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Con Primo Levi tra le macerie del genocidio. Il mondo dopo Gaza di Pankaj Mishra

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[Questo articolo è apparso in origine sul numero di maggio de “L’Indice”.]

di Michele Sisto

Come Auschwitz, come Hiroshima, anche Gaza entra nella storia come simbolo dell’ennesimo collasso morale della nostra civiltà. Uno spartiacque. Come tale lo hanno riconosciuto, tra gli altri, filosofi come Roberta De Monticelli e Franco Berardi ‘Bifo’, in libri usciti in questi mesi. A spingere anche Pankaj Mishra a scrivere Il mondo dopo Gaza è in primo luogo un impulso etico, e il bisogno di elaborare un lutto, anzi, una molteplicità di lutti. Quello, innanzitutto, per la distruzione di centinaia di migliaia di vite in Palestina e per la cancellazione di un’intera cultura, dalle moschee alle università, dai cimiteri al paesaggio naturale. Ma anche il lutto per il ‘suicidio di Israele’ – la formula è della storica Anna Foa – precipitato dall’utopia coloniale di Theodor Herzl nella barbarie genocida di Netanyahu e complici. Il lutto, inoltre, per la demolizione del diritto internazionale, perseguita non solo da Israele, che pure gli deve la sua esistenza, ma da quelle stesse potenze che lo hanno usato per imporre al mondo il loro ordine. Il lutto, ancora, per le libertà d’informazione e d’opinione, logorate da quella sorta di neomaccartismo ‘anti-antisemita’ che da Berlino a New York colpisce con intimidazioni, censure, manganellate, arresti e persecuzioni studenti, manifestanti, intellettuali, università, ong, artisti, istituzioni internazionali. «A farmi scrivere», confessa Mishra, è quella che Karl Jaspers ha definito «colpa metafisica», la sofferenza di coloro che assistono impotenti alla barbarie, «una condizione umana diffusa dopo la distruzione in diretta di Gaza», e con essa «il dovere che i vivi hanno nei confronti dei morti innocenti».

Mishra, che vive a Londra e collabora regolarmente col «Guardian», è nato e si è formato in India, e da tempo ci ha abituati a uno sguardo straniante, montesquiviano, sulla storia euro-occidentale: nel romanzo I romantici ha raccontato le contraddizioni dei giovani indiani che tentano di adeguarsi a un modello di modernità pensato per le metropoli, ma semplicemente impossibile nelle (ex-)colonie; in From the Ruins of Empire, non ancora tradotto in italiano, ha esplorato il pensiero degli intellettuali da noi per lo più ignorati che hanno guidato la ‘rivolta contro l’Occidente’ e la rinascita dell’Asia, da Gandhi e Nehru a Liang Qichao a Jamal al-Din al-Afghani; ne Le illusioni dell’occidente – ma il titolo originale è Bland Fanatics, qualcosa del tipo ‘fanatici insipidi, ordinari’ – ha denunciato la tragicomica arroganza e incompetenza delle classi dirigenti, specie quella britannica, che hanno devastato il mondo col loro imperialismo.

A fargli da Virgilio nella ‘selva oscura’ in cui si addentra con questo nuovo saggio è Primo Levi, in particolare il Levi de I sommersi e i salvati, in un viaggio che lo porta a confrontarsi con moltissime voci, da Czesław Miłosz a Edward Said (la bibliografia finale conta dieci pagine), in una prosa a intarsio che ricorda la memorabile risposta di Tiziano Terzani – anno 2002, quando gli USA scatenavano la loro ‘guerra al terrore’ – ai deliri suprematisti di Oriana Fallaci.

La prima parte tematizza l’esperienza, in sé dolorosa, di ‘aprire gli occhi’ sulla realtà di Israele, al di là della propaganda, delle proprie convinzioni e anche delle proprie speranze: fu il caso di Jean Améry, quando nel 1977 venne a conoscenza – lui, torturato nei lager nazisti – delle torture inflitte ai prigionieri palestinesi; di Primo Levi, di fronte alla distruzione di Beirut nel 1982; e dello stesso autore, giovane ammiratore di Moshe Dayan, in seguito a una visita in Palestina nel 2008. Ai tormenti della coscienza si accompagna, per Mishra, la difficoltà di dar loro voce, dovuta alla chiusura dei media occidentali a qualsiasi rappresentazione della violenza sionista e del punto di vista palestinese.

Segue una ricchissima indagine sulla costruzione della memoria della Shoah, prima in Israele, poi – nella seconda parte del volume: Ricordare per ricordare la Shoah – nei due suoi più decisivi sponsor, la Germania (La Germania dall’antisemitismo al filosemitismo) e gli USA (Americanizzare l’Olocausto): in tutti e tre i paesi a un periodo di sostanziale indifferenza per il genocidio nazista e per i ‘relitti umani’ che erano sopravvissuti ad esso, segue, grossomodo a partire dal processo-spettacolo a Eichmann, un’esaltazione della memoria di quello che solo negli anni ’70 comincia a essere definito ‘olocausto’: esaltazione di fronte alla quale lo stesso Levi, soprattutto durante il suo viaggio negli USA nel 1985, si sentiva profondamente a disagio, perché ha imposto una memoria selettiva, assolutizzata e adottata come fondamento identitario, a spese di quell’universalismo (anche della sofferenza) che rende l’opera dello scrittore torinese così resistente a ogni strumentalizzazione.

Allo spinoso problema di fondare un’identità nazionale sulla vittimizzazione, è dedicata la terza parte del libro, Al di là della linea del colore, che si rifà, come già Enzo Traverso nel tempestivo e coraggioso Gaza davanti alla storia, alla critica dell’ordine razzista elaborata dal grande pensatore e attivista afroamericano W.E.B. Du Bois (di cui il Mulino ha recentemente pubblicato un’eccellente antologia di testi). «Nella guerra delle idee e della memoria scoppiata in Europa e Nord America dopo il 7 ottobre» scrive Mishra, «la narrazione secondo cui la Shoah conferisce legittimità morale illimitata a Israele non è mai apparsa così debole». Sebbene le classi dirigenti dei paesi più ricchi, bianchi e potenti del pianeta continuino a sostenerla, «molta più gente, dentro l’Occidente e fuori, ha iniziato ad abbracciare una contronarrazione secondo cui la memoria della Shoah è stata pervertita per consentire omicidi di massa, mentre al tempo stesso si oscurava una storia più ampia di moderna violenza occidentale al di fuori dell’Occidente». Mishra riflette a lungo sulle due principali narrazioni in conflitto (clashing narratives) intorno al genocidio di Gaza: quella, costantemente evocata in Occidente, della lotta delle democrazie contro gli autoritarismi, e quella, dominante al di là della linea del colore, della lotta dei colonizzati contro i colonizzatori. Questa seconda narrazione, costantemente rimossa in Occidente – ma di cui dà un’impressionante sintesi il giurista argentino Eugenio Zaffaroni nel recente Una storia criminale del mondo – accomuna oggi sette ottavi della popolazione mondiale, e sarà dunque determinante, osserva Mishra, nella strutturazione di un nuovo ordine globale.

Il genocidio di Gaza può dunque essere letto come il prodotto di «un mondo decrepito che non ha più alcuna fiducia in sé stesso e che, preoccupato solo dell’autoconservazione, calpesta i diritti e i principi che un tempo considerava sacri, ripudia ogni senso di dignità e premia violenza, menzogna, crudeltà e servilismo», all’insegna di una nuova banalità del male per illuminare la quale Mishra invoca il Levi indagatore della ‘zona grigia’. Dall’altra parte, però, ‘aprire gli occhi’ su Gaza rappresenta «la condizione essenziale della coscienza politica ed etica del Ventunesimo secolo». Riferendosi in particolare ai giovani e giovanissimi che nelle strade come nelle università si sono rifiutati di diventare «complici della violenza e dell’ingiustizia», ma anche a organizzazioni come Jewish Voice for Peace e Palestine Festival, a cui il libro è dedicato, Mishra scrive le sue parole forse più impegnative: «Si ha sempre più l’impressione che per ripristinare la forza e la dignità della coscienza individuale si possa contare solo sulle persone in cui la catastrofe di Gaza ha prodotto una scossa di consapevolezza etica».

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I libri

Pankaj Mishra, I romantici, Guanda, Parma 2000

Pankaj Mishra, From the Ruins of Empire. The Intellectuals Who Remade Asia, Farrar, Straus & Giroux, London 2012

Pankaj Mishra, Le illusioni dell’occidente. Alle origini del mondo moderno, Mondadori, Milano 2021

Pankaj Mishra, Il mondo dopo Gaza, Guanda, Parma 2025

Franco Berardi ‘Bifo’, Pensare dopo Gaza. Saggio sulla ferocia e la terminazione dell’umano, Timeo, Palermo 2025

Roberta De Monticelli, Umanità violata. La Palestina e l’inferno della ragione, Laterza, Bari 2024

E. Du Bois, Sulla linea del colore. Razza e democrazia negli Stati Uniti e nel mondo, a cura di Sandro Mezzadra, il Mulino, Bologna 2025 (1a ed. 2010)

Anna Foa, Il suicidio di Israele, Laterza, Bari 2024

Tiziano Terzani, Lettere contro la guerra, Chiarelettere, Milano 2024 (1a ed. 2002)

Enzo Traverso, Gaza davanti alla storia, Laterza, Bari 2024

Eugenio Raùl Zaffaroni, Una storia criminale del mondo. Colonialismo e diritti umani dal 1492 a oggi, Laterza, Bari 2025

Marina Jarre, una scrittrice da riscoprire in occasione del suo centenario

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di Anna Toscano

I libri di Marina Jarre, scrittrice il cui centenario dalla nascita cade il 21 agosto, hanno avuto nei decenni quella fortuna alterna che spesso riguarda i libri scritti da donne: molto pubblico, molte lettrici e lettori, e poi la polvere sull’opera. Per Jarre è ancor più strano questo movimento editoriale in quanto ha scritto molto, almeno sedici titoli dagli anni Sessanta al 2011 con editori diversi, da Einaudi a Bollati, solo per citarne alcuni. Un poco alla volta queste prime edizioni hanno iniziato a circolare nelle bancherelle e nelle librerie dell’usato andando a comporre sotto la “J” di Jarre file sempre più lunghe.

Ho incontrato Jarre per la prima volta con Ascanio e Margherita, uscito nel ‘91 per Bollati Boringhieri, un romanzo storico che gira attorno a una storia d’amore dentro una vicenda ampia e dolorosa per la storia del nostro Paese: l’epopea dei valdesi nel Piemonte ducale. Un romanzo storico, misto di storia e di invenzione, non privo di crudeltà e ferocia, in cui emerge poca umanità e rara felicità: narra la decimazione di una minoranza religiosa. Il quadro d’epoca vivo e potente che ne emerge è grazie anche alla scrittura di Jarre, così ordita e composta, come se avesse affondato le mani dentro la storia per testimoniarla, non dimenticarla.

La sua scrittura è, soprattutto per gli anni in cui andava scrivendo e pubblicando i suoi primi romanzi, originalissima e complessa, una scrittura narrativa composta di una incredibile varietà di registri espressivi. Una parte dei suoi libri sono opere miste tra memoir, autobiografia e romanzo, un’altra parte sono romanzi storici: in entrambi c’è una matrice, quella religiosa prim’ancora di quella linguistica.

La questione religiosa è di grande importanza in Jarre: nasce in Lettonia il 21 agosto 1925 da madre valdese italiana e da padre ebreo lettone. Per i primi dieci anni vive a Riga con la sorella e con i genitori, sempre sul piede di guerra tra di loro, e con i nonni; nel ’35 la madre scapperà dalla casa del marito con entrambe le figlie per rifugiarsi prima dai nonni materni e poi a Torino, dove Marina completa le scuole e farà l’insegnante. Superata la guerra e i traumi familiari, il cambio di lingua e di affetti, bisognerebbe dire sopravvissuta a tutto ciò, la sua vita cede il passo all’eternità con figli e nipoti. Rimane sempre aperta la ferita religiosa, non rivedrà infatti mai più il padre e i nonni, e gli amici di Riga, tutti uccisi nella Shoah, e avrà una presenza dominante della madre nella sua vita. La questione religiosa, padre ebreo e madre valdese, diviene la questione principale nella ricostruzione della sua memoria: il padre e i nonni uccisi per la loro religione e lei e la madre salve perché valdesi, ma solo qualche decennio prima sarebbero morte negli scontri in Piemonte.

Il padre assenza e la madre presenza, il padre allontanato nella memoria anche dalle parole della madre e dei nonni materni, un padre sciagurato, e col tempo un padre assolutamente da recuperare dall’ordito di memoria proprie e di altri.

Nel 1987, sempre per Bollati Boringhieri, esce una raccolta di racconti dal titolo Galambra. Quattro storie con fantasmi in cui, con uno stile molto classico e poetico, mette in scena le assenze che divengono presenze nella scena del quotidiano. Questi due libri, molto composti e narrativamente classici aprono la strada a un focalizzare la narrazione, in alcuni dei libri seguenti, sulla sua vicenda familiare. Nell’87 esce per Einaudi I padri lontani in cui pian piano Jarre si addentra nell’autobiografia, come se fino a quel momento fosse stata a guardare il suo passato e basta: “Stavo ferma sulla soglia di me stessa”. Un libro privo di nostalgie o rimpianti, quasi una classificazione dei fatti del passato, dei suoi anni a Riga: un rivedere la madre, il padre, la sorella e i nonni come alla moviola, per ricordarli per fissarli. Una scrittura distacca e ferma la sua, lontana dall’autocommiserazione, talvolta ironica e non priva di freddezze: una scrittura che pone una giusta distanza tra sé e il mondo che si va a rivangare dal passato.

Sarà poi nel 2004 con Einaudi, poi ristampato da Bompiani nel 2023, con Ritorno in Lettonia che affonda nella sua biografia e racconta del viaggio fatto col figlio a Riga per cercare i luoghi che non ci sono più, le persone che sono state fucilate, tra cui il padre con figlioletta seienne a mano, ma soprattutto una riflessione sull’Olocausto, sulla lingua che divide e unisce e sul silenzio che spesso uccide.

Jarre come Edith Bruck nel suo viaggio tra l’Ungheria e l’Italia, la sopravvivenza ai campi di sterminio, l’identità ebraica; o come Ingeborg Bachmann, dall’Austria all’Italia, anche lei in esilio in fuga dalla Guerra, in bilico tra più lingue.

Donne che con la loro scrittura hanno affrontato frontiere, lingue diverse, religione, identità. Claudio Magris diceva di Jarre a inizio Duemila “Con un posto ormai indiscutibile nella letteratura italiana”, ma le luci su di lei si sono affievolite fino al 2021 quando Bompiani ha iniziato a riproporre i suoi libri con la supervisione di Marta Barone.

Da “Lux Aeterna”

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di Sophie Di Silvio

 

dov’è il mio cordone ombelicale?

chi è il dottore che mi ha reciso

il contatto con la vita?

in che barattolo è conservato?

 

al centro della pancia ho un buco

che non si sazia mai

non si rattoppa

ma io ho fame

ho fame dottore

imboccami

dammi da mangiare

sfama questa bocca

 

i denti digrignano

la mandibola si sta per staccare

dottore dove hai messo il mio cordone?

il materasso è pregno della mia puzza

ci sono le macchie di urina da bambina

i peli pubici degli uomini

che hanno cercato la mia anima

(si è nascosta per paura, la volevano tutti —

si è sentita colpevole e ora non la trovo più).

 

il cane si gratta via le pulci

al centro del materasso c’è un corpo morto

con cui dormo ogni notte

mi avvinghio stretta stretta a lui

i miei piedi tentano di riscaldarlo

ma lui li rende freddi

 

sotto al letto c’è il cartone della pizza capricciosa

la conservai per mangiarla

sono passati sedici anni

dov’è il mio cordone?

 

gli scarafaggi camminano sui muri

le antenne fanno da trasmettitore

per la televisione

canale 555

nemmeno i miei angeli mi salvano

 

è così che Dio tratta i suoi figli?

spediti sulla terra che gattonano

bestemmiando sulla vita

per voler fare ritorno nei cieli

a pettinare la sua folta barba sporca?

devo dirti grazie, per questo?

 

dottore ho freddo

la solitudine non mi ha mai resa

così suicida

sono davanti la finestra

con le gambe a penzoloni sul cornicione

vedo il lupo che mi aspetta

(vuole allattarmi)

 

il tremore mi lacera le carni

le mie braccia sono di prosciutto

tienile salde con una vite

conficcata nella morsa

e affettami

 

i miei capelli perdono colore

l’acqua è rossa

faccio il bagno nel sangue di ciliegia

la massa morta mi scalda la schiena

le goccioline giocano a correre

sulla colonna vertebrale

finiscono nel buio del mio ano

il fiume con i pesci stecchiti

mi sgorga tra le gambe

è questo il ciclo di una donna?

 

dottore ho fame

i succhi gastrici mi corrodono il vuoto

sale sale la nausea

tutti vogliono qualcosa dal mio corpo

anche il corpo stesso vuole qualcosa da sé

 

(Lo senti. Lo senti questo brontolio. È lo stomaco

che borbotta. Ha fame. Ingerisci cibo o si ciberà di te.

Lo senti. Continua imperterrito. Strilla. Dagli una caramella.

Fallo stare buono. Cessa il suo piagnisteo. Li senti.

Sono i succhi gastrici. Arrivano. Corrodono.

Hanno un gran lavoro da fare. Immagina. Mangiata dal

proprio corpo. Le ossa non si annientano. Non sparirai –

esisterai nella bocca di un cane. Rosicchiata. Lo senti.

I denti marciscono. Cadranno. Lascia andare.

Giochi a nascondino tra i palmi delle mani)

 

dottore dove hai seppellito

il mio cordone ombelicale?

che madre sarei senza strada?

dottore non far morire la mamma

di questo bimbo

(sono sterile)

 

il materasso è una lastra di metallo

corpo nudo in una sala piena di uomini

(neanche in obitorio sono in pace)

(L’ho sentito nel ventre che affondava i becchi di metallo.

Ravanava alla ricerca di qualcosa da prendere. Trattenevo con  forza.

Ho abortito le parole. Tutte. Mi sono state estirpate dall’interno.

Sono destinata a rimanere solo figlia)

 

dottore il cuore si arresta

le linee non si muovono più

le formiche sono in letargo

(……………….)

*

Immagine: Ana Mendieta.

Quando mio padre finì nel lavello

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di Marta Aiello

La notizia che mio padre era morto me l’ha data lui. Mio padre. Ero andata da lui per comunicargli che io e Carlo ci eravamo separati, anche se era successo già da quasi un anno. Avevo messo in mezzo un tempo di sicurezza, una specie di punto di non ritorno per togliergli ogni speranza in un ripensamento.

Nasconderglielo non era stato difficile, i genitori sanno poco delle vite dei figli adolescenti, di quella dei figli adulti non sanno niente.

Eravamo seduti da soli nella cucina di casa sua, che è anche il salotto dove riceve le visite che ormai sono rarissime e non autorizzano lo spreco di una camera deputata a quest’uso. La cucina di mio padre inoltre è la sua camera da letto perché ci ha messo un divano per gli ospiti che non invita e ormai dorme sempre lì, ospite di se stesso. La cucina fa anche da camera da pranzo, mio padre mangia sul tavolo che usa come scrivania quando non è apparecchiato. Anche il suo studio è in cucina, infatti. È lì che guarda la tv, è lì che mio padre tiene centinaia di libri che nessun dispositivo elettronico è riuscito mai a scalzare definitivamente, sorte che non è toccata alle videocassette ormai obsolete. VHS di film, documentari storici che lui stesso ha registrato dalla tv: tutti i matrimoni delle corti reali, l’attentato alle torri gemelle, l’abbattimento della statua di Saddam, le fumate bianche per l’elezione dei papi, la caduta del muro di Berlino ma anche varie morti del cigno e Coppelie. In uno degli scaffali, nel terzo precisamente, ci sono i filmini di famiglia in vhs, girati con una telecamera oggi guasta. Nessuno li guarderà mai, i videoregistratori non esistono più e l’archivio si perderà ma mio padre non li butta.

Dovremo farlo noi, praticamente è come se ci lasciasse pieni di debiti. Mio padre è un capitalista della memoria, come tutti i capitalisti destinato a vedere scialacquare agli eredi tutto quello che ha accumulato, ricordo dopo ricordo.

Alle spalle del tavolo pieno di carte, fogli e penne e minutaglia dello stesso campo semantico della vecchiaia (occhiali, un portapillole, forbici, cartoleria varia, c’è pure una lente d’ingrandimento, fazzoletti ben ripiegati ma sporchi, fazzoletti appallottolati ma puliti, blister e boccette), c’è una seconda libreria alta fino al tetto, zeppa di libri impilati sia in verticale che in orizzontale. Nemmeno un buco libero, uno sgomento di vuoto adeguatamente rimosso.

Considerando che ce ne saranno una cinquantina per ogni ripiano e che sono in tutto nove ripiani, facendo un rapido calcolo approssimativo, mio padre possiede poco meno di cinquecento videocassette.

Considerando che ogni videocassetta è di quattro ore, fanno quasi duemila ore di scene accadute nelle vite degli altri e nella nostra, che mio padre aveva voluto salvare dall’oblio. Poi basta, poi sono iniziati i primi smartphone e gli archivi storici delle famiglie si sono persi meglio, in più dispositivi guasti la cui memoria pensiamo sempre che recupereremo e forse succederà davvero.

Lo faremo a consuntivo, quando ci volteremo a guardare al passato per raccontarcelo meglio, approfittando del fatto che i morti non ci potranno smentire.

Lo faremo per rivedere le immagini dei volti dei genitori che non siamo riusciti ad amare e finalmente per amarli da lontano, com’è facile amare tutte le cose che non amiamo affatto.

Lo faremo quando sarà troppo tardi per correggere la storia, andarli a trovare, tenergli la mano.

Lo faremo, insomma, quando saremo sgravati dalla possibilità di comportarci meglio.

La cucina-studio-salotto-stanza da pranzo-camera da letto di mio padre è la stanza più piccola della sua casa che ne ha in tutto cinque: la cucina, lo studio, il salotto, la stanza da pranzo, la camera da letto, ognuna di queste grande almeno il doppio della cucina dove sono certa che, se potesse, mio padre farebbe montare un cesso.

Con tutte le sue cose, mio padre vive lì dentro da anni ormai come se lo scarico del lavello, un po’ alla volta avesse risucchiato oggetti e funzioni e memorie. Che poi è quello che fa la vecchiaia, risucchia le cose e le consegna alla morte che le ingoia.

Le case ci somigliano e nel tempo, la sua si è ridotta sempre di più, come se cercasse una consuetudine progressiva con la bara che diventerà la sua ultima casa.

Eravamo seduti da soli, io e mio padre, nella cucina di casa sua e lui mi guardava senza vedermi. Non perché è vecchio, è stato così sempre. Io non gli interesso.

Per questo quando vado a trovarlo non parlo mai di me ma di cose generiche, notizie del telegiornale per lo più.

A un certo punto mi ha interrotto seguendo il filo dei suoi pensieri e ha esclamato:

“Lo sai chi è morto?”

“Chi?”

“Il mio amico…”, e ha detto un nome.

“Ma chi è?”, ho fatto io che non l’avevo mai sentito nominare. Di solito, infatti si trattava di sconosciuti che mio padre stesso non aveva mai frequentato né stimato né degnato di un pensiero e che diventavano suoi amici solo quando ne leggeva i necrologi sul quotidiano, che acquistava esclusivamente per tenersi informato sui defunti della città. Suoi coetanei, soprattutto.

Non usciva di casa quasi più mio padre, ma per questi morti indossava il loden blu, si faceva mandare un taxi e partecipava ai loro funerali.

Una volta l’ho accompagnato io. Stavo seduta su una panca in fondo alla Chiesa e lo osservavo.  Nel breve tragitto verso la bara posta sotto l’altare, l’ho visto rinverdire, sollevare le spalle in una postura di composta dignità, muoversi agile nella piccola folla degli intervenuti, stringere la mano a questo e a quello, guadagnare la scena come un parente stretto del defunto, rivolgere a tutti espressioni di contrizione per un morto che non poteva sollevarsi a sedere nella cassa, dare di gomito a qualcuno ed esclamare “Ma questo chi cazzo è?”

Ha terrore di morire mio padre e le morti di questi sconosciuti che, tutti in riga davanti ad un plotone d’esecuzione vanno cadendo, lo rassicurano. Come se la morte fosse un idolo pagano da placare sacrificandogli un numero specifico di vittime che non può essere superato: sette fanciulli e sette fanciulle per il Minotauro per dire, antichi retaggi della sua cultura classica.

E insomma, a un certo punto gliel’ho detto, “Io e Carlo ci siamo separati quasi un anno fa. A giugno, ed è definitivo. I ragazzi l’hanno presa bene, la casa dove mi sono trasferita è vicina alla nostra. Insomma, alla casa dove Carlo è rimasto. I ragazzi sono grandi, vanno e vengono. Una settimana da lui, una da me”.

