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Guglielmo Embriaco detto il Malo

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di Luigi Preziosi

Marzo 1116. Dal porto di Genova salpa una galea, carica di merci, comandata da Guglielmo Embriaco detto il Malo, appartenente ad uno dei casati più illustri della città (gli Embriaci), e circondato dalla fama di eroe della crociata da poco terminata: è anche grazie alla sua idea di smontare le navi della flotta genovese per trasformarle in macchine da assedio e torri d’assalto che Gerusalemme è caduta.
Dalla Terra Santa ha portato un vaso di smeraldo esagonale, in cui si dice che Cristo abbia mangiato l’agnello nell’ultima cena: qualcosa di molto simile al Graal, o forse proprio il Graal. Quindici anni prima, a Cesarea, un vecchio sapiente ebreo ha insinuato il dubbio che fosse un falso, asserendo che l’originale era stato trafugato: labili indizi lo darebbero rintracciabile in qualche località della Cornovaglia bretone. Dopo tanto tempo, ora Guglielmo vuole conoscere la verità. Per questo arma la Grifona, una galea di nuova concezione, e con più di 190 uomini fa rotta verso Gibilterra, puntando poi verso l’Atlantico, fino alla remota Bretagna francese, seguendo una rotta raramente prima battuta. Dopo un viaggio drammatico, ricco di avventure e di-savventure, di incontri, di agguati ed inseguimenti sul mare, di tempeste oceaniche di proporzioni mai viste dai marinai genovesi, arriverà alla meta, dove si confronterà con le memorie di antiche leggende, relative al regno di un tempo remoto di re Gradlon e e alla antica città sommersa di Ys.
Ma gli episodi più inquietanti avvengono sulla galea, dove, nelle notti di novilunio, quando le tenebre avvolgono la nave, si sgrana la lugubre sequenza delle efferate uccisioni di tre ufficiali, ai quali viene viene ogni volta estirpato il cuore dal petto. Il comandante è costretto allora ad improvvisarsi inquisitore, con l’aiuto di un giovane scrivano, Oberto da Noli: l’indagine non dimostrerà altro che l’impotenza del comandante ad arrestare gli omicidi, e la soluzione si paleserà con diverse modalità, mostrando quali inaspettate forme possa assumere l’affermarsi della giustizia tra gli uomini. In parallelo alla ricerca di Guglielmo si dipana la storia di Giannetta Centurione, figlia di un ricco mercante genovese, mandata in moglie per motivi di fusione di patrimoni familiari al rampollo di una delle famiglie più in vista della città. Odiata dalla matrigna, e riottosa all’idea di un matrimonio di convenienza con chi non ama, riesce a far fiorire in sé un senso di spiccata indipendenza, manifestato sia nello scegliere un amore diverso da quello a cui è destinata, sia nel coraggio che la sorregge nel compiere scelte decisive per la sua stessa esistenza.
Questa, in estrema sintesi, ed omettendo per evidenti motivi il finale, la storia raccontata da Giuseppe Conte in I senza cuore (Giunti, 2019), recente prova narrativa di un autore che ha percorso gli ultimi decenni della nostra letteratura cimentandosi innanzitutto con la poesia (si veda, a definirne l’accertato valore, l’Oscar Mondadori del 2015, giunto al culmine di una trentennale attività), ma capace di svariare con esiti altrettanto convincenti nella saggistica, nel teatro e nel romanzo. Nella prove narrative Conte applica con esito felice la propria disponibilità all’esplorazione di temi, trame ed anche soluzioni stilistiche diverse: se ne può misurare l’ampiezza anche solo confrontando il medioevo (non privo però di rimandi sottintesi alle penombre della nostra modernità) di I senza cuore con la bruciante contemporaneità del suo penultimo romanzo, Sesso e apocalisse ad Istanbul, uscito appena un anno fa, teso a rappresentare le angosce, che, pur radicate in un remoto passato, popolano ancora a pieno titolo i nostri giorni.
I senza cuore fa propri i topoi classici di più di un genere letterario. E’ con tutta evidenza un robusto romanzo storico, per la sua precisa collocazione temporale: af-fascina il senso di autenticità che percorre tutto il libro, derivante dall’accurata ricostruzione storica, e dall’altrettanto accurata descrizione del mondo marinaresco medievale (a fine libro è presente perfino un glossario dei termini utilizzati). Figura sto-ricamente accertata è poi Guglielmo il Malo, detto anche Guglielmo Testa di Martello, a cui Conte attribuisce una personalità perennemente oscillante tra carnale ferocia ed ingenua religiosità: ne testimonia le gesta Jacopo da Varagine nella Cronaca della città di Genova (Guglielmo poi, prima di diventare protagonista del romanzo di Conte, attraverserà rapidamente anche la Gerusalemme liberata). Ed è Guglielmo che, di ritorno dalla Crociata, porterà con sé il vaso di smeraldo, che, altro elemento di verità storica, è attualmente conservato nel Tesoro di San Lorenzo a Genova. Di lui, però, dal 1112 in avanti non si hanno più notizie nelle cronache dell’epoca, il che autorizza la virata verso quel grado di libertà superiore consentita in linea generale dal romanzo di avventura, senza che perciò solo ne debba scapitare la densità di significato etico della narrazione. Con ciò Conte supera un pregiudizio storico (ultimamente per fortuna un po’ attenuato) nei confronti del romanzo d’avventura, e rende allo stesso tempo omaggio ad alcuni classici della narrativa anglosassone: basti pensare a Melville, Conrad, Stevenson…
E l’avventura che sostanzia il romanzo è originata dall’ansia di conoscere la verità che ritorna dopo anni a tormentare Guglielmo, che trova occasione di manifestarsi anche durante l’infruttuosa inchiesta sugli omicidi dei suoi ufficiali. La declinazione (anche) poliziesca della trama, con tutto ciò che implica in tema di tensione verso la verità, può indurre ad accostare il protagonista al Guglielmo da Baskerville del Nome della rosa. Ma lo sforzo investigativo del Guglielmo di Eco tende all’affermazione della ragione sulle tenebre della superstizione: la conoscenza intuitiva empirica (la dimestichezza con l’uso del rasoio di Occam gli consente le semplificazioni necessarie allo scopo) è in grado di svelare i misteri del mondo che ci circonda. Guglielmo il Malo, pur respingendo le ipotesi di creature demoniache come autrici dei delitti, come invece sostiene il cappellano di bordo, vive invece un medioevo pieno, nel quale non si percepiscono ancora premonizioni del futuro umanesimo. La sua ricerca punta ad una verità metafisica: per gli uomini del suo tempo lo spirito pervade la materia ed il mondo non è tutto conoscibile.
Guglielmo non è l’unico a cimentarsi con la ricerca della verità. Il romanzo brulica di personaggi, di cui Conte tratteggia bene i tratti essenziali a mano a mano che a ciascuno tocca una parte nella complessa macchina narrativa: dagli ufficiali massacrati Primo Spinola, Lanfranco Piccamiglio e Astor Della Volta, ognuno con caratteristiche caratteriali ben definite, al gelido tesoriere Bernardo Malocello, al cappellano don Rubaldo Pelle, al mastro d’ascia Carnac il mancino, arruolato durante la traversata e diventato in breve braccio destro di Guglielmo, a padre Brennan, custode nella biblioteca del suo convento di un insieme indistinto di memorie storiche e leggende, e tanti altri. Ed una rinnovata riflessione su se stessi, un diverso riconsiderare il modo di rapportarsi con il mondo sommuove alcune coscienze durante la navi-gazione: in particolare il mastro d’ascia Pietrabruna, che, sbarcato a Lisbona, lascia i compagni ed il suo antico comandante per immergersi nel misticismo sufi, e lo scrivano Oberto da Noli, che cerca armonia ed equilibrio in Seneca e Virgilio, autori appassionatamente compulsati durante la traversata; anche Giannetta in fondo sperimenterà la tensione verso il rinnovamento di sé, al termine di un itinerario psicologico certo non consueto.
Ma la nostalgia della verità innerva una ragione più specifica, fondamento del viaggio della Grifona e del suo capitano. La ricerca di Guglielmo solo apparentemente è simile alle tante quêtes che affollano le narrazioni medioevali: ha, al contrario, una sua specifica originalità. Guglielmo non cerca, infatti, un oggetto miracoloso dall’incerta esistenza: lo possiede già, cerca invece la prova della sua autenticità. E’ dal possesso non dell’oggetto, ma della verità sull’oggetto, che potranno derivare gli effetti miracolosi che Guglielmo si aspetta, ed in cui crede. Ed allora, l’itinerario per questa ricerca non attraversa le selve in cui si erano aggirati Parsifal e Galaad, ma il mare, tant’è vero che è durante la lunga navigazione che gli uomini in ricerca a bordo della Grifona giungono a qualche forma di composizione delle inquietudini che li affliggono. Alla malia del mare, rappresentata con mano felice nella sua obiettiva naturalezza, nelle bonacce e nelle tempeste, Conte pare attribuire una sorta di funzione catartica, che supera la contingenza necessitata dall’economia della narrazione: se è ve-ro (Keats insegna) che la verità si rivela nella bellezza, è proprio nello smisurato splendore del mare che i naviganti della Grifona (e noi con loro) la possono cercare.

Lo spazio duale

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di Nicola Fanizza

( il libro di Waldemaro Morgese verrà presentato alla Spazio Milano, viale Montenere 6, il 31 ottobre 2019, alle ore 18.30; oltre all’autore, interverranno Nicola Fanizza e Stefano Boldorini, letture di Paola Martelli, g.m.)

Duecentoventi pagine costituiscono I guerrieri cambiano, l’ultimo libro di Waldemaro Morgese pubblicato da Homo Scrivens, nel quale vengono trascritti il vagabondaggio e i sogni di un uomo che da diversi anni è catafratto nella sua identità e che poi, improvvisamente, si mette in transito.

Scisso, disorientato, maschera della propria maschera, Ugo, nel primo dei due racconti che compongono il volume, è il prototipo dell’uomo moderno, di un uomo che fa della dissimulazione il proprio credo, di un uomo che da alcuni decenni vive in una società, caratterizzata da una fobia per l’esterno e da un’affermazione identitaria. Tutto ciò ha portato alla cancellazione dell’alterità e a un interno ridotto a mera cassa di risonanza del discorso canonizzato della polis.

I sogni di Ugo, come tutti i sogni, si configurano come lo spazio in cui da una parte vanno in scena le paure e le angosce che costellano la sua vita e, dall’altra, come ciò che consente ai suoi desideri di assumere una forma. E cos’è la forma se non una ricerca di senso?

Così, nel primo racconto che ha per titolo Oltreoceano, il viaggio di Ugo in America diventa l’occasione per desituare il male fuori dall’orizzonte in cui stazionano i protagonisti oppure in un lontano passato. Assistiamo alla celebrazione dei buoni sentimenti e del sogno americano: Ugo ha finalmente l’occasione per realizzare sul piano fantasmatico gran parte dei sogni che gli venivano negati in patria, sogni che l’autore aveva sognato nel corso della sua vita.

Il primo sogno si realizza presso l’Emotive Theatre di New York. La messa in scena del suo libro di racconti che ha per titolo Città buie evoca le recondite ambizioni, che l’autore, come critico teatrale, aveva coltivato durante la sua giovinezza. Tradisce, infatti, il suo desiderio di promuovere l’arte totale, una particolare teoria dell’arte di cui aveva parlato per primo Antonin Artaud e in seguito Carmelo Bene. Si tratta di una miscidanza dei generi e soprattutto della valorizzazione del corpo come strumento di comunicazione.

L’incapacità di Ugo di comunicare con l’altro da sé appare al lettore sin dall’inizio dei lavori preparatori alla messa in scena del suo romanzo. Salvo che con Marguerita, che aveva provveduto a tradurre il suo romanzo in inglese, le relazioni con gli altri membri della compagnia teatrale sono cordiali e stazionano nell’atmosfera del mero interesse. Sin dal loro primo incontro, Marguerita gli appare come un «simbolo aurorale, l’annunzio di un nuovo sperato amore». La loro relazione, però, si mantiene solo nell’ambito dei rituali della reciproca seduzione, non riesce ad andare oltre. La paralisi di Ugo è riconducibile alla sua incapacità di accogliere e far posto all’altro da sé. Marguerita da una parte gli appare come una donna che è attraversata da un processo di alterazione che la rende inafferrabile e, dall’altra, Ugo non sa rinunciare alla sua integrità, la passione identitaria è così pervasiva da spingerlo a porre l’altro solo fuori di sè.

Le conferenze tenute da Ugo – «scrittore di successo» – e soprattutto la curiosità manifestata dal pubblico nei suoi confronti rimandano per molti versi a un sogno che ci sogna: il desiderio dell’autore – e anche nostro – di godere di quella visibilità che, invece, gli è stata negata. Si tratta di un desiderio che abita nei nostri pensieri, un desiderio che, tuttavia, ci fa sognare i sogni del potere, un desidero che è oltremodo pervasivo. Da qui l’esigenza di negare non solo il desiderio di potere, bensì il potere del desiderio in quanto tale.

Suggestiva è, invece, la descrizione di Buffalo, una città attraversata da ferite e laceranti scissioni. La povertà e il degrado caratterizzano le abitazioni dei quartieri operai e le facciate scolorite dei palazzi delle zone semicentrali denotano la crisi della classe media. Il tutto fa da contraltare agli agglomerati di gran lusso, dalle architetture neoclassiche immerse nei parchi. Si tratta, però, di costruzioni che si sottraggono allo sguardo, poiché sono protette da guardie armate.

Buffalo è anche la meta finale del viaggio di Ugo negli Usa. Qui deve partecipare a un ciclo di conferenze incentrate sul memoriale del figlio di un immigrato italiano che negli anni Trenta, dopo aver vissuto alcuni anni proprio a Buffalo, si era trasferito nell’Urss, sperando di trovare il paradiso in terra. La sua scelta, tuttavia, si era rivelata esiziale, in quanto era stato imprigionato per quindici anni in un gulag siberiano. Il senso della partecipazione di Ugo a questi rituali, con la relativa denuncia dei crimini dei comunisti sovietici, serve per desituare il male in un lontano passato. D’altra parte, consente all’autore di prendere le distanze da quel periodo della sua vita in cui era stato fin troppo acquiescente nei confronti del comunismo albanese, che si richiamava esplicitamente agli insegnamenti di Stalin.

Finalmente nel secondo racconto Oltreverso, con la comparsa del negativo, le vicende narrate diventano avvincenti come in un giallo. Il male questa volta non lo troviamo relegato in un lontano passato da emendare oppure nella natura matrigna o situato nell’altro che sta fuori dall’identità di Ugo, bensì abita proprio nei suoi pensieri.

«Vivo bene – dice Ugo – in mezzo alle contraddizioni», sente di essere diventato un altro, è attratto dalla nuova vita che lo afferra e lo travolge, le esperienze estreme amplificano le sue capacità vitali. I rituali erotici sempre più appaganti diventano il fuoco da cui dovrebbe originarsi un flusso di energie capaci di sortire la «sconfitta totale della morte». Questi riti, però, hanno un esito comunque tragico, poiché sono connessi – come confessa lo stesso Ugo – al «desiderio di far piazza pulita intorno a me».

