Burkina Faso. William incontra Sara in un bar chiamato “Bitter End”. Sebbene divorziata da tempo, Carla litiga di continuo con l’ex marito sotto gli occhi dei figli. La relazione con Naima conduce Sydney da un una proposta di matrimonio a una situazione di estrema indigenza. Un giorno Rebecca viene avvicinata da un uomo che la segue e le offre un passaggio. Sergej scopre di avere un male terribile, che lo porta a fare i conti con se stesso. I Samburu sono un popolo pastorale semi-nomade, con una vibrante tradizione orale e una forma di costruzione della memoria associata a oggetti, addobbi fisici e canzoni. Una famiglia – padre, madre e tre figli – è riunita per la colazione. Camminando in alta montagna Arild incontra per caso il padre di un vecchio compagno di scuola che non vede da vent’anni. Samia chiede a un ragazzo di curare il figlio mentre va a fare una nuotata. Il giovane Wolfgang Amadeus a soli cinque anni ha già una forte passione per la composizione e una vivida immaginazione. Abner e Amira attraversano in auto la periferia di Riga. Seduto di fronte al medico Dragan Ledeux non ha più dubbi: non potrà avere figli. Marco è affascinato dal mito della vecchia mafia. Un battaglione di tiratori scelti giunge nel campo di transito di Verneuil-sur-Avre, dove li attende la smobilitazione. Quique attraversa il confine e arriva negli Stati Uniti. Il pittore Rembrandt accetta con riluttanza di dipingere la milizia civica di Amsterdam in un ritratto di gruppo. Cole è un giovane americano a Parigi che si guadagna da vivere come sosia di Michael Jackson. Il rito della riesumazione dei morti è diffuso in tutto il Madagascar. Noriko da piccola non ha mai capito perché tutti parlassero d’amore, ora lavora di notte come prostituta. Aya vanga un pezzo di terra negli aridi paesaggi del massiccio dell’Aures. George W. è alle prese con la calamità dell’uragano Katrina. Norma e Kika confessano la loro relazione in un diario a quattro mani. Jamie arriva a Vancouver per far visita a un’amica che però non riesce a rintracciare. Un centro commerciale di New York in rovina è sede di un mercato delle pulci. Lotte è stata licenziata dal delfinario. Wendo Kolosoy è una leggenda della rumba congolese. Un uomo e una donna vengono sottoposti a un esperimento terrificante.

 

“… ma questo intreccio di percorsi ci preparerà, noi speriamo, a perderci tra la folla.”

(M. de Certeau)

 

 

 

Poesia e ragionevolezza

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di Franco Buffoni

C’è una scena dell’Amleto di Laforgue che mi viene sempre in mente quando si tratta di definire che cosa sia per me «poesia». Amleto si rivolge a Orazio, l’amico assoluto, e lo prega di precederlo, per dire in sua vece, entrando, quelle parole «che lo uccidono».
Poesia come ancora di salvezza, dunque, in primis per chi la compone. Poesia mai stanca di ripetere quelle due o tre cose essenziali concernenti l’etica e l’estetica che magari non si ha più la forza o il coraggio di dire ad alta voce. Poesia come portavoce delle intermittenze del cuore attraverso gli anni.
Ma poesia anche come privilegio, grazie alla possibilità di parlarne agli studenti nei corsi di letteratura, e di tradurla (con la giustificazione a sé stessi di star lavorando), così da tenere sempre in esercizio – come ben tese corde di violino – le facoltà essenziali del poiêin.
«Fu una faccenda di piogge, di laghi, e di discorsi in un gran parco verdissimo», scrive Luciano Anceschi circa la genesi della poetica di «linea lombarda» nei primi anni Cinquanta. Una poetica nella quale, pur con gli inevitabili aggiustamenti e le necessarie trasformazioni, continuo a riconoscere una delle tre matrici essenziali del mio fare poetico: particolarmente nella pratica dell’understatement, nel rifiuto del vittimismo, in una misura etica individuale e sobria, in una linea “analitica” di ragionevolezza piuttosto che continentale di razionalismo.
L’altra matrice – geograficamente più ampia – e forse più significativa per la mia formazione (perché assorbita negli anni dell’adolescenza) credo di poter individuare nella tradizione otto-novecentesca italiana che lega Pascoli a Gozzano; infine, appartiene agli anni della formazione universitaria, la terza – e ben più vasta – matrice che mi riconosco, e che vede la frequentazione delle grandi letterature europee sia di area romanza sia di area germanica in un rapporto linguistico e filologico diretto.
Volendo richiamare quali sono state le principali matrici stilistiche – e proprio di «elaborazione» – che mi sono trovato a perseguire, posso empiricamente suddividere l’insieme dei miei componimenti poetici in quattro principali gruppi:

– testi di lenta stratificazione;
– testi associativi;
– testi-dono-degli-dei;
– racconti in versi.

Per testi di lenta stratificazione, intendo composizioni che sono andate con lentezza strutturandosi attorno a un’idea-cardine: un’idea che, volendo, avrei potuto sviluppare anche in prosa, ma che percepii più naturale per me di esporre in versi.
Il testo intitolato Come un polittico, per esempio, nasce dalla necessità di esprimere la consapevolezza ormai acquisita di non essere più in grado di abbracciare contemporaneamente (in un unico ricordo, in un’unica grande immagine come avviene da ragazzi) la propria esistenza. Ormai – capivo, sulla soglia dei trent’anni – cominciavo anch’io a procedere per frammenti, isole, tranche de vie. Da qui la similitudine con il polittico che custodisce in sé la grande storia a colori sgargianti, ma non la mostra: all’esterno appaiono solo alcuni frammenti della storia a colori smorzati.
La differenza di procedimento compositivo con quelli che descriverò come i componimenti del secondo gruppo sta nel fatto che qui l’idea non venne osservando un polittico in una chiesa di Spagna. L’idea esisteva già, e si sarebbe comunque concretizzata in poesia, magari tramite un’altra similitudine. Il termine di raffronto – dunque – non mosse nulla: venne scelto a freddo perché ritenuto oggettivamente più efficace di altri. In questa poesia delle logopeia (avrebbe detto Pound) dovevo insomma fare un ragionamento: si trattava di rivestirlo nel modo esteticamente più valido.

Come un polittico che si apre
E dentro c’è la storia
Ma si apre ogni tanto
Solo nelle occasioni,
Fuori invece è monocromo
Grigio per tutti i giorni,
La sensazione di non essere più in grado,
Di non sapere più ricordare
Contemporaneamente
Tutta la sua esistenza,
Come la storia che c’è dentro il polittico
E non si vede,
Gli dava l’affanno del non-essere stato
Quando invece sapeva era stato,
Del non avere letto o mai avuto.
La sensazione insomma di star per cominciare
A non ricordare più tutto come prima,
Mentre il vento capriccioso
Corteggiava come amante
I pioppi giovani
Fino a farli fremere.

Circa il secondo gruppo di composizioni, definite «associative», Mario Luzi in Vicissitudine e forma ha scritto che il grande momento poetico, concentrato talvolta anche solo in pochi versi all’interno di una poesia, può essere visto come una sintesi tra due concetti, due sentimenti, due ordini di percezione o «universi di discorso» che non erano mai stati posti in relazione tra loro in precedenza. In pratica – secondo Luzi – poesia avviene solo quando si trovano a coincidere («in modo assolutamente misterioso»), da un lato «uno stato emotivo e una capacità artistica» del poeta, e dall’altro un particolare momento («quello e non un altro») dell’essere universale. Perché il fatto saliente dell’avvenimento poetico è il ritrovamento – momentaneo magari, fugace – della coincidenza dell’esistenza con l’essenza vitale. Il lavoro poetico, infine, non è che la ricerca di questa coincidenza.
Più banalmente posso esemplificare la differenza con le composizioni del primo gruppo sostenendo che qui non preesiste nessuna idea da trasformare in poesia: esiste – fortissima – soltanto la «coincidenza». Per esempio in “Grande Germania”, un testo datato gennaio 1990, scritto a poche settimane dalla caduta del Muro di Berlino.

E mi si fanno vicine
La poesia di Sereni su Amsterdam
Del cinquantasette
E quella di De Libero
“Settembre tedesco” del quarantatré.

Claudio bambino odoroso di pelle nuova
Che non si addice al mattino tedesco
Ucciso perché ride non si allontana
Senza gli avanzi del rancio.
E a Sereni l’olandese che ammette
Sono tornati come turisti li accogliamo
E diamo loro anche informazioni
Ma non una parola di più.

Ancora con riferimento alle composizioni del secondo gruppo, non necessariamente il momento esterno deve essere particolare (tanto da appartenere alla coscienza e poi alla memoria collettive): può essere anche qualcosa di meno appariscente, un dettaglio che solitamente sfugge. Nella poesia “Il circuito di Pergusa”, la coincidenza avvenne tra lo studio che andavo compiendo in quel periodo sul racconto del Mercante nei Canterbury Tales (dove tra i personaggi appaiono Plutone e Proserpina) e la telecronaca di una gara di «formula tre» (da qui i nomi reali dei piloti Moreno e Martini). Sta di fatto che l’antro da cui – secondo la leggenda – emerse Plutone per rapire Proserpina si trova in Sicilia nei pressi del lago di Pergusa. Un lago particolare che, per i riflessi delle alghe sul fondo, sovente assume una colorazione rossa. Come le auto dei corridori. Come le loro tute e le insegne. Perché il circuito automobilistico è stato costruito attorno a quel lago. Il telecronista diceva «… qui dal lago di Pergusa». Non capii subito che il nome che avevo lasciato sui libri nello studio mi aveva seguito in cucina tra l’acqua minerale e il riso in bianco.

Martini fa da freno agli avversari
E il distacco di Moreno sta aumentando:
Nell’ora dei dolci motori
Inanellati giovanotti di latta
Risuonano come narcisi
Nel rosso
Il brasiliano ha la macchina ben bilanciata,
Proserpina come Moreno
Brasiliano piloto del sole
Plutone Plutone
Sale.

Per i testi definiti «dono degli dei» credo che l’espressione sereniana sia quanto mai esplicita. Sereni tuttavia la riferiva (citando Valéry) al primo verso, lasciando intendere quanto invece «il resto» fosse opera di bulino. Per esperienza posso estendere la definizione a certe brevi composizioni (quattro-cinque versi in tutto) scritte di getto nei momenti più svariati e passate indenni attraverso le successive e severe recollections in tranquillity. Il breve testo “L’aspide” potrebbe costituire un buon esempio per questi testi della fanopeia (per ricorrere nuovamente alle categorie poundiane).

L’odore di resina e c’era
Tra le fessure di roccia i fili d’erba
Rosso il capino dell’aspide.
Un garofanino di montagna.

Sta di fatto che versi aventi questo tipo di matrice compositiva possono ritrovarsi anche in testi più complessi. Per esempio il finale melopeico (per chiudere con le categorie poundiane) del già citato componimento “Come un polittico” («Mentre il vento capriccioso corteggiava come amante / i pioppi giovani. / Fino a farli fremere») o i versi iniziali della poesia “Lafcadio”:

La chiesa vaticana a riguardo
Segreto secreto dalle sue labbra oscure
Ripropone bromuro
Dato per secoli a’ soldati suoi cavalli e collegiali (…)

Naturalmente all’espressione «dono-degli-dèi» potrebbe ben più verosimilmente sostituirsi un’oggettiva riflessione su inconscio, conscio e pre-conscio, in virtù della quale gli dei farebbero il dono a chi se lo merita; anzi, non sarebbe affatto un dono, ma il naturale output di quanto seminato precedentemente in decenni di letture e rinunzie e vita appartata (input onnicomprensivo). Ma tutto sommato mi sembra più espressivo continuare ad usare l’espressione di Sereni e Valéry.
Più complessa da esemplificare la genesi dei racconti in versi, i quali – a loro volta – possono essere di tipo palesemente narrativo, oppure più sfumati, più lirici. A questo secondo gruppo di racconti in versi appartengono la storia di Jucci – apparsa nel 2014 nello Specchio – e Monte Athos, Pelle intrecciata di verde, Spiga di grano matto. Tra i racconti in versi più esplicitamente narrativi posso citare Aeroporto contadino, Cinema rosa e Suora carmelitana. Questi racconti, raccolti sotto il titolo Suora carmelitana e altri racconti in versi, dopo ventidue anni sono stati ristampati nel 2019 da Guanda nei Tascabili.

Testo tratto da: Franco Buffoni, Gli strumenti della poesia (Interlinea, 2020)

Motel

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di Monica Pezzella

(Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo un estratto da Binari, romanzo d’esordio di Monica Pezzella, TerraRossa Edizioni 2020)

La prima lettera dell’insegna nel vicolo si è spenta. Non si sente niente ma è come se il ronzio del neon in embolia riuscisse a trascinarsi fin lì nonostante la morte che se lo tira dietro. Fino all’angolo, sul balcone che gira e da cui si può spiare. Il dubbio è arrivato in quel momento, quando questa Voce ha sentito il rantolo. Era hotel o motel? Dopo averlo guardato per vent’anni, questa Voce adesso non lo sa. Il neon che diceva? Dev’essere motel, perché faceva venire in mente le puttane o qualcosa che ha a che fare con le puttane. Piccole cose evocative di un uomo che in teoria non va a puttane ma in pratica potrebbe esserci andato, una due anche tre volte pure trenta e già a quattordici anni.

È un motel. Da vent’anni almeno. La luce viola dell’ingresso che si inabissa in gradini bordati di un azzurro opalescente verso divani e pouf di maschi e femmine coi cocktail per aria e i soldi di carta che slinguano da taschini e mutande. Giù in fondo qualcosa di più intimo, letti accartocciati rotti dai listelli delle persiane in controluce. E dunque, la m delle puttane è morta. Senza sovrastrutture e sipari e veli consci né fondamenta e paracadute e materassini inconsci, questa Voce ha pensato: Se ci fosse un posto in cui entrare e dire Ammazzatemi con dentro qualcuno che ti risponde Come le pare e che poi ti garantisce che al novanta percento il tutto si riduce a Dormirai… lo faccio. Lo ha pensato in pace. Razionalmente. Né più né meno che un va bene. Lo faccio mi va bene. Leva il dolore fisico, magari una fitta elettrica nel cuore la puoi prevedere, ma leva la paura folle del se dovesse durare tanto. Che può importare invece nella vita una mera questione di tempo in più tempo in meno?

La sigaretta – c’è molto di vivo nella cenere infuocata quando cade e si sgretola nel buio lungo la linea verticale del palazzo che diventa obliqua e spezzata nel punto in cui incrocia la luce del faretto sul cancello – non ha sapore.

Non ha sapore.

Ci si immagina di tutto. Tutti e cinque i sensi. E in più l’orgasmo. E l’abulia. La voglia bestiale e il fastidio bestiale di essere toccati. Li si vive. Non ci sarà più. È stato questo a cambiare le coordinate dello spazio e del tempo e le categorie della mente. Ma se sei sette giorni fa al massimo F. ha domandato Voi cosa non fareste mai? e questa stessa Voce ha risposto… Ha risposto: Ammazzarmi. Quella brutta stufa finta che rovinava il tappeto egiziano e B. che spingeva le carte con un dito solo, bianco e tirato, e faceva frinire il vetro umido del tavolino e quando le carte si appiccicavano le bottiglie dei liquori sul ripiano sotto tintinnavano e i bicchieri vomitavano e S. era già ubriaca quando F. l’aveva domandato e infatti lei non aveva risposto. In parecchi altri avevano risposto oltre a questa Voce che diceva secca come un colpo di fioretto Ammazzarmi. Ma quanti stavano lì nel salone e quanti ancora in cucina? Erano passati oltre.

Non ci sarà più lui. La prospettiva di non essere più lui, da qui alla fine del tempo, ha mortificato il tempo. Ci si dimentica di tutti e cinque i sensi. E in più l’orgasmo. E l’abulia. La voglia bestiale e il fastidio bestiale di essere toccati. Li si lascia passare. Lui rispondeva abbassando la testa e le palpebre vibranti e si inumidiva il labbro inferiore o quello superiore e mai possibile che questa Voce cominci già a dimenticare ed era un gesto così delicato che non ti veniva di pensare alla lingua e buttava fuori un po’ di fiato mentre si girava dall’altra parte e poi, ancora ancora, l’immagine sta salendo: teneva la sigaretta con le prime tre dita come teneva la penna, no, il portamine con la clip in acciaio che agganciava alla millimetrata, i rotoli di millimetrata con le planimetrie nel portaombrelli di legno dietro la scrivania e dietro il planisfero color sabbia che sembra caffè rovesciato e dietro ancora la finestra l’abusata finestra banalissima musa delle suggestioni e sopra la scrivania l’avvilente disordine di un uomo che in teoria è maniaco dell’assetto, della riga, del millimetro ma in pratica tutte le sue cose sono nel caos e fuori dalla finestra la città che in teoria è l’emblema dell’ordine, dell’assetto, dell’armonia ma in pratica è il comune caos umano che si dibatte in milioni di buchi pure se squadrati nei muri di mattoni in stile georgiano e davanti alla finestra al portaombrelli alla scrivania la porta e dietro la porta lui, il sesso si buttava nell’uscio e quand’era chiuso si insinuava nella serratura e non serviva chiudere a chiave se tanto sperava sempre che entrasse in qualche modo, bussasse piano forte o da ira di dio, insistesse, gridasse, ridesse, piangesse, seducesse, implorasse, impazzisse, in qualche modo a modo suo, e teneva le mani buttate nelle tasche quando si girava a fingere di non volerlo ché non lo stava mica aspettando e neppure l’aveva sentito e invece aveva sentito persino quel suo profumo che metteva quando si andava a vendere alle vecchie e per quanto negasse a sé stesso proprio quel profumo e proprio i vestiti che aveva di nuovo addosso dopo che di dosso chissà chi glieli aveva levati o strappati lo riducevano a uno squilibrato che dà di matto perde il controllo quella combattutissima e poi sempre totale e redentrice perdita di controllo quell’estremo peccato che lo purificava e gli toglieva i dolori dal corpo quel corpo di un uomo di una normalità perfetta e questa Voce sa di più sa molto molto di più vuole continuare a sapere com’è fatto e come reagisce e cosa vuole e cosa disprezza e cosa esige e cosa lo eccita e cosa lo spegne ma sente il male pungere e arretra e i particolari si annacquano, affondano. Affogano.

La m delle puttane è morta.

Piccole cose evocative di un uomo che in teoria non andava a puttane ma in pratica desiderava quella puttana come un animale, un poco di più ma a volte persino meno di un animale. La prospettiva di non sentire quell’esatto tipo di desiderio da qui alla fine del tempo. Non esiste, per questo l’ha pensato. Non potrà più essere lui, questa Voce, anche se l’ha sempre solo immaginato, anche se ha vissuto tutta la vita nella mente e proprio perché ha veramente vissuto, è veramente stato, questo è morire. E c’è di peggio. C’è vederlo in altri in altro modo e non poterlo più sentire. E c’è di peggio ancora. C’è ricordarlo.