Ho aspettato tutto il silenzio che è venuto dopo e d’un tratto mi è venuta una tenerezza che da me, proprio non mi aspettavo. Per la soddisfazione d’essere riuscita a dirglielo senza temere il suo giudizio, di colpo lo volevo abbracciare come ci succede dopo una vittoria. Che cosa avevo vinto? Una nuova solitudine, lo sapevo già. Ma era la mia, era quella che avevo scelto. Ho resistito all’impeto, sono rimasta immobile e a un certo punto, lui mi ha guardato con tristezza.

“Mi dispiace per Carlo”.

Ho avuto bisogno di qualche istante per capire. Ero rimasta senza casa, la mia vita era andata in pezzi.

“E per me non ti dispiace, papà?”

“Tu sei forte”, ha detto. E non era un complimento.

Forse avevo sbagliato le parole per dirlo.

Avevo davanti agli occhi interi scaffali pieni di libri zeppi di parole, combinazioni innumerevoli di un seppur sparuto alfabeto e stavano chiuse tutte lì, dentro i libri che non mi avevano aiutato, scrigni senza chiave. Avevo usato le parole nella combinazione sbagliata.

Sono rimasta per un po’ a fissare i libri di mio padre. Non erano i miei, non aveva mai voluto che li toccassi. Appena ero stata più grande, i libri avevo iniziato a comprarmeli da sola e moltissimi erano copie di quelli che avevo in casa, nelle librerie di mio padre a cui non avevo accesso. Per questo i libri io li leggevo con fame, come in seguito avrei fatto ogni cosa che mi era stata negata, ma li trattavo sempre male, anche quelli che amavo. Amavo le parole, non i libri. Segnati a penna, con un pennarello che rendeva illeggibile la pagina del retro, lordati con disegnini e numeri di telefono appuntati sul momento, irti di emoticon ai margini, strappati, spiegazzati, con le pagine unte, le macchie di caffè e trucco ovviamente, coi dorsetti scollati e le copertine con i buchi delle ‘O’ e delle ‘A’ campiti con la biro, con segnacci orizzontali di penna sulla prima pagina, quella bianca, profondi come di lama di coltello, incisi scarabocchiando per far uscire l’inchiostro di una bic, mollati per terra, lanciati con un calcio sotto il letto, persi per incuria, abbandonati sotto il banco di scuola, prestati a chiunque  senza richiederli indietro, gonfi e sformati perché caduti dentro la vasca da bagno e poi asciugati col phon o sul termosifone, messi a faccia in giù in castigo e schiaffati per terra, pieni di orecchie. I miei libri hanno subito da me tutte le angherie.

Eravamo seduti da soli, io e mio padre, nella cucina di casa sua. L’uomo contro cui avevo lottato e ora intendevo mettere di fronte alla verità della mia vita non esisteva più. Al suo posto c’era un vecchietto terrorizzato dall’idea di doverla fare finita. Non avevo più niente da dirgli, ho aspettato qualche minuto almanaccando dentro la testa una scusa qualunque per andarmene.

Mi sono alzata e ha detto:

“Ma lo sai che sono mesi non leggo più?”

“In che senso?” ho detto allarmata, “cosa non leggi, papà?”

“Niente. Non leggo più niente”.

“Romanzi? Saggi?”

“Niente. Neanche giornali”.

“E i necrologi?”

“Nemmeno”.

“Mesi? Cioè, da quando?”

Non mi ha risposto. Gliel’ho chiesto di nuovo “Da quanto tempo?” ma lui, niente.

Ho gridato, “Da quanto tempo, papà?”

Ha guardato un punto lontano ma non era distratto da qualcos’altro che aveva attirato la sua attenzione, semplicemente non guardava più nulla e si è alzato in piedi. Dovrei dire che in quel momento, mentre lo vedevo indietreggiare verso lo scarico del lavello, sempre più distante e più piccolo, girare su se stesso come dentro un vortice, salutarmi col braccio sollevato, poi la mano soltanto, lo sfarfallio delle dita a farmi ciao, scomparire risucchiato, ho provato nostalgia. Ma anche in questo caso, sbagliavo le parole. Non si ha nostalgia di quello a cui, anche potendo tornare indietro, non si tornerebbe affatto.

Mio padre era morto da quasi un anno e mi mancava come quando era vivo. Ci sono persone che non rimpiangiamo per quello che sono state ma per quello che avrebbero dovuto essere e non sono state mai.

Non avrebbe saputo della mia separazione. Non eravamo seduti da soli, io e mio padre, nella cucina di casa sua. Non era vero niente.

 

 

Su “Parte lesa”

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Massimiliano Cappello, Parte Lesa, Arcipelago Itaca, Osimo (AN) 2025

di Ugo Fracassa

Abbiamo convenuto che ne parla solo chi c’era”: questa la policy per una voce poetante che, in Parte Lesa, titolo d’esordio di Massimiliano Cappello (Arcipelago Itaca, 2025), pare provenire da un fiancheggiatore, cronista embedded impegnato a riferire in pubblico (quello residuale della poesia) ciò che riguarda una parte – militante, antagonista – e che, pertanto, solo pochi intendono. Tuttavia, chi possiede la chiave di lettura non necessariamente coincide con il pubblico dei lettori potenziali, non è qui il destinatario. In ciò consiste la difficoltà del testo, la sua presunta oscurità (“in codice”, lo definisce Andrea Inglese che firma la postfazione): “No’ tuto quelo che penso e vedo / Vol i me versi spiegar e dir…”, giusta la professione di reticenza di Giacomo Noventa, qui esibita tra gli esergo. D’altra parte, non importa quanto ristretto il circolo dei “lettori modello” in possesso del grimaldello ermeneutico atto a decrittare il testo, dal momento che “si è sempre chiari per qualcuno e oscuri per qualche altro”, e non soltanto in poesia, secondo quanto riferiva Franco Fortini, intervistato da Alfonso Berardinelli (“Dell’oscurità”, 1973).

Il “lettore reale” che voglia intendere, dunque, è chiamato a confrontarsi con queste pagine come se si trattasse di un percorso di iniziazione; un apprendistato spesso frustrante che costringe a dover resettare, a ricominciare da capo a ogni piè sospinto, a ogni volgere di pagina. Ciò che spiega i numerosi Insert coin disseminati nella raccolta, brevi prose caratterizzate dal prefisso 0, come a negare l’ordinamento progressivo del libro di poesia. Il primo dei tre collocati in conclusione della raccolta finisce su questo a capo: “Vi dobbiamo sembrare incomprensibili”. Una clausola ambigua, tra l’apodittico e il suppositivo, giocata cioè sul registro dell’anfibologia, uno dei tratti caratterizzanti il profilo retorico di questo esordio. Risuona qui l’eco lontana – giusto mezzo secolo – di un altro esordio poetico (Strana categoria, ciclostile del 1975 appena ripubblicato in versione digitale da Diacritica), di un’altra militanza – trotzkista, novecentesca –, quella di Carlo Bordini: “noi vi dobbiamo sembrare una strana categoria” (un noi all’epoca genericamente assunto ad indicare l’“intellettuale di sinistra”).

Parte lesa è titolo che pesca nel vocabolario della giurisprudenza, una “lingua speciale” o linguaggio settoriale che connota in queste pagine lo Stato come contro-parte. Anche il testo di legge, almeno dal punto di vista strettamente linguistico, è testo per pochi, ma la legge, in quanto nòmos, non ammette ignoranza, anche se la giustizia (sociale) è spesso negata: “In realtà è una vecchia storia, quella che oppone díke e nómos, legge divina e legge umana” (p. 7). La stessa Storia (filosofia della) cui Walter Benjamin aveva dedicato, alla fine degli anni Trenta, alcune Tesi, la più celebre delle quali afferma: “Non è mai documento di cultura [giuridica] senza essere, nello stesso tempo, documento di barbarie [politica]” (mie le integrazioni tendenziose in parentesi quadra). Tuttavia il riuso del codice nel titolo della raccolta è immediatamente volto in funzione parodica, ovvero di controcanto (canto-contro), poiché “certe lotte per la casa, per gli spazi, per i territori […] non bastano i decreti, le sentenze o le persecuzioni per allontanarle” (p. 7). Nella fattispecie, all’Ente immobiliare costituitosi come parte lesa nel processo (seguito, nel 2022, all’occupazione di spazi abitativi a Milano, nel quartiere Giambellino), si sostituisce qui la soggettività poetica dal cui trauma, non legato alle vicende milanesi soltanto, scaturisce il testo: “fine aprile, notte senza aggettivi, è in ogni fibra delle palizzate che proteggono i vetri ancora integri su Rue Tolbiac, tamburi, chi c’è c’è […] / sono scene primarie, ma non c’è l’amore dentro” (p.9). Bisogna saper leggere, insomma, a partire dal titolo che va interpretato in senso contro-informativo. Inoltre, mutato il segno della formula, l’accento pare cadere piuttosto sul primo membro del sintagma – “parte” – che non sul secondo, in accezione più faziosa e partigiana che traumatica o vittimistica, per intenderci. Ciò che conta innanzitutto qui è la “parte”: riconoscerla, sceglierla, prenderla (“il meglio che ci può succedere è […] prendere una parte”, p. 21) e stare da quella.

A favore dell’urgenza comunicativa di questo avventato esordio ben oltre la cerchia dei sodali e dei coinvolti – di coloro, cioè, “de quibus fabula narratur” (cfr p. 10) – testimoniano i due corsivi che inanellano il testo: Circostanze attenuanti e aggravanti e Le cose in chiaro. Le due prose esplicative, tessute su un unico filo del discorso (la prima termina: “Ma non è nemmeno questo il punto” (p. 7); la seconda riprende: “il punto è che si parla di una cosa […]” p.69) costituiscono viatico per il lettore avventizio, a favore del quale ci si sforza di assicurare un minimo ancoraggio referenziale. Vi si legge, in particolare, che i riferimenti a una particolare lotta (quella per la casa, ad esempio) se valgono come archivio di immagini di una “vita non imposta” – formula dallo spiccato retrogusto francofortese –  non costituiscono però il nocciolo della questione. Ma intanto, se nel fuoco della controversia c’è “di che credere di essere vivi” (p. 13), si tratta allora di “espandere un presente non ostile” e di fare di questo tentativo “un’arte” (p. 69). Non può non tornare a mente qui, come frammento di memoria involontaria ereditato dal patrimonio della cultura egemone, la professione di fede riformista del Marco Polo calviniano nel celebre finale delle Città invisibili: “riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”. In altre parole, l’aver preso parte, fino al rischio di pagare in prima persona, potrebbe non bastare a sanare il gap dell’appartenenza di classe per il poeta fiancheggiatore: “pensa sentirsi dare del borghese con le manette ai polsi” (p. 11).

Quale, allora, “il punto”, il “referente” ormai scomparso e impronunciabile sulle tracce del quale muove l’autore nei due corsivi allestiti ad uso del lettore empirico? “Si parla di una cosa” che tornare a menzionare suonerebbe “quasi ridicolo” (p. 69) alle orecchie di “chi tra noi […] si era già fatto ormai da tempo in parte / lesa” (p. 20). Che si tratti di quella “cosa” sognata dai personaggi del primo romanzo di Pasolini alle soglie degli anni Cinquanta o di una sua versione attenuata e up to date come il bene-comunismo, per “i defraudati di ogni referente” incatenati alla “repressione” (p. 20) le parole e le cose patiscono la medesima lesione.

Se la “storia” sia una “sceneggiatura cangiante” dove i “rapporti essenziali” restano “inalterabili” (p. 69), è il quesito irrisolto posto in clausola alla raccolta, proprio in fondo al corsivo Le cose in chiaro. E se con essenziali si allude ai rapporti sociali, ecco trasparire come in filigrana la traccia testuale di un materialismo dialettico che, dalla vulgata marx-engelsiana, è ricondotto a ritroso fino ai suoi prodromi presocratici. L’Insert coin intitolato Eraclito 53, infatti, tra rider pedalanti e fumiganti comignoli di CPR (cfr. p. 30), rimanda al frammento del Περί ϕύσεως che recita: “Pólemos [il conflitto] è padre di tutte le cose, di tutte re; e gli uni disvela come dèi e gli altri come uomini, gli uni fa schiavi gli altri liberi”. È proprio a favore di chi ha ambito ad agire nel presente quel conflitto per operare “sullo stato delle cose” (p. 30), mosso da un “odio” di cui questo esordio intende recare traccia, che la voce poetica di Massimiliano Cappello si costituisce oggi “parte lesa”.

Ma per venire all’ambiguità di fondo su cui principalmente insiste il regime anfibologico della scrittura di Cappello, è proprio a quell’“odio” che dobbiamo guardare. Non si tratta, infatti, inequivocabilmente di un odio di classe o, almeno, non è infine declinato come tale. Si tratta piuttosto “dell’odio di una specie nella sua estrema guerra contro l’aleatorietà della vita” (p. 69). L’impressione è che una simile guerra non possa essere vinta ma che, nello stesso tempo, non sia concesso deporre le armi. Al riguardo parla chiaro la citazione leopardiana posta in esergo: “Men duro è il male che riparo non ha? dolor non sente / Chi di speranza è nudo?”. In altre parole, nello iato tra lotta di classe e “guerra di specie” si apre una contraddizione che l’autore ha il merito di lasciare aperta, beante come una vena recisa. Ciò vuol dire affrontare il rischio umanitario/umanistico che la lotta riguardi i repressori coi repressi, i giudici insieme ai giudicati, in quanto sottoposti entrambi all’“aleatorietà” di quel destino. Peraltro, la proiezione interclassista di quel “mal che ci fu dato in sorte” (Leopardi ne La ginestra) ovvero di “una mortalità promessa miserabile” (qui a p. 29), si rende più evidente in Parte lesa in ragione della dialettica tra i due principali poli geografici rappresentati: Feltre (p.zza Isola, Via Basso) / Milano (Giambellino, tribunale ecc.). Il bipolarismo tra polis e heimat connota infatti la rappresentazione del trauma rispettivamente come sconfitta politica su sfondo metropolitano e come lutto personale patito nel luogo d’origine. “In qualche sempre più rado weekend ci torno, a Feltre, a piedi, sulle mani” (p. 36), principia l’Insert coin che porta il nome di Dori, figura paterna acquisita al tempo della prima formazione politica ancor prima di lasciare il paese. Nell’episodio della traslazione clandestina della salma di Dori, viene inscenata l’assimilazione al natìo di una figura rispetto alla quale viene infine rivendicato un apparentamento su base personalistica, prima ancora che intellettuale o ideologica: “ti abbiamo trascinato sette piani perché morissi dove io ero nato”.

Di fronte al comune “destino di aleatorietà”, insomma, non sorprende, col senno di poi, che Luigi Di Ruscio poeta operaio ed Emile Cioran filosofo esistenzialista fossero giunti, tra il 1953 e il ’68, a formulazioni pressoché sovrapponibili partendo da presupposti di populismo progressista, da una parte, e di un cupo nichilismo, dall’altra. Il titolo d’esordio di Di Ruscio, infatti, apprezzato e prefato da Fortini per i suoi “gridi anarchici”, è tornato quasi identico in un appunto del filosofo di quindici anni posteriore (vi si descrive la figura dell’ormai anziano Gabriel Marcel, scrittore e pensatore cristiano), al punto che mi è possibile qui proporli entrambi in una citazione sola: “Non possiamo abituarci / rassegnarci a morire”.

Le voci si affollano e si sovrappongono anche nel dettato strenuamente citazionale di Parte lesa, al punto che il recensore si rende conto ben presto di non poter raccogliere la sfida del testo a riconoscere, fuori e dentro le virgolette, l’intero repertorio sotteso ed esibito fin nei titoli (cfr. il kafkiano Teatro naturale di Oklahoma). Importa però rilevare la strategia del riuso che mira a un’escursione semantica, eventualmente declinata su di un registro ludico, fino ai limiti dell’antifrasi. Un paio di esempi: a proposito dei “tentativi più o meno maldestri di ‘accennare a una musica sfuggente’ (come una volta è stato detto meglio di quanto io non possa fare adesso)”, il testo immediatamente prosegue: “Ovviamente bisogna avere orecchio, o farselo” (p. 69), in tal modo facendo seguire al parentetico moto di deferenza per una citazione tipograficamente esposta lo sberleffo pop di una citazione canzonettistica, ma dallo spiccato sentore meneghino; al dantesco titolo di Cocito corrisponde una composizione che si conclude come segue: “A dar morte e a morire mai nessuno senz’ira è venuto”  (p. 47), dove l’eco manzoniana (il Coro del secondo atto del Conte di Carmagnola) è risolta, previa inversione di segno, in antifrasi (“Qui senz’ira ognun d’essi è venuto”, si legge nell’originale).

La memoria letteraria di quel Coro, col suo sapore scolastico (l’incipit è celebre e di norma antologizzato nei manuali scolastici: “S’ode a destra uno squillo di tromba; / A sinistra risponde uno squillo:”) suggerisce infine un’ultima riflessione a margine di questo esordio poetico. Quello scolastico infatti costituisce un tema secondario della raccolta e insiste sul doppio fondo di un libro capace di contenere, in meno di settanta pagine, le strutture portanti di un bildungsroman. A partire dal primissimo componimento e fino all’ultimo rigo del corsivo finale, eventualmente dissimulata sul filo persistente dell’anfibologia, torna la memoria, anche lessicale, della scuola. Non diversamente dal Sereni di Una visita in fabbrica, cui il fantasma sonoro della sirena che udiva da ragazzo “tra due ore di scuola” subentrava a quella di una “lontanissima” officina, il poeta qui affianca  richiamo delle sirene che disperdono i manifestanti a Gare d’Austerlitz la similitudine con le “campanelle di una scuola” (p. 9). La questione capitale e irrisolta su cui Parte Lesa si chiude nelle ultime righe del corsivo finale – se sia la storia “inalterabile” seppure “cangiante” (p. 69) – induce un’ultima e subitanea regressione alla stagione degli studi liceali: “Sembra uno di quei compiti in classe che ci si sogna anni dopo l’esame di maturità, da adulti. Io, sinceramente preferirei una verifica su questa vita”, dove la doppia accezione del sostantivo verifica, mentre lascia risuonare un’ultima volta armoniche fortiniane, fa aggio sul significato della parola in ambito didattico, dove ha progressivamente sostituito proprio la locuzione di “compito in classe”. Ma è forse nella citazione esposta (interamente trascritta in maiuscolo) dalla filastrocca Alphabetum, composta da Edoardo Sanguineti per il figlio Federico, che il sottotema della scolarità e quello principale della militanza, e dei suoi rischi, entrano in contatto deflagrando in un corto circuito:

“Io che sussurro al Gatto: – questa cosa avviene

e lui: – ma sottotitoliamo ai democratici

et io sottovoce: – CHE ANDERÀ IN PREGIONE

Haskell Indian Nations University — Dall’oppressione all’opportunità

0

 

 

 

di Francesca Beretta

A 45 miglia a sud ovest di Kansas City c’è la Haskell Indian Nations University. Siamo a Lawrence, Kansas, nel cuore degli States e Haskell è un mondo a sé, così come buona parte del Midwest. Se pianifichi di visitarla, l’America, quella delle coste, dei grandi parchi, dei grattacieli luccicanti, di qui non ci passi. Eppure se la cerchi, l’America, quella profonda, quella delle pagine buie che non vuoi ascoltare, Haskell ti parla. Viene fondata nel 1884 come Indian Industrial Training School, una scuola di assimilazione, risultato della politica governamentale degli Stati Uniti che, oltre a quello umano, mette in atto un genocidio culturale strappando centinaia di migliaia di bambini e giovani nativi dalle loro terre e comunità ancestrali per integrarli nell’America mainstream, bianca e cristiana. “Kill the Indian, save the man” (“Uccidi l’indiano, salva l’uomo”), era il motto.
Oggi Haskell University è l’esatto opposto: è un luogo di memoria, guarigione e futuro. È l’unica università intertribale degli Stati Uniti. Qui, a studiare e insegnare, sono soltanto coloro che appartengono a comunità native federalmente riconosciute — incluse quelle dell’Alaska.
Vedo Travis per la prima volta durante il Powwow organizzato dal Lied Center, uno dei centri per le arti performative dell’adiacente University of Kansas, che ogni anno celebra i popoli nativi con danze, canti e cortometraggi. In uno di questi, Travis — direttore dell’Haskell Cultural Center & Museum — racconta la storia dell’Haskell Memorial Stadium, il primo stadio di football americano illuminato e interamente sovvenzionato dai popoli nativi, in particolare dalle tribù Quapaw e Osage, sparse in Oklahoma. Alla costruzione contribuirono anche alcuni studenti, che donarono la quota del biglietto ferroviario da Lawrence all’Oklahoma e tornarono a casa a piedi. Google Maps può dare un’idea della distanza percorsa. All’ingresso dello stadio si trova un arco commemorativo, finanziato da due donne Quapaw, in onore degli studenti di Haskell caduti durante la Prima Guerra Mondiale. «Un arco femminista», racconta Travis, in un’epoca in cui le donne avevano poca voce, e quelle native ancora meno. Oggi, come allora, lo stadio di Haskell fornisce elettricità al faraonico impianto di football della University of Kansas, precisa con orgoglio, mentre il team di Haskell è stato smantellato, segnando la fine di una lunga tradizione sportiva.
Decido di andare a trovare Travis in un giorno di aprile. Entro nel museo e gli dico che mi piacerebbe scrivere di Haskell. Certo, dice lui. Ma prima devo passare per il Bureau of Indian Education, a cui mando un’email con le domande per l’intervista e due righe sulla rivista a cui manderò il pezzo. Nazione indiana. Figures! Ci sta! Un paio di settimane dopo arriva il via libera e ritorno ad Haskell.

Travis, cosa vorresti che i lettori sapessero o comprendessero meglio riguardo ai popoli nativi americani?

Per prima cosa vorrei che tutti comprendessero che le comunità dei nativi americani sono una parte viva del mondo moderno e non sono solo quelle relegate a serie TV e film che le ritraggono vivendo in teepee (n.d.r. tende a forma di cono) e cacciando bisonti nelle grandi praterie. Questa è una narrativa tipica delle comunità delle Grandi Pianure, tra Sud Dakota, Oklahoma, Texas e la parte orientale del Colorado. [Menziono qualche film come Balla coi lupi e Windtalkers] No, non siamo tutti Lakota (Sioux), né Navajo (Diné). Anche negli Stati Uniti, quando si parla di comunità native, il pensiero corre spesso a questi due popoli, che però non rappresentano la maggior parte di noi. Io appartengo ai Cherokee del Delaware: i miei antenati vivevano sulla costa est, erano agricoltori e pescatori, cacciavano cervi e conigli. Oggi risiediamo in Oklahoma, a seguito del trasferimento forzato avvenuto nella metà del diciannovesimo secolo.

Quando è stato fondato l’Haskell Cultural Center and Museum?

Il museo è stato inaugurato nel 2002 con l’obiettivo di condividere il nostro passato, presente e futuro con i nostri studenti, la comunità e i numerosi visitatori internazionali che passano di qui. Quest’anno, ad esempio, ci ha fatto visita una studentessa proveniente dalla Corea del Sud, impegnata in una tesi di dottorato sulle boarding school per i popoli nativi. Grazie a un finanziamento ottenuto dalla sua università, ha trascorso tre giorni tra il nostro campus, la Kenneth Spencer Research Library della University of Kansas e i National Archives di Kansas City, dove sono conservati i documenti ufficiali di Haskell. Mi sono laureato qui otto anni fa e tra due anni anche i miei file di studente andranno lì. Ogni anno registriamo un incremento graduale nel numero di visitatori. Nel 2024 abbiamo accolto 3.910 visitatori, battendo ogni record, ma ci aspettiamo che quest’anno siano più numerosi. È molto importante per noi, ed è per questo che abbiamo una presenza online significativa, soprattutto sui social media, per far conoscere la nostra realtà.

Ci sono reperti o mostre specifiche nel museo che hanno un particolare significato emotivo o culturale?

L’evento più commovente dell’anno è senza dubbio l’Haskell History Exhibits, perché si concentra in particolare sui primi anni della scuola e su ciò che gli studenti sperimentavano in quel periodo. Tra i manufatti esposti ci sono, ad esempio, due paia di piccole manette, usate durante i lunghi viaggi in treno per trascinare con la forza i bambini all’istituto. Qui venivano spogliati di tutto: del loro nome, dei vestiti, dei capelli, e puniti per qualsiasi pratica linguistica, culturale o spirituale che richiamasse le loro origini. Arrivavano anche dall’Alaska, quando non era ancora uno Stato. È fondamentale ricordare che Haskell nasce come scuola di assimilazione. Tuttavia, grazie a decenni di duro lavoro e alla determinazione di insegnanti, personale e amministrazione, abbiamo superato quella missione originaria. Oggi siamo un’università quadriennale che offre istruzione gratuita a tutti i membri delle comunità native riconosciute a livello federale.

