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Memoria di uno scoglio

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disegni e didascalie (e testo a margine) di Elena Tognoli

Lo scoglio ci mette molto tempo a muoversi e molto poco a consumarsi.

Il passo della morte – Enzo Barnabà

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Incipit del nuovo libro di Enzo Barnabà

 

Sul finire del giugno 2018, mentre attraverso la frontiera di ponte San Luigi, mi capita di assistere a una scena che lascia con il fiato sospeso le decine di persone che, assieme ai pompieri giunti da Ventimiglia, cercano di scorgere, tra i magri cespugli dei quali è cosparsa la parete rocciosa prospiciente, un migrante scivolato dal beà de Bedin, il minuscolo canale che porta acqua in Francia e che funge da sentiero ai migranti più disperati. Non siamo molto lontani dal tratto della canaletta in cui, durante la guerra, la stessa cosa era avvenuta alla signora Mione e, molto prima, alla giovane grimaldese che portava il figlioletto sulla testa; due episodi di cui presto parleremo.

In questo punto, lo strapiombo è di parecchie decine di metri. La morte sarebbe stata certa se una provvidenziale rete non avesse bloccato la caduta. Adesso, il migrante è “incrodato”, come dicono gli alpinisti; bloccato, cioè, sulla parete, incapace di risalirla o di muoversi verso il basso. Resta fermo accanto a un cespuglio, senza dare segni di vita. Un pompiere italiano riesce a spingersi sul beà, arrivando proprio sopra di lui. Non può, però, fare nulla se non cercare di rassicurarlo.

Lo stallo viene sbloccato da un elicottero francese sotto il quale pendola un pompiere sospeso a una fune. Con gran strepito, il veicolo si insinua tra le due pareti del vallone e prende a scendere con molta lentezza, ravvicinando l’uomo alla persona caduta. Seguo il movimento con un misto di apprensione e di ammirazione. In pochi minuti, il migrante viene imbracato e trasportato sul ponte. Mi avvicino. E un ragazzone di colore (ciadiano, verrò a sapere) che sembra uscito da una squadra di rugby. Dirigendosi verso gli uffici della polizia francese, cammina zoppicando, ma sprizza gioia da tutti i pori.

La vallata rocciosa, vista dal mare, ai viaggiatori di una volta appariva come “dantesca”. Così parla del beà il medico inglese Henry Bennet in un libro che risale al 1861: “Il canale, largo pochi centimetri, viene spesso utilizzato come sentiero dai contadini. Bisogna avere la testa e i piedi ben saldi per praticarlo poiché si snoda a strapiombo sul burrone: basta mettere un piede in fallo per rimetterci irrimediabilmente la vita”. La narrazione prosegue evocando una tragedia avvenuta anni prima e della quale la popolazione conservava viva memoria: “Una ragazza di Grimaldi, che soleva percorrere quella specie di sentiero, si sposò ed ebbe un figlio. Le donne del posto hanno la consuetudine di portare sulla testa la culla dei neonati. Un giorno la poveretta imboccò la strada abituale con in capo la culla col bimbo dentro, ma dimenticò che a un certo punto la roccia si abbassa e lascia pochi centimetri sulla testa di chi passa. La culla andò a sbattere contro la rupe e la madre precipitò nell’abisso assieme al figlioletto!”.

Al fine di impedire l’accesso in Francia tramite il canale, fu posto, all’altezza della frontiera, un cancelletto del quale pochi possedevano la chiave. Durante la guerra, ci fu chi dovette far ricorso a questi particolari passeur. Ho avuto la possibilità di conoscere in Veneto Scilla Mione che è stata una di quelle persone. Ecco i suoi ricordi: “Avevo poco più di vent’anni, mio papa Augusto, impegnato nella Resistenza nelle montagne del Bellunese, era braccato dalla Wehrmacht che minacciava rappresaglie contro i familiari e in particolare contro mia mamma e me. Per proteggerci, decise di portarci in Francia, dove aveva vissuto alcuni anni prima.