Il viaggio di Ugo in Brasile – meta del turismo libidinale – si configura anch’esso come un sogno. Si tratta però di un sogno diverso da quelli precedenti, un sogno in cui si dà il groviglio dell’esistenza. Così vengono rappresentati i conflitti e le contraddizioni che agitano la nostra vita, ciò che è certo diventa incerto, le maschere del potere possono trovare il loro contraltare nel desiderio di andare oltre le identità cristallizzate, in cui il potere vuole per sempre inchiodarci. Tuttavia nei sogni le situazioni che amplificano le nostre capacità vitali possono trovare il loro contraltare nelle pulsioni di morte, in ciò che rende possibile la violazione deliberata di alcuni tabù (l’unica definizione accettabile del male!).

Ciò che va in scena in Oltreverso non è il «Teatro della Crudeltà». Morgese è attento alla sensibilità del lettore e cerca per quanto gli è possibile di stendere un velo di silenzio sulle scene di violenza. Il suo obiettivo, a differenza di Artaud, non è quello di produrre, con le scene di violenza, il disagio del lettore e la sua successiva catarsi, bensì quello di dar vita a uno spazio duale, in cui si delinea un’alterità più sottile e complessa. Mentre nel primo racconto l’altro si trovava fuori dall’identità, ora invece in questo nuovo spazio esistenziale l’altro che era fuori di noi viene a trovarsi anche e soprattutto dentro di noi, ossia l’altro è fuori di noi e, insieme, dentro di noi.

L’identità in questo modo non appartiene in tutto e per tutto alla zona dell’essere sempre identico, bensì anche e soprattutto alla potenza del divenire. È di fatto riconducibile all’insieme delle identità che ciascun individuo, in modo differente dagli altri, immagazzina nel suo essere nel mondo. Ognuno di noi sperimenta a volte la sua estraneità a se stesso, sa che il suo sé è inaccessibile anche a se stesso e perciò sacro. Da qui l’esigenza di rigettare ogni pretesa di pervenire a un’identità totale.

Si tratta di una condizione umana che più di ogni altra corrisponde alla concezione sintetica degli opposti, a una dialettica aperta. La cifra della nostra esistenza diventa così incessante reinvenzione, non escludendo le identità passate, tende sempre a riproporle in modo diverso. Tutto ciò mira ad aprire per l’appunto uno spazio duale, uno spazio in cui si manifesta una sorprendente azione creatrice, uno spazio in cui si è sempre in transito. Possiamo solo andare oltre!

Genocidio in Libia – Eric Salerno

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Genocidio in Libia

Le atrocità nascoste dell’avventura coloniale italiana (Manifesto Libri)

 

INTRODUZIONE ALLA TERZA EDIZIONE

 

Nel 1979 Genocidio in Libia fece conoscere al grande pubblico e, per una parte importante, anche al circolo ristretto degli studiosi le atrocità nascoste dell’avventura coloniale italiana nel paese nord-africano. Stragi, l’uso dei gas contro le popolazioni che lottavano per difendere case e accampamenti nel deserto, processi-farsa e impiccagioni, l’estesa rete di campi di concentramento saltarono fuori da documenti ufficiali italiani, molti dei quali inediti. Alle parole fredde della burocrazia aggiunsi, dopo un lungo viaggio attraverso la Libia – dalla zona costiera che lega Tripoli e Bengasi al profondo sud desertico – la voce delle vittime sopravvissute a ciò che per la sistematicità dei comportamenti ordinati dalla Roma fascista, appariva come un vero e proprio genocidio. Particolarmente drammatiche sono le testimonianze, i ricordi di vita e morte nei numerosi campi di concentramento allestiti in Cirenaica e dove morirono decine di migliaia di libici. Oggi, quaranta anni dopo, l’Italia repubblicana finanzia i nuovi campi che in Libia raccolgono migliaia di migranti africani e non solo, scappati dai loro paesi e alla ricerca di una vita migliore in Europa.

Nel 2005 Genocidio in Libia fu ristampato da Manifesto Libri perché, come raccontai nell’introduzione a quella nuova edizione, nel silenzio della maggioranza si stavano facendo avanti voci a difesa della politica coloniale che la storia aveva condannato. Tre anni dopo uscì «Uccideteli tutti-Libia 1943: gli ebrei nel campo di concentramento fascista di Giado. Una storia italiana» (il Saggiatore, Milano), la mia ricerca sui campi di concentramento fascisti allestiti in Libia per gli ebrei di quel paese. Lo stesso anno, il 30 agosto 2008 a Bengasi, Berlusconi e Gheddafi firmarono un trattato di «Amicizia e Cooperazione», a riconoscimento dei danni provocati dal colonialismo italiano in Libia: non furono meno gravi rispetto a quelli di cui furono responsabili le altre potenze europee che spezzettarono e fecero scempio del grande continente africano. Del significato storico e pratico di quel trattato e degli eventi degli ultimi quindici anni in cui i rapporti tra i nostri due paesi sono profondamente cambiati racconto in un capitolo a chiusura di questa nuova edizione. Lascio ad altri la tragica cronaca della guerra civile e del grande gioco, o meglio massacro, geo-politico voluto da chi oggi compete per le ricchezze di ciò che più di cento anni fa Gaetano Salvemini aveva definito lo «scatolone di sabbia».

Purtroppo il presente richiama il passato. Oggi, quaranta anni dopo la prima pubblicazione di questo libro, con i suoi documenti e le sue testimonianze registrate in Libia, la Storia, in qualche modo, si va ripetendo. Per questo ho aggiunto un capitolo dedicato al nuovo vecchio razzismo, ai nuovi vecchi campi, alle nuove vecchie vittime e alla nuova vecchia indifferenza che continuiamo a vedere nei curriculum scolastici dove la Storia, quella più vicina a noi, non viene raccontata se non in modo superficiale lasciando i nostri ragazzi senza quelle basi fondamentali indispensabili per combattere le fake-news, il revisionismo, il negazionismo sia dell’Olocausto degli ebrei sia dei massacri coloniali. La Storia è composta di fatti, percezioni e interpretazioni. I coloni italiani cacciata da Gheddafi sono convinti di aver dato un contributo di crescita e civiltà alla Libia. Sicuramente sono stati strumenti di un disegno che non fu loro e per il quale molti hanno sofferto. Per il leader libico, che li cacciò, rappresentavano soltanto l’eredità del male che il suo paese aveva subito. In Italia il dibattito su quel passato ha avuto e ha ancora molte sfaccettature. C’è chi prova a giustificare l’azione nostra e delle altre potenze coloniali europee. Chi rifiuta ogni responsabilità per ciò che è accaduto in Africa – continente immenso con tutte le sue diversità – dalla cosiddetta decolonizzazione a oggi. Chi non si rende conto che una più oculata politica europea (d’insieme o da parte delle singole nazioni) avrebbe potuto far crescere i paesi africani evitando lo tsunami – ricorda le grandi emigrazioni dall’Europa verso mondi nuovi – di genti alla ricerca di una vita migliore.

In Libia l’impatto della storia in comune con noi è meno dibattuto. Per questo trovo particolarmente interessante il recente intervento di un regista libico, Khalifa Abo Khraisse (sull’Internazionale, 9 marzo 2018). Contesta una parte della storiografia libica e degli storici «al servizio» del regime e del pensiero di Gheddafi. «Oggi – scrive – il dibattito su quell’epoca è complicato, e nessuno è interessato a comprendere le complessità…Per esempio, agli studenti a scuola non s’insegna che molti libici collaborarono con i fascisti, che intere brigate e molti capi tribù lavorarono e combatterono per loro e si divisero al proprio interno per questo. Non leggiamo delle reclute che marciarono al fianco dei soldati italiani per conquistare l’Etiopia. Per non parlare del dibattito sui crimini commessi contro gli ebrei libici: era ed è ancora un tabù. In realtà alcune delle famiglie più ricche nella Libia di oggi devono la loro prosperità a quel periodo, ai soldi e alle proprietà che rubarono agli ebrei costretti a lasciare il loro paese. Alle generazioni postbelliche sono stati insegnati solo alcuni fatti, che non potevano in nessun modo essere contestati. Per più di quarant’anni il governo libico ha scelto di ignorarne alcuni e amplificarne altri».

Abo Khraisse accusa sia Berlusconi che Gheddafi di non aver compensato le vittime dei campi ma di aver in qualche modo premiato i loro carcerieri. E conclude: «È paradossale che, oltre a ignorare i campi di concentramento e premiare i collaboratori che ci lavoravano, l’accordo abbia gettato le basi per una nuova epoca di campi di concentramento finanziati dall’Italia con l’aiuto di collaborazionisti libici che vengono pagati generosamente».


Eric Salerno è giornalista, scrittore, inviato speciale, esperto di questioni africane e mediorientali, scrive per l’Huffington Post. Tra i suoi libri più recenti: Uccideteli tutti! (2008), Mossad base Italia (2010), Rossi a Manhattan (2013), Intrigo (2016); Dante
in Cina (2018).

 

Il bosco è vivo

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di Oreste Verrini

Il bosco è vivo, seppur io non veda animali o non senta rumori. Scruta i miei passi, controlla i miei gesti, trattiene il respiro come un osservatore. Un osservatore nascosto per non farsi scoprire. Eppure c’è! Una presenza antica, potente, aliena. Un’entità interessata al mio comportamento, ché io non sia minaccioso, e al contempo indifferente alla mia sorte. L’ampia depressione davanti a me, un tratto di sentiero di una ventina di metri di lunghezza, sprofondato di un paio di metri, è l’esempio di quanto la terra, il clima, la natura se ne freghino di noi animali zampettanti.
È l’esempio di quanto detto, la magnificenza di una forza, non saprei come altro definirla, che risponde a proprie leggi e non porta rispetto che per sé stessa. E mi sia concessa una breve, brevissima parentesi; per come la stiamo trattando, mi pare il minimo. Mentre scendo sul tratto accidentato provo, non per la prima volta, il sapore amaro della soggezione. Tonnellate di terra si sono mosse, cedendo al lavorio dell’acqua, ammassando a valle rocce e alberi come se fossero briciole di pane spostate su una tovaglia. Un essere umano presente a quella frana sarebbe stato sbalzato, scaraventato, spinto, colpito, travolto, abbattuto e sradicato come un albero, con percentuali di sopravvivenza quasi nulle.
Insignificante è pure troppo, mi dico.
Di fronte a manifestazioni così violente, prepotenti e inarrestabili non abbiamo mezzi. Dobbiamo solo sperare di esserne ben lontani. Non affretto il passo per abbandonare la conca ma, poco ci manca, pensieri e riflessioni di questo tipo, solo nel bosco, non aiutano. Mi trattiene dal mettermi a correre quel poco di rispetto che provo per me, sebbene la solitudine dovrebbe farmi preoccupare meno del mio amor proprio.
Il lungo falsopiano mi porterà fuori dal bosco, lo preannuncia l’azzurro del cielo che scorgo sullo sfondo e quelle che mi sembrano macchie di arancio che associo a tetti di case. Non devo aspettare molto per scoprire di avere ragione. Si tratta di tre case, almeno mi pare, visto che non sto a contarle, ben tenute, con infissi nuovi e lucidi, giardini ben curati e fioriere colorate. La strada passa sul loro fianco destro, aggirandole. Sono a Ca’ de la Conta ma lo scoprirò solo dopo, guardando la mappa. Un’anziana esce dalla porta di casa nello stesso momento in cui le passo davanti. Distratta dal tenere con due mani il contenitore per la cenere, non si accorge del mio passaggio. Se non fosse per il buongiorno che le rivolgo passerei senza che lei lo sapesse.
Alza il viso e mi saluta sorridendo. Poi mi chiede se ho incontrato dei cacciatori. Alla mia risposta negativa sembra quasi inquieta. Mi spiega che due di essi sono i nipoti che il giorno prima le hanno detto sarebbero venuti a cacciare da quelle parti. Ora è preoccupata, data la loro assenza, che possa essere successo qualche cosa.
Le dico che forse hanno solo cambiato zona di caccia, succede e non c’è nulla di strano. Sembra concordare o per lo meno così pare a me. Credo la nostra conversazione sia finita, mi appresto a ripartire ed invece mi chiede da dove vengo e dove vado. Faccio bene – sottolinea, ascoltata la risposta –, sono giovane e ho gambe buone. «Camminare fa bene» ci tiene a ricordarmi; anche lei ogni giorno fa la passeggiata ed ogni tanto, quanto il clima lo permette, va fino a Piolo – quasi quattro chilometri andata e ritorno – a piedi. Non male per una signora che ha quasi ottantatré anni.
Infine, come spesso succede, ed ogni volta mi riprometto di ragionare sulle motivazioni che spingono le persone a farlo, mi racconta la sua vita; il figlio che, per una gassosa, ma giuro non capisco il nesso, ha rischiato di rendere l’anima a Dio. Tanto che è ancora ricoverato in ospedale. E poi il marito morto, ma anche qui qualche pezzo me lo perdo, l’incidente al marito della figlia e altre brutte faccende che le fanno esclamare più volte che nessuno può dire non ne abbia passate. «Mai da star tranquilla,» mi ammonisce «mai, perché di pensieri, soprattutto brutti, ce n’è quanti se ne vuole.» E lei ne ha avuti davvero tanti.
Le dico che succede un po’ a tutti, e mi dà ragione.
Ma anche in questo caso un po’ di fatica a seguirla la faccio. Lei dimentica troppo spesso che non capisco il dialetto. Nella fretta di raccontare, nel piacere della conversazione, mette parole e inflessioni che non riesco proprio a decifrare, non sempre almeno.
La casa è molto bella e ben tenuta, glielo dico per farle i complimenti e lei ringrazia facendo presente che è anche merito della figlia che ogni fine settimana sale con la famiglia. Infine è ora dei saluti, mi ha fatto piacere parlare con lei e quasi mi spiace lasciarla sola. Non glielo dico, ma immagino che in qualche modo lo capisca perché dopo che ho percorso una decina di metri mi richiama: «Ho un bel gatto in casa. Passa tutto il tempo con me. Sapesse che compagnia mi fa!».
Nemmeno una parola in dialetto, forse perché possa cogliere appieno il valore delle sue parole e possa portarle con me. Posso stare sereno perché lei non è sola, anche oggi che non c’è nessuno nel minuscolo borgo.

 

NdR: questo brano è tratto da “Madri”, di Oreste Verrini, edito da Fusta (2019)

Ipazia, Tahirih, Shaima, Hevrin e le altre

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di Daniele Ventre

Le culture figlie della rivoluzione neolitica e del patriarcato si contraddistinguono, fra l’altro, per quella peculiare sottospecie di femminicidio rituale di cui sono oggetto donne che non sono conformi al modello dominante, e fanno “lavori da uomini”. In determinati contesti storici, il femminicidio rituale avviene su larga scala, come nelle ondate di caccia alle streghe che funestano la storia del mondo occidentale fra il basso medioevo e la prima modernità; la circostanza per cui le cacce alle streghe mietono anche molte vittime di sesso maschile, paradossalmente conferma, più che smentire, l’appartenenza del fenomeno a tale dinamica femminicidiaria ritualizzata, che sia essa sancita o meno dallo Stato o dall’autorità religiosa: gli uomini processati per stregoneria spesso si occupano di alchimia o di cose celesti, vale a dire, non fanno “lavori da uomini”; occasionalmente, interviene anche l’omofobia come motivazione aggiuntiva. Va da sé che connotati di femminicidio rituale (inseriti nel più ampio novero dei crimini dettati da intolleranza religiosa, etnica o politica) si riconoscono facilmente anche nella persecuzione di religioni o etnie indesiderate per il potere costituito, sia che si parli di sante cristiane tardoantiche o di donne di fede Bahai e zoroastriana martirizzate in Iran dal 1852 a oggi, sia che si tratti dell’olocausto o di un altro qualunque degli innumerevoli stermini di massa di cui è graziosamente adorna la storia umana. In altri ambiti antropologici, e in sistemi giuridici meno formalizzati (tribali), il femminicidio rituale è l’effetto di un’azione esemplare immediata, quasi il portato di una sorta di spontaneismo primitivo.