Dimenticherò anche la cosa più piccola anche quel fastidio di essere sfiorato quel piacere di scoparti quando non ti dovrei scopare la rabbia per non averlo fatto la rabbia per averlo fatto l’abbandono dimenticherò l’amore.

E allora l’aveva pensato. Razionalmente. Come si mettono i pesi sui piatti della bilancia e si vede pendere il braccio da una parte ed è quella sbagliata ma che ci puoi fare sta pendendo veramente di là. Contro ogni previsione, contro ogni aspettativa, contro ogni speranza, contro tutti i buoni propositi e la testardaggine di quando questa Voce aveva risposto Ammazzarmi. Io, mai.

Post in translation: Abdalhadi Alijla

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photo-Iskandar Sidari Franco

Fine del gioco
di Abdalhadi Alijla

traduzione dall’inglese di Fabiana Bartuccelli

Ho aperto gli occhi al mondo in una città in cui non c’era vita per l’infanzia. Ho aperto gli occhi in un campo di battaglia. Nessuno mi aveva detto chi fossero i soldati, o cosa fosse l’occupazione.
Sono cresciuto pensando l’anormalità come normale, pensando che quelle persone che incutono paura, sempre e ovunque vadano, non ci appartenessero.
Quando ho aperto gli occhi al mondo, pensavo che quei giovani adulti e i ragazzi che fuggivano dai soldati stessero giocando a nascondino o forse praticando il loro hobby della pesca.
Mi sbagliavo.
Col passare dei giorni, delle settimane, di mesi e forse anni, ho iniziato a capire che quegli uomini armati sono il nemico, l’occupazione, e che non hanno altro intento che quello di uccidere.
La prima volta che me li sono trovati davvero vicino, è stato quando con mia madre andavamo per la strada principale verso il mercato. Avevo tre anni.
I veicoli arrivavano da lontano e la gente ha cominciato a correre.
Mia madre mi ha tirato improvvisamente più vicino a sé, mi ha preso in braccio e camminando mi teneva stretto mentre osservava le tre jeep militari che passavano.
Sentivo i suoi battiti cardiaci in quella stretta. Quando mi ha rimesso giù, ho avuto una ventata di sollievo seguita da una vampata di confusione.
In quel momento, ho capito che qualcosa non andava. Non mi ha mai più portato con lei al mercato.
Il mio primo gioco con i coetanei del quartiere, si chiamava “Ebrei e Arabi”. Le prime volte, non ho rifutato l’idea di fare l’ebreo, che qui voleva dire l’esercito, “Al Jaish”.

photo-Iskandar Sidari Franco

Un giorno, ci siamo riuniti nel quartiere per giocare a “Ebrei e Arabi’, avevo quattro anni. Essendo il più giovane del gruppo, mi dissero che sarei stato io il “Jaish”.
– “No. Io voglio essere arabo”, ho detto.
– “No, noi siamo gli arabi, tu sei un ebreo, tu stai con loro”, ha sottolineato al gruppo uno dei bambini più grandi.
Non ero contento di questa cosa e ho detto:
-“Io non voglio essere un ragazzo cattivo. Non sarò un soldato”.
Mi sono sentito preso d’assalto e arrabbiato, così sono andato a sedermi su uno dei blocchi di cemento vicino al muro dei nostri vicini a guardarli giocare. Gli arabi lanciavano pietre e insultavano gli “ebrei”, mentre i ragazzi che interpretavano i soldati facevano finta di sparare, riproducendo il suono dello sparo con le labbra. Quando finivamo di giocare, di solito andavamo a installare un posto di blocco tra le rocce e i rami degli alberi, costringendo i veicoli a rallentare, mentre impugnavamo i nostri bastoni di legno, simulando pistole.

photo-Iskandar Sidari Franco

I conducenti avrebbero avuto reazioni diverse. Alcuni ci avrebbero lodato chiamandoci “eroi” e aggiungendo un po’ di gioia mostrandoci la loro carta d’identità. Altre volte, avremmo trovato delle teste dure che iniziavano a insultarci ancora prima di arrivare, annunciando così la fine del gioco.
Un giorno, i miei occhi sono stati attirati da un giornale che qualcuno aveva gettato in strada. Ho sempre avuto una certa passione per le foto dei giornali. Mi sono avvicinato lentamente, coi piedi scalzi e coperti di polvere per aver corso e camminato così nelle vie, ho preso il giornale e l’ho portato a lato della strada, andandomi a sedere all’entrata di casa nostra. Ho cominciato a sfogliarne le pagine, una dopo l’altra, imitando mio padre nella posa della lettura, ma guardavo solo le foto. Di colpo, i miei occhi si fissarono su una pagina piena di immagini. Erano immagini a colori. Nelle foto si vedevano donne in lacrime, corpi, sangue, bambini morti e soldati con le pistole.
Mi ritrovai in ginocchio, chino sul giornale, strizzando gli occhi, tentando di esaminare i corpi dei bambini.
“Perché non hanno gridato”, quella voce risuonò nelle mie orecchie. Più tardi, dopo molti anni, ho appreso che la voce dei bambini non la si sente nei grandi massacri, solo il suono di proiettili e pistole.
Ho passato più di mezz’ora a scandagliare le immagini. Una per una. Improvvisamente, fui preso dalla rabbia, presi il giornale e andai da mia sorella maggiore.
– “Butta via quella spazzatura”, urlò mia madre da lontano, riferendosi al giornale.
– “Tuo padre te ne procurerà di nuovi domani”, disse.
Non le ho dato ascolto, ho aperto la pagina dove c’erano le foto e ho chiesto a mia sorella:
– “Chi li ha uccisi?”
Mi ha guardato, poi ha guardato il giornale e ha letto per qualche istante, finché mi ha detto: “l’esercito”, Al Jaish.
-“Perché?”, ho chiesto.
Si trattenne un attimo, poi disse: “Perché sono come noi, palestinesi”.
– “Uccideranno anche noi?”, ho chiesto.
– “No, tutto questo è in Libano, Sabra e Shatila, è accaduto tanto tempo fa”, alzando la mano all’altezza del viso e facendo movimenti all’indietro, e dicendo: “Zamaaaaan, Zamaaan”, che significa che è stato molto tempo fa, per farmi calmare e per dissipare le mie paure.
Avrà capito che le mie parole mostravano una profonda paura.
Da quel momento, Sabra e Shatila non hanno mai lasciato la mia mente e non ho mai dimenticato il massacro. Come nessun bambino avrebbe mai dimenticato la prima volta in cui è salito su una nave, io non ho mai dimenticato la prima volta che ho preso un giornale che mi ha dato il benvenuto con un inizio tanto brutale.

photo-Iskandar Sidari Franco

Ma da quel giorno mi sono proprio attaccato ai giornali. Una volta, mio padre mi trovò a raccogliere giornali per strada, tutto preso ad osservarne le foto.
– “Buttalo via. È sporco”, ha gridato.
– “Voglio vedere le foto”, ho risposto.
– Mi ha detto: “Va bene. Te ne porterò di nuovi, domani”, ordinandomi di rientrare.
Poco tempo dopo, durante quella settimana, ho trovato un tesoro. Era nella stanza di mio fratello, sotto il materasso di uno degli ampi letti matrimoniali di casa.
C’erano una decina di riviste a colori. Il nome della rivista era “Abir”, si trattava di una rivista nazionalista con molte immagini a colori di “Fidayeen” e “Moutaradeen”, cioè di combattenti della Resistenza e combattenti ricercati. Ho passato molti giorni così, a svegliarmi per prendere una rivista, e sempre immerso a guardare le immagini non essendo in grado di leggere una riga.
Quella settimana, mio ​​padre iniziò a portarmi il quotidiano Al-Quds ogni giorno, al rientro dal lavoro. L’ha comprato ogni giorno fino a quando non è andato in pensione. Aspettavo tutti i giorni il suo ritorno. Appena lo vedevo apparire in strada, era corrergli incontro, scalzo, per prendere ogni cosa di quel che portava, frutta o verdura, e il giornale.
Una delle mie sorelle maggiori, che leggeva i giornali, me lo sfilava dandomi gli allegati culturali e sportivi finché non finiva di leggerlo. Contenevano più foto, così mi ritenevo soddisfatto. Quando l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina tornò in Palestina, altri due giornali si aggiunsero ad Al-Quds, “al-Hayah” e “al-Ayyam”. Io e le mie tre sorelle maggiori facevamo a gara a chi li avrebbe letti per prima.
Da adulto, ho cercato di immaginare la mia infanzia senza i giornali, senza le riviste, senza le immagini, senza le parole e l’odore dei giornali. Senza di essi, il mondo sarebbe crollato. Sarebbe stato più caotico. Per me, i giornali e le immagini erano il mondo che mi teneva altrove dal gioco “ebrei e arabi”. Erano la mia lotta quotidiana per rinnovare il mio mondo e porre domande per un dopo, a cui non ho smesso di rispondere fino ad oggi, dopo più di trent’anni.

Abdalhadi Alijla è un sociologo, politologo e scrittore palestinese. Membro della Global Young Academy e co-fondatore della Palestine Young Academy, è autore del libro « Trust in Divided Societies » (Bloomsbury Academics and I. B. Tauris UK). Ricercatore associato all’Università di Gothenburg e socio del Post-Conflict Research Center di Sarajevo, ha pubblicato numerosi articoli in diverse riviste internazionali. Di prossima uscita un romanzo autobiografico.

 

Lagioia e il male

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ph. Mimmo Jodice - Roma, 2006
ph. Mimmo Jodice – Roma, 2006

di Lorenzo Ciarrocchi

Una città dove il sangue dei ratti cola sulle biglietterie del Colosseo; dove la mancanza di un sindaco trova una risposta asimmetrica nella presenza di due papi; dove le dinamiche cittadine sembrano rispecchiare il caos totale di una città coperta da una coltre di fascino e spazzatura; una metropoli che, per usare Rilke, «esala un fetore di patatine fritte e angoscia»: questa è Roma, conditio sine qua non della vicenda narrata da Lagioia in La città dei vivi (Einaudi, 2020), l’omicidio di Luca Varani avvenuto nel marzo 2016. Un romanzo che non si ferma al reportage di una vicenda di cronaca nera ma che elabora un’intensa riflessione sul rapporto collettivamente represso nei confronti del male.

Tutti temiamo di vestire i panni della vittima. Viviamo nell’incubo di venire derubati, ingannati, aggrediti, calpestati. È più difficile avere paura del contrario. Preghiamo Dio o il destino di non farci trovare per strada un assassino. Ma quale ostacolo emotivo dobbiamo superare per immaginare di poter essere noi, un giorno, a vestire i panni del carnefice?

In La città dei vivi il male viene riportato alla sua condizione razionale; la figura del mostro immaginata come un’esistenza concreta, distante, altra, viene costantemente frantumata e redistribuita. Questa frantumazione avviene nei momenti in cui l’essere umano si aggrega in non-luoghi, in eterotopie dove, percependo di essere parte della massa, chi si sente attaccato dal mostro coglie l’occasione per sottolinearne la propria distanza. La ricchezza di informazioni del romanzo mostra infatti, oltre agli aspetti più tecnici dell’indagine, anche la vox populi della vicenda:

«Se chiedessi la pena di morte per questi maledetti mostri, la cosiddetta intellighenzia mi darebbe addosso. Bene, fatelo tutti, perché io questa volta la pena di morte la vorrei. Fortissimamente la vorrei». (Rita dalla Chiesa)
Luca Varani ucciso da gay pervertiti.
Froci demmerda #lucavarani
Chi usa gli strumenti del demonio si illude di acquisire poteri che altri non hanno.
Maledetti, esseri spregevoli, seguaci di Satana.

Quando si tratta di analizzare le reazioni sui social a fatti di cronaca nera dove lo sciacallaggio dei media e il feticismo per il macabro hanno la meglio, è fin troppo facile vedere quanto sia immediata l’inversione dei ruoli tra vittime e carnefici, dove l’irrazionalità della massa, almeno a parole, non farebbe fatica a macchiarsi del sangue dell’assassino. Tuttavia, la profondità del ragionamento di Lagioia trascende la portata della reazione “a caldo” evidenziando ogni nervo scoperto della vicenda, e rendendo chiunque inevitabilmente partecipe. È qui che, dopo la frantumazione del male, si innesta la sua redistribuzione.

«Facile la discesa all’Averno», così Virgilio introduce la quarta parte del romanzo. Lo stesso Lagioia, interrompendo la narrazione dei fatti dell’omicidio Varani, confessa quale sia stata la sua vicenda personale che lo ha legato così fortemente al caso che sta seguendo; un accadimento della sua gioventù, apparentemente marginale, che non ha nulla a che vedere con l’efferatezza del caso Varani: ma proprio qui si sofferma lo scrittore, chiarendo come spesso la discesa verso l’abisso possa essere un semplice inciampo che, approfittando di complessi personali e situazioni irrisolte, fa rotolare in maniera incontrollata nella perdita più totale di sé. Una volta sprofondati, dove maggiore è la repressione più pericolosa sarà la reazione. La risalita avviene solo tramite delle «sregolatezze» e il segno indelebile che queste lasciano sulla nostra pelle: tuttavia, esiste chi la tragedia riesce solamente a sfiorarla e chi invece, mancante di appigli a cui aggrapparsi, abituato al buio, si trova a esserne protagonista, come Manuel Foffo e Marco Prato. Traumi e abissi che esplodono con estrema violenza dopo essere stati sublimati per anni, e che prescindono dalla condizione sociale di ciascun individuo, la cui trasversalità caratterizza tutta la vicenda. Tre classi sociali diverse, tre contesti familiari diversi e tre rapporti con la propria identità sessuale diversi. Un solo comun denominatore: vuoti affettivi. Mancanze familiari nascoste per anni che trovano il loro sfogo in una vicenda che viene assimilata a un omicidio rituale. Nessuno di quelli che si sono approcciati al caso Varani ne è uscito indifferente: poche vicende come queste, se approfondite, portano a galla una parte di noi che chiunque vorrebbe soffocare ma che si è costretti ad accettare e che non appartiene a una componente irrazionale e incomprensibile. Il male viene perciò restituito da Lagioia a ciascuno di noi rendendoci partecipi dell’orrore supremo, l’omicidio efferato, la cui indecifrabilità affonda le sue radici in un passato di cui tutti facciamo parte, di cui tutti riconosciamo il segno, la scheggia del male frantumato.

Presenza necessaria che percorre silenziosamente tutto il romanzo è la città che fa da sfondo alla vicenda: la Roma del 2016, intossicata dai rifiuti ed eternamente contraddittoria; la città del cinismo, dove nessuno è destinato a lasciare il segno. Monumenti eterni dell’antichità che, oltre a essere un terreno di lotta per ratti e gabbiani, fungono da monito per i viventi: l’unica cosa eterna è la transitorietà.

Ci sono le città dei vivi, popolate da morti. E poi ci sono le città dei morti, le uniche dove la vita abbia ancora un senso.

Una città che crea dipendenza per la sua mancanza d’ordine, per il suo afflato vitale che si traduce in una costante precarietà. Lagioia ne elenca i posti e dialoga con essi, chiedendosi se ne sia ancora degno e descrivendo come la parte più remota della borgata possa incrociarsi e guardarsi in faccia con la parte più benestante della città, dove tutto crolla da sempre ma tutto rimane al suo posto.

 

Le ultime cose – Manuel Maria Perrone

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Le ultime cose

 

La morte a cui ci hanno convocato

E che ci aspetta ignara da qualche parte nella vita

Avrà l’odore di quello che abbiamo realmente vissuto

O sarà il ricordo di quello che avevamo dimenticato?

 

 

Gisella era stata la prima a morire, mentre la morte iniziava ad essere presente tra di noi.

Era morta come muoiono i giovani, sorprendendoci, rovinandoci il programma di una felicità illimitata.

Era morta mentre io ero altrove, festeggiando i miei primi 25 anni, con amici casuali.

Al mese aveva deciso di morire anche mio nonno. L’aveva deciso un collasso cardiaco per lui, un collasso che l’aveva tenuto gli ultimi 2 mesi in un letto, costretto a meditare notte e giorno sulla morte.

Avevo deciso di andare a trovarlo, per riuscire a vincolarmi al movimento della morte (Gisella rimaneva astratta, per me, non sapevo bene dove) far entrare per sempre in me forse una consapevolezza, forse un ricordo o una sensazione.

Mio nonno mi aveva guardato mentre usciva paura dai suoi occhi, uno strano sorriso gli disegnava la bocca e il corpo, in sciopero, costringeva al silenzio il suo discorso.

Né saggio, né idiota: moribondo.

Quando l’avevo visto, avevo parlato per primo: “ti sei seduto per terra e non ti alzi più!”, facendo eco alla minaccia che aveva disciplinato i nostri incontri quando io ero bambino: “Guarda che se non la smetti mi siedo per terra e non mi alzo più!”.

Gli credevo e obbedivo, temendo l’inesorabile che scaturiva da quella minaccia.

“si- mi rispose e lasciò di nuovo spazio al silenzio della flebo- e da quaggiù mi sono messo a pensare”

avevo chiuso gli occhi, per guardarlo come lo volevo vedere: veramente seduto per terra, nell’angolo di un patio, nudo, calvo, ciccione, con i suoi baffi e i suoi occhiali di sempre. Guardandolo come se io fossi altissimo, vedendolo restringersi e scomparire nel suolo.

Riaprii gli occhi e mi stava guardando: “E tu chi sei?”

In Africa quando muore un vecchio, i bambini si mettono i suoi vestiti e vanno in giro imitandolo.

La gente ride e così si accompagna lo spirito della persona a diventare un ricordo.

Corsi in giro per la stanza, come un giullare arrabbiato, aprii cassetti, mi infilai nervoso i suoi vestiti, mi imbottii con cuscini, infilai le sue scarpe e i suoi occhiali di ricambio e completato questo rituale carnevalesco, mi fermai e sorridendo, gli dissi:

“Don Italo Incauto, per servirla” e dopo avergli rubato il nome gli rubai le abitudini, imitandolo nelle varie parti grottesche del suo carattere. Mi mostrai permaloso, vittimista, mangione, ciarlatano, buffone, mentre lui mi guardava incredulo e irritato.

Quell’anno morirono in molti, marcando un prima e un dopo.

Alfonso e Filippo, maggio e agosto, Laura, ottobre, Andrea e Dafne, novembre e dicembre.

Morti, come cicatrici nel calendario.

 

Di Gisella mi ricordo il nostro primo incontro.

Erano i tempi delle feste del coprifuoco. Ci si incontrava tutti in una casa, mezz’ora prima del coprifuoco e la festa durava forzatamente fino alla mattina dopo. Ballavamo nella stanza della casa più lontana dalla strada, per occultare la vita domestica in quelle ore proibite. Per questo spesso si stava in una lavanderia o nella stanza di un bambino, premurosamente traslocato altrove.