Durante l’ultimo Powwow, mi sono imbattuta in alcuni progetti documentaristici realizzati dagli studenti. In che modo la tecnologia viene utilizzata per connettersi con comunità più ampie al di fuori dell’università?

I progetti audiovisivi sono tra gli strumenti più potenti per catturare l’essenza dei tempi moderni e imprimere un’immagine duratura di chi siamo oggi. Abbiamo un paio di filmati che sono disponibili su YouTube, specialmente per quei visitatori che non possono raggiungerci o non hanno tempo di guardare l’intera mostra. Possono farlo da casa, attraverso il computer o il telefonino. Tra cent’anni sarà possibile vedere quello che stavamo facendo qui e com’era Haskell University, com’ero io fisicamente, che voce avevo, com’era parlare con me in questo momento, e penso che YouTube e i social media ci diano l’opportunità di raggiungere il mondo intero. So che non è realistico pensare che tutti possano venire a trovarci, ma condividendo video o altri contenuti che permettono alle persone di vederci, conoscerci e sapere che esistiamo, beh, questa è la cosa migliore dopo una visita di persona. Al momento sto lavorando alla traduzione del nostro tour audio in quante più lingue possibile, per renderlo accessibile a livello globale. In questo modo, chiunque potrà comprendere ciò che esponiamo, conoscere la nostra realtà e sentirsi parte di essa. Non abbiamo ancora una data precisa per il completamento del progetto, perché sto portando avanti tutto da solo, e il lavoro è piuttosto complesso.

Gli dico che per la traduzione in italiano ha un aiuto assicurato. Conclusa la chiacchierata con Travis faccio un tour del museo, all’entrata del quale campeggia la scritta From Oppression to Opportunity. The story of Haskell. Mi fermo davanti a quadri, postazioni interattive, manufatti, poesie, bandiere, costumi tradizionali, collezioni di documenti, vecchie lettere digitalizzate, fotografie e filmati. Come riportato nella guida per i visitatori, il museo di Haskell è uno spazio di memoria e sofferenza, ma anche di guarigione ed educazione. Un luogo che rende omaggio alla resilienza e alla forza delle comunità native che hanno vissuto il trauma della cancellazione culturale. E che oggi celebra la rinascita di lingue, culture e tradizioni che continuano a vivere e prosperare.

Kim Simonsen: l’oceano, i pesci, l’uomo

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di Giovanni Agnoloni

I due testi che seguono sono tratti dalla postfazione del traduttore Giovanni Agnoloni al volume di poesie del faroese Kim Simonsen “La composizione biologica di una goccia di acqua di mare porta con sé l’eco del sangue nelle mie vene”, pubblicato di recente da I libri di Mompracem

La prima volta che incontrai Kim Simonsen fu nell’agosto 2015, durante una residenza letteraria presso Hald Hovedgaard, nelle campagne intorno a Viborg, in Danimarca. Io e gli altri scrittori ospiti sapevamo del prossimo arrivo di un poeta delle Isole Fær Øer, anche se non avevamo idea del momento esatto. L’attesa si protrasse un paio di giorni più quanto avevamo immaginato, tanto che ci preoccupammo un po’. Passato il fine-settimana, però, eccolo entrare nella cucina comune della residenza con aria tranquilla, salutandoci affabilmente e spiegandoci che aveva avuto impegni imprevisti a Copenaghen. Cenammo insieme e iniziammo a parlare del nostro lavoro letterario. Il suo mi attirò fin dall’inizio, tanto che gli proposi di tradurre in italiano qualche sua poesia per il blog “La Poesia e lo Spirito”, cosa che poi in effetti avvenne, seguita, nel 2019, da un tentativo – purtroppo naufragato a causa della pandemia – di invitarlo una prima volta a Firenze per un reading.

Ma non fu questo a contare. Fu proprio quel suo modo silenzioso e quasi dimesso di arrivare e di iniziare a conversare, come se fosse spuntato dalle foreste o dal lago intorno alla residenza. In altre parole, come se fosse stato un tutt’uno con la natura di quei luoghi. È infatti precisamente questo il nucleo della sua poetica contemplativa, e direi perfino meditativa: il tutto, l’holos che abbraccia gli esseri umani, le creature viventi e il mondo nel suo insieme e in ogni sua parte, e il “racconto” per impressioni – o per epifanie – che le sue liriche incarnano.

Si tratta peraltro di tematiche che, come evidenziato dai versi inclusi in questa raccolta, sono al centro degli interessi dell’autore nelle vesti di accademico, e che appassionano profondamente anche me come scrittore e traduttore. Per questo, quando Kim, circa un anno fa, mi ha parlato di questo suo nuovo libro, già uscito in faroese e al tempo in corso di traduzione inglese, l’idea di progettare una versione italiana – partendo dal testo americano di prossima pubblicazione, a cura di Randi Ward, ma appoggiandomi ove necessario alle assonanze tra il faroese e lo svedese – mi è sorta spontanea.

Fin dal titolo emerge il sottile ma evidente nesso tra la biologia umana e la biologia e la chimica organica e inorganica dell’oceano e di tutti i corsi e gli specchi d’acqua. Conseguenza naturale dell’origine faroese del poeta, qualcuno potrà pensare. E in parte può essere vero. Il remoto arcipelago delle Fær Øer è situato ai margini tra l’Atlantico settentrionale e il Mar di Norvegia, e a metà strada tra le Isole Shetland (le più a nord della Scozia) e l’Islanda. La sua lingua infatti somiglia più all’islandese che a quelle scandinave – e in specie al danese, dato che le Fær Øer appartengono ancora alla corona di Danimarca, pur essendo autonome per le questioni interne fin dal 1948. Insomma, la natura di queste isole è profondamente imbevuta dell’umidità oceanica, capace di insinuarsi in tutte le sue nicchie, in ogni anfratto del paesaggio, entrando fin nel midollo del legno, della pietra e della pelle dei suoi abitanti. Luoghi di mare e di monte, di pesce e di carne allevata e cacciata, aspri e al contempo armoniosi, con fugaci squarci di luce netta che si espandono durante le brevi estati e frequenti nebbie capaci di rendere tutto indistinto, facendo sfumare il confine tra realtà e sogno, forme viventi e spettri.

Consideriamo tutte queste come premesse o suggestioni preliminari all’immergerci in una sorta di concept-book, che è appunto un concetto più evoluto della semplice idea di una silloge poetica. È quasi una sinfonia in quattro movimenti che ruota attorno alla profonda (e plurisfaccettata) interazione tra l’universo liquido che tutto permea e un’umanità – che mi viene da definire “superstite” – che giunge alle sue sponde, ancora una volta, in silenzio e quasi dimessa. È questo che accade al poeta, di ritorno a casa nei giorni della morte di suo padre. La presenza dell’autore-contemplatore in questi luoghi fa sempre corpo unico con quell’assenza vigile, legandovisi come una particella e un’antiparticella capaci di non annichilirsi a vicenda. E questo muto dialogo, riemergendo in più momenti come il tema musicale di una passacaglia – del resto, annunciato fin dall’inizio: «Stamani è morto mio padre» –, getta luce e significato sul fiume interiore di ricordi e sul treno di riflessioni filosofiche che seguiranno circa il rapporto tra la condizione umana e il Tutto, strettamente legate alla sostanza di quei paesaggi.

In sintesi, questo libro nasce e si sviluppa nel punto d’intersezione tra l’esperienza di vita di Kim Simonsen, la natura delle Isole Fær Øer e gli interessi accademici e filosofici dell’autore, già docente all’Università di Bergen e, in seguito, ricercatore presso l’Università di Amsterdam e oggi presso l’Accademia di Reykjavik, e legato ai temi non solo dello studio dei nazionalismi, ma anche del pensiero eco-critico, del postumanesimo (una sorta di versione aggiornata dell’umanesimo in chiave di integrazione dell’essere-uomo con la dimensione del “non umano” e in particolare con i ritrovati dell’evoluzione informatica e biotecnologica) e del nuovo materialismo (un insieme di teorie volte a reinterpretare il materialismo in ottica non antropocentrica), con significative manifestazioni d’interesse per autrici e studiose come Donna Haraway (favorevole al superamento dei dualismi non solo di genere, ma anche tra natura e dimensione artificiale), Astrida Neimanis (propugnatrice del cosiddetto “idrofemminismo”, un’altra modalità non duale di guardare alla vita, partendo da una prospettiva imperniata sull’acqua, che permea i nostri corpi così come forma gli oceani) e Jane Bennett (sostenitrice di una visione detta “materialismo vitale”, per cui tutto è imbevuto di un’intrinseca forza vibrante, che abbraccia e corre attraverso tanto gli esseri umani quanto le cose). Infine, a queste considerazioni di natura teorico-filosofica (in particolare a quelle neomaterialistiche) si aggiunge la coscienza linguistica (sia pur non in senso “nazionalistico”) dell’autore, che qui scrive in faroese, un idioma con un’antica tradizione letteraria orale, ma formalizzato in un sistema di regole intorno alla metà dell’Ottocento e “nato” con le prime opere pubblicate all’inizio del Novecento.

Il senso del pensare poetico (e del poetare filosofico) di Kim Simonsen consiste proprio nel compiere il salto verso un’origine profonda e in sé indicibile, che si manifesta nel dare “voce e pensiero” all’universo oceanico e agli stessi pesci – in qualche modo, con qualche (del tutto casuale) affinità con l’oggetto della mia traduzione della scrittrice svedese Sanja Särman in Lettere delle piante agli esseri umani[1], dove peraltro la “voce” è quella del reame vegetale.

Ecco allora il significato del titolo della terza sezione: “La filosofia dei pesci”. Che inizia con un altro concetto per me nuovo ma molto interessante e legato proprio alla dialettica che si stabilisce tra il mare e la dimensione umana, ovvero la “Tidalettica” (da tide, che in inglese significa “marea”, simbolo autoevidente dell’andare e venire del moto ondoso dell’esistenza). Tidalectics. Imagining an oceanic worldview through art and science è precisamente il titolo di una pubblicazione (a cura di Stefanie Hessler) realizzata nel 2017 dalla MIT Press – la casa editrice del Massachussets Institute of Technology[2] – che si propone, attraverso contributi di molteplici coautori, di dare voce agli ecosistemi oggi più minacciati, che sono appunto gli oceani. E infatti Simonsen, con parole che sanno di monito, scrive

«L’oceano è sempre fuori,
finché non inonda le nostre case.

Tidalettica – Immaginare una visione del mondo oceanica
Attraverso l’Arte e la Scienza.»

Perché, sebbene sia oggettivamente impossibile attribuire una filosofia ai pesci (tanto che una delle poesie più brevi in questa sezione recita «Rimane la domanda: / Qual è la filosofia dei pesci?», senza dare alcuna risposta), è altrettanto innegabile che tutta la vita, inclusi noi stessi, viene dall’oceano, o comunque da una dimensione liquida, quella dell’utero materno:

«(…) è questo che è rimasto con noi,
ma è anche ciò che non abbiamo mai compreso fino in fondo:
la coscienza che proveniamo dall’oceano.
Che ogni cellula è piena d’acqua,
come l’oceano stesso,
che siamo solo un appannato battito di ciglia
nell’offuscarsi del flusso evolutivo —
è così che ci viene celata l’acqua che è in noi,
perfino il più minuscolo oceano:
l’utero dal quale proveniamo.»

Eppure, tutta la tensione del poeta, in particolare in questa parte del libro, è rivolta verso tale limite di indicibilità che, pur non potendo essere adeguatamente reso a parole, può essere ascoltato. Ecco allora i suoi spunti di scrittura:

«Ascolta ciò che non può essere udito, e poi scrivine.

Ascolta gli alberi più antichi, rendi omaggio a quelli morti da poco.

Ascolta il tempo in cui gli oceani erano ancora giovani.

Parla con la notte invernale.»

Così facendo, il contemplatore dell’Holos della vita, sub specie del microcosmo faroese immerso nel macrocosmo oceanico, entra in contatto con un fenomeno che mi viene da definire di risonanza narrativa, ovvero il modo in cui gli oggetti, i dettagli del paesaggio, ciò che materialmente forma quel piccolo angolo di mondo, racconta storie, in un sovrapporsi ininterrotto (e turbinoso, come abbiamo visto) di strati. Lo si trova già nella prima parte («Dalle storie che raccontiamo, / possiamo dedurre quali / in definitiva raccontano altre storie?»), ma lo ritroviamo anche qui, quando, citando Donna Haraway, il poeta scrive: «è importante capire quali pensieri pensano altri pensieri»[3]. Insomma, ogni storia, ogni riflesso informativo proveniente da parole umane o da risonanze lanciate dalla natura che ci circonda, genera una sorta di reazione a catena che interagisce con noi. Per questo, prosegue Simonsen,

«(…) è fondamentale che io cammini
su questa spiaggia, in questi sciaguattanti stivali di gomma verde
e mi fermi a sedere sulle rocce e lasci andare lo sguardo
verso le vecchie, familiari zone di pesca,
e i faraglioni
appena visibili sopra le onde.»

Così diventa possibile penetrare in profondità nello spartito della natura e attingere direttamente dalla fonte di tutte le storie, che porta impressa in sé l’eco vibrazionale di cose ancestrali: quel tessuto vibrante della materia di cui parla Jane Bennett, citata da Simonsen nella lirica successiva:

«Jane Bennett afferma che le poesie possono aiutarci
a familiarizzarci con la vita che risiede nelle cose,
e rivelare più aspetti della vitalità nascosta in loro:
possono mostrarci ancor più fili
d’interconnessione che ci legano alla materia.
L’erba avvizzita si è clonata,
appena fuori della mia finestra
pecore nere delle Shetland cantano l’una per l’altra;
i loro antenati ormai estinti, i dinosauri, erano i soli altri
pienamente capaci di comprendere il loro canto.»

Approdiamo così, al termine di questa “ricognizione del Tutto”, alla dimensione pienamente umana, con la quarta sezione intitolata appunto “Umani”. E il senso di quel pienamente sta proprio nell’essere la nostra umanità ormai consapevole dell’Holos oceanico-materico-vibrazionale del quale è imbevuta e compartecipe. La coscienza della nostra parentela con questa dimensione globale permette a tratti di accedere a una sorta di stato “nirvanico”, quando il dolore del passare delle cose e delle persone cede il passo alla quieta coscienza dell’esistere nel qui e ora:

«Siamo umani,
mentre l’erba avvizzita
freme nel vento
e semplicemente ci deliziamo
di esistere.»

E ancora:

«Siamo umani,
ci svegliamo ogni mattina
con memorie senescenti
e beviamo il nostro caffè
con sogni provenienti dal passato.»

Ma anche in questi attimi di lancinante consapevolezza residua una componente pesante, remota, risalente a stadi pregressi dell’evoluzione della specie umana, e perciò quasi animalesca:

«Siamo umani
anche quando il Neanderthal che è in noi
afferra una mosca
e, per una frazione di secondo,
valuta se mangiarla.»

E poi, alla base, ecco la coscienza nuda, nella poesia più ermetica e onnicomprensiva del libro:

«Siamo umani.»

A partire da questo punto, le poesie dell’ultima sezione tornano ad aprirsi a ventaglio su tutto il composito ventaglio di possibilità d’interazione orizzontale e verticale tra esseri umani, oceano, piante, animali e forme di vita elementare, in una sorta di deflagrazione ubiqua che evidenzia sinteticamente e icasticamente tutti i concetti finora osservati più nello specifico. E ogni volta che il poeta parla di ciascuna di tali manifestazioni dell’energia vitale della materia, di fatto parla di noi – ed è vero anche il reciproco.

«I funghi
fanno quello che vogliono degli alberi
feriti e morenti,
devastandoli.»

O ancora:

«Ogni singolo pesce in un banco è
un essere luminoso—
dietro di loro,
trascinandosi dietro tutti loro,
sono filamenti
di discendenza.»

Ma soprattutto, tornando al titolo del libro:

«La composizione biologica di una goccia
di acqua di mare porta con sé l’eco del sangue nelle mie vene»

È la chiusa perfetta di questo ragionamento (ma non dell’intera raccolta), perché sottolinea il nesso profondo, ineliminabile, tra noi e l’acqua che imbeve tutto di sé. E qui colgo anche l’occasione per aprire una parentesi sul mio lavoro di traduzione, che ha mirato sì alla resa filologicamente corretta del testo, ma ancor più al suo senso profondo e alla sua musicalità. Come dicevo all’inizio, la mia traduzione non è stata diretta dal faroese, ma mediata dall’ottima versione inglese della poetessa e traduttrice statunitense Randi Ward. L’originale inglese recitava: «The biological composition of a drop of / seawater is reminiscent of the blood in my veins», che in effetti riproduce perfettamente il faroese «Lívfrøðiliga samansetingin í einum dropa / av havvatni minnir um blóðið í mínum æðrum». L’ho decifrato non perché conosca il faroese (pur avendo svolto varie ricerche su dizionari online), ma perché “minnir um” somiglia molto allo svedese påminner om, cioè appunto “is reminiscent of”. In italiano, alla lettera, sarebbe “ricorda”, a sottolineare le affinità chimiche tra la goccia di sangue e quella d’acqua. Ma il verbo italiano ricordare è ambiguo, perché ha la particolarità di essere identico sia nel significato di “avere memoria di qualcosa”, sia in quello, che qui ci interessa, di “rammentare”, “richiamare alla mente”. Ora, questi ultimi due sinonimi, che in teoria avrei potuto scegliere, si prestano però meglio a sottolineare una somiglianza superficiale, magari notata occasionalmente o per coincidenza, e non un’affinità profonda, una sorta di scia di “parentela” simile a quei filamenti di discendenza che, nelle parole del poeta, i pesci si lasciano dietro. Da qui l’idea dell’eco, che, oltre ad essere più musicale nella nostra lingua, ben s’intona con il concetto delle molteplici e sovrapposte risonanze che percorre tutta la silloge. Anzi, l’idea della goccia d’acqua che “porta con sé l’eco del sangue nelle mie vene” ribalta, dandole un senso schiettamente naturale e “oceanico” – scevro da qualunque sfumatura di carattere politico – l’idea della profondità delle origini. L’eco del sangue è, in altre parole, solo l’oceano, solo la natura.

Avevo però anticipato che non eravamo ancora alla chiusa del volume. E questa non poteva non tornare a focalizzarsi sul padre – colui che, vivendo, ha fornito al figlio i contenuti emotivi riemersi al momento della sua morte, creando l’occasione per questo suo ritorno gravido di pensieri, sensazioni e intuizioni. E il punto più alto, a mio avviso, Simonsen lo tocca qui, dove contemplazione, meditazione e profondità filosofica raggiungono una sintesi (quasi il sinolo di aristotelica memoria, syn-holos, “tutto insieme” di materia, intesa come mero potenziale, e forma, ovvero la traduzione in atto di tale potenziale). Il risultato è di assoluta bellezza, e arriva a sfiorare la dimensione spirituale.

«Ora che te ne sei andato,
la magia si è impadronita dei miei pensieri
facendomi vedere
che le superfici hanno profondità,
che il corpo è una sorta di anima,
e che è attraverso quest’anima
che il mondo entra in noi,
che noi entriamo nel mondo—
che posso camminare in questo paesaggio
mentre vedo gocce di rugiada sullo stelo
di una pianta sempreverde
che trema nel vento
questa prima mattina
sulla terra
senza un padre.»

L’unica cosa che resta, dopo questa potente deflagrazione di amore e ricordo, idea e percezione oltremondana – sia pur di una spiritualità assolutamente radicata nella materia e nel segreto più intimo della stessa struttura dello spaziotempo – è la coscienza che anche questo, come ogni altra cosa, tornerà al Tutto che scorre, fluisce e rifluisce, nell’eterno moto ondoso dell’esistenza.

«Ben presto mio padre s’infrangerà come un’onda contro gli scogli e sparirà.»

[1] Sanja Särman, Lettere delle piante agli esseri umani (Ortica Editrice, 2023).

[2] Si veda https://tba21.org/tidalectics-catalog

[3] La citazione completa (che comprende anche la frase citata nella poesia di Kim Simonsen), tratta dal saggio di Donna Haraway Chthulucene: sopravvivere su un pianeta infetto (NERO, 2019), è (nella traduzione di Claudia Durastanti e Clara Ciccioni, alle pagg. 57 e 58 dell’edizione citata): «È importante capire quali pensieri pensano altri pensieri. È importante capire quali conoscenze conoscono altre conoscenze. È importante capire quali relazioni mettono in relazione altre relazioni. È importante capire quali storie raccontano altre storie».

 

Da “L’ozio dei pavoni”

14

di Michelangelo Zizzi

 

Dal complesso denaturato de L’ozio dei pavoni

 

Figura 41

 

Ora che nella serie degli arrosti vi ho nominati alcuni volatili di origine esotica, mi accorgo di non avervi parlato del pavone, Pavo cristatus, che mi lasciò ricordo di carne eccellente per individui di giovane età.

Artusi

 

Vedete? La scena si compone di tre elementi, tra l’altro qui citati ma certamente non evidenti né facilmente accostabili, quindi frutto di un’azione di scissione; come dire: sciogliere, calcinare, fare analisi. Essi sono: un legislatore impavido e mitomanico, un muratore che mise malta ad un muro portante della casa cantoniera, un turista sfinito per fame che gironzola in Piazza Duomo e che una volta risoltosi riesce ad acchiappare un pavone randagio sfuggito da un’aia lontana, facendone dono alla nonna. Tra costoro s’insinuò il dubbio di una complicità, almeno per chi lesse le Scritture originarie, perché qui è omesso il particolare del sacrificio.

Tra detto e non detto, il fatto è costituito infine da una cenetta che svelse piume e miti dall’uccello alchemico e giunonico.

Ti sfecero in salsa di salmoriglio, e giungi come salpamentato, arroscato da le braci di nonna vecchia che riuscì dal camino col vento di zolfo sfavorevole e l’indole tipica di chi s’accontenta salso e composto del saluto cerimoniale dei parenti.

 

***

 

La carne suturata all’appiglio del vuoto

nel vano vestibolare di labbra

all’ircino odore d’ascella

quando mandre barbute puntavano l’erba

ad irti calcari abbarbicate

e un’ancella vana l’acqua ascese di fontana

con trasparenza d’olimpico occhio

e brace devota al fuoco che riappicca

per ascesa necessaria e immantinente

tutto il viso scosse e non lo sguardo

perché Silvia ora rideva nel portone disocchiuso

in fitto olfatto di scamone di ragù

che veniva pregno dall’atrio

per salvia votiva e alloro trionfale

come una creatura carnale battuta dallo scirocco

dell’aula d’impegno nella didattica d’una lezione duellante

e cedente mostrò le fila di denti non dilettante

le scolaresche attente al trillo dell’asilo

nel profondo cuore di vita d’atrio

gridavano vicine nello schiamazzo di stormo

volando in divise a scacchi

araldiche d’infanzia strepitose

ma cera o d’api o di stearina brucia bruciava

e c’era cattedrale solare qui da poco Silvia

un ascensore provvisto d’archi gotici

che saliva nell’icona di lei

nel marmo duttile del costrutto di pelle

come una figurina da sarta.

Quindi la spedizione processò la terra di molle palato

convinto l’abbraccio a fine busto

poi vennero bussando gli infanti

e sbirciavano a gruppetti piccini curiosi

per le forme inesplorate d’avventura d’insufficiente diottria

poi le suore vennero immacolate, affrettate

d’estate dalla paglia di culla d’umile riposo

come dilettantesche fila d’attrici

in sovrimpressione filmografica

oblianti il consorzio di celle

così innumeri nel campo di magnete

d’incerto sentimento

e l’altro Io disciplinava la cura

il metodo di slacciare il corsetto

e mia cugina invidiosa filmava

dell’immagine sottratta l’ombra del possibile

ma la cattedrale era radiosa nella rima palpebrale

del rosone visto d’interno.

 

E piovve quanto in anfratto lacustre

uno specchio scivolante svaniva

ma la pugna ristava d’amore

in piedi

in arrogante vulva

che rideva, rideva in camino di braci

come esausta, battuta brattea

che un fuso metallo estrude.

 

***

 

[Eppure aveva una lessicografia palatale ed ingenua da animale implume e stordito dalla luce d’un parto, da gallese medievale e incolta che dopo secoli si infisse nella memoria della malta che costruiva la casa cantoniera riapparendo, ogni autunno, in macchia d’umido nevralgica del Rorschach gestaltico e atmosferico.

Infine calligrammatica ispida e ancestrale giunse una seconda ancella, portatrice di un’araldica primitiva e appena abbozzata ma sufficiente a svegliare la curiosità degli ispettori, allenata sia dall’elegia che dall’utilizzo di una forma di corteggiamento meno manierata]

 

 

 

Non c’è bisogno della terza guerra mondiale per estinguersi!