Tale forma di femminicidio rituale si distingue da altre tre casistiche omicidiarie con vittime di sesso femminile: il ritualismo violento di alcune tipologie di serial killer, il semplice delitto d’onore, il sacrificio umano di ragazze. Quest’ultimo è tipico delle civiltà arcaiche. Per il movente, non va confuso con le torture e le condanne della caccia alle streghe, ma nasce da una forma di distorsione del sacro in contesti storico-antropologici degeneri, in ogni caso inquinati dalla violenza patriarcale (“la uccido perché è ciò che ho di più caro da offrire al dio; la uccido perché la vittima diventa dio” -a logiche in tutto simili obbedisce anche il sacrificio della vedova, realtà attuale dell’induismo fanatico e memoria mitologica ancestrale delle civiltà mediterranee antiche). Il femminicidio seriale (per procura o su commissione, come quello dei mostri di Firenze, o per azione in prima persona, come nel caso di Ed Kemper) appartiene ovviamente alla casistica dell’omicidio maniacale, per quanto possa connotarsi, data la “firma” distintiva dell’omicida, per elementi ritualistici pseudo-religiosi (e in taluni casi, addirittura para-esoterici) -tuttavia è banale osservare come a fare la differenza tra il ritualismo compulsivo del Lustmörder e il femminicidio rituale sia sempre la mancanza totale di un avallo anche solo generico da parte della dimensione normativa della comunità tribale, che anzi costruisce naturaliter una rete di deterrenti spontanei per gli omicidi seriali (assenti, per esempio, nelle zone rurali ad alta densità mafiosa). Il delitto d’onore ai danni di figlie o mogli o fidanzate è la tipologia criminale più vicina al nostro caso, ma ne differisce per un tratto specifico: l’omicida agisce più spesso da solo, inscenando una presunta reazione immediata, e dunque non riflessa, presuntivamente istintiva, al torto subito (“l’ho uccisa perché la amavo troppo, l’ho uccisa perché ha infangato il mio buon nome”), non è investito né implicitamente né dichiaratamente di uno scopo politico, non cerca necessariamente l’umiliazione del corpo della vittima (e da ogni analogia coi femminicidi rituali si escludono altresì le casistiche di omicidio passionale preterintenzionale, per ovvie ragioni). Nei casi di femminicidio suicidio, sia che il suicidio riesca o meno, il delitto per gelosia sfocia in una sorta di aberrante suicidio per procura (“non posso più vivere senza di lei, la uccido/mi uccido”) -è il paradigma maschile dell’infanticidio di Medea. Inoltre, a proposito di infanticidi e feticidi, vanno escluse dal novero dei femmincidi rituali specificamente definiti anche le pratiche di aborto selettivo ai danni di feti di sesso femminile e l’infanticidio delle bambine, fenomeni anch’essi propri delle civiltà rurali arcaiche, ma dettati da altre ragioni, di natura non tanto assiologica, quanto piuttosto brutalmente economica.

Le caratteristiche di un vero e proprio femminicidio rituale, quanto a movente, contesto e dinamiche di esecuzione, sono tre: 1) la vittima, che si distingue per il fatto che pubblicamente riveste ruoli o svolge attività “da uomini”, una presunta aberrazione che la privazione violenta della vita pretende di punire; 2) gli esecutori, mai da soli, che presumono e pretendono di rappresentare, con la loro pluralità, la comunità dei padri/mariti che reagisce all’aberrazione -la presunta “vigliaccheria” o la presupposta “strategia”, o le pretestuose ragioni del delitto di Stato, sono solo connotati accidentali, rispetto alla più grave pretesa e arroganza di rappresentare/costituire la comunità che punisce; 3) le sofferenze inferte alla vittima, tese a umiliarla e a mutilarla in quanto donna -le lesioni sul corpo della vittima, la cui eventuale bellezza alimenta in modo distorto la spinta omicida e la ferocia degli esecutori, dimostrano particolare efferatezza nell’infliggere dolore e nel distruggere l’identità fisica della persona torturata e uccisa in quanto è femmina -e si può parlare, da questo punto di vista, di genericidio in un senso differente, e opposto, rispetto a come intende il termine la sociologa Mary Ann Warden, che lo coniò per il massacro di Srebrenica, con riferimento allo sterminio selettivo degli uomini (per una guerra anch’essa connotata da marcati tratti contadini e tribali). Si aggiunga che le circostanze criminogene alla base del delitto sono quasi sempre legate a situazioni di crisi economica, politica o francamente militare –e tuttavia ci preme di evidenziare che quest’ultimo dato non è un’attenuante, bensì un’aggravante, perché nella totalità dei casi, la crisi è effetto delle politiche aggressive o di rapina della stessa egemonia sessista di classe che genera il crimine e la dinamica femminicidiaria in questione.

Il femminicida rituale patriarcale è pertanto l’incrocio fra un fanatico totalitario, un serial killer e un padre padrone, e il suo gesto si configura in tutto e per tutto come l’attuazione di una escalation dello stupro punitivo di gruppo. A ben riflettere, il suo crimine, sul piano giuridico, è in prospettiva potenzialmente più grave e pericoloso del generico omicidio o del genocidio, o del genericidio etnicamente marcato à la Warden, perché  non colpisce tanto il singolo individuo o la singola etnia, ma costituisce piuttosto un attentato all’umanità come tale; sul piano stricto sensu antropologico, appartiene allo stesso livello di civiltà in cui si estrinseca il rito del cannibalismo.

Troppo tardi per non credere in Dio. Lilith, di Davide Nota

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In questi giorni esce nelle librerie Lilith, primo romanzo di Davide Nota -scritto tra il 2015 e il 2019-. «C’è, subito, il sentimento di una profondità. Il bisogno di aprire ferite» ebbe a scrivere Roberto Roversi in un commento ad una delle primissime pubblicazioni di Nota, e lo stesso appunto allarga la sua ombra sino a Lilith, diventandone l’ennesimo incipit: «[…] Il testo mi ricorda che non sempre nell’inferno c’è soltanto il fuoco.»

Le formule con cui la letteratura italiana attraversa oggi la narrazione della meccanosfera sono spesso sovraffolate di catastrofi. Stanche catastrofi. Ecco perché il mosaico di appunti che Davide Nota ha voluto capovoltare in romanza è una lettura decisiva, e lo è in quanto dichiara l’inattualità di ogni momento storico, e quindi l’invasamento dei tempi, la scollatura in cui inscenare un radicale ripensamento della tecnologia come luogo di riscatto degli universi sepolti e nascituri: «Il distacco finale dell’occhio dalla carne umana. È diventato un uovo, l’occhio, da deporre tra le pieghe della sorgente.». Oppure: «Si torna alla figura dell’ebreo errante, dentro la storia come corpo (di schiavo) eppure mai come spirito (libero). Il tempo che egli attraversa, non l’ha mai contenuto. Per questo non può esistere in nessuna dialettica (e dunque in nessuna avanguardia). E il suo ritorno non si svolge a ritroso.»

Ma decisiva lo è anche in quanto contravviene all’impiego della tecnologia per stuccare i mancamenti della pagina, le sempre più insistite defezioni rispetto all’imporsi di linguaggi altri. In questo senso, Davide Nota sceglie di abitare in pieno quel vibrante tracollo che è forse l’andamento proprio di ogni alfabeto nel momento della sua riscrittura: «Oggi l’antenato mi ha detto che la nostra è una crisi dell’alfabeto mentre nel nuovo mondo regnerà l’ideogramma.»  Bene che Luca Sossella abbia saputo intuirne il fermento, e bene che il testo continui ad infittire la sua già vasta piattaforma di colloqui (alcuni nomi: Mariangela Guatteri, Alice Piergiacomi e il Collettivo ØNAR -con cui si è sviluppato un percorso di ricerca teatrale-) 

«Io mi sento davvero come dice Gide (altro angelo custode del testo) nei Nutrimenti terrestri solo un lettore» mi scrive Davide durante una nostra conversazione prima dell’uscita del libro, confermandomi così quanto già vien fuori da una prima lettura: l’autore ha da essere responsabile soltanto dell’orlo.

Torneremo a parlare di Lillith. Per il momento, ne pubblico alcuni estratti in anteprima.

 

13.

Il mio nome è Brenda ma non sono sempre stata io. Ero un bambino timido. Mi chiamavo Alexander. Le generazioni passano ma il mondo è sempre lo stesso. Come uno spirito vagante egli ora vive in me. Come un ricordo. Una barca. Una bara che arde nei mari del Nord. Ho fatto l’esperienza della morte. Della mutazione lucida. Ho costruito un cerchio di pietre sul pavimento della stanza. Al suo centro ho posto una sfera dove mi osservo capovolta come nell’occhio di un ciclope. Una biglia è una biglia di smeraldo sa di terra nera e felci. Adesso suonano alla porta. È il mio omicida ma io non lo ricordo. Così farò finta di danzare, di esserne lieta. Gli offrirò un drink. Lui mi darà in mano cinque banconote. Poi mi condurrà nel piccolo corridoio in ombra dove inizierà a toccarmi spingendomi da dietro, come un breve assaggio prima del pasto finale. Eccolo, mi strangola. Ora ricordo. Uscendo dalla cucina avevo sempre la visione di un manichino bendato. Aveva un largo seno e vaste gambe da atleta. Non aveva le braccia e dall’incavo del collo si espandeva questo fungo di plastica nera che mi terrorizzava. Dal vetro della por- ta-finestra s’affacciava un gatto ed io pensavo che voleva dire la morte. La sorte. Quando iniziai a masturbarmi sognando di avere una fica era troppo tardi per non credere più in Dio. Così scelsi di avere entrambi i sessi ed entrai nella mitologia.

 

57.

Il distacco finale dell’occhio dalla carne umana. È diventato un uovo, l’occhio, da deporre tra le pieghe della sorgente. L’uomo è tornato cieco, finalmente. Ha partorito il suo intelletto. Adesso non gli appartiene più. Adesso può toccare il sole.

 

76. 

(per Mariangela Guatteri)

Il carro ha l’incarnata assassinata che si è persa tra le foglie da cui cade la yogin, la riassorbita. Oggi l’antenato mi ha detto che la nostra è una crisi dell’alfabeto mentre nel nuovo mondo regnerà l’ideogramma. Ma esiste un terzo livello (lei dice) in cui l’immagine viene toccata. A questo ci prepara il culto che prepariamo. Lilith tesse le felci, le piante tintinnano in coro. Lega un anello di crini al ramo giovane d’un faggio mentre un seme ad elica vola come fuggendo lontano. Era il linguaggio delle streghe quando rubavano il cavallo. È più profonda lei dice la vita senza più simboli quando l’icona non predice altro che sé stessa.

 

83.

Endimione

 

I.

Tutto è raccolta. Quando l’astro eclissa

come un veliero l’uovo luminoso

da cui risorge Fanes, esistiamo.

E tutto è luce. O dove il caos si schiude

una saetta improvvisa. E il fiume scorre.

Qui siamo, nelle forme destinate,

accolti. Non io o tu ma questa palpebra

di luce prenatale, questa sfera

che ora chiami “il motivo”. È come un sogno dove

non scisso ma infinito il flusso

di energia e materia pervade il fine.

E dunque nasce. Un grattacielo ha occhi

di fuoco e mille pensieri. Il pianeta

è in fiamme. Io contemplo lo sbocciare degli eventi

come rivelazione. È un vento tiepido di marzo

nella notte fatale, dove tutto accade.

I lampioni esalano sangue. Il seme.

 

95.

L’Yggdrasill è addobbato. Prende fuoco, si spezza. Le luci erano dolci ma non furono risparmiate dall’evento sterminatore. Gli infissi cedono. Una fotografia, una foglia di ippocastano, una mano serrata di cadavere è un guscio vuoto che affonda nella terra nera. Siamo giunti allo specchio di noi stessi che sono tutte le cose nella solitudine in cui svanisce la menzogna di credersi in un cammino. Eppure non è vero, perché anche queste sono solo parole, utili al giudizio, a chi ha una posizione. I ripugnati mangino merda quanto gli scettici! La stirpe dei terrorizzati è stupida quanto quella del lume. Ribellarsi allora signifi cava contemplare senza interpretazione il giano bifronte delle possibilità. Ma anche l’impossibile sarebbe a portata di mano se solo prendessimo atto di non essere un uno ma in uno. Non secondo nostra volontà, tuttavia, ma in Cristo, Buddah e Allah nostri signori e nella figlia loro e sposa ventura Fatima, vale a dire lo spirito santo, vale a dire la Maddalena madre Maria degli universi sepolti e nascituri.

I poeti Apartheid: Angelo Vannini

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Tre poesie inedite

di Angelo Vannini

 

 

Un uomo

Aggiornato. Un uomo

mi era saltato vicino,

col suo nudo

vestito di passi. Era

nero come la notte, freddo

più del volto, stanco

N come noncuranza

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[Questo pezzo è uscito sulla rivista “Qui Libri” di settembre. Mi è stato chiesto di scegliere una parola che testimoniasse in qualche modo, stilistico ma anche tematico, per la scrittura del romanzo Parigi è un desiderio. In coda al pezzo, un breve estratto del romanzo.]

di Andrea Inglese

 

La noncuranza è il paradiso degli ansiosi, e l’età dell’ansia è la nostra, contemporanea, senza scampo, in costante precipizio di nuove prestazioni.

cinéDIMANCHE #31: Vertov, Frampton, Gioli

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Cineocchi, per uomini senza macchina da presa

 

 

 

1.

“Vertov: lo sguardo e la pupilla”

di Mariasole Ariot

 

 

 

Un cineocchio”, un manifesto, una dichiarazione: togliere dal cinema ogni forma di teatralità, di soggettività per (ri)portare il cinema alla sua essenza, dove il raccontarsi (il film che racconta il film) precede e quasi cancella il raccontare. 

È con L’uomo con la macchina da presa che Vertov libera lo spazio dalla sceneggiatura, dalle storie, dai personaggi, esponendosi allo sguardo dello spettatore nell’intento di svegliarlo dalla teatralità e metterlo di fronte al reale.


Un reale fatto di movimento, di metasignificati, di spazi, luoghi cavi da riempire. Un cinema vuoto prima dell’arrivo del pubblico, poi la città addormentata, il risveglio, la ripresa del lavoro, la frenesia, e di nuovo il ritorno alla sala, a quello spazio di significati che non ha bisogno di entrare nella soggettività possibile alla ripresa ma piuttosto farla scomparire. Una distrazione necessaria alla dichiarazione di intento: nessuna posa, nessuna recitazione, nessun’intimità manifesta se non raccolta in un corpo di spalle.

Catena di montaggio, una ciminiera.

E’ il 1929: lo stalinismo è già pienamente affermato. Eppure, all’interno di questo dispositivo di potere la zona occupata dall’arte non è ancora “sotto controllo”. Il lavoro di Vertov è quindi tra gli ultimi della avanguardie artistiche russe che si muovono libere dalla costrizione.

Se gli elementi già prefigurano lo stato delle cose successivo, l’intento non va in quella direzione. Si tratta piuttosto di una ribellione nei confronti di ciò che lo precedeva: un passato di costruzione, fantasia, messa in scena. L’artista, nato in Polonia e trasferitosi poi a San Pietroburgo, si ribattezza – nella scia del futurismo – con il nome con cui poi verrà riconosciuto: Dzigva Vertov che in urcaino è: trottola.

