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Diari di maggio. Prescrizioni sanitarie e mutazioni del corpo (2/2)

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Testimonianze informali riscritte e disegnate da Elena Tognoli

13 maggio
Ettore (la cedevolezza della carne)
“Ha voluto abbracciarmi e mi è sembrata molle la sua pelle, pronta a cedere e a sprofondare nella carne. Dal 2 marzo non toccavo nessuno. Sento la responsabilità del tatto, la porosità che è il vuoto dentro le ossa. Mi dico che anche abbracciare qualcuno o qualcosa è abbracciare il vuoto, stringersi a nessuno.”

L’indoratrice a fuoco. Eavan Boland: un ritratto

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di Viviana Fiorentino

 

 

Il 27 Aprile scompare Eavan Boland (1944-2020). Una delle più grandi poete d’Irlanda, Eavan avrebbe dovuto ritirare il premio Irish PEN 2019 proprio in questi mesi. Ci ha lasciato, ma abbiamo solo appena iniziato a considerare con dovuta attenzione il suo contributo alla cultura irlandese e alla letteratura in genere. Infatti, ricordare Eavan Boland significa anche ricordare quanto la storia della letteratura, in Irlanda come in Italia, sia stata una storia di potere e soppressione a danno della scrittura delle donne, da sempre marginalizzata, se non altro, da editori, scrittori e accademici. Le nostre letterature sono ancora monche nelle antologie scolastiche, per esempio. E se adesso si comincia a porre attenzione alla scrittura delle donne, ancora forti sono le spinte per una canonizzazione maschile persino delle voci femminili e di tutte quelle che sono considerate devianti dalla norma. Eavan Boland ha combattuto e rotto questo “canone” durante tutta la sua carriera e vita come donna. Erano i primi anni sessanta quando pubblicò la sua prima raccolta di poesie, nella quale parla della sua esistenza come giovanissima moglie, madre e studentessa universitaria.

Irish PEN la ricorda come una scrittrice pionieristica, coraggiosa, impegnata. Ma soprattutto come una scrittrice senza paura, capace di stroncare editori prominenti al Field Day della fine degli anni 80, scrittori e accademici che “dimenticarono” di includere le così numerose scrittrici irlandesi nella “Anthology of Irish writing”. Eavan, che era stata inclusa, protestò con rabbia all’esclusione delle sue coetanee segnando una svolta nella storia della letteratura irlandese.

Nel 1994, ritornerà con coraggio sullo stesso tema, con un discorso intitolato “Gods Make Your Own Importance” pronunciato sotto gli auspici della Poetry Book Society. Qui uno stralcio: “Sono una poeta irlandese. Una poeta donna. Nella prima categoria accedo con un certo angolo alla tradizione della lingua inglese. Nella seconda, accedo con un angolo ancora più inclinato alla mia stessa tradizione. Devo essere sincera riguardo a ciò perché, ovviamente, queste due identità danno forma e rimodellano ciò che ho da dire oggi. L’autorità del poeta – quel tema ampio e stimolante – è davvero, nel mio caso, una serie di istinti e intuizioni. La differenza nel mio caso è che mentre molti poeti guardano al passato per la storia stessa di quell’autorità, io non lo faccio più. Ho smesso di ascoltare quella storia che conferisce automaticamente autorità al poeta e di conseguenza automaticamente importanza alla poesia. Invece, vedo adesso solo una narrazione soppressa.”* Sulla pagina del Irish PEN, Lia Mills – scrittrice di racconti, narrativa e saggistica – ricorda A Kind of Scar: The Woman Poet in a National Tradition, una pubblicazione della influente Attic Press degli anni 80 nella quale la Boland sfida alcune delle “vacche sacre” della poesia irlandese usando la propria diretta esperienza come obiettivo di messa a fuoco. Eavan, non è stata, difatti, solo una poeta, ma una donna coraggiosa e radicale, capace di anticipare con i suoi interventi ciò che poi si è realizzato molti anni dopo in Irlanda: la sovversione e la ribellione a un punto di vista esclusivamente maschile nella letteratura dell’isola. Lia Mills ricorda anche l’Eavan Boland che “aveva un modo di perforare il nucleo delle parole e spostare il nostro angolo di percezione. Spostamenti non sempre confortevoli, ma efficaci.”

Nata a Dublino nel 1944, nel corso della sua lunga carriera, Eavan Boland ha affinato e saputo raccontare l’ordinario nella vita. Nelle sue numerose raccolte di poesie, nel suo libro di memorie in prosa Object Lessons (1995), come anche nel suo lavoro di antologista e insegnante, ha sempre sovvertito le costruzioni tradizionali della femminilità, per offrire nuove prospettive, sulla cultura, sulla storia e persino sulla mitologia irlandese.

Figlia di padre diplomatico e madre pittrice, Boland ha trascorso la sua infanzia a Londra e New York, tornando in Irlanda per frequentare la scuola secondaria a Killiney e successivamente l’università al Trinity College di Dublino. Ancora studentessa, pubblicò la sua prima raccolta, 23 Poems (1962), nella quale esplora le sue esperienze come giovane moglie e madre e la sua crescente consapevolezza del ruolo problematico delle donne nella storia e nella cultura irlandese. In una intervista sul sito web «A Smartish Pace», la stessa Boland ci descrive la “situazione difficile” dei suoi primi anni come poeta: “Ho iniziato a scrivere in un’Irlanda in cui la parola donna e la parola poeta sembravano essere in una sorta di opposizione magnetica” (…) “Volevo parlare della vita che avevo vissuto. E la vita che ho vissuto è stata la vita di una donna. E non potevo accettare la possibilità che la vita della donna non potesse, o non volesse essere, nominata nella poesia della mia stessa nazione”.

L’amica e poeta Mary Robinson la ricorda come una poeta molto pratica, “una che ha saputo fin da subito come usare un computer”. Adorava insegnare, credeva che l’insegnamento “generasse ossigeno” – ossigeno letterario. Eilís Ní Dhuibhne, drammaturga, scrittrice di racconti e romanziera, racconta di una Eavan coraggiosa, schietta, passionale e di come citasse sempre durante le sue lezioni un partecipante anonimo di un passato seminario, una donna che avrebbe detto: “Se sapessero che ho scritto poesie, la gente penserebbe che non lavo le finestre di casa.” Racconta ancora di lei Eilís Ní Dhuibhneci: “Era così intelligente, sicura di sé, eloquente, (…) Nella sua poesia, è stata rivoluzionaria: ha confermato che nutrire un bambino, tirare fuori bottiglie di latte, vivere “in periferia” può essere roba per la poesia.”

Il suo quinto libro, In Her Own Image (1980), portò alla Boland riconoscimenti e consensi internazionali. Esplorando argomenti come la violenza domestica, l’anoressia, l’infanticidio e il cancro, il libro ha testimoniato la continua attenzione e preoccupazione della Boland perché non venissero forniti ritratti imprecisi, ipocriti e ovattati delle donne nella letteratura e nella società irlandese.

Eavan Boland ha ricevuto numerosi riconoscimenti durante la sua lunga carriera, tra cui il Lannan Foundation Award, il PEN Award per la saggistica creativa con A Journey with Two Maps: Becoming a Woman Poet, la Corrington Medal per Literary Excellence e la Bucknell Medal of Distinction. Ha conseguito lauree honoris causa dalla, tra le altre, University College di Dublino, dal Trinity College di Dublino e dalla Strathclyde University in Scozia. Nel 2016, è stata nominata membro dell’American Academy of Arts and Sciences e nel 2017 è stata eletta membro onorario della Royal Irish Academy. Viveva tra Palo Alto e Dublino. La sua raccolta di poesie The Historians uscirà postuma questo autunno.

Come scrittrice e donna, vorrei ringraziare Eavan Boland, a nome di tutte le scrittrici donne, per il tuo straordinario sostegno verso le donne, le poete e le scrittrici emarginate.

Qui di seguito alcune sue poesie tradotte in italiano.

 

 

The fire gilder

 

She loved silver, she loved gold,

my mother. She spoke about the influence

of metals, the congruence of atoms,

the art classes where she learned

these things: think of it

she would say as she told me

to gild any surface a master craftsman

had to meld gold with mercury,

had to heat both so one was volatile,

one was not

and to do it right

had to separate them and then

burn, burn, burn mercury

until it fled and left behind

a skin of light. The only thing, she added—

but what came after that I forgot.

 

What she spent a lifetime forgetting

could be my subject:

the fenced-in small towns of Leinster,

the coastal villages where the language

of the sea was handed on,

phrases bruised by storms,

by shipwrecks. But isn’t.

My subject is the part wishing plays in

the way villages are made

to vanish, in the way I learned

to separate memory from knowledge,

so one was volatile, one was not

and how I started writing,

burning light,

building heat until all at once

I was the fire gilder

ready to lay radiance down,

ready to decorate it happened

with it never did when

all at once I remember what it was

she said: the only thing is

it is extremely dangerous.

 

 

 

 

L’indoratrice a fuoco

 

Amò l’argento, amò l’oro,

mia madre. Parlava dell’influsso

dei metalli, della congruenza di atomi,

di lezioni d’arte dove imparava

queste cose: pensaci

avrebbe detto mentre mi spiegava

come dorare qualsiasi superficie un maestro artigiano

doveva fondere oro con mercurio,

doveva riscaldare entrambi poiché uno era volatile,

uno non lo era

e per farlo bene

si doveva tenerli separarti e poi

bruciare, bruciare, bruciare mercurio

fino a quando esso volava via e lasciava alle spalle

una pelle di luce. L’unica cosa, aggiunse lei –

ma quello che disse dopo lo dimenticai.

 

Il suo trascorrere una vita dimenticando

potrebbe essere il mio tema:

le cittadine recintate del Leinster,

i villaggi costieri dove la lingua

del mare è stata tramandata,

frasi contuse da tempeste,

da naufragi. Ma non lo è.

Il mio tema è la parte che magari inscena

come i villaggi sono stati

fatti scomparire, come ho imparato

a separare la memoria dalla conoscenza,

poiché una era volatile, una non lo era

e come ho iniziato a scrivere,

a bruciare luce,

prendere calore finché d’un tratto

divenni l’indoratrice a fuoco

pronta a stendere luminosità,

pronta a decorare il è accaduto

con mai fatto poi

d’un tratto mi ricordo cos’era

lei disse: l’unica cosa è che

è estremamente pericoloso.

 

 

 

 

The Pomegranate

 

The only legend I have ever loved is

the story of a daughter lost in hell.

And found and rescued there.

Love and blackmail are the gist of it.

Ceres and Persephone the names.

And the best thing about the legend is

I can enter it anywhere. And have.

As a child in exile in

a city of fogs and strange consonants,

I read it first and at first I was

an exiled child in the crackling dusk of

the underworld, the stars blighted. Later

I walked out in a summer twilight

searching for my daughter at bed-time.

When she came running I was ready

to make any bargain to keep her.

I carried her back past whitebeams

and wasps and honey-scented buddleias.

But I was Ceres then and I knew

winter was in store for every leaf

on every tree on that road.

Was inescapable for each one we passed.

And for me.

It is winter

and the stars are hidden.

I climb the stairs and stand where I can see

my child asleep beside her teen magazines,

her can of Coke, her plate of uncut fruit.

The pomegranate! How did I forget it?

She could have come home and been safe

and ended the story and all

our heart-broken searching but she reached

out a hand and plucked a pomegranate.

She put out her hand and pulled down

the French sound for apple and

the noise of stone and the proof

that even in the place of death,

at the heart of legend, in the midst

of rocks full of unshed tears

ready to be diamonds by the time

the story was told, a child can be

hungry. I could warn her. There is still a chance.

The rain is cold. The road is flint-coloured.

The suburb has cars and cable television.

The veiled stars are above ground.

It is another world. But what else

can a mother give her daughter but such

beautiful rifts in time?

If I defer the grief I will diminish the gift.

The legend will be hers as well as mine.

She will enter it. As I have.

She will wake up. She will hold

the papery flushed skin in her hand.

And to her lips. I will say nothing.

 

 

 

La melagrana

 

L’unica leggenda che io abbia mai amato è

la storia di una figlia persa all’inferno.

E trovata e salvata lì.

Amore e ricatto ne sono l’essenza.

Cerere e Persefone i nomi.

E la cosa migliore di questa leggenda è

che posso accederle da dovunque. E averla.

Da bambina in esilio in

una città di nebbie e strane consonanti,

la lessi per la prima volta e io per prima ero

una bambina esiliata nel crepuscolo crepitante degli

inferi, di stelle bruciate. Più tardi

venni fuori in un tramonto estivo

alla ricerca di mia figlia all’ora di dormire.

Quando veniva di corsa ero pronta

a qualsiasi patto pur di trattenerla.

Le portai sorbi

e vespe e le Buddleja profumate di miele.

Ma allora ero Cerere e sapevo

l’inverno era imminente per ogni foglia

su ogni albero della strada.

Era inevitabile per ciascuno che incontravamo.

E per me.

È inverno

e le stelle sono segrete.

Salgo le scale e mi fermo dove posso vedere

mia figlia dormire accanto alle sue riviste da adolescente,

la sua lattina di Coca-Cola, il suo piatto di frutta intonsa.

La melagrana! Come ho potuto dimenticarla?

Sarebbe potuta tornare a casa ed essere al sicuro

e finita la storia e tutta l’intera

nostra affranta ricerca ma lei allungò

una mano e colse la melagrana.

Tirò fuori la sua mano e tirò giù

il suono francese per mela e

il rumore della pietra e la prova

che anche nel luogo della morte,

nel cuore della leggenda, nel mezzo

di rocce piene di lacrime non versate

pronte a essere diamanti quando

la storia fu raccontata, un bambino può essere

affamato. Potrei avvertirla. C’è ancora una possibilità.

La pioggia è fredda. La strada è color selce.

La periferia ha auto e televisione via cavo.

Coperte da un velo le stelle sono al di sopra della terra.

È un altro mondo. Ma cos’altro

può una madre dare a sua figlia se non

bellissime fessure del tempo?

Se allontano il dolore, diminuirò il dono.

La leggenda sarà la sua come la mia.

Vi accederà. Come ho fatto io.

Si sveglierà. E terrà

la sottile membrana arrossata nella mano.

E alle sue labbra. Non dirò nulla.

 

 

My Country In Darkness

 

After the wolves and before the elms

the bardic order ended in Ireland.

 

Only a few remained to continue

a dead art in a dying land:

 

This is a man

on the road from Youghal to Cahirmoyle.

He has no comfort, no food and no future.

He has no fire to recite his friendless measures by.

His riddles and flatteries will have no reward.

His patrons sheath their swords in Flanders and Madrid.

 

Reader of poems, lover of poetry—

in case you thought this was a gentle art

follow this man on a moonless night

to the wretched bed he will have to make:

 

The Gaelic world stretches out under a hawthorn tree

and burns in the rain. This is its home,

its last frail shelter. All of it—

Limerick, the Wild Geese and what went before—

falters into cadence before he sleeps:

He shuts his eyes. Darkness falls on it.

 

 

Il mio paese nell’oscurità

 

Dopo i lupi e prima degli olmi

Finì l’ordine dei bardi in Irlanda.

 

Solo pochi rimasero a continuare

Un’arte morta in una terra morente:

 

Questo è un uomo

sulla strada da Youghal a Cahirmoyle.

Non ha conforto, né cibo né futuro.

Non ha fuoco per recitare battute senza amici.

Non avranno i suoi enigmi e le sue adulazioni ricompensa.

Nascondono i suoi mecenati le loro spade nelle Fiandre e a Madrid.

 

Lettore di liriche, amante della poesia—

nel caso tu pensassi essa fosse un’arte gentile

segui quest’uomo in una notte senza luna

fino a quel letto miserabile che si dovrà preparare:

 

Il mondo gaelico si stende sotto un albero di biancospino

e brucia nella pioggia. Questa è la sua casa,

il suo ultimo fragile rifugio. Tutto questo—

Limerick, le oche selvatiche e ciò che è accaduto prima—

vacilla nella cadenza prima che lui dorma:

Chiude gli occhi. L’oscurità cade su tutto.

 

 

 

 

Quarantine

 

In the worst hour of the worst season

of the worst year of a whole people

a man set out from the workhouse with his wife.

He was walking — they were both walking — north.

 

She was sick with famine fever and could not keep up.

He lifted her and put her on his back.

He walked like that west and west and north.

Until at nightfall under freezing stars they arrived.

 

In the morning they were both found dead.

Of cold. Of hunger. Of the toxins of a whole history.

But her feet were held against his breastbone.

The last heat of his flesh was his last gift to her.

 

Let no love poem ever come to this threshold.

There is no place here for the inexact

praise of the easy graces and sensuality of the body.

There is only time for this merciless inventory:

 

Their death together in the winter of 1847.

Also what they suffered. How they lived.

And what there is between a man and woman.

And in which darkness it can best be proved.

 

 

 

Quarantena

 

Nell’ora peggiore della stagione peggiore

Dell’anno peggiore di un intero popolo

un uomo partì dalla workhouse con sua moglie.

Stava camminando – entrambi stavano camminando – verso nord.

 

Lei era malata per la febbre da carestia e non riusciva a tenere il passo.

Lui la sollevò e la mise sulla schiena.

Camminò così verso ovest e ovest e nord.

Finché sotto stelle gelide al calar della notte arrivarono.

 

Al mattino entrambi furono trovati morti.

Di freddo. Di fame. Delle tossine di un’intera storia.

Ma i piedi di lei premevano contro il suo sterno.

L’ultimo calore della sua carne fu il suo ultimo dono per lei.

 

Non lasciate che nessuna poesia d’amore arrivi mai a questa soglia.