La conobbi ballando e ridendo.

La intuii parlando con lei.

La svestii guardandole gli occhi.

Facemmo l’amore nascosti .

Nell’impeto che sussurra l’orgasmo aveva gridato e si era scostata:

“Ahia, ma sei scemo?”

ero rimasto incredulo e spaventato, non riconoscendo da dove veniva quel cambio, ignorando l’errore che avevo dovuto commettere.

Mi aveva guardato severa per un buon momento, poi era scoppiata a ridere e mi aveva detto :

“mi piace, mi eccita tantissimo questo cambio improvviso tra due emozioni cosi opposte: la faccia che fa l’uomo quando si sentiva un eroe e un attimo dopo, senza sapere perché, si sente una merda. Scusa, lo faccio sempre: mi piace tantissimo!”

E aveva iniziato a riempirmi di baci su per il collo, mentre io restavo immobile, congelato dalla situazione e da quelle parole.

“L’uomo….lo faccio sempre…”

vedendo che non recuperavo entusiasmo si staccò, mi prese i vestiti e fece per scappare.

La guardai : capii che dovevo accettare le sue regole, il suo gioco e solo cosi potevo divertirmi con lei.

Presi il tubo della doccia e lo puntai come una pistola, guardandola con un giocoso disprezzo: “Non so chi sei, come ti chiami, cosa fai, so solo che sei sul mio cammino”

“Gisella”, mi disse timida mentre io aprivo la doccia, senza scrupolo, sacrificando lei e i miei vestiti al gioco. Dopo un po’, continuando a dirigere lo spruzzo, mi resi conto che stava nel suolo, e non si muoveva. Spensi l’acqua, vidi che boccheggiava, senza riuscire a respirare. Mi avvicinai, la guardai e invece di baciarla le tolsi una ciocca di capelli che le scivolavano tra le labbra.

Mi indicò con la mano la sua borsa. Corsi a prenderla, estrasse un Ventolin e iniziò a farsi respirare da quello strano oggetto. Non avevo mai visto un oggetto simile e, credendolo una droga, mi allontanai di qualche passo. Quando si riprese mi guardò, sorrise timida : “mi chiamo Gisella e soffro d’asma, ogni tanto”.

Ci amammo per vari anni, soprattutto attraverso lunghe lettere, perché uno e l’altro vivemmo altrove.

Morì tra una lettera e un’altra, in una di quelle pause necessariamente lunghe nella nostra conversazione. Mi chiamò un giorno sua madre, me lo disse, senza fronzoli. Lo accettai come un fatto, senza domande.

Dieci giorni dopo ricevetti una sua ultima lettera, che mi aveva raggiunto oltre la morte: allegra, idealista, spensierata, macchinando progetti e aggrovigliando idee.

Ignara che era già morta, al momento di ascoltarla scritta. Venne quella lettera a rendermi più astratta la morte.

Anche gli altri morirono astratti, senza lasciarmi guardare, né capire.

Tornando a casa dall’ultimo funerale di quell’anno imbarazzante, mi sentii l’odore addosso.

Mi svegliai la mattina dopo e avevo i capelli bianchi: il mio corpo aveva intuito prima di me la frattura, aveva capito che si diventa vecchi, semplicemente perché è arrivato il momento. Io ci misi molto più tempo ad accettarlo e, giustamente come un vecchio, mi tinsi i capelli.

Non mi mancavano le persone: mi mancava la forza per ridurre tutto in ricordo.

Mi sentii solo non perché non c’erano, ma perché avevo la responsabilità di non dimenticare.

Capii che le persone, quando muoiono lasciano il proprio corpo, per andare ad appoggiarsi su chi le ricorda: ne aumentano il peso e moltiplicano i dialoghi che si sussurrano nelle loro menti.

Non potevo più pensare solo a me stesso: dovevo pensare anche a loro, adesso.

E non ne avevo voglia.


 

Manuel Maria Perrone. Artista. Svizzero. Più neutro del formaggio, più puntuale del cioccolato.

Contro Maradona

20
Nicla Vassallo

di Nicla Vassallo

Nicla Vassallo

Nicla Vassallo (https://niclavassallo.net/), saggista, poeta e professore ordinario di Filosofia Teoretica, ha rilasciato qualche intervista su questo nostro bislacco e stravagante andazzo. Qui, di seguito, si esprime su Maradona.

25 novembre 2020?

Nicla Vassallo: Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne (https://www.youtube.com/watch?v=sBIi_-3IfJk). Muore Diego Armando Maradona. Ironia della sorte. Meglio, una vera e propria beffa. Si è parlato ben più di Maradona che di violenze contro le donne. Un’assurdità. E di Maradona si continua a parlare (al bar e soprattutto sui media), mentre delle violenze contro le donne, relegate ormai nella cronaca nera, ci si interesserà “seriamente” il prossimo 25 novembre, ovvero nel 2021. I media ci stanno inondando di Covid e Maradona.

Diario d’autunno. Poesie, alberi, animali

3

di Francesca Matteoni

Jackie Morris, Hare

Nel mese di agosto ho cambiato casa e vita. Le prime settimane sono state occupate dal trasloco e dall’abituare Ariel, il mio gatto, al nuovo ambiente. Dalla fine di settembre ho cominciato a sentire il peso del distacco. Un lento trauma inevitabile, che viene con la scelta. Come chi si trovasse d’improvviso nello spazio aperto, dopo essere stata rinchiusa in un micro-mondo che credeva perfetto. L’aria fresca punge e rafforza, ma porta anche smarrimento. Volti, gatti, anni che sfumano dall’altra parte della città e nella pandemia. Li rivedrò, certo, come rivedrò la gente del paese-famiglia, non appena sarà sicuro muoversi, senza la paura di portare o ricevere contagio. Ariel è con me. Arrivato minuscolo nell’estate del 2018 dopo due brutte perdite di felini amati, l’ho forse viziato troppo, siamo quasi simbiotici. Cammina seguendomi nella boscaglia. Mi aspetta, perché ha paura delle persone che non conosce e dei cani. Mi sento colpevole, ma ho bisogno di lui. Lui ha bisogno di me. E poi le letture. In questi mesi a volte leggere è stato difficile, ma ciò non vale per la poesia, che ha la funzione di un talismano: posso aprire il libro e ritrovare versi familiari, che mi scuotono e schiariscono la visione delle cose.

Nel primo autunno mi hanno accompagnato bei testi di poesia di recente pubblicazione. Esco al mattino e vado a sedermi sulla sedia che ho sistemato nell’erba, accanto alla macchia boschiva. Ariel si aggira, prendendo confidenza, tenendomi d’occhio. Io apro il libro. È Noi, di Laura Pugno (Collana A27, Amos), un poema in più sezioni che sembrano emanate da due corpi in una storia d’amore.

luce corvina del corpo che ti è accanto

Non è per amore, sebbene con la sua luce che ricorda l’ombra, che ho scelto? La luce di chi ho accanto ricorda il buio eppure contiene il sole: l’amore ci avvicina alla nostra radice mortale. Non ci sono solo due amanti, qui. C’è la casa che si frantuma, c’è il bosco che la ricompone. Cosa vuol dire essere ricomposti dal bosco, mi chiedo, mentre alle mie spalle l’incolto è quasi impenetrabile, ho dovuto spezzare i rami per raggiungere Ariel nelle sue esplorazioni.

vedrai allora la casa, da dentro
di nuovo visibile, bosco, foresta

Segno la mia appartenenza perdendomi ogni volta. Segno l’amore con un patto di coraggio. Lascio entrare le parole nell’aria e poi all’interno – come se frusciando le pareti fossero tutte le case che ho abitato, e soprattutto i corpi di chi con me le ha rese vive. Ma i corpi sono come il bosco, per questo fanno e distruggono la casa. Resistono sotto ogni illusione di stabilità, ci portano via mentre ci abbracciano.

non avrai casa, è ora di andare,
sarà sempre, la stessa ora fino all’ultima

Seguo gli amanti che si dicono la verità, spezzano il mondo. Che si liberano dall’angoscia di possedere qualcosa o qualcuno. Si dicono di lasciare entrare il bosco, che vuol dire crescita incontrollata, ricchezza del sottosuolo, ostilità prima della bellezza. Che vuol dire accettare che non ci sia un io, ma un noi, una coralità in continua resa. L’altro fa luce dove non lo si può toccare, anche se ramifica nella memoria e nel sogno. Mi ritrovo qui:

verso una casa mai vista,
che lo stesso
è casa, non c’è altra,
è casa e il bosco
è entrato dentro, non c’è fuori,

non sarà mai
più solo, l’alba
viene di nuovo
perché tu la vedi,

col corpo prima che con gli occhi

Le cose accadono prima della loro comprensione: lasciarsi andare al dialogo significa imparare a tacere, mentre l’altro parla. Anche se parla di assenza.

Jackie Morris, Egret

Rientro nella mia abitazione, composta di due locali e un bagno. Nei libri la lingua si moltiplica, recupero molte me stesse in un alfabeto che disegna i corpi fra i secoli. Nel Settecento il filosofo inglese David Hartley scrisse di un unico “filamento vivente” da cui si sono sviluppati tutti gli animali a sangue caldo. Il nonno di Darwin riprese questo concetto nei suoi studi naturalistici che influenzarono la teoria dell’evoluzione del nipote Charles. Un filamento di materia, così facile da rompere o aggrovigliare. Forse quel filamento è la parola quando viaggia scarna da una voce all’altra. Filamenti (Einaudi) è il titolo dell’ultimo libro di poesia di Elisa Biagini, che si apre così:

Avvicinati allo specchio dello scrivere:
mordere terra, mangiare ombra

Scrivere come vedersi nella nostra parte più dura e comunque impalpabile (terra, ombra). Scrivere per avvicinarsi a ciò che è vero: non padroneggiarlo, ma registrare quel processo di ricerca che non è poi tanto diverso dal ritrovarsi senza la casa che credevamo di abitare.

Qui si va scalzi,
dicono, non le
calze promesse o
le pantofole andate
al calcagno: deve
risalirti quell’aria
al polmone, quella
che soffia nei cassetti
della terra.

Il dialogo avviene con due figure del passato, la cui voce rinasce nell’invenzione poetica. Uno è il fisico serbo Nikola Tesla, il padre dell’elettricità e dunque della luce che rischiara le nostre case, ora che i giorni si accorciano, che le piogge riversano lampi come scariche potenti dal cielo.

la luce che ci
asciuga fa questa
carne elettrica

L’altra è Mary Shelley, che ci parla da un diario personale, ovvero dall’opera-ombra dietro la scrittura. Il mostro di Frankenstein diventa il tentativo di rianimare la madre Mary Wollstonecraft, morta pochi giorni dopo averla partorita. O forse, mi chiedo, vuole resuscitare un ibrido fra la madre e l’amato? La scrittrice infatti prese il cognome dal marito Percy Bisshe Shelley, il “mio” poeta del vento, che da adolescente sognavo di incontrare fuori dal tempo. Morì in un naufragio nel Mar Tirreno quasi trentenne. Quando amiamo accettiamo di essere mortali, ho scritto. Quando amiamo riportiamo indietro qualcosa dalla morte, qualcosa che ci rende prossimi, solidali. Con dolore.

Ti ascolto, hai il respiro pesante. Rivivi le scosse del tuo tornare in vita. Un orecchio alla parola e uno al silenzio.

Riporto me stessa in un mondo, lasciandone un altro. I filamenti sono punti di sutura. Cosa sto imparando? Ottobre trascorre come la nostalgia di un periodo incantato, precluso. Con la paura della pandemia che cresce, ci restituisce la nostra originaria fragilità, ci mostra il lato selvaggio del mondo, lo stesso che è anche in noi e non ha nulla a che vedere con corse e grida su spiagge incontaminate. Quante volte la sensazione di ripartire da capo? Quante volte l’impressione che questo ulteriore inizio non sia che uno strato di pelle morta che cede, alimentando un fuoco dei miei resti? Sfoglio Brevi scene di lupi (Ponte alle Grazie), un’antologia poetica della canadese Margaret Atwood, tradotta in italiano da Renata Morresi. Ho libri di poesia della Atwood in originale e in traduzione. Il primo libro di poesia che lessi, in un’altra casa a Londra, era suo: The Door. Qui, inciampo in “Partenza dalla terra selvaggia”. Eccola

Io ero stata cancellata
dal fuoco, sono stata invasa
dal verde strisciante
(come
è lucida la stagione)

Col tempo gli animali
sono arrivati ad abitarmi

prima uno per
uno, di nascosto
(le loro tracce abituali
bruciate); poi
marcati i nuovi territori
sono tornati, più
convinti, anno
dopo anno, due
a due

ma inquieti: non ero pronta
affatto a quel trasloco in me

Loro capivano che ero
troppo pesante; rischiavo
di rovesciarmi;

avevo paura
dei loro occhi (verdi
o ambra) che mi brillavano dentro

non ero compiuta; di notte
non riuscivo a vedere senza una fiamma.

Lui scrisse, Stiamo partendo. Io dissi
non ho neanche un vestito
rimasto da indossare

Venne la neve. La slitta fu un sollievo;
il suo binario si allungava dietro
spingendomi verso la città

e dopo la prima collina fui
(all’istante)
svissuta: loro non c’erano più.

C’era qualcosa che mi avevano quasi insegnato
Venni via senza imparare.

Ogni poesia mi conduce altrove, mentre accetto ciò che ho scelto. Nella scelta sappiamo le ragioni, ma non sappiamo come reagiremo. Per questo, penso, a volte è più facile restare dove si è, anche se stiamo rinunciando a toglierci uno strato morto di pelle. Ma io non voglio il facile. Io voglio vivere. Così semplice ed enorme, questo fatto.

Jackie Morris, Otters

Qua vicino, dall’altra parte della strada, c’è un campo con una quercia. Decido che io e la quercia faremo amicizia, perché ho bisogno di un albero. Olivi, querce, storie antiche. La passeggiata alla quercia è breve,  poi siedo a guardare le montagne che da sempre sono le vere mura della casa. Loro mi dimenticano continuamente. Continuamente mi fanno da madre. Grandi schiene che ci portano addosso come bambini inuit. Ho con me lo stesso libro, da giorni. È di Robert Macfarlane, lo scrittore naturalista e dell’artista Jackie Morris. Sono poesie dette dagli animali e dalle piante. The Lost Spells (Hamish Hamilton Books), gli incantesimi perduti, seguito ideale di un libro dal formato gigante, The Lost Words, composto da poesie e immagini per mostrare ai bambini le vite che rischiano di non conoscere mai. Ripenso a quando, in una libreria a Green Park, chiesi al commesso Tarka, la lontra di Henry Williamson: Tarka, the Otter. Il commesso era un ragazzo. Mi guardò: What is an otter? Pensai che fosse colpa della mia pronuncia, così glielo scrissi. Non lo sapeva davvero. Io non ho mai visto una lontra, ma so chi è. Penso che abitare in un mondo dove i bambini non sanno chi sono le lontre deve essere terribile. O i barbagianni. O le trote argentate. O le falene dai tanti nomi che devo ancora scoprire.

Leggo una poesia ogni tanto, centellino le immagini perché l’incantesimo duri più a lungo. Quando mi smarrisco sono gli animali a dirmi che va tutto bene anche se tutto va male. Il loro esistere oltre la mia lingua. Per molti anni ho trovato rifugio nella betulla della casa materna, poi si è ammalata senza rimedio e infine ha nutrito il fuoco di un camino. Una volta, nell’Inghilterra del sud, presa dall’angoscia, mi riparai per qualche ora presso un olmo, in un campo.

I castagni, i faggi, gli ontani dei luoghi dove sono cresciuta oppure ho abitato. Gli olivi così frequenti che quasi me li dimentico, come si dimenticano le vite millenarie. E qui: corbezzolo, un cipresso, biancospino delle fate, querce, questa quercia. “Impara a stare ferma”, mi consiglia. Non c’è altro modo per far pace col tempo.

Progetto per una casa

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[ Presentiamo il primo volume di Manufatti poetici, collana di libri a piccola tiratura dedicata alla scrittura poetica contemporanea. La collana è pubblicata da Zacinto Edizioni, marchio editoriale di Biblion Edizioni, e diretta da Paolo Giovannetti, Antonio Syxty, Michele Zaffarano.]
*
di Giulio Marzaioli
In primo luogo sarebbe opportuno possedere una casa. Quindi abbatterla, avendo cura di salvaguardare intatte alcune porzioni (pareti o elementi architettonici) in modo da poter sempre ricordare da dove siamo partiti. La presenza di elementi a contorno della casa (alberi, siepi ecc.) potrebbe risultare irrilevante.

Overbooking: La Iaia Scienza

3

Il gusto di una vita, quanto basta.

di Gigi Spina

a proposito di Iaia Caputo, Il gusto di una vita, Enrico Damiani Editore, 2020.

Mi hanno colpito subito le prime parole, che ho immaginato come immediato e quasi automatico proseguimento dell’esergo tratto da Casalinghitudine di Clara Sereni.

In una storia degli esergo nella letteratura in generale, che non scriverò mai, ma che vorrei leggere, mi piacerebbe fosse indagato in quale momento preciso della scrittura l’esergo esige di entrare in scena. Se prima, durante o dopo aver concepito un testo, e se si attinge a una sorta di magazzino dei ricordi letterari che, quasi in automatico, come in un jukebox, fa scorrere le varie possibilità e poi seleziona la migliore possibile.

Ma ecco le prime parole: «Non esiste un’attività più prossima alla scrittura della cucina: entrambe necessitano di tecnica e immaginazione, di ordine e struttura, di esperienza e talento». La comparazione mi affascina, soprattutto fra campi non immediatamente percepiti come vicini. La comparazione non è l’analogia: è il processo complicato – quanto più è ricco di scoperte di somiglianze, ma anche di disparità – che può portare all’analogia, ma non sempre. Perché l’analogia è l’abbreviazione comoda di una sensazione di uguaglianza non sviluppata ancora, e in questo può essere ingannevole, può nascondere le profonde differenze.

E poi, queste prime parole tengono a distanza, per fortuna, la lezione platonica del Gorgia (c’è sempre, purtroppo, chi continua a chiedere lezioni di verità ai testi antichi), il dialogo in cui Socrate spiega come la retorica e la culinaria non siano arti, ma forme di adulazione, di abbellimento ingannevole e non necessario, l’una per l’anima, l’altra per il corpo, al punto che la retorica sta alla giustizia come la culinaria alla medicina. Due trucchi, quindi, che fanno finta di essere valori o soluzioni.