Se nell’epoca del cinema muto fondamentali alla narrazione erano le didascalie che intervallavano e preparavano lo spettatore tra una scena e l’altra, nell’Uomo con la macchina da presa ogni spiegazione salta, viene cancellata. Resta solo ciò che resta della vita al suo grado zero, non scrittura che ri-racconta il mondo, ma un mondo nel suo darsi in quanto mondo.

Un manifesto contro il teatro, contro la costruzione. Ma la stessa costruzione che voleva distruggere si sposta direttamente sull’apparato di ripresa: è la telecamera, come un occhio in movimento, a costruire la realtà: sformandola, velocizzandola, rallentandola ( stop motion, freeze frames), innovazioni tecnico stilistiche che mostrano come sia l’obiettivo stesso della macchina a dettare legge sul corpo dell’esistenza.

Non una realtà che viene plasmata a servizio della ripresa, ma una ripresa che – nel suo movimento, nel gioco di assemblaggio e decostruzione – mette in forma un reale duro, secco, di sottrazione.

È forse quindi la forma più estrema del cinema muto, perché se il mutismo precedente tentava di sopperire alla voce attraverso sguardi e racconti, in Vertov il mutismo non chiede giustificazioni, non si pone come “difetto” o un “non ancora” ma all’opposto diventa esso stesso parte integrante e fondante di ciò che non dev’essere detto ma solo visto.

L’occhio all’interno della cinepresa,  nell’ultima inquadratura, fa da protagonista. E’ il senso della vista, non la parola scritta, non la parola che l’immagine produceva, ma pura rappresentazione di un reale nudo.

Un intento che si spinge verso la straniamento dell’osservatore. Ed è forse proprio questo straniamento che non permette di poter raccontare ciò che si è visto (come lo si potrebbe fare rispetto ai lavori precedenti cinematografici o ad un libro, una pièce teatrale) : l’impossibile da raccontare diventa allora la possibilità di avvicinarsi al dispositivo. 


Il protagonista vero è dunque ciò che sta dietro : lo sguardo, la pupilla. 

 

2.

Film, “Ultima Macchina”

estratto* da Hollis FramptonFor a Metahistory of Film (1971)

 

Ho voluto chiamare il film “l’Ultima Macchina”.

Per quanto possiamo ricordare, un tempo le macchine grossomodo corrispondevano per dimensioni alla gamma dei mammiferi. La macchina-chiamata-film è però un’eccezione. Siamo soliti pensare alla cinepresa e al proiettore come a delle macchine: in verità non lo sono. Li potremmo definire “parti”. La pellicola stessa, così flessibile, è tanto parte della macchina-chiamata-film quanto il proiettile è parte dell’arma da fuoco. […] Dal momento che tutte le parti combaciano, la somma di tutti i film, e di tutti i proiettori e cineprese del mondo costituisce un’unica macchina, una macchina che è sino ad ora il più ambizioso artefatto mai concepito da un essere umano (con l’unica eccezione della specie umana stessa). Un continuo rinnovo di materia prima va ad ingrossare ogni giorno questa gigantesca macchina; non ci deve sorprendere dunque il fatto che qualcosa di così grande possa inghiottire e digerire l’intera sostanza dell’Era delle Macchine, soppiantando finalmente l’interezza con la sua carne illusoria. Avendo divorato tutto il resto, la macchina-chiamata-film è l’unica sopravvissuta.

Se siamo dunque condannati al compito […] di smontare l’universo e fabbricare da questo ammasso di cose un artefatto chiamato Universo, è ragionevole supporre che un simile artefatto somiglierà alle cripte di un infinito archivio di film, costruito per conservare -in un eterno e gelido immagazzinamento- il Film Infinito.

 

*L’estratto fa parte di una prima ipotesi di traduzione italiana -curata da Giorgiomaria Cornelio (La Camera Ardente)- che verrà presentata durante il Weekend on the Moon (Nomadica, Bologna)

 

 

3.

L’uomo senza macchina da presa

di Paolo Gioli (1973-’81-’89)

 

«Questo film, come dice il titolo vertoviano è stato eseguito senza macchina da presa, più precisamente è un utensile autoprogettato per restituire immagini, liberate dall’ottica e dalla meccanica. Lo sostituirsi alla cinepresa tradizionale fa parte di un mio, ormai prolungato gesto verso la spogliazione di una tecnologia di consumo, tossico della creatività pura. Questa strana cinecamera è una semplice asta cava di metallo, spessore cm 1, larga cm 2 e alta poco più di un metro. Alle estremità due bobine raccolgono il film in 16 mm. Il suo trascinamento avviene manuale, con tempi e spazi intermedi. Le immagini entrano simultaneamente attraverso 50 fori distribuiti su di un lato in prossimità di ogni fotogramma, i quali vengono in sostanza a comporre 50 piccole camere obscure a foro stenopeico (dal greco Stenos=Corto e dal Tema Op di Orao=Vedere). Questi piccolissimi fori messi di fronte, per esempio, ad una figura in piedi, la vanno ad esplorare nella sua verticalità senza però alcun movimento, proprio perché ogni foro riprenderà il punto, il dettaglio in cui si verrà a trovare. Uno dei risultati più evidenti sarà appunto, quello di trovarsi di fronte ad un “movimento di macchina” mai avvenuto. Compulsazioni pneumatiche un po’ stregate; allontanamenti e attraversamenti sul volto e sul corpo ricostruiti con cinquanta punti-immagine.»

 

 

 

⇨ cinéDIMANCHE

Il mio Antropocene

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di Giacomo Sartori


Sull’utilità pragmatica del concetto di Antropocene, e sulla sua propensione, così come è nato e viene propalato, a nascondere l’origine dei singoli problemi e le responsabilità, e quindi anche a complicare l’individuazione di strategie non velleitarie per contenere le catastrofi, mi sembra che ci sia molto da discutere, moltissimo. Ma è innegabile che l’Antropocene, con i suoi sconquassi e minacce, sia ormai sotto gli occhi di tutti, ogni giorno di più. Meno noto, ma fondamentale, è che molti, tra gli altri Charles Fourier (Détérioration matérielle de la planète, 1820-21, pubblicato postumo nel 1847), l’hanno visto arrivare per tempo, e che quasi tutti i suoi passi più nefasti sono stati volontaristici e tutt’altro che consensuali, insomma politici. E quindi non era poi così ineluttabile come si da per scontato, sopravvalutando il peso della demografia, e l’umanità non è parimenti colpevole. Per quanto mi riguarda l’ho avvistato, nel mio piccolo, ben prima che il suo nome venisse coniato. E mi ha poi affiancato, come un compagno ormai inseparabile, nel lavoro che faccio.
Quando avevo sei anni la mia famiglia ha traslocato dall’appartamento che avevamo in affitto in città alla villa di mia nonna in collina. Erano solo una manciata di chilometri dalla città di distanza, ma era un altro mondo. Un complesso meccanismo dominato dalla vegetazione, addomesticata ma pur sempre fieramente autonoma, con la sua energia linfatica e i suoi cicli, e dove subordinatamente c’erano muri, viottoli, boschetti, piccole frazioni con case coloniche e qualche villa signorile. E dove si muovevano a loro agio animali di varia taglia e indole. E anche naturalmente, pure essi di casa, abitanti umani, con le loro abitudini e la loro lingua. Lì ero straniero. Sapevo intrufolarmi e farmi accettare, tessendo amicizie intrinsecamente asimmetriche, come ho poi fatto tutta la vita, ma ero un essere alieno.
Questa funzionale coabitazione di natura e essere viventi traeva la sua forza dalla continuità e dalla ripetizione, era radicata in un passato che si avvertiva molto antico. Era evidente che ogni più piccolo elemento affondava nel tempo, dal quale traeva una sua invincibile inerzia, ribadita dalla lingua e dai gesti. E proprio per questo le novità avevano dirompenza di meteore. Perché in realtà tutto stava cambiando. Un’estate è comparsa una falciatrice a motore, pilotata da un ragazzino appena più grande di me seduto come un motociclista, che con le sue due larghe chele di aragosta faceva in due ore il lavoro che richiedeva molte giornate di fatica con la falce. E l’anno dopo è comparso un trattore a cingoli Fiat, che avanzava minaccioso e ostinato con un frastuono di ferraglia, e con le sue unghie dure incideva le carreggiate e faceva tremare la nostra vecchia casa come ci fosse un terremoto. E subito sono scomparsi, subito non ci ho fatto caso che le due cose erano legate, i buoi, diventati ingombranti e desueti. D’improvviso basti, finimenti, fruste, aratri di legno, erano reperti impolverati e quasi curiosi.
La stradetta secolare cinta sui due lati da alti e bianchissimi muri a secco che saliva dal paese a valle, è stata trasformata in carreggiabile a doppia corsia, dove ci passava comodamente un autobus, delimitata da cemento. L’asfalto guadagnava terreno come una lingua ingorda, mangiandosi perfino il saliscendi finale per arrivare da noi, un tratto della via romana Claudia Augusta. Per decenni ha resistito solo la piazzetta del borgo, poi quando si è riempita di auto è stata sigillata anche quella. In pochi anni la plastica ha invaso case e aie, le spazzature sono proliferate come infestazioni micotiche, e la dieta è cambiata: la pasta ha sostituito la polenta di mais, la carne è diventata normale. Intere piane sono state invase da caseggiati di calcestruzzo e parcheggi. La vita era più facile e molto meno dura. Nessuno dei giovani faceva più il contadino a tempo pieno, semmai era un secondo lavoro, finiti i turni in fabbrica. Prima di bere l’acqua delle fontane bisogna però vedere se c’era scritto che era potabile. E anche la frutta non si poteva più mangiarla dall’albero. Le lucciole e le rondini si sono diradate, e poi sono scomparse per sempre. Le fumosità marroncine che tappavano ormai la valle hanno preso l’abitudine di salire verso di noi. A cose ormai concluse, sarebbe poi arrivata anche la nuvola micidiale di Chernobyl. Moltissime persone morivano di cancro, vai a sapere le cause precise.
Tutto stava cambiando, e mia nonna si stizziva, sentiva che lei non poteva stare con le mani in mano. Era già anziana, e ormai del grande patrimonio non restava quasi più niente, però doveva muoversi, se non voleva rimanere tagliata fuori. Si è sbagliata anche in quello. Ha comprato un cavallo magro e collerico, che non ha mai ubbidito a nessuno, e un carro troppo pesante, che non è mai uscito dalla rimessa. Non aveva capito che la rivoluzione era ben più radicale, e era basata – i lontani anni in America avrebbero dovuto metterla sulla via buona – sui motori. Del resto i suoi vigneti erano troppo pendenti, per portarci le macchine.

Senz’altro la mia scelta di studiare agronomia va ricondotta in qualche modo a quel groviglio di natura e tecniche umane che mi aveva tanto colpito. Mi sono iscritto a Firenze, facoltà rimasta inceppata nell’Ottocento, e per certi versi al Rinascimento. Tra gli allievi c’erano conti e marchesine bronzineschi, e erano completamente assenti i computer, la statistica, i modelli matematici. C’era però una rinomata scuola sui suoli, e io ho fatto una tesi in quel campo, e poi ho continuato per tutta la carriera a occuparmi solo di terra. Noi specialisti ci sgolavamo per dire che i terreni soffrivano, spesso morivano, erano spazzati via. Nessuno ci ascoltava, eravamo visti come patetici passatisti. Solo negli ultimi anni ci si è resi conto che le terre coltivabili sono limitate e fragili, e sono insostituibili. Spesso però è troppo tardi.
Studiavo soprattutto i suoli di montagna, che interessavano ancora meno. Un pomeriggio ho sorpreso il direttore della istituzione per la quale lavoravo che mi prendeva in giro per la mia attrezzatura e la mia strumentazione antiquate. Un professore di Zurigo è però venuto a cercarmi: quegli studi antiquati che avevo fatto, che legavamo i caratteri dei suoli all’altitudine, e insomma al clima, potevano essere utilizzati secondo lui per prevedere gli effetti dei cambiamenti climatici. In Italia nessuno parlava di cambiamenti climatici, lì da loro li davano per scontati. Abbiamo lavorato per tanti anni assieme. Lui era il mago delle tecniche più innovative, io ero principalmente il braccio organizzativo, che conosceva come le sue tasche i terreni di montagna e le loro minime paturnie, però insomma respiravo anch’io quel fermento scientifico. Finché è arrivata la crisi, e fondi per quelli studi, e più in generale ambientali, nel nostro paese non ce ne sono più stati. Avevo comunque imparato che di molte questioni basilari, e men che meno degli intrichi di correlazioni che caratterizzano gli ambienti complessi, non ne sappiamo nulla, e che non si può modellizzare ciò che non si conosce. Di qui la mia diffidenza per i cosiddetti modelli climatici, e per la scienza stessa, che da sola – senza coinvolgere gli uomini e le loro strane passioni – non può dare risposte.
Negli anni successivi ho dovuto ripiegare sui terreni dei meleti e dei vigneti, dicendomi – certo ingenuamente – che conoscendoli beni si sarebbero potuti proteggere e risparmiare, limitando i danni al contorno. Anche lì quello che facevo e faccio non interessava quasi a nessuno, lasciando stare le parole. Gli istituti di ricerca parlano e spendono per l‘agricoltura di precisione, come se le conoscenze di base, che mancano, potessero essere surrogate dai gps e dai sensori dei droni, o dall’intelligenza artificiale. E si inebriano di ingegneria genetica, come se si potesse far quadrare il cerchio delle risorse energetiche e degli inquinamenti con quella. Quando ogni vero conoscitore dell’agricoltura del mondo, e non solo dei paesi ricchi, sa che sono le tecniche antiche che sfamano, e sfameranno, la maggior parte degli uomini, dando sollievo al pianeta. E che solo tornando a quelle, certo affinandole e migliorandole, potremo forse sopravvivere. Ma queste cose gli antropocenisti, inebriati dalle stesse tempeste tecnologiche delle quali vituperano gli effetti, e sviati da fantascientifici sogni di redenzione, non le sanno, e forse non le vogliono sentire.

 

NdA: queste consideraizioni mi sono venute riflettendo in vista del dibattito di oggi al Book Pride di Genova, moderato da Michele Vaccari, e con Laura Pugno, Matteo Meschiari e il sottoscritto: Dopo la grande cecità. Scrivere l’Antropocene.

 

Da “Dire il colore esatto”

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[Pubblichiamo alcuni testi del nuovo libro di poesia di Matteo Pelliti, Dire il colore esatto, con disegni di Guido Scarabottolo e prefazione di Fabio Pusterla, Luca Sossella, 2019.]

 

di Matteo Pelliti

 

Coraìsime – In un mondo figlio di un tempo sbagliato

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di Domenico Talìa

«Le aveva viste da bambino fuori dalle case in campagna. Appese per un laccio nero. Vecchie bambole mutilate con il viso squagliato dal sole. I capelli uniti in un unico grumo nero avevano superato inverni e lunghe piogge estive. Ad alcune mancavano gli arti, erano solo una testa e la parte superiore del busto […] Le chiamavano coraìsime e tenevano lontano il maligno […] Stavano a difesa della casa con i loro volti sfigurati dal tempo e gli abiti stracciati di chi lotta col buio. […] Adesso che la strada passava proprio in mezzo a quelle case, le bambole non c’erano più. Non c’era più niente da difendere, tutto era stato predato.»

