Noduli Cellulari
di Mirco Salvadori
Si era ripromesso di trovare il tempo per perfezionare la funzione generatrice di matrici di scale. Poteva agire nidificando i tre cicli che subito lo avrebbero scaraventato nel fluido 3D del parallelepipedo tonale. Purtroppo, quel tempo così abbondantemente sperperato davanti al video del computer era giunto al termine. Non aveva più accesso all’ambiente di sviluppo online, quindi doveva immettersi direttamente dentro l’intercamera plastica sperando di evaporare attraverso i mille fori che popolavano le sue pareti.
Inconsapevolmente sperperare il tempo. Irresponsabilmente abbracciare la staticità, tramutando le continue, inutili e spesso false informazioni che infestano la rete in rettili capaci di rapire e sbranare l’attenzione. Rettili che trasformano la socialità del soggetto, immobilizzandolo all’ombra del loro riverbero digitale che sputa in continuazione la vocale privativa – una a che si incastra con le altre al pari delle mattonelle colorate del Lego. Il risultato è un lungo serpente dalle movenze ipnotiche, con le zanne velenifere ben conficcate nella parola che intende ingurgitare.
Come? Un sacchetto, se voglio un sacchetto? Faticava a parlare, l’asocialità iniettatagli dal morso di quella serpe non gli permetteva di interagire con la cassiera del supermarket: faticava a comprenderla e a distinguere il luogo nel quale si trovava, la mente sempre immersa nel brodo primordiale delle sue teorie. Si spostava con difficoltà, affrontando il tragitto verso il grande emporio convinto di trovarsi in un’extradimensione che lo allontanava dall’abbraccio confortevole della virtualità. Avvicinò il codice a barre dello scontrino al lettore posto sui tornelli d’uscita che si spalancarono, riportandolo nuovamente al centro di un labirinto che neanche il migliore JR Schmidt avrebbe saputo ideare e disegnare. Il suono continuo dei droni placò la sua ansia crescente: era tempo di migrare, il tasto Enter avrebbe reagito anche anche alla più lieve delle sollecitazioni.
Quando si è soli, anche se non si fa niente, non si ha l’impressione di perdere tempo. In compagnia, invece, lo si sciupa quasi sempre… che tu sia benedetto, mio amato filosofo, pensò BVTS. Era incredibile come non ricordasse più il suo vero nome ma solo il moniker che ormai lo contraddistingueva come uno dei migliori sound artist in circolazione sulle piattaforme di informazione musicale indipendente. Building Virtuality Through Sound: bastava questo appellativo e la vasta densità del suono elettronico di ultima generazione fluiva attraverso i ricettori dei suoi follower. Erano migliaia, sparsi in tutto il mondo. Indubbiamente ci sapeva fare con le macchine, riusciva a creare poesia sonica lì dove tutti vedevano soltanto un ammasso di cavi e cursori e potenziometri. Al pari di un abile ladro di auto, si piegava sul cruscotto collegando i fili e magicamente il motore cantava aspirando nei suoi cilindri una miscela innovativa formata da ambient, noise, field recording, dronescape e qualsiasi altra sostanza capace di interagire con la virtualità, unica dimensione possibile nella quale vivere ed espandersi. Frequentava Emil Cioran attraverso gli indirizzi dei siti dedicati ai suoi aforismi, che usava come titoli per le sue releases. Questo era tutto ciò che in realtà conosceva del filosofo rumeno.