Non c’è posto qui per l’inesatta

lode alle facili grazie e alla sensualità del corpo.

C’è solo tempo per questo impietoso inventario:

 

La loro morte insieme nell’inverno del 1847.

E quello che hanno sofferto. Come hanno vissuto.

E cosa c’è tra un uomo e una donna.

E in quale oscurità essa può essere messa alla più dura prova.

 

 

*‘I am an Irish poet. A woman poet. In the first category I enter the tradition of the English language at an angle. In the second, I enter my own tradition at an even more steep angle. I need to be candid about this because, of course, these two identities shape and re-shape what I have to say today. The authority of the poet – that broad and challenging theme – is really, in my case, a series of instincts and hunches. The difference in my case, is that while many poets look to the past for the story of that authority, I no longer do so. I have stopped listening to the story which grants automatic authority to the poet and automatic importance to the poem. Instead, I have come to see a suppressed narrative.’ (Eavan Boland – stralcio dal discorso “Gods Make Your Own Importance” per la Poetry Book Society, 1994)

 

 

L’intellettuale dissidente

1

di Niccolò Amelii

 

Chi ha la «cultura» ha, se non il potere, almeno
una delle condizioni di esso.
(F. Fortini, Dieci inverni)

 

Gli intellettuali nelle società del neocapitalismo avanzato sopravvivono a stento nei coni d’ombra, nelle aporie, negli interstizi delle strutture professionali e di produzione. Sebbene il fenomeno di disgregamento di un certo tipo di intellettuale (semi)engagé, culturalmente novecentesco, sembri inscriversi nella sua totalità nel quadro fenomenologico di una contemporaneità che ci appare oramai quasi astorica, esso ha origini ben più lontane. Fortini denuncia la situazione di mutamento ontologico con parole irrevocabili già agli inizi degli anni Settanta, riferendosi a un periodo addirittura precedente: «La crisi storica dell’intellettuale “impegnato” l’avevamo vista venire innanzi ben prima del “miracolo economico»>1. Pur esagerando volontariamente i termini critici dell’analisi, Fortini fotografa con grande chiarezza un dato problematico fin da allora evidente e che negli anni a venire avrebbe prodotto una delle più gravi sfaldature tra cultura e realtà: la capillare settorializzazione e parcellizzazione del sapere, non solo nelle accademie, nei poli universitari, nei programmi scolastici, ma nella persona stessa dell’intellettuale, incapace poco a poco di riattingere a quell’interezza, a quel pluriprospettivismo di conoscenza e visione ch’era eredità diretta del Rinascimento, dell’Illuminismo, del positivismo ottocentesco. Bisogna però subito chiarire i concetti in gioco e fare una considerazione che è al contempo premessa generale ed epitaffio: ogni categoria o prassi di pensiero che ha avuto spazio di riflessione, applicazione e discussione nella seconda metà del ‘900, specialmente tra la fine della Seconda guerra mondiale e gli anni ’70, non esiste più. Questo accade non perché quelle categorie, quelle ideologie o quegli strumenti critici che venivano utilizzati per provare a scardinare i perni attraverso cui si teneva insieme la società – e che erano anche e soprattutto atti d’amore e di odio, di devozione qualche volta – sono spariti, ma perché non esistono più istituzioni capaci di veicolarli. E con istituzioni intendo dire Politica e Cultura. Una volta si rifletteva costantemente sull’indipendenza della Cultura dal fatto politico, sulla legittimità di considerare la Cultura una ramificazione della Politica o viceversa, alcuni urlavano a gran voce che Cultura è Politica, altri che non c’è Politica senza Cultura. C’era il gusto dell’affermazione assertiva, ma anche del dubbio, dello scetticismo, della decostruzione. La decadenza assai repentina di entrambi questi fondamentali poli dialettici, di questi due ordini di azione e speculazione, ha di fatto esautorato l’intellettuale inteso come figura ontologicamente ben delineata, agente nella società e per la società, nella cultura e per la cultura, nelle arti e per le arti, lo ha privato del suo campo d’azione privilegiato. Venuta meno la tensione costruttiva che alimentava il fervore e il dibattito, all’intellettuale di oggi non è rimasto nient’altro che il silenzio di un ufficio, il vociare di un salotto televisivo, un’aula universitaria, tutti luoghi solitari o autoreferenziali. Ci sono state ovviamente varie e numerose fasi di peggioramento, andate di pari passo all’affermazione dell’industrializzazione culturale, della massificazione dell’arte, della società dei consumi. La fine della Politica è cominciata con il lento depotenziamento dell’egemonia culturale dei partiti, soprattutto quelli di sinistra. Incapaci di continuare a indirizzare i cittadini verso una certa idea di mondo e società – giusta o sbagliata che fosse –, di decriptare e interpretare i segnali emergenti, di allargare le maglie delle proprie categorie d’analisi e di lettura, essi hanno abdicato, rinunciando con eccessiva arrendevolezza al loro consolidato ed abituale ruolo di guida e di riferimento per accontentarsi della gestione del potere, dell’amministrazione spicciola, della politica senza futuro. Chi ne ha più sofferto è stato paradossalmente proprio l’intellettuale e non il prototipo dell’uomo medio, proiettato verso i fasti della pubblicità e dei quiz show. L’intellettuale, già ormai notevolmente scisso, ha visto sparire davanti ai suoi occhi il terreno di caccia a lui più congeniale, l’amico o il nemico di tante battaglie di penna, di missive, di citazioni, di tesi e antitesi. È venuto a mancare sotto i piedi l’unico spazio di manovra e discorso in cui sentirsi totalmente legittimato, riconosciuto, considerato partner preferito di confronto, a prescindere dalla condivisione o meno degli argomenti e delle posizioni. Ciò ha gravato soprattutto sui “battitori liberi”, coloro che non si riconoscevano totalmente in una determinata forza politica, ma che gravitavano intorno a certi punti cardine, attratti e respinti allo stesso tempo, fedeli ad alcune convinzioni ma sempre critici, sempre eretici, sempre combattivi. L’intellettuale funzionario, quello assoldato nelle fila del partito, mimetizzato ed espropriato delle proprie originarie peculiarità, diventato altro, burocrate o portantino, non ha subito il colpo con pari intensità. Egli ha accettato con passività e arrendevolezza la fine del partito e dunque la morte della Politica e dei luoghi dialettici in cui era fatta perché ha partecipato attivamente al processo di ammazzamento, era sul luogo del delitto e vi sostava con gran piacere. L’intellettuale costantemente eterodosso, curioso e lunatico, il più fervente utopico e idealista si è ritrovato invece isolato, defraudato, incapace di accettare proprio quella solitudine che un tempo invocava ad ogni angolo, seduto ad ogni comizio, nel bel mezzo di ogni discussione. Ha provato prima di arrendersi definitivamente a rivolgersi all’Industria, a farsi ammettere nelle sue corti, tentato dai richiami fatui di un neoumanitarismo più apparente che reale, in un periodo molto limitato di tempo in cui il manager d’alte vedute è sembrato assumere le vesti del mecenate di stampo rinascimentale, felice ed entusiasta di contornarsi di artisti e pensatori. Il momento però è durato davvero poco, sia perché lo pseudo-principe impegnato e di simpatie riformiste è stato sostituito ben presto da consigli dirigenziali spersonalizzati più efficaci e meno interessati, sia perché l’Industria che poteva essere allora ancora struttura a sé stante, organica, lontana dalla finanza dei faccendieri, centrale nella vita di una città e di una comunità è diventata nel giro di qualche inverno un nostalgico ricordo. Egli è allora ritornato tristemente al proprio cantuccio, al proprio studio, alle proprie opere, rimuginando fra sé e sé, quante occasioni perse. Nella nuova condizione di nomade sprovvisto di meta si è reso ben presto conto che nel deserto circostante andavano scemando anche i luoghi fisici a cui un tempo apparteneva per fisiologia, le strutture grazie alle quali perpetuare ed esternalizzare ancora una piccolissima parte del proprio acume critico, intellettivo e conoscitivo. Le riviste chiudono o mutano di forma e contenuto, le case editrici entrano in crisi, la tv nascente fagocita tutto il resto. La cultura è sempre stata minoranza, inutile negarlo. Anche allora era minoranza. Eppure, era una minoranza capace di incidere, di lasciare profondi solchi, di interrogare e porre quesiti che i politici, per cecità o incapacità o convenienza, ignoravano. L’intellettuale aveva compiti d’intraprendenza teorica, di avanguardia del pensiero. Rimaneva inflessibile, armato del proprio bagaglio di studi e di letture, Hegel, Marx, Engels, Lukács, Gramsci, i francofortesi oppure Mill, gli illuministi, Dewey, Croce e tuttavia sempre pronto a sfrondare, a rivedere, a illuminare nuovamente certi passaggi logici, certe vie intraprese. Soprattutto non si collocava né fuori dalla storia, né fuori dalla realtà del mondo, della nazione, della città. Agiva con la coscienza critica di chi è partecipe attivo del farsi delle cose, dei mutamenti in atto, tentando di mediare le altezze filosofiche e di riflessione pura con i bisogni pratici, le richieste di cambiamento pragmatiche della gente, dei cittadini, cercando di modificare, entro i limiti delle proprie possibilità di azione, la realtà stessa, le sue strutture sotterranee e contingenti, i suoi accidenti. Non si trattava semplicemente di fare arte o cultura per il popolo perché «l’arte non si porta, si fa o si sente, è cosa grave, seria; e rara»2; ma di rivestire pienamente un ruolo prestigioso, se non per effettività almeno per retaggio, che si esplicava sempre un po’ più in alto delle cose e sempre un po’ più a lato. Oggi non avviene più nulla di tutto ciò. Con un moto d’intenti e posizionamenti paradossale, proprio quando sono venuti meno i tentacoli eccessivamente totalizzanti di alcune imposizioni di partito che poco o nessuno spazio lasciavano all’arbitrio personale, l’intellettuale non solo non è riuscito ad occupare quello spazio lasciato libero e scoperto dalla ritirata delle parole d’ordine, degli slogan sempre efficaci, dei codici di comportamento di politici e partiti, ma – soccombendo alla più classica reazione “uguale e contraria” – si è ritirato sul pianerottolo, ha cessato di reclamare la propria indipendenza costitutiva, la propria autorità somma, il proprio essere-nonostante-tutto. Su quelle praterie lasciate indifese e incolte hanno poi seminato e raccolto consenso nuovi agenti, nuove figure professionali, nuove manifestazioni della contemporaneità, i falsi miti del neocapitalismo, la pubblicità, la tv, l’industria culturale. Sopraffatto da fattori endogeni – come il dissolvimento di un chiaro orizzonte culturale a cui ancorarsi – ed esogeni – come la marginalizzazione imposta dai nuovi standard di vita, dai nuovi media, il depotenziamento degli istituti di conoscenza, la delegittimazione delle intermediazioni – si è lasciato contaminare impotente dai processi del contemporaneo, di cui non ha assecondato i pregi e le potenzialità inscritte – l’apertura degli orizzonti di studio, le connessioni trasversali con nuovi campi del sapere –, ma unicamente i difetti, l’approssimazione, la superficialità, l’orizzontalità delle relazioni, il multitasking. Intrappolato suo malgrado tra le maglie di un efficiente sistema produttivo, l’intellettuale cede infine «alla pressione che la realtà economica esercita su di lui e all’obbligo di soddisfarne le mutevoli esigenze»3. Poiché con i diritti si dissolvono anche i doveri, anche lo studio è cessato. Per usare le parole di Adorno: «La pressione del conformismo, che grava su ogni produttore, abbassa ulteriormente le sue esigenze verso sé stesso. È il centro stesso dell’autodisciplina intellettuale che appare in procinto di dissolversi»4. L’intellettuale ha dunque rinunciato progressivamente alla propria eredità storica, facendo pian piano a meno di tante opere, tanti autori, tanti concetti, tanti armamenti critici. Non riconosce più le sue prerogative, non sa più difenderle, a stento saprebbe definire la propria fisionomia. Se tutto diventa cultura e la cultura diventa merce, venendo spogliata d’ogni carattere originario interrogativo e inquietante, l’intellettuale rinuncia a farsene interprete, per incapacità personale e perché non c’è più alcun enigma da interpretare, alcun messaggio da veicolare, si limita a frequentare i ristretti circoli ancora sporadicamente aperti, dove si parla soltanto agli amici. L’intellettuale è oggi fluido per vocazione antropologica, privo d’ogni forma di consapevolezza di sé e dei propri indeboliti mezzi, meno preparato, con un bagaglio di conoscenze assai limitato. Non ci sono più referenti privilegiati, la Politica è morta e sepolta, forse non c’è mai stata davvero se non nei libri di filosofia politica, quella di oggi è certamente parodia, i giovani sono obbligati a pensare al profitto e alla sopravvivenza, il popolo è interessato a guardarsi nelle tasche; eppure gli input, le domande e le previsioni irrisolte rimangono urgenti, oltre tutti e oltre ogni specificazione. Un perimetro potenziale di pensiero, prassi e ascolto si ripresenta – seppur limitato – ad ogni nuovo grande quesito che il mondo (spazio + tempo) pone oltrepassando le categorie e i recinti, sottendendo e trascendendo in un sol colpo d’ala gli eterni colossi: Economia, Scienza, Etica, Arte, Religione. I nemici-amici da incolpare sono sepolti, l’ignoranza dei più poco conta. Recuperare la totalità è utopia, inseguirla no 

1 F. Fortini, Dieci inverni 1947-1957, Macerata, Quodlibet, 2018.
2 F. Fortini, Dieci inverni, op. cit.
3 M. Horkheimer, Eclisse della ragione, Torino, Einaudi, 2000, p. 92.
4 T. W. Adorno, Minima moralia, Torino, 1979, p. 21.

Damnatio Memoriae

1

di Samir Galal Mohamed

Ti riscaldi con le parole dei poveri
nei secoli dei secoli. Nel pieno di
un silenzio pieno risorgi e palpiti e
io brillo: tu dall’incarnato borghese,
io dal sudore speziato.

***

Lascerei il mio corpo per un corpo
nuovo, per una voce nuova: sarei così,
di nuovo, più vicino al linguaggio dell’essere
prossimi all’origine – occhi nuovi; pochi anni
dal principio mi separerebbero. Sarei più sapiente
che filosofo. Avrei gli occhi di una scienza perfetta,
le mani piccole e i piedi piccoli piccoli.

Mio figlio sarei io: che muoio da filosofo, ero già
sapiente.

***

A un maestro

a Franco Buffoni

Io l’ho detto,
pronosticato:
il poeta del ventunesimo secolo
sarà figlio di lavavetri. O di chi
paghiamo per pulire. (Se)
avrà frequentato un buon liceo,
sarà figlio nostro – a metà;
si farà maestro,
sì: sarà satollo.
Queste ciocche mulatte
ci divoreranno.

***

Tra un millennio
o tra qualche
questa sfera si somiglierà
non sembrerà altri che se stessa

non avremo nessun altro luogo

significheranno tutti allo stesso modo

i piani
le regioni
gli arcipelaghi

i paesaggi

i grattacieli
le chiese
le macchie:

vi circolerà il medesimo senso

l’interdizione del senso

il dettato sarà taciuto
ogni voce, di ogni spazio e di ogni tempo
tra qualche millennio
resterà inascoltata.

***

Dalla casa di famiglia

Dalla casa di famiglia in cui siamo tutti morti,
la sola in cui io riesca ancora a riposare,
separata com’è dai fatti del mondo.

Percorro il paese nel tempo di questa poesia:
coglierlo in volo sub specie aeternitatis,
trovare ristoro nelle particole non consacrate.

***

Le regole di ingaggio non sono mai chiare

Le regole di ingaggio non sono mai chiare.
Un tradimento, un abuso, un pestaggio…
Un focolaio di essere umani – rilevati dai radar.
L’incendio di una tendopoli – rivela il nome comune
di un luogo. Se le regole di ingaggio non ci sono mai
chiare, queste, al contrario, risultano arcinote.
Un silenzio, un sequestro, uno sgombero…
L’infinito movimento di un corpo-lince che si smarca,
che è complementare a un movimento finito e “segugio”.
Quando stringo fra le braccia questo torace, tanto minuto
quanto vulnerabile, cerco di non guardarlo negli occhi.
Non voglio che veda il mio male, che vi riconosca
delle prove, che ne intuisca alcuna profondità.
Non perché il mio male sia speciale o abbia qualcosa in più
di un altro. Semplicemente, non voglio che ne veda ancora.
Dovrà fare i conti con vecchie e nuove regole di ingaggio.
Con l’abisso della non decisione per eccellenza.
Con la possibilità di divenire umano, di venire meno
all’umanità, di divenire qualcosa in meno dell’umano.
Occorrerà il rischio di divenire altro: altro per cui
sarà valsa la pena lasciarsi guardare, negli occhi,
da tutto quel male.

***

Presa di coscienza sulla natura

I solchi nella terra sono baratri. Dirupi, tra i blocchi. Camere mortuarie sgretolate dal sole. Un aereo piper sorvola le piaghe dei campi inclinati, inermi, intensamente mortificati.

Una barra falciante recide le dita dalla mano di un vecchio: la procedura è chirurgica, promiscua quanto un’esperienza iniziatica. La mano è monca orgogliosamente.

La sera, la terra sembra un mare, tiepido, docile, rassicurante; cumuli e incavi, le onde. A turno, il mare e la terra si contendono la conta dei morti. In questo, la terra è più accorta: i suoi corpi non riaffiorano. I suoi corpi non si avvistano.

 

I testi sono tratti da: Samir Galal Mohamed, Damnatio Memoriae (Interlinea 2020)

Uscire di casa, entrare in città (1 di 2)

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Corso Buenos Aires a Milano durante il blocco.