Sono le atmosfere intense del Sud, lontane da stereotipi purtroppo molto frequenti, a riempire questa storia chiusa tra l’Aspromonte e il mare. Un padre imprigiona la figlia in una vecchia casa dopo la morte della moglie e s’imprigiona insieme a lei. Bernardo Migliaccio Spina è un regista che ha già intrecciato amore e magia in un lungometraggio e con il suo romanzo breve Coraìsime (Rubbettino Editore, 2018) ritorna nella sua terra per riempire le vite di sensazioni, impulsi e flussi di sentimenti che ingarbugliano quel mondo. L’unico rischio è la nostalgia, ma i pomeriggi noiosi del Sud hanno contribuito a comporre la forma del narrare di questo piccolo libro che non manca certo di originalità e lascia una netta impronta sul lettore scosso da una narrazione tormentata tra dolori taglienti e affetti infiniti.

Paolo è un piccolo commerciante, figlio di un contadino e di una bidella. Ha studiato ma è tornato a casa perché non sa stare lontano dagli ulivi della sua terra. Sposa Adele che gli dà una figlia, Marta, ma muore troppo presto. Dopo la morte di Adele, Paolo decide di lasciare il suo mondo e si chiude in casa con la figlia. Marta abbandona la scuola e segue il padre in questa tragica scelta. Quando Paolo rapisce Giuseppone, la sua vita e quella di Marta prendono un abbrivio definitivo e Marta riesce a fuggire «quel male che l’aveva sedotta per troppo amore». In questa storia brandelli dei fatti appaiono di tanto in tanto tra pagine dominate dal racconto della coscienza del protagonista. Un uomo vede la fine di un mondo e vuole finire con esso. Un universo vicino alla sua fine nel quale gli «uomini parlavano ai sassi, ai semi, somigliavano alle felci, alla fitta ginestra, alle zolle ruvide a lato delle mulattiere». È una grammatica di visioni quella di Migliaccio Spina, è una narrazione di parvenze che amplificano la realtà anche quando sembrano attenuare le sue manifestazioni.

Le coraìsime, bambole di pezza da appendere davanti casa, un tempo in Calabria scandivano il trascorrere del digiuno quaresimale tramite sette penne di gallina conficcate a raggiera in un’arancia, una patata o un limone sulla testa o sotto i piedi delle pupe. Ogni domenica si sfilava una penna. L’ultima certificava la fine del digiuno quaresimale e veniva tolta la sera del Sabato Santo, quando le campane ritornavano a suonare a festa per la Resurrezione di Cristo. Nel racconto di Migliaccio Spina le coraìsime sono il simbolo di un mondo perso, gettato via dai figli che alla morte dei loro vecchi hanno venduto tutto perché non si sono sentiti più parte di quella terra, di quel modo di vivere. In questo nostro tempo le coraìsime non servono più a ricordare una quaresima che nessuno vuol fare in un’epoca di bulimia, in una società che non sente alcun bisogno di digiunare, non avvertendo alcun senso del limite. La storia di Paolo, Marta e Giuseppone, dei loro luoghi bellissimi carichi di sentimenti estremi ci chiede di sforzarci per poter comprendere cosa è realmente avvenuto e cosa sia diventato oggi quel mondo figlio di «un tempo fotocopiato male».

Tempimorti

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di Filippo Polenchi (testo) e Andrea Biancalani (foto)

(#Ufficio, 2017) Ho sentito prima M. che sospirava. Un rilascio di aria veloce, rapidissimo epperò pieno di respiro, al colmo di una boccata d’ossigeno catturata nei polmoni e poi rimessa in libertà, alla svelta, perché forse aria già avvelenata, già corrotta dall’anidride carbonica che dovrebbe essere l’ultimo passaggio dell’atto. E invece no. Invece qui tutto t’avvelena. Mi rendo conto che tutti sospirano. Sospira M. come oggi, ma più di tutti sospiriamo io e E. Me ne sono reso conto da poco: E. sospira tantissimo, soprattutto quando cammina e quando sta seduta, quindi sospira praticamente per tutto il tempo che rimane in ufficio. A volte la sento mollare questi pacchetti d’energia sotto forma di respiro, tutta questa accelerazione quantica d’infelicità fin da qui, da questa stanza. C’è lei che sembra sempre così sola e che sospira. Inspira aria ed espira questo mix tossico di cose andate storte. Poi invece cammina qui, accanto a me, per contingenza, nel corridoio. Replica la stessa solenne liturgia nera. Non si sfugge dalla sua vita, dal suo appartamento solitario (lo immagino: non ci sono mai stato), dal suo pendolarismo cittadino e automobilistico, abbastanza irritante perché accumuli qualche minuto di ritardo ogni giorno: un paio di minuti al lunedì per una coda sul Piazzale, un paio il martedì per i lavori della tramvia eccetera eccetera. Dai suoi piccoli malori isolati e senza nessi, grappoli di sintomi senza significato e conseguenze, che però le fanno aumentare il ritardo mattutino. Mi sono sentita male, dice a volte, non spesso, ma talvolta sì. Non riesco a immaginarne una vita oltre a questo recinto di sospiri e di fastidi. Non riesco a vederla al cinema, con gli amici, a bere, a fare l’amore. Ora ha attaccato il telefono: una chiamata a una collega che lavora a distanza (beata lei), una conversazione cordiale, gentile, su aspetti legati a un singolo lavoro, ma insomma, quella che diremmo una telefonata tranquilla e quando ha attaccato, salutando la tipa di là dal telefono con un “ciao cara” ha sospirato. Non uscirà mai dai suoi sospiri. E anch’io sospiro. Lo faccio spesso, per rabbia. Il sospiro è il lamento, il lamento è vento biblico di impossibilità ad agire. O sospirando si agisce?

(#In coda, 2019) In auto, per andare a lavoro: grande anello di auto imbottigliate intorno. I soliti paesaggi di vegetazione disfatta, cementizia, indistinguibile. Case e villette costruite su questa porzione di Chiantigiana che è trafficatissima. Qualche volta, soprattutto negli anni scorsi e in inverno, ho percorso questa strada a piedi, per andare a lavoro (30 minuti da casa), ma è un percorso pericoloso, senza marciapiede, senza protezione, affogato nel gas di scarico delle auto. È un tragitto che fa ammalare ai polmoni. Ci sono case arroccate contro la massicciata del raccordo autostradale che passa proprio qui sopra, che designa dunque uno spazio-di-sotto con manifesti teatrali di spettacoli sfranti e disperati, stratificazioni di carta e colla, volti di attori ormai bolliti che si rincorrono nei teatri di provincia (Firenze è tutta provincia) per darsi un’ultima occasione di rilancio – faranno battere le mani a un pubblico anch’esso sfinito dall’inedia e dall’abitudine a ricevere il Nulla – ma anche cassonetti divelti, detriti di ogni genere, l’onda di comparsa-e-scomparsa delle siringhe per terra, un materasso mezzo bruciacchiato, sassi e resti di cemento sgretolato dalle colonne del viadotto: e quella casa che apre la finestra proprio sulla strada. Chi viene prima? La casa o la strada? Poco importa, per chi apre la finestra, fa entrare CO2 fra le stanze, espone le coperte della notte all’aria velenosa, poi le ritira, le rimette nel letto, ci dorme, le respira nottetempo. Questo paesaggio non lo capisco: è una giungla; liane e alberi infestanti, verde scuro, spugnosi, appiccicosi. C’è poco da capire: è così e basta, disordinato e rampicante, così proliferante che mi sembra una buona approssimazione dell’angoscia che si prova nei sogni, quando non si riesce a divincolarsi dalla prigionia di una stanchezza ottusa. C’è apparente vitalismo in questa vita che si riproduce incessantemente. È il selvaggio? È terzo paesaggio, biodiversità, dovrei amarla, rispettarla. Osservarla in maniera empatica, ma non ci riesco. Su Novaradio, al mattino, ascolto sempre un programma di musica soul. Non danno mai notizie, al contrario delle altre emittenti, solo musica soul. È una scelta de-responsabilizzante, forse, sebbene il momento delle news sia solo rimandato di poco. Adoro, però, ascoltare Otis al mattino: quando lo passano alzo il volume. Ma non stamani. Stamani non trasmettono niente che riconosca.

(#Area di sosta Q8, 2019) Ho fatto pausa pranzo, come spesso il venerdì, in auto: sportello aperto, gamba sul telaio del finestrino, all’ombra del cubo di cemento, ora vuoto, che ospitava prima il bar Luisa poi il bar Arcangeli e ora, appunto, niente. La successione ereditaria di quei bar è un romanzo naturalistico. Ora attraverso le pareti della zona-pranzo del bar, che sono tendoni di nylon trasparenti, ma sporchi perché da un anno e mezzo nessuno li pulisce, s’intravedono ancora un paio di tavoli, chiaramente vuoti; una bottiglia di acqua piena posata per terra, il bancone con la spina della birra impolverato, le marche delle birre – italiane, artigianali, non filtrate: tentavano anche di usare la ‘qualità’ come estrema salvezza, ma senza esserci riusciti a quanto pare – che sono ovali sbiaditi, come fotografie sulle tombe. Il vento della strada accanto fa sbatacchiare i tendaggi a ritmi sonnolenti. Ho gli occhi chiusi, tento di dormire per quei pochi minuti di pausa. Piccoli svenimenti per recuperare ore di sonno perdute a causa del raffreddore. Davanti a me, per tutto il tempo, un furgone porta-valori. Bianco, Fiat, con scritte sulle fiancate (“Spuma antiscasso” o qualcosa del genere, non ho preso appunti, non ho trattenuto la nota di colore che poteva essere decisiva). È stato tutto il tempo fermo di fronte a me, il motore acceso, i due passeggeri dietro i vetri blindati e chiusi, che sonnecchiavano. Un refolo di aria condizionata a congelargli il naso, l’ordine di non aprire per niente al mondo lo sportello o anche soltanto il finestrino. Prigionieri criogenizzati. Ho pensato: fossimo in un libro pulp o in un film poliziesco – l’atmosfera pare essere quella: stasi catatonica che prevede l’esito di un lungo percorso di male e di morte proprio qui, nel redde rationem del Far West urbano; minaccia incombente che spesso alita su ciascun nostro giorno, su ciascun nostro spostamento – se fossimo insomma in una pellicola di exploitation arriverebbero dei rapinatori, ucciderebbero i passeggeri, farebbero esplodere la lamiera blindata del carro e ruberebbero tutto quanto racchiuso nel ventre di piombo del bestione. Corpi crivellati, buchi di fucile enormi, corpi sventrati, lo stupore del sangue carnoso, delle buie budella riversate sui sedili, schizzate sui vetri anch’essi infranti dalle esplosioni e dai proiettili rinforzati o qualcosa del genere. L’oscena crudeltà di una messinscena che di fatto ripete su scenario urbano scene di guerra che abbiamo visto/non visto sui Tg della sera. Di fatto in quei servizi giornalistici non abbiamo visto il sangue, le frattaglie, le trippe umane sversate. Abbiamo annusato la minaccia, la precarietà, la sabbia, il report delle vittime, il conteggio delle risorse umane; eravamo nel pre e nel post, ma non nell’atto: impossibile da svelare per limiti tecnici o forse solo moralistici. Ma un regista pulp ha abbastanza forza e la cattiveria da trasportare effetti-di-guerra in landscape metropolitani. Insomma, alla fine della mattanza i rapinatori se ne sarebbero andati. Naturalmente io sarei figurato fra le vittime collaterali. La mia sola sfortuna sarebbe stata trovarmi nel posto sbagliato al momento sbagliato. Anch’io sbudellato dai proiettili. Anch’io irriconoscibile come dopo un incidente automobilistico, come dopo un banchetto di zombi.

(#Ufficio, 2019) Ore 17.28. Due minuti non bastano a raccontare la noia, il feroce disprezzo per ogni manufatto dell’umano, la letargica e depressa voglia semplicemente di uscire, il basso voltaggio dell’esistenza, l’incredulità che un’altra giornata sia trascorsa così.

(#In coda, 2019) Sulla E78 appena dopo Siena, verso Grosseto. Ai lati campi di grano, un casolare diroccato con ferraglie e cocci in vendita e un grande cartello appeso alla facciata che dice: “Vendita permanente antichità”. Qui vicino c’è un posto che si chiama Orgia. Scorriamo a passo lento su due file, disposti nelle nostre auto. Nella mia: canzoni di bambini scozzesi, nursery rhimes scaricate da internet con un gruppo che rielabora antichi canti scozzesi. Molto bello, ad A. piace un sacco. Forse è un modo per imparare l’inglese, già adesso balbetta qualche suono a memoria. Impossibile acchiappare la teoria delle auto che mi sfilano accanto e che io sorpasso e poi loro mi sorpassano, il tutto a una velocità follemente ridotta. Ci sono le automobili coi finestrini sigillati per l’aria condizionata; la ragazza che sporge i suoi piedi – unghie smaltate di rosso, sandali marroni legati fino alla caviglia, le gambe lisce di fresco dall’estetista, abbronzatura leggera, cittadina, in direzione mare per perfezionarla; le auto pulite, quelle, come la mia del resto, pigmentate dalla pioggia di sabbia che ormai è l’enzima dell’estate (dimenticarsi le estati degli ultimi miei 36 anni, ormai solo estati post-clima, quelle di cielo avvolto dalla lastra per radiografie, oppure di cielo color polvere di caffè, che poi piove per tre minuti e sulle auto, per strada, sui vestiti, sulle tele degli ombrelli, sui cornicioni, sui fiori, sui ferri delle altalene nei parchi comunali si deposita una macula di sabbia desertica: è il soffio del millennio, la profezia pasoliniana ch’è tanto liberazione quanto incubo e così ogni liberazione dev’essere, distruttiva); un telefonino acchiappato dalla morsetta di gomma a sua volta appesa al bocchettone dell’aria: una mappa GPS disegnata sul display. Il cielo è grigio uniforme, appena ondulato, morbido, è la prima giornata da un mese a questa parte in cui il tempo sembra brutto. Sono dominato da un’angoscia senza nome: è l’angoscia dell’estate, è l’ansia di una stagione sfibrante, di pura sopravvivenza, tanto più difficile per me perché si suppone ci si debba divertire, liberare, vivere esperienze rilassanti e rigeneranti dopo un anno intero di lavoro: invece mi sfianca l’estate. Ora l’estate è per me il piazzale del lavoro, di cemento, battuto dal sole; l’odore di zucchero e petrolio dei tigli nella villa che ci ospita; il ventilatore in ufficio, le finestre sbarrate, chiuse, alle 9.30 del mattino, l’ondata di calore per raggiungere casa. E ancora: gli inciampi, la pelle appiccicata di sudore, l’afa che mi restringe i bronchi e non respiro; ogni impegno è un limite insopportabile, ogni azione è definitiva e devastante.

(#In cucina, 2019) Aspetto che il caffè sia pronto. Per viaggiare per strada, sui viadotti, nelle gallerie, quando si apre la vertigine orizzontale della strada, in discesa magari, quando appare l’inevitabile, l’Incontrollato, il potenzialmente distruttivo, bisogna avere fiducia: fede che il ponte non crollerà, che le tue mani continueranno a tenere stretto il volante, che un colpo di sonno, un malore, un attacco di panico, una respirazione selvaggia, una aritmia burlesca, non ti faranno perdere i sensi e volare, in un bolo di lamiera e controsole, nel vuoto. Per prendere l’aereo devi aver fiducia che il pilota non sarà come quell’Andreas Lubitz che, quietamente, si è blindato nella cabina e ha diretto l’aereo – colmo di gente, ça va sans dire – contro le montagne. Un lavoro svolto pazientemente, lucidamente: una lenta degradazione verso la morte esplosiva. Bisogna avere fiducia nel mondo. A me, invece, viene da pensare d’avere sempre la casa infestata di formiche.