8

di Andrea Inglese

L’uomo è ciò che mangia, perciò non fidarti dei cannibali.

Mariano Baino

Cerchiamo di farlo capire a Netanyahu, a Trump, a Putin, a tutti quelli che fremono per scatenare un finimondo su scala sempre più grande. Certo, la democrazia è un imbarazzante freno riguardo ai progetti davvero avanzati di estinzione dell’umanità. Ma, con un po’ di volontà politica, l’idea anche vaghissima di una qualche sovranità popolare finirà per sprofondare nell’oblio, come il ricordo sgradevole di un vecchio incubo.

I trans e post-umanisti sono anche loro d’accordo sull’obbiettivo – l’umanità ha fatto il suo tempo, quindi circolare! – ma ancora tentennano, laddove gli umanisti terminali (dotati di un superlativo arsenale militare) hanno un progetto più coerente: finirla subito, prima che i disastri climatici ci abbrustoliscano lentamente, fino all’ustione completa. Già, perché sono tutti programmi catastrofici e violenti, quelli che vengono portati avanti sia dal “regime change” sia dal “climate change”: bombe di qui e di là, oppure tandem di tsunami e desertificazioni. Grazie al cielo, qualcuno ha capito che solo un’IA ci può salvare, quella generativa, di ultimo conio. Con la dose adeguata e il giusto abuso, l’intelligenza artificiale ci condurrà per mano al niente, senza stressanti maremoti o funghi atomici*.

C’è gente del tutto aggiornata sulla questione, e con le idee chiare in testa, nonostante gli allarmi dei complottisti che vedono minacce e pericoli dappertutto, come se gli Stati non avessero mai osato controllare i cittadini, come se l’imprenditoria capitalista non si basasse su distruzioni-creative e ondate di licenziamenti, come se la manipolazione delle coscienze l’avesse inventata Open IA e non invece, da noi almeno, l’Istituto Luce. Come dicono anche certi intellettuali del lontano oriente: tutto è brodo psichico, mica bombe e frammenti di corpi. Basta rimestare nel brodo più veloci degli altri, e si vedrà che belle composizioni cromatiche e concettuali verranno fuori, degne di un caleidoscopio da fanciullino e di una supercazzola da maturandi. Insomma, bando ai disfattismi dei vecchi, che proprio per aver vissuto tanto, mancano della virtù antropologica fondamentale: la giovinezza. Con tale primavera di bellezza e un buon chat bot, l’estinzione è finalmente a portata di mano, ma in maniera del tutto cool, senza morti ammazzati. Però noi genitori, noi vecchi, dobbiamo darci dentro: facilitare il piano, oliare gli ingranaggi, portare acqua al mulino, facilitare la svolta. L’obiettivo sembra immane – far scomparire l’umanità in modo incruento – ma la ricetta è veramente elementare: da 15 minuti di preparazione, un cucchiaio d’olio, sale e pepe quanto basta, e niente più.

Dicevo i genitori: senza la loro complicità, non si va lontano. La giovinezza primavera di bellezza ci mette l’idea, ma la prole ce la dobbiamo mettere noi (i vecchi), quanto ai chat bot ci pensano le aziende sempre fiorenti della Tech statunitense. Le femministe anche devono dare una mano. Poi spiego perché.

Si piglia il figlio o la figlia adolescenti, che hanno già capito tutto delle nuove tecnologie, e quindi dell’essenza del mondo, ma che tentennano ancora, per via di tremendi atavismi, tra slinguata reale e sesso verbo-virtuale. La “limonata”, purtroppo, e quel che ne consegue in termini di manipolazioni corporee, implica un maledetto partner in carne e ossa, effimero e stronzo finché si vuole, ma a tre dimensioni. La sessione erotica con il chatbot, invece, implica solamente un qualche abbonamento e il proprio apparecchio elettronico. L’adolescente la sa molto lunga, in quanto privo dei paraocchi dell’esperienza e dei dogmatismi analogici, ma è pur sempre adolescente, cioè un po’ bamba, con quella tipica tendenza ad atteggiarsi ad asino di Buridano. Quindi ci vuole la spinta, la sorveglianza parentale. Bisogna far pendere l’ago della bilancia sul chatbot mica sul partner antropico, sul petting digitale mica sullo smanazzamento carnale, sul dialogo idilliaco via schermo mica sulla rugosità imprevedibile degli incontri tra intelligenze naturali. Blindate in casa i vostri figli, abbonateli a tutte le applicazioni possibili, disperdete fuori dalle mura domestiche spasimanti e morose di razza umana! I risultati non tarderanno a farsi vedere: legami duraturi e rapporti sessuali protetti, consentiti, in quanto puramente virtuali. Femministe e antiabortisti alla fine d’accordo. Non solo è impossibile essere messe incinta da un chatbot, ma anche essere prese a coltellate. Zero interruzioni di gravidanza, zero femminicidi. Una situazione bipartisan e incredibilmente win win. E poi niente figli tra le palle! Spese per i pannolini e il conservatorio, per le ripetizioni di matematica e le scarpe da calcio! Niente più dilemmi, se regalare al maschio la macchinina o la barbie, o alla femmina i nunchaku da kung-fu o la scarpette con gli strass e i brillantini.

Inoltre, diciamolo, con il chatbot è l’amore vero, l’essenza, il distillato puro. Non c’è più quell’intrusione dell’alterità, che rende tutto più complicato, appesantito da compromessi, negoziazioni, voltafaccia. Altro che tinder e i maledetti date, che sono una perdita di tempo e soldi, per risultati sempre aleatori. Anche perché ognuno il proprio partner se lo parametrizza come vuole: fedele o infedele, sado o maso, omo o etero, binario o meno. Quindi basta sceneggiate e musi, lente cumulazioni di rancore o detonazioni improvvise d’odio. Basta separazioni. Basta rischi di violenze o ammazzamenti. Tutto si svolge a casa, dopo aver incamerato la cenetta deliveroo menu singolo, con la porta chiusa a doppia mandata e senza più intrusione d’esseri umani scapestrati. Il risultato è sicuro: utilizzatori individuali contenti come pasque, istinto della specie sabotato alla radice. L’estinzione si farà con tutta calma, senza che nuove generazioni siano ogni volta convocate e poi spinte in un paesaggio sempre più sgangherato e temibile. Tutta quella paura della macchina che prende il sopravvento sull’uomo e lo sottomette, una bolla di sapone. Anzi, la macchina sarà fino all’ultimo giorno, in mezzo a un consesso di esseri umani loschi e inaffidabili, l’unica garanzia di fedeltà, di riflesso limpido del nostro desiderio: avere qualcuno che ci dica sì in modo sistematico e illimitato.

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*Da uno spunto di Niccolò Argentieri.

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Foto da Claude Closky, 8002-9891, mac/val, 2008.

La morte di Kafka

4

di Antonio Iannone

ai miei amici

Immagine di Jan Hladík

Ieri con alcuni amici abbiamo discusso delle cose di cui si discute tra amici. Se Kafka sia morto o no di morte naturale. Uno di loro ricordava ad esempio – sostenuto dall’altro – che Kafka si fosse suicidato. Che Kafka somigliasse nella sua morte a Benjamin – della cui morte discutiamo a ogni occasione –, a Morselli, a Simone Weil. Che ci sia stato intendo nella sua morte un che di volontà.

Può sembrare che non faccia differenza. Ma se ci sia o no volontà nella morte fa tutta la differenza del mondo. Uno dei miei amici ha detto che non si tende a considerare che Kafka sia morto. Kafka – ha detto – «dovrà essersi dissolto». Ho anch’io l’idea di Kafka – nell’età indefinita delle esangui immagini da cui è ritratto, solo o con qualcuna delle sue donne, con occhi remoti – che muore «nella neve», com’è morto Robert Walser e come allo stesso modo Fleur Jaeggy registra nei Beati anni del Castigo.

Io ero – e sono ancora – quello che tra i miei amici aveva torto. Ricordavo infatti che Kafka fosse morto di morte naturale, nel senso che la tubercolosi non ha che la morte a ultimo stadio. Una veloce indagine ci condusse a una verità parziale: sembra che Kafka sia morto a causa di una conseguenza della tubercolosi, che gli rendeva difficile nutrirsi. Sembra ancora che sul letto di morte gli sia stato trovato il racconto Un artista del digiuno. Ma l’ambiguità in cui la morte di Kafka è annegata non è contestabile. La morte allude (illude) all’eroismo. Un uomo che subisca – come Giobbe – un destino avverso ha del santo. Un uomo che cada nella morte senza significato, ha dell’ironico. Per non dire di chi muore in guerra, civile o soldato. Come una lunga convivenza tradisce la vita interiore, così la morte tradisce la vita degli organi.

La morte di Kafka fu una morte di convalescenza, cui nulla valse la dissoluzione. Quando ero all’università un docente di filosofia morale disse che si sarebbe dovuto scrivere un libro su come le malattie mortali dei filosofi tradissero la loro occupazione: Kant disorientato dalla labirintite, Freud ammutolito dal tumore… di questi libri ci sono soltanto frammenti nei libri altrui (Gli ultimi giorni di Kant, de Quincey; Goethe muore, Bernhard; Bela Lugosi, Franzosini). La morte del Genio è in effetti oggetto di interesse.

Una volta che i miei amici furono andati via chiesi a me stesso se credessi che Kafka si sia detto, un giorno, «Smetterò di nutrirmi», o se non abbia accompagnato allo stomaco cucchiaiate di brodi (ciò che si mangia da malati). Mi chiesi se Brod non abbia tentato – con l’estrema violenza con cui si sconta la vita – di ficcargli in bocca da mangiare, di nutrirlo a forza, di costringerlo a lavorare ancora. Mi chiesi se non abbia tentato di dissuaderlo. Posso immaginarlo Brod, nei tondi occhiali che indossa in un ritratto che ho adesso sottomano, dire all’amico: «Su, mangiate!». E anche mi è concesso immaginare Kafka voltarsi dall’altro lato. Questi tipici atti di volontà dicono tuttavia di una cattiva fede.

Cos’è quella forza che ci incatena ai nostri obblighi? Immagino sia la medesima forza – lo intendo in senso fisico – che ci fa scrivere. La scrittura non nasce dalla volontà. Quest’atto dev’essere stato ciò che ha guidato Kafka nei suoi ultimi mesi di vita. Mesi in cui – sappiamo – scriveva con lentezza. Con distrazione. La sua nolontà – che adesso ci guida nella scrittura – si sfibrava. Se qualcuno avesse l’ardire di scardinare l’angusta tana praghese in cui dimora, l’ardire dell’estumulazione, lo troverebbe ancora lì, intatto, né degradato né mummificato. Ancora lì lo troverebbe, ne sono sicuro. Ancora lì: a scrivere.

Eppure vorresti essere un bruco

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di Vittoria Groh

Squilla il campanello. C’è un filo di ruggine in quel suono che stride: una dimenticanza di Dino, che avrebbe dovuto ripararlo a giugno e a luglio già era tardi. Appoggiata al parapetto, Maude stringe forte la sigaretta fra le labbra e aspira la canicola estiva. Si volta appena verso l’atrio: è in ritardo, pensa con uno sbuffo di fumo, ora aspetta.

Dà un’occhiata rapida al tavolo della cucina e si assicura che la cassa sia ancora al suo posto. È ridicolo, come se possa muoversi da sola. Un vento lento gonfia il suo cardigan rosa. Maude nota una goccia rossa sull’orlo di un bottone. Eppure, ha strofinato con cura. Al diavolo, me ne occuperò più tardi, si dice tossendo.

La città accaldata è immobile e non emana odori. Le cucine sono chiuse, i proprietari altrove, distesi sui lettini che puntellano le spiagge di Ostia. Di nuovo il campanello: una volta, un momento d’esitazione, un’altra ancora; un’insistenza timida. Maude fa cadere la cenere sulla strada deserta. Si volta, lascia alle spalle la finestra e il ponte Milvio che galleggia nell’aria afosa. Poi appoggia gli anni al bastone di noce e con la schiena un poco curva raggiunge la porta.

La serratura scatta. Anna balza indietro.

Ma allora, hai paura di una vecchia?”, la voce della donna trema e anche la mano vacilla, sul pomello di legno della porta socchiusa.

Anna nasconde le mani nelle tasche della giacca, rovista e trova i dialoghi di convenienza; li ha annotati, ma tirare fuori i biglietti alla prima interazione le sembra inappropriato.

Ho paura delle bugie, creano emozioni non lineari”, dice seria. Lentamente alza gli occhi, cerca quelli della donna, prova a interpretarne lo sguardo,

le sue iridi azzurre ti fanno pensare a un cartone animato, ma non ricordi quale,

vedi sorpresa, stupore?,

non lo sai, leggere le persone non è come con i romanzi che,

attenta, non distrarti,

non puoi permettertelo, se vuoi portarlo a casa.

Quanti anni hai?”, le chiede la donna. “Quattordici”, risponde Anna. Una domanda semplice, una risposta semplice. Anna inspira, espira,

puoi riuscirci.

La donna la fa passare. Si dirigono verso la cucina, serpeggiando fra i libri che si ergono come funghi sul tappeto verde. La casa sembra un bosco. Un indizio di sigaretta appena spenta aleggia di fronte alla finestra, e poi un altro odore, più acre,

formalina?,

come i corpi delle rane nel laboratorio della scuola,

translucidi, gonfi,

cadaveri.

Ti fa male?”, la donna indica il polso sinistro di Anna,

te ne accorgi, te ne vergogni, la tua mano destra lo sta sfregando con forza,

pare una gomma su un foglio ricoperto di errori.

Anna risponde di no, che non le fa male, e rapida nasconde quel gesto involontario,

ma non è vero che non fa male, vorresti poterla avere davvero quella gomma, cancellare i ricordi,

però menti, continui a mentire,

anche se delle bugie hai paura.

Lei alza le spalle, come a dire come vuoi, poi sorride: “Io sono Maude”, e le versa dell’acqua in un bicchiere, che un po’ balla sulla tovaglia. A lei balla il viso, quando sorride, e ogni linea sembra sapere esattamente come muoversi, dove andare,

e vorresti avere le stesse certezze, ma non conosci ancora niente,

niente tranne il mare e il basilico che,

non distrarti, hai una missione.

Devi aiutarmi con questa”, e Maude indica una cassa che occupa l’intero tavolo da pranzo.

Una ragazzina, le hanno mandato, una bambina che appena ha scavalcato l’età della pubertà. Ha tagli sul polso, dice di non avere male. Forse è la verità, è tanto giovane per conoscere il dolore. Eppure, Maude vede in lei una anzianità dei gesti, una ripetizione quasi artefatta dei movimenti. Le studia il volto: è pallida, forse è la luce del neon, o forse davvero non si sente bene; è ferma, fissa il centro del tavolo in silenzio; i capelli lunghi, neri, sono legati in due trecce che le ricadono simmetriche sulle spalle rigide: pare pasta di zucchero racchiusa in una formina di Natale. Maude sorride di nuovo.

Ci volevamo bene, io e Dino, sai?”, dice Maude, “ma non è stato sempre semplice: abbiamo dovuto coltivare solitarie stranezze per poterci poi bastare in due”.

Anna non ascolta la vecchia. Si è seduta al tavolo da pranzo, di fronte alla cassa, e ripensa a questa mattina, al fondo del mare. Buttava fuori l’aria, le bolle le solleticavano il naso, stringeva le labbra, apriva gli occhi, pizzicavano, il sale. Tutto intorno, vedeva verde. Aveva pensato al tavolo da biliardo di Claudio, un verde che sembra un prato di montagna. Quasi le dispiace vederci rotolare le palle colorate. E la pianta di basilico davanti alla sua finestra, anche lei verde, ha l’odore della calma, le foglie lisce. Quando in casa tutto si aggroviglia, le brutte parole e le mani e le lacrime, Anna si immagina piccola, come un bruco si attorciglia alle foglie e respira il silenzio,

perché pensi a tutto quel verde,

concentrati, hai uno scopo, lo prendi e vai,

ma quelli sono dei bei verdi, pensa Anna: il tappeto, il tavolo, la pianta. Forse perché ci arriva la luce. Anzi, sicuramente, perché la luce fa cose incredibili, come trasformare gli scarti del mondo in zuccheri. Quando la maestra ha spiegato alla classe la fotosintesi, Anna non ha dormito per due notti: espirava, espirava, espirava e fissava il basilico, aspettava di vederlo crescere. Poi la terza notte si è addormentata e ha sognato la pianta che enorme copriva il cielo, la luna, il soffitto di camera sua, e lei abbracciava le foglie con il suo pigiama a pois. Non era più un bruco, era Anna, solo Anna,

eppure, vorresti essere un bruco,

non sempre, ma ogni tanto ci pensi a come sarebbe,

non avere i polsi, il dolore,

che la natura ti darebbe pochi giorni,

e tu non ne chiederesti di più.

Si era dimenata, aveva tirato calci all’acqua, ma le mani di suo padre, sulle spalle di Anna, erano troppo forti. Lei aveva cercato una via d’uscita, ma il corpo di suo padre era troppo pesante. Aveva guardato in alto,

avresti voluto creare degli anelli, di quelli che nascono stretti e poi salgono e si allargano fino a posarsi sotto la superficie,

i subacquei buttano fuori l’aria e fanno dei cerchi tondi e nitidi,

mamma ha una foto sul frigo, ti piace guardarla,

ma loro sott’acqua respirano,

tu avevi solo un naso che sputava: l’aria la perdevi e basta.

Un giorno suo padre ha perso l’anello, o così ha detto. Anna ha pensato Non ama più la mamma. Ma l’ha pensato a voce alta e la guancia ancora le brucia: suo padre non ama i pensieri a voce alta.

Anna avrebbe voluto creare un anello, solo uno, argenteo, brillante,

lo avresti regalato a mamma,

che poi lo darebbe a papà perché vederne uno solo la fa piangere.

Mentre pensava a mamma, suo padre l’ha lasciata andare. Anna ha nuotato, ritrovato il sole. Lo schiaffo gliel’ha dato un’onda, ancora quella guancia, la stessa,

lui lo sapeva: ancora un minuto sotto e ci saresti riuscita,

ma a fare cosa?, a creare l’anello?,

a risalire?,

davvero volevi risalire?

Erano tanti gradini, per un corpo inerte, ma chi avrei potuto chiamare?”, dice Maude. “A ottantadue anni l’hanno assalito i primi tremori, poi ha iniziato a sussultare. Così, vedi” e Maude si accascia sulla sedia della cucina, chiude gli occhi e finge uno spasmo, due spasmi, pare una caffettiera con il coperchio che all’improvviso sbatacchia. Poi Maude si rialza e riprende: “ha gridato, era seduto sulla panchina del parco e ha urlato “Maude!”. Il mio Dino, lo vedevo dalla finestra, il mio Dino”. Maude prende il bicchiere d’acqua di Anna e svuota quel che resta nel lavandino. “Gli ho detto di salire, ma era troppo tardi, sai. Ha respirato un altro poco nel parco, non ha neppure finito le parole crociate, gli mancava una risposta, quattro lettere, era una parola facile, gliel’avrei suggerita io se solo fosse salito. Ma alla fine sono dovuta scendere io”. Maude sistema la tovaglia, si gira verso Anna, che è sempre immobile; la chiama, ma lei non sembra reagire. Le sfiora un braccio, è freddo. È pallida e fredda. “L’ho messo qui dentro, il mio Dino”, dice Maude accarezzando la cassa. Poi si allontana dal tavolo: “l’annuncio dell’azienda diceva che potete aiutarmi a portarlo via”.

Anna guarda il vaso di fiori della donna: un lungo contenitore trasparente che riflette il verde del tappeto. Ricorda, quando era bambina, i tubetti che si illuminavano al buio. Doveva rompere il vetro all’interno dell’involucro di plastica e così, da grigio e noioso, il bastoncino diventava una provetta fosforescente, magica. I bastoncini più belli erano quelli gialli, ma anche quelli verdi non erano male; con quelli blu, invece, non c’era contrasto con la notte. Il padre li regalava a Marco e Anna quando festeggiavano il compleanno, a metà estate,

ci diceva che i subacquei li usano per ritrovarsi fra di loro al buio, in fondo al mare,

ma a noi non sono serviti, vero?,

papà l’abbiamo perso comunque,

e al sole, in superficie.

Marco era vicino all’amaca, sotto al cielo notturno, al grande carro: muoveva la bacchetta nell’aria e si sentiva uno Jedi. Anna teneva il bastoncino in una mano e osservava il fratello che agitava il suo: una scia di lucciole, un rumore di lenzuola che si spostano.

Maude le passa accanto, le sfiora un braccio: Anna non reagisce, ma scorge il bottone macchiato sul suo cardigan rosa,

ferma, non muoverti, non ancora.

Ad Anna, quando era bambina, piaceva indossare i vestiti di suo padre. Si metteva i guanti, il casco della motocicletta, le scarpe, la camicia che le arrivava quasi ai piedi. In mano teneva il portafogli,

ti dicono presto che il denaro è la linea di confine,

due banconote e sei subito adulta,

i guanti, le scarpe, il casco enormi non contano,

però il denaro sì,

e anche il dolore, non credi?,

forse, ma per quello non esiste una vera frontiera.

Anna chiedeva a suo padre di chiudere i bottoni della camicia, che con i guanti non ci riusciva. Era un momento che le piaceva, suo padre che si abbassava, raggiungeva la sua altezza,

ti sentivi importante,

al sicuro,

e poi i bottoni sono belli, legano due parti separate, le uniscono,

così ti rimangono addosso e non le perdi,

sì, non come il resto,

che si separa, si perde.

Anna indica la cassa: “La aiuto a spostarla?”, chiede alla donna. Non dice altro, il regolamento dell’azienda impone discrezione. Il suo silenzio è uno dei motivi per cui l’hanno assunta così giovane. Ma il motivo principale è il suo autismo: le consente di non empatizzare con i familiari dei defunti, di essere precisa, metodica nell’accertarsi dei consensi.

Maude è alla finestra, si volta e scuote la testa in un gesto quasi impercettibile. Lentamente accosta una sedia al tavolo, sale e ci si inginocchia. Anna non parla, ma la aiuta a scostare il coperchio della cassa. L’odore porta Maude a coprirsi il naso, la bocca, mentre Anna rimane impassibile, pare esserci abituata. D’altronde, lavora per un’azienda che trasporta i morti. Maude l’aveva letto sulle riviste di Dino, quelle che parlano di caccia, con i setter inglesi accanto alle tute mimetiche in copertina: la formalina è il prodotto migliore per l’imbalsamatura. L’odore, però, non lo menzionavano.

Con tenerezza, Maude si piega su Dino. Gli sussurra parole all’orecchio.

Anna si avvicina alla donna. Dalla tasca estrae un coltello, piccolo e fine,

è il momento, vai,

delicata, mi raccomando,

finge di risistemare la giacca dell’uomo, fa passare una mano sotto alla pancia della vecchia.

Rapida, senza esitazioni, taglia,

brava, l’hai preso, ora svelta, nascondilo.

Anna mette via il coltello e nell’altra tasca ripone il bottone.

Il suo cuore sussulta, come il coperchio della caffettiera, come quell’uomo, prima di morire. Chiede alla donna se è pronta, se ne è sicura. Le dice che il suo collega la aspetta al portone, la aiuterà a portare la cassa di sotto. La vecchia le sorride. Anna non ha bisogno di una risposta: le linee sul suo viso, come si muovono, sono la sua certezza e il suo consenso.

Si affaccia alla finestra, l’autista dell’agenzia è seduto sulla panchina del parco, lo chiama. Intanto, nella tasca della giacca, le sue dita tirano il filo del bottone, lo sentono ancora avvolto intorno ai quattro fori, attorcigliato come i bruchi alle foglie,

al sicuro,

legata per non perderti,

come vorresti essere tu,

sì, come vorrei essere io.

Scrivere, e presentare libri, nel mondo in fiamme

1

di Demetrio Paolin

(con il permesso dell’autore pubblichiamo il pezzo postato questa mattina sul suo profilo fb)

Nei giorni scorsi avevo messo qui su fb una breve battuta riguardo le presentazioni, che poi ho cancellato, ho cancellato perché mi sono sentito fuori luogo, il mondo sta letteralmente esplodendo e io parlo di quante persone vengono o meno alle mie o altrui presentazioni, insomma ho cancellato, poi domenica mattina mi sono svegliato con il rischio, non so quanto geopoliticamente certo, ma a livello d’immaginario e sensazione concreto, di una guerra: e inizialmente mi son detto vedi? c’hai avuto ragione, il mondo va in frantumi e stiamo qui a discutere se ha senso andare alla Libreria XWR di Poggio Piccolo, alla caffè-libro-osteria di Roseto degli Abruzzi etc etc. Non poteva esserci esempio più preciso della futilità della discussione: eppure, per me questo è stato, come si dice, in weekend di scrittura, di lavoro sulle scritture altrui, di riflessione, anche sincera, dura, senza fronzoli, di ciò che è diventato il mondo editoriale, vendite, come avvengono certe scelte, come e cosa portano, e come e cosa hanno portato, negli anni certe decisioni, la scelta da capitale materiale e capitale immaginario etc etc…; quel sentimento di colpa che mi aveva portato a cancellare il post (che forse avevo scritto frettolosamente e più per amor di battuta che non di approfondimento ed è per questo che ora vi beccate questa lenzuolata di parole), ora, si trasmutava in altro. Mi dicevo si può raccontare la storia della fine del Titanic da diversi punti di vista, quello degli orchestrali è di certo marginale, ma non per questo privo di interesse.