(Condivido la prima parte di un testo pubblicato ieri su L’Ordineinserto culturale de La Provincia di Como – ma scritto oltre un mese fa. Certe cose, sopratutto in questa prima parte, sono forse troppo legate al contingente. La seconda parte, più specifica, la pubblicherò lunedì prossimo. G.B.)

di Gianni Biondillo

Stare sotto i riflettori del sistema mediatico è una tentazione alla quale pochissimi sanno resistere. Gli accigliati professori, ricercatori, scienziati, da sempre chiusi nei loro laboratori, esclusi dall’immaginario collettivo, se non come scienziati pazzi, nerd asociali, afasici e ininfluenti, si sono ritrovati d’improvviso al centro della scena durante la crisi pandemica scatenata dal Covid19. Così, non c’è stata trasmissione radio o televisiva, diretta su internet, articolo di fondo, intervista di quotidiano o settimanale che non ce li mostrasse. Santoni a cui chiedere vaticini, guru, maestri di vita e persino di stile e comportamento. La televisione è capace di banalizzare ogni cosa, di infettarla, di depotenziarla di ogni complessità. Io per primo, immerso in questo mondo di comunicazione malata, non mi sono perso una singola parola, una sola sillaba. Spesso, per eccesso di offerta, confondendo nomi, scienziati, posizioni, teorie.

Poi l’altro giorno, leggendo l’ennesima intervista all’ennesimo epidemiologo, ho avuto come una illuminazione che mi ha fatto tornare in mente un ricordo sepolto. Erano ancora gli anni delle superiori, un mio professore, un ingegnere, ci raccontò durante una lezione, di un suo viaggio fatto con un gruppo di suoi colleghi alla diga del Vajont. Il racconto dell’ingegnere era vivido e pieno d’entusiasmo. La diga aveva retto. Non ostante la frana era ancora lì, bellissima espressione della tecnologia del cemento armato. Avevo non più di diciassette anni, ora che ci penso. Eppure una cosa, mentre ascoltavo le memorie dell’ingegnere, l’avevo capita d’istinto: per me quella diga era un monumento tragico, l’emblema del fallimento, la lastra tombale sul mito delle magnifiche sorti e progressive, la materiale constatazione di una politica inetta, indifferente al contesto, l’insulto a una popolazione inerte e sacrificata insensatamente, l’ignobile pressapochismo degli interessi di parte. Eppure non una parola sulla tragedia, da parte del mio professore. Solo i suoi occhi scintillanti d’entusiasmo di fronte alla qualità ingegneristica del prodotto finito. Fu questa la lezione più profonda, e la più involontaria da parte sua, che ricevetti quel giorno. Lo sguardo competente, lo sguardo tecnico (di qualunque disciplina si parli, umanistiche comprese), chiude la visione ad un recinto circoscritto per meglio valutarlo. Ma questa forma di ottimizzazione esclude la complessità. Se non facciamo un salto di specie – dalla competenza alla conoscenza – troveremo forse soluzioni immediate alle condizioni di partenza, ad esempio quelle emergenziali, ma perdendo grandemente in complessità a lungo andare la toppa potrebbe diventare peggiore del buco.

La soluzione alla pandemia proposta dall’epidemiologo in quella intervista era a modo suo di semplice applicazione e di immediato e sicuro effetto. Non solo dovevamo restare tutti a casa (dal lavoro), e tutti in casa (c’è una bella differenza. Non andare in luoghi promiscui – quali fabbriche o uffici – non significa necessariamente chiudersi in casa), ma, nelle nostre case, ognuno di noi – genitori, figli, coniugi, nipoti – ogni singolo individuo residente in quell’appartamento, avrebbe dovuto isolarsi da tutti gli altri. Tutti, dato che nessuno aveva la certezza di essere infetti o meno, asintomatici o sani. Il virus sarebbe scomparso inevitabilmente, per impossibilità al contagio. Così, d’acchito, sembrava persino ovvio, evidente. Un po’ come da ragazzi, quando a scuola ci facevano risolvere equazioni lunghissime e complesse che a furia di semplificazioni, somme e sottrazioni ottenevano un risultato evidente, pacificante. Ma se quelle equazioni avevano una ragion d’essere prettamente pedagogica, ci hanno di contro fatto illudere che a problemi all’apparenza complessi ci fossero sempre e comunque soluzioni semplici. Ma la vita dovrebbe averci insegnato che le soluzioni semplici a problemi complessi sono sempre sbagliate. Non sto qui a dire che essere in cinque in casa non significa avere una casa con cinque ambienti separati, oltre a quelli di servizio. E anche se, forzando per assurdo, d’improvviso avessimo a disposizione interi edifici fatti a cellette dove riporci tutti separati l’uno dall’altro, avremmo forse così risolto il problema momentaneo, ma quali conseguenze catastrofiche alla psicologia collettiva avremmo innescato?

La società e la socialità sono temi complessi, occorrono perciò soluzioni complesse, non semplificate. Gli scienziati si ascoltano, così come gli ingegneri o gli astrofisici, non possiamo fare a meno delle loro competenze, ma poi se stiamo parlando di società, occorre una buona politica che sappia fare sintesi di ogni voce.

A ben vedere l’illusione di una soluzione tecnologica ad ogni emergenza, chiamando all’appello le migliori menti della scienza per eliminare ogni ostacolo che ci faccia inciampare lungo la strada a cui siamo destinati, è dal punto di vista intimamente filosofico il peccato originale della nostra specie (quella umana) e dell’economia (liberista) che ci contraddistingue negli ultimi secoli. Siamo convinti come specie di poter gestire tutte le avversità che la Natura ci oppone, quasi ci fosse nemica. Ma, Leopardi lo sapeva, la Natura ci è semplicemente indifferente. Ogni specie cerca la sua strada adattandosi al contesto. Come esseri umani abbiamo colonizzato il globo, spesso impoverendo fino allo stremo la biodiversità. Ma allo stesso tempo, in quanto esseri infestanti, diventiamo vettori perfetti per altre realtà biologiche. Che sia un batterio o un virus, nuovo, mutato o antichissimo, se trova il modo di diffondersi lo farà. Lo ha sempre fatto anzi, siamo noi che abbiamo la memoria cortissima. È accaduto e accadrà ancora.

È un tema, mi pare evidente, di chiara matrice ambientale ed ecologica. Ma quelli che oggi si inginocchiano di fronte agli scienziati per chiedere al più presto una soluzione alla pandemia sono gli stessi che non hanno mai tenuto conto del loro grido d’allarme che dura da decenni. “Ora che è passato l’allarme” me li immagino dire nel prossimo futuro “potete tornare nei vostri laboratori e nelle vostre università, lasciateci lavorare e non rompete le scatole con problemi che non si vedono. Che stanno in Amazzonia o al Polo Nord.” E, sono pronto a scommetterci, quel circo mediatico che oggi starnazza dicendo che nulla sarà come prima – dopo aver superato la Fase 2 o la Fase 3 che dir si voglia – dimenticherà molto in fretta di invitare in prima serata quei barbosi scienziati che potrebbero apparire agli spettatori come uccelli del malaugurio. Meglio una bella rubrica di astrologia.

È sempre una questione di parole. (Ricordate Nanni Moretti? “Chi parla male pensa male e vive male”). Spesso usate a sproposito, con incompetenza o, peggio, con malizia. Alcune di queste infestano il discorso pubblico da anni, altre volte le vediamo apparire d’improvviso, come una epifania. All’inizio della diffusione del virus si discuteva largamente di quarantena, poi, da quando il coronavirus è sbarcato negli USA, dall’oggi al domani non c’è stato esperto o giornalista che non abbia parlato o scritto di lockdown. Che bisogno c’era di prendere a prestito quella parola? Non bastavano blocco oppure isolamento? È solo un fatto di sudditanza culturale, oppure abbiamo creduto che usando un termine inglese il discorso si sarebbe fatto più tecnico, asettico, specialistico?

Ma la locuzione che continuo a non sopportare è distanziamento sociale, calco pedissequo di social distancing. Mentre mi sono chiare le ragioni preventive delle azioni da intraprendere, trovo pericoloso l’utilizzo della formula così com’è. Ciò di cui abbiamo bisogno, per rallentare la diffusione di una malattia contagiosa, è un distanziamento fisico, non di certo un distanziamento sociale. Detto, tra l’altro, nell’epoca dei social sembra persino contraddittorio. A meno che, l’involontario sottotesto non voglia dire che, sì, è proprio un problema sociale. Di classi e condizioni sociali differenti. Che, non ostante la retorica imperante ci abbia voluto far credere che il virus colpisse tutti allo stesso modo, una sorta di livella democratica (alla maniera di Totò), in realtà, a ben vedere, appartenere a una determinata condizione sociale cambia le carte in tavola della partita.

Avere una casa grande, con una terrazza, o un giardino, viverci comodamente con la famiglia è ben diverso che restare intruppati in cinque, sei o più persone, in un bilocale con unico sfogo esterno delle semplici finestre. Avere la possibilità di continuare a lavorare in remoto, o fare didattica a distanza, non è per tutti. Una cosa è avere i dispositivi per tutti i componenti familiari, altro è avere a malapena un computer da condividere, se non semplicemente uno smartphone. (Unico strumento che ci ha permesso il contatto costante col mondo esterno. Ciò dovrebbe farci capire perché chi emigra dal cuore dell’Africa ne ha sempre uno con sé. Non certo per questioni di vanità, ma come bene essenziale). Lo stesso lavoro agile lo è solo per chi può. Ché restare a casa è stato possibile perché molti a casa non ci sono restati: operatori sanitari, coltivatori, trasportatori, forze dell’ordine, commessi di supermarket, addetti alla consegna a domicilio, eccetera. Persone esposte al morbo affinché noi non lo fossimo. Infine i fantasmi. In una mia sporadica uscita durante la quarantena ho letto, scritto su un muro: “Stare a casa = Privilegio di classe”. Perché c’è anche questo. C’è chi non solo a casa non poteva restarci per questioni lavorative, ma anche chi la casa non ce l’aveva proprio. E ne ho visti, di fantasmi: barboni, ubriaconi, clandestini, relitti. Le nostre città vuote non sono mai state vuote per davvero.

E poi, sempre discutendo di parole, ci sono le metafore improvvide. Entusiasmanti, a sentirle, coinvolgenti, ma pericolosissime. Penso, quando è iniziata la tragica conta dei morti, alla similitudine bellica. Siamo in guerra. Questa è una guerra. Gli infermieri, i medici, sono in prima linea. Sconfiggeremo il nostro nemico. E canti patriottici dai nostri balconi e sventolio di tricolori. Non ho nulla contro il tricolore, amo l’Italia, ho profondo rispetto e ammirazione per il lavoro degli addetti sanitari. Ma una pandemia non è una guerra. È una pandemia. È un’infezione, una malattia epidemica. Nessun nemico ci ha dichiarato guerra, a meno che non vogliamo credere che la Natura sia la nostra nemica (quanta arroganza, da parte nostra). La retorica bellica può darci forza in un primo momento, creando un sentimento di unione sociale (proprio mentre si sostiene il distanziamento sociale) ma a lungo andare diventa, citando Samuel Johnson (ma io lo conoscevo grazie a Stanley Kubrick), proprio come il patriottismo: “l’ultimo rifugio delle canaglie”.

Vivo nel capoluogo di una delle regioni al mondo più colpite dal Covid19. Il numero delle vittime mietuto è impressionante, da non farci dormire di notte. Non ostante continuassimo a dirci che “andrà tutto bene” – speranza doverosa, necessaria – era sempre più evidente che le cose non stavano affatto andando bene. Che c’era qualcosa di sbagliato nella gestione dell’emergenza. Qualcosa che stava a monte, nelle scelte politiche regionali che nel corso dei decenni avevano sempre più smantellato una sanità capillare, diffusa sul territorio, fatta di piccoli ospedali, di consultori, di medicina di vicinato, per puntare tutto sull’eccellenza di megastrutture ospedaliere, sopratutto private. Quando, per capirci, siamo passati a definire chi veniva ricoverato da paziente a utente. (le parole sono importanti, non dimentichiamolo mai). Di fronte a tale disfatta – non solo qui in Lombardia, sia chiaro – è bastato vellicare l’amor patrio, dichiarare guerra al coronavirus, unirsi a coorte contro il nemico invisibile, piangere i morti caduti in battaglia. I nostri eroi. No. I medici, gli infermieri che sono morti per contrastare l’epidemia non sono eroi morti in battaglia. Sono morti sul lavoro. Cioè morti per colpa di una sanità che non ha saputo garantire l’incolumità di chi stava lavorando, proprio come i muratori che cadono dalle impalcature o gli operai che contraggono il cancro per le pessime condizioni di sicurezza delle fabbriche. Il che rende tutto più tragico e più vero.

Parlare continuamente di guerra poi, significa immaginare già il dopoguerra. L’ho sentito più e più volte: l’Italia del dopoguerra, un nuovo dopoguerra, un nuovo Piano Marshall, la ricostruzione, il boom economico… Insisto, una guerra è una guerra. Ad un certo punto finisce. Si fanno trattati di pace, si smette di combattere col nemico. Si sgomberano le macerie, si ricostruisce. Ma una pandemia, lo ripeterò fino allo sfinimento, non è una guerra. Non siamo scesi a patti con alcun nemico (che è qui, con noi, e ci resterà), nessuna bomba ha abbattuto alcunché, non c’è nulla da sgomberare, non c’è nulla da ricostruire. Nel cuore della quarantena si sentiva di continuo che questa esperienza ci avrebbe cambiato, che nulla sarebbe stato più come prima. I più avveduti, i soliti menagramo, insistevano a dire che la normalità era un errore, che non si poteva tornare indietro. Ma le resistenze al cambiamento sono fortissime. L’importante, gattopardescamente, è far credere che tutto cambi affinché nulla cambi per davvero. Il rischio, insomma, è che le soluzioni per contenere la convivenza col virus siano proprio quelle che ci hanno portato a queste condizioni di crisi ambientale: un ritorno in massa alla mobilità privata e una “ricostruzione” che è in realtà una nuova colata di cemento, nel nome del distanziamento sociale, che si spalmerà in uno sprawl infinito che chiameremo città-giardino o “borgo sicuro”, per nobilitarlo (e venderlo meglio).

Su “Arruina” di Francesco Iannone

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di Alfonso Guida

Ho letto “Arruina” (il Saggiatore, 2019) in un bar del mio paese, quasi sempre all’alba. Leggerlo è stato come passare al mattino presto dinanzi a un dipinto di Bacon, a una vetrina di macelleria, l’acciaio cupo delle onde nell’isola dei matti di Goya. Ora io non sono un critico. Non ho una formazione accademica. “Non è mai con intenzioni critiche che mi avvicino ad un’opera d’arte”, scrisse Rilke. Lo hanno già detto altri: la lingua di Francesco Iannone o il suo linguaggio, la statua nella sua essenza o l’ornamento che fa la bellezza, per Walter Benjamin, se considerato un involucro necessario alla custodia dell’essenza. L’artificio, lo choc che Benjamin vide in Baudelaire, le interruzioni sulla linea del cerchio e della ripetizione: a questo serve l’ornamento. Se non ci fosse ornamento, non ci sarebbe nulla da togliere. E noi quando parliamo di Francesco Iannone parliamo di un cammino più letterario che umano o forse umanamente lacerato, ma così in profondità da non trasparire.

Iannone ha un’espressione che poggia sull’eccesso, è un espressionista. Prende materiale dalla storia e lo traduce in materiale inventato, in paese dell’immaginazione.
I nomi geografici di “Arruina” hanno una matrice antropologico-fiabesca, ed è indubbio. Ma Roccagloriosa o Acquavena sono città arroccate, raggiungibili ma lontanissime, tanto da far pensare ad un santuario dei miracoli. Non a caso in questa allucinazione dantesca chi deve passare per la grande porta di Roccagloriosa dovrà essere in possesso di un miracolo. Si chiede un’ostensione. Ci sono paganesimi che interagiscono con una liturgia paleocristiana ben definita. Iannone sa che le Nerissime sono necessarie quanto la Sperduta che vogliono distruggere. Interdipendenza tra soggetto e oggetto, tra due soggetti, bene e male, buio e luce, la dissociazione mentale dell’Occidente, la scissione interiore. Se la psicoanalisi ha ravvisato nelle fiabe una simbologia arcana e remota, Iannone invece vi scorge una drammaturgia, una rappresentazione del sé nella sua interezza. In questo libro non si fa torto a nessuno. Il male viene fatto camminare per queste nostre strade e lo si cerca di interpretare come fosse il sole, lo spirito, l’uccello rapace, la vetta di ogni mitologia, Anubi, dio cinocefalo, quanto la regina vergine Cibele. E perché non la mater dolorosa? Si respira il lutto delle lamentatrici funebri, l’escrementizio del denaro e una stupenda “trauerspiel”, una rappresentazione del lutto. Il latte, il sangue, lo sperma, l’acqua. Il coacervo degli elementi diviene un globo differenziato internamente. Ogni personaggio è portatore di un’archetipia. Materia e teleologia. Niente si aziona gratuitamente. Gli anelli si ingranano vicendevolmente creando questa catena che va districandosi e scorrendo sul pendio della narrazione come un destino, un’inesorabilità, una botte che si sgretolerà sul fondo del mare “Arruina” venendo dai fianchi di una rupe, è la catastrofe. Dopo c’è l’interregno.