(#Ufficio, 2019). In attesa che G. mi dia relazione per una email. Tutte le nostre piccole morti.

(#Pausa pranzo, 2019) Importanti novità all’ombra dell’ex-bar Luisa. Dentro il bar tutto smembrato: portato via il bancone, la spina, i tavoli, le sedie, abbattuto parte del muro. Calcinacci in giro, cavi scoperti, forassiti. E un cartello affisso: Proprietà privata.

(#Ufficio) I minuti che passano tra l’accensione del computer – la macchina che ansima e ritorna alla vita, si sgela dal suo sonno notturno ibernato – e l’apertura del programma di posta elettronica. L’ansia per quello che arriverà, le richieste da sbrigare, le email con l’etichetta urgente, il carattere urgente del servizio che va esplicato il prima possibile. Per me – e presumo per tutti quelli come me – che non abbiamo una mansione precisa, che viviamo di piccole quantità di tempo che si sommano l’una all’altra, senza particolare valore, dove magari troviamo il tempo per fare piccole cose nostre, bazzicare siti internet che ci piacciono, interessarci alle cose che c’interessano, come se il tempo di lavoro, libero dalle tenaglie dei ritmi serrati, fosse un tempo di semi-libertà vigilata, nel quale troviamo il modo di proseguire i nostri commerci illegali. E allora, per quanto odiamo la nostra giornata di lavoro, ne siamo avvinti: siamo legati alle piccole povere occasioni di clandestinità (l’illusione di portare avanti un discorso-altro, di fare il nostro eroico lavoro sottobanco, di nascosto, al nero, approdare alla mitologia dello scrittore che lavora di giorno ma scrive di notte o scrive nelle pause: è una mitografia). Quando si sta per aprire la posta e l’emergenza – ci chiederanno documenti importanti, servizi di complicata burocrazia, roba da sfasciarsi gli occhi su Excel, sarà tutto dominato dal foglio verde di Excel – è potenza vitale, è viva, è un non-ancora ma tuttavia un è-presente, anche ora, foss’anche solo in forma di angoscia, vorrei fuggire. Smetterla con tutto. È tempo morto nell’angoscia.

(#In ufficio, 2019) Aspetto il temporale. L’hanno dato per certo, ovunque: sul sito dell’Aeronautica militare lo danno al 50%. È poco, mi rendo conto. Spero che arrivi presto, però, che spacchi la calura alogena, che incendi il cielo saturo di polvere esplosiva come una miccia, nella distrazione degli altri, mentre scatena un nubifragio che stronchi i balconi e rovesci le radici. È da questa radice che nasce la Reazione: immobilità, decelerazione emotiva, urla delle carni. Come fare a non vedere che siamo chiamati a diventare Insubordinati di noi stessi? Presto chiederemo un sorso d’acqua ai paesi scandinavi. Sono ossessionato dalla Fine. Sono già nella Fine, mi comporto come se dovessi affrontare – pur sapendo di non farcela – un Post. E così immagino, ma per rassicurarmi, che la Fine del Mondo arriverà per depressione. Una parola per oggi: psicosocialismo. C’è questa specie di pioggia di afidi sulle nostre carni.

(#Ufficio, 2019) Non ti riposi mai, non acceleri mai: è un tempo uniforme, terribilmente uniforme; un tempo glaciale, di premorte, intessuto d’ideologia e superstizione.

poveri curdi

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di Antonio Sparzani

Me lo immagino Erdogan, quando qualche suo manutengolo gli racconterà che ieri a Milano, davanti al consolato turco, c’erano tante persone volonterose che gridavano a favore dei curdi, con tante bandiere, con dozzine di sigle diverse, la maggior parte insignificanti (dei 5 stelle neanche l’ombra), me lo immagino dire al suddetto manutengolo di non seccarlo con queste inezie senza senso, magari ridacchiando un poco e pensando a come meglio far fuori il più Curdi possibile, con tutte le armi e il denaro che l’Europa allegramente gli fornisce. Sono andato, perché comunque mi pareva giusto, ieri nel tardo pomeriggio a questa manifestazione in via Canova,, dove tutti, moderatamente, per carità, esprimevano la loro volontà di pace e di sospendere immediatamente il conflitto al confine siriano. Alcuni cantavano Bella ciao, che va sempre bene e fa bello, altri battevano le mani alle parole dell’altoparlante: così esordiva il sindacato  “esprimiamo la nostra più viva preoccupazione . . .”. Ma per favore!

C’era una bella bandierona del PD che veniva fatta continuamente sventolare. Ah sì? Ma il PD non è forse al governo di questo paese, governo che, a differenza di altri, non ha ancora deciso la sospensione della vendita di armi alla Turchia.

Ma cosa aspetta il su non lodato nostro “giallo rosso” governo a prendere invece quei provvedimenti che soli possono forse avere qualche effetto sulla situazione. Convocare ufficialmente l’ambasciatore turco, richiamare in Italia “per consultazioni” il nostro ambasciatore ad Ankara, consigliare ai cittadini italiani ora in Turchia di tornarsene a casa, bloccare le importazioni commerciali dalla Turchia, chiedere fortemente alla UE di fare altrettanto, eccetera.

Il vero è che quando si toccano i soldi tutto il resto perde importanza, guardate il caso Regeni: bloccare le importazioni dall’Egitto? Manco a parlarne, scherziamo?

Note movie: C’era una volta…a Hollywood

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di

Franco Bergoglio

 

Prima che Vincent Vega mi spappoli il cervello e arrivi Mr. Wolf a infilarmi in un sacco nero per lesa maestà tarantiniana premetto che C’era una volta…a Hollywood è un buon film. Quale città nell’immaginario universale rappresenta meglio di Los Angeles il crimine, dalla carta di Raymond Chandler alla celluloide di chiunque, alla realtà della rivolta conseguente al pestaggio di Rodney King. Chi, meglio di James Ellroy, ha descritto meglio le sue piaghe purulente, una ad una, decennio dopo decennio? E chi meglio di Tarantino poteva cogliere nel fiore della maturità insieme il mito del cinema hollywoodiano, la fine degli anni Sessanta, la strage di Manson?

Le attese sulla poltrona del cinema girano a mille. E il film soddisfa. Le architetture, i drive in, i costumi, le macchine, tutto è ricostruito maniacalmente. Giriamo in Dolby Surround nei party organizzati dalle star, saliamo e scendiamo le curve delle colline di Hollywood. Steve McQueen sembra un manichino parlante di Madame Tussauds. E’ un vortice di immaginari che ruotano furibondi, un carnevale del postmoderno senza eguali cinematografici che non risparmia nulla: dalla marca del televisione a quello che si vede nel televisore, alle etichette di cibo per cani tarantino-warholiane, alle locandine dei film che pulsano sotto le luci dei cinema. I riferimenti sprizzano a centinaia.

La colonna sonora? Anche lì Tarantino replica il vortice. La musica si accende e si spegne insieme alle autoradio della Cadillac Coupe de Ville modello ’66 di DiCaprio, portando con sé qualche chicca e parecchia spazzatura retrò; come sempre capita quando si gira la manopola del sintonizzatore nell’etere FM. Le musiche da film arrivano dalla ricerca di pietre preziose fatta con l’aiuto di consulenti in grado di aprire i tesori del B-movie italiano per quel golosone di Tarantino. La scena Tate-Polanski con Hush a tutto volume è una macchina del tempo perfetta: la storia ci spiega che i Deep Purple la suonarono alla Playboy Mansion nell’ottobre del ’68. Di California Dreamin’ viene scelta la versione di José Feliciano, che aggiunge un tocco di tristeza latina all’eterna estate californiana. I Vanilla Fudge punteggiano il trip in acido di Cliff Booth/Brad Pitt. Sharon Tate ascolta Paul Revere & the Raiders conscia che non sono i Doors (evocati, ma non sentiti).

Dalla archeologia del pop sixty di Son Of a Lovin’ Man dei Buchanan Brothers alle rimasticature r&b di Mitch Ryder & The Detroit Wheels con Jenny Take A Ride. Siamo su un ottovolante sparato a tutta velocità nella musica anni Sessanta. La giostra è condotta dai parrucconi delle case discografiche impegnati ad estrarre i soldi dalle tasche della gioventù americana ancora lontana dalla ribellione, grazie a una musica-merce, senza velleità artistiche o sociali. Il gioco sui registri alto/basso della cultura ci fa salire altissimi con un Neil Diamond, che per rubare la battuta a uno dei personaggi del film, Sam Wanamaker/Nicholas Hammond: «cattura la zeitgeist dei tempi», e poi si scende in basso con una Hey Little Girl di Dee Clark che avrebbe giustificato una carneficina da parte del buon Bo Diddley. Come spiegare il guazzabuglio musicale messo in piedi dal Quentinone? Rileggiamo in chiave 45 giri il mito di Superman di Umberto Eco? Lo consideriamo solamente del pulp musicale? Non serve: stappiamoci una Old Chattanooga Beer sul divano con Cliff/Pitt, usando un citazionismo appropriato a Tarantino: «Da quel gran paraculo che è», come ha scritto Luca Giannelli su Intellettuale dissidente. La musica comunque gira. Dov’è che toppa il film, allora? Nel non avere utilizzato la stessa precisione per dipingere il quadro sociale.

Le hippies del periodo non erano mica tutte seguaci di Manson et similia. Non costituivano dei wild bunch di bonazze con inquadrature rubate a Charlie’s Angels (come mi spiegano i cinefili). E il femminismo? Il nuovo protagonismo positivo della donna? Nada. Altro punto. Per tutto il film i vari personaggi continuano a dire: «hippy del cazzo». Non è che tutto il mondo alternativo fosse pieno di fucking hippies che seguivano Manson o altri criminali. Timothy Leary che era il personaggio della controcultura più “santone hippie” di tutti, era colto, positivo, rivolto al futuro. Per Nixon era l’uomo più pericolo d’America. Lui, mica Manson o qualche satanista come lui. Quelli al massimo incrementano la vendita di armi e un uso distorto delle droghe. Le comuni non erano bande, ma luoghi di condivisione, di vita comunitaria e di uscita dalle logiche di mercato. Il verbo era il pacifismo, non la violenza. Si guardava alle religioni orientali, all’armonia con la natura, a un modo diverso di vivere. Il danno maggiore che hanno fatto è di averci lasciato soli con la New Age, mica stragi e sangue. La controcultura di Berkeley, di Allen Ginsberg, della New Left era diversa. Le sette sataniche brulicavano soprattutto a Hollywood, nel giro degli attori e nel sottobosco dell’industria cinematografica e musicale. Un mondo duro fatto di sesso, soldi rapidi, droghe, potere, mito del successo. Non nego che la storia di Charles Manson sia indissolubilmente legata al rock per innumerevoli vie, più di quelle mostrate nel film (il produttore Terry Melcher e il batterista dei Beach Boys Dennis Wilson, i due personaggi che introdurranno quella manica di sbandati nella casa di Cielo Drive).

I legami filosofici con la musica sono stati ben spiegati dal procuratore del processo a Manson, Vincent Bugliosi che ha ricostruito con meticolosità in un libro la genesi di quei massacri. L’uso distorto e manipolatorio delle canzoni dei Beatles che proponeva Manson ovviamente non aveva nulla a che vedere con i quattro di Liverpool. Sul lavoro di Bugliosi hanno basato film e serie Tv, quindi non vale la pena soffermarsi e non interessa neanche a Tarantino. Il film sceglie di raccontare una storia diversa e per motivi di spoiler non possiamo procedere oltre, ma essendo una fiaba con il “c’era una volta…” è ovviamente tutto legittimo. Il film sceglie un punto di vista e ci si rinchiude. Ricostruisce quel sottobosco hollywoodiano dei Sixties, quello straccione delle produzioni televisive di western o serie d’avventura low budget, girate nel backlot degli studios, con attori che avevano sfiorato il sogno di fare il grande salto e che non c’erano riusciti, ma come falene giravano ancora vorticosamente attorno alla luce. Ci sta che quel lumpenproletariat di attori, registi, stuntman e caratteristi di serie B fascisteggi un po’ e non si mostri così progressista come le stelle di Hollywood ci hanno abituato a pensare di essere. L’estate di Manson è anche quella di Woodstock; i due fatti sono contemporanei, ma a Hollywood la mentalità individualista e destrorsa del sottobosco vede all’orizzonte solo hippies del cazzo, altro che protagonismo giovanile. Il sogno del cinema copre completamente il sogno hippie. A Tarantino interessa fare cinema che parla del mito del cinema e anche quando fa stigmatizzare da un personaggio la violenza gratuita che domina tutta la produzione hollywoodiana poi immediatamente ci mostra un saggio di quella violenza. Ricorda un po’ quei preti che dal pulpito inorridiscono per il sesso, ma poi nel buio della sacrestia…

Sarebbe bello che il Tarantino che ha ricostruito interi quartieri della LA fine anni Sessanta, che ha ricreato il traffico originale con un profluvio di macchine d’epoca, che ha consulenti straordinari per costumi e musiche, coreografi per imitare la danza marziale di Bruce Lee e quant’altro gli è servito per il film mettesse a libro paga un esperto di storia degli Anni Sessanta. Il suo amato Sergio Leone aveva assunto un giallista, giornalista e saggista come Stuart Kaminsky per aiutarlo a ricostruire meticolosamente le ambientazioni storiche dei suoi film. E Stuart lo aiutava anche nelle sceneggiature e nei dialoghi. Il potere del cinema nel plasmare gli immaginari è immenso e Tarantino lo sa e lo usa. Certamente il cinema non è un libro di storia, ma rubare qualcosa da incuneare qua e là non sarebbe stato male. L’America ha scrittori e intellettuali che possono dargli una mano a uscire dal suo buco e complicare un po’ la sua America. Io butto là l’idea e se vuole approfondire basta un fischio e un biglietto aereo. Perché non si resiste al mito californiano, neanche a uno parziale.

 

 

Intorno a la bambina. Intervista a Franca Rovigatti.

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di Florinda Fusco

Vorrei iniziare questa conversazione su la bambina (il verri, 2018, collana diretta da Milli Graffi), ritratto autobiografico di un’infanzia vissuta tra due famiglie, quella d’origine e quella adottiva, negli anni Cinquanta, soffermandomi su quella che a me sembra una questione centrale: lo sviluppo dell’identità femminile. Sia la protagonista che gli altri personaggi in primo piano sono donne. In questo senso si può parlare di un’identità femminile fluida e multiforme che dalla protagonista fluisce verso gli altri personaggi?