Partimmo nel febbraio del 1944. Scendemmo dal treno a Bordighera dove, in una chiesa, incontrammo alcuni frati che ci presentarono una ragazza che ci avrebbe fatto da guida. Ci recammo a piedi a Ventimiglia. Faceva molto freddo. Attraversata la città, giungemmo a Grimaldi verso le otto di sera, dopo aver salutato con molta faccia tosta le sentinelle tedesche che si trovavano all’inizio del paese. Alla fine dell’abitato, invece, c’erano due ostacoli pericolosi: i doganieri e i carabinieri. La ragazza ci fece nascondere in un fossato e si mise alla ricerca di un ragazzino che avrebbe sorvegliato le due caserme. Il buio si era fatto fittissimo. Dopo un’ora di attesa snervante, la nostra guida ritornò, ma senza il ragazzino. Si erano fatte le dieci, prendemmo la decisione che, se fossimo stati scoperti, io e mia mamma ci saremmo consegnate, mentre papà avrebbe cercato di mettersi in salvo. Ci togliemmo le scarpe e riprendemmo la marcia. Dopo essere passati con estrema prudenza davanti alle due caserme, vedemmo le luci di Mentone e non riuscimmo a contenere la gioia. La nostra terra promessa era ormai a due passi! Avevamo purtroppo fatto i conti senza l’oste poiché le nostre traversie erano tutt’altro che finite. La ragazza ci avvertì che il cammino si faceva pericoloso. In effetti, dovemmo marciare in fila indiana, prima su un sentiero strettissimo a fianco di una roccia ripida e poi su una canaletta larga quaranta centimetri, dove scorreva un sottile filo d’acqua. Nel fondo del precipizio c’era un corpo di guardia francese, sopra ce n’era uno tedesco e

dietro di noi c’erano i carabinieri. A un tratto, la mamma mise un piede in fallo e precipitò per una ventina di metri. Tremando dal terrore, ci mettemmo a chiamarla con voci sorde e smorzate. Finalmente rispose e i nostri cuori, dalla gioia, presero a battere all’impazzata. Diceva di lasciarla lì e di proseguire, ma ovviamente non le demmo retta. Improvvisammo una sorta di corda attaccando cinture e fazzoletti, la ragazza si spogliò dei suoi vestiti per rendere i movimenti liberi e scese giù alla ricerca della mamma. Io mi inginocchiai e cominciai a pregare. Dopo una buona mezz’ora di faticosi tentativi, la nostra guida risalì con mia madre che per fortuna era caduta su un mucchio di foglie e se l’era cavata relativamente a buon mercato.

La marcia continuò per un’altra ora. Il burrone era alto duecento metri e mamma continuava a zoppicare. Finalmente arrivammo davanti a un cancello di ferro del quale la ragazza possedeva la chiave. Fummo lasciati soli per un buon quarto d’ora in quanto era necessario verificare che in vista non ci fossero poliziotti o SS. Ci sembrò un secolo, ma finalmente la nostra guida tornò e passò prima con la mamma, poi con me e infine con papà. Arrivammo a Mentone che era già l’alba”. Augusto Mione continuerà la Resistenza in Francia e, dopo la guerra, costituirà un’impresa edilizia che diventerà molto importante. Sarà il costruttore di fiducia di Le Corbusier.

Dopo il salvataggio del ragazzone di colore, mentre mi avvio verso casa, mi viene fatto di pensare che anche la letteratura si è occupata di quella canaletta. Uno dei personaggi del primo romanzo di Francesco Biamonti è infatti una donna che non riesce a dimenticare il beà, sbarrato da un cancello con aculei anche laterali, dove anni prima aveva perso il marito. “Una guida li aveva abbandonati una notte sul cornicione. Bisognava appendersi agli aculei per passare, e suo marito era stato trascinato giù dalla valigia”.