Perché penso alle sante prostitute che si rifugiavano penitenti nel deserto? E se Roccagloriosa fosse l’antro di Maria Egiziaca? E se Acquavena fosse la caverma non di Platone, ma una risorgiva baccante del Cilento? Cibele e Attis il cui tempio fu soppiantato dal primo insediamento cristiano qui a Montevergine? È un cerchio religioso. C’è religiosità non teologia, forse la multiforme teologia dell’io, l’individuo derealizzato, incarcerato in una mitologia personale. “Arruina” è concentricità fiabesca, metaromanzo, parola che cerca, costante, il fuoco assoluto per purificarsi e tornare a sporcarsi tra i lebbrosi, tra coloro che venivano scacciati fuori dalle mura di cinta della città, i lebbrosari.

Non c’è un tono orante, non ci sono mani giunte. L’enigma ha un preludio, un intermezzo. E quindi “Arruina” è un’opera musicale. Filastrocche rimate, il dialetto, la lingua più vicina alla verità, anche sub specie poetica. Salmodie, giaculatorie. In questo libro, è un cammino verso la guarigione. La Sperduta è lo sblocco dei trombi di sangue. Ritrovarla è ricucire le due parti che insieme costituiranno il sacro: il bene e il male. Il sacro non è Dio, non è solo il Bene Sommo. Il sacro, in origine, è bene e male uniti, è questo banchetto sponsale dove si celebra solennemente, col sangue, un sacrificio e “sacrificio” etimologicamente vuol dire proprio “fare il sacro”. Iannone scrive che la verità è “oltre la lesione”. Occorre inginocchiarsi davanti alla fessura da cui sgorgherà materia vivente e vitale, una crepa piena di zolle fertili, una crosta e sotto lo spreco di sangue. Francesco ha un terrore dentro. Questa è una “favola oscura” perché è la favolosa, momentanea via di redenzione di un terrorizzato. Cosa spaventa Iannone mentre scrive? Iannone è spaventato dalle sue guerre intestine. La sua interiorità è un campo rupestre dove avvengono battaglie fratricide, tra due sé. È ancora un romanzo sul male, il male atavico, ancestrale del nostro Occidente, guerriero e mendicanti di aghi che ricuciono la spaccatura, il dualismo, così atrofizzato. Iannone mette in bocca ad uno dei suoi personaggi stralunati la frase: “ogni parola per me è una sofferenza, una fatica”.

Ecco descritto con l’io, e seccamente, l’atto di creazione, come lo chiama Deleuze, il parto con le sue atroci doglie. Non finiamo nella concezione sfibrata e sfibrante dell’artista come “sibilla” o “posseduto”. È vero, Iannone ha ricevuto l’angelo dell’Annunciazione che gli ha messo nel corpo il verbo, ma Francesco è anche Logos. È il pensiero di una ricerca che deve trovare una via d’uscita a fargli escogitare l’attraversamento della parola, col peso del suo significato, direbbe Celan, e con le suggestioni arcaiche, materiche del suo significante. Qui vengono in mente le brevi filastrocche vernacolari lucane che l’ingegnere L. Sinisgalli raccolse sotto il titolo “L’albero delle rose”.

Usi figurati della lingua a iosa in “Arruina”: sinestesie, metafore, metonimie, allitterazioni, ossimori soprattutto. Alternanze di accecamenti da sole e black-out, accecamenti nati dal buio denso di una notte sempre più oscura dove se si profila una mistica, è sicuramente quella dell’ascesa del monte Carmelo di San Giovanni della Croce. “Arruina” è un libro che affronta una realtà grezza, grossolana perché barbara, piena di superstizioni religiose, di magiare demartiniane, ma ha un sottobosco di elementi stilistici elegantissimi, le circonvoluzioni linguistiche si corrispondono armoniosamente, echi si incontrano a distanza di pagine. Il racconto ha una sua struttura circolare, ma il tempo in cui parlano tutti i personaggi è lineare, progressivo, giudaico-cristiano: l’arrivo è la Sperduta, l’arrivo è la redenzione.

Iannone è scisso anche nella percezione del tempo e tuttavia la sua lotta mira ad una ricostruzione del filo che tenga insieme linea retta e linea curva, un solo angiporto e un labirinto.

Francesco a pag. 104 scrive: “sono le acque interiori della madre e del padre”. Ecco, questo forsennato culto della preistoria, della genitorialità, ma anche della vita fetale nell’amnio, vera acqua interiore perché primo interlocutore sociale del feto, primo avvertimento percettivo di una presenza altra. E di feti e bambini storpi o bisognosi il romanzo pullula. L’acqua è l’elemento primo. La nascita della Sperduta inaridirà la sorgente e le Nerissime/donne Tracie, pronte a sbranare Orfeo, saranno messe in pericolo.

La nascita di una bambina farà vacillare a presenza del male nel mondo. Ecco la dualità antica del nostro Occidente pagano e cristiano, l’incapacità di essere un’unità come voleva Jung, nella collimazione dei contrari o nella ieratica e serafica compresenza delle contrarietà interne. “Tutte la vita interiore rimanda l’immagine dell’acqua”, scrisse Paul Claudel, mentre Platone vide una linea d’acqua separare la veglia dal sonno, la coscienza della luce dalle fantasime dell’addormentamento di sé. Fra il buio e la luce platonicamente insorge una polluzione, una vera effusio seminis.

“Arruina” è un romanzo scritto in stato di immersio, come direbbe Celan, come certe poesie, e anche di sommersio. Alla fine, a Roccagloriosa, si assiste ad una emersio. Iannone e i suoi personaggi respirano polveri cosmiche sul finale, si ritrovano, scrive, in “una galassia calcarea”. E i bambini diventano improvvisamente creature celesti, i bambini, scrive, “partoriti in seno alle acque pure delle sorgive”. E allora la favola oscura lascia intravedere, man mano che si rischiarano le fondamenta, le colonne di una conversione evangelica, creaturale, quando in Matteo Gesù dice: “come bambini dovete diventare perché sia vostro il Regno dei cieli”. E qui il celeste si fa presente, è un’apparizione reale, una riva, un approdo dopo scorribande tra sonorità cavernose e onomatopee di origine misterica, un seguito di oracolari cantilene nelle quali è ben nascosto il segreto, la formula arcana della liberazione e della sopravvivenza.
Questo libro è stato scritto a tutela dello stesso autore, cioè l’autore lo ha scritto per tutelarsi. “Salus” ha due significati in latino, salute e salvezza. Credo che “Arruina” sia stato scritto in vista del raggiungimento della “salus”.

Se l’io è una proliferazione immaginaria

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di Roberta Salardi

Se l’io è una proliferazione immaginaria, come sostiene per esempio Lacan, non si capisce fino a che punto siano giustificati tutti quei romanzi così solidamente strutturati, dalle trame così compatte, che si presentano come granitici monoliti. «Con questo libro,» vorrebbe dire un editore o un libraio all’acquirente, porgendo il maneggevole blocco di cemento armato, «puoi star sicuro che ti vendo un buon prodotto, tenuto insieme dal rigore sintattico e da una logica ferrea. Sei sicuro che non ti si sfascerà fra le mani privo di senso.» Il modello del cemento armato è probabilmente il modello con cui sono costruiti questi parallelepipedi romanzeschi che promettono la tenuta realistica di matrice ottocentesca, senza infiltrazioni o bolle d’aria, cioè senza nulla che minacci la coesione interna, neanche un piccolo dubbio. Blocchi pieni di parole tenute insieme con griglie d’acciaio, forse per far fronte all’elevata competizione: si sa, un vaso di coccio non viaggia bene in mezzo a vasi di ferro. Ecco, queste narrazioni in cui ogni personaggio ha un suo carattere definito, un suo destino inscritto nel carattere, o in cui entrano in relazione soltanto delle maschere sociali più o meno stereotipate, ci dicono qualcosa di appena un po’ diverso da un saggio sociologico. Un saggio di sociologia o di economia ha il vantaggio che può entrare maggiormente nei dettagli, può fornire risposte più precise e argomentate sul contesto sociale in cui viviamo. Ma perché anche nella prosa d’immaginazione vengono riproposti schemi rigidi, assertivi, convenzionali simili a fortini inattaccabili? Come a dire: «Non ti vendo un libro, ti vendo un piccolo fortino in cui trincerarti contro tutte le tue paure».

A parte il discorso meramente commerciale, suppongo che conti anche il punto di arresto cui erano arrivati gli esperimenti stilistici del Novecento. Afasia, incomunicabilità, rimozione, inconscio, alienazione, poliedricità… scogli pressoché insormontabili di fronte a cui si è trovato colui o colei che volesse diventare narratore o narratrice dalla seconda metà del secolo scorso in poi. Il nouveau roman  o “romanzo dello sguardo” negli anni cinquanta e sessanta aveva aggirato il problema, cercando di evitare come la peste l’interiorità e decidendo di osservare tutto dall’esterno (lasciando al massimo intuire un’interiorità appena accennata, dal momento che l’oggetto che viene descritto è comunque scelto fra tanti altri e quella scelta rimanda pur a una volontà, a uno stato d’animo o a un affetto). Per chi si accontenta…

Un romanzo è costituito sostanzialmente dalle relazioni fra i personaggi, quindi il personaggio-uomo è in gioco, c’è poco da fare. Difficile metterlo fuori campo. Ma come rappresentare la sua mente (volubile, mutevole, addirittura parzialmente inconscia)?
Questa è la sfida letteraria che lo straordinario secolo che abbiamo alle spalle ci ha lasciato.

«Ma la storia non si fa con i se,» potrebbe rispondere un ipotetico scrittore marxista che desideri esporre una narrazione del mondo essenzialmente in chiave di conflitto di classe, mettendo in luce soprattutto i rapporti di forza in cui sono immersi i gruppi sociali; un marxista scrittore, che si ostini a mettere in pratica i suoi ideali fabbricando romanzi, ben conscio tuttavia che la stragrande quantità della popolazione cui intende rivolgersi non legge o, se legge, preferisce fumetti, gialli, libretti Harmony o best-seller simili ad Harmony formato gigante, con più pepe, i Big Mac degli scaffali. Questo scrittore che suppongo marxista potrebbe obiettare: «Lasciamo perdere mamma e papà, squilibri nevrotici (che riguardano la solita maggioranza della popolazione su cui è meglio gettare un velo pietoso), deragliamenti psicotici (in genere confinati nei reparti ospedalieri), roba per medici, roba per poveretti che non ce l’hanno fatta a diventare combattenti per una società migliore, che non sono all’altezza delle sfide della storia. Chi ce l’ha fatta ha il compito d’illuminare la strada. Nella storia che cosa resta delle molteplici ansie e vicissitudini umane? Una serie di fatti concatenati fra loro da cause che sono state appurate. Questi fatti vengono esposti dagli storici in modo che trapeli tutto il lavorio di attività, progetti, aspirazioni dei vari gruppi sociali. Analogamente, nelle trame romanzesche la cosa più importante è narrare alcuni fatti e lasciar emergere, dietro a questi, i rapporti che intercorrono tra figure sociali in equilibrio, competizione o contrasto fra loro.» Si può rintracciare sicuramente qualche trama in cui questi rapporti intercorrono per esempio tra un capitalista dal volto umano, coraggioso proprietario di una piccola azienda, il rampante spregiudicato e fedifrago, e il precario intelligente ma condannato a non emergere per destino di classe squattrinata e per mitezza di carattere; le donne, come al solito, in ruoli ancillari di contorno, deputate esclusivamente alla continuazione biologica della specie, cioè a fare figli.

L’autore ipotetico marxista può levarsi quindi con agilità e obiettare al mio attacco polemico (e invidioso) contro molti romanzi odierni, paragonati a blocchi di cemento armato fitti di parole e personaggi unidimensionali, che gli stessi romanzi possono essere piuttosto paragonati a esplosivi al plastico, necessariamente ben congegnati e collaudati per smuovere le coscienze dei lettori e mandare in mille pezzi i Big Mac dell’editoria!

Di fronte all’obiezione politica non mi resta che concludere: tra il discorso di Freud e quello di Marx, in Italia ha circolato di più e abbattuto le convenzioni in special modo quello di Marx…

 

 

 

E scrivere valanghe

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di Bianca Battilocchi

 

County Sligo, Ireland

 

 

Nota introduttiva

 

«Ci sono delle cose di fronte a questa pagina aperta / che sono

collegate / alle cose che mancano / le cose come le cose […] »

Corrado costa

 

La scrittura per/di valanghe trova il suo avvio d’improvviso, quando l’irruzione di un’incontrollabile orda di immagini e pensieri riesce (finalmente) a smuovere il terreno psichico ‘squilibrandolo’ e travolgendolo in una fuoriuscita crescente di libere associazioni che si inanellano felici, provocate, in questo caso, dalla calamita-calamità del quod libet (ciò che piace).

 

Croissants

 

 

croissants, pains aux chocolats, pains aux raisins

ma soprattutto croissants (dal latino crescentem)

ascoltare Schubert mentre faccio gli esercizi sul materassino

ballare con le gambe per aria (andante con moto)

pensare a Joséphine Baker alle lezioni di flamenco di Anaïs Nin

Ernest che prende un altro libro in prestito a Sylvia Beach

essere poveri ma felici vivere una festa mobile

le estati nella casa in campagna

i travestimenti dall’armadio della nonna

giocare con la parrucca dell’Antonietta

le more le ortiche i balloni di fieto

Francesca Woodman per le strade afose di Roma

le geologie della Woodman e di Ana Mendieta

le querce cercare tesori nei negozi di antiquariato

le conversazioni e le avventure all’hotel alchemico

quelle dei realvisceralisti Cesárea Tinajero

i cafe con leche nel DF – ah!

usare la punteggiatura come mi pare

non usarla proprio talvolta e scrivere valanghe

trovare una scusa per usare parole come giacché o costui

la Nouvelle Vague le onde je vais et je viens – je t’aime

aprire finalmente le finestre quando inizia la primavera

spiare i vicini dalla finestra (anche d’inverno) e non vergognarmene

La bella estate di Pavese l’estate (ma più la primavera) Pavese himself

libiamo libiamo ne’ lieti calici che la bellezza infiora

 

continuo?

 

la serenata in E maggiore di Dvorák

leggerci la fronte anziché i palmi io ed Oliver

i suoi abbracci e i baci la sua pizza pronunciata pixa

fare un dottorato sui tarocchi di Emilio Villa a Dublino

spedire cartoline le statuette della fertilità Marjia Gimbutas

ricordarmi dei sogni e come se non bastasse fantasticarci sopra

Jung sull’alchimia Rrose e Coco Sélavy

croissants a volontà

Il raggio verde di Rohmer Il pianeta verde della Serreau

verde que te quiero verde (adoro il viola ma fa tanto quaresima)

le discussioni del club di Horacio Oliveira

pensare di scomporre e rileggere la mia vita come in Rayuela

considerare di scrivere un romanzo ma non farlo

invitare a un aperitivo Billie Holiday

i picnic col tramonto alla Côte des Basques

la vita in campeggio dormire in tenda dormire come un sasso

addormentarsi quando fuori piove

i fiori e Flora Tristan l’arcadia di Ermanno Olmi i trovatori

l’arpa d’or dei fatidici vati

gli amici i loro talenti le loro ossessioni

la poesia la preistoria la polisemia

l’Odissea la Medea Bob Dylan la glossolalia

i campi di lavanda e di papaveri le casette sugli alberi

il museo di Isabella Stewart Gardner

i labirinti Phoenix park e i suoi cervi

quodlibet

(tbc)

 

 

Diari di maggio. Prescrizioni sanitarie e mutazioni del corpo (1/2)

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Testimonianze informali riscritte e disegnate da Elena Tognoli

 

1 maggio
Antonia (Il nuovo rumore delle gambe)
“Stamattina sono uscita a fare due passi, le mie gambe non sono più le mie gambe, sono gambe di legno, di burattino, gambe di comodino; ad ogni passo picchiettano sull’asfalto, bacchette senza tamburo.”