Mentre riflettevo su questo mi è tornato in mente il Serra su cui, con estrema fatica, lavoro. Serra si chiede che cosa resta da fare, mentre il mondo, il suo, al tempo, il nostro in questo, crolla? Quando la gente muore in maniera disumana, come pezzi, in cui la pietà diventa bandiera da sventolare, in cui i corpi straziati di Gaza valgono di più o di meno (a seconda da dove alcuni li guardano) dei corpi di Teheran, Tel Aviv, o Kiev etc etc, in un tempo in cui è stato inventato il disumanometro, l’economia di quanti morti, sotto un certo numero non sei disumano, sopra sì, etc etc, insomma in questo mondo che è pronto a tutti gli effetti per il fall out, non soltanto nucleare ma che riguarda la nostra stessa specie, insomma cosa resta da fare? Serra scrive e dice “E facciamo magari della letteratura. Perchè no? Questa letteratura, che io ho sempre amato con tutta la trascuranza e l’ironia che è propria del mio amore, che mi son vergognato di prender sul serio fino al punto di aspettarne o cavarne qualche bene, è forse, fra tante altre, una delle cose più degne.”
Ora credo che il nostro compito sia comprendere che cosa significhi fare letteratura in questo momento, pur con ironia, pur con la trascuratezza che Serra non solo consiglia, ma quasi prescrive. La prima cosa potrebbe essere prendere atto della nostra irrilevanza, il discorso sulle presentazioni, sulle stanchezze, sulle poche e/o tante persone, sui soldi da spendere etc etc ha in sé un nocciolo che forse non amiamo esplorare: l’irrilevanza della letteratura nel mondo attuale, la gente legge poco, quel poco che legge è spesso brutto, libri scadenti, consolatori, senza visione del futuro, senza sguardo sul passato, con una lingua che passo passo si semplifica (non nel senso della semplicità disadrona di Kafka o della Kristof), ma verso un banale che vuole essere per tutti; in questo quadro uno scrittore che esprima una sua idea, forte, di futuro, è inascoltato (guardiamo solo le nostre bolle letterarie qui, pensiamo ai risultati referendari o delle elezioni e alla discrasia tra ciò che accade nella bolla e ciò che avviene nella società). L’intellettuale spesso non vive nel mondo: anche qui a seguito degli avvenimenti, paragonando la sua bolla al mondo, lo scrittore dice Ma come è possibile? La mia risposta è: Siamo stati negli ultimi 20 anni nei bar a fare colazione?, nei mercati, nelle fabbriche, sui banchi di scuola?Se lo siamo stati l’esclamazione Ma come è possibile è sbagliata, perché, se lo siamo stati, sappiamo che ciò che è accaduto è assolutamente possibile. La vera domanda non è neppure Perchè?, ma dovrebbe essere Cosa ho fatto io?
Ho scritto potrebbe rispondermi, sono andato nelle piazze. E se risponde così allora il tema è nuovamente: l’irrilevanza.
Questa irrlevanza è generalizzata, ampia (certo ci sono autori più militanti di altri, che hanno un seguito maggiore di altri, ma alla fine ecco non mi pare cambi molto), questo fenomeno è dovuto a diversi accadimenti, non ultimo la scomparsa dei corpi intermedi (partiti politici, sindacati, associazioni), che hanno sempre meno iscritti, sempre meno soldi, sempre meno peso rispetto al capitale, questa disparzione dei corpi intermedi è avvenuta anche nella cultura (radattori malpagati, spesso freelance, agenzie letterarie che producono e cercano nella quasi totalità fenomeni letterari e non scrittori etc etc). Tutto ciò ha prodotto una totale insignificanza dell’operare letterario.
Io non ho nessuna illusione, anche queste mie parole sono insignificanti, e infatti le scrivo qui e non su un grande quotidiano, neppure su piccolo quotidiano, neppure su una rivista on line, perché appunto nessuno pensa che la mia opinione sia rilevante, forse nessuno ha interesse nel sapere cosa uno scrittore ha da dire sul mondo in fiamme.
Ecco il mondo in fiamme.
Come diceva il mio amato DFW, quando una casa va in fiamme, si reputa che il salto dalla finestra sia preferibile al morire bruciati, ecco io credo che infine in questo mondo in fiamme, in questa insignificanza del nostro ruolo di intellettuali, a noi rimanga il salto: il salto è la libertà di fare ciò che si crede meglio per sé e per gli altri, è correre il rischio tanto non si ha niente da perdere, tornare in piccole comunità, in piccoli pezzi di società, cinque, o 3 persone, a fare letteratura e non quelle schifezze che la maggior parte della gente vuole, fregarsene della gente, appunto, dei suoi gusti (e dirlo che la gente ha gusti brutti, che molti lettori hanno gusti pessimi e di merda, e smetterla con le menate del pubblico, dell’abbraccio del lettore, io non voglio essere abbracciato da lettori che leggono certi libri), fare ciò che per noi è letteratura, scrivere in piena libertà, scrivere senza pensare minimamente alla pubblicazione o al numero di copie, non pensare a come scrivere il romanzo per vincere il premio, non provare invidia per chi ce la fa, provare pietà per coloro che per farcela si son venduti l’anima al diavolo, rimanere poveri, rimanere nella scarsità, rimanere nella gratuità, non pensare con i tempi di questa società, di questa cultura, di questo mondo, che pretende da te un libro all’anno, ogni volta il libro ti constringe a dire che è il tuo libro più sentito, non mentire a te stesso agli altri, condividere quello che hai scritto con le persone, senza pensare alle persone, andare in un posto se ti invitano ed essere buono e ringraziare, e fare il tuo massimo, ma se non ti invitano bene uguale, non scrivere per consolare, guarire, salvare il mondo, ma scrivere per dire come è il mondo, conservare la pietà, la compassione, voler bene a chi ti è vicino, ai pochi amici, alla famiglia, a tutti coloro che ti sopportano mentre scrivi, passare tempo con chi vuoi bene, abitare lo spazio di mondo che ti è dato, e farlo con gentilezza, e infine goderti la libertà di aver deciso per il salto: e se finirà male, darsi uno scrollone di spalle e sorridere perché sapevi che era una delle ipotesi.
NdR La foto è dell’autore: il suo corso di scrittura creativa, nell’ultimo fine settimana

Sull’avvenire intelligente delle nostre scuole

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di Giorgio Mascitelli

A partire dagli scorsi mesi si è cominciato ad assistere anche in Italia a una campagna mediatica sommessa ma costante sull’uso dell’Intelligenza artificiale a scuola. Dall’appello a non trascurare l’occasione eccezionale e irrinunciabile fino al richiamo del rischio di perdere il treno del futuro passando per la denuncia della paura dell’innovazione, una serie di argomenti già usati nel passato per abituare l’opinione pubblica all’ineluttabilità di altre innovazioni tecnologiche è tornata a circolare. Sarebbe riduttivo spiegare questo fatto con il tentativo di creare una domanda per questo genere di prodotti magari intercettando fondi o creando un consenso per stanziamenti pubblici in tal senso, non perché interessi del genere non esistano ma perché queste reazioni esprimono uno dei punti chiavi dell’ideologia contemporanea in cui la fiducia razionale nella tecnologia produce atteggiamenti irrazionali nei confronti delle conseguenze sociali che le innovazioni generano.

I toni sono ragionevoli e moderati: si ricorda che in ogni caso l’IA non sostituisce l’insegnante, ma è un prezioso strumento in grado di rinnovare la didattica, addirittura in un supplemento dedicato all’argomento del Corriere della sera, Paolo Ferri con indubbia abilità persuasiva nei confronti del mondo docente arriva a suggerire che chatGpt potrebbe incaricarsi della stesura di verbali e di altre corvée burocratiche che infestano la vita dell’insegnante. Eppure è difficile che vengano discusse opinioni come quelle di Manfred Spitzer : “I bambini a scuola imparano a percepire, pensare, comprendere, pianificare, valutare e decidere (insomma a svolgere una serie di funzioni cognitive) dapprima sotto la guida di un maestro e poi in modo autonomo. Così facendo si modificano le connessioni tra le cellule nervose responsabili di quelle funzioni cognitive e si vanno letteralmente a formare sia il cervello sia la personalità degli individui. Ne consegue quindi che delegare o lasciare fare il lavoro intellettivo alle macchine debba per forza portare a un livello di apprendimento minore da parte dei bambini” (Intelligenza artificiale, trad.it 2024, pp.558-559). La cosa interessante di questa posizione non è soltanto che Spitzer è un neurologo, ma che essa viene espressa all’interno di un libro sull’intelligenza artificiale che è decisamente ottimistico sulle prospettive, insomma quanto di più lontano ci possa essere dall’approccio apocalittico, per usare la vecchia categoria di Umberto Eco. Per esempio, nella disputa tra coloro che parlano di pappagalli stocastici a proposito dei chatbot, alludendo con questo termine ad algoritmi più veloci e potenti ma in sostanza legati alla vecchia logica dei calcolatori, e coloro che ritengono che in realtà questi algoritmi siano riusciti a creare un salto qualitativo agendo come delle vere e proprie reti di neuroni, Spitzer si schiera senza dubbio da quest’ultima parte. Insomma l’allarme non viene lanciato da un allarmista.

Se andiamo a rileggerci quanto si scriveva negli anni Novanta sull’importanza della rete e sulle sue prospettive, ciò che colpisce oggi è l’assoluta incapacità di vedere i problemi sociali che essa avrebbe provocato, anche quando erano facilmente prevedibili. Basta prestare attenzione a un problema come quello delle fake news, che esistevano già nell’ambito mediatico tradizionale: in fondo pensare che avrebbero potuto essere diffuse ancor più efficacemente tramite la rete non era poi così assurdo,  e invece all’epoca abbondiamo di descrizioni estatiche di una società futura in perenne crescita grazie alla libera circolazione della conoscenza, quasi che i vincoli giuridici che regolano la proprietà intellettuale fossero stati aboliti da internet, mentre non vi era nessuna previsione delle dinamiche sociali indesiderate. Ancora una volta vorrei sottolineare che questo tipo di atteggiamento non è spiegabile solo con uno spirito pubblicitario, ma rientra in una forma mentis ideologica che vale la pena di analizzare perché sull’IA nella scuola si sta riproponendo esattamente lo stesso tipo di atteggiamento degli anni Novanta. In generale, quando si parla dell’innovazione tecnologica nella nostra società e se ne elencano benefici e rischi, si parte da una considerazione astratta della nuova tecnologia che viene descritta come funzionante, senza effetti collaterali di alcun genere, in una società concepita come spazio vuoto, in cui non ci sono conflitti di interesse e forze economiche e sociali che perseguono dinamiche totalmente indifferenti al bene collettivo. Al massimo si riconosce la necessità di alcuni adeguamenti di ordine giurisprudenziale, meglio se risolti con la governance ovvero senza nessun vincolo di legge, saltando a piè pari qualsiasi considerazione sul fatto che uno dei problemi centrali del nostro tempo è l’indebolimento della legislazione rispetto all’azione dei grandi gruppi finanziari e industriali.

Eppure una macchina, intelligente o stupida che sia, da questo punto di vista non è importante, non è solo uno strumento, ma è un condensato di rapporti sociali che stanno a monte del suo impiego e della sua progettazione. Il tipo di uso per cui ogni macchina è progettata è strettamente collegato agli investimenti effettuati per produrla e alla domanda sociale a cui risponde, che in un sistema capitalistico è innanzi tutto generare profitti. Questo non vuol dire che in astratto non la si possa usare in maniera creativa o differente rispetto alla logica generale, ma tendenzialmente la diffusione del suo uso seguirà questa logica generale del profitto. E l’Intelligenza Artificiale non fa eccezione. Ora se poniamo mente a dove nasce l’IA nelle sue attuali applicazioni, incontriamo le logiche del capitalismo neoliberista, del downsizing, dell’ottimizzazione dei tagli sui posti di lavoro anche in attivo per produrre più profitti. Allo stesso tempo è la società della concorrenza di tutti contro tutti e della frammentazione delle relazioni. Dunque se l’IA appare indiscutibilmente come un progresso irrinunciabile e si diffonde capillarmente, succede anche perché risponde a questi interessi e a queste logiche in maniera più efficiente delle tecnologie precedenti. Introdurre l’IA nelle scuole significa fare i conti con questo genere di dinamiche e non immaginare astrattamente il suo uso in quella ideale (o idealizzata?), cioè completamente distaccata dai meccanismi sociali dominanti e, naturalmente, allo stesso tempo iperconnessa grazie alle macchine prodotte da quella stessa logica sociale, alla quale ci si immagina estranei.

Naturalmente un’obiezione a questa analisi critica è che essa è troppo astratta e lontana dalle esperienze reali di studenti e insegnanti. E’ un’obiezione assolutamente fondata, alla quale si può replicare solo che un determinato meccanismo sociale, anche se astratto, non per questo motivo non ha effetti molti tangibili nella vita delle persone. Se prendiamo in esame in concreto l’esperienza individuale, è verosimile che con l’IA avremo un aumento delle possibilità di fare cose, che prima erano difficili o impossibili, e allo stesso tempo una minore coscienza del modo e delle ragioni di farle, come mostra Spitzer. Il modello implicito sembra essere colui che ha un macchinone da duecento chilometri orari ed è stato bocciato all’esame di teoria della patente per incapacità di capire le norme del codice della strada.

Uno dei topos degli innovatori tecnologici della scuola è la citazione del passo di Platone in cui viene condannata l’introduzione della scrittura perché avrebbe indebolito le facoltà mnemoniche individuali. Il senso di questo esempio è che una perdita individuale viene ricompensata da un aumento della facoltà della memoria a livello sociale e collettivo: insomma la diminuzione di memoria del singolo venne ampiamente compensata dall’aumento della capacità di memorizzazione della società nel suo complesso tramite il ricorso alla nuova tecnologia della scrittura. Nel caso dell’IA questo esempio rivela due punti di crisi: in primo luogo che la scuola non può per suo compito istituzionale sacrificare le capacità degli individui, ma al contrario ha il dovere di svilupparle; in secondo luogo l’unica cosa che verrà rafforzata sembrano essere i processi di accumulazione di un capitale che estrae i propri profitti anche sfruttando determinate relazioni umane come quelle presenti nel mondo scolastico.

Infatti, quando Bill Gates dice che tra pochi anni l’intelligenza artificiale renderà superflui gli insegnanti, da un punto di vista pedagogico afferma un’assurdità, nel senso che la scuola esiste solo all’interno di un rapporto docente-discente, che è una relazione di tipo umano. Se però prendiamo questa affermazione all’interno dell’ideologia corrente, essa diventa un’espressione assolutamente coerente di un programma. Questo programma è quello che vuole eliminare la scuola come forma di socializzazione del sapere in nome di un radicale individualismo e di un processo di accumulazione non regolato da nessuna istanza. L’intelligenza artificiale ha il compito nel concreto di creare le possibilità tecnologiche per realizzare l’effettiva caduta dell’idea di scuola, che, se fosse annunciata in maniera diretta ed esplicita, solleverebbe proteste, e allo stesso tempo di iscrivere tale perdita sotto la categoria del progresso, quindi come elemento fatale e indiscutibile nella nostra società. Il grande vantaggio dell’IA nella scuola è quello di indurre la gente a credere che un’assenza di scuola sia la scuola del futuro.

Le ragioni sistemiche dell’introduzione dell’IA a scuola sono queste e se qualcuno affermasse che comunque a livello individuale è possibile usare l’IA in maniera costruttiva, risponderei che non ho difficoltà a crederlo, ma che questi usi individuali saranno eccezioni trascurabili rispetto all’impatto del suo impiego generale. In realtà anche a livello collettivo si potrebbero immaginare usi pertinenti e creativi, ma solo a patto di sottoporre a una radicale critica politica l’uso e la concezione stessa dell’IA attualmente dominanti. Questo il compito di docenti e studenti, cioè degli esseri umani che abitano la scuola.

 

 

 

«Dio ti ha morso la gola». Teologia elettrica

3

di Giorgiomaria Cornelio

 

«La natura vivente deve operare

in sé un’operazione elettrica»

Václav Prokop Diviš

Voce: parla Jeoffrey, il gatto del poeta Christopher Smart, confinato nella Mr Potter’s madhouse.

Perché considero il mio padrone Christopher. Perché in primo luogo non si pulisce le pulci del cervello. Perché in secondo luogo non guarda solo in alto. Perché mi fissa come un foro nel muro. Perché venera quel foro e allora non gli serve uscire dalla stanza in cui è richiuso. Perché piuttosto graffia la pagina con le unghie spuntate e crede di suonarle alla maniera delle pietre. Perché le sue orecchie non pungono come le mie. Perché è docile, e poi indocile. Perché prega. Perché mangia pane secco e non lo sputa come fanno i vecchi gatti di strada, e se il cibo non basta lo divide comunque. Perché dimentica il nome delle cose ma non il modo in cui puzzano. Perché questo lo ha appreso da me. Perché è tenace e maestoso come la sua tristezza. Perché l’affare della sua tristezza è soltanto un momento della gioia, e io lo so quando aspetto che la ciotola si riempia un’altra volta di latte. Perché per trentatré volte fa il giro di ogni cosa prima di descriverla. Perché ha un odore di carbone ma non l’ho mai visto annerito. Perché rotola le parole per farle funzionare, e così fanno tutti i poeti. Perché anche lui è un misto di gravità e scherzo. Perché si lascia avvicinare quando trema. Perché una volta ha toccato il mio pelo e il suo cuore ha fatto un salto. Perché da allora mi accarezza come se cercasse una scossa. Perché mi chiama corrente o fuoco elettrico. Perché sono il suo unico amico. Perché fa versi che nessuno capisce ma io sì. Perché ogni secolo ha almeno un poeta. Perché anche lui ora è dei poveri del Regno e così infatti lo chiamo per benevolenza perpetuamente qui dentro nella stanza chiusa – Povero Christopher! Povera bestia! Dio ti ha morso la gola e ora siamo in due a miagolare.

Il nostro felice niente. Per Patrizia Cavalli

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di Rosalia Gambatesa

È il terzo solstizio d’estate dacché Patrizia Cavalli continua a non esserci. È uscita di scena in un momento di requie astronomica come quelli dei suoi teatri di parole mossi dal cielo e catturati dai sensi. Quasi un anno fa, a luglio del 2024, a salutare il suo passaggio solstiziale, usciva, per i tipi di Einaudi e la cura di Emanuele Dattilo, Il mio felice niente, una ampia raccolta antologica di tutta l’opera poetica. Il libro è tale che, oggi, a un anno di distanza, le domande e le linee di riflessione tracciate continuano a richiamare l’attenzione sulla poesia di Cavalli, sulla sua cifra inconfondibile, emblematica dello snodo epocale tra vecchio e nuovo secolo. La sua poesia senza intellettualismi vi si mostra qual è, una pellicola impressionata da tutte le manifestazioni del cielo e dell’umano. Scorre insieme alla vita, nella benedizione e maledizione delle giornate, ora leggere e luminose e foriere di splendidi amori, ora oppresse dal cielo bianco senza speranza di pioggia e volti amati. Impegnata infaticabilmente nella ricerca di una parola vera, non smette, di volta in volta, di tracciare esattamente sulla pagina le giravolte della coscienza, innanzitutto della sua autrice, l’oggetto meglio conosciuto, e poi anche dell’essere così com’è.

Il mio felice niente, pur nelle forme di una raccolta antologica, restituisce appieno l’intensa vocazione conoscitiva di questa poesia di fine della modernità, della sua eticità e dunque della sua necessaria bellezza e felicità. Non sempre le antologie restituiscono la pienezza di un’opera. Talvolta possono suggerire che le poesie siano riflessi di illuminazioni del poeta, frammenti fluttuanti nell’assoluto, alcuni più riusciti, altri meno. Soprattutto per Patrizia Cavalli una raccolta antologica avrebbe potuto tradire la natura macrotestuale delle sue raccolte poetiche in cui i componimenti contano per sé stessi, ma anche per il ruolo svolto sulla scena nel suo insieme. In questo caso non vi è questo rischio e i lettori di Cavalli si sono subito accorti del dono ricevuto e l’hanno generosamente premiato, anche solo a stare alla lunghissima sfilza di post sui social. La preziosa possibilità di avere sotto gli occhi una visione a tutto tondo di una poesia tanto limpida, quanto inafferrabile, è parsa un’occasione imperdibile e l’ha riconosciuto sia chi è abituato da tempo a gioire della poesia di Cavalli, sia chi solo ora vi si sta accostando. Il curatore del resto attinge alle sette raccolte, apparse tra il 1974 e il 2020, col criterio dichiarato di «esporre un ritratto, il più possibile ricco ed esauriente, della poesia di Patrizia Cavalli» e con l’intento «anzitutto di restituirne la varietà dei registri e dei temi» (Nota al testo, p. XVII). L’antologia segue quindi fedelmente il suo io che per cinquant’anni riflette su tutto ciò che colpisce i suoi sensi mentre immancabilmente va e viene tra casa e città, da un divano a una poltrona a un letto, impegnato in una sempre rinnovata quête amorosa, ogni volta ciclicamente ripetuta. E, assai felicemente, acconsente alla gioia dello sguardo e dell’udito interiore sprigionati dal gioco poetico progressivamente più visionario e capriccioso. Lungo le sette raccolte il gioco si ripete e, nello stesso tempo, sorprendentemente, si trasforma generando forme e ritmi via via più ramificati e inattesi.

Non solo, però. Nella teoria dei testi antologizzati salta agli occhi il vero al cuore della ricerca poetica di Cavalli. Anche solo a contare tutte le parole che vi hanno a che fare, se ne trovano più di cinquanta. Ricopio alcuni dei tanti versi in cui le parole appaiono perché se ne possa cogliere, almeno in via esemplare, la portata: «È vero qualche volta / ti assenti» (p. 20) dalle Mie poesie non cambieranno il mondo, «ma in verità non lo farò» (p. 42) e «Ma veramente aspetto » (p. 44) dal Cielo, «Solo a sentire un verbo / che mi sembri vero» (p. 80),  «[…]  perché / non è vero che si torna, non si ritorna  / al ventre» (p. 86) e «il dolore è vero, ma per un po’ lo vedo» (p. 90)  dall’Io singolare proprio mio, «non era proprio vero ma era quasi vero […] / sì, ero così convinta che era vero» (p. 126) ) e «Beh, non ci credo, e fosse pure vero » (p. 152) da Sempre aperto teatro, «folle d’amore, questo unico tempo vero» (p. 160), «È tutto vero, ma è un pensiero sciocco» (p. 162) ), «mentre si gioca seri al Vero e al Falso» (p. 184) ), «forse per questo è meno vero? No, / continua ad esser vero» (p. 198) da Pigre divinità e pigra sorte, «in verità le occupa stabile e immensa» (p. 207) e «– aerei condomini davvero troppo umani» (p. 210) da Datura. Solo le parole col vero di Vita meravigliosa mancano. Non ce la si aspetterebbe una così grande presenza del vero nella poesia cavalliana, quale emerge tanto limpidamente dal Mio felice niente. Per la verità nemmeno negli scritti critici se ne parla di frequente. Il suo io è d’altronde un io continuamente soggetto al vento di scirocco, preso senza requie a ragionare delle proprie incomprensibili piroette sentimentali, da sempre rimproverato di eccessivo narcisismo e onnipresenza.

Scorrendo le poesie dell’antologia non solo saltano agli occhi le tante parole come vero, vera, veramente, davvero, avvera, ecc.. E, in apertura dell’Introduzione di Dattilo, un penetrante aperçu della poesia di Cavalli, lucido ed emozionato, fanno subito capolino le parole veramente e vere – «scrivere veramente poesie» e «vere poesie» – cruciali nel mito dell’investitura poetica ricevuta per telefono da Morante. Nella teoria dei testi antologizzati colpisce anche moltissimo, e questo è un valore per nulla secondario del libro, l’alternarsi apparentemente casuale della straordinaria varietà di forme che restituisce rigorosamente la minuziosa poikilia delle raccolte. La loro capricciosa mutevolezza conferma che «Patrizia si teneva alla sua lingua per non perdersi» (p. IX), priva di «interiorità e motivazioni o esigenze interiori», con un’anima «tutta fuori, tutta visibile e percepibile, dispersa nell’atmosfera»  (p. VIII). Come non pensare allora che la ricerca del vero condotta da un’anima dispersa nell’andare e venire dell’universo non sia affatto in una qualche specifica verità espressa dalle sue affermazioni, cangianti del resto ad ogni cambiar di vento? Ma che, come scrive Dattilo, sia invece «integralmente, nell’esattezza del loro apparire, a volte abbagliante» (p. IX) sulla pagina, che riflette, nell’unica forma ogni volta esatta della lingua, ciò che colpisce il corpo-mente. Perché esattamente così sia, le forme dall’andamento quasi classico arrivano anche talvolta a torcere in modi inaspettati una lingua in genere priva di forzature. Ad esempio ci si imbatte in «Mi scompaio» (p. 27) dal congedo delle Mie poesie non cambieranno il mondo, con scomparire usato nella forma media non attestata; nel perdifiato dei diciassette versi senza principale della prima strofa di «Per simulare il bruciore del cuore, l’umiliazione» (p. 32), messi a specchio con un distico di chiusura impeccabilmente geometrico, dal Cielo; in «stellarti gli occhi» da Vita meravigliosa, con l’uso transitivo di stellare anch’esso non attestato.