Eliminata, allora, la lezione (comparativa) di un antico filosofo, conviene tornare alla comparazione fra scrittura e cucina. Di primo acchito, dopo aver letto questa parole, ho chiuso il libro e mi sono preso una pausa, segno di una comparazione che colpisce nel segno e costringe a pensare. E ho pensato subito a un’altra comparazione: fra scrivere e correre, e sono ‘corso’ a prendere dalla mia libreria un libro di Murakami Haruki, L’arte di correre (Einaudi, 2009): a pagina 5 della prefazione, Murakami scrive: «A quel punto mi è risultato chiaro che scrivere onestamente sulla corsa a piedi significava scrivere onestamente (in una certa misura) sulla mia personalità. Di conseguenza nulla impedisce di considerare questo libro una specie di diario incentrato sull’azione di correre». Ecco, la comparazione, fra scrittura e cucina, fra scrittura e correre, non deve nascondere il fatto che entrambe le attività hanno un unico soggetto operante e per questo si costituiscono come diario, ricordo, autobiografia.

Del resto, quando, in una presentazione on line di questo stesso libro, il 15 novembre – con l’autrice c’erano Antonio Franchini ed Helena Janeczek -, Franchini ha introdotto una comparazione fra letteratura, cibo e arti marziali, per elementi come il gesto e la precisione, sapevo che l’autobiografia non era per nulla estranea al discorso.

Insomma, Iaia Caputo ha scelto uno dei tanti filtri soggettivi della sua vita, uno dei tanti lasciapassare che consentono di imboccare i sentieri adatti a ricordare, rivivere e raccontare: la cucina, la lunga e accorta preparazione, il culto ‘laico’ della ricetta, i dosaggi, i tempi, il rapporto col fuoco e con l’acqua (non mancano neanche gli altri due elementi, naturalmente), il momento comunitario, l’ospitalità, le suppellettili, l’organizzazione degli spazi, la cura: tutto quello, insomma, che racchiude la parola cibo. Anche quel cibo imposto, tipicamente italiano (direi soprattutto del sud, per esperienza di siculo-calabrese-campano), che l’indimenticabile Mattia Torre ha ironicamente raccontato in Gola, uno dei suoi atti comici (M. Torre, In mezzo al mare. Sette atti comici, Mondadori, 2019, pp. 39-52).

Per la lettura di Valerio Mastandrea: https://www.youtube.com/watch?v=P7HoMSUMEJk ; https://www.youtube.com/watch?v=oe34Al2tos8.

Certo, nei prodotti delle due attività, sia libro che pietanza, c’è sempre qualcosa del processo di elaborazione che nessun fruitore (lettore, invitato a pranzo o cena) potrà più cogliere, qualcosa che rimarrà ricordo personale; d’altra parte mi pare difficile, anche se può essere contemplato, che uno/a scriva o cucini solo per se stesso/a, almeno a certi livelli.

Preciso che intanto il libro è ancora chiuso, è solo il mio pensiero che insegue la comparazione.

Con quell’uno/a mi accorgo, però, di essere entrato in un sentiero scivoloso, quello della differenza di genere, nel quale si è spesso equivocati, fraintesi, perché è difficile per un singolo (questa volta è proprio un, inteso come maschio) dover rispondere dei disastri fatti dal genere maschile, pur non essendone personalmente responsabili. Ma sfido la scivolosità: finora ho raramente trovato una donna che sia contenta di cucinare solo per se stessa, mentre spesso un uomo (io cucino, direi, da sempre) lo è: si imbandisce la tavola, si programma la pietanza e si gode il risultato, anche da solo. E per la scrittura? Non saprei. Certo, i famosi fogli nel cassetto non conoscono differenza di genere, mi pare.

Del resto, la memoria riesce ad affollare la scena letteraria immaginata di tante presenze che fanno comunque compagnia e attenuano la solitudine di chi scrive, come forse gli odori e i sapori durante la preparazione di un cibo fanno materializzare ospiti, assaggiatori. Magari, qualche volta, anche parassiti, come nelle commedie antiche: certo, ci sono anche parassiti della memoria.

Intanto ho riaperto il libro e ripreso la lettura. Diciotto capitoli, come gli anni che servono per raggiungere la maturità ufficiale e certificata: leggendoli, ho potuto con Iaia Caputo ritrovare volti e luoghi della vita napoletana che abbiamo avuto in comune (anche se io con un bel po’ di anni in più), come la collaborazione a un famoso quindicinale: La Voce della Campania.

Il libro va letto tutto d’un fiato (tranne la pausa iniziale, forse) godendosi, quasi assaporando il modo calmo e lento di raccontarsi e raccontare i ricordi, anche se si intravedono non poche tempeste e accelerazioni. Ho sempre sperimentato, leggendo autobiografie o scritture simili, che una scrittura funziona se consente di interagire continuamente in controcanto, se riesce a suscitare ricordi anche personali. Ma non solo. Fra le capacità dell’antica tecnica retorica (con buona pace di Platone) c’era quella di far vedere con le parole, di ‘mettere sotto gli occhi’. I maestri di retorica, per esempio Quintiliano, spiegavano che si potevano anche far sentire rumori e forse far sentire odori. Entrando nella famiglia (e nella vita) di Iaia Caputo – il libro è dedicato alla madre, Bianca – direi che si sentono anche odori, voci, con continue sinestesie, non solo di sensi, ma anche di pathe (attenzione a non leggere: di paté), di passioni, come quella politica e quella letteraria.

Quanto ai ricordi personali suscitati dalla lettura, due in particolare: io l’ho conosciuto, Aurelio Fierro, a differenza di Iaia Caputo (se ne parla a p. 100, nel capitolo 12), e dovevo farlo, perché da ragazzino, a Salerno, fui invitato a incidere, per un concorso in Rai, di cui poi non seppi più niente, un disco da dilettante, e scelsi Guaglione, accompagnato al piano da mia zia, disco che non ho più ritrovato. Quando vivevo a Napoli partecipai a Napoli Nobilissima, incontri organizzati al Convitto Vittorio Emanuele, su varie amenità, napoletane da un amico purtroppo scomparso da poco, Catello (Lello) Tenneriello. Io parlai della Pedamentina con Rosa D’Elia, una bibliotecaria della Federico II. In prima fila riconobbi Aurelio Fierro, mi presentai e gli parlai di quel mio Guaglione, di cui conservo invece lo spartito. Fu molto cordiale e me ne rimane un bel ricordo.

Il secondo riguarda quella certa Rosa, che la pizza la mangia nel pane (a p. 104 dello stesso capitolo). Ebbene, posso vantare un record rimasto finora imbattuto, a quanto mi risulta: da ragazzino mangiavo i grissini dentro il pane, nel cozzetto (la parte finale dello sfilatino); allineavo in bell’ordine i grissini e mi deliziavo al sapore e allo scrocchiare della masticazione. Potrei dire che quella è la mia madeleine che non ho cercato più, ma non escludo che prima o poi lo farò.

Sono alla fine del libro, l’ultimo capitolo non ha numero e si intitola Infine (pp. 141-142). Ritrovo la madeleine, ma Iaia Caputo si chiede se lei voglia davvero ritrovare le sue intatte: i gelati di Capri, la coviglia di Scaturchio, la pizzetta di Moccia: «Finirebbero per deludermi, poiché nel tempo trascorso la fantasia li ha trasformati, e la poetica perfezione raggiunta nella nostalgia che proviamo per ciò che non solo è trascorso, ma anche perduto, non troverebbe mai conferma nella realtà. Allora meglio, molto meglio continuare a immaginarle, le madeleine. Niente può competere con la menzogna di un ricordo inventato per restare il gusto stesso del passato».

L’ultima frase del libro, certo, sembra escludere che si possa andare di nuovo in cerca della propria madeleine, ma io penso che sia un metapensiero, quello che una scrittrice deve per forza formulare; per forza libera e volontaria, intendiamoci. Ma che un lettore può mettere alla prova.

Anche perché, nei tristi giorni che stiamo vivendo, c’è un virus che fa perdere proprio il gusto, non solo del cibo, ma anche della vita. E contro il virus serve anche ritrovarlo, se possibile, il gusto della vita, tutto intero. Nelle cose e nelle persone reali, non solo in quelle dei ricordi.

 

 

Leggende lucane e street art

2

di Mimmo Cecere

Nell’ultimo decennio, la street art è passata da atto vandalico, da perseguire e reprimere, a strumento di riqualificazione urbana. Ad ospitarla non sono solo le periferie delle grandi città, ma anche i piccoli centri che all’arte di strada offrono i loro muri per uscire dall’isolamento e dall’emarginazione. Il massimo esponente di questa forma d’arte che smuove le coscienze, meraviglia e affascina è Bansky. L’artista di Bristol ha scelto l’anonimato per garantirsi la libertà di agire senza condizionamenti. Tuttavia, oggi, gli street artist non operano solo illegalmente ma sono sempre più spesso ricercati e invitati da associazioni, istituzioni e privati.

A Stigliano, ad esempio, paese di circa 4.000 abitanti, appollaiato ai piedi del monte Serra e avamposto della montagna materana, si è da poco concluso il IV Festival di street art. La rassegna è stata promossa dall’associazione “AppARTEngo”, dal Comune di Stigliano in collaborazione con l’associazione “Stigliano Eventi”, la “Casa del Volontariato”, il patrocinio della Regione Basilicata e il sostegno della multinazionale di vernici “Caparol Italia”. L’edizione 2020 – diretta da Alessandro Suzzi – ha visto la partecipazione di una dozzina di artisti: Nicola Alessandrini, Bifido, Alessandra Carloni, Andrea Gandini, Daniele Geniale, Gods in love, Hitnes, Ironmould, Leticia Mandragora, NemO’s e Piskv.

In questa parte dell’Italia interna, dislocata sulle prime propaggini dell’Appennino Lucano, da più decenni l’esodo migratorio non sembra dare tregua. In sessant’anni Stigliano ha perso più del 60% dei suoi abitanti, passando dai 10.000 residenti del 1961 ai 3.900 attuali. Se nel passato si emigrava soprattutto per cercare lavoro, oggi si lascia il paese anche per stare accanto ai figli e ai nipoti. Questa nuova forma di “migrazione affettiva” coinvolge soprattutto i genitori anziani, i quali emigrano dopo la pensione per stare accanto ai loro cari. Torino, Milano, Gallarate, Bologna, Parma, Firenze, Roma sono le mete più frequenti. Per frenare l’emorragia demografica, un gruppo di giovani dell’Associazione AppARTEngo ha ideato, quattro anni fa, un Festival di street art, vagheggiando i seguenti obiettivi:

«arginare lo spopolamento, uscire dall’isolamento sociale e culturale; trasformare il paese in un museo a cielo aperto; far conoscere una comunità di montagna; creare, con l’arte, un attrattore turistico». «Un turismo – sottolinea il Direttore della kermesse – che da migratorio diventi stanziale. Non solo attraverso l’attività del festival ma unitamente ad altre iniziative da sviluppare nel corso dell’anno». L’Arte, infatti, da sola non può bastare se non è supportata da un’adeguata programmazione culturale, cura degli edifici e delle strade. Per far diventare la street art un vero attrattore culturale, le opere devono essere di qualità e non frutto di dilettanti. Attualmente non è emersa una precisa tematica intorno a cui sviluppare una narrazione. «Agli artisti – precisa il Direttore Suzzi – non viene dato un tema specifico, ma un invito a riflettere su un aspetto culturale, tradizionale o sociale riguardante il paese, come ad esempio lo spopolamento o le frane».

La maggior parte degli invitati nell’edizione 2020 ha realizzato opere interessanti per forma, colore, stile e significati sottesi. Tra i diversi interventi uno ha sollecitato la nostra curiosità, non perché sia il più interessante, ma perché l’autore ha saputo far rivivere un aspetto di una leggenda locale che tanta paura incuteva ai ragazzi della mia generazione, nelle notti d’inverno.

L’opera, dal titolo Thriller, è stata realizzata dallo street artist Piskv su una doppia parete a pochi metri dalla “Fontana dei tre cannoni”, alla periferia ovest del paese. L’artista di origine pugliese ha eseguito il dipinto in pochi giorni. Piskv ha 27 anni. La stessa età che aveva il portoghese Alexandre Farto, in arte, Vhils, quando realizzò il “Volto di un contadino sul mare” sugli 8 silos del molo di Catania. L’opera di street art più grande al mondo (2400 mq).

Piskv, ispirandosi ad una leggenda locale, molto radicata nella memoria collettiva, ha rappresentato la terrificante metamorfosi dei Pimpinari, o “lupi mannari”: individui nati la vigilia di Natale e per questo affetti da licantropia. In realtà, all’origine di quella che è una grave patologia psichiatrica, le diverse tradizioni europee hanno elaborato specifiche narrazioni folcloriche. Nelle notti di plenilunio, allo scoccare della mezzanotte, una lenta metamorfosi stravolgeva il corpo di questi disgraziati, trasformandoli in uomini-lupo. I loro ululati cupi e disperati laceravano la quiete notturna, terrorizzando gli abitanti del paese. Chiunque, di notte, entrava in contatto con un Pimpinaro aveva un solo modo per sfuggirgli: raggiungere una scalinata e superare il terzo gradino. I pimpinari, camminando all’indietro, faticavano a salire i gradini. Mentre si aggiravano per i vicoli del paese lanciavano sassi alle loro spalle, facendoli sibilare nell’aria. Per guarire da questa tragica e terrificante malattia era necessario pungere con uno spillo il corpo dello sventurato, facendogli uscire almeno tre gocce di sangue. Soltanto in questo modo il pimpinaro poteva riacquistare la normalità perduta.

Nel realizzare la sua opera, Piskv ha emulato il linguaggio cinematografico, creando su una doppia parete a L un’opera figurativa, quasi tridimensionale, dal forte impatto emotivo. La scena riprodotta sulle due pareti sembra un frame tratto da un film thriller ambientato negli anni Trenta. L’artista ha scelto una location periferica e semidisabitata rispetto al centro urbano. Un luogo di passaggio obbligato per chi desidera attingere acqua alla fontana dei “Tre cannoni”. Piskv non sapeva che a pochi metri dal dipinto che stava realizzando c’era stato molti decenni prima un efferato omicidio. Una donna negli anni Trenta era stata uccisa dal marito con 19 coltellate. Quel tragico episodio aveva per decenni scosso la comunità. Chiunque di sera si recava alla fontana ad attingere acqua, affidava ai segni di croce il compito di tenere lontani gli spiriti dei defunti, morti per violenza.

Il giovane artista pugliese ha trasformato la leggenda locale in una suggestiva rappresentazione “noir”. Sulla parete di destra, lunga una dozzina di metri e alta poco meno di cinque, compare una vecchia auto degli anni quaranta, ferma sul bordo della strada. Un uomo ricurvo, dall’aria guardinga e aggressiva, esce dall’abitacolo impugnando un coltello. Un altro uomo siede alla guida, pronto a ripartire. È notte fonda e i fari della vettura, squarciando il buio con il loro potente cono di luce, illuminano un omone ricurvo che avanza innanzi all’auto. L’uomo sta subendo la sua mensile metamorfosi nella notte di plenilunio. Le luci dei fari, intercettando il suo corpo, mostrano gli effetti della mostruosa mutazione in atto. Un gigantesco uomo-lupo, dalla silhouette nera come la pece, fa la sua comparsa sulla parete.

Piskv non rispetta l’unità di tempo e azione ma, grazie al linguaggio dell’arte, fa sì che  la mutazione si fissi sulla parete prima che sia realmente completata. L’opera, in questo modo, assume una carica visionaria cara al regista Herzog. Nel concepire il murales, l’artista ha strizzato un occhio alle ombre cinesi e l’altro al linguaggio del cinema. L’immagine del lupo che compare sulla parete, prima che sia completata la metamorfosi dell’uomo, è un atto di magia che solo l’arte può determinare. Il tema dell’uomo afflitto dal “mal di luna” – diffuso in molte aree del Mezzogiorno – è stato affrontato dai Fratelli Taviani nel secondo episodio del film Kaos (1984), ispirato ad una novella di Pirandello.

Infine, ad accentuare la suggestione di terrore, espressa dall’opera, contribuisce la vegetazione in cima alla parete di destra. I tronchi illuminati dai fari sono stati pensati da Piskv come connessione alla boscaglia soprastante che prospera al di sopra del muro. Quando soffia il Ponente o la Tramontana (Voria), lo stormire cupo e fragoroso del fogliame crea un effetto sonoro che fa aumentare il panico in chi, di notte, si reca solo alla fontana. Con la sua opera, l’artista ha fatto riemergere dall’oblio una leggenda locale che da decenni sembrava scomparsa dai racconti degli anziani.

La fotografia riproduce l’opera di Piskv di cui si tratta nell’articolo

La mia lotta di classe

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di Auan

sarebbe come proibire
l’aruspicina urbana
igienizzando le strade
dalle viscere dei gatti
per legge.
i cani al guinzaglio
col padrone invece non conosceranno
il decreto primitivo stagliato
contro la morte.
ostinati saranno i
piccioni dagli occhi vaghi
liberi da ulteriori
frames
rimpiazzati da Mameli
ma non da Novaro

Mots-clés__Ventaglio

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Victor Brauner, Éventail du poète, 1946

di Simona Carretta

Claude Debussy, Romance [Musique pour éventail] -> play

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Victor Brauner, Éventail du poète, 1946

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Da Walter Benjamin, Strada a senso unico (1928), a cura di Giulio Schiavoni, Einaudi, Torino 2006, p. 38.

Ventaglio. Tutti avranno fatto la seguente esperienza: se si ama qualcuno, o addirittura solo se lo si pensa intensamente, non c’è quasi libro in cui non si ritrovi il suo ritratto. Anzi, vi compare come protagonista e antagonista. In racconti, romanzi, novelle rispunta in sempre nuove metamorfosi. E ciò porta a questa conclusione: il potere della fantasia è il dono d’interpolare nell’infinitamente piccolo, d’inventare per ogni intensità tradotta in estensione una nuova, densa pienezza, insomma di prendere ogni immagine come se fosse quella del ventaglio ripiegato, la quale respira solo aprendosi e nella nuova dimensione mette in evidenza quei tratti della persona amata che racchiude in sé.

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[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. Ogni prima domenica del mese, Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]

AMARE IL PALLONE, COMPRENDERE IL MONDO

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di Giuseppe A. Samonà

Divagazioni su: Sergej Roić, Achille nella terra di nessuno, Zandonai 2012 (nuova edizione Besa 2017, 188 p.)

Per chi come me ama la letteratura e il calcio – sì, questo mio testo è insieme una recensione e una confessione… – uno dei sogni più potenti è di riuscire un giorno a raccontare dal di dentro alcuni momenti, il senso di quella travolgente epica che ci parla delle nostre umane grandezza e miseria, come lo ha dimostrato Osvaldo Soriano sul campo (eh già!), lontano cioè da ogni astratta e insopportabile speculazione sociologica: anche se con la penna appunto al posto del pallone. Del resto, se uno degli obiettivi chiave della letteratura, della poesia, è l’esplorazione, la dissoluzione del tempo, la possibilità di farcelo attraversare à rebours, per riappropriarci, reiventandole, della nostra infanzia, della nostra prima giovinezza, non c’è argomento più letterario, poetico del calcio: cioè giocarlo, che tuttavia nel suo trasformarsi in poesia è da subito un averlo giocato, per poi guardarlo, riguardarlo, viverlo – proprio come quelle gesta di eroi sgranate dai poemi omerici, in cui i personaggi agiscono aspettando di essere raccolti dal canto dei futuri aedi, che dovranno immortalarne la gloria. Similmente, nel calcio, gli eroi sono sempre giovani e forti, anzi, fondalmente ragazzini, e immancabilmente, all’apice del loro itinerario, svelano il proprio τέλος: cioè la fine, anzi, la disfatta, o semplicemente il desiderio segreto contro tutto e tutti di farsi passato, di scomparire – anche chi non ama il calcio ricorda probabilmente la famosa testata di Zidane a Materazzi… – perché sanno che è proprio in quel momento che sboccia il loro futuro immortalizzante. Il per sempre.