Parlando di poetiche – cioè, al momento, di quasi nulla

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di Daniele Ventre

L’oscillazione pendolare fra sperimentalismo di rottura e ritorno all’intimismo e alle forme ricompattate, fra impegno e gioco, era già in atto nei novissimi e nel gruppo ’63. Oggi, fra scritture non assertive (o se si vuole di ricerca) e nuovi vecchi lirici (o se si vuole, tradizione), e poeti giocosi (o se si vuole, il caos), assistiamo a un permanere scisso dei novissimi e del gruppo ’63, con qualche inserzione di neo-dada (asemantici & affini), meno il potere accademico (salvo qualche caso) e meno i quadri del partito di massa (storicamente defunto). Dal punto di vista della ricezione, i meglio messi sul piano della canonicità potenziale sono quelli vicini a centri editoriali e mediali. Qualcuno dei neo-novissimi, dei primipili non assertivi e dei neo-neo-lirici, ovviamente, spicca per coerenza e competenza. Ma in ultima analisi, tutta la gamma dello xilofono poetico (l’immagine trita della tastiera stilistica suona troppo hi-tech), va dall’incomprensibilità del conestabile di Much Ado for Nothing (mai titolo citato fu più congruo) “uomo troppo profondo per lasciarsi capire”, ai baci Perugina (influencer inclusa/o). Una frangia parzialmente nuova si riconosce nella frattura epistemica di un Emilio Villa o per altri versi (è il caso di dirlo) nel gruppo ’93 (rimasto spesso inascoltato, e nato nel contrasto violento), nella poesia a vario titolo militante e nella poesia della scienza (volutamente riecheggio la locuzione “filosofia della scienza”); ma siccome tutta questa frangia, vuoi per i contenuti, vuoi per le forme, vuoi per la performance, ha connotati di novità (chi è periferico, è più libero), appunto per questo in sede pseudo-canonica rimane sostanzialmente inascoltata, al di là degli omaggi esteriori, e di convenienza momentanea. Poi ci sono i selvaggi, ma è un fenomeno più antico di quanto si creda (basta guardare i graffiti di Pompei, o leggere la satira I, 9 di Orazio, o la prima satira di Persio o la satira I,1 di Giovenale, sempre che non ne vogliamo vedere l’antesignano nei frammenti del Margite pseudo-omerico). Certo, c’è anche l’Outsider, il monstrum, che ogni tanto compare dal buio, ad abbrancare qualche compagno del re o qualche fittavolo; talora lo affronta un presunto eroe critico, ma ne esce divorato a sua volta, ed è subito riedizione spicciola del dramma di Beowulf e il drago, che muoiono entrambi, uno di figuraccia da sottovalutazione, l’altro di understatement o di conventio ad excludendum, anche perché i monstra, si sa, hanno un brutto carattere. Il tutto, in senso lato, è un coacervo neo-baconiano di idola specus, idola tribus, idola fori e idola theatri. Io aggiungerei anche, di idola speculi, fra narcisismo e cristalli spezzati -e nel caso di un noto esponente para-leghista e di un noto critico obituario intento a stilare referti di morte e a dire che la poesia annoia (tanto per fare due esempi vieti), di notte dei cristalli, per vitrea fracta et somniorum interpretamenta. Ma sono già stato abbastanza cattivo, o forse non abbastanza. Diciamo in modo più chiaro che: primo, un minimo di aria fresca in prospettiva storica tutto-abbracciante, fuori dalle officine della specializzazione di nicchia letteraria, farebbe focalizzare meglio ciò che tutti già sanno, che il nuovo è inesistente, anche sul piano della forma, nonostante lo ψελλíζειν e le esternazioni di un poeta admodum vinosus in trasferta partenopea dal basso lazio costiero qualche tempo fa; secondo, per conseguenza, il bagno di umiltà e di coscienza renderebbe tutti (in specie gli isterici, gli arrabbiati, le ineducande e gli ineducandi) un po’ meno supponenti, un po’ meno odiosi, un po’ meno fatui. Per il resto, la distinzione è fra pseudo-canone della visibilità (accademica, mediale, internautica: pauci interest) e para-canone, sia visibile sia sommerso. Nessuno se n’abbia a male, ma è oggettivamente così.

Milano sotto controllo. Riflessioni sparse su «Il cavallo venduto» di Giorgio Scerbanenco

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di Daniele Comberiati

Ho vissuto anch’io, come quasi tutt*, momenti di preoccupazione nelle ultime settimane. Dati confusi, cifre non immediatamente comprensibili, esperti o presunti tali che si contraddicevano costantemente. E una paura (anche) irrazionale, per me stesso e per amici, amiche e familiari.

Poi, in un tempo che può essere sembrato breve o lungo rispetto alle condizioni di confinamento – ma in generale abbastanza lungo, anche per i più privilegiati – siamo passati, nella maggior parte dei paesi europei, alla “fase due”. E tutti i governi hanno iniziato a riflettere sui sistemi di tracciabilità dei propri cittadini. Che venga chiamata “Immuni” o in un altro modo, l’applicazione che dovrebbe “proteggerci” genera in molt* di noi una paura di altro tipo. Saremo sempre più controllati/e? La presunta sicurezza corroderà ulteriormente le nostre libertà? Ogni nostro spostamento sarà tracciato, registrato e in seguito, cosa che davvero mi angoscia, giudicato?

Mi rendo conto che potrei star esagerando. L’applicazione potrebbe essere non obbligatoria e al tempo stesso utile, se non necessaria. Oppure, più semplicemente, i dati potrebbero rimanere anonimi. Ma ne abbiamo davvero la certezza? D’altronde il binomio “bisogno di sicurezza/erosione delle libertà” è già attivo da tempo, non è stata certo la pandemia a provocarlo. Le leggi anti-terrorismo, i nuovi documenti di identificazione, le nuove disposizioni per i viaggi aerei dopo l’undici settembre, i messaggi commerciali “a tema” che riceviamo nelle nostre caselle di posta, persino i consigli di lettura vanno in questo senso. Non so, non posso sapere francamente che tipo di futuro avremo – a tale proposito una riflessione di Sergio Benvenuto (http://www.leparoleelecose.it/?p=38213), interessante anche se non pienamente condivisibile, mostra quanto poco abbiano inciso nel passato epidemie ancora più tragiche. So però che alcune delle ipotesi che possiamo fare sul nostro futuro sono già state immaginate. Forse conviene partire da lì per capire che mondo vogliamo – o non vogliamo – avere.

Mi è capitato di lavorare negli ultimi mesi, per un volume scritto con Simone Brioni, Ideologia e rappresentazione. Percorsi attraverso la fantascienza italiana (Mimesis 2020), sul romanzo di Giorgio Scerbanenco Il cavallo venduto. Si tratta di un’opera particolare nella bibliografia dello scrittore. Il libro viene pubblicato postumo, nel 1963, ma è lo stesso Scerbanenco, come si legge nella biografia pubblicata dalla figlia Cecilia, a considerarlo il suo romanzo prediletto. È un romanzo post-apocalittico, che ha scritto probabilmente nell’immediato dopoguerra, una volta tornato a Milano dall’esilio in Svizzera. Scerbanenco non era nuovo ad incursioni nel genere fantascientifico: per diversi anni aveva frequentato Giorgio Monicelli, fondatore della collana “Urania” da dove per primo coniò il termine “fantascienza”, e aveva già scritto Il paese senza cielo, commissionatogli da Zavattini e pensato per un pubblico giovanile. Ritornerà poi al genere con il racconto lungo L’anaconda, che racconta, in piena Guerra fredda, la contrapposizione fra due blocchi contrapposti, Okana e Ravandia, attraverso un processo che, a guerra finita, mostra i danni ambientali, sociali e di genere provocati dal conflitto.

In Il cavallo venduto Scerbanenco descrive uno scenario post-apocalittico che sembra attraversare l’intera Europa. Il mondo che conosciamo, dopo la sua distruzione, è tornato ad una fase semi-primitiva: sparuti gruppi di uomini e donne si muovono per l’Europa devastata, alla ricerca di cibo e di un posto dove essere al sicuro. L’unico luogo al mondo in cui la civiltà sembra essersi ripresa è Milano: migliaia di profughi si accalcano alle porte della città, sperando di poter entrare.

Il mondo che descrive Scerbanenco è estremamente violento e feroce, per molti versi ricorda il contesto coloniale, italiano ma non solo. Uno dei personaggi principali dichiara di venire dalla Tripolitania – l’autore sceglie volutamente l’appellazione coloniale – e racconta che in Africa si assiste ora alla stessa violenza che è in atto in Europa: i bianchi europei vengono uccisi, discriminati o perseguitati, proprio come accadeva, a parti invertite, durante il colonialismo. L’uomo in questione tra l’altro afferma di provenire da un generico “meridione”, portando il discorso su un piano estremamente attuale rispetto all’anno in cui il romanzo uscì, in pieno boom economico e durante le migrazioni interne dal sud Italia verso il nord. I piccoli insediamenti umani ancora rimasti – sorta di micro-comunità disseminate in uno spazio ampio ma in perenne movimento, tutte protese verso Milano – vengono chiamati proprio “colonie”, come se fossero avamposti per una conquista futura e le attività commerciali incessanti, per quanto paradossali, riguardano la ricerca di fucili e soprattutto di caricatori, che costituiscono la principale tipologia di scambio economico della nuova umanità.

Di fronte a tutto questo caos, Milano rappresenta apparentemente la razionalità e la speranza che dall’ordine della città la civiltà umana possa rinascere. È protetta da mura molto spesse e l’entrata è estremamente regolamentata: all’ingresso vi sono i Guardiani, che controllano dettagliatamente le persone che vogliono entrare. Se si entra, diventa quasi impossibile uscire: alle persone vengono confiscati i beni, viene tatuato un numero, assegnato un lavoro che devono accettare per forza. La città è descritta quasi esclusivamente dall’esterno: di Milano quindi si parla, nel romanzo, ma a Milano non si entra. Dal punto di vista del senso del testo, non siamo molto distanti dallo Scerbanenco giallista di I milanesi ammazzano al sabato: una città ben organizzata, all’apparenza pulita e funzionante, che però nasconde orribili segreti.

L’azione si svolge per lo più nelle sterminate tendopoli alle porte della città, fra le migliaia di persone che attendono di entrare. L’unico che ha conosciuto Milano è una sorta di bardo, un uomo che ha vissuto nella città e che, eccezionalmente, è riuscito ad uscirne. La sua conoscenza, però, è continuamente svilita: parla a persone che non hanno nessuna voglia di ascoltarlo e che hanno già preso una decisione. Racconta loro l’eco della radio che incessantemente risuona per le strade di Milano, simbolo di una propaganda che ricorda molto da vicino le trasmissioni dell’Eiar durante il fascismo. Ma soprattutto, elemento fondamentale per uno scrittore come Scerbanenco, il bardo si sofferma sulle imposizioni linguistiche a cui sono sottoposti gli abitanti di Milano: dei militari lo hanno costretto a pronunciare determinate parole nel modo in cui volevano loro, pena la morte. La normalizzazione linguistica sembra essere un’ossessione nella città: il progetto è quello di creare una lingua omologata, più povera, facilmente controllabile e manipolabile. Una versione lombarda della neo-lingua di George Orwell. Scerbanenco aveva già scritto sui rischi del controllo linguistico da parte dei governi: nel 1943, durante la sua collaborazione con il “Corriere della sera”, aveva proposto al giornale un breve testo, Lingua morta. L’articolo non venne pubblicato, ma oggi rimane un segno tangibile delle sue idee sulla lingua. È una sorta di racconto allegorico, in cui il narratore e il guardiano attraversano un cimitero, nell’autunno del 1943, girovagando per lapidi che testimoniano la morte della lingua del regime, fra sepolcri di improbabili italianismi, epitaffi di frasi fatte e pessimi latinismi, mausolei del Voi e pietre tombali del lessico fascista.

Il bardo di Il cavallo venduto mette in guardia dall’omologazione linguistica, ma la sua voce rimane inascoltata. Appare sempre più come Cassandra: all’apparenza folle, in realtà savio. A nulla servono le sue parole, che spiegano bene il titolo del romanzo e il senso del libro: “Andare a Milano è come vendere il proprio cavallo migliore per un sacco di grano guasto”. Già, perché l’unica civiltà in procinto di rigenerarsi, è in realtà proprio quella che ha causato la distruzione del pianeta. Ricostruire Milano in questo modo, quindi, significa ricostruire la società che ha creato le premesse per la propria devastazione.

Quando in questi giorni parliamo o sentiamo parlare di “ritorno alla normalità” o di “nuova normalità”, pensiamoci con calma. Qual è la normalità che abbiamo lasciato? Quali aspetti ci mancano e di quali invece possiamo/vogliamo fare a meno? Quali elementi nuovi vorremmo? Il cavallo venduto di Scerbanenco può aiutarci a riflettere: non dobbiamo “per forza” tornare al mondo di prima.

Grazie Frederika

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di Giacomo Sartori

Grazie Frederika per avermi scritto una mail il diciotto di marzo di cinque anni fa, chiedendomi il permesso, dandomi del lei, di tradurre una mia poesia. La poesia sbarazzina si chiamava Se muoio prima io, e il tema era appunto la morte. L’avevi letta su Nazione Indiana e ti era piaciuta molto. Ti eri quindi comprata il mio primo romanzo, di molti anni prima: finisce pure lui nella morte. Cominciavamo insomma con la morte, che è sempre il miglior modo per celebrare la vita. (La tua traduzione è bellissima, alla baldanza del tono aggiungi un fermento frizzante di trillo, tutto tuo.)

Grazie per la tua delicatezza di anima che ha conosciuto la sofferenza.

Grazie per esserti battuta con indefessa testardaggine, senza mai mettermi al corrente delle sconfitte (intuivo qualcosa a cose fatte) per pubblicare i miei testi nella tua lingua.

Grazie per la tua sensibilità fragile e temeraria di uccello, tu che amavi tanto gli uccelli.

Grazie per aver prolungato anche nel nostro rapporto, basato sul nostro rispettivo lavoro nella letteratura, sul nostro amore per le parole vere, quella purezza che trovo nella scrittura.

Grazie per la tua umiltà e per la tua devastante timidezza in pubblico, che come sempre accade erano anche consapevolezza del tuo valore, impaccio a maneggiarlo.

Grazie per tutte le tue mail sempre frementi di timore di prendere troppo spazio o invadere, sempre sul chi vive, sempre necessarie, perfino nella lievità di materia o urgenza, sempre gaie, grazie per quel tuo nome un po’ duro – che si addolcisce nel cognome più evocatore – che appariva nella mia casella.

Grazie per la tua intelligenza.

Grazie per la benevolente e concentratissima attenzione con cui consideravi ogni mia singola parola, anche quelle che mi venivano fuori nella leggerezza. Il tuo ascolto era uno scanner che cerca di carpire il più possibile e non giudica, non fa trapelare incasellamenti, non presume. Le mie parole si portano dietro adesso quel tuo rispetto intriso di penetrante intelligenza, le mie parole adesso fanno attenzione a essere il più precise possibile.

Grazie per l’ironia sugli altri e su te stessa, su quel tuo spazientito non riuscire a prenderti davvero sul serio.

Grazie per la benigna gravità con cui consideravi qualsiasi cosa scrivessi o avessi scritto. I miei scritti si portano dietro adesso quel rispetto, sanno che possono meritarselo.

Grazie del tuo sguardo su di me, lo percepivo come un rassicurante (ma anche disincantato) recinto di affetto.

Grazie per non avermi mai parlato male di nessuno, grazie per non aver mai oltrepassato la soglia di qualche svolazzante e ironica allusione a questa o quella meschineria nei tuoi confronti.

Grazie per il supporto in questi cinque anni nei quali nella mia vita sono crollati bastioni e sono apparse inattese radure. Appena potevo esprimevo la mia gratitudine, su questo non ho rimorsi, ma non mi rendevo conto della forza che mi dava la tua presenza lontana. Lo ho provato quando ho saputo che te ne sei andata, lo provo ora.

Grazie per le abissali confidenze con le parole dette e anche dandomi accesso alle tue parole scritte (negli ultimi tempi). Erano oggetti di vetro soffiato che appendevo dentro di me, regali preziosi che non dovevo rompere.

Grazie per avermi detto tante volte la tua riconoscenza, certo nata anch’essa nelle pagine dei testi, che faticavo sempre a accettare e capire (il che è una forma di stolida chiusura).

Grazie per avere sempre tenuto fuori dal nostro orto tutte le tue numerose relazioni, tutte le persone che conoscevi, gli altri autori che traducevi, i tuoi altri affetti, i frutti della tua insaziabile curiosità intellettuale. Solo adesso mi rendo conto che eravamo sempre solo io e te. E’ una lezione che cerco di fare mia. (Ma certo tener fuori non è la parola giusta, si trattava piuttosto di non tirare in campo se non era strettamente necessario, di non mescolare.)

Grazie per la tua gaiezza appena marezzata di mestizia (gli spettri li tenevi per te), grazie per avere accettato il minimissimo supporto che ho provato a darti quando ne avevi bisogno, perché è provando a curare che si cura se stessi.

Grazie per l’esempio di come si possa convivere con i malanni fisici, di come li accettavi senza volergliene (a patto che ti lasciassero coltivare la tua passione per le parole giuste e i gorgheggi perfetti), senza volerne a te stessa.

Grazie per la benedizione (aspersa anch’essa di gaiezza) che hai dato al mio nuovo amore. Già prima di incontrarlo, dall’idea che te ne eri fatta dalle mie parole, e poi mentre lo l’avevi sotto gli occhi quando ci siamo visti a dicembre, e dopo.

Grazie per il tuo pudore, che mi suscitava condiscendente tenerezza, grazie per questa prossimità distante che non so definire, che sfugge a ciò che posso capire.

Grazie per le tue aperture al sacro (che è semplicemente ciò che non conosciamo, quello che le parole dei grandi scrittori sanno evocare), tu che ti consideravi impenitente (e storicista) miscredente.

Grazie per i tuoi tormenti, che nell’alambicco delle tue traduzioni diventano merletto leggero, sonorità fragranti che travestono i miei testi.

Grazie per avere dedicato le tue forze residue a tradurre un mio racconto, ben sapendo, e dicendomelo, che era la tua ultima traduzione (volevi però tradurlo tu). Grazie per essere resistita alla spossatezza e al dolore fisico. (E’ stato – vedo adesso – il tuo modo di salutarmi.)

Grazie per la tua certezza che le mie cose avrebbero finito per essere prese in considerazione.

Grazie per lasciarmi adesso solo con le mie forze e con la mia fragilità (alias con il culo per terra), che è un modo perché io utilizzi quello che mi hai dato e sia sempre cosciente di quello che ti devo.

Grazie per farmi capire adesso che avrei potuto darti di più: ne terrò sempre conto con le persone che mi sono care.

Grazie per il messaggio di una settimana fa, l’ultimo che ho ricevuto da te. Nell’ultima riga mi chiedevi se potevo togliere la parola morte (E’ PROPRIO NECESSARIA LA MORTE?) dall’ultima riga dello stesso. Secondo me ci stava bene, ma per farti piacere l’ho tolta. Sia l’ultimo mio pezzo che traducevi che il tuo ultimo messaggio finivano con la morte. E’ rimasta solo quella del tuo messaggio, la tua.

Grazie per non commentare adesso tutte queste parole, che certo ti danno parecchio fastidio, o insomma imbarazzo.

Grazie per lasciarmi questo dolore e questo vuoto, ma anche quel senso di pienezza e di gioia che danno le cose belle e senza macchia. Mi trascinerò dietro ovunque quest’ombra fresca e benefica.