Dell’esattezza di questa lingua si è parlato. Ma di fatto un affondo su questo finora non c’era. Dattilo ci si addentra osservando assai opportunamente che l’esattezza è il suo attributo principale, né la semplicità, né la difficoltà, tanto meno la quotidianità. La collega alla finzione, e non c’è da sorprendersi, in quanto è proprio la finzione a sottrarre ogni naturalismo alle sempre ripetute vicende sentimentali e ad aggiungervi un sovrappiù di realtà, e, io direi, anche di verità. Ebbene, la sua antologia da questo punto di vista è esemplare. Tra il piano del dichiarato dell’Introduzione e quello della sfilata delle poesie vi è una singolare specularità. L’evidenza linguistica dei testi antologizzati mostra ogni volta tanto l’artificiosità, quanto l’esattezza del dettato. Non poteva essere diversamente del resto in un lavoro nato da uno sguardo critico capace di stare vicino ai testi senza giudicare, né interpretare il loro io – «Eppure esiste, deve esistere un modo per parlare di Patrizia Cavalli senza cedere alla sua tentazione, senza ricorrere né alle distanze critiche né alle prossimità amicali, e dunque per uscire dall’equivoco del personaggio, su cui troppi si soffermano» (p. IX).

Anche il titolo Il mio felice niente è in linea con la prospettiva critica. Tratto da un verso assai evocativo della poesia di copertina di Vita meravigliosa («Cosa non devo fare / per togliermi di torno / la mia nemica mente: / ostilità perenne / alla felice colpa di esser quel che sono, / il mio felice niente» p. 237), non può, di primo acchito, non farmi pensare al niente dell’amato Leopardi. Sempre troppo poco chiamato in causa a proposito di Cavalli, lo ricorda una volta Berardinelli nella lontana recensione al Cielo dell’‘82 scrivendo del «semplice coraggio delle emozioni, un coraggio leopardiano della nudità e dell’aderenza» («Incognita», marzo, p. 72). È un titolo criticamente preciso perché ritorna a mio parere sulla questione dell’esattezza e del vero. Se la felicità è tradizionalmente pienezza, l’effetto ossimorico dell’accostamento tra la felicità e il non essere, fondamento del corpus poetico antologizzato, è un’altra maniera di ribadirne la verità dell’esatta manifestazione, ogni volta, della lingua. Gira intorno all’io come LIo singolare proprio mio, titolo della terza raccolta e del suo poemetto eponimo, un io carnale, singolare o grammaticale, ma di certo non psicologico, e ha la «doppia simultanea pretesa, in fin dei conti impossibile da realizzare – conoscere e insieme essere ciò che si conosce». Ovvero richiama di questo io un’«insistita assunzione» (p. XIII) e insieme l’opposta natura di sismografo. E forse non è un caso se nella poesia di copertina dell’antologia se ne può scorgere uno svagato riferimento – «Sto qui ci sono e faccio la mia parte. / Ma io neanche so cos’è questa mia parte. / Se lo sapessi / potrei almeno uscire dalla parte / e poi sciolta da me godermela in disparte».

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Patrizia Cavalli, Il mio felice niente, 1974-2020, a cura di Emanuele Dattilo, Einaudi, 2024, XVIII – 270 pp., 14€.

Cercando esasperatamente il dire

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di Stefano Zangrando

Non è facile parlare di La Luce Inversa di Mota (Wojtek Edizioni) senza scomodare certi aggettivi collosi in voga nella critica da social come “dirompente” o “straziante”. Dovendo usare una categoria o una designazione di genere, si potrebbe forse dire che è un romanzo dell’orrore. Del resto la citazione d’apertura, dal Calvino de Le città invisibili, parla d’inferno – a ragione: è un libro di finzione che muove dalle violenze sessuali subite nell’infanzia dai tre protagonisti Vanessa, Siddiq e Martin. Se vivi in tempo di pace (oggi occorre precisarlo) l’inferno è questo.

La cornice in cui è inserita la rievocazione degli abusi ha tuttavia qualcosa, in termini sia stilistici che catartici, di purgatoriale prima e poi di paradisiaco. I tre sono collocati nella «Camera a Luce Inversa» allestita in via sperimentale da una psicoterapeuta, la dottoressa Hollis, e a parlare per loro è unicamente la loro coscienza fattasi linguaggio. Lacan avrebbe forse qualcosa da dire al riguardo, ma qui la resa letteraria conta più della verità psicoanalitica, o meglio la comprende e la sopravanza. Tra le pagine migliori ci sono infatti quelle che descrivono la fusione delle tre figure in un’unico plasma, quello che rende possibili la regressione da un lato, e con essa la riemersione del vissuto, dall’altro la verbalizzazione di un’unità in cui l’io di ognuno va in pezzi e si dissolve: effetto uguale e contrario alla psicosi, che evolve di qui in un campo di energia fraterno, solidale e redentivo. Tutto ciò in una lingua che dà spesso l’idea di aver infranto una corazza d’indicibilità, capace di visione.

Quelle che rievocano i traumi, invece, sono le parti più disturbanti. Vanessa ha subito violenze dal compagno della madre a nove anni, ed è la voce che più veicola la meraviglia per lo stato di eterea simbiosi con gli altri in cui la getta l’esperimento. Siddiq è finito nelle grinfie perverse di un prete a otto anni, ospite di un istituto per minori, e adesso è quello più disposto al legame e al perdono. Martin da ancora più piccolo fu abusato più volte dal nonno paterno, e il frutto a venire è una rabbia che invoca vendetta: per questa ragione, è lui che più fatica ad accogliere l’opzione di una catarsi condivisa. La sua è anche la coscienza verbale di un ragazzo che, dopo una formazione scientifica, si esprime a tratti in modo concettoso e elucubrante – e qui un editing meno indulgente avrebbe forse ripulito alcuni capoversi. Peccato, perché poi è lui che sa dire meglio la «caduta» che la psiche conosce nell’abisso del post-trauma. Ma qualche piccolo garbuglio è perdonabile in un romanzo che non vuole dilettare, che non conosce velature o reticenza, ma cerca esasperatamente il dire, appena al di qua di un terrifico estetismo dell’abuso, oscillando allucinato, come una seduta di ayahuasca, tra i poli del tormento e della grazia.

Nella prima metà del libro, che è costruito per capitoli alterni narrati da ognuno dei tre, i confini tra le personalità e le rispettive regressioni sono ancora definiti; dalla metà in poi le coscienze e i ricordi debordano gli uni negli altri, mentre appare per converso qualcosa di simile a una corporeità astratta, e con essa una casa a più piani nella quale i tre dimorano, e un treno di un solo vagone che attende all’esterno, i binari che s’impennano in un cielo invisibile. È da qui che i tre riprenderanno la via della realtà, dopo che la Luce Inversa li aveva invece riportati «verso casa» – con tutto quel che c’è di infranto nell’idea di casa quando questa diventa l’inferno, dove chi protegge diventa carnefice e chi dovrebbe esser protetto diventa il catalizzatore incolpevole, e poi per sempre intriso d’insanabile vergogna, di un Male che sembra venire da chissà dove, ma che non è che l’uomo guasto, di generazione in generazione.

L’appello finale è un’uscita dalla finzione che l’autore si concede per restituire e invocare una comprensione a chi vittima lo è davvero. E se si è arrivati fin qui, sarà difficile non cedere a un deliquio di empatia. Il profilo biografico di Mota, sul risvolto, si compiace di non aver mai portato a termine una nota scuola di scrittura. C’era bisogno di dirlo? Nessuno che un giorno avrebbe scritto un libro così ha bisogno di mostrare che certi diplomi non fanno per lui. Carta canta, anzi urla.

NdR: un estratto del romanzo è stato pubblicato da NI qui

La mia bolla e Eichmann. Spunto per un’autoanalisi di gruppo.

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NAZI WAR CRIMINAL ADOLF EICHMANN SITTING IN A GLASS CELL, AT HIS TRIAL AT BEIT HA'AM IN JERUSALEM. צילום תקריב של הפושע הנאצי אדולף אייכמן בתוך "תא הזכוכית" המשוריין, במשפטו שנערך בבית העם בירושלים.


NAZI WAR CRIMINAL ADOLF EICHMANN SITTING IN A GLASS CELL, AT HIS TRIAL AT BEIT HA’AM IN JERUSALEM.

di Andrea Inglese

Ve lo ricordate questo signore? Adolf Eichmann. Vi ricordate il reportage-riflessione di Hannah Arendt? Ebbene, vorrei che la mia bolla riflettesse a una cosa molto spiacevole, spiacevole per noi tutti. Anche gli eventi eccezionali ai quali stiamo assistendo, come il progetto di genocidio del popolo palestinese in questo XXI secolo, nascono all’interno di una realtà umana “normale”. Se togliete una minoranza di fanatici, di sadici, di pazzi, che sono riusciti a insediarsi in posti di potere, la maggior parte delle persone che li segue, che accoglie la loro propaganda, che crede alle loro parole e che obbedisce ai loro ordini è gente “normale”, gente che, socialmente, rientra nella norma, ossia non ha commesso in precedenza alcuna azione particolarmente detestabile o ignominiosa. Noi, che abbiamo almeno un certo coraggio e la lucidità, l’integrità mentale e morale, di denunciare questo progetto genocidario, e il bollettino di morti innocenti che ci fornisce giornalmente, dovremmo essere però coscienti di una cosa. Questo noi, che si è nei mesi scorsi rafforzato e che ha preso finalmente, tristemente, i caratteri di una parte sociale coesa e indignata, ebbene questo noi è fatto anche di molte persone, che vediamo all’opera ogni giorno, nel lavoro, nelle relazioni sociali, nelle istituzioni. Ebbene, in alcuni casi mi è capitato di domandarmi, ma tu che denunci con molta ragione e pertinenza certi terribili torti, ma tu saresti in grado, in una concreta situazione, di opporti a una maggioranza? Di opporti a qualcuno di più potente? Saresti in grado di aprire un conflitto, che minaccia certe tue comodità e vantaggi? Non dico questo perché valga, anche solo minimamente, come giustificazione di ciò che sta accadendo. Per niente. Lo dico, perché un lungo soggiorno con gli altri esseri umani, e quindi con me stesso, per l’immagine che gli altri mi hanno rimandato, mi ha fatto capire che la maggioranza delle persone che conosco non ama i conflitti, vuole in genere accedere a una posizione sociale o lavorativa migliore, e mette moltissima energia alla realizzazione di questo obiettivo. Inoltre non ama dover prendere partito di fronte a controversie, se questo può mettere a rischio la sua reputazione o posizione. Io per primo mi riconosco più o meno in questo ritratto. In ogni caso, riguarda anche me. Perché ricordo tutto questo, nel momento in cui parlo dell’indignazione e della denuncia sacrosante che vedo ormai diffuse sulla mia bolla social? Per dirvi che dovreste pensarci due volte prima di denunciare i massacri, gli assedi, le torture che l’esercito israeliano infligge alla popolazione di Gaza o della Cisgiordania? Assolutamente no! Ma pensiamoci due volte, prima di defilarci, di zittire, di spaventarci, ogni volta che assistiamo intorno a noi, anche in tempo di pace, a un’ingiustizia, una stortura, una prepotenza di qualche persona più potente. I cinici, a sinistra come soprattutto a destra, diranno: “Che v’indignate a fare, lo sapete che schifezza è l’uomo!” Noi potremmo approfittarne, invece, per dire: che il nostro comportamento quotidiano sia all’altezza delle giuste indignazioni di ordine geopolitico!

Vivere è molto pericoloso… Conversazione immaginaria con Fabrizio Coscia

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di Giuseppe A. Samonà

A proposito di:Fabrizio Coscia, Suicidi imperfetti, Editoriale scientifica, 2024.

Vorrei invitare i miei amici, le persone che mi sento culturalmente, umanamente affini, a leggere Suicidi imperfetti, di Fabrizio Coscia, ma ecco che per motivare questo mio invito mi trovo preso in tenaglia fra due tentazioni opposte. Da un lato, non ho da dire che tre parole: … perché è splendido! Dall’altro, vorrei impiegare tutte le parole del suo libro, un po’ nella prospettiva del Pierre Menard di Borges che riscrive il Quijote arrivando a un testo nel contempo identico e differente. Perché non c’è una sola osservazione, idea, parola appunto, di Coscia, che non mi abbia riecheggiato, risuonato dentro, che non abbia sentito semplicemente mia, anche dandomi voglia di riprenderla, commentarla, prolungarla. È un’esperienza, questa, capitatami solo con pochi libri, che continuano ad accompagnarmi: come se leggendo io avessi senza interruzione dialogato con l’autore, interpellandolo con domande o riflessioni.

Qui, fra le due tentazioni, provo a realizzarne una terza, e percorro una via più moderata, adeguata: non ordinatamente riassumendo e commentando il libro (mi sembrerebbe, come si dice nell’attuale critica cinematografica, di fare un imperdonabile spoiler), ma semplicemente evocando, con voluto disordine, alcuni stralci di questo mio dialogo solitario, cioè immaginario, per cercare di restituirne lo spirito. E vorrei farlo esponendomi anche personalmente, sentimentalmente, come mi sembra giusto: perché lui, Coscia, non si nasconde mai dietro la parete dell’erudizione, dell’accademia; ma, anche se non parla mai direttamente di sé, con onestà e coraggio delinea in realtà un suo modo di stare al mondo e di intenderlo, di intenderne la bellezza e il dolore, in altri termini, di amare, insieme interrogando il nostro, ad ogni pagina – un po’ alla maniera di Proust o Montaigne che usano gli altri per indagare se stessi e, soprattutto, se stessi per indagare gli altri, l’anima umana. Ed ecco, per cominciare, la mia prima domanda immaginaria a Fabrizio (Coscia), che chiamo pur non conoscendolo per nome, come lui fa con i suoi personaggi, rendendoceli più vicini, quasi li avessimo conosciuti, fossero nostri amici… E dunque : Proust lo nomini una volta sola, ma subito, nella tua introduzione; di Montaigne parli solo attraverso Rachel: quanto hanno contato l’uno e l’altro per arrivare a questo modo ibrido di fare « saggistica » (ma forse il termine non è adeguato)?

Già, Rachel, che è Rachel Bespaloff: le pagine che la concernono sono uno dei picchi della mia lettura, anche perché, per altre vie, Rachel è una mia autrice. Insieme ad altre sue opere, fra cui appunto uno studio su Montaigne, c’è infatti la sua rivoluzionaria, preziosa interpretazione dell’Iliade, che lei intende, in sostanza, come attraversata da una speranza, una possibile alternativa alla guerra. Non nel senso di un facile pacifismo, però, che come l’esaltazione della forza è una sorta di scorciatoia ideologica… mentre la guerra è come la vita, come il mare, il suo « fragore » dev’essere accolto prima che giudicato, anzi (questo, anche, è l’Iliade…), nella sua esaltazione del combattimento, con i corpi in lotta, che a volte sembrano danze d’amore, può persino, a tratti, rifulgere, incantare con la sua bellezza; e tuttavia serve solo a produrre infinito dolore e finisce per svelarsi nella sua radicale inutilità… Ma ecco che dentro la guerra esiste il suo antidoto: lo troviamo nel « resistente » Ettore, nel suo privato spazio d’amore con Andromaca, ma anche nel suo spietato « nemico », Achille, il guerriero per eccellenza, anzi, il guerriero selvaggio che stravolto dall’ira e dallo spirito di vendetta brucia le regole dell’onore, della cultura, e però ama teneramente la madre Teti, e l’amico Patroclo, e si commuove di fronte a Priamo, cui ha ucciso il figlio che gli aveva ucciso il suo Patroclo, o ancora canta, suona la cetra, quasi fosse una fanciulla (del resto, in un certo senso, lo è stato, una fanciulla, prima di partire per la guerra, proprio per cercare di evitarla) … Bespaloff analizza l’Iliade incrociandola con Guerra e pace e ancor di più con la Bibbia, impegnate tutte e tre, ognuna a suo modo, a stigmatizzare la hybris, nel senso dell’« orgoglio umano e della volontà d’onnipotenza ». Come non riflettere allora sul fatto che il greco Omero prova identica compassione per i « suoi » Achei e per i « nemici » Troiani? Può questo orientarci, esistenzialmente prima che politicamente, nella tragica attualità che viviamo in questo periodo, con il suo viluppo di devastanti conflitti? Ma oramai non si tratta più di Coscia, e neanche di Bespaloff; in realtà, senza accorgermene, sono approdato fra le mie riflessioni e parole: è un esempio delle risonanze di cui dicevo all’inizio.

Coscia invece – e non ci avevo mai pensato prima, e mi sembra un accostamento più che adeguato, necessario – sviluppa la sua analisi mettendo in parallelo Rachel Bespaloff e Simone Weil: entrambe ebree, entrambe costrette a espatriarsi a New York (anche se Weil poi riparte per l’Inghilterra, dove muore, a trentaquattro anni, nel 1943), rileggono l’Iliade nello stesso periodo, cioè sul finire degli anni Trenta, dentro la guerra e le persecuzioni che incendiano l’Europa, « senza sapere l’una dell’altra » (ma veramente, Fabrizio? a me viene voglia di approfondirla, questa coincidenza, questa mancata comunicazione…): anche se Weil, a differenza di Bespaloff, ne fa il poema in cui si rivela in tutta la sua necessità «la violenza brutale della forza ». Eppure proprio Bespaloff, che nell’Iliade era riuscita a scorgere una possibile via d’uscita e, a differenza di Weil, era sopravvissuta alla guerra, e non solo, aveva potuto salutare con speranza la nascita di Israele nel 1948, si toglierà la vita, nel 1949. Impossibile non pensare a Stefan (Zweig), altro personaggio del libro, che pur al sicuro e tranquillo in Brasile, si toglie la vita nel 1942, nel cuore della tragedia, di cui pur non può ancora cogliere l’incommensurabile ampiezza. O anche a Walter (Benjamin) e a Primo (Levi), che nel libro non ci sono, ma cui il libro, con altri, altre, è dedicato, i quali si toglieranno la vita, l’uno nel 1940, mentre dalla Francia oramai nelle mani dei nazisti fugge verso la Spagna franchista, l’altro nel 1987, più di quarant’anni dopo la fine della guerra, nella sua tranquilla Torino. Come se prima o dopo, anche molto dopo, nel pericolo o al sicuro, oramai confortevolmente installati nella vita, la catastrofe non lasciasse mai scampo, fosse inevacuabile.

Eh sì… Rachel, Stefan, Primo e Walter (che pur non essendoci ci sono…). Suicidi imperfetti – questo almeno va brevemente rivelato, anzi, avrei forse dovuto farlo all’inizio – indaga, racconta, con ritratti più o meno brevi, diciannove morti volontarie di artisti, scrittori, soprattutto, ma anche cantanti, pittori, attrici e attori. Con una prima sorpresa, che rapidamente mi è apparsa come un’evidenza, qualcosa che non poteva che essere così: le pagine che via via leggiamo, anche le più dolorose, sono piene di luce. Sempre! – e mai neanche un’oncia di curiosità malsana, di morbosità. E, quasi da subito, mi è venuta in mente una frase di Vladimir Jankélévitch (estratta dal suo La mort – l’avevo tradotta, poi all’ultimo momento la riscrivo in francese, che i lettori di Nazione Indiana leggono per vocazione, perché è così che, a distanza di anni, canta nella mia memoria): [La mort est] si simple que nous nous demanderons, le jour où nous saurons, comment nous n’y avions pas pensé plus tôt. L’avevo annotata a metà degli anni Novanta, a Montréal, dove dispensavo una parte del mio insegnamento in storia delle religioni antiche al Centre d’études sur la mort, con studenti che erano per lo più tanatoprattori, malati terminali, persone fortemente colpite da un lutto, infermieri in strutture di cure palliative, etc., quasi sempre giovanissimi. E sono stati incontri straordinari, momenti, oggi ricordi, fra i più forti della mia vita. Più volte mi sono tornati in mente, leggendo il libro di Coscia. Ad esempio, con Norma Jeane, meglio conosciuta come Marilyn Monroe, ho ripensato a quella lontana notte d’inverno… Ero uscito dal corso con Stéphane e Chantal, che erano a metà dei loro vent’anni, lui malato di AIDS, lei di cancro, oramai avanzato, innamoratissimi, e si corrispondevano non corrispondendosi: Chantal era piena di desiderio, Stéphane, omosessuale, di tenerezza e d’amore, ma al di qua, o al di là, del sesso – le voleva bene. Durante il corso aveva nevicato, tutto era adesso coperto da una coltre bianca, e continuava a nevicare, il rumore dei nostri passi era completamente attutito, c’era uno spicchio di luna annebbiato, sembrava di stare dentro una fiaba – e Chantal, guardando me ma pensando a Stéphane, al suo amore felice-infelice, ha detto (quasi a prolungare Jankélévitch sul campo) qualcosa come: La verità è che la morte è molto più semplice, tranquilla della vita, che non si capisce niente ma a volte, che meraviglia… (Chantal è morta qualche mese dopo quella notte). Incontri, incontri pieni di grazia. La stessa grazia che ho ritrovato in ogni pagina del libro di Coscia, che è la grazia – anche se a volte dolorosa, tragica – della vita.

(Ma perché mai le pagine su Norma Jeane / Marilyn mi hanno riportato a quella notte montréalese? Perché cominciano con la neve, certo, ma, ben di più, perché sono fra le più fisiche, corporee, sanguigne del libro. Attraverso la scrittura la rivediamo, in una scena del suo ultimo film, abbracciare l’albero, ubriaca, disperata e poi improvvisamente, il suo volto ci sta di fronte, trasfigurata dalla luce, come in preda a un’insensata, infantile allegria – e sappiamo che ha dentro la morte, non come ce l’abbiamo dentro tutti, ma con l’urgenza di quel che sta già per avverarsi. E ci viene voglia – parlo al plurale, credo che gli altri lettori, in quel momento, hanno avuto, avranno lo stesso slancio – di abbracciare con lei quell’albero, o di abbracciarla da sola, ma non per via della sua indimenticabile, sensuale bellezza, ma perché sentiamo che la morte, dentro quell’improvvisa luce, è in agguato, e ci struggiamo di tenerezza, di agape, vorremmo potere, magicamente, rassicurarla, e scacciarla via, la morte… E appunto, ho ricordato che avrei voluto abbracciare, con lo stesso spirito, Chantal, anche se il suo agguato era diverso, ma sempre di morte si trattava…)

Questo è il punto, fondamentale. La morte, in questo libro, non è l’obiettivo, o lo è nel senso letterale, di una lente attraverso la quale si cerca di cogliere la vita, che è ben più complessa. « In fondo la vita è molto più illogica della morte », lo dice anche Coscia, anche se una volta sola, incidentalmente, ma trasuda da ogni sua frase. Perché – e penso sempre a Jankélévitch, e in particolare al suo La mort, ma anche agli anni trascorsi a Montréal, in cui con la morte, per così dire, dialogavo sul campo – il tabù della morte è in realtà un tabù della vita, la morte vivendo di un curioso paradosso: è l’empêchement de vivre ma anche le moyen de vivre; in questa prospettiva,  è il limite che dà forma e significato a quello ch’essa contiene, la vita. Così, siamo vivi, viviamo, solo perché siamo mortali, e in questo senso il est bien vrai que ce qui ne vit pas ne meurt pas ; mais c’est parce que ce qui ne meurt pas ne vit pas. Insomma, come ha detto Epitteto: « sia maledetta la vita senza la morte… » Come dire: chi nasconde la morte, nasconde la vita. Chi, invece, avendo pienamente vissuto, muore, accede all’unica – molto omerica – forma di immortalità, nel senso che, per citare di nuovo Jankélévitch, che è stata una delle principali scoperte libresche di quegli anni canadesi: Celui qui a été ne peut plus désormais ne pas avoir été : désormais ce fait mystérieux et profondément obscur d’avoir vécu est son viatique pour l’éternité.