Il tasto Enter sembrava pulsare nell’attesa del contatto, ma come sempre la sua attenzione era rapita e vagava immersa nelle immagini in costante mutazione che allagavano di impulsi lo schermo del computer. “Cellular Forms | Moduli Cellulari” era il titolo di quel video. Non aveva mai sentito il nome dell’artista computazionale che lo aveva creato, ma conosceva l’autore della traccia che accompagnava le immagini: si erano scambiati alcuni messaggi via Twitter, formali e vuote frasi di congratulazioni per il lavoro di programmazione svolto e l’incredibile risultato raggiunto sul piano compositivo. La pastosità di quel suono e l’immagine in continua mutazione gli davano una strana sensazione di dejà vu, non riusciva a staccare lo sguardo dallo schermo mentre le mura della stanza vibravano sotto i colpi dei bassi che fuoriuscivano dagli speaker. L’infinitamente piccolo, l’abitante dello spazio a noi precluso si mostrava in tutta la sua vitale e virale morfogenesi. C’era qualcosa di familiare in quel continuo cambiamento, ma non riusciva a comprenderne il reale significato. Da ore era immerso nell’accogliente placenta di echi e visioni che si ripetevano all’infinito, si era scordato dov’era e chi era, stava rincorrendo una percezione.
Sospeso nell’assoluta mancanza di coordinate, rapito dal fitto scambio con il proprio computer, BVTS tornava ad esplorare il tempo, quella sostanza a lui sconosciuta e dalla quale si riteneva immune. In fin dei conti, pensava, basta premere quel tasto cercando di evaporare il più velocemente possibile. Una volta usciti da quei fori ci si espande, si diventa parte del tutto, tutto cambia, si rinasce abbandonando l’involucro troppo lento e pesante che da decenni si riflette incerto sul monitor del pc. I suoi fan erano convinti che appartenesse alla loro generazione, lo pensavano un millennial. Lo trattavano alla pari, ignari della presenza costante dei medicinali sul tavolo della sua cucina. Ignoravano la persistente mancanza di ossigeno, le crisi di panico, la sedentarietà che rende obesi. Non conoscevano la vecchiaia così come testardamente voleva ignorarla anche lui, ben celato nell’ombra di un acronimo che lo trasformava in una creatura complessa, moderna, smart, capace di fluide e futuristiche interazioni esclusivamente digitali.
La confezione delle patatine era vuota, le bevande energetiche finite assieme ai caricatori di merendine le cui spoglie erano disseminate ovunque. Era giunto il tempo di immettersi nell’intercamera plastica, raccogliere le proprie emozioni, i pochi ricordi ancora vivi ed evaporare attraverso quei fori nelle pareti, sopra il tracciato impenetrabile del labirinto colorato che neanche il miglior JR Schmidt avrebbe mai saputo ideare e disegnare.
Il dito racchiuso nel misuratore di saturazione dell’ossigeno si muove impercettibilmente: sembra tenti di inviare il comando cercando di premere un tasto. Nello stesso istante, il battito instabile che ha sempre accompagnato BVTS attraverso il suono di una vita solo immaginata, cessa di segnare il tempo lasciando dietro di sé un lieve, profondo ultimo sospiro.
I moduli cellulari si sono moltiplicati. Hanno compiuto la loro trasformazione invadendo lo spazio infinitamente piccolo. Hanno mutato forma e una nuova consonante iniziale ora li contraddistingue: è una N.