Aspetta Primavera, Mancini

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di Laura Mancini


There will be time to murder and create,
And time for all the works and days of hands
That lift and drop a question on your plate;
Time for you and time for me,
And time yet for a hundred indecisions,
And for a hundred visions and revisions,
Before the taking of a toast and tea.

T.S. Eliot

Lei è in fila? Da trenta, trentacinque anni, la nostra risposta è sì. Chi è l’ultimo? Noi, la generazione dell’attesa. Scendete alla prossima? No, finché i nostri progetti resteranno irrealizzati, i sogni inesauditi, i risultati mancati, continueremo a fare solo ciò che ci riesce meglio: aspettare.

Il sistema del tatto

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di Alejandra Costamagna

Avrebbe dovuto farlo tanti anni fa, pensa Agustín. Quando aveva trovato sua madre stesa sul letto, con la bava alla bocca, lo sguardo perso e il boccettino vuoto sul comodino. Quando Aroldo era andato a consegnare il lievito a certi clienti fuori Campana. Quando non c’era nessuno in casa e aveva dovuto chiamare un’ambulanza e aiutare a caricarla e vedere come la portavano via e raccogliere un paio di arance da terra per inerzia, solo per fare qualcosa che lo distraesse, e andare a chiudersi in camera a battere a macchina solo per battere a macchina, come se i tasti fossero pallottole che potevano perforargli il petto. Prendere il manuale dell’emigrante o qualunque altro documento dal baule di sua madre e battere a macchina. Colpire qualcosa con le dita, lasciare una traccia, lettere come proiettili. Copiare frammenti del manuale di dattilografia o parole isolate, in mancanza di meglio. Viaggiatori, rabbia, bravo, cavare. E l’arrivo di Aroldo e cos’è successo a Nelida, che cos’hai fatto a tua madre, e il ricovero in ospedale e il divieto di farle visita e le giornate da solo con suo padre, la casa non ventilata, le persiane chiuse, la radio che parlava per nessuno, la cucina un deserto, la cannuccia del mate come unico contatto fra loro, due fantasmi senza nessuno a cui manifestarsi, spettri del presente senza un passato di cui inorgoglirsi o un futuro da venire ad annunciare, e finalmente andare a farle visita in qualità di apparizioni e accorgersi che la mente della donna si è riempita di pelucchi di polvere che la stanno consumando; è polvere viva e affamata che le tritura la mente, la chiude in sé stessa, tanto che il mondo di fuori alla fine è molto meno pericoloso, Tinito, di questi pensieri ormai senza freni di tua madre. Il medico aveva consigliato di lasciarla andare in Italia, a trovare i suoi genitori. Questo poteva guarirla, aveva aggiunto con un’espressione dubitativa. Aroldo non voleva, caso mai le sue origini la inghiottissero e non si potesse più recuperarla. Ma aveva finito per cedere. Avevano venduto dei mobili, avevano chiesto dei soldi in prestito ai parenti, si erano indebitati con tutti fino a mettere insieme una somma sufficiente per il biglietto aereo. Agustín si era accorto che prima della partenza sua madre ritrovava l’entusiasmo: si era cucita dei vestiti nuovi, aveva fatto riparare gli occhiali, era perfino meno strabica. E poi aveva mandato cartoline dall’Italia, fotografie con i suoi, con sua sorella, con il cognato, con i nipoti vivi (non un accenno al nipote morto davanti a lei, tanti anni prima). Avrebbe dovuto risponderle, pensa Agustín, obbligarla a rimanere là. In qualità di unico figlio io ti obbligo, ti ordino, ti supplico di non tornare in questa terra che non è la tua. Lasciarla libera, questo avrebbe dovuto fare. Un’immagine in bianco e nero che non gli si cancella dalla mente: sua madre con una chitarra in mano, raggiante come se dovessero incoronarla il giorno dopo. Dietro la foto, un messaggio nella sua calligrafia rotonda, perfetta: «Questa è la tua mamma con i capelli corti e la chitarra. Ho già sentito tanti dischi di Elvis Presley». Sorrideva troppo, pensa Agustín, esagerava una felicità nuova. Come se non esistesse il rancore. Come se di colpo avesse deciso di rinascere e di non rinfacciare più nulla; di diventare la persona che avrebbe sempre dovuto essere; di non venire in America, di non sposarsi, di non avere lui, Agustín. Quell’immagine gli si era conficcata come un paletto nel cuore. E non gli si cancella dalla mente l’impressione di quando l’aveva vista tornare. Era diversa: adesso era una donna che aveva visto suo padre. Ma era stata una specie di parentesi nella sua mente già malridotta. Pochi mesi dopo aveva ricominciato a perdersi e ad affondare sempre più in un mondo al quale solo lei aveva accesso. Sua madre non era più sua madre e nessuno poteva riportarla indietro. Qualcuno se l’era presa, Agustín lo aveva capito allora. E pensò di aver avuto qualche responsabilità. Forse quel giorno suo padre non si era sbagliato. Che cosa aveva fatto? Che cosa diavolo aveva fatto a Nelida fin da quando era nato? Forse se quella mattina non l’avesse consegnata ai medici, ma al capitano di una nave che la portasse lontano da Campana via fiume, per sempre. Forse se avesse organizzato una fuga di nascosto. Ma come poteva fare, se non sapeva guidare nemmeno una moto? Avrebbe potuto portarla via con la bici di Gariglio, un figlio che fugge pedalando con sua madre sulla canna. O forse non era stato lui a farla uscire di testa, ma suo padre e sua madre tanti anni prima. Mandandola a forza in queste terre quando aveva poco più di vent’anni, obbligandola praticamente a sposare Aroldo, suo cugino di secondo grado, l’unico scapolo della famiglia. Un uomo giovane, non molto bello, dicevano, ma giovane e disposto a sposare quella ragazza del suo stesso sangue. Volevano salvarla e l’avevano condannata, invece. Adesso Agustín avrebbe bisogno di parlarne con qualcuno, ma con chi? Avrebbe bisogno che qualcuno gli spiegasse l’origine della disgrazia.

 

NdR: questo passo è tratto, per gentile concessione dell’editore, dal romanzo della scrittrice cilena, di origini argentine, e prima ancora piemontesi, Alejandra Costamagna, “Il sistema del tatto” (“El sistema del tacto”, Anagrama, 2018), pubblicato ora da Edicola Ediciones, nella traduzione di Maria Nicola.

Pandemia: lo stato dell’arte

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Per Alfonso Benadduce. Il passo oscuro

di

Giuseppe Cerrone

 

Sarà il nero a dare il senso della tragedia.

Ecco il colore che amerete, raggiungerete, meriterete.

Il colore che bisognerà guadagnare.

Jean Genet

 

Si creeranno in sostanza degli uomini senza memoria;

uomini in continua estasi violenta, in partenza sempre da un punto-zero.

Giuseppe (Pinot) Gallizio

 

 

foto di scena: Mauro Milanese

 

 

Ho visto Passo Oscuro nel 2019 al Teatro Mercadante di Napoli. Tornato a casa ne ho scritto, ostaggio di una violenta scossa che ho cercato di tradurre in discorso. La meraviglia, lo stupore si riversarono in appunti frenetici che il tempo ha delimitato e strutturato. Quanto segue è il tentativo di dire della ‘sostanza’ Alfonso Benadduce, al di là dell’inesorabile fluire fenomenico. Ecco, se vi è altezza nella quarantena, essa risiede, credo, nel crollo dell’attuale, il cui volto irriconoscibile sembra essere quello della stasi, della cenere dopo gli ultimi fuochi. Autore, attore, pittore, Alfonso Benadduce opera enunciazioni senza enunciati, sospensioni. In teatro come in pittura si leva in ondate sediziose, sulfuree, in vapori malarici che ci spingono altrove. Da segnalare Libercolo dell’onta, finalista al premio Viareggio 2006 e Agogno la gogna, film sperimentale, finalista al premio Riccione TTV 2008. Espone i suoi dipinti in Italia e all’estero.

 

 

 

La notte dei mistici è l’ultimo passo prima del nulla. Chi osa tanto giunge dove non c’è consolazione. È forse la grande notte quella di Alfonso Benadduce. Con Passo oscuro ha conquistato il sacro regno dell’ignoranza. Dove si conduce con la Nona di Bruckner, dove ci porta? Al buio della danza. Una danza che avanza nell’interdizione dei sentieri, che si fa continuum inaccessibile e arresto. La misura del fare e del non fare è colma, Benadduce la soppianta. E giunto a danzare offre combustioni tonificanti – un teatro che colpisce il sistema nervoso e va oltre, nel vuoto della notte, in un respiro ultimo che potrebbe essere l’assunto di ogni santo: andare è donarsi. Benadduce come Cassandra, non creduto, malvisto, incede noncurante in una danza che è esercizio della fine e spasmo. Marcia sul posto. Dedizione persino. Presa del mistero fin dentro la cecità. Passo che si accalca al passo e insegue ciò che non procede. Non vi sono orizzonti, non vi sono paesaggi. Solo lampi di colore che un messo, dalla consistenza di ectoplasma, attraversa da un indistinto all’altro. Nessuna traccia dell’uomo, nessuna persona, piuttosto detonazioni, rombo della fine. L’animale indomabile si fa follia-sensazione, elettricità, ebrezza. E quando affiora un microfono, egli lo elude, sconfessando l’altissima caduta delle parole di cui da sempre è mago. Il mito greco bacia il Butoh, le fughe di Rothko abbracciano Decroux, la musica danza con la dépense e Anton Bruckner accompagna l’acrobata che si destreggia sulla soglia. Avanguardia è inversione, sconvolgimento. Benadduce, ascetico flâneur, si stacca inarrivabile: ha cime inafferrabili da avvinghiare.

Dal canto di Nietzsche alla danza di Genet. Tramontata la parola, è nel passo oscuro – colpo che scuote il mistero e lo espugna – che il teatro abita la notte. Danzare è sapere interamente l’inconosciuto. Dissolversi col dissolversi di ogni legge. Processo che odora di morte e respira. Giravolte, cadute, false piste, nella danza esausta di Alfonso Benadduce che tormenta la stasi e la percuote, fino a cancellare l’impulso alla misericordia. Quando, sul suono martellante e terrificante dello scherzo, siede inappuntabile sull’apocalisse. Nessun pensiero, nemmeno un resto. Solo potenza che si scatena in preversi che non conoscono contegno, qualcosa per cui Benadduce non sa di argini e Bruckner con lui. Siamo di là da Wagner. La fine degli istanti è per i pochissimi che si disfano di ogni traccia, smemorati, abbattuti, atterriti, eppure eroi. Benadduce è tra loro, con il piede che misura l’inutile, le movenze che riformula e che dissipa. Non ha bisogno di vestire Sigfrido. Ha Bruckner e tanto basta per condurci all’inesprimibile, affrontando la scena, là fuori, dove lui è, come il funambolo la corda. Infine, sul quarto movimento appena abbozzato da Bruckner, una delle innumerevoli ultime apparizioni, danza imperterrita come se il sipario non si fosse mai aperto.

 

Immaginate una scacchiera senza pedoni, attraversata da una regina cieca e perduta. Provate a pensarla, a desiderarla persino. Allora la partita non avrà inizio, non ci sarà epilogo. La sorte dovuta alle cose che si distinguono. Onde senza mare tra siccità perenni. Il miracolo è compiuto.

 

Sonia Caporossi – Taccuino dell’urlo (Marco Saya Edizioni 2020)

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Prefazione di Maria Grazia Calandrone

La scrittura di Sonia Caporossi è mossa dalla necessità di comprendere filosoficamente il mondo, che si dà silenzioso nei suoi nessi, lasciando a noi il compito di decifrare la mappa di una realtà fatta di persone e cose che si muovono (e vengono mosse) stando in relazione.
Uno dei modi possibili di interpretare la realtà è infatti seguire il filo di una relazione, come nel caso di questo Taccuino, un segugio di parole sensoriali tenute a terra, a fiutare le tracce di un rapporto che disorienta, perché procede per contrasti e contraddizioni, non fornisce la bussola per orientarsi nella solitudine del mondo. Anzi, confonde, mente, lascia ancora più soli, continuamente abbandona.
Lo scarto tra ciò che esiste e quello che invece potrebbe essere, la distanza inguaribile tra desiderio e risultato, ci rende la misura dell’errore. E allora, anche la lingua con la quale la relazione racconta sé stessa deve simulare il disordine della ferita, il dolore che scaglia fuori da sé, mentre l’amore ci terrebbe saldi e sicuri al centro di noi, ci farebbe lettori intelligenti del mondo.
Raccolto dal caos, venuto dal caos, mimetizzato con i crolli improvvisi del cuore e con la confusione e lo scompiglio, il lessico attinge da campi semantici diversi: scienza, critica d’arte, psicoanalisi, cartomanzia, musica e, naturalmente, filosofia.
Caporossi mette in bilico le parole, i suoi versi – spesso frantumati – sono frasi sul punto di spezzarsi e cadere nel verso successivo, più che andare a capo, duplicando i geyser del tutto involontari della memoria, che interrompono la superficie di una dimenticanza desiderata.
L’odore, le parole, le promesse, le rivendicazioni rimaste da fare, vengono infine emesse tutte d’un fiato, in due pagine di flusso di coscienza senza respiro, simili ad appunti presi mentre nel sonno si è premuti dal dolore e non si dorme davvero.
Il protagonista, colui che emette l’urlo, è impegnato nell’opera della dimenticanza, è un operaio della dimenticanza, che si muove tra veglia e stato onirico, perseguitato dai sogni, combattente sul campo di battaglia di lenzuola ormai fredde e infine arbitro di sé stesso, per stare nella bella metafora calcistica conclusiva, che ricorda il quadrato del ring amoroso di Carlo Bordini.
Ma qui si tratta di rettangolo: il rettangolo d’erba dei campi di calcio, il rettangolo del letto. Qui si tratta di un lato più lungo, di un uscire da sé per protendersi verso la menzogna di un altro, che deve essere reciso, potato, amputato, anche con spargimento di sangue, per ritornare interi nel quadrato della propria persona e richiudersi nel fortino dell’io, per il tempo necessario a cicatrizzare, a non volere, a non desiderare, non cercare, non urlare più.
Perché tanto l’amore poi torna.

Maria Grazia Calandrone

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Il posto di Felìcita

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di Melania Ceccarelli

Camminava spedita, i muscoli delle gambe brune e forti in rilievo sotto i corti pantaloncini elasticizzati. Alta, lunghi capelli neri e ricci; il seno fasciato in una maglietta rosa scollata, ingigantito da una gravidanza al quinto mese che portava come se non ci fosse. Camminava dritta, a testa alta, sulla terra rossa polverosa di quella strada alla periferia di Rio Branco, Brasile, una delle città più lontane del mondo.
Aveva vent’anni. Il suo nome, Felìcita.