Ecco, nuova risonanza, forse la più risonante di tutte: perché mettendo a fuoco la storia della deliziosa (è l’epiteto che mi viene sempre, naturalmente, da incollarle dietro…) Jean (Seberg) Coscia – veramente alla Pierre Menard – atterra letteralmente sulla mia scrivania, dentro la mia pagina, con una scena su cui mi sono già più volte soffermato, e che fa di nuovo parte di un mio lavoro in corso. Con parole diverse ma identiche. E, attenzione, non si tratta qui di quell’insopportabile vanità da salotto per cui, parlando di altri, uno ne approfitta per parlare di sé, bensì dell’esatto contrario: rivelo questa coincidenza per dare valore alla scrittura di Coscia. Leggendo, mi è balzato il cuore in gola – e non ho appunto altro modo, per dare la misura di questa risonanza, che raccontarla, mischiando le nostre parole.

E dunque: Coscia introduce alla tragica morte della giovane Jean nella realtà, soffermandosi, nella finzione, sull’ultima scena di À bout de souffle, il film di Godard (ma c’è anche lo zampino fondamentale di Truffaut !) che in qualche modo l’ha resa famosa e, letteralmente, immortalata. A morire adesso, ucciso da una pallottola, è il protagonista, Jean-Paul Belmondo / Michel, nel film perdutamente innamorato di Jean / Patricia, che lo tradisce, ma prima di morire, sdraiato per la strada, agonizzante, lui dice, guardandola, e lei lo guarda, e il gioco degli sguardi è il fulcro di questo movimento di immortalizzazione: Tu es vraiment dégueulasse… « Sei veramente schifosa », e muore. Jean allora si guarda intorno (ancora sguardi), e chiede alle persone che si sono radunate cosa lui abbia detto, non ha capito, qualcuno glielo ripete, e lei soggiunge (con quel francese così esotico, teinté di americano): Qu’est-ce que c’est dégueulasse ? « Che cos’è ‘schifosa’ ?», e di nuovo guarda, ma dritto davanti a sé, come nel vuoto, attraverso la musica di Martial Solal, di fronte ci siamo oramai rimasti solo noi spettatori in sala che già da un pezzo ce ne siamo innamorati, di quegli sguardi, di quell’accento esotico, di quella sua bellezza deliziosamente androgina, e si passa un dito  sulle labbra carnose, e si volta per andarsene, mentre cala la parola fin… (Fabrizio, ma queste parole sono tue o mie? dov’è la frontiera? sono nostre?) Ma chi o cosa è dégueulasse ? Jean / Patricia? La morte che sta per portare via Jean-Paul / Michel? O forse, entrambe… Così, ovviamente (ovviamente per me) questa scena mi rimanda all’altra, precedente, « mia » scena… Patricia / Jean intervista insieme a un gruppo di giornalisti e ammiratori il famoso insopportabile scrittore-filosofo Parvulesco, impersonificato da un perfetto Jean-Pierre Melville – e proprio alla fine della serie di domande e risposte torna a chiedergli (glielo aveva già chiesto qualche attimo prima, senza ricevere attenzione): Quelle est votre plus grande ambition dans la vie ? E questa volta lui, dopo un attimo di riflessione, sentenzia: Devenir immortel, et puis… mourir ! … ‘Un attimo di riflessione’, in cui prima di parlare si leva gli occhiali da sole che non aveva fino ad allora mai tolto, rivelando finalmente i suoi occhi; e dopo aver ascoltato la sua risposta, se li leva anche lei, bellissima, i loro sguardi, di nuovo gli sguardi, riempiono lo schermo, restando sospesi nell’aria, intrecciandosi, di nuovo, all’onnipresente musica di Solal, che comincia proprio in quel momento – e la scena finisce. Quel puis sarebbe in realtà un anche, una contemporaneità… Non a caso, ricordo che quando ho visto il film per la prima volta mi son ricordato di Nausicaa, con Ulisse (di nuovo, Omero), in uno sceneggiato televisivo del mio tempo bambino, preceduto dall’inconfondibile voce di Ungaretti, perché… anzi no, questo lo racconto in un’altra occasione, altrimenti, come a scuola, rischio di andare “fuori tema”, o almeno, di addentrarmi in un terreno troppo vasto. Così, tornando al libro di Coscia, mi limiterò a sottolineare che il modo in cui è disegnato il tragico itinerario di Jean S., che si suiciderà ad appena quarant’anni, mettendo una accanto all’altra vita e finzione, sovrapponendole persino – belle, struggenti le righe che analizzano uno dei suoi ultimi film, Les Hautes Solitudes, di Philippe Garrel – è uno splendido esempio di « morte immortale » (le virgolette includono parole mie), nel senso del « sigillo di verità [posto] alla propria opera » (le virgolette includono parole di Coscia). Chi ha visto una volta À bout de souffle non può non tornare a vederlo e a rivederlo, anche, soprattutto, per risprofondarsi in quello sguardo, in quei lunghi primi piani che scolpiscono il volto di Jean, quasi che la sua bellezza androgina – è l’immagine che per sempre ce ne resta – fosse il sintomo di una palingenetica armonia, rendendo palese il « viatico per l’eternità » di cui parla Jankélévitch.

Ora però, è esplicito, è ovvio, e non è un dettaglio da poco, in questi ritratti di vite osservate attraverso la lente-morte si tratta di una modalità particolarissima, e tutta umana, del morire, si tratta appunto di suicidi. Una sorta di deroga alla legge universale che caratterizza la morte: mors certa, hora incerta. Sappiamo che dobbiamo morire, non sappiamo quando: il che è la caratteristica fondante del nostro passaggio sulla Terra. E se l’incertezza del momento si rivela peggiore della certezza dell’evento, se è l’aspetto più insopportabile della nostra condizione di mortali, scegliendo noi il momento della morte è un po’ come se la scardinassimo, la morte, ce ne appropriassimo, acculturandola. Questa prospettiva che accomuna tutte le morti di cui si parla nel libro – o meglio, come dicevo, le vite che le hanno contenute – può ovviamente essere dettata da motivazioni diverse, a volte opposte: pura disperazione, megalomania, affermazione di libertà e / o verità, rivolta contro o rifiuto di accettare il male, impossibilità di sentirsi dentro la propria vita, fatica del vivere, incapacità, o semplicemente allergia all’incertezza, alla minaccia, alla sofferenza, fisica o morale, individuale o collettiva, paura, come quando la nave affonda e i topi si buttano a mare (ognuna di queste diverse situazioni mi rimanda all’una o all’altra delle vite raccontate nel libro…). Le analisi tipologiche, a partire da quella paradigmatica di Durkheim, non mancano certo, e varrebbe la pena di considerarne alcuni aspetti, se quello di Coscia fosse un libro sul Suicidio, ma non lo è… Non è neanche, lo ripeto, un libro sulla morte, se non in quanto solo la morte – non solo come « lato oscuro », ma anche come limpido contenitore – fa rilucere la vita.

In generale, scendendo nella tragica concretezza di quelle esistenze, al di là delle astratte disquisizioni tipologiche, possiamo forse – ma con modalità diverse, dal felicemente realizzato Stefan Zweig, con dentro la devastazione della tragedia che sta disumanizzando l’Europa, all’irrealizzata, radicalmente precaria Marina Cvetaeva – adottare per tutti gli itinerari raccolti nel libro la formula proprio di Marina C.: «Soffro, in generale, di atrofia del presente – aveva scritto a Boris Pasternak – non solo non ci vivo: non ci càpito neanche di tanto in tanto». Un altro picco, per altro, Marina C., ultimo ritratto del libro. Il più bello ? Non saprei, probabilmente quello che avrei scelto, se avessi voluto fare un semplice compte-rendu,   per illustrare la qualità e l’originalità della scrittura di Coscia, nel contempo sobria e struggente, asciutta e appassionata, lieve, capace in pochi tocchi di restituire gli strati più profondi di un itinerario di vita, impregnata com’è di un umanesimo non dogmatico in cui sento di riconoscermi. (Già, l’impossibile presente: come non pensare allora che il capolavoro del pieno di successo di Zweig sia Die Welt von Gestern, « Il mondo di ieri? »).

L’intelletto dell’uomo deve scegliere: la perfezione della vita o quella dell’opera, ha detto Yeats. Eppure, gli itinerari descritti da Coscia sembrano in qualche modo dire il contrario, vita e opera sono intrecciate, si scambiano continuamente i ruoli, in un percorso in cui sofferenza e felicità, assenza e pienezza, persino estasi, sono spesso separate da un millimetro, a volte sovrapposte. Non è del resto questa estrema vicinanza del buio e della luce, della presenza e della nostalgia una delle caratteristiche più imprescindibili dell’amore, la cui scintilla ogni volta fa ricominciare il mondo dall’inizio, come se fosse la prima volta? I never felt magic crazy as this, «Non ho mai provato una magica follia come questa », o anche, ancor più a fior di pelle, Non mi sono mai sentito così magicamente folle, come canta in Northern Sky Nick (Drake), in quella che Coscia definisce, a ragione, «tra le più belle canzoni d’amore mai scritte »; Nick che muore a ventisei anni, stroncato da « un’overdose di Tryptizol » – di nuovo, di quel fragile, breve percorso Coscia ricostruisce i sottili fili, l’equilibro doloroso fra insuccesso e purezza – ma io mi chiedo anche se quella spasmodica capacità di sentire ed esprimere l’amore, quasi Nick fosse mancato di pelle, di protezione, e l’amore gli fosse arrivato dritto dentro il cuore, non sia l’altra faccia dell’incapacità di difendersi dal male. E cosa dire allora, con un richiamo numerologico che dà i brividi, delle tre J della mia adoloscenza? Anche loro inizio anni Settanta, e vissuti solo qualche mese in più, accomunati dalla maledizione dei 27 anni: Jimi, Janis, Jim … – e cosa di Amy, vero e proprio amore della mia « maturità », morta nel 2011, anche lei a 27 anni? Non c’è niente da fare, il libro di Coscia induce alla confessione, all’eruzione dei nostri propri amori artistici e non solo, ed è parte non secondaria del suo fascino… Così, in equilibrio fra l’esaltazione dell’amore, nel senso del fantasma-passione, del sogno-illusione di pienezza, non dell’agape, e il suo potere distruttivo, mi viene da pensare anche all’insostenibile viaggio sentimentale a tre di Lou (Salomé, con di nuovo la magnetica, inafferrabile androginia), Paul (Rée) e Friedrich (Nietzsche) – ancora una volta restituito da Coscia con pochi tocchi, tutti indovinati con millimetrica giustezza. L’intenso momento di felicità, di pienezza, e il dolore, la perdita, il senso di abbandono, sono dunque così vicini da passare necessariamente dagli uni agli altri?  Chiunque abbia vissuto, viva con intensità le proprie emozioni, i propri sogni, capisce di cosa si parli, qui – forse perché il dolore come il piacere appartengono alla vita, non alla morte, che è sempre più semplice, e in definitiva rassicurante. Del resto il gioco, proprio quando ci confronta con il rischio, non è l’esperienza più inebriante, più divina di cui siamo capaci noi umani? Il libro di Coscia, in questo senso, sembra anche una variazione di quel che dice e ridice Riobaldo, nel Grande Sertão: « Vivere è molto pericoloso. »

In questo, anche, mi sembra risiedere la chiave di Suicidi imperfetti. « Imperfetti – spiega Coscia – perché nessun suicidio, nemmeno il più lucido e programmato, si compie in una perfezione d’intenti », nel senso che le tracce del dubbio, cioè della vita, vi si insinuano sempre. Ma anche perché, mi verrebbe da aggiungere con Riobaldo, è la vita stessa a essere imperfetta, insicura, pericolosa appunto, ed è solo da dentro la vita, dunque imperfettamente, che si può decidere di sabotare, di governare la morte, bloccandone per anticipazione la sua indeterminatezza fondatrice. Eppure, è proprio nella sua imperfezione, cioè, molto concretamente, nel suo suo essere limitata dalla morte che, come si è già detto, la nostra vita umana accede a una sorta di immortalità: il limite infatti è anche « il viatico »…. Sì, la morte esalta la vita, la ferma, la rende per sempre (ricopio qui una frase annotata dentro il libro, alla fine dell’itinerario di Cesare…).

Del resto, a proposito di Cesare, cioè Pavese… No, qua mi devo proprio fermare! Perché mi rendo conto che sono scivolato nella sindrome di Pierre Menard, con la tentazione di riscrivere lo stesso libro, quello di Fabrizio Coscia, a modo mio; ogni itinerario mi suscita un ventaglio di riflessioni, di risonanze, e io non ne voglio rivelare più nulla, lasciando all’eventuale lettore il piacere di scoprirne gli itinerari, i risvolti ancora inesplorati. Tuttavia, al di là delle tante altre cose che appunto rinuncio a dire, almeno uno spunto, l’ultimo, il più urgente, vorrei molto velocemente accennarlo, a partire dal personaggio che più di tutti mi ha acceso il desiderio di « riscrivere la stessa storia ».

Nell’itinerario di Paul/ 1 (Celan – Paul/ 2 è, come si è visto, Rée), Coscia mette finemente in rapporto la poesia Corona con la prima sefirah della Cabala ebraica, Keter, appunto « corona », che nella prospettiva della gematria può rinviare al numero 20 (è il valore della lettera Kaf), il quale ricorre nel racconto di Coscia come importante strumento esegetico e anche, per così dire, calendariale (c’è fra altri l’enigmatico « 20 gennaio » che sarebbe inscritto in ogni poesia, di cui Celan parla in occasione del premio Büchner, attribuitogli nel 1960, e che Coscia cerca intelligentemente di interpretare; e il 20 aprile 1970, in cui il poeta si toglie la vita…). In particolare, il 20 « rimanda al Nulla prima della creazione », la quale, di fatto, proprio in quanto « esilio di [da] Dio » introduce alla Storia, al male (e ometto, sia pure a fatica, i momenti cruciali della vita di Celan, ricomposti nel libro, che sostanziano drammaticamente questa prospettiva diciamo astratta). Concretamente, « come continuare a fare poesia dopo Auschwitz »? e per di più nella lingua degli aguzzini? Marina Cvetaeva ha detto che « tutti i poeti sono ebrei », e Coscia la cita, proprio a proposito di Celan, per avvalorare il fatto che « la poesia porta il segno non solo della follia schizofrenica, dell’ine­vitabile dissociazione dall’Altro, ma anche il segno incancellabile dello sterminio. »

Ecco, da qui in poi (l’itinerario di Celan è fra i primi del libro) un pensiero mi si è affacciato nella mente, e si è via via arricchito. Delle diciannove vite di artisti che Coscia sceglie di restituire, tredici sono di scrittori (nel senso di scrittori e scrittrici, ovviamente, e includendo in questa categoria anche i poeti). Per alcuni di essi il legame con l’ebraismo è racchiuso nella biografia, è ovvio, e a volte irrompe prepotentemente nel progetto di scrittura; ma per altri, me ne sono reso conto ad esempio leggendo l’itinerario di Virginia (W…), sembra esistere in modo sotterraneo, sfumato (ci sarebbe da fare una caccia al tesoro attraverso gli indizi che Coscia – Fabrizio, volontariamente? – dissemina nelle pagine che la concernono; in particolare, fra altri temi, mi ha colpito la tensione fra la parola, la parola scritta, con la sua capacità di rendere reale il mondo, sia pur frammentariamente, quindi illusoriamente…, e il silenzio). Da qui, la domanda che mi sono fatto, e faccio anche a te, Fabrizio: non si potrebbe dire, come a continuare l’affermazione di Marina Cvetaeva, che, almeno nel mondo che a torto o a ragione chiamiamo Occidentale, « tutti gli scrittori sono ebrei », o se preferisci, per uscire dalle formule ad effetto, che hanno un legame inevitabile con l’ebraismo, come una sorta di luce che illumina la radicale solitudine in cui ogni scrittore si trova ? Lo dico non per fare una boutade ma, molto semplicemente, perché non conosco, sicuramente non alle origini del nostro percorso Occidentale (che molto deve anche alla straordinaria Grecia dell’« oralità »), un’altra cultura che abbia messo la parola scritta così « religiosamente » al centro della propria identità collettiva, trasformando il leggere e lo scrivere in veri e propri atti sacri, inventando, alimentando lo studio, il commento infinito, e nel contempo questionando il proprio rapporto ai testi. E poi, ripensando sul finire del tuo libro al mistico Celan, e al male della Storia che inevitabilmente accompagna la creazione, mi è tornato in mente il Midrash Rabbah, con un’immagine a commento del primo versetto della Genesi che dà le vertigini: « [In principio] Dio guardava nella Torah e creava il mondo ». Il Libro insomma preesisterebbe e dirigerebbe la Creazione! Nella prospettiva del tuo libro, la scrittura mi è dunque apparsa come un ponte verso il Prima del Tempo, o se preferisci verso il Nulla vagheggiato da Celan, un mezzo capace di penetrare il complesso groviglio di felicità e dolore che caratterizza l’esistenza umana, come anche, potendo idealmente posizionarsi prima della Creazione, di ricominciare a creare, mondi nuovi, diversi, che meglio ci si adattano rispetto a quello in cui ci è stato dato di nascere – in ogni caso, luoghi inventati, impalpabili ma ben reali, che ci orientano, ci aiutano, e ci permettono di vivere. Per altro, il testo, ogni testo, non è solo « creazione », ma anche dialogo, confronto, riscrittura, ricerca di significato…. Insomma, in questo senso, non è lecito pensare che ogni qualvolta ci mettiamo a scrivere, anche senza saperlo, partecipiamo di questo paradigma?

***

P.S. L’appendice, le liste. I 19 artisti di Coscia, di cui come nel suo indice, indico solo i nomi, alcuni sono già sciolti qua sopra, altri dovrebbero, credo, potersi indovinare, per i restanti si potrà eventualmente leggere il libro (già, Fabrizio, perché in quest’ordine? non alfabetico, non cronologico, né per nascita o per morte… forse solo nell’ordine in cui li hai pensati ?): David, Cesare, Francesca, Paul/ 1, Enrique, Virginia, Nick, Yasunari (con Yukio), Philipp, Jean, Stefan, Paul/ 2, Sarah, Emilio, Rachel, Marilyn, Hart, Mark, Marina. Gli artisti che nel libro non ci sono ma avrebbero potuto esserci e a ai quali, con tanti altri, il libro è dedicato: Vitaliano, Sergej, Luigi, Sylvia, Lucio, Walter, Kurt, Violeta, Guido, Stig, Primo, Amelia, Vincent. Alcuni (solo alcuni) degli altri artisti di cui avrei voluto leggere o scrivere io (fra suicidi reali o solo in parte o chi lo sa) : Jimi, Janis, Jim, Salvador, Ingeborg, Hans alias Jean, Simone, e Franz, anche se fisiologicamente muore di malnutrizione e tubercolosi in un sanatorio vicino Vienna, poco prima di compiere quarantun anni, perché più di tutti incarna quel paradigma profondo di cui ho detto alla fine di questo mio testo.

Il mio nuovo compagno di classe

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Foto di Brigitte Werner da Pixabay

di Max Mauro

Tom arrivò a scuola a metà mattina, era quasi ora della ricreazione e tutti fremevano per scappare fuori. Io e Devis avevamo già pronte le squadre per la partita di calcetto con la palla da tennis, tre contro tre, sulla pista di atletica. I limiti delle porte erano fissati con dei sassi che alla fine della ricreazione lasciavamo ai bordi della pista, per evitare che qualcuno ce li buttasse via. Quel giorno avevamo ingaggiato Marco Tollis della prima B, era uno dei migliori calciatori della scuola, ed era la prima volta che giocava con noi sulla pista di atletica. Il quarto d’ora di corse e calci all’aria aperta rubato ai banchi della scuola media era, per noi, la cosa più memorabile della giornata.

Insomma, avevamo dei pensieri importanti a cui badare quando Tom si presentò in classe. Beh, non andò proprio così. Fu il preside, il professor Vidotto, ad entrare in classe e tutti si alzarono subito in piedi, come ci avevano istruiti a fare. Era la lezione di italiano con la professoressa Turchet, l’unica tra i prof che non mi mettesse a disagio, anzi spesso mi faceva stare bene, pur essendo io uno studente inguaribilmente distratto.

Il preside entrò e dietro di lui, nascosto dal suo corpo massiccio, lungo e largo come un armadio a due ante, si intravedeva un bambino, un essere piccolo, ma chiunque di noi sarebbe apparso minuscolo accanto al prof Vidotto, che da ragazzo aveva giocato a rugby perché era cresciuto nel sud della Francia. Noi in prima media non ci consideravamo più bambini, perché le medie erano per gente grande, le elementari erano per i bambini. Però Tom, come venne presentato dal preside, mi apparve un bambino, e un bambino piuttosto strano.

Indossava stivali di gomma, di quelli che si usano per andare nei campi quando piove o nell’orto in autunno. Erano piuttosto sporchi, come se fosse arrivato direttamente dai campi. Magari era quella la ragione per cui non era venuto a scuola al mattino, all’inizio delle lezioni, perché era stato nei campi ad aiutare i grandi. Ho notato prima gli stivali, gialli con macchie marroni di terra, di pantano, e poi la giacca. Era un giaccone, a dire il vero, forse passatogli da un fratello più grande, perché era fuori misura per lui, gli arrivava quasi alle ginocchia e le maniche erano arrotolate all’altezza dei polsi. Gli stivali e il giaccone sono state le prime cose che ho notato quando il professor Vidotto si è scostato per presentarlo.

Ragazzi – disse – questo è Thomas, ma chiamatelo Tom, il vostro nuovo compagno di classe. E’ appena arrivato dal Sud Africa.

Poi il preside rivolse lo sguardo alla prof Turchet, che da quando era entrato stava in piedi accanto alla cattedra immobile come una balaustra, e sorrise, un sorriso piccolo piccolo come quelli che fa il parroco quando passa per le case a benedire (e veramente l’unica ragione per passare è raccogliere la decima). Poi uscì.

Tom rimase in piedi, bloccato nel punto in cui si trovava, a mezza via tra la cattedra e la porta, sull’angolo della lavagna. La sua testa copriva parte delle cose scritte dalla prof Turchet: si leggeva “unzione”, stava spiegando la congi-unzione, la terribile congiunzione.

Tom aveva capelli biondi, lisci e piuttosto lunghi, anzi proprio lunghi. Nessuno di noi portava i capelli lunghi. Io, che avevo i capelli ricci, dovevo tenerli sempre corti. Vai a tagliarti i capelli, diceva mio padre appena notava lo spuntare di un riccio sulla fronte. E io andavo a tagliarli. Mi pareva fosse una cosa giusta da fare, tagliare i capelli, perché faceva contenti gli adulti, e poi gli adulti hanno sempre ragione, pensavo al tempo. Com’era possibile che Tom portasse i capelli così lunghi? Non aveva dei genitori che gli dicevano di tagliarli, che gli davano i soldi per andare dal barbiere o lo portavano direttamente?

Era abbronzato, anche se eravamo a febbraio. Beh, se era appena arrivato dall’Africa, ci stava che fosse abbronzato, pensavo io. Ma che posto era il Sud Africa? Quasi tutti, nella mia classe e nel paese, avevano parenti all’estero, e molti di noi erano nati nell’emigrazione. Io e Devis, per esempio, eravamo nati in Svizzera, come anche Sandra e Maurizio. Marino era nato in Francia, come il prof Vidotto, altri erano nati in Belgio. Io avevo parenti in Canadá e perfino in Argentina secondo una zia che non vedevamo mai e non sono nemmeno sicuro fosse mia zia. Ma il Sud Africa, chi mai andrebbe in Sud Africa, pensavo tra me.

La prof indicò a Tom un posto in uno dei banchi in prima fila e lui si sedette, con il suo giaccone addosso, e la testa coperta di capelli che cadevano anche sul viso. Da quel po’ che riuscivo a vedere del suo viso, mi appariva pallido, nonostante l’abbronzatura. Io al posto suo, con gli occhi di trenta bambini, anzi ragazzi, addosso, sarei diventato bianco come un cencio, sarei sparito sotto il banco. Se fosse arrivato all’inizio delle lezioni sarebbe stato diverso, non avrebbe avuto tutta quell’attenzione su di sé, ma così, a metà mattina, era un po’ difficile. Mi fece pena.

Tom non aprì bocca, nessuno ebbe modo di sentire la sua voce. Forse la prof Turchet, che era un adulto insolito, non voleva imbarazzarlo ulteriormente facendogli domande, e lo lasciò tranquillo. Forse non parlava bene l’italiano, e lei lo sapeva. Magari parlava la lingua del Sud Africa (ma che lingua parlano in Sud Africa? A scuola non lo insegnavano) e il friulano, come tutti gli emigranti, ma non l’italiano.

Suonò la campanella e la classe si svuotò rapidamente.

Non so se lui rimase seduto al banco in prima fila o si alzò come facevano tutti. Io scappai veloce verso la pista di atletica con Devis. L’unica cosa che mi interessava era la partita di calcio con la palla da tennis e mi dimenticai presto del bambino-ragazzo col giaccone troppo grande, gli stivali di gomma, i capelli lunghi, e del Sud Africa.