Eppure, ed è curioso, di rado ama il calcio chi ama la letteratura – fosse anche soltanto leggerla, non necessariamente crearla: esistono infatti grandi artisti muti, che nulla creano se non la loro stessa vita – e così si priva non solo di poter sognare dentro questa grande epopea contemporanea, ma anche di alcune vere esaltanti pagine di epica letteraria: come quelle sublimi appunto di Soriano (ne esistono di migliori? io non ne conosco, anche se è doveroso avvicinargli sul podio il suo amico Eduardo Galeano…). Ecco, tali pagine risultano incomprensibili a chi non abbia acquisito per altre strade una conoscenza vera del gioco più bello del mondo.

In questa prospettiva il libro di Sergej Roić, Achille nella terra di nessuno, occupa un posto molto particolare: perché parte dal calcio, promette calcio (il suo protagonista, Achille, è un promettente calciatore), strizza continuamente l’occhio a chiunque sia tifoso e letterato, lo avvolge e rassicura, ma a differenza dei racconti-capolavoro di Soriano può essere, mi sembra, goduto anche da un pubblico non calciofilo. Certo, i non addetti ai lavori rimarranno spaesati di fronte ad alcuni passaggi – su tutti, il singolare concorso letterario sulla lettera N, come Nazionale, promosso dalla Biblioteca nazionale di Firenze alla vigilia del Mondiale ‘90 in Italia, e vinto da un irriverente scritto che si conclude proponendo una surreale piramide, cioè il leggendario 2-3-5, composta solo da giocatori che cominciano appunto per N: N’Kono, Nela, Niltos Santos / Notaristefano, Niccolai, Noby Stiles, / Nené, Neeskens, Nordahl (o Nereo Rocco), Niels Liedholm, Nilis… (Eppure – mi ostino? – se solo provasse a declamare ad alta voce quei nomi, anche il più convinto sostenitore dell’anticalcio sentirebbe risuonargli dentro l’eco degli esametri iliadici, quelle indimenticabili liste…: Βοιωτν μὲν | Πηνέλεως | καὶ Λϊτος ρχονρκεσίλαός  τε | Προθονωρ  τε | Κλονίος  τε.) Globalmente però questo libro sviluppa, attraverso il suo protagonista calciatore, tutto ciò che insieme al calcio appartiene anche alla vita: la miseria e la grandezza dell’umanità, che avvincono tutti coloro che la letteratura avvince, qui non s’intravedono come in Soriano dietro le quinte: occupano il davanti della scena – che invece in Soriano è occupato proprio dal calcio: quasi che fra i due approcci ci fosse un rapporto d’inversione…

La miseria: il prepararsi e l’esplodere della guerra che porterà alla disintegrazione della Jugoslavia. La grandezza: il sogno, cioè l’utopia, di una lingua di pace, come antidoto proprio a quella guerra che, come e più di tutte le guerre, si è attaccata innanzitutto a contaminare la lingua, la ricca lingua una e molteplice del pluriculturale spazio jugoslavo, sino a frantumarla in diverse lingue l’una contra l’altra armata. Questo, nessuno potrebbe raccontarcelo meglio di Roić: che essendo svizzero ticinese scrive in italiano, ma per “origini” – virgolette d’obbligo, perché è proprio separando le origini dalla propria storia complessiva che cominciano i guai… – è croato, cioè serbo, cioè serbo e croato, serbocroato, croatoserbo, jugoslavo, e soprattutto cosmopolita… Per di più, ce lo racconta con una lingua italiana magistralmente, persino classicamente dominata, ma che si arricchisce appunto di tutte queste onde di mondo, che scuotono proficuamente la scrittura: ne esce fuori uno stile non a caso ondivago, nel contempo sobrio e sanguigno, a tratti persino barocco, affatto originale (e non nel senso delle “origini”!). E non sto parlando della presunta originalità delle cosiddette scritture migranti – spesso appiattite l’una sull’altra da un poderoso lavoro di editing – ma di quella, più profonda, che dovrebbe caratterizzare ogni scrittura che si voglia originale, cioè sovversiva – come lo dice Proust in un celebre passo del Contre Sainte-Beuve: “les beaux livres sont écrits dans une sorte de langue étrangère” – il che vuol dire, al di là e contro ogni retorica della (inesistente) purezza, che l’estraniamento agisce al cuore di chiunque pensa e scrive, anche dentro la propria lingua: sempre strappiamo senso, traduciamo, reiventiamo una lingua a partire da un’altra, anche se per ventura lavoriamo con una lingua soltanto… (Ma una delle cose che apprendiamo, leggendo questo libro, è che una lingua non è mai sola…)

Già, Proust… Ahil Duimović, cioè Achille (nome di cui non occorre, credo, ricordare la matrice omerica), il calciatore protagonista, ama la filosofia e legge proprio lo scrittore della Recherche… Non è un caso: se infatti dentro il mondo del calcio bolle, come lo dicevo all’inizio, la molto letteraria ossessione del proprio “tempo perduto”, e del come riconquistarlo, è impossibile trovare guida migliore di Marcel Proust! Il calcio allora, in queste pagine, vive – come l’amore… – di entusiasmo, di passione e soprattutto di nostalgia, una nostalgia assoluta, come quelle per le grandi glorie calcistiche di un passato che non si è mai conosciuto, un po’ come a volte abbiamo nostalgia dell’epoca in cui vivevano i nostri nonni, prima della nostra nascita…

Così orientato il libro si costruisce in parte come un agile romanzo di poco più di centocinquanta pagine, e racconta appunto la storia del biondo Achille – lo stesso color di capelli dell’eroe della guerra di Troia – da prima della sua nascita, perché nel calcio come nell’epica, cioè nel potente scorrere della vita, le storie hanno i contorni sfumati, non hanno veramente inizio, non hanno veramente fine… Siamo nella letterariamente gloriosa isola dalmata di Hvar / Lesina, in Croazia, verso la metà degli anni Cinquanta: il futuro padre di Achille, Čedo, allora tredicenne, accudisce il proprio padre malato; unici suoi passatempi, il gioco degli scacchi e quello del pallone, che pratica in un campo spelacchiato sulla collina di fronte al porto (deve esistere quel campetto, lo vediamo, lo rivediamo, diventa quasi un luogo dell’anima…): giochi intrecciati fra loro, perché si muovono i pezzi sulla scacchiera, come a dribblare quelli dell’avversario, e si deve pensare nel campo di calcio, per poter sperare di vincere – e subito si entra nella mitologia, con il vecchio Mikula, che gli ha insegnato insieme entrambi i giochi, e soprattutto racconta, come un cantore dalle molte primavere e pur immortale: per esempio di quel primo campionato del 1930 in Uruguay, anzi a Montevideo, che si trova di fronte a Buenos Aires, dall’altra parte del Río de la Plata, luoghi e anni mitici per chi ama il calcio e insieme, è inevitabile, il tango… La Jugoslavia aveva battuto il Brasile; era arrivata in semifinale proprio contro l’Uruguay; era passata in vantaggio; ma poi – si narra – nella cancha, nel campo, era entrato un gatto nero, e la Jugoslavia era stata travolta, 6 a 1: vittima del maleficio felino, o forse, rieccolo, del prototipico 2-3-5 praticato dai gloriosi charrúas… (Uno dei punti di forza di questo libro, specie per gli amanti di calcio e di antiche greche epopee, è il suo saper fondere insieme la realtà, la leggenda e la pura invenzione: non è mai sicuro del dove si trovi, il lettore, è spaesato: e finalmente, è proprio questo il bello…)

Morto il padre, alle soglie dei suoi vent’anni, Čedo si trasferisce sulla costa, a Split / Spalato, per studiare medicina, poi nel fatidico 1968 lo ritroviamo medico a Zara / Zadar – i doppi nomi ricordano precedenti, dolorosi conflitti, ma anche la ricchezza di quelle terre – dove conosce la futura moglie Tanja, che sarà insegnante, storica dell’arte, pensatrice, infine nella vicina Bosansko Grahovo, dall’altra parte della frontiera interna con la Bosnia Erzegovina. È qui che all’inizio degli anni Settanta nasce morto il loro primo figlio Andrej, e un paio d’anni dopo il nostro protagonista, Achille, di cui seguiamo il percorso attraverso questi e altri luoghi: la Krajina croata, Zagreb, Belgrado, Sarajevo… Luoghi di cui intravediamo, magari anche attraverso una sola frase, scampoli di melanconica poesia, quasi sempre spiraglio di passata grandezza (… i tram sferragliano nella Frankopanska, file davanti alle cabine telefoniche, l’autunno colorato della città nelle foglie, nei cappotti, cappelli, facciate ridipinte di palazzi asburgici…); e poi di odio, violenza. Basta leggere il libro con una mappa accanto, mettendo un puntino ad ogni luogo menzionato: emergeranno alla fine alcuni degli itinerari cruciali delle rovinose guerre degli anni Novanta – con un dettaglio, che non dovrebbe avere importanza, ma si gonfia a dismisura di pagina in pagina: il padre di Achille è croato, la madre è serba, lui cresce in Bosnia, alla quale sente profondamente di appartenere: dove sta Achille? “Essere e non essere in nessun luogo” (quel sentimento doloroso), lo ha capito, e ce ne fa partecipi, il vecchio cantore Mikula, in una decrepita stamberga al confine cileno-peruviano…

Già, perché la geografia di Achille non si ferma allo spazio balcanico: con lui, e appunto con altri personaggi che lo accompagnano, magari solo cavalcando l’alata immaginazione, inaspettatamente ne usciamo, arriviamo in Svizzera, in Francia, in Inghilterra… o più lontano, eccolo, in Perù, e poi in India, e poi…: Paris, Delhi, Calcutta, Champex, il Gran San Bernardo, la quebrada andina … È un’improvvisa, apparentemente folle, disordinata esplosione di nomi, di luoghi-tempo – più che luoghi sono infatti ricordi – che tuttavia disegnano sapientemente un mondo intorno alla Jugoslavia, in cui si rientra e si riesce e si rientra…, e meglio ne fanno emergere la sua sua struggente e poliedrica bellezza, come l’assurdità della guerra che cova e poi deflagra, inarrestabile. Mentre continuiamo a seguire l’itinerario di Achille che si scopre calciatore (ovviamente cominciando a giocare con il padre) e insieme amante innamorato (la madre…) di letteratura e di pensiero: il mondo non è sferico come il pallone? Le sue regole, come quelle del calcio, non sono spesso ingiuste, o comunque inatte a proteggere dall’ingiustizia? La letteratura quando indaga l’uno, non comprende anche l’altro? – Ma nel medesimo slancio si scopre anche amante innamorato tout court… Così, fra i passaggi più accattivanti, contagiosi, ci sono proprio quelli che descrivono l’amore, quello che eternamente aspetta, e sogna: Oh Zdravka, primo amore. Non potevi essere una ragazza qualunque? Ti avrei tenuto per mano passeggiando accanto al mare, ti avrei comprato un gelato, il vento di maestrale avrebbe scolpito, nella leggera gonna potenziale, la splendida forma delle tue gambe…; ma anche quello che fatalmente si consuma: … per raggiungere dapprima il piccolo seno e poi, trionfo della carne, la vertiginosa linea seguendo la quale arriverà a baciare le pudiche labbra “altre”… Insomma, il libro è anche un classico romanzo di formazione. Ma solo in parte…

Anzi, come si diceva all’inizio, è proprio al genere “romanzo” che appartiene solo in parte. L’altra parte si costruisce come una sorta di riflessione antropologico-filosofica per voci, nel senso del dizionario, e questioni, che sembrano mescolare liberamente il metodo socratico, con il talmudico, o lo zen: ma su tutti domina – insieme all’invisibile ma diffuso Omero – Platone. Queste due parti si fingono distinte: la riflessione per voci e questioni è organizzata in sei Quadri, ognuno con un titolo; l’azione narrativa in trentaquattro Immagini… Ogni quadro dovrebbe isolare alcuni interrogativi astratti, che poi la conseguente azione narrativa dovrebbe esplorare in medias res. Per esempio nel Quadro terzo, leggiamo, proprio alla voce “Bugia”: Giudicare se qualcuno menta o no – è Sant’Agostino che avvalora questa riflessione – dipende non tanto dalla veridicità della cosa affermata, quanto dalla convinzione intima del mentitore. La colpa di chi mente sta tutta nella volontà di ingannare… E le Immagini seguenti, dalla sedicesima alla ventesima, raccontano le vicende intrecciate della Jugoslavia che implode – siamo nel 1991 – sotto la spinta degli odianti (come sempre…) nazionalismi, e dell’amore impossibile di Achille e Lada: qui come là è al lavoro, appunto, la menzogna…

E tuttavia questa separazione è illusoria – come lo sono forse le separazioni fra generi libreschi, e spesso le frontiere tout court… – perché la riflessione, il pensiero, s’infiltrano spesso dentro l’azione del calciatore che ama la letteratura e l’amore: anche con il pallone al piede, del resto, è indispensabile pensare. Sino alla fusione finale in cui il pensiero entra dentro l’avventura narrativa e si sostituisce a questa: La repubblica della lingua, lo scritto allucinatorio-profetico di cui attraverso intricati percorsi gli eroi attori Tanja e Achille sono, almeno in parte, i redattori, si sovrappone per intero alla trentaquattresima e ultima Immagine: d’altronde Tanja è oramai morta, e il calciatore Achille, nonostante sia ancora giovanissimo, s’inabissa col disgregarsi della Jugoslavia. Se la realtà non esiste più, insomma, o è impazzita, solo il sogno, l’utopia possono permetterci di continuare a vivere. Qui, il sogno, l’utopia, prendono l’aspetto di una repubblica appunto della lingua, cioè in prospettiva della pace, in cui siano state abolite parole come potere, massa, odio, invidia… Perché sono le parole-pensiero con cui impariamo a comprendere il mondo che lo plasmano e plasmano anche i nostri sentimenti: di odio, o di amore.

Ma attenzione, si tratta di un’utopia nel migliore senso del termine, cioè in quello del lontano orizzonte che se facciamo un passo si sposta di un passo, ché solo ci serve per continuare a camminare, come avrebbe detto Eduardo Galeano. Terribile è infatti l’utopia quando la si confonde, la si vuol fare coincidere con la realtà: il libro sotterraneamente ma continuamente lo ricorda – almeno, così l’ho letto io – attraverso tutta la sua storia; anzi, le sue storie: tutte le storie-divagazioni che si ramificano a partire dall’asse principale, con mille fili che tirano dentro altri personaggi, altri libri ed autori. Su tutti – oltre al già menzionato Proust, e a Puškin, che meriterebbe un discorso a parte – l’onnipresente Borges, di cui per altro (è appunto una delle tante storie) molto borgesianamente si racconta la fantastica e inaspettata origine metamorfica: siamo in Austria, alla fine degli anni Trenta, per seguire le vicende di un oscuro commisario, forse d’origine ebraica, che fugge l’Europa verso la Patagonia, e lo ritroviamo scrittore, lo scrittore, a Buenos Aires, verso la metà degli anni Quaranta… Ed ecco, appunto: in tutta la storia, in tutte le storie, c’è sempre, insieme all’orrore per la logica dell’odio, anche lo sguardo intenerito per l’umanità, per come è, con i suoi slanci, le sue cadute, le sue imperfezioni: mai si afferma il bisogno di imporle un nuovo modello di vita. L’utopia, in questo senso, è anche, semplicemente, una volatile, fragile possibilità che nasce e muore perennemente dentro la realtà, ne è un aspetto, già esiste – o se vogliamo, è un gioco, nel senso spiegato all’interno del Quadro sesto, che introduce appunto La repubblica della lingua; quel gioco che è libera attività dello spirito e del corpo senza ricerca di interesse, fine o profitto, a differenza dell’agire, del formare e del lavorare che sono conformi a uno scopo… Non è la gratuità, che come avrebbe detto Hölderlin ci rende vicini agli dèi, il fondamento per l’appunto giocoso di questo tipo di utopia?