Discorso ad una folla assente

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di Bruno Clocchiatti

“Durante i nostri anni insieme ho speso intere ore in compagnia di tua sorella, che ti somiglia molto ed è sostanzialmente muta. Al mutismo patologico, o addirittura all’autismo, tua sorella ha preferito il silenzio come se si trattasse di una pratica per così dire monastica – questa la mia valutazione –, e perfino una delle più severe in quanto a rigore ed intensità; tu ritieni che tale rifiuto a comunicare sia per forza correlato ad un trauma pregresso, un’impressione che del resto non mi sono mai sentito di condividere, e non per un’affinità di vedute con tua sorella, del cui mutismo in fondo ignoro le ragioni più intime, ma piuttosto per il piacere di contraddire la tua tesi, essendo le tue tesi generalmente basate su dati in sostanza incongrui, mi dico, aspetto che per un mio cosiddetto eccesso tassonomico ho sempre trovato odioso, spingendomi fino al punto in cui confutare ogni tua convinzione ha rappresentato, e rappresenta tuttora, il mio quasi esclusivo sostentamento, insieme a certe mele gialle che la donna di servizio ha introdotto furtivamente in cucina, mele pressoché rapprese che tuttavia conferiscono un pallido aroma ad un ambiente altrimenti inodore, se non asettico, benché i giornali e i documenti sparsi siano prossimi a macerare, rivelando così le stesse macchie ocra delle mele e della presente carta da lettera, consunta oltre ogni misura accettabile. Le mele, che tuttavia devo mangiare, mi hanno sempre disgustato. A tal proposito, non riesco a scindere l’immagine di tua sorella dal sapore delle suddette mele, pur riconoscendo a tua sorella il fascino del silenzio e di un aspetto ordinato e dignitoso, abiti sempre accollati ed un leggero sentore di lievito nell’alito, quasi un residuo di malattia nel respiro che trovo addirittura attraente, e in sostanza l’avversione che nutro nei confronti delle mele non ha pregiudicato il cosiddetto rapporto di necessità che mi lega alle mele stesse, simile all’opprimente pungolo che mi ha avvicinato a tua sorella e al suo mutismo che del resto, come tu sostieni, è assolutamente selettivo. Ogni volta che tua sorella mi ha rivolto la parola – in non più di una decina d’occasioni – ho avuto dal primo istante l’impressione di trovarmi di fronte a te e di discutere con te (o, per meglio dire, con una parte mancante di te), sebbene il tono di tua sorella fosse decisamente più piano e controllato, mai un picco nei sibili delle sue consonanti strascicate, e le parole di tua sorella in effetti sono ogni volta coincise con una rivelazione, magari non di natura pratica e forse nemmeno correlata al nostro rapporto, Ornella, eppure tali supposte rivelazioni mi hanno sempre scosso e, in un certo senso, hanno viziato la nostra vicenda per così dire dall’interno: in fondo, chi meglio di un familiare può toglierti la terra sotto i piedi rendendoti patetico o, meglio ancora, tanto vulnerabile da denudarti? In seguito agli incontri con tua sorella, assai frequenti ma nella maggior parte dei casi del tutto infruttuosi, ho sempre ottenuto non tanto un dato concreto sulla tua più intima natura, ti ripeto, quanto piuttosto una sensazione di smarrimento, simile a quella di un topo infilato a forza in un dedalo, sebbene – nelle rare occasioni nelle quali tua sorella abbia aperto bocca – ogni suo percorso mi sia sembrato all’istante lineare e del tutto scevro dalle tue consuete deviazioni, dalle tue perifrasi insensate, al punto che più volte ho desiderato la compagnia intellettuale di tua sorella piuttosto che la compagnia e la contiguità del tuo corpo, lo ammetto senza ritegno, considerato come anche gli espedienti più sordidi tramati dal tuo corpo mi avessero alla fine esacerbato e sfinito oltre ogni misura; la comunicazione esasperata del tuo corpo, come ora mi risulta lampante, era in sostanza molto simile al mutismo di tua sorella, essendo il tuo un corpo del quale non ho mai capito nulla, eppure le parole di tua sorella illuminavano tua sorella – e al contempo anche il pensiero di tua sorella – laddove tutto in te concorreva all’oscurità: ti capivo perfettamente, un’asserzione inconfutabile, ma alla comprensione corrispondeva poi quasi sempre un salto nel tuo buio, con rari chiarori che avevo artatamente disseminato nei nostri giorni assieme, quasi sempre dei chiarori che dipendevano da me o dalle illuminazioni che tua sorella mi elargiva a fatica, come sparuti e stentati indizi, quando avvertivo l’irrefrenabile impulso a sminuirti o a renderti ignobile, e posso affermare altresì, con minima approssimazione, che spesso le illuminazioni di tua sorella ti hanno letteralmente salvata dalle mie aggressioni per così dire costruttive, come ora mi pare addirittura ovvio, mettendo piuttosto all’angolo ogni mia legittima rimostranza. Avevo un’insaziabile fame di distruzione, come tu stessa hai asserito più volte, eppure la cosiddetta cupio dissolvi non ha mai inficiato, lo ravviso adesso, la qualità dei nostri giorni insieme, ciascun giorno è stato al contrario foriero di un nuovo grado di abulia, in principio camuffata dall’indolenza dei tuoi modi, ciò è chiaro, e in seguito assurta a quel genere di confidenza impudica e morbosa che rasenta l’affronto, tanto è vero che spesso ho rinunciato ad aggredirti verbalmente proprio perché mi sentivo troppo offeso o troppo ingiuriato, e quando infine sei ricorsa ostinatamente all’arma del tuo corpo, come l’ho presto definita, il legame è precipitato nel pozzo oscuro della recriminazione, ogni tua parola era del resto un insulto ed un veleno estirpato a forza dalle budella e dalle viscere, scagliato con la stessa impudenza con la quale una scimmia insozza i propri aggressori, ogni tuo discorso era in sostanza e senza scampo uno scarto dell’intelletto, eppure ad ogni scontro apparente (e questo aspetto ci riguarda entrambi) non corrispondeva mai una vera e propria animosità, un vero e proprio assalto: simile alle parole di tua sorella, anche la più detestabile delle insolenze veniva proferita col quel tono pacato che conoscevamo a menadito, forse perché entrambi eravamo stati educati – ma l’educazione ormai non mi riguarda più da tempo – come degli ingannatori e come dei bugiardi, tu in realtà sempre più abile di me nel raggirare la ragione, un’arte di confondere il pensiero e lo spirito che in principio ti ho addirittura invidiato e che adesso, al contrario, mi ripugna senza scampo. Ma ora ogni intimità è giunta ad un imprevisto capolinea; le mele che raggrinziscono e rimpiccioliscono stanno letteralmente evaporando come il pungolo razionale – così lo definisco – all’interno del nostro rapporto, un’evaporazione ed una dissoluzione rallentate ogni volta dalle parole di tua sorella: conoscere in te l’errore, l’errore per antonomasia, ha spesso inibito la mia rabbia, ha impedito che dilagasse proprio nel momento in cui le parole di tua sorella stavano rigirando il coltello nella carne, tanto nella mia quanto nella tua, in una maniera che infine ho trovato assolutamente subdola. Il dolore inflitto e la conoscenza del cosiddetto oggetto doloroso, un oggetto che ormai riconosco come un bubbone rimosso troppo tardi, si sono spesso ingarbugliati nei miei sensi fino a formare un rovello inestricabile ed atroce: metterò a tacere tua sorella, come ora mi dico, o sfrutterò volgarmente le sue rivelazioni per annientare te? E’ un quesito che non ha trovato ancora risposta, considerato come in realtà io non abbia mai annientato te né zittito tua sorella, rendendomi in sostanza sommamente ridicolo, benché tale indecisione fosse di certo frutto dell’indulgenza e del pudore, entrambi molto accesi in me, considerato inoltre come avessi saputo perdonarti giorno per giorno senza acredine, un affronto quotidiano al quale avevo risposto quasi sempre con la bonomia o col compromesso, un atteggiamento che a posteriori mi sento di giudicare fatale, arrivando al punto d’arrossire di fronte alle tue sciocche recriminazioni e alle tue insinuazioni più ignobili, pur possedendo i mezzi per stanarti e per portare alla luce le tue bassezze; l’oggetto doloroso, come ora ti definisco (o definisco tua sorella?), mi ha accompagnato nella maniera più subdola attraverso stagioni di letterale gelo, gelo che del resto si riflette nell’aspetto di questa casa e delle sue pareti scrostate, un bassorilievo d’intonaco che smotta lasciando spregevoli fregi sui muri, e poi ci sono le mele pressoché guaste e l’aroma delle mele che si confonde con quello della carta e dei documenti, ogni involto un malloppo di pagine sostanzialmente vuote, non dissimili da questa missiva che comincia a puzzare e a corrompere il mio respiro, che a tratti accelera come se stessi correndo verso una meta, eppure nessun traguardo – in particolare adesso – risulta sicuro e concreto, fatta eccezione per la scelta di tacere per sempre, un voto di silenzio che sto senz’altro perseguendo con i più solidi risultati. Per la prima volta dal nostro addio, mi sento finalmente in grado di rimuginare in maniera proficua sulle parole di tua sorella, sulle cosiddette rivelazioni di tua sorella che in fondo ti somigliava fin troppo, e che in fondo – con modi del tutto differenti dai tuoi – condivideva con te un’esasperazione ed un fanatismo per me null’altro che stomachevoli, come quel refolo di lievito nell’alito (lo stesso che prima ho amato e che ora mi appesta) il quale persiste tanto nel mio pensiero quanto nell’aria rafferma della mia stanza, prossima ad uno sfacelo che del resto avevo preventivato da tempo; venendo al dunque, tua sorella si era spinta ad insinuare che tu non mi avessi mai amato, che tu mi avessi addirittura tradito – un sospetto che non cambia affatto la mia prospettiva – ad ogni occasione favorevole e ad ogni tua crisi di nervi, perfettamente nascosta da un ambiguo e stucchevole contegno, e che tu ti fossi pentita di non avermi assoggettato dal primo istante come avevi fatto con altri, che avevi depredato o castrato o addirittura snaturato, rendendoli infine ciò che non erano mai stati prima, come tua sorella aveva sostenuto, per il semplice capriccio di stravolgere la cosiddetta realtà, la stessa realtà che ultimamente mi appare come un fragile simulacro, lo stesso genere di vuoto riflesso stampato sulla mia carta stropicciata e sporca, avrò scritto una decina di frasi scomposte e già la realtà mi tormenta, sebbene celata dietro a questa cosiddetta negazione della realtà che ti ha sempre accompagnata, al punto che nel tuo caso non parlerei di una mentitrice patologica quanto piuttosto di una menzogna patologica, l’oggetto che sostituisce il soggetto per ribadire infine l’essenza del nostro rapporto: una sequela di nudi fatti e di eventi inutili, tutti imbellettati e rivestiti di nauseante opulenza, finché l’estetica ha preso il sopravvento sulla ragione, appesantendo pensieri già gravi ed involuti con il fardello di una presunta leggerezza per così dire ludica, il peggior nemico del mio spirito senza dubbio analitico (posso dubitare della mia capacità di giocare?, annoto in fretta sul bordo della scrivania). Non desidero né mai più anelerò a qualcosa di leggero, fatta eccezione per certi indumenti estivi che ancora indosso sotto la giacca, un paio di maglie infeltrite che irritano la pelle e molestano il pensiero, eppure avverto un’afa insopportabile che contrasta con il gelo della casa, respiro con la bocca e con le nocche mi batto le tempie, ecco dunque che ciò che posseggo di leggero – seppur ruvido ed irritante – mi risulta improvvisamente necessario, mi ripeto che devo indossare la leggerezza, per un attimo mi tolgo la giacca e passeggio per lo studio, attorno alla scrivania, finché il pensiero non si schiarisce e allora riprendo il mio posto, con la testa reclinata all’indietro per rifuggire la nostra lettera, avvertendo stavolta una sensazione di gelo che finalmente si adatta all’ambiente; ho l’improvvisa sensazione di riconoscere, sotto l’intonaco smottato, un dipinto di Baselitz (un’illusione?), coi contorni neri e numerose figure attorcigliate, che ora più che a donne somigliano a dei biscotti bruciati, tanti biscotti bruciati stagliati sul muro come la radiografia di una malattia psichica, alla quale tuttavia non mi sento di soggiacere: la malattia incombe su noi tutti, ciò è evidente, ma finora l’ho respinta facilmente per via del mio fermo equilibrio, ogni aspetto ponderato con cura, tant’è vero che la lettera contiene a fatica una decina di frasi mirate e perfette, il mio piccolo quadro De Stijl in contrasto coi biscotti bruciati di Baselitz, un’intera parete imbandita di frollini scuri, gli stessi che tua sorella ha sempre servito con il tè, essendo in fondo tua sorella una foriera di bocconi amari, come l’ho più volte definita, sebbene tali bocconi mi siano stati null’altro che necessari per giungere al punto nel quale staziono ora, una scrivania infine lontana dalla folla degli ultimi anni, se non – in buona sostanza – lontana da te, cara Ornella, con una splendida visuale su un’opera mai tentata da Baselitz, un dipinto che nasce letteralmente dove le pareti stanno morendo di freddo e di solitudine, mi ripeto senza la minima pausa. E poi ci sono le mele gialle, la natura morta delle mele gialle coperte di efelidi ed immangiabili, che si uniscono alla mia piccola galleria di opere nascoste, un situazionismo involontario che ho scoperto solo ora, col capo reclinato e vuoto, in una casa che all’apparenza sembra ormai non contenere nulla, benché tutta la mia esperienza consista in sostanza in una sequela di aspetti nascosti e di dettagli insignificanti, ciò che vi è di più inutile ed al contempo ciò che più mi serve, ciò che in ultima analisi più mi si adatta: ars est celare artem, me lo ripeto più volte come se mi stessi osservando in uno specchio, nella posa dell’anfitrione che sfoggia la propria collezione privata, apparsa d’incanto su un muro scrostato e in un cesto di mele in fondo guaste, eppure ogni cosa risulta al proprio posto come nelle migliori occasioni, quantunque nella più inconsapevole delle maniere. Per una curiosa forma di transfert, improvvisamente mi sento di annoverare tra le opere a me più care anche il tuo livore, i tuoi tradimenti che fanno il paio con questi miei quadri involontari, e le tue bugie, in realtà delle bugie per così dire uniche, che a posteriori risultano essere state il miglior sotterfugio per trattenermi accanto a te, sebbene per breve tempo, e per fare di me, in un certo senso, un’opera straordinaria, simile a qualche bestia esotica impagliata che d’improvviso, come può accadere, dia l’impressione di aprire un occhio, di spalancare la bocca, e invece poi non fa nulla e non dice nulla, o perlomeno ciò che dice o che pare presagire passa inosservato o è scambiato per un’allucinazione, e tale mi appare ora questa lettera ed il ricordo che la lettera stessa alimenta: un’allucinazione protratta fino allo spasimo, finché creperò di fame o l’ossigeno nella stanza si consumerà, una delle due cose, e solo allora ti avrò in pugno, al culmine della cosiddetta sofferenza, con la testa reclinata all’indietro e il mio nome in calce alla missiva, missiva che del resto mi dà l’impressione d’essere già lettera morta, eppure mi fa sentire bene e ammazza il mio tempo come nulla in precedenza – nemmeno tu – è stato in grado di fare. Cosa si può chiedere di più, in fondo, ad un pezzo di carta macchiata e ad una stilografica rubata in edicola, con una donna nuda impressa sul fianco, quando tale donna non è nemmeno più del tutto visibile?”

La città bambina: scuole aperte

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Di seguito una proposta per l’anno scolastico 2020-2021 al momento indirizzata alla Regione Toscana e alla provincia di Pistoia, ma che potrebbe essere d’interesse nazionale. Per una scuola diffusa sul territorio, una didattica a contatto con le varie realtà locali, l’utilizzo di spazi altri, dagli spazi aperti ai locali di uso pubblico al momento inutilizzati a causa della pandemia. Il sogno è grande e realizzabile, se lo vogliamo (fm)

Per richiedere la lettera, ulteriori informazioni e il modulo di adesione contattare La città bambina:  lacittabambina@gmail.com

Pagina Facebook: https://www.facebook.com/lacittabambina/

SCUOLE APERTE – PROPOSTA PER LA RIAPERTURA DELLE SCUOLE NELL’ANNO SCOLASTICO 2020-2021 UTILIZZANDO AULE DIFFUSE SUL TERRITORIO

Gentilissime associazioni, gruppi, cooperative, dirigenti scolastici, enti

vi invitiamo a sottoscrivere questa proposta come primi firmatari, per comporre una piattaforma orizzontale di partenariato che si sta formando in questi giorni. Se siete interessati, aspettiamo entro domenica 17 maggio 2020 una vostra email (all’indirizzo in calce) con la lettera di adesione che trovate di seguito, da firmare digitalmente o con allegato il documento di identità. Il 18 maggio invieremo la proposta alle istituzioni (Regione, Uffici scolastici Regionali e Provinciali) a nome di tutti gli aderenti primi firmatari. I tempi sono stretti ma da ormai alcune settimane incubiamo l’idea ed è questo il momento opportuno per contribuire al dibattito su questi temi. Il 19 maggio apriremo una raccolta firme su change.org, rivolta anche ai singoli e ad altri gruppi e pubblicheremo la proposta, sui siti web dei primi firmatari, per promuovere il confronto. La trasmissione della proposta alle istituzioni sarà materialmente fatta dall’Associazione La Città Bambina, di Firenze, allegando tutte le lettere di adesione dei primi firmatari. In questo primo momento non occorre avere spazi né compilare il modello di messa a disposizione degli stessi, ma dopo il 14 maggio chi vorrà, e potrà, è invitato a trasmettere autonomamente la lettera di messa a disposizione di spazi.

In attesa di un vostro riscontro,
cari saluti
Firenze, 6 maggio 2020

Associazione La Città Bambina

lacittabambina@gmail.com

Alla Regione Toscana

segreteria.presidente@regione.toscana.it
regionetoscana@postacert.toscana.it
consiglioregionale@postacert.toscana.it

 

All’Ufficio Scolastico Regionale
taskforcecovid19@toscana-istruzione.it
direzione-toscana@istruzione.it
drto@postacert.istruzione.it

All’Ufficio Scolastico Provinciale

usp.fi@istruzione.it
uspfi@postacert.istruzione.it
usp.pt@istruzione.it
usppt@postacert.istruzione.it
 
Ai Comuni
protocollo@pec.comune.fi.it
comune.pistoia@postacert.toscana.it
 
 

Oggetto: SCUOLE APERTE – PROPOSTA PER LA RIAPERTURA DELLE SCUOLE NELL’ANNO SCOLASTICO 2020-2021 UTILIZZANDO AULE DIFFUSE SUL TERRITORIO

I sottoscritti trasmettono la proposta in oggetto, di seguito descritta, fiduciosi che le istituzioni recepiscano e sviluppino con interesse l’esigenza di organizzare modalità di riapertura delle scuole a settembre, anche attivando la disponibilità di spazi presenti sul territorio in modalità di scuola diffusa, coniugando la risposta alle esigenze di salute pubblica con la possibilità di instaurare un nuovo e migliore rapporto tra scuola e territorio.

La proposta

La Didattica a Distanza è stata, ed è, la didattica dell’emergenza, essenziale per dare continuità alla scuola e alla sua vicinanza a famiglie e alunni in un momento straordinario di pandemia. Niente oggi permette di escludere che questo momento straordinario sarà concluso in autunno, ma la didattica a distanza non può essere lo strumento principale con cui proseguire anche il prossimo anno scolastico. Dalla fase dell’emergenza si deve passare alla fase dell’organizzazione ed è necessario provare a pensare forme nuove che riportino la scuola in presenza. In gioco c’è l’inclusione di tutti e tutte, il benessere psicofisico dei più piccoli e l’idea di una società che si prende cura delle proprie istituzioni.

La scuola e gli asili sono stati chiusi durante questa pandemia, soprattutto per la difficoltà di garantire il distanziamento sociale. Gli ambienti scolastici erano già afflitti da sovraffollamento nonostante il calo delle nascite e una riduzione del numero di studenti per classe era e resta una priorità. Se l’obiettivo del prossimo futuro è garantire classi meno affollate, i fattori in gioco possono essere diversi, alcuni banali, almeno a dirsi:

1) aumentare gli insegnanti, riducendo il numero di studenti per classe,

2) intervenire sul tempo di permanenza a scuola, dividendo le lezioni in fasce orarie diverse, riducendo solo in casi estremi il tempo di lezione in presenza,

3) intervenire sullo spazio scolastico, offrendo più aule per la didattica in gruppo

Quest’ultimo punto merita un confronto aperto, in cui anche le strutture extrascolastiche possono dare un contributo al disegno di nuove politiche.