Il calcio con la palla da tennis era un gioco particolare. Non era come giocare a pallone, gli spazi erano ridotti e la palla piccola piccola, che non potevi distrarti, la dovevi guardare sempre perché non sfuggisse via. Quando la colpivi bene, la colpivi forte, faceva un suono come di uno sparo, PAM!, e schizzava a cento all’ora. Era troppo veloce e c’era il rischio che finisse nel canale che separava la scuola dai campi; quindi, avevamo stabilito come regola di non colpirla troppo forte. Le regole venivano decise dai giocatori, come è giusto che sia, anche se io e Devis avevamo più autorità; io perché avevo inventato il gioco e Devis perché portava la palla, che aveva preso (o rubato) dalla borsa da tennis del fratello più grande.

Quando tornammo in classe, sudati e confusi come sempre alla fine della ricreazione, trovammo Tom seduto al suo posto, nella stessa posizione in cui l’avevamo lasciato, con il giaccone e tutto il resto, non era cambiato niente.

Alla fine della lezione, vidi Alberto Zuffi avvicinarsi a Tom. Zuffi era di San Marchisio, il paese da cui veniva Tom, cioè era il paese di suo padre, che era emigrato da giovane in Sud Africa e ora era rientrato con il figlio. Chi mi aveva riferito la storia non aveva menzionato la madre, forse era rimasta là, forse era morta, nessuno lo sapeva. Zuffi, che era il migliore della classe ma non lo dava a vedere, era uno fondamentalmente buono. Quelli del suo paese mi avevano detto che era il capo dei chierichetti, portava l’aspersorio durante le benedizioni e la croce durante le processioni. Era sempre il primo nelle cose da grandi, ma nel calcio e nello sport, no, non era bravo, non credo fosse interessato. Per questo motivo io e Devis non gli davamo molta attenzione, però riconoscevamo che non era cattivo. Fu grazie a lui che conoscemmo Tom.

Zuffi lo aveva avvicinato perché avevano dei parenti in comune, suo padre era un mezzo cugino di sua madre, qualcosa di simile, e sapeva che sarebbe venuto alla scuola media. Però, anche lui fu sorpreso di vederlo arrivare a metà mattina.

Il giorno dopo, quando entrai in classe, Tom era già al suo posto, nel banco in prima fila. Non aveva più il giaccone addosso, lo aveva appeso sugli appendini lungo la parete, e non aveva gli stivali. Indossava delle scarpe da tennis che un tempo erano state bianche o chiare, ma erano molto usate, annerite sui bordi e sulla punta. Io guardavo sempre le scarpe delle persone, le scarpe mi hanno sempre incuriosito perché dicono qualcosa di quelli che le indossano. Portava un maglione di lana grossa di un colore incerto, un po’ marrone un po’ grigio, e come il giaccone mi pareva troppo grande per lui. Aveva dei jeans consumati sulle ginocchia, mi piacevano i jeans consumati sulle ginocchia, mia madre non mi avrebbe permesso di portarli. L’unica cosa che non era cambiata erano i capelli, lunghi e biondi, che gli coprivano parte del viso, e forse lui voleva così.

A ricreazione Marino invitò Tom a giocare con noi. Aveva parlato con Zuffi, erano dello stesso paese e Zuffi gli aveva detto che Tom giocava a calcio. Sul momento la sua iniziativa mi spiazzò, come si permetteva di invitare gente senza consultare me e Devis? Però quel giorno Uboldi era malato e ci mancava un giocatore, quindi non ne feci un problema.

Ma cosa parla? Chiesi a Marino.

Parla italiano – disse Marino – ma lo parla male. Il friulano non lo sa.

Ci presentammo e gli spiegai che nel nostro gioco non c’erano ruoli fissi, si giocava in tre e tutti facevano tutto, difensore, attaccante, portiere; il portiere vero e proprio non c’era perché le porte erano piccole, mettevamo i sassi a un mezzo passo di distanza uno dall’altro.

Ok, giusto – disse.

Mi accorsi che diceva “ok, giusto” per qualsiasi cosa. Tom era mancino e questo lo rendeva speciale. Nella mia particolare immaginazione delle doti umane, essere mancino era una delle più desiderabili. Nel calcio il mancino ha un vantaggio naturale perché la grande maggioranza dei giocatori è fatta di destrimani. Di solito i mancini sono dei buoni giocatori, dei giocatori creativi. E sono bravi anche a disegno, almeno quelli che conoscevo io. Io invidiavo i mancini. Però Tom era un mancino atipico. Era facile intuire quello che avrebbe fatto con la palla, non era molto agile. Però metteva foga, era una furia nel gioco, e voleva calciare a tutti i costi. Mi ero scordato di spiegargli la regola che proibiva i tiri troppo forti, soprattutto se la palla era alta. Alla prima occasione che la pallina da tennis rimbalzò di fronte a lui, mirò la porta e BAM!, la colpì con tutta la potenza che aveva in corpo.

Noi tutti ci fermammo, temendo quello che sarebbe successo. La pallina sfiorò i limiti immaginari della porta e continuò la sua corsa oltre la pista di atletica, attraverso la siepe, direttamente nel canale. NOOO, il canale! Urlò Devis. Senza pensarci su inseguimmo la pallina e Tom ci venne dietro, ignaro di quello che stava succedendo. Era troppo tardi, la pallina già galleggiava sull’acqua scura del canale, portata avanti dalla corrente. Il livello dell’acqua era basso, forse cinquanta centimentri, e il canale era largo circa due metri. La pallina navigava al centro, la seguivamo dalla riva a piccoli passi veloci ma nessuno sapeva come recuperarla.

DRIIIIIN. La campanella annunciò la fine della ricreazione. Proprio in quel momento Tom saltò dentro il canale. Con un rapido movimento del braccio recuperò la pallina e risalì la riva. Tutto accadde in un attimo. Strizzò la pallina dentro la mano, stringendola forte come fosse fatta di pezza, poi la diede a Devis, con in viso un’espressione tranquilla, di uno abituato a risolvere problemi. Gli altri erano già rientrati e anche noi ci avviammo veloci verso l’edificio scolastico.

Seduto al banco, il respiro ancora affannoso per la corsa e un po’ stordito per quello che era successo, rivolsi lo sguardo verso i banchi in prima fila. Sul pavimento, attorno alla sedia di Tom, c’era una chiazza d’acqua che sembrava allargarsi. I suoi pantaloni erano zuppi dal ginocchio in giù, le scarpe gonfie e gocciolanti. Lui, impassibile, guardava dritto verso la cattedra. 

“La fabbrica dell’uomo occidentale” di Pierre Legendre

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[Pubblichiamo due estratti dal volume di Pierre Legendre La fabbrica dell’uomo occidentale seguito da L’uomo come assassino, a cura di Massimo Rizzante, Mimesis, 2025. Il primo estratto è parte del saggio introduttivo del curatore, e il secondo è tratto da L’uomo come assassino.]

Un ribelle conservatore

di Massimo Rizzante

Chi è stato Pierre Legendre?

La miglior definizione ce l’ha data lui stesso: “Un uomo del passato e del lontano avvenire”. Ergo: un uomo non troppo amato nel corso della sua vita. Un solitario con pochi amici, dispersi in vari continenti. Un uomo refrattario ai conformismi. Un intellettuale originale, versatile, polimorfo, un “animale parlante” difficile da classificare in quel parco umano di mode e spirito gregario che è il mondo universitario. E soprattutto uno studioso ai margini di tutti i movimenti composti da intellettuali in carriera, quasi sempre in vena di prediche.

Un ribelle, insomma, in aperto dissidio con il presente in virtù del suo sguardo profondo e ine- dito gettato su tutta la tradizione occidentale, da Atene a Roma, da Firenze a Parigi, allo scopo di conservarne i vincoli affettivi, morali e sociali contro la loro rapida dissoluzione – tanto dissennata quanto entusiasta – in nome di diritti, leggi, valori delle cui nozioni non si desidera più rintracciare né origini, né genealogie.

Ma un ribelle conservatore. Più che un para- dosso, una sfida, la sola possibile, nella nostra epoca dei “paradossi terminali” (Milan Kundera) in cui “l’animale che parla”, cioè l’animale diven- tato uomo attraverso la parola, sembra volersi congedare da ogni limite logico, semantico, istituzionale, per correre a briglie sciolte verso la libertà.

(…)

Mi chiedo: una volta aumentata artificialmente la nostra intelligenza, una volta privati di alcuni arti e organi e sostituiti da arti e organi biosintetici, una volta clonati, avremo ancora bisogno di una ragione per vivere? Avremo ancora bisogno del mistero? E di quel mistero chiamato alterità?

C’è una Urszene al centro dell’intera riflessione antropologica di Legendre: la scena dello Specchio:

Quando mi guardo allo specchio, si instaura una scena a tre: c’è un individuo che si guarda, il suo cor- po che si presenta; e poi, c’è l’immagine nello spec- chio, un’immagine che è la metafora dell’inaccessibi- le; e c’è il terzo termine, lo spazio insuperabile, che è la metafora del potere assoluto, lo Specchio.

L’universo umano è sempre diviso. L’uomo è “l’animale parlante” che coglie le cose attraverso il linguaggio. Mentre nomino una cosa, me ne separo e mi separo da me stesso. Il linguaggio è il nostro “sfregio”, come dice Legendre, il nostro marchio primordiale. Ciò significa che “l’animale parlante” intrattiene con il mondo un legame di identità e alterità e che ogni individuo intrattiene con sé stesso un legame della stessa natura.

Mi guardo allo specchio e non mi riconosco. Mi guardo in una fotografia e mi chiedo chi sia quell’uomo con gli occhiali che mi osserva da lontano. Ascolto la mia voce registrata e non la riconosco. Chi è che sta parlando? Io sono la mia immagine (o la mia voce), ma anche un altro, uno sconosciuto. Chi tiene insieme questi due individui? Legendre afferma: un terzo termine, che però deve rimanere oscuro, inviolabile e che è “metafora del potere assoluto”, lo Specchio. Lo Specchio è il legame dogmatico e istituente che permette la relazione tra me e l’altro che sono e che non conosco. Ma, aggiunge, è anche il vinco- lo giuridico tra creditore e debitore che lega due individui e che fonda una civiltà. “La verità dello Specchio non si discute”. 

Che cosa succede in una civiltà la cui ideologia individualista distrugge tale logica ternaria? Che cosa accade quando questa civiltà si mette a discutere l’autorità dello Specchio, facendosi portatrice del tutto è possibile, dell’assenza di ogni limite, dell’abolizione del mistero?

Capita quel che descriveva poeticamente il mito di Narciso: lo Specchio è in qualche modo dissolto, la struttura dell’identità è compromessa. L’esperienza istituzionale del XX secolo prova che uno Stato, come un individuo, può delirare […] sotto i nostri occhi l’ideologia individualista funziona come un narcisismo di massa che fa dell’individuo “un mini-Stato” (Wim Wenders), vale a dire un essere che è tutto per sé stesso, che è Dio affrancato dalla logica dello Specchio.

*

L’uomo come assassino

di Pierre Legendre

1

L’assassinio abita nello spirito dell’uomo. L’uomo pensa ad uccidere. Sogna di uccidere. Commemora i massacri.

Sin dall’inizio della storia dell’umanità e fino ai nostri giorni, l’assassinio fa parte delle abitudini sociali e delle grandi messe in scena religiose e politiche.

L’uomo lo sa, come sa che sorge il sole e che scende la notte.

Ma all’improvviso… Sì, all’improvviso! La terra interiore si mette a tremare. Ecco che l’individuo, un uomo come tutti gli altri, sente tintinnare i sonagli della follia: si suicida, uccide qualcuno, o uccide qualcuno e poi si suicida. E qui ha inizio, in tutte le civiltà, il mistero dell’assassinio.

Ricordo il mio stupore infantile. I gendarmi erano venuti nella mia scuola. Indagavano su un assassino, un ex alunno: che genere di bambino era? Quali erano i suoi voti? E le sue relazioni con i compagni? Un mondo, allora, mi si è aperto: il lato oscuro dei nostri atti – il marchio del sospetto, i segni premonitori del crimine, la vita del bambino criminale.

Mi domandavo: coloro che avevano crocefisso Gesù, avevano ricevuto bei voti? Erano bravi ragazzi? Le cose si confondevano nella mia mente di scolaro.

Qualcosa non quadrava. Presentivo vagamente che c’erano due specie di omicidi. C’è, infatti, omicidio e omicidio. Un omicidio che non è davvero tale: quello che esegue il boia, il soldato, il militante di una causa – un omicidio preventiva- mente giustificato, un lavoro, insomma, un gesto professionale. E c’è un altro omicidio, quello vero, commesso dall’assassino, che chiamiamo crimi- ne; c’è il gesto di uccidere, ma di uccidere per conto proprio.

Nella storia che racconterò – una storia tratta dalla cronaca – la frontiera tra l’omicidio che non è davvero tale e l’omicidio commesso da un assassino sembra venire meno.

Il giorno 8 maggio del 1984, un giovane caporale dell’esercito canadese faceva irruzione nel Parlamento del Québec con l’intenzione di ammazzare tutti i componenti del governo. Correndo attraverso i corridoi e sparando con un’arma automatica su tutti coloro che incrociava, Denis Lortie giunse ben presto nella Camera dei de- putati. Quel giorno, però, in Parlamento non si teneva nessuna sessione e la sala era vuota. Così andò a sedersi sulla poltrona del presidente. Ne seguì una trattativa per disarmarlo. Dopo la sua resa, si contavano tre morti e otto feriti.

Durante le prime ore, si parlò di attentato politico. L’attentato, per certi aspetti, risultava comprensibile; tanto più che, secondo un sondaggio realizzato da una radio locale, la maggioranza dei cittadini sembrava approvarlo.

Tuttavia, ci si dovette ricredere, arrendersi all’evidenza: il soldato-giustiziere non aveva agito per nessuna causa. Era appena salito alla ribalta commettendo un crimine assurdo. Armato fino ai denti, aveva ucciso in un contesto sontuoso e monumentale. Ma i morti e i feriti che giacevano a terra non erano attori. Esausto e ammanettato dai poliziotti a una sedia, Lortie non era altro che un relitto, un essere sollevato ma sconvolto, un ordinario assassino.

Era pazzo? Era sano di mente? L’affare Lortie aveva inizio. Un caso classico per la polizia e i giudici, un boccone prelibato per gli squali della cronaca, una vicenda oscura per tutti noi, perché racchiude la miseria del nostro tempo – la mise- ria dei senza legge del nostro tempo.

2

Quando ho cominciato a interessarmi al processo istruito contro Lortie, ho aperto i diari di Dostoevskij e ho letto: “È possibile attraversare un fiume su una trave, ma non su un truciolo di legno”.

Allora ho pensato: quel che mi affascina è proprio questo: la catastrofe, osservare la catastrofe. Ho guardato Lortie come si guarda un naufrago dopo che è annegato. Guardiamo con compassione un essere umano che non c’è più; ma anche con il timore e la furtiva soddisfazione di non essere lui, di appartenere ancora al mondo dei vivi. C’è lui e ci sono io; l’assassino e noi, gli innocenti, che attraversiamo la vita su una trave senza andare incontro alla catastrofe.

Mi domando: che cosa ci lega, che cosa mi lega a quell’uomo?

Perché l’intera società – la società degli innocenti – si applica con tanta passione a scrutare l’assassino e a soppesarne il crimine, a mettere in scena, in quel teatro che è la Giustizia, la catastrofe di qualcuno?

Perché, ad ogni crimine, ad ogni assassinio, siamo colpiti nel nostro intimo più profondo, più segreto, più oscuro: nello spazio di un istante ci rendiamo conto che potremmo essere quell’uomo, quel naufrago, quell’assassino. Ad ogni crimine, ad ogni omicidio commesso, bisogna apprendere di nuovo il divieto di uccidere.

Ecco perché le società organizzano delle messe in scena in cui si recita il duello tra l’assassino e tutti gli altri.

Recitare tale duello significa, nella cultura occidentale, istruire un processo che ricordi, a nome di tutti, la scena dell’omicidio compiuto, e fare in modo che l’omicida risponda del suo atto davanti a noi.

Siamo davvero consapevoli che un processo contro un assassino non è un regolamento di conti, ma un rituale di separazione dal crimine? Siamo sufficientemente civilizzati per riconoscerlo? Orrori senza nome, vendette di massa, umiliazioni, enormità abolizioniste e autocompiacimento di coloro che, in nome della scienza, pretendono di gestire la violenza, abomini sui crimini e sui criminali; tutto ciò avrà mai fine?

Per l’assassino, rispondere del suo gesto vuole dire separarsi dal suo atto di morte e, come diceva Dostoevskij, che conosceva bene la crudeltà del suo tempo, riconciliarsi, foss’anche in carcere, con gli uomini.

Il processo Lortie ci impartisce una lezione su cui meditare.

Dato che la strage si era svolta nelle aule del Parlamento del Québec, diverse telecamere ave- vano registrato una parte dell’attentato. Durante il processo la trasmissione coinvolse Lortie in un faccia a faccia pubblico con sé stesso: il colpevole Lortie guarda qualcun altro, guarda l’assassino Lortie mentre dialoga con un funzionario del Parlamento che cerca di disarmarlo.

Estratto dalle riprese del video di sorveglianza del Parlamento del Québec

Lortie è seduto sulla poltrona del presidente.

Lortie: Sono pronto. Non esiterò, cazzo!

Lortie spara alcuni colpi di arma da fuoco.

Al questore del Parlamento René Jalbert che sta entrando:

Lortie: Signore, trovi un riparo. Jalbert: Come va?

Lortie: Sono un po’ fuori, cazzo. Non le pare? Jalbert: Beh, sì…

Lortie: Ti sorprenderò, appartengo all’esercito. Jalbert: Anch’io sono un soldato.

Lortie: Ne è sicuro? Jalbert: Sì.

Lortie: Che pensa dell’esercito?

Jalbert: Ho passato trent’anni nell’esercito. Lortie: Il mondo ride del nostro mondo, cazzo.

Jalbert: Che cosa ci fa lì?

Lortie: Cosa succede qui? Ci sono merde di poliziotti come lui. 1, 2, 3, 4, 5 … 29.

Jalbert: Vuoi che andiamo a parlare fuori? Lortie: Di che cosa vuoi che parliamo?

Jalbert: Volevo sapere perché distruggi tutto? Lortie: Non distruggo, volevo uccidere. Ma non c’è nessuno…

Jalbert: Ah! Sei arrivato troppo presto. Lortie: Che cosa vuol dire troppo presto? Jalbert: Oggi non cominciano prima delle 14. Lortie: Mi avevano detto alle 10.

Jalbert: No, alle 10 cominciano domani.

Lortie: Ah è così! E adesso che faccio? Che ne pensa come soldato?

Jalbert: Beh, come soldato, se fossi in lei…

Dopo un po’, Lortie accetta di lasciar uscire le persone che erano ancora nell’aula.

Lortie: Uscite. Jalbert: Esca, signora.

Lortie: Escano quelli che si sono nascosti. Jalbert: Uscite tutti.

Un poliziotto interviene dal balcone.

Lortie: Vuoi parlare con me. Come mai? Che cosa ho fatto?

Policier: Perché lo hai fatto? Lortie: Questa è la politica! Policier: La politica?

Lortie: Se ne vada.

Dialogo a bassa voce tra Lortie e Jalbert. Jalbert: Dai, andiamo. Denis, Denis, il tuo ber- retto.

Lortie: Ah sì, il mio berretto. È l’esercito. Jalbert: Così sei un buon soldato.

Nel corso del processo ci fu un momento in cui si raggiunse il culmine del pathos: Lortie si allontanava dalla morte sotto lo sguardo di tutti.

Un giornalista riassume così il cambiamento dell’imputato: “Mentre cercava le parole per spiegare al suo avvocato il significato di certe espressioni presenti nel video, Lortie, che era parso calmo per tutta la proiezione (circa quaranta minuti), è crollato a causa dell’eccessiva pressione. In piedi, al banco dei testimoni, ha prima abbassato la testa per alcuni secondi e, senza dire una parola, ha lasciato l’aula delle udienze piangendo e disperandosi, per poi dirigersi verso l’anticamera degli imputati. I due agenti della sicurezza che lo controllavano lo hanno seguito e, a un certo punto, lo hanno sentito emettere nell’arco di pochi secondi un grido acuto e alcuni suoni incomprensibili. Si è appreso più tardi che Lortie era stato isolato in una stanza e che si era a poco a poco calmato. Dopo una sospensione di quarantacinque minuti, ha riguadagnato il banco dei testimoni, apparendo più disteso”.

Così si è spezzato il giogo della follia.

Lortie, davanti al giudice, affermerà: “Non posso dire ‘non sono io’. Sono io. Che cosa vuole che le dica di più? Mi ha fatto davvero male quando ho visto il video. Bisognava che lo vedessi. Bisognava che attraversassi questo momento”.

(…)

Una festa è una festa è una festa è una festa…

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Note sulla Festa di Nazione Indiana, Bologna 2025

di Redazione

Bisogna pur incontrarsi, parlarsi, abbracciarsi e sorridere. Noi di Nazione Indiana, almeno una volta all’anno, cerchiamo di farlo con le nostre Feste. Quest’anno la Festa di Nazione Indiana si è svolta nello spazio di ⇨ Porta Pratello di Bologna, lo scorso sabato 14 giugno. Eravamo ospiti di ⇨ Grisù / Festival di scritture contemporanee – Lo Spazio Letterario, che ringraziamo per come ci hanno accolti e fatto sentire a casa in un luogo, Porta Pratello col suo cortile e i suoi chiostri, che l’accoglienza e l’ospitalità le ha nella propria storia. Questo è un pezzo in progress, seguiranno video e altre foto degli incontri.

Il talk del mattino

Per il momento confermiamo che nel talk mattutino abbiamo parlato di democrazia e pensiero critico rispetto alla scrittura sui social. Il tempo dei social: scrivere sulle piattaforme occidentali. Democrazia e pensiero critico nell’era di Musk. Andrea Inglese, Giorgio Mascitelli, Mariachiara Brunetti, Giorgiomaria Cornelio e Helena Janeczek hanno discusso di tecno-oligarchi, idiozia o superomismo dei suddetti personaggi, il loro rapporto con Trump e con… noi. Ossia: come abitare le piattaforme social e digitali anche quando ti “shadowbannano”, quando ti rendono invisibile a causa dei tuoi contenuti non allineati o allettanti. Una soluzione potrebbe anche essere, come suggerito da Gianni Biondillo, quella di “fregarsene”.

Il dibattito del pomeriggio

Nel pomeriggio abbiamo tenuto il talk su Il tempo ereditato. Una nuova generazione e il “compito” di raccontare la Resistenza. Abbiamo parlato del concorso Staffetta partigiana per under 35, promosso da Nazione Indiana in occasione dell’ottantesimo anniversario della Liberazione dal nazifascismo. Abbiamo analizzato i temi dei racconti premiati, la presenza/assenza della violenza resistenziale, il rapporto con gli archivi e con i documenti, gli strumenti per costruire insieme storia e memoria, ossia per fare public history della Resistenza in un momento in cui la Resistenza sta, a suo modo – in forma di racconto, celebrazione, interesse – tornando nell’orizzonte comunitario di italiane e italiani che si riconoscono nei valori dell’antifascismo. Al dibattito hanno partecipato Gianni Biondillo, Davide Orecchio, Orsola Puecher e Davide Sparano dell’Istituto storico Parri. E ci ha raggiunti con la sua famiglia Alice Ghinzani, la più giovane tra le autrici premiate, per il racconto Jenide Russo.

Letture serali

In serata è scattato il momento performativo. La scena del tempo. Tra passato e presente. Performance e letture di:
– Mariasole Ariot, con Le sale operatorie di esistenze, ispirato dalla lettura di Guerra Totale di G. Gribaudi.
– Francesco Forlani, con Les quatre ciudades (dall’antologia Babele a cura di Enzo Campi) e Pazza l’idea, per Roberto Lordi nell’antologia La stessa cosa del sangue.
– Giorgio Mascitelli, col racconto inedito Il partigiano nella legnaia.
– Orsola Puecher, con ALICE VENTURA BATTAGLIA morta il 5.3.1945 a Ravensbrück “…per il suo ideale partigiano” nell”antologia La stessa cosa del sangue.
– Ornella Tajani, con Gli spazi del sonno di Robert Desnos.

La chiusura su Luigi Di Ruscio

La serata si è conclusa con la proiezione di La neve nera: Angelo Ferracuti ha introdotto il film su Luigi Di Ruscio, in dialogo con Davide Orecchio. Chiudendo così un discorso sul tempo del lavoro e letteratura operaia che era stato già tema del talk pomeridiano con Fabio Franzin, Stefano Modeo, e moderato da Stefano Colangelo.