Fragile e volatile: come una partita di calcio – quella partita di calcio, di cui forse l’utopia costituisce il rovescio, il finale che avrebbe potuto realizzarsi e non fu. L’alfa e l’omega del mito: Uruguay 1930, la prima competizione ufficiale della Jugoslavia; Italia 1990: l’ultima. Con appunto quell’ultima maledetta partita. Il paese degli slavi del sud sta già implodendo, e il calcio, le rivalità delle tifoserie, in particolare quelle della Dinamo Zagabria e della Stella Rossa di Belgrado, sembrano delineare, dentro gli stadi, il primo teatro della guerra – ma ecco, l’eccellente progressione della squadra nazionale ai Mondiali italiani vede di nuovo nascere una sorta di entusiasmo trasversale; sulle gradinate, nel mare di bandiere serbe e croate, torna a sventolare la bandiera della Federativa. Sino a quell’Jugoslavia-Argentina del 30 giugno 1990, a Firenze. Le due squadre non riescono a superarsi durante centoventi minuti del tempo regolamentare allungato, decideranno i calci di rigore: ed è un’altalena di errori (persino Maradona ne sbaglia uno), sino al 2 a 2, con gli argentini che dispongono di un solo tiro, contro i due degli jugoslavi: il destino è fra le loro mani… Ma a quel punto il traditore Osim manda allo sbaraglio due terzini (entrambi di origine musulmana, come non tarderà a sottolineare la stampa serba), anzi, è “musulmano”, cioè bosniaco, anche il traditore Osim, l’allenatore. Il finale è noto: l’argentino segna, i due jugoslavi sbagliano entrambi… La leggenda vuole che se Faruk Hadžibegić, l’ultimo decisivo tiratore, non si fosse fatto parare il suo rigore, condannando la Jugoslavia-squadra all’eliminazione, la Jugoslavia-paese avrebbe evitato la guerra. (Da notare che in realtà solo quest’ultimo, insieme al traditore Osim, era bosniaco, musulmano; l’altro tiratore mancato, Dragoljub Brnović, era montenegrino, e per di più giocava a centrocampo, non in difesa: ma nell’immaginario collettivo che fiorì dentro quella disfatta divenne terzino e musulmano anche lui. Perché la Bosnia stava per diventare il centro della più spaventosa di tutte le guerre, che avrebbe persino alleato fra di loro i nemici serbi e croati: in questa prospettiva, spiegare l’immaginario di una nazione in disfacimento, cioè i suoi fantasmi più profondi, non svela qualcosa di più reale della superficiale realtà?) Su quel fatidico rigore, Gigi Riva – il giornalista non il calciatore (!) – ci ha scritto su un intero libro (L’ultimo rigore di Faruk, Sellerio 2016) ricostruendone con puntiglio e chiarezza la vera storia, i fatti; Roić alla vera storia consacra solo due pagine, e anzi in parte la modifica, confondendo ad arte finzione e realtà, mischiandole insieme, proprio per scendere più a fondo nei meandri di quell’intreccio fra calcio e guerra, e ancora più a fondo, attraverso tutte le sue pagine, a svelare le origini della malattia nazionalismo come il suo possibile antidoto. Di quel proficuo e volontario confondere le acque il calciofilo appassionato, come me, si divertirà a ritrovare diversi dettagli, come nei giochi quiz della Settimana enigmistica. Qui, per tutti i lettori, anche per i non calciofili, basti raccontarne uno: nella partita reale, il primo rigore è tirato dall’argentino Serrizuela, ed è rete; gli risponde il geniale Stoiković, noto come il Maradona europeo, il suo tiro è perfetto, spiazza il portiere… ma si stampa sulla traversa, senza varcare la linea di porta… Nella drammatica partita raccontata da Roić, ad aprire la serie dei tiri dal dischetto è invece proprio il nostro biondo Achille; il suo faccia a faccia vincente con il nero Goycochea (il portiere dell’Argentina) ricorda quella fra il biondo eroe acheo e il suo rivale di sempre, il troiano Ettore, anche lui dai neri capelli; e gli risponde il rigorista argentino, che pareggia. Ahil-Achille è dunque l’ingresso dell’immaginazione – non è mai esistito un giocatore di tal nome – nel regno della realtà. A chi, a cosa s’ispira? Per posizione è Serrizuela, ché come quello ha tirato per primo ed ha segnato; per nazionalità, e genio, è Stoiković, che come lui è jugoslavo, ma ha sbagliato il suo tiro. Potremmo dire allora – è una speculazione che mi sono divertito a fare – che il nostro immaginario Achille slavo mescola insieme il proprio sangue con quello dell’avversario, come l’Achille omerico che finisce in qualche sorta per riscoprirsi fratello dell’Ettore troiano (del resto parlano la stessa lingua): non è forse nello stesso tempo serbo, croato e bosniaco? (che anche loro parlano la stessa lingua…?) Achille insomma rappresenterebbe la possibilità di un altro finale, vittoriosamente di pace… Appunto, la buona utopia.

… E poi sì, lo so, ho divagato, a volte parlando del libro di Roić ho parlato dei miei sogni, dei miei slanci barocchi, del mio amore per il calcio, e per tutto quel che si mescola, e per i Balcani che, malgrado le spaventose guerre, ricordano appunto che mescolarsi è possibile – e ora, rileggendo questa divagazione, a tratti non sono neanche sicuro di dove finiscano le sue parole e comincino le mie. Non è, questa, una delle esperienze più belle che possa capitare con un libro? avere, qua e là, la sensazione di ritrovarci pezzi della propria scrittura, dei propri pensieri più preziosi, mischiati, confusi con quelli di un altro autore?

P.S. Forse – ho esitato… – il titolo di questo mio pezzo avrebbe dovuto essere all’inverso: Comprendere il pallone, amare il mondo. Come se la conoscenza del pallone potesse, come altre cose, incendiarci d’amore per il mondo. (Lo so, mi ostino di nuovo: queste mie parole, questo libro, potrebbero almeno intrigare calcisticamente qualche umanista refrattario?) Ma l’inversione è ritmicamente più rude: rompe la musicale armonia, anche nella lingua italiana, dell’alexandrin. E la musica è importante, quando si parla di un libro musicale.

Contro la “Sécurité Globale”

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di Antonio Sparzani
(ringrazio Pierre, della banda degli “Ottoni a Scoppio”, per avermi segnalato questa importante iniziativa per domani)

TINA. Storie della grande estinzione

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Per Aguaplano è uscito recentemente TINA. Storie della grande estinzione. TINA è un autore collettivo coordinato da Matteo Meschiari e Antonio Vena; come prima esplorazione del libro, ospito qui un vasto contributo di uno degli scrittori coinvolti nel collettivo: Stefano Trucco.

 

 

STEFANO TRUCCO

Io e TINA

 

‘Stefano, questa cosa qui sembra fatta per te’.

Ricordo perfettamente in che stato ero quando un amico mi segnalò, l’autunno scorso, che qualcuno stava cercando autori per un romanzo collettivo, anzi ‘diffuso’, per mezzo di una open call su Facebook.

Ero in uno stato di torpida stagnazione, a voler essere generosi. Scazzato, per usare un’espressione più pop. Il mio secondo romanzo, pubblicato qualche mese prima, non mi aveva portato né fama né fortuna. Rimanevo un aspirante scrittore conosciuto giusto da qualche amico, ‘troppo letterario per il genere e troppo di genere per il letterario’, e non potevo nemmeno lamentarmi, perché quello era esattamente il modo in cui volevo e riuscivo a scrivere e non potevo certo convincere il pubblico a farselo piacere se non ne voleva sapere – già tanto aver trovato un editore coraggioso che aveva avuto pietà di me.

Quindi ero in pieno ‘chi me lo fa fare?’, dato che scrivere è piacevole sì ma anche faticoso e la mancanza di qualsiasi riconoscimento alla lunga mina la volontà. Dai, lascia perdere, un paio di testimonianze scritte le hai lasciate, magari fra un secolo le riscoprono. Torna a leggere.

Sì, tornare a leggere, come ho sempre fatto. Ma cosa? Perché anche lì c’era un problema. Quell’autunno ero sempre più immerso nel passato; quel giorno in particolare stavo leggendo con immenso piacere la biografia di Maria Stuarda a opera di Antonia Fraser e sentivo di non voler mai più uscire dall’epoca moderna. Il mio rifiuto del contemporaneo stava raggiungendo livelli patologici.

Da vero uomo del Novecento continuavo a informarmi, più o meno bene: non riesco a fare meno delle notizie, a partire dalla striscia del TG5 con le previsioni del tempo al mattino quando mi sveglio per andare al lavoro e dal Secolo XIX al bar insieme al cappuccino e alla focaccia con le cipolle. Mettici poi, nel corso della giornata, il Post, il Guardian e il New Yorker – ma basta, che oltretutto ogni notizia non sembrava nemmeno più uno shock o una ferita quanto proprio un insulto e chi me lo faceva fare di essere insultato? Mi informavo perché ero abituato e per quelle informazioni necessarie a chi si è ritrovato a vivere in questo here and now e non può farci niente.

Ma il piacere che provavo leggendo di Maria Stuarda che in compagnia di pochi fedelissimi fugge dalla Scozia dopo la battaglia di Langside per consegnarsi nelle mani della sua mortale nemica, la regina Elisabetta d’Inghilterra, si stava colorando di un certo fastidio: stavo affondando nel passato e non era una buona cosa. Il rifiuto del presente non è mai una buona cosa: avevo letto troppa storia per non saperlo.

Così mi trovavo particolarmente ricettivo quando l’amico mi segnalò l’open call di Tina per un romanzo diffuso dell’Antropocene. Avevo bisogno di stimoli nuovi, come scrittore e come umano.

Antropocene, quindi. Il termine non mi era nuovo ma ovviamente non avevo approfondito. Approfondii. Ci stava, corrispondeva a qualcosa di reale e a qualcosa di contemporaneo e non se era nuovo nella sua realtà effettuale lo era nella percezione culturale e mediatica. Ecco, pensai, potrebbe essere un buon punto di partenza per riprendere contatto col mondo d’oggi.

Nota bene: dei quattro motivi per cui secondo George Orwell si scrive io sottoscrivo pienamente solo il primo, la vanità. ‘Desiderare di sembrare intelligente, essere al centro di discussioni, essere ricordato dopo la morte, avere il giusto riconoscimento dagli adulti che ti snobbavano quando eri bambino, ecc. ecc.‘. 

No apologies, per dirla con Bon Jovi. E nessuna scusa anche per una profonda diffidenza per quell’arte che vorrebbe mettersi al servizio di un’idea o di un progetto politico, o anche solo voglia dimostrare una tesi e non sia solo (solo?) crocianamente espressione di un sentimento individuale che si proietta sul mondo. Sono e rimango uno scrittore individualista e fermamente tradizionale.

Eppure… 

Eppure eccomi felicemente parte non solo di un testo al servizio di un’idea ma pure sostanzialmente anonimo, uno dei cento e più contributori di TINA, fra autori e illustratori, elencati alla fine in rigoroso ordine alfabetico. Non solo, mi sono pure impegnato, informalmente, a non rivelare quali sono i pezzi che ho scritto e infatti non lo farò, per quanto mi costi.

La prima cosa che notai era che la lista di scenari pubblicata sul blog La Grande Estinzione da Matteo Meschiari e Antonio Vena era una lista di scenari storici, e io ho letto sempre più storia che narrativa. In più gli scenari per i quali si chiedevano contributi andavano dalla Grande Ossidazione alla Brexit passando per tutti i ‘cigni neri, clusterfuck, collassi, catastrofi, battaglie militari, calamità post-natura, shift culturali estremi, crisi dell’umano ecc.’ che hanno caratterizzato la nostra carriera come specie, e erano scelti con una certa originalità. Ce n’erano di ovvi e di per niente ovvi, fra cui, un episodio storico vagamente ridicolo e pochissimo noto che attirò subito la mia attenzione dato che io invece lo conoscevo bene. La maggior parte degli scenari erano già stati prenotati ma non quello, ovviamente. Mi feci avanti. Accettato. Poi un altro che nessuno pareva volere. Imbaldanzito, ne proposi uno su un’area storico-geografica sottorappresentata, che fu accettato. Ma scusa, non hai appena detto che volevi uscire dall’ossessione per la storia? Sì, ma qui c’era un punto di vista diverso e per me nuovo.

Mi misi al lavoro. Entrai in contatto con Meschiari e Vena. Entrai in contatto con altra gente interessante. Provai la per me nuovissima e un po’ unheimlich sensazione di far parte di un collettivo (il lavoro che mi paga le bollette non conta). Mi tornava la voglia di scrivere. Consegnai i miei tre pezzi con rapidità e efficienza, così che quando qualcuno diede buca mi trovai a scriverne altri: la mentalità da scrittore di genere ha i suoi lati positivi. Scoprimmo, con una certa meraviglia ma anche piacere, che il libro sarebbe stato illustrato da una gran numero di illustratori, coordinati da Rocco Lombardi. Poi i curatori proposero una serie di scenari futuribili. Fantascienza! Il mio genere di origine e di cuore, anche se poi, per qualche motivo, ho finito per scrivere di tutto tranne che fantascienza. Comunque, romanzo storico e fantascienza, i gemelli biovulari fra i generi. Il progetto assumeva dimensioni impreviste e anche più interessanti. Studiavo. Anonimato e tutti gli eventuali diritti d’autore vanno a Extinction Rebellion – d’accordo.

L’8 febbraio ci fu una presentazione pubblica a Parma, alla libreria Diari di Bordo, presenti i curatori e parecchi degli autori. Potemmo finalmente vedere un primo draft del libro. Clima festoso. Non c’era ancora un editore ma intanto si avanzava. L’editore, Aguaplano, arrivò. Intanto avevo cominciato un nuovo romanzo: i temi erano del tutto miei e non dovevano intellettualmente nulla a TINA e all’Antropocene ma psicologicamente gli dovevano tutto. Mi ero svegliato. Mi avevano svegliato.

Solo che eravamo sull’orlo dell’abisso e nel giro di un mese eravamo tutti chiusi un casa, stretti fra la catastrofe pubblica e i pericoli privati. Nulla poteva dimostrare meglio l’interesse di un progetto come La Grande Estinzione ma il piano di presentarlo al Salone di Torino a maggio saltò insieme al Salone.

L’inquieta e meravigliosa tregua estiva, quando pensavamo di avercela fatta e di essere stati bravi, consentì di lavorare ancora sul testo. Doveva uscire in ottobre. Ci sarebbe stata una nuova presentazione pubblica, a Bologna. Solo che non ci fu: con invidiabile tempismo era arrivata la seconda ondata.  Non eravamo stati bravi come pensavamo. La Grande Estinzione era veramente il libro dell’anno 2020, in tutti i sensi.

Ora eccolo, è qui. Posso finalmente vederlo e toccarlo e niente, è proprio un bell’oggetto, dalla copertina, alle illustrazioni, alla pura e semplice cura con cui è stato creato da Aguaplano. Soprattutto posso leggerlo, come un lettore qualsiasi.

Non è il caso di recensire un testo cui ho partecipato (e fra l’altro – full disclosure – pubblicato dal mio stesso editore) ma descriverlo un po’ sì. Proprio da lettore perché fino all’uscita io non sapevo nulla degli altri contributi.

I più di 150 scenari sono raggruppati, in un cenno di saluto al Decamerone di Boccaccio citato in esergo, in 7 giornate tematiche – Collasso, Shock Cognitivo, Spettri (del futuro, del ripetibile), Il problema di Grendel, Archeologie dell’orrore, Estinzione, Il fato delle forme – ma chiaramente l’effetto è estremamente accidentato. Gli scenari sono estremamente diversi fra di loro, per tono, per stile, per tecnica. Gli eventi storici e futuri dialogano sopra l’abisso del tempo e si passa rapidamente dalla guerra greco-gotica al naufragio della Medusa, dalla Grande Ossidazione alla Brexit, dalla fine dei Neanderthal alla carestia ucraina, dalla battaglia di Gaugamela a Boko Haram, dall’anno senza estate all’invasione mongolica, dal collasso dell’Isola di Pasqua alla Guerra dei Mondi di Orson Welles per poi proseguire con il blackout di Internet nel 2025, la distruzione atomica di Belgrado nel 2043, il catastrofico programma di geoingegneria europeo del 2052, la Grande Depressione psichica del 2074 e, ominosamente, la scoperta, nel 2104, che siamo assolutamente soli nell’Universo e che nessuno, assolutamente nessuno, ci può aiutare.

Tecniche diverse, dicevo: si va dal micro-saggio storico al ‘piccolo romanzo fiume’, dalla scena di film alla pagina di diario, a volte si sfiora la poesia, a volte si sguazza nel trash, chi punta al comico, chi abbraccia la tragedia, chi dialoga e chi descrive. Per quanto mi riguarda, dico solo che per i miei pezzi scelsi la narrazione. C’è un forte sentore di Wunderkammer, di Grunes Gewolbe e le sorprese sono continue.

Di TINA si può dire tutto tranne che scorra. Scorrere sarà pure un feticcio del romanzo industriale ma non lo butterei via; noi aspiranti scrittori di genere in genere l’apprezziamo, la scorrevolezza. Georges Simenon, la cui mente non era praticamente mai sfiorata da un’idea, scorreva che è un piacere e provateci voi, se ci riuscite.

Ma la scorrevolezza, appunto, può essere un feticcio e un limite, proprio come la leggerezza calviniana, quello che scorre può farlo da un orecchio all’altro e non lasciare alcun residuo, e ci sono altri modi per narrare, per esempio l’epica e l’epica può fare tutto tranne che scorrere, l’epica deve restare. Meglio fare un po’ più di fatica, compensata dalla varietà dei panorami e degli incontri, e affrontare il sentiero di montagna che rimanere sempre sull’autostrada che ti porta da A a B. 

Comunque l’effetto di frammentazione è attenuato dal tessuto connettivo fra i vari racconti, che non vengono abbandonati a se stessi ma tenuti insieme dal commento continuo di Matteo Meschiari e Antonio Vena, un commento che oscilla costantemente fra il saggio e la fiction. Il tono di questa ricca cornice in cui sono incastonati gli scenari è informativo, sapienziale, ipotetico e teatrale. Teatrale nel senso di eloquente: nella vulgata moderna per teatrale si intende di solito ‘falso’; io invece penso al tono teatrale come quel tono che ‘accentua’ tutto ciò che racconta, un tono che anche quando vuol essere naturale è sempre sottolineato e in corsivo. In breve, il tono che vuole dare importanza alle cose importanti e vuole che ve le ricordiate.

Una delle caratteristiche di TINA è la ricchezza di idee, praticamente in ogni pagina c’è uno spunto di riflessione o un dato o un’immagine, tanto da ricordarmi certi miei autori feticcio come Marshall McLuhan e Leslie Fiedler – a volte persino troppo ma in questo caso meglio troppo che troppo poco. Un’altra è la proiezione mondiale: gli autori sono, credo, tutti italiani ma il palcoscenico è il mondo, tutto il mondo, e il tempo, tutto il tempo. A occhio direi che gli scenari strettamente italiani sono pochi. Per una volta possiamo abbandonare i nostri meravigliosi e soffocanti centri storici e la povertà del dibattito culturale italiano recente e respirare. Ed è un bel respirare perché non è la riproposizione all’amatriciana di un qualche schema socio-culturale anglofono ma una cosa sostanzialmente nuova e originale. Italiano nel senso di inserirsi in modo originale in tutta la nostra lunga tradizione storico-realistica, l’asse portante della nostra letteratura declinato per il XXI secolo e libero da modelli logori e un po’ oppressivi.

Sul concetto di Antropocene e sulle idee che sottostanno a tutto il progetto non vorrei dire molto: sto ancora studiando. Ma restando al tono una cosa si può dire (e specifico che l’opinione è mia e non necessariamente dei curatori): TINA fa parte di un sentimento molto contemporaneo e cioè quello per cui non è più tempo di allarmi ma che la catastrofe è già cominciata. Non si tratta più (o non solo) di combattere il cambiamento climatico o di difendere la biodiversità perchè ormai ci siamo dentro, il cambiamento è cominciato e tornare indietro non è possibile. Non ci sono soluzioni ‘sostenibili’ che ci permettono di tirare avanti come prima e non è nemmeno possibile ‘cambiare tutto perchè non cambi nulla’. Che siamo nel bel mezzo di un meccanismo di sfida-risposta e la risposta è sempre e comunque un cambiamento e che il passato, che comunque ha la curiosa abitudine di non passare mai veramente, quando torna lo fa per finta, un futuro travestito da tradizione.

L’idea sottostante al progetto è anche riassunta nel motto ‘Fiction is action’, perchè TINA, che pure non è avaro di suggerimenti pratici, vorrebbe ricaricare l’immaginario collettivo e individuale per prepararlo ai suoi nuovi compiti, compiti che non sono facoltativi e direi che il 2020 ci ha ampiamente informati della cosa. Vasto programma, si potrebbe dire, ma uno usa le armi che si ritrova per le mani e cerca di acquisirne di migliori e più potenti. La open call potrebbe aver segnalato chi saranno gli scrittori italiani di domani – dita incrociate.