 

 

Enzo Barnabà, scrittore di saggi storici e romanzi, è nato a Valguarnera nel 1944, ha studiato lingua e letteratura francese a Napoli e a Montpellier, e storia a Venezia e Genova. È l’autore del primo libro pubblicato in Italia e in Francia sul massacro xenofobo avvenuto nel 1893 ad Aigues-Mortes. Tra i suoi saggi ricordiamo: I Fasci siciliani a Valguarnera (Teti, 1981), Morte agli italiani! (Infinito, 2008). Tra le opere di narrativa ricordiamo: Sortilegi, scritto con Serge Latouche (Bollati Boringhieri, 2008), Il Ventre del Pitone (EMI, 2010), Il Partigiano di Piazza dei Martiri (Infinito, 2013), Il Sogno dell’eterna giovinezza. Vita e misteri di Serge Voronoff (Infinito, 2014). Alcuni suoi libri sono stati direttamente scritti in francese. Vive a Grimaldi di Ventimiglia dove la Riviera italiana e quella francese si uniscono.

5 poesie

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di Fabrizio Bajec

Questi inediti fanno parte di una serie intitolata Stati di emergenza, successiva ma sulla stessa linea de La collaborazione (Marcos y Marcos 2018). Si inseriscono nel contesto delle manifestazioni di protesta che scuotono la Francia da due mesi, pur ispirandosi ad altri scontri sopraggiunti sotto le ordinanze del governo Macron, nei primi tempi della sua elezione. Traducono un aumento esponenziale di violenza poliziesca che dall’approvazione della riforma del lavoro (2016) ha conosciuto la risposta di vasti strati della popolazione, fino alla nascita dei più organizzati gilet gialli, espressione ideologicamente eterogenea e decentrata di una rivolta contro l’ingiustizia sociale. Se tale movimento insurrezionale si è dimostrato all’altezza dei toni sprezzanti del presidente, questi ha dovuto moderare il suo discorso di fine anno, pur non sembrando voler cambiare rotta.             

Mots-clés__Polvere

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Sophie Ristelhueber, À cause de l’élevage de poussière (Because of the Dust Breeding), 1991–2007 © Sophie Ristelhueber/BONO, Oslo 2015. Black and white photograph, pigment print on paper mounted on aluminium and framed under plexiglas.

 

Polvere
di Chiara De Caprio

Mazzy Star, Into Dust –> play

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Sophie Ristelhueber, À cause de l’élevage de poussière (Because of the Dust Breeding), 1991–2007 © Sophie Ristelhueber/BONO, Oslo 2015. Black and white photograph, pigment print on paper mounted on aluminium and framed under plexiglas.

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da Don DeLillo, Underworld, trad. it. Delfina Vezzoli, Torino, Einaudi, 1999

E come si fa a sapere se l’immagine esisteva prima che fosse inventata la bomba? Potrebbe esserci stato un mondo sotterraneo di immagini note soltanto a sacerdoti tribali, medium tra la realtà visibile e il mondo dello spirito che mangiavano funghi magici e vedevano una nube infuocata che anticipava l’immagine del film per reclute dell’esercito statunitense.
Osservata a distanza di sicurezza, dice il narratore, questa esplosione è uno degli spettacoli più belli mai visti dall’uomo.
Persino allora era nel Pocket, in un certo senso, ma non seguiva il percorso dei sistemi fino alla conclusione del suo tedioso lavoro. Le bombe da mezza tonnellata che cadevano a grappoli dagli sportelli del B-52 come pallottole di escrementi pinnati, riempiendo di crateri il sentiero nella giungla.
Ma si trattava del nemico, quindi chi se ne frega.
Ed è ancora il nemico, o c’è sempre un nemico, e Matt aprì gli occhi e vide il cielo farsi di uno strano grigio vecchietta.
Le idee un tempo venivano dal basso. Adesso sono dappertutto sopra di