L’incontro tra volontà politica e disponibilità delle realtà extrascolastiche può dare vita alla sperimentazione di una diffusione dello spazio scolastico in strutture del territorio finora non deputate alla scuola. Spazi, chiusi e aperti, che fino ad oggi venivano utilizzati al massimo durante le gite di istruzione, o che rimanevano inutilizzati in orario scolastico, sono oggi potenziali aule diffuse. Per garantire uno spazio di crescita collettiva a bambini e adolescenti, le aule non devono restare più chiuse. Per riaprirle forse dovremo utilizzare, anche per il programma didattico ordinario i cinema, i teatri, gli spazi dei circoli ricreativi e delle parrocchie, le fattorie didattiche, i centri di quartiere, i centri socio-educativi, certi spazi di lavoro da visitare e conoscere, i parchi, le palestre, i sentieri del territorio, i percorsi sugli argini dei fiumi, i musei, le biblioteche e gli archivi, con una programmazione e un calendario che tutta la città e il territorio possono offrire a rotazione alle proprie scuole e alle scuole di altri luoghi che vorranno scambiare queste esperienze.

Già dalla seconda metà dell’Ottocento lo spazio scolastico si è trasformato, a partire da motivi di sanità pubblica: da palazzo senza luce si è trasformato in padiglione collegato a spazi aperti, permeato di aria e luce, prima per motivi di igiene e salute (per contrastare la tubercolosi), poi anche per sperimentazioni di pedagogia sociale. Dall’esperienza del movimento per le scuole all’aria aperta a cavallo tra fine Ottocento e inizio Novecento sono sorte sperimentazioni che hanno influenzato il  movimento dell’architettura moderna e hanno cambiato definitivamente il modo di concepire gli spazi, non solo scolastici. Ma il rapporto con aria e luce ereditato dalle scuole all’aria aperta è rimasto spesso una potenzialità inespressa o sommessa, nelle esperienze vissute a scuola. Probabilmente anche il rapporto della scuola con la città e il territorio ha ancora molto potenziale inespresso. Forse oggi la salute pubblica può essere ancora una volta motivo per sperimentare e consolidare nuove relazioni tra scuola e città.

Cosa impedisce agli asili e alle scuole di provare ad approfittare degli spazi del territorio?

I costi e le modalità per l’apertura, l’adeguamento e la sorveglianza degli spazi, per la loro pulizia e sanificazione, per lo spostamento degli alunni, possono essere affrontati orientando risorse e sforzi organizzativi in questa direzione. La scuola è dotata di assicurazione che può essere adattata a coprire anche  attività fuori dall’area scolastica. Gli spazi extrascolastici possono essere adeguati per rispondere a requisiti  di sicurezza e di prevenzione.

Cosa può offrire il territorio alle scuole?

Le realtà presenti sul territorio possono essere chiamate da subito a proporre forme e modi di messa a disposizione di spazi e di offerte formative integrative, con lo scopo di consentire a ogni istituto di redigere prima di settembre un calendario e un protocollo di utilizzo delle aule diffuse.

FERMO RESTANDO LA NECESSITA’ DI UN INGENTE INVESTIMENTO NELL’ISTRUZIONE PUBBLICA, PROPONIAMO CHE LE ISTITUZIONI PREPOSTE PROMUOVANO UNA COLLABORAZIONE TRA SCUOLE E SOGGETTI GESTORI DI SPAZI PRESENTI IN CITTA’ E SUL TERRITORIO, PER CONSENTIRE ATTIVITA’ DIDATTICA CURRICULARE ED EXTRACURRICULARE ANCHE IN AULE DIFFUSE, SOPPERENDO ALLA MANCANZA DI SPAZI SCOLASTICI E SCONGIURANDO IL PROSEGUIMENTO DELLA DIDATTICA A DISTANZA INDIVIDUALE. TRASMETTIAMO A TITOLO DI ESEMPIO UN FORMAT PER LA MESSA A DISPOSIZIONE DEGLI SPAZI.

La mia segregazione (nuovi autismi # 33)

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di Giacomo Sartori

Devo confessare che adesso che sta per finire questa segregazione forzata non mi dispiace, ho quasi timore che finisca. Un po’ perché la mia vita ordinaria non è poi troppo differente, e quindi tutto questo mi è intrinsecamente familiare. Non sono un monaco di clausura, ma nella mia esistenza mi sono ritrovato a essere isolato, ne ho sofferto ma ci ho fatto anche il callo. Mi calmano le lunghe giornate di solitudine, nella concentrazione della scrittura e del lavoro scientifico, seduto al mio sbilenco tavolo adibito a scrivania. Mi appagano le azioni del vivere, la loro ripetizione fatta di minime ma vivide variazioni: prepararmi da mangiare, pulire, fare una lavatrice.
Ho un rapporto di timida e tormentata frustrazione con gli sfrontati piaceri che la metropoli in cui vivo è così brava a sbandierare. Mi inebria passare davanti ai caffè e alle brasserie con i tavolini all’aperto dove gli avventori bevono in compagnia e si divertono ostentatamente, e magari c’è anche il banchetto delle ostriche (adoro la semplicità selvaggia delle ostriche, nonostante i freni etici), e mi rapisce spiare dentro le vetrine dei ristoranti, pensando che mi piacerebbe così tanto entrarci e approfittare di quelle soddisfazioni così invitanti. Mi eccita provare desiderio, e nutrirlo con promesse a me stesso che non manterrò. Nella realtà dei fatti sono sempre stato deluso, le rare volte in cui sono passato all’atto, diciamo così: ho trovato tutto molto caro, non poi così buono, e rovinato da questo o quell’altro elemento triviale, dalla noiosità delle persone. E insomma non ho più avuto voglia di tornarci, in quel locale che mi aveva tanto attirato.
Sono quindi infinitamente più tranquillo ora che tutte quelle micidiali trappole di desiderio sono chiuse. Passeggio – ci vuole una autocertificazione valida un’ora, ma io da bravo italiano un po’ baro – e osservo le serrande abbassate, che mi danno un senso di ordine e di pace. Dentro di me so però che è qualcosa di davvero eccezionale: nemmeno durante la fantomatica Rivoluzione, nemmeno durante l’eroica Comune, e non parliamo dell’occupazione nazista, quando i locali giravano anzi al massimo regime, è successo.
Sono sparite dalla circolazione anche le magnifiche longilinee ragazze e le belle donne, della quale la città è sempre stata molto generosa, anche questo mi da molta pace. Sono probabilmente sfollate nelle loro seconde case, o trasferite in un paradiso disegnato da Botticelli, o semplicemente chiuse nei loro appartamenti, non saprei dire, ma insomma per la strada non si vedono più. Nemmeno una. Le poche persone in giro non sono belle, sono come me (oltre al fatto che mi passano lontano, cambiano marciapiede quando mi vedono, per paura del contagio). A guardarle bene, e questo era vero soprattutto le prime settimane, sono davvero vestite male, fanno pensare alla trasandatezza ginnica dei carcerati. E insomma mi pacifica non essere turbato da nessuna magnifica reginetta, che trasporta magari una ciondolante borsina con il gomito a angolo retto (alla maniera che io dentro di me chiamo “alla parigina”), guardando in avanti come fanno le sfingi, fingendo di non essere cosciente del suo letale fascino. Con l’età mi sono molto calmato, ma questa improvvisa estinzione aiuta le mie inclinazioni più spirituali.
Passeggio più tranquillo, molto contento anche che le automobili siano davvero pochissime, e l’aria sia buona. Cammino tra le case e fantastico di altre realtà e altre vite, che è quello che ho sempre più amato. Dovrei limitarmi al raggio di un chilometro da casa mia, ma pure in questo faccio l’italiano: pur restando nella parte povera della città, spazio molto di più. Quando mi salta il ticchio scatto qualche fotografia con il telefono. Relitti umani sdraiati per terra nella loro sporcizia, fragili fattorini di merci e cibi acquistati sulla rete, o precarie scritte sui muri, inebetite persone sole sedute su una panchina, piccoli ingressi di lerci albergacci, che a differenza di quelli di lusso hanno continuato la loro attività. A volte ne pubblico poi una su un social del quale faccio parte, ricevendo qualche sparuto like. Mai come in questo momento ho avuto la percezione del tirannico conformismo all’acqua di rose che domina su quel social di immagini, mai come ora l’ho percepito come la bacheca di uno sgualdrappato occidente alla deriva, con i suoi gatti e cani, foto di fiori e lussureggiamenti vegetali (siamo pur sempre in primavera), selfie, copertine di libri, immagini di vacanze precedenti al virus.
Non ci sono belle ragazze, ma in compenso ci sono tantissimi animali, e io ho un legame istintivo con le bestie. Loro non mi turbano, mi stupiscono e mi allargano il cuore. Fuori dalla finestra del mio studiolo sembra una voliera, non si è mai visto un tale via via di uccelli. Per le strade sono spuntati molti gatti, i ratti ti guizzano adesso tra le gambe, e lungo il canale non lontano da casa una coppia di cigni ha fatto il suo enorme nido proprio a lato della strada, e si danno il cambio per covare. Nel canale stesso i pesci saltano nell’aria come delfini, tutti contenti che nessuno gli rompa le scatole.
Ma intendiamo, a parte un’uscita giornaliera sto ligiamente confinato nel mio appartamento molto piccolo, dove certo molti altri soffrirebbero. Io però sono figlio di un alpinista, e da ragazzino adoravo i libri di montagna che leggeva mio padre, nei quali si trattava di resistere in condizioni estreme e tendine minuscole, e anzi questo era un modo per confrontarsi con i propri limiti e per migliorare se stessi. Adoravo anche i resoconti che leggeva mia madre delle solitarie traversate oceaniche di Sir Chichester, e anche lì c’erano spazi angusti e aperture metafisiche. Paradossalmente pure nei libri di guerra, da bravo ex-fascista mio padre ne aveva tantissimi, trovavo quella stessa tensione tra sofferenza e appagamento.
Se fosse un veliero il mio appartamento sarebbe un nove metri. E’ piccolo, ma c’è tutto quello di cui ho bisogno, e credo che in uno spazio più grande starei peggio. Nella minuscola cucina la credenza è in un cassone sospeso nel vuoto che sporge dalla finestra: bisogna aprire le ante per accederci. Mi piace fare il cambusiere di me stesso, mi diverte calcolare per quanto tempo posso resistere. Anche se in realtà mangio per lo più riso e lenticchie, quindi con qualche chilo di riserve posso andare avanti a lungo. Vado raramente al supermercato, come approderei a un porto per imbarcare acqua e farina, e poi tiro avanti per settimane. Non devo attraversare l’oceano, devo traversare questo periodo nel quale diverse persone sono all’ospedale e muoiono.
E poi non esageriamo, la solitudine di questi giorni è molto relativa, sono pur sempre accompagnato dalla cacofonia dei social, sovraffollati dalle immagini e dalle parole di tutte le altre solitudini, dalla fitta pioggia di informazioni, dalle interpretazioni che parlano e straparlano del presente, dai grafici e dalle cifre, senza parlare delle centinaia di eventi di rimpiazzo da vedere on-line, dai volonterosi surrogati di realtà sociale, le presentazioni di libri a distanza, le migliaia di filmati e concerti da gustarsi, l’immensità della rete. E ci sono soprattutto le videochiamate, che mi tolgono il disagio del telefono, mostrandomi gli occhi, e le parole dei corpi (i corpi non smettono di parlare) a cui voglio bene.
La vera solitudine l’ho sperimentata, è ben altra cosa. Molti anni fa mi sono ritrovato a vivere in una città africana che era sede della legione straniera e di altri eserciti, e che era in realtà un immenso postribolo. Le strade erano postriboli, i caffè erano sordidi postriboli, e peggio che peggio i ristoranti e il porto: non avevo dove andare. Era troppo caldo per passeggiare, ammesso che si potesse passeggiare: non c’erano vie con marciapiedi, non c’erano giardini, fuori dalle baraccopoli che delimitava quella Gomorra non c’erano coltivazioni (anche se teoricamente ero lì per quello), non c’era natura, solo un infuocato paesaggio roccioso. Avevo uno stipendio, ero lì per guadagnare, ma non avevo lavoro. Il lavoro doveva sempre cominciare, e non cominciava mai.
Avevo una villetta tutta per me, e perfino un grande fuoristrada con il quale avrei potuto andare dove mi pareva, se ci fosse stato qualche posto dove andare. Non potevo telefonare se non qualche minuto ogni tanto, perché i prezzi erano proibitivi. Internet non esisteva, e non avevo televisione. Avevo una piccola radio, che però non sono mai riuscito a funzionare. Passavano le settimane e i mesi, e c’era solo quel vuoto che mi distruggeva, quel sopravvivere senza fini e senza senso, senza contatti con altre persone. Quella di adesso non ha niente a che fare con quell’angoscia che mi stringeva la gola, è la condizione di una persona che ha bisogno di isolarsi per scrivere dei libri, che ha scelto di fare quello nella vita.
Ma certo in parte la prendo così anche perché per me è tutto sommato un buon periodo. Ho risolto dei nodi che mi hanno fatto soffrire per tantissimo tempo, ho incontrato una persona che considero un dono che mi ha elargito qualche divinità: ci parliamo ogni giorno, so che la ritroverò quando ci lasceranno viaggiare. Il mio ultimo romanzo è uscito in autunno, non è stato travolto di petto come è successo a tanti altri libri. E perfino sul piano economico non sono messo malissimo, ho qualche mese di autonomia, un contratto già firmato per un nuovo lavoro scientifico di qualche altro mese. So benissimo che per molte persone ci sono ansie economiche, anche drammatiche, e relazionali, e io stesso, in altri periodi meno fasti, penerei molto di più.
Del resto pure io per qualche settimana sono stato, all’inizio, molto turbato. Provavo una grande rabbia. E anche angoscia, sotto la quale trovavo, scavando bene, collera. Rabbia per la prevedibilità – l’imprevedibile prevedibilità – di quello che succedeva. L’imponente macchina capitalistica entrava in tilt per quei suoi eccessi e quella sua sconsideratezza che io avevo sempre criticato e vituperato, e che per la mia formazione scientifica e il mio lavoro conoscevo meglio di altri. Ora succedeva davvero, e io ero impotente, mi sentivo anzi corresponsabile. Non avevo fatto abbastanza, non mi ero impegnato a fondo, non avevo militato, e anche adesso me ne stavo con le mani in mano. E rabbia perché attorno a me vedevo solo nostalgia del passato, fretta di ritornare a quella pazzia collettiva di consumi e sprechi e materialismo che aveva causato la pandemia, e che certo, se si fosse riaffermata, avrebbe provocato in poco tempo danni ancora più devastanti, con il loro inevitabile corollario di guerre e morte.
Mi dicevo che dovevo cambiare tutto nella mia vita, dovevo militare e battermi. Non potevo limitarmi ai miei inermi studi sulla terra, per quanto potenzialmente benefici possano essere, nella loro piccolezza, per una conoscenza dell’ambiente, non potevo restare chiuso nel solipsismo dei miei testi letterari. Nella foga ho scritto e pubblicato nel mio paese di origine un accorato appello a limitare drasticamente il consumo di carne, come misura concreta per cominciare a venire immediatamente a patti con la cosiddetta natura. Nessuno lo ha appoggiato, nessuno ne ha parlato, erano tutti occupati con la contabilità dei morti e le meccaniche della malattia, le allucinanti risposte del potere, così simili nei due paesi della mia vita. In qualche settimana le libertà personali e le più elementari basi della democrazia erano state spazzate via. Ci si accorgeva che non era poi impossibile che il capitalismo affrontasse davvero un problema ambientale da lui stesso causato, come si era sempre pensato: lo faceva perdendo però per strada la democrazia. Che è un po’ come spegnere il fuoco usando il sangue delle persone. Alla luce dell’esperimento preliminare che stiamo vivendo, l’ineluttabile via del futuro sembra rivelarsi quella. Ne ricavavo altra angoscia, che a ben vedere era rabbia.
Poi un po’ alla volta ho capito che non sono il centro del mondo, non posso essere il suo salvatore, seguo anch’io quello che succede, come tutti. Magari davvero quello che sta accadendo è l’inizio dei rivolgimenti che porteranno guerra e morte, non lo posso sapere. Ho però un piccolo margine di manovra. Ho anch’io paura della morte, come è d’uso nelle nostre società materialistiche, ma posso lavorarci sopra. E a ben guardare qualcosa nel mio piccolo faccio anch’io. Nel mio lavoro ho sempre cercato di fare capire che i terreni sono fondamentali per la sopravvivenza dell’uomo, e che vanno risparmiati e trattati bene. E anche nei miei romanzi i temi dell’ambiente e delle relazioni tra gli uomini sono al centro. E’ già qualcosina, anche se certo cercherò di impegnarmi di più. Adesso so che seguirò quello che succede, e proverò a fare il mio meglio. Per il momento assaporo la mia solitudine, che è sintonia con me stesso e con la morte, e coltivo il mio giardino.

 

(nella traduzione di Frederika Randall, questo pezzo entrerà nell’e-book dedicato alla pandemia che la casa editrice di Brooklyn Restless Books pubblicherà a fine mese, con i contributi di molti loro autori di vari paesi; i ricavati di questo instant book  andranno alla Book Industry Foundation, organizzazione che sostiene le librerie in difficoltà)