Oppure il contrario, identità femminili intorno alla bambina che confluiscono in lei… Nel mondo descritto in questo libro di fatto compaiono donne molto potenti, mentre i maschi stanno in secondo piano, presi da altri affari. La bambina non ha per nulla chiaro quale sia il suo genere: certo, è una bimba, ma… Bisogna pensare che alla fine degli anni Quaranta, quando la bambina nasce, quasi tutti i genitori sperano che il nuovo nato sia maschio: probabilmente, già prima di nascere, la bambina viene pensata e desiderata come maschio. E dunque lei che, come tutti i bambini, vuole essere amata e accettata, si sente anche maschio: questo glielo conferma la madre quando, con grande soddisfazione della bambina, la chiama Capitano; e di fatto, finché può, lei è il leader della banda dei fratellini, li espone a rischi e li trascina in avventure. Più avanti, dagli zii intorno ai dieci anni, la bambina addirittura pensa di poter essere un eunuco – dunque un maschio evirato. Il femminile (rosa, fiocchi, bambole) è perfettamente rappresentato, nella mente della bambina, dalla sorellina Paola, la “femminuccia”. Paradossale, perché la bambina, che è femmina, si trova a disprezzare, attraverso lo specchio della sorella, il proprio stesso genere. Tutto intorno, dicevo, gravita un vasto universo femminile: la madre, la zia, le domestiche, la nonna, le altre zie. Sono tutte donne in qualche modo potenti. Anche la mamma: è vero, è fragile, bipolare, ma è anche, lei e la sua malattia, il vero nucleo attorno a cui ruota l’intera famiglia, tra assenze e umorali ritorni. Lei è potente in questo modo infelice e infelicitante, disturbato e disturbante. La zia invece è potente in modo armonioso: una potenza mai esibita, ma vera, che poggia su un grosso senso di realtà. Si può dire che la madre con i suoi eccessi rappresenta una sorta di dionisiaco “domestico”, mentre la zia mostra il quieto splendore dell’apollineo. La zia è la Regina, così la chiamava lo zio (che invece non era re).

 

Vorrei che ora ci concentrassimo sul rapporto io bambina-io madre tra simbiosi e distanza.

In realtà, questo libro (me ne sono resa conto solo dopo averlo scritto) è centrato sull’assenza della madre. Che, anche in assenza, è tuttavia sempre presente come nostalgia di una simbiosi paradisiaca precocemente interrotta. Paradiso perduto. Nel profondo, la bambina è profondamente ancorata all’universo illusorio della madre. A livello consapevole la bambina disprezza la madre.

 

Nel libro racconti di quanto alla bambina piacesse guardare le riproduzioni dei quadri di Renoir, i suoi nudi, mentre lei stessa aspettava le trasformazioni adolescenziali del suo corpo. Mi interessa, in particolare, la crescita congiunta io-corpo femminile nel libro. Puoi parlarmene?

Lì, quando guarda Renoir, la bambina è molto piccola, e probabilmente quei morbidi nudi le evocano nostalgie materne. Nel caso della bambina (poi bambona) la crescita congiunta io-corpo femminile si è verificata in modo sotterraneo, complesso e in sostanza conflittuale. Nel momento in cui la bambina si avviava all’adolescenza, quando doveva spuntare con tutta la sua grazia la sembianza femminile, ha ricoperto il proprio corpo di una coltre di grasso, imbottendolo per parare i colpi, tenendolo nascosto agli altri (mai preda!) e persino a se stessa. Mi spiace, su questo tipo di integrazione non ho alcuna esperienza. Una plausibile immagine femminile (non si può ancora parlare di identità) l’ho assunta molto dopo, artificialmente. Intorno ai vent’anni, una domestica a casa della zia mi ha dato degli anoressizzanti: non avevo più fame, mangiavo poco e presto diventai  molto carina. L’artificio dell’anfetamina ha probabilmente fatto sì che io considerassi l’immagine del mio corpo come qualcosa di totalmente esteriore, artificiale appunto.

 

Amelia Rosselli pensava che si potesse parlare di scrittura femminile che ha come origine non solo un dato culturale, ma anche biologico. Tu cosa pensi a tal riguardo?

Più o meno negli stessi anni in cui Rosselli pensava ad uno specifico femminile della scrittura, insieme ad un gruppo di compagne femministe, alla Maddalena, avevamo messo su un gruppo di scrittura proprio alla ricerca dello specifico femminile (una sorta di nostro graal). Era il ’77, e io mi ritrovai a inventare una (probabilmente un po’ ridicola) azione teatrale intitolata A mezza maschera, in cui le quattro donne in scena non riuscivano a parlare ed erano solo in grado di emettere grida e suoni inarticolati. Alla fine, alle domande del pubblico, le quattro donne rispondevano, non necessariamente a tono, recitando poesie. In quegli stessi anni avevo scritto un piccolo racconto che si intitolava Storia della ragazza muta che poi parla, il cui “lieto fine” vedeva la ragazza parlare con incomprensibili nonsense. Per dire che a me era ben chiara (in qualche modo forse era ancora vigente) quella sorta di proibizione alla parola (e dunque al pensiero) che per secoli e millenni aveva investito il genere femminile. Devo confessare che allora il nostro graal non riuscimmo a trovarlo. Cosa penso ora, a distanza di oltre quarant’anni? Dico subito che non ho alcuna evidenza di una scrittura femminile fondata su dati biologici.  Sono agnostica: può essere, e può anche essere di no. Tendo a pensare alla scrittura come a un meraviglioso strumento neutro, estremamente duttile, capace di essere sia femmina che maschio. Ovviamente, è impensabile che i ruoli dati dalla nostra cultura al maschile e al femminile non condizionino la scrittura. Nei testi delle donne è certamente più presente il corpo, il tempo, la cura, il quotidiano: perché questa appunto è la secolare esperienza delle donne. Il fatto nuovo è che, dagli anni Settanta del secolo scorso, i ruoli sono stati anche messi in discussione, e questo ha prodotto un’importante presa di parola da parte delle donne. Tante scrittrici, quante al mondo non vi erano mai state…

 

In questo testo non c’è finzione dal punto di vista letterario, in tal senso non è un romanzo o in termini di teoria della letteratura non rientra nel genere epico nel senso di Jonathan Culler. Si può parlare di un diario traslato nel tempo, scritto a sessant’anni di distanza? E dove la distanza è anche fissata dall’uso della terza persona?

Certamente l’uso della terza persona mi ha aiutato a tenere la giusta distanza da una materia che tornava alla luce dopo moltissimi anni. Una materia oscura e vergognosa. Nel senso che tendenzialmente non ci ripensavo mai, l’infanzia era una sorta di nebulosa dai contorni sfumati:  pensavo di non ricordare nulla. Ho cominciato a scrivere queste pagine per me, in un tentativo di mettere insieme, di ricordare. Scrivendo, è successo che un sacco di “pezzi” si sono affacciati alla coscienza: fatti, pensieri, sensazioni. Un puzzle con molti buchi, ma anche ben fornito di pezzi. Quanto ai diari, io non ne ho mai scritto uno, ne ho cominciati diversi, ma sono rimasti quale a tre giorni, quale a dieci, massimo quindici. Erano dei pessimi diari, pieni di elucubrazioni, intenerimenti su di me, autocompiacimenti, vittimismo, illusioni. In questo libro sono stata molto attenta (è stata forse la mia preoccupazione principale) a non indulgere in nessun modo a simpatia, a non tifare per me (come dico chiaramente nella poesia in esergo). L’altra grande attenzione è stata quella di essere il più fedele possibile alla voce reale della bambina e ai suoi veri pensieri. Mi sono potuta permettere un’operazione così spudorata solo dopo i miei sessantacinque anni, e dopo un incontro molto terapeutico con il cancro, che è stato un ineguagliabile incontro di realtà.

 

In che modo la bambina è stata influenzata dalle prose sperimentali apparse in Europa e negli Stati Uniti dalla seconda metà del Novecento ad oggi?

Ho sempre amato le avanguardie e le sperimentazioni nell’arte, nella poesia e nel romanzo, grande ammirazione per gli oulipiani. Le cose che ho scritto prima de la bambina sono tutte sbiecamente sperimentali e confinano col nonsense. Autore adorato Lewis Carroll, ma anche Edward Lear, Lawrence Sterne, Gertrude Stein, E. E. Cummings… la bambina potrebbe essere il meno sperimentale dei miei libri, dato che tutto sommato è una biografia. In realtà, anche questo testo può forse essere considerato sperimentale per l’uso di scritture diversificate: al presente in corpo grande, le cose che succedono alla bambina; al passato tra parentesi in corpo minore, le considerazioni ex post; tra parentesi in corsivo, le poesie; annegati nel testo a illustrare le cose che succedono, i disegni tratti dalle fotografie.

 

Nel testo vi è una sovrapposizione di parole e disegni: mi puoi parlare del rapporto arte-scrittura sia nel libro che nella tua vita?

Lo scrivo nel libro: la bambina, in un tema di prima media in cui viene chiesto cosa si vuole fare da grandi, scrive che lei lo sa cosa vuole fare: vuole scrivere e disegnare, perché solo quando scrive e quando disegna le sembra di “pensare le cose fino in fondo”, di essere davvero “installata” in se stessa. Credo che questa sia stata la mia fondamentale presa d’identità: essere una che scrive, che disegna, che dipinge, che fa cose con le mani. Intorno ai sette anni (questo non l’ho scritto nel libro) mi ero inventata un giornalino, in realtà un quaderno con mie leziose poesiole, con disegni, con l’angolo dei lettori e della moda, con la pagina dei viaggi. Era un giornalino totalmente illustrato. Tutti i libri da me pubblicati sono illustrati da piccoli disegni in bianco e nero. Nel caso de la bambina, le illustrazioni provengono quasi tutte dalle vecchie fotografie di famiglia e i disegni sono come un’altra scrittura a testimoniare ulteriormente della veridicità del racconto.

 

Conoscendo parte della tua arte visiva, ho constatato come alcuni dei tuoi oggetti d’arte sono indumenti femminili. Poi ricordo con grande interesse il tuo video che ha al centro una tua testa nuda multiforme. Mi parli del rapporto arte visiva-corpo femminile?

Molti degli oggetti d’arte che tu hai visto riflettono effettivamente sul vestito e sul vestire. Nella mia prima mostra personale (Milano 2000), il centro era costituito da undici giacche-quadro, o giacche-scultura, e non a caso la mostra si intitolava Sotto mentite spoglie. L’abito riveste il corpo, lo nasconde e modifica. Lo maschera, è finzione. L’ultima mostra, A testa nuda (Roma 2015), espone la mia testa completamente rasata dipinta in varie fogge, ripresa in foto e in video. Tra  mentite spoglie e  testa nuda, io percepisco un percorso che è sempre più orientato a svelare il vero. Di questo percorso fa parte anche la bambina.

 

Appare nel testo un episodio in cui tu immagini che i vicini di casa filmino scene reali della tua adolescenza, un documento che ti sarebbe servito per ristabilire giustizia. Come si sviluppa questa istanza nel testo?

La bambina subisce una serie di allontanamenti dalla casa dei suoi genitori senza che le venga mai detto esplicitamente perché. Sente di essere trattata ingiustamente e fa mille ipotesi sulle possibili ragioni di tale ingiustizia. Questo nucleo mai compreso è come una sorta di mistero che sottende e struttura tutta la storia. E insieme quasi in ogni pagina è presente una muta richiesta di giustizia. Aver scritto questo libro che ristabilisce la veridicità dei fatti mi ha permesso di rimettere le cose al loro posto secondo giustizia. E mi ha tolto ogni residuo di vergogna.

 

 

 

 

Del significato per il futuro delle risoluzioni parlamentari sul passato

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di Giorgio Mascitelli

La risoluzione votata dal parlamento europeo il 19 settembre scorso ‘sull’importanza della memoria storica per il futuro d’Europa’ ha prodotto numerose discussioni e un dibattito, anche se, come hanno notato alcuni osservatori evidentemente preoccupati del provincialismo del paese, quasi solo in Italia. Bisognerebbe ricordare ai cosmopoliti che è naturale che sia così, visto che l’Italia è stato l’unico paese alleato della Germania nazista nella seconda guerra mondiale ad avere avuto un significativo movimento di resistenza ed è l’unico paese, con la Spagna, ad avere una destra che si relaziona in maniera ambigua all’esperienza fascista: va anche aggiunto che caratteristico dell’Italia, acconto a un antifascismo politicamente fondato, una certa retorica mediatica dell’antifascismo, che rischia spesso di essere perniciosa per la sua stessa causa. Resta comunque il fatto che la mozione del parlamento europeo crea un potenziale conflitto tra un’identità democratica italiana fedele ai valori della Costituzione e l’identità europeista espressa da questo tipo di memoria.

Sul piano storico, purtroppo, il principio di non contraddizione non vale e il fatto che sotto Stalin l’Unione Sovietica  sia stata un paese totalitario con i suoi abitanti e imperialista con i suoi vicini è tanto vero quanto il fatto che senza l’Unione Sovietica Hitler avrebbe vinto la guerra. La storia ha una dimensione tragica e non logica della verità e dunque un’istituzione rappresentativa avrebbe dovuto adottare una saggia prudenza nell’esprimere deliberazioni che si basano su situazioni storiche complesse e contraddittorie, ma pretendere una consapevolezza del genere dal personale politico che siede al Parlamento Europeo sarebbe chiedere troppo al generoso sentimento di fiducia nel genere umano che ogni sincero cittadino europeo dovrebbe provare quando pensa ai suoi rappresentanti. Questa risoluzione, peraltro, rivela una natura composita e talvolta contraddittoria, segno di un lungo lavoro di limatura e mediazione, basti pensare che il comma 7 esprime la condanna per ogni forma di revisionismo storico e che l’impianto di questo documento sarebbe impensabile senza l’opera di Ernst Nolte e del revisionismo tedesco degli anni ottanta, oppure all’oscillazione nella terminologia tra comunismo e stalinismo; insomma la risoluzione che dovrebbe favorire una memoria condivisa europea rivela nella sua stessa struttura le profonde divergenze di memoria tra vari paesi e all’interno degli stessi.

Peraltro l’impostazione di fondo della mozione, che mi sembra provenire da un connubio tra conservatori tedeschi e polacchi e forse ungheresi, è interessante perché sembra essere rivelatrice dei fondamenti ideologici di quella che si potrebbe definire la costituzione materiale europea come si è formata, a dispetto dei fallimenti dei tentativi ufficiali, in questi anni. La nuova Europa ha dunque la sua radice fondante nel 1989, che illumina retrospettivamente anche il 1945, non è più socialdemocratica, ma liberista nella concezione dei rapporti sociali e trova un suo fondamento morale nella condanna del debito pubblico come forma di degenerazione della vita individuale e collettiva, pur mantenendo come elemento di continuità con la vecchia l’atlantismo in politica estera.

Non è un caso allora che il vero atto costituente di questa nuova Europa sia stato il trattamento del dossier sul debito greco, con il quale si è rivelato chi è il sovrano che fa la legge e sta fuori di essa, le norme, le punizioni per le infrazioni delle medesime, i veri valori fondanti aldilà delle elencazioni ufficiali, i rapporti di forza e quelli fiduciari per il riposizionamento nella gerarchia dei singoli paesi. E’ chiaro allora che la risoluzione rifletta innanzi tutto il punto di vista della Germania e dei paesi dell’Est europeo, ma non va dimenticato che essa si inserisce in un panorama generale in cui già sei anni fa un documento della banca d’affari statunitense JP Morgan definiva un rischio per la tenuta della UE le costituzioni dell’Europa del Sud nate dall’antifascismo. Allora in questo quadro che coniuga forme di revanscismo dissimulato, difesa delle istituzioni finanziarie private responsabili della crisi e nuovi assetti della governance europea diventa possibile una convergenza tra partito popolare e sovranismi di destra, specie dopo l’annunciato ritiro di Angela Merkel. Vi è anzi il rischio che la fine del cancellierato della Merkel segni il tramonto del katechon, il potere che trattiene dalla dissoluzione, per usare un’espressione biblica in voga nel dibattito politico-filosofico italiano ( senza per questo dimenticare che il cancellierato Merkel ha programmaticamente sottovalutato i rischi di questa convergenza).