Non è che per forza io segua in tutto Meschiari e Vena. Ho già detto che tipo di scrittore io sia. Ho già fatto la mia dichiarazione di fede in Don Benedetto Croce e nel fatto che la conoscenza sia intuitiva oppure logica, per la fantasia o per l’intelletto, dell’individuale o dell’universale, dei singoli o delle loro relazioni, e che in definitiva produca immagini oppure concetti. Però so anche che non basta. Non basta più. Meschiari soprattutto torna spesso nei suoi libri sul tema dei saperi e a volte è piuttosto sarcastico nei confronti dei letterati odierni e della loro allergia al buon vecchio sapere le cose e a me, vecchio novecentesco, tornano alla mente gli intellettuali di un tempo, i Calvino, i Moravia, gli Eco, gli Arbasino, i Pasolini, le Ginzburg, persino i Soldati, con le loro competenze enciclopediche e la loro necessità di essere sempre al corrente di tutto  – politica, arte, scienza etc – e non solo dei romanzi o film o serie da non perdere in uscita. Modelli che forse avevo scaricato e che forse non era il caso.

Quindi bene, ci sto. Però penso anche che il romanzo ‘borghese’ o ‘neoliberale’ non sia per forza il Male. Le storie incentrate sugli individui e sui loro rapporti interpersonali hanno un loro pubblico e lo avranno sempre e non producono solo stanchi collage di clichè e strategie editoriali perdenti ma anche testi e immagini che ci dicono qualcosa di noi. Detto questo, è giusto, è persino necessario, che la letteratura italiana recuperi il mondo, recuperi la storia, recuperi la natura, recuperi l’immaginazione, recuperi l’epica, e questo a me pare un buon primo passo.

E non è nemmeno solo una questione di letteratura, è qualcosa di un po’ più grande e decisivo. Come mi è capitato di leggere di recente non ricordo dove (ne sai qualcosa, Giorgiomaria?) :La finzione al suo grado massimo vincola il reale, lo forza a generare un piano di attualizzazione; per questo colui che partecipa alla creazione delle immagini influenza attivamente il tessuto storico, ne devia i flussi, le narrazioni; ne manipola la psicomachia”.

Chiaro che di fronte a un simile programma mi viene realisticamente da valutare quanto io possa dare sul serio e mi sento subito come quello che voleva attraversare l’Asia a piedi e arrivato al Ponto Eusino si accorge che la bottiglietta di acqua minerale frizzante che si era portato dietro è quasi finita, ma pazienza, si prosegue e come diceva Mr. Micawber, ‘Something will turn up’.

Per concludere, che io mi sto divertendo ma voi non so e vi vedo guardare l’orologio: Meschiari e Vena spesso parlano dell’esaurimento della narrazione distopica e suggeriscono di ricorrere all’ucronia. Lei? La vecchia ‘storia alternativa’ o ‘universo parallelo’? ‘La svastica sul sole’? ‘Il complotto contro l’America’? ‘Contro-passato prossimo? ‘Pavana’? Uno dei miei generi preferiti ma tutto sommato un genere minore? Sì, lei, un genere minore appunto ma anche una chiave per qualcosa di più grande. Uno dei miei miti personali, Niklas Luhmann, ha in qualche modo suggerito che l’Arte al fondo sia tutta un Ucronia. In Luhmann Arte e Negazione sono in stretto rapporto simbiotico, perchè la possibilità di dire No alla realtà è ciò che ci rende umani e fa evolvere la società. Mi autocito (ehi, ve l’ho detto che scrivo per vanità): “In Luhmann la Negazione ha un primato funzionale, che permette di mantenere accessibile il mondo nonostante l’inevitabile selettività operativa dei sistemi sia sociali che psichici. La Negazione rimanda a altre possibilità oltre a quelle effettivamente attualizzate e permette di costituire il senso di ogni comunicazione e di ogni pensiero. Non per niente, il senso, che è il centro di tutto il sistema luhmaniano, è una forma specifica con due lati, reale e possibile, ma anche attuale e potenziale. Nella teoria la negazione ha qualcosa in comune con l’Arte, il mezzo di comunicazione generalizzato simbolicamente che aspira a riattivare delle possibilità rimosse in quanto altre possibilità sono diventate reali, mostrando come sia possibile in quest’ambito un ordine dotato di una sua necessarietà insita esclusivamente nell’opera stessa che però rimanda alla possibilità del mondo – che è un po’, secondo me, quel che vuole fare il Progetto TINA”.

E dopo questo gran finale a orchestra spiegata mi limito a ricordarvi che La Grande Estinzione ‘can be a lot of fun’.

 

***

 

Stefano Trucco è nato nel 1962 a Genova, dove vive e lavora come bibliotecario. Ha pubblicato i romanzi ‘Fight Night’ (Bompiani, 2014) e ‘Il Gran Bazar del XX secolo’ ( Aguaplano, 2019) e il racconto lungo ‘1958. Una storia dell’Età Atomica’ (Intermezzi, 2018).

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Dentro la O. Un dialogo intorno a Verso le stelle glaciali

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di Tommaso di Dio e Alessio Paiano

A.P. – Verso le stelle glaciali (Interlinea, 2020) è un libro costruito attraverso un’architettura interna molto ragionata, e ciò credo lo renda un caso alquanto insolito, se consideriamo che lo spazio concesso a questo tipo di scritture sia molto ridotto rispetto a ciò che si crede essere il ‘far poesia’. Forse perché sei riuscito a imporre un incastro tra le sezioni che non si declina mai in una fuoriuscita totale: se consideriamo singolarmente le parti che compongono il libro, non le immagino come tratti isolati, ma come deviazioni che continuano un unico percorso di partenza. Sei tu stesso che cerchi faticosamente, ma con successo, di far passare il filo rosso, di tenere il tutto, accompagnando il lettore in questo mondo apparentemente disperso. Quando in apertura presenti i quattro percorsi dicendo che «nessun ordine è però prescritto», quasi ci si sente di fronte a una frantumazione già avvenuta, alla deriva dei continenti (vista la centralità della geografia nella raccolta), ma fai capire infine che ci troviamo davanti a un organismo ben funzionante, un pianeta che si regge grazie a miriadi di forze opposte e contraddittorie.

 

T.D.D. – Sono felice, Alessio, che questo nostro dialogo cominci proprio da qui: da questioni architettoniche. Nella scrittura, fino ad adesso, per me è stato molto importante, diciamo, separare il momento della stesura di un testo dal momento compositivo. È un atteggiamento che però non mi sembra così strano: sono molti i libri, sia lontani che più recenti, che mostrano un’attenzione di questo tipo, dal modello insuperabile delle Ecloghe virgiliane fino, che so io, a Pitture nere su carta di Mario Benedetti, ma, per citare alcuni altri libri di poesia recenti che per me sono imprescindibili, prova a pensare per esempio allo stupendo Tre opere di Florinda Fusco oppure ai più recenti Posti a sedere di Luciano Mazziotta e Appartamenti o stanze di Carmen Gallo. Anzi, penso che proprio la fluidità degli ultimi venti anni, il fatto che molta, moltissima poesia sia oggi fruita in rete, abbia acuito invece in diversi autori l’esigenza di strutturare in maniera più solida il libro di poesia: proprio per evitare che il singolo testo sia lasciato solo e indifeso nella deriva che trascina via oggi ogni testo (deriva che è invece oggetto di appropriazione di tanti altri autori che condividono a ripetizione testi di #poesia nei loro profili social). Il libro è, anche, un modo per dare maggiore “resistenza semantica” ai singoli componimenti, dare loro rilievo: e in questo senso è anche un sintomo, oltre che uno strumento. Per tornare al mio lavoro, per me scrivere e strutturare quanto ho scritto sono due processi che considero nel medesimo gesto della “scrittura”, ma li avverto completamente diversi: seguono logiche e metodi quasi opposti. Se da un lato la scrittura delle singole poesie avviene quasi sempre a partire da un’urgenza che non ha obiettivi prefissati né abitudini a cui affidarsi (scrivere è per me camminare al buio, letteralmente, verso dopo verso), comporre poi un libro è invece frutto di un calcolo che vorrebbe rispecchiare una precisa idea di mondo. In questo senso mi troverei in imbarazzo a commentare una mia poesia, ma non nel raccontare qui del mio libro: il libro di poesia è, anche, un veicolo ideologico. Non ho infatti mai pensato, per quanto ho fatto fino ad ora, al libro di poesia come ad una semplice raccolta di poesie, ma sempre come un organismo progettuale. Con Verso le stelle glaciali volevo dunque qualcosa, avevo un obiettivo, sebbene non sia emerso da subito dai materiali che avevo nei miei file-faldoni, ma mi si è reso sempre più chiaro durante i mesi in cui lavoravo alla selezione e alle sequenze. Mi venivano alle mani aggregazioni distinte di testi, con centri molto lontani fra loro e tensioni equipollenti, ma distinte nella forma e nei modi, sebbene tutti tendessero a qualcosa che non era detto, che non era nel detto. E dunque, lentamente, è emersa l’idea di insistere su questa difformità: comporre un libro di libri, che, da un lato, tenesse il lettore sempre dentro i segni della scrittura (immaginavo questo libro come una geografia a spirale, un oggetto quadrimensionale dentro cui il lettore potesse compiere più percorsi in tutte le direzioni, in avanti e all’indietro, andando dai versi alle immagini verso la prosa e tornando indietro ancora), dall’altro volevo che il lettore vivesse l’esperienza che tutto ciò che era in gioco non fosse lì: non fosse nel libro, non fosse in quei segni, ma si giocasse fuori, a libro chiuso. Da qui la sensazione delle continue deviazioni a cui fai giustamente riferimento, a cui si unisce però una possibilità: quella di leggere il libro in maniera lineare, dalla prima pagina all’ultima. Verso le stelle glaciali è anche un itinerario in quattro geografie consecutive, connesse fra loro da una voluta progressione allegorica. Ma non volevo che il lettore pensasse che questo fosse l’unico ordine possibile; anzi l’invito nell’avvertenza ha proprio questa funzione: insinuare l’idea che un libro di poesia possa proprio essere usato differentemente da quanto avviene per un libro di narrativa o di saggistica, che introietta in maniera spesso inerte la logica della progressione lineare alfabetica. Un libro di poesia può, anche, essere aperto a caso: accoglie il favore dell’alea. Può essere attraversato e usato, di volta in volta, come amuleto, come bussola, come labirinto, ovvero come protezione dal male, come strumento di orientamento o come spazio in cui perdersi. A queste tre funzioni faccio riferimento nel libro: a volte i versi spaesano, a volte guidano, a volte vogliono che accada qualcosa, che qualcosa si allontani o si avvicini. Volevo dare l’impressione delle infinite potenzialità che la poesia, questo forma simbolica, ha maturato nella sua lunga storia. Per seguire la tua metafora, posso dire così: Verso le stelle glaciali è pensato come un ammasso galattico, una nebula di stelle composta da quattro piccole galassie distinte (gli itinerari) a cui si sono aggregati col tempo, per forza gravitazionale, altri materiali (le immagini, le prose), ma ogni galassia, ogni itinerario, è un mondo in sé compiuto. In questo senso sì, hai perfettamente ragione: il lettore si trova già di fronte ad una frantumazione, ma tutti questi frammenti sono resi coesi e coerenti dalla costante presenza di un Grande Attrattore, un centro invisibile, remoto, freddo: è questa energia che spinge ogni elemento al successivo e ognuno di essi al di fuori della propria galassia-itinerario, verso quelle che chiamo le stelle glaciali, ovvero verso la fine di ogni luce, una massa buia, una sorta di buco nel cosmo o nel linguaggio: verso qualcosa che la parola non può dire (e che Lacan, forse, chiamerebbe il Reale).

 

A.P – Volendo rispettare l’architettura da te proposta nel libro, la prima sezione si distingue dalle altre per uno sguardo completamente rivolto all’altro: mi pare che recuperi una certa tradizione che tu hai ovviamente frequentato, quella che trae cioè dal bestiario metropolitano il proprio materiale di scrittura. Eppure, se una considerazione va fatta per evitare eccessive semplificazioni, l’Io che si fa osservatorio delle figure incontrate non presenta alcuni intenti moralistici, né pretese etnografiche e quindi voyeuristiche; questa tematica delle minoranze, che rischia davvero ormai di apparire kitsch e posticcia per chi la sfrutta ai fini di un retorico sensazionalismo, tu la affronti ponendo una totale distanza dello sguardo poetico, una distanza che percepisco come rispetto umano, un’umile delicatezza che nel testo più volte alludi addirittura di voler ridurre al silenzio. Quali riflessioni ti hanno spinto a operare in tal senso?

 

T.D.D. – Dici bene: la prima parte è per me una sezione di raccordo con Tua e di tutti ed è anche un modo per ricapitolare una certa modalità di scrittura che ha fatto e fa ancora parte della mia storia. Parlo, come hai intuito, di una certa frontalità con l’esperienza fenomenica, virata all’espressionismo, che mi viene dall’incrocio di alcuni autori di lezione lombarda: il mio amato Clemente Rebora, Vittorio Sereni, un certo Fortini e giù, fino a certe aree della scrittura di Milo De Angelis. Mettici in più che sono nato e vivo in una città e che spesso lo scatto iniziale della scrittura avviene proprio per strada. Detto ciò, per me era importante partire da dove vivo, dal luogo concreto della mia esistenza. Si parte sempre da qualche parte e in quella sezione l’ho dichiarato: parto da una tradizione precisa e da una geografia determinata. Mi interessava poi in questa sezione provare a fotografare delle solitudini. Non era però al centro del mio interesse il piano esistenziale della questione, con tutto il corredo emotivo che conosciamo; volevo far emergere quanto la solitudine rappresenti una forma di esclusione: un effetto, insomma, di una certa determinazione materiale. Come hai giustamente notato, questo è un tema portante del libro. La seconda sezione lo mette al centro di una relazione umana, la terza di quella di un gruppo (il rapporto fra il capitano e la ciurma), nell’ultima la cosa infine si ripete e si trasforma. La prima sezione propone una serie di ritratti di persone, o da sole o in scena con altri, micro coaguli umani, però sempre sconnessi, slegati, separati da un “resto”: che escludono colui che le guarda o sono stati esclusi. Sia nel ritratto della donna in metropolitana che nel caso di soggetti plurali (penso a Dentro camminano, di p. 20) è in gioco la stessa dinamica. In questo contesto, mi sono deciso ad inserire anche un testo che tratta direttamente di un episodio che è accaduto a cinquecento metri da dove abitavo. Nel 2017, un ragazzo richiedente asilo, ospite in un centro di accoglienza, si è tolto la vita impiccandosi sulla massicciata che corre lungo i binari della Stazione Centrale. Più volte durante la settimana, nei giri a piedi nel mio quartiere, passavo davanti a quel punto: davanti a quel momento. Dopo alcuni mesi, è emerso questo testo e sono stato indeciso fino all’ultimo se inserirlo, proprio perché non volevo assolutamente che si creasse quell’effetto kitsch, fra il pietistico e il voyeuristico, che tu dici. Ci son volute moltissime stesure, varianti, tagli e spostamenti; ho cercato di tenere presente il monito di Fortini: «quando si legge un ragionamento politico, il tasso di ridondanza emotiva dovrebbe essere ridotto al minimo»[i]. Infine, però mi sono deciso (anche contro il parere di alcuni amici lettori): mi sembrava che completasse la geografia della prima sezione, che fosse dentro lo sviluppo del libro. Era, anzi, un punto fondamentale, proprio perché rappresenta, all’estremo, l’apparire di qualcosa che, pur accadendo vicino a noi, ci esclude: ci riduce al silenzio. Per via delle nostre condizioni, non solo spesso non riusciamo a dare a questi incontri umani attenzione alcuna; ma di fronte ad essi sperimentiamo una sorta di impotenza, di incapacità. Ci vengono meno le parole, proprio perché, su di essi, la continua logorrea dei nostri discorsi non riesce ad esercitare alcun potere. Questi buchi, queste aree di silenzio, di sottrazione del discorso a se stesso, attraggono la mia scrittura. La mia poesia infatti non parla di quel ragazzo suicida, ma proprio del fallimento, di fronte a ciò, della mia cultura. Era per me evidente che davanti ad un gesto del genere nessun discorso avesse più senso, nessun discorso in lingua italiana, dico. Crolla e va a zero tutto il linguistico. Appare una breccia, una crepa, dentro la storia della lingua con cui mi esprimo e di cui sono il prodotto. Non so se riesco a spiegarmi, ma sento che in luoghi del genere, di balbuzie, di interruzione del discorso, si possa aprire lo spazio per la poesia. Da queste riflessioni, nasceva il tentativo di rendere questo e gli altri ritratti più scultorei possibile, solidi, spigolosi, stereometrici e distanti: come se stessi provando a descrivere delle erme, davanti alle quali sostare ammutoliti. La vita umana come l’apparire di un enigma, la poesia come l’eco sonora di questo enigma.

 

A.P. Veniamo alla seconda sezione che forma la serie ospedaliera del libro. Anche qui mi pare di poter riaffermare il discorso fatto in precedenza sul silenzio, però non è più il proprio silenzio ma quello dell’altro, che faticosamente ancora dice, ricorda, nomina. Qui riporti chiaramente una tua esperienza intima, ma lo fai ancora una volta senza condividerti del tutto, spostando continuamente lo sguardo verso altre dimensioni: parli di ritrovamenti, grotte, scavi archeologici, e non si riesce facilmente a comprendere il senso finché leggendo non si comprende che la resistenza di chi soffre assomiglia proprio a un cavare fuori la vita, farne appunto un reperto scoperto in estremo. C’è un tentativo di ‘uscir fuori’ che riguarda non solo le due presenze nel testo, ma un mondo che si nasconde e attende di venire alla luce – a dimostrazione che le singole parti del libro comunicano tra loro in maniera non casuale ma ben congeniata.