Sulla lapide che segnava il luogo nel quale Benvenuto Tagliaserra era sepolto, qualche fiore di plastica ormai accartocciato e due bianchissime calle poste ad illuminare l’epitaffio:
Cosa riusciremmo ad essere io e te senza il wi-fi che sostiene il nostro arcaico istinto
Cosa riusciremmo a scambiarci senza il supporto di lucide e gelide fibre ottiche, cieche di grazia e sudata carnalità
Quanto distanti ci troveremmo se solo carta e inchiostro fossero il nutrimento dei nostri intenti
Quale altro elemento potrebbe maggiormente infuocare le nostre private condivisioni meglio di un muto algoritmo
Urla la nostra virtualità, morde e graffia, si apre e contorce, geme ed esplode in rivoli di pixel che nutrono un link sempre attivo, pulsante antica matematica precisione: 1+1=2
*insostituibili immersioni soniche: Enrico Coniglio http://www.enricoconiglio.com/
*folgorazioni sulla via (virtuale) di Damasco: Massimiliano Scordamaglia https://maxscordamaglia.bandcamp.com/
*editing: Marco Olivotto http://www.moonmusic.it
*many thnx to: Paolo Scheggi, JD Schmidt, Andy Lomas, Max Cooper, Es

di Mario Fresa



di Romano A. Fiocchi
di Massimo Raffaeli




di Francis Ponge




di Gianni Biondillo
Non è un problema di stile. Non è perché le case del Movimento Moderno, pensate come macchine da abitare (a detta di Le Corbusier), non sappiano essere emozionanti. Lo si capisce quando il progettista e il committente si incontrano nella stessa persona. Come nel caso più unico che raro di Casa Cattaneo a Cernobbio. L’edificio fu progettato nelle migliori delle condizioni di libertà creativa per il giovane progettista. Cesare Cattaneo, appena laureato, aveva ricevuto in regalo il terreno dove poter edificare senza alcun vincolo quello che più desiderava. La casa fu pensata fin nei suoi più intimi particolari, con una meticolosità fanatica. Una sorta di modello in scala 1:1, un enorme prototipo che doveva dimostrare la forza poetica del linguaggio moderno, la sua realizzabilità (siamo negli anni trenta del secolo scorso), la sua intrinseca qualità. Nulla fu lasciato al caso, ogni tema sviscerato: il negozio a doppia altezza al piano terra, quello che si apre sulla città, gli appartamenti ai piani superiori, la terrazza all’ultimo piano affacciata sul panorama lacustre. Progetto libero da condizionamenti perché non tenuto, come ebbe a dire Cattaneo stesso, a “soggiacere alla volontà tirannica dei clienti”. Un capolavoro che purtroppo non ha avuto seguito essendo Cattaneo morto giovanissimo. (Mi sono accorto che gli architetti o muoiono molto giovani, vedi Sant’Elia o Terragni, oppure vecchissimi, come il quasi centenario Giovanni Michelucci o l’ultracentenario Oscar Niemeyer. Avendo io superato da bel po’ la giovinezza mi auguro sempre più convintamente di appartenere alla seconda categoria).
Ogni casa, insomma, porta con sé una storia, un mondo. Spesso mi accorgo quanto un appartamento mi dica molte cose di chi lo vive. Gli oggetti quotidiani, gli arredi, i quadri o le fotografie ai muri, ci vestono, ci rappresentano, esattamente come quando indossiamo un abito. Perché ogni casa, dal ricco maniero al monolocale in affitto, assomiglia alla persona che la abita. Anche qui il gioco delle etimologie può tornare utile. “Persona” deriva da Per Sonar, la maschera in legno che serviva a rafforzare il suono della voce nel teatro antico. La casa è innanzitutto la creazione di un ambiente ideale. Ma “ambiente” viene da Ambire, cioè andare attorno come l’aria, o come le persone attorno alle quali si vive. Quindi quando si abita una casa si indossa una maschera che dà un’idea di sé a se stessi e al mondo circostante. Oggi, in un mondo di risorse scarse, abitare significa stare in una casa sostenibile, ecologica. Inevitabilmente, mi viene da chiosare, dato che “Ecologia” deriva dal greco Oikos logos, “discorso sulla casa”: lo studio delle relazioni fra l’umano e il mondo vivente.
Stiamo domesticizzando lo spazio pubblico. Alcuni oggetti di culto della casa moderna, novecentesca e borghese, sono perfettamente inutili per le nuove generazioni. Fate un test (io l’ho fatto con le mie figlie): fra televisore e computer vince il computer. Fra computer e smartphone vince lo smartphone. Tutto si miniaturizza, diventa etereo. Oggi l’infrastruttura necessaria, indispensabile, in ogni casa, in ogni città anzi, è il Wi-Fi.