In questa senso la vicenda ucraina prefigura già questa convergenza con la sua prevedibile propensione alle avventure: il fatto che Germania e Francia si trovino ora nella necessità di trattare con la Russia per evitare che l’Ucraina diventi una sorta di Bosnia all’ennesima potenza ossia un paese paralizzato in una sorta di tregua perenne con una scia di odi etnici mai sopiti che impedisce qualsiasi tipo di ripresa economica e stabilità politica è la prova eloquente degli esiti di questa propensione. Eppure ciò che è accaduto non produce una riflessione autocritica. Puntualmente infatti troviamo ai commi 15 e 16 della risoluzione l’indicazione della Russia putiniana come continuatrice dell’Unione Sovietica e come paese criptocomunista, quando i riferimenti storici ideali di Putin della sua politica di potenza vanno piuttosto verso un generico nazionalismo e semmai verso lo zarismo ( basterà pensare che il grande kolossal patriottico dell’era putiniana è dedicato alla nascita della dinastia Romanov e non a Stalingrado, che le critiche al liberalismo occidentale rientrano in una tradizione slavofila e non certo comunista, oltre a echeggiare temi cari a tutti i populisti di destra, e che sotto Putin è stata introdotta nelle scuole russe la lettura di Solženicyn). L’indicazione della Russia di Putin quale erede del totalitarismo di Stalin è tuttavia funzionale alla creazione di un sottofondo anticomunista, che è l’unico terreno politico sul quale può avere luogo questa convergenza senza che ne appaiano tutte le ambiguità storiche e politiche.

 

 

Sulla poesia di Landolfi

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di Antonio Prete

La lingua della poesia è per Landolfi lo spazio musicale della confessione, dell’interrogazione di sé, dell’affabulazione interiore. Una sorta di palcoscenico dell’anima. Scandaglio nel segreto di un’intimità confrontata costantemente con l’azzardo del vivere, con la pena del vivere. Esplorazione di sé affidata al suono di una parola che conosce bene l’artificio e il gioco delle maschere, e tuttavia nel suo farsi verso e ritmo, cioè tempo e insieme visione, allestisce un teatro che è rito di difesa dal nulla incombente, dal nero orlo che circonda la parola stessa.

Su Miloš Crnjanski (“Romanzo di Londra”)

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[Presentiamo la prefazione del Romanzo di Londra dello scrittore serbo, uscito per Mimesis, nella collana diretta da Massimo Rizzante. Qui, su LPLC, un’anticipazione del primo capitolo.]

di Božidar Stanišić

 

UN GRANDE, BIZZARRO PALCOSCENICO

 

Non potevo neppure immaginarmi che, l’anno seguente,

 mi sarei ritrovato fra calzolai, in uno scantinato, a Londra.

Miloš Crnjanski, Dalla terra degli Iperborei

Il blues della Maddalena

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[Esce oggi il romanzo Il blues della Maddalena di Francesco Cozzolino e Marco Grasso (Golem Edizioni). Ne pubblico il primo capitolo. ot]

di Francesco Cozzolino
e Marco Grasso

Dovrei dormire un po’ e invece sempre la sensazione di essere inghiottito da una crepa nel muro. Guardo la sveglia: alle quattro la mia battaglia è finita e l’attesa mi accompagna fino all’alba.
Ancora pochi minuti e il Colonnello si presenterà alla mia porta per stuccare la parete. Forse è già sul pianerottolo.
Ho provato a dirgli che la domenica devo lavorare, che la notte devo lavorare, ma lui è una di quelle persone che non capisce le ragioni degli altri, e d’altronde non crede che scrivere sulle bustine di zucchero sia un vero lavoro.
Non posso biasimarlo, anche se la ragione che ci divide è un’altra: per lui lo sfregio nel muro rappresenta un affronto, una sfida che non può essere rimandata.
Ecco cosa ci separa, la crepa potrebbe avanzare, contagiare gli altri muri e trovare il perfetto punto di tensione, ma per me difficilmente diventerebbe una priorità. Io sono in bilico e il Colonnello vuole tirarmi dalla parte dei giusti, quelli che odiano il luogo in cui abitano.
Vivo in un condominio variegato, tre piani costruiti all’inizio del secolo scorso, tre appartamenti occupati e tre sfitti. Un viado come amministratrice, un ex militare in pensione e il Fiasco, un bar immortale che sonnecchia di fronte al nostro palazzo.
Il Colonnello abita nell’appartamento di sopra. È in pensione ed è mattiniero, un pessimo incrocio. Ma c’è di peggio, è un cultore dilettante di storia locale, declama lezioni all’unico vicino di casa con cui può ancora parlare, io.
Lo scampanellio del collare annuncia Eisenhower, il suo yorkshire che con rumore furtivo ogni mattina riversa un rivolo di piscio sul mio zerbino.
Poco dopo, alcuni colpi decisi sono l’inno del capo reggimento degli scocciatori.
«Ragazzo, sei sveglio?»
Il silenzio non funzionerà.
«Andiamo, lo so che sei sveglio. Il generale ha puntato la porta e ha abbaiato. Non sbaglia mai, è un ufficiale come me. Forza, apri: prima cominciamo e prima finiamo.»
Potrebbe andare avanti per ore, per questo mi tiro giù dal letto. «Brutta roba l’insonnia. Ma il mattino ha l’oro in bocca, dove tieni
la spatola?»
È nelle battaglie più importanti che ci si accorge che manca l’arma giusta.
Pantaloni di velluto verde, scarpe da ginnastica e camicia di flanella, il Colonnello passa le giornate affaccendato in cose inutili.
«Ho scritto al Comune questa mattina, – dice mentre impasta lo stucco – ho imbucato la lettera poco prima di venire qui. Stanno facendo crollare le edicole votive. Tu sai che nei vicoli di Genova ce ne sono ancora settantacinque? Un tempo la città ne era piena. È una tradizione cristiana del Medioevo e il picco fu a metà del ’600, quando dominavamo il mondo, prestavamo soldi al re di Francia e bruciavamo vivi i Turchi sulle loro zattere…»
Il Colonnello si gratta la tempia con la spatola e inquadra con aria sicura il mio muro.
«…ah, che tempi. Pensa che allora ce n’erano centinaia. Poi, con la grande speculazione degli anni Sessanta, hanno distrutto tutto. Una delle ditte di costruzione che aprì il centro storico come una scatoletta di tonno cominciò ad accatastarle in una cantina. È andato tutto in malora, e un giorno sono sparite. C’è chi dice che se le siano vendute gli operai. Abbiamo perso le edicole e abbiamo guadagnato i grattacieli.»
Il Colonnello suda e parla, consapevole di avere, da qualche parte, un interlocutore. Si occupa della mia parete con passione e riempie la crepa di stucco.
Nel frattempo lo squarcio si è allungato nella parte sana del muro, la mattina è finita e lui deve dare da mangiare a Eisenhower.
Guardo la crepa e mi sembra educato invitarlo a restare per un caffè. Glielo servo con piattino e bustina dove campeggia il precario frutto della mia fatica: “I sogni sono il lavoro in nero della mente”.
La frase lo incuriosisce, ma la liquida con poco: «Lo prendo nero. Non te la sarai mica presa con me, ragazzo? Sai, a una certa età la gente finisce per evitarti. E la solitudine è un nemico al quale non ti preparano nell’esercito».
Su un tappeto di stucco e calce, io e il Colonnello sediamo uno di fronte all’altro e sorseggiamo un pessimo caffè. Lui a schiena ritta su una sedia, io con aria sconfitta nella mia poltrona.
Non è da tutti usare la buona volontà per sopravvivere in tempi come questi. In fondo non è che una reazione alla solita domanda: cosa fai per tirare avanti? Ognuno risponde come può: «Lo stucco dovrebbe essere asciutto per stasera, mi raccomando non toccarlo. Ripasso domani per vedere com’è venuto».
Lo accompagno alla porta e quando lo sento chiudersi in casa stringo lo scalpello in mano, rimango un momento sul pianerottolo. Eduardo Federico: sulla targhetta il mio secondo nome è discreto come un segreto inconfessabile.
Una volta dentro, il gesto è automatico. Mi avvicino al muro e m’inginocchio davanti alla crepa. Lo stucco ancora fresco si sfalda con facilità, quello già indurito ha bisogno di qualche colpo più deciso, ma in pochi minuti la crepa è come nuova.
Guardo la parete, sembra che sorrida. Non si riesce ancora a vedere dall’altra parte, ma è solo questione di tempo. In fondo il Colonnello ha ragione, la solidarietà è sempre importante. È come condividere un muro, non sai mai chi sono i tuoi vicini di casa finché non li inviti a entrare.
Mi siedo sul pavimento e la osservo. Vedi alla parola crisi. Nel vocabolario cinese si usano due ideogrammi per definirne il significato: cambiamento e opportunità. Nel vocabolario di un giovane occidentale si vince o si perde, e quando non sai bene a che punto sia la partita, un’espressione racchiude il meglio delle filosofie del pianeta: essere nella merda.
A mattina inoltrata apro la dispensa e prendo il necessario per il lavoro: pennelli, rullo e latta di vernice da cinque chili. Fuori dalla finestra la primavera tinge la città di colori caldi. Le scale del palazzo sono grigie e irregolari come quelle che facevano un tempo, quando le cose non erano progettate per essere dritte, ma per durare.
«Carinho!» Wanda è un’esplosione di colori a qualsiasi ora del giorno. Mi regala un sorriso che ha imparato a Bahia e di cui un solo popolo conosce il segreto.
«Ciao, Wanda, tutto bene?»
«No, per fortuna, altrimenti sai che noia, piccolo mio.»
Stretti nel vestito a fiori i suoi bicipiti reggono due sacchi di bottiglie di vetro. Un amministratore che si occupa anche della differenziata metterebbe di buon umore chiunque, ma la cosa più bella è che Wanda è molto più italiana e mascolina di me.
«Ma che vuoi – mi ha detto una volta – la nazionalità è una questione di comfort. È una coperta per ripararti dal freddo. E nessuno può dirmi cosa mettere sul mio letto».
È stata lei a fare i lavori di ristrutturazione del condominio, lascito di un vecchio zio a quanto dice. Il palazzo era in pessime condizioni ed era stata negata l’agibilità. Ma l’amore e i contatti giusti risolvono tutto.
Wanda è un viado, una personalità influente nel quartiere, oltre a gestire vari appartamenti è a capo di un sindacato di prostitute, “il primo del Paese” secondo lei.
Ogni volta che vuole salutarmi mi accarezza la guancia: «Se avessi un’altra vita la dedicherei al tango. Ma se ne avessi altre due, carinho, mi innamorerei dei tuoi occhi tristi».
Un secondo posto non si butta mai via. La saluto quando ormai forse non mi sente più, sono in ritardo per il lavoro.
Esco di casa come se stessi scappando da un uragano, tengo in tasca le cose fondamentali con le quali potrei tirare avanti un giorno in una città allagata: un pacchetto di sigarette semivuoto, uno nuovo, una penna che macchia, un mazzo di biglietti da visita.
La vernice borbotta nella latta, giallo zolfo come lo sguardo di chi ha vissuto troppo tempo a Genova, anziana matrigna che vizia i suoi figli fino a soffocarli.
La cosa più importante è la sfumatura: cerco sempre una tonalità leggermente più chiara dell’originale per fare in modo che in controluce rimanga qualcosa. Nei vicoli, se qualcuno si ferma a fissare un muro per più di un minuto o ha perso la via di casa o è semplicemente annoiato, in ogni caso si merita di vedere qualcosa.
Attraverso tutta la città vecchia per arrivare in via delle Vigne, poi la salita di via Chiabrera dove i tetti si sfiorano e nascondono il cielo. Sono quasi arrivato quando sento quel tono familiare, la lingua più parlata fra
queste vie, il mugugno. Un dialetto che assomiglia a un lamento continuo, l’espressione naturale della città, che ho trasformato in un fruttuoso business.
«Ma io mi dico, cosa passa per la testa di questi teppisti?» Il mio primo cliente della giornata.
«E poi, che vuol dire questa frase? Almeno avesse un senso.»
Tre metri per uno, tratto nero su sfondo giallo, è la bottega di un parrucchiere, un posto dove la gente passa un’infinità di tempo.
Il luogo non è mai scelto a caso. La cornice deve enfatizzare adeguatamente le parole. In fondo sto rispondendo alla pubblicità del futuro, un tempo in cui non basta più un taglio di capelli per sentirsi meglio, nemmeno se è alla moda. Il pennello si muove, ma è come se fissasse per sempre quella scritta.
Se apro un qualunque manuale di psicopatologia mi accorgo di avere una quantità di malattie variabile fra le trenta e le quaranta. La maggior parte delle volte succede di notte. Il trucco è alzarsi e camminare, nessuno busserà più per chiederti se sei vivo o no.
Con questo piccolo stratagemma ho trasformato un insopportabile fastidio in un sistema di lavoro. Io la chiamo insonnia creativa.
Lavoro in due tempi, dalle due alle sei il pennello scrive. Di giorno, nei ritagli di tempo, il pennello cancella. E io sono uno dei tanti giovani creativi che aiuta il quartiere.
Le mie parole hanno vita breve, anche se c’è sempre qualcuno che le vede: chi rientra tardi e chi esce presto, i due momenti migliori della vita di ognuno, quando si lascia e quando si riprende la via di casa. Quando gli occhi sono quasi pieni e quando sono quasi vuoti. Ho il potere del primo e dell’ultimo pensiero nell’esistenza di queste persone; forse non è molto, ma di certo non è poco.
Il viso del parrucchiere tradisce un sorriso, e un cliente soddisfatto significa sempre un altro cliente.
«Venga, le offro un caffè, – dice mentre ammira il risultato – questa è la democrazia: tanti bei discorsi e poi ognuno fa quel che vuole. I giovani, invece di lavorare, vanno in giro a imbrattare i muri».
Al bancone ci servono due tazzine, lui prende una bustina e legge: “La dittatura del sorriso finirà”.
Con un leggero turbamento si volta e ricomincia: «Io il mio negozio l’ho tirato su da solo, quando ho cominciato qui non c’era nulla. Anche adesso non è facile, forse non sarà il quartiere migliore, ma per fortuna rimane gente come lei che si dà da fare».
Pagati i caffè torniamo davanti al muro, lui annuisce ed estrae una banconota da cinquanta. Quando ci stringiamo la mano, recito la mia parte: «Se ha ancora bisogno di me, questo è il mio biglietto. Crac – Agenzia Risoluzione Problemi».
Lei scrive il suo problema, noi glielo risolviamo. Se il problema lo abbiamo creato noi, è solo un dettaglio.
Mi allontano qualche metro per ammirare l’opera. La superficie gialla nasconde un’essenza nera come la pece: “La chiave del successo è la sua necessità”.

Secondo vicolo, secondo cliente. Il mio lavoro continua in una strada del vecchio ghetto ebraico. L’uomo della pescheria è fuori di sé e io lo accolgo con il sorriso di chi capisce i problemi altrui ed è lì per risolverli.
Il suo «mi piacerebbe avere per le mani chi mi ha imbrattato il muro» è solo un nuovo lamento che aspetta di essere consolato.
«I colori della città vecchia sono molto particolari, rosso, giallo, verde acqua: venivano usati perché i marinai che facevano ritorno potessero riconoscere la propria casa entrando in porto; per guadagnare tempo, per essere a casa prima di mettere piede sulla terraferma» gli dico.
È un’idea romantica che mi ha portato ad amare i muri di questa città, ormai li conosco uno a uno, come le pagine di uno spartito che suono ogni notte.
Piazza Fossatello è l’ultima della lista. Ci arrivo quando la luce del tramonto comincia a salire dal mare e mi ricorda che la sera è dietro l’angolo, un momento importante da queste parti.