 

T.D.D. – Esattamente. Proprio in questo senso, la poesia si fa eco del silenzio dell’altro, ne accoglie il suono, non tradendone (spero) il vuoto da cui emerge. C’è una poesia di Margherita Guidacci che dice così: «Il vuoto si difende/ non vuole che una forma lo torturi»[ii]. L’esperienza di essere così vicini ad un uomo, un amico, che in coma non poteva più parlare, sapendo che quell’amico aveva fatto della sua vita la ricerca di una parola, è stato davvero sentire precipitare tanti saperi, tanti discorsi inutili. Ho anche pensato, del tutto insensatamente nel dolore di quei giorni, che quella condizione fosse il capitolo estremo della sua ricerca: che non potesse che continuare così, afona e inudibile, la sua poesia. Per via di un riduzionismo coatto, siamo abituati a pensare che la realtà sia una, quella dei sensi; e invece di fronte alle esperienze più profonde della nostra vita, la realtà ci viene incontro come una stratificazione, una geologia piena di fori, passaggi, cunicoli: una paleografia di mondi. In quei momenti, vera non è solo la cosa che vedo, ma come emerge ciò che vedo, il processo e i legami attraverso cui uno strato si offre e si dà a vedere dall’altro: come soltanto attraverso un mondo si possa dire la verità di un altro. Allora per provare a dire di quell’incontro con il corpo sensibile del mio amico steso sul lettino, ho dovuto fare emergere anche i discorsi e i pensieri attraverso cui provavo a comprendere quanto stava accadendo. Ecco che così la realtà dei sensi e quella della mente si sono accostate, una all’altra: il registro delle sensazioni a quello dei pensieri con cui provavo a comprendere quanto vedevo. In questo senso, mi sembrava che ciò che vivevo potesse essere messo a disposizione di una conoscenza: credo che la poesia (e lo dico nell’eco di un verso di Fortini che amo moltissimo[iii]) possa offrire una possibilità di conoscenza, esattamente come la meditazione, il teatro, la filosofia, ecc.; ma non tanto perché trascrive un’esperienza biografica: più purché riesca a mostrare come precisamente accade che una vita si trascriva. La poesia è un metodo e la mostrazione di un metodo. Non è infatti un caso che si parli proprio qui di caverne e di arte rupestre. In queste pagine, provo a mostrare come la preistoria non sia un’epoca del passato, ma un presente: un certo stato della materia che chiamiamo vita. A questo stadio “pre-istorico”, possiamo accedere ogniqualvolta crolla il nostro automatico “istoriare” la vita con i discorsi logici e rassicuranti, che mettono tutto in ordine, entro un piano solo. Lì, di fronte a quei momenti di emozione e densità, emerge un mondo di resti indecifrabili, di forze anonime, millenarie: vediamo quanto siamo fatti di un tempo immenso, di fronte al quale non abbiamo alcun sapere.

 

A.P. – Veniamo alla parte più sorprendente del libro, che è questo viaggio immaginario via nave. Innanzitutto sarebbe interessante capire, oltre ai personaggi storici indicati nel testo, come le tue letture pregresse abbiano ispirato questo gruppo di poesie. Credo sia importante che un libro di poesia contenga deviazioni simili, anzi, per certi versi lo trovo rinfrancante, vuol dire che al di là dell’iper-soggettivismo che impera sulle produzioni poetiche vi è ancora spazio per quelle che tu definisci ‘bugie della mente’ (p. 57). Come è accaduto, che arrivato a questo punto del libro, tu abbia pensato di dover spingere il soggetto al di là, farne la pedina impazzita di un viaggio che successivamente interesserà tutti gli orizzonti spaziali? Qui siamo nell’orizzontalità, immagino questo viaggio come una linea retta inarrestabile, anche il verso vuole essere letto con una certa fretta, un impeto che a volte mi ha ricordato certa poesia della prima avanguardia europea, mentre a volte mi pare che tu miri a fare di queste pagine un monologo drammaturgico: «La terra si spacca; la terra/ è un barile d’oro» (p. 73).

 

T.D.D. – Sì, Alessio, davvero questa sezione ha sorpreso anche me. Non saprei dire esattamente come sia venuta fuori. Ha preso corpo lentamente, definendosi con sempre maggiore precisione a partire da un’estate. All’inizio è stato il gioco della scrittura a muovermi: ho iniziato a trasporre alcuni frammenti del diario di Colombo entro il corpo dei miei versi e ho visto cosa succedeva. Mi sembrava che potessero funzionare: che provocassero un effetto, un potenziale di energia da gestire. Poi ho capito che molti testi che avevo scritto precedentemente potevano essere lievemente modificati per rientrare all’interno di questa sezione. È come se un tentativo un po’ casuale avesse creato un effetto magnetico che ha attratto retrospettivamente molti altri materiali e li ha orientati. Lavorandoci sopra (e ci ho lavorato a lungo), a poco a poco, mi sono accorto che la sezione è di fatto una mise en abîme dell’intero libro e a causa di questo effetto di imbottigliamento telescopico mi sono anche reso conto meglio del libro che stavo costruendo. Di sicuro, hanno giocato un ruolo importante alcune suggestioni letterarie e cinematografiche. Penso immediatamente al Fitzcarraldo di Herzog e alla poesia e alla prosa di Àlvaro Mutis (il personaggio di Maqroll il Gabbiere ha avuto un grande effetto su di me), ma anche a quella di William Carlos Williams (che dedica ai viaggi di Colombo un capitolo del suo In the American grain) e di Ezra Pound, con le sue poesie per interposta persona (forse è merito suo il tono un po’ avanguardistico che hai sentito). Se penso alla letteratura italiana, devo dire che mentre lavoravo alla sequenza avevo in mente le costruzioni narrative di Giorgio Caproni e il lavoro che Maurizio Cucchi ha fatto sulla narrazione per frammenti, in un libro come La luce del distacco o L’ultimo viaggio di Glenn. Certamente, come hai visto bene, è riemersa anche, per vie sotterranee, l’esperienza di scrittura teatrale che ho coltivato un decennio fa con la compagnia metà siciliana metà milanese Esiba Teatro. Scrivere poesie, per me, non è mai un’esperienza piacevole; eppure nella composizione di questa sezione mi sono anche divertito: ho cercato una leggerezza nuova e ho provato a fuoriuscire da un immaginario che sentivo irrespirabile. A muovermi verso questo stato d’animo, è stato il bisogno di fuggire dal dolore della sezione precedente: avevo voglia di liberarmi di me, di farmi fuori, di andare via; e così di liberare la mia poesia, portarla al di là dal ghetto di un certo “realismo esistenziale disforico”, che attanaglia tanta poesia italiana (compresa la mia). Questa libertà di disegno si è poi riversata su tutta la struttura del libro portandola all’estremo, al cosmico. Il viaggio di Colombo, nella sua emblematicità, rappresenta il paradigma dell’Occidente. Con il suo progetto di «buscar el levante por el poniente», Colombo è al contempo un uomo antico e un uomo moderno: animato da una fede senza dubbi, che saremmo tentati di chiamare “medievale”, ha nondimeno fatto tramontare un mondo e trasformato il futuro dell’umanità, aprendo le porte dell’epoca moderna, atlantica, e dando inizio involontariamente ad un genocidio fra i più terribili della storia. In fondo – e questa è una tesi della sezione – il suo viaggio non è così diverso dalla danza intorno al fuoco degli abitanti di Guanahanì, l’antico nome di San Salvador: ognuno di loro non cercava che di dar forma ai propri fantasmi con gli strumenti e i riti che la propria storia gli metteva a disposizione. L’uomo non cerca che se stesso, ma crede di cercare Dio e l’oro.

 

A.P. – In alcuni punti del testo è la stessa voce narrante a svelare la macchinazione narrativa: lo fai quasi ogni volta che nomini «questa umana mente. Debole. Precaria» (p.70), «la mente che di sé/ sempre asseta» (p. 95), oppure quando parli di «un tragitto/ in una mente senza fine mai» (p. 88); ma ancora più significante è questo passaggio, in cui l’Io si rivolge a un altro (probabilmente lo stesso nominato in precedenza): «Raggiungimi. Se io non posso arrivare a te/ che tu mi sopravvenga, che tu almeno/ mi soprammonti dall’alta/ riva del mondo» (p. 80). Adesso, sembri dire, una doppia finzione (la poesia e una realtà ulteriore, per adesso il viaggio, che si espande dall’organismo del libro, biforcandolo) può colmare quei limiti che finora sembravano invalicabili, cioè la distanza e il silenzio dell’altro.

 

T.D.D. – È un’interpretazione che mi piace molto, Alessio: l’idea della “doppia finzione” che si ritorce su stessa, annullandosi. Descrive un movimento su se stesso, un dinamismo senza movimento locale, ma non immobile, in cui ritrovo ciò che mi sembra essere Verso le stelle glaciali. Il viaggio che ho provato a tracciare è proprio una visione. La sua stessa implausibilità lo dichiara: nei versi si mischiano elementi della contemporaneità a ricostruzioni storiche, stralci biografici a veri e proprio prestiti dalle parole del diario di Colombo (che a sua volta – giova ricordarlo – è la traduzione ricostruita di un originale perduto). Alla fine di 1492 il viaggio approda in un continente nuovo: le Indie di un immaginario rinnovato. Questa terra nuova è quella che si invoca lungo il tragitto; ma come si vede subito, non appena il lettore approda all’ultima sezione, questa nuova terra non ha nulla di speciale: è anzi un ritorno alla città, un ritorno ad una geografia assai simile a quella della situazione di partenza, tranne che per lo sguardo con cui la si descrive. È come se dicessi che la realtà, per arrivare a farsi propriamente reale, debba passare attraverso una torsione o una “finzione” come dici tu. «Perché́ non era in luogo donde potesse/ scoprire il lume, io vidi un lume» (p. 87): la circolarità paradossale, tautologica, descritta da questi versi è al centro di tutto il libro e al centro di cosa penso sia l’esperienza artistica. C’è una riflessione di Jacques Derrida che mi viene in soccorso qui, tratta da una conferenza tenuta in Italia nel 2002[iv]. Il filosofo francese ci ricorda che quando diciamo “esperienza” non sempre intendiamo una cosa sola. Da un lato, infatti, diciamo “esperienza” quando qualcosa si presenta nel nostro presente: è qui, davanti ai nostri sensi, adesso. Dall’altro, la parola “esperienza” è legata al verbo latino experiri e al greco πειράω, che suonano anche nel tedesco Erfarhrung. L’etimologia ci racconta di qualcosa che “si tenta”, che “si azzarda”: di una “sfida” che si porta su di sé; qualcosa che passa dal lontano (l’inglese “far”) e dall’incertezza del pericolo. Di qui, dice Derrida, l’esperienza si manifesta non come «la relazione presente a ciò che è presente», ma come «viaggio non programmabile, il viaggio la cui cartografia non è disegnabile, un viaggio senza design, un viaggio senza disegno, senza scopo e senza orizzonte». Derrida ci ricorda allora che “fare esperienza”, in questo secondo senso, passa sempre attraverso l’eterogeneo, attraverso un non possibile, paradossale passaggio per un pericoloso e non pronosticabile “altro”. Il filosofo conclude con queste parole: «un viaggio che non fosse in vista di ciò che non è in vista, sarebbe ancora un viaggio? O soltanto turismo?». Ecco la poesia che voglio (e spero di aver mostrato) si oppone radicalmente a questo uso turistico del linguaggio. Cerca di portare il lettore più lontano possibile, di mettere in allerta le parole che usiamo tutti i giorni, spingerle verso «un tragitto/ in una mente senza fine mai»: verso un punto in cui il calamo si rovescia sulla carta e si naviga nel nero, attraverso il nero, annotando il nero di tutte le rotte. Se sono stato capace di far udire il «nitrito» che si annida nelle Nubi di Magellano e di far vedere, nella notte, la candelina che Colombo dice di aver visto la notte prima di toccare terra, quel tremore impossibile e debolissimo che si levava e oscillava all’orizzonte, allora sono riuscito a far passare il lettore attraverso un’esperienza poetica.

 

A.P. – «Possa io essere/ dappertutto fuori dagli anfratti evaso, la scossa/ tua voce seguendo» (p. 117). Alla fine troviamo questa totale espansione, come se tu avessi ridotto il soggetto a pura nominazione nelle cose, perché chi nomina e usa la parola si immerge in ognuna di esse. Compaiono qui alcuni riferimenti alla dimensione digitale («Sullo schermo poi. / Qualcuno che digita; qualcuno/ che dice io» (p. 103), che tu non sembri intendere come una separazione; al contrario, la sovrapposizione tra i vari livelli del reale è così labile che ripensando al libro emerge il dubbio che le navigazioni narrate, marittime o astronomiche, siano frutto di una riscrittura, un divertissement via Google Maps e Star Chart. Alla fine lo dici tu stesso in una delle Mappe: «L’artista allora non avrebbe che continuato il medesimo discorso che aveva trovato lì, cominciato dal suo predecessore in chissà quale epoca remota» (p. 130). Abbiamo vagato alla ricerca dello stesso ossessivo e indefinibile punto.

 

T.D.D – Dici bene. L’ultima sezione del libro è il tentativo di comporre un rito personale: è, più delle altre sezioni, una vera e proprio azione. Dapprima, finalmente approdati nella terra nuova, ci si riappropria delle percezioni: ci si lascia sgretolare e si trascrivono i nomi senza dare giudizio alcuno, ma solo per percepirli, per gustarli: «si muove. Evapora. Ride» (p. 106). Come se ogni forma e la forma stessa del libro non fossero che una nuvola di possibilità, movimento in evaporazione, prossimo a sparire nell’azzurro. È come un ritorno alla prima sezione, ma lisergico: se nella prima dominava il tono scultoreo di un destino inappellabile che coglieva le figure per la strada, nell’ultima tutto è invece sospeso e privatissimo. Ho cercato un’intimità che non sia oscena, una forma di rappresentazione della vita occidentale del 2020 che non fosse un’offesa ai morti della storia e a chi soffre oggi. Appare la tecnologia sì, ma anche i campi di aprile: non c’è contraddizione. I testi poi sono ricchi di autocitazioni, non solo dalle altre sezioni del libro, ma anche dai miei libri precedenti e persino dalla mia prima plaquette, Favole: come se questa ultima sezione fosse la ricapitolazione di tutto il mio percorso di scrittura (in questo senso è simile all’ultima sezione di Tua e di tutti, che aveva proprio il titolo La ricerca dell’esperienza). Ci sono infatti, alternate, poesie più recenti (come Arrivano al paese molti pianti di p. 99) e poesie che ho scritto invece molti anni fa e che non avevo mai pubblicato (come Lo hanno lasciato da qualche parte di p. 113 che è probabilmente la più antica del libro). La sezione però poi precipita verso un imbuto. Fra le varie stesure, qui ho addirittura pensato che ci sarebbe potuta essere una sorta di tana del Bianconiglio: sì, proprio quella in cui cadde Alice nel capolavoro di Lewis Carroll Alice in Wonderland. Volevo mostrare che l’uscita del libro fosse in realtà l’entrata in un mondo rinnovato. Alla fine ho rinunciato a questa idea un po’ bislacca perché ho capito che la vera buca del Bianconiglio, quella che abbiamo sempre a disposizione, non è che il pronome di prima persona “Io”. Lì c’è tutto: da lì parte il movimento definitivo. Se non si entra da lì, non si può uscire: ogni fuoriuscita, ogni terza persona, deve partire da questo affondo, da questa offerta radicale di ciò che si ha di più caro. Io, in questo libro, ho offerto il mio primo ricordo in assoluto: l’immagine dei miei genitori, in una Fiat Cinquecento color celeste, sotto la neve dell’85, mentre guardiamo la casa dove sarei cresciuto. La sequenza finale è una sorta di precipizio dentro la “O” di “Io”. Le ultime poesie sono disposte in maniera tale che il lettore si prepari a questo inabissamento: dopo aver guadagnato il tempo dell’attenzione (p. 109) e aver prestato attenzione alla compresenza delle molte realtà dentro la realtà (p. 110), ecco che viene incontro l’Io, al cui fondo non c’è che il Sé: «un cielo// fra gli occhi azzurri delle nuvole sguarnite» (p. 112). E dopo? Ecco, quanto dici tu mi sembra perfetto: dopo c’è la membrana labile fra mente e percezione, fra mente interna e sensi esterni. Tutto diviene accettato e offerto dentro un “Sì”. E il viaggio ricomincia, nelle prose: all’indietro.

 

[i] Fortini fa riferimento all’elaborazione di un discorso in versi tenuto durante una manifestazione a Firenze nel 1967, dal titolo Intervento alla manifestazione per la libertà del Vietnam. Si veda Fortini, Saggi ed epigrammi, Mondadori, Milano, p. 1793.

[ii] Sono gli ultimi due versi della poesia Il vuoto e le forme, dal libro omonimo del 1977.

[iii] Penso all’incipit folgorante «Esiste nella poesia una possibilità» e a quanto segue, in Poesia e errore, del 1959.

[iv] Jacques Derrida, Pensare al non vedere, in Pensare al non vedere. Scritti sulle arti del visibile 1979-2004, Jaca Book, Milano, 2016.


da Verso le stelle glaciali:

*

Un uomo entra

per ragioni oscure, oltre la porta scorrevole

di un piccolo supermercato. Oltre il getto

d’aria condizionata

e oltre tornelli, casse, scaffali; ha sparato

ad altri uomini fra le merci kosher. Mentre guardo

dal cellulare la notizia e sovrappensiero

ad alta voce la dico, tu stai

seduto; e non parli, immerso

nell’odore di urina e proteine animali. Guardi

oltre il letto, oltre il tavolo. E per tutta

l’estensione tu sei

dimensione di nulla spazio né tempo, quasi non più
cognizione, né memoria. Dentro la caverna, hanno trovato
residui organici, rocce e frammenti di corno

sbozzato in zagaglie. Per ragioni oscure

in fondo a tutto questo; sulle pareti di pietra

e con milioni di mani

è stato dipinto un uomo.

*

Mappa 4

Se si segue con scrupolo e con attenzione le mappe precedenti, ci si troverà in un’area la cui mappa è un insieme di segni che vanno individuati più con il tatto che con la vista. Nondimeno, fin da quando la grotta di Lascaux è stata scoperta (12 settembre 1940), una delle ipotesi degli interpreti, contestata in verità da alcuni altri, è stata quella di essere di fronte ad un linguaggio articolato. Gli animali dipinti da centinaia di mani sulle ruvide e difformi pareti della grotta rappresenterebbero tutt’altro che la proiezione istintiva delle paure o dei desideri delle comunità umane che lì si riunirono per migliaia di anni, ma una precisa disposizione significativa, qualcosa come una frase sola, che si articola in centinaia di anni e centinaia di metri di profondità; i cui verbi e i cui nomi non sono le stilizzate nostre lettere dell’alfabeto, ma i profili e le azioni che le potenze animali mettono in scena. L’artista allora non avrebbe che continuato il medesimo discorso che aveva trovato lì, cominciato dal suo predecessore in chissà quale epoca remota. Col tempo, ogni animale, legato opportunamente all’altro, porta impresso sulle pareti un messaggio che agli antichi interpreti risultava del tutto evidente. Dentro la grotta insomma, a discapito del buio più assoluto, è tutto chiaro: toccando gli spigoli umidi, rannicchiandosi fin dentro i più bassi cunicoli e avendo finalmente il viso e le dita a pochi millimetri dal muso di un bovino o di un cervide dipinto, proprio quando la lampada smette di mandare l’ultimo debole baluginio e si rimane da soli nel più profondo nero, tutta la storia umana torna leggibile. Chi arriva fino a qui, si dice possa raggiungere un luogo che gli studiosi chiamano La Mente. È un’area di solitudine e di inesorabile necessità; in essa si entra in contatto con ciò che precede nel tempo e supera nello spazio. Arrivati qui, la mappa smette di mostrare una direzione e mostra invece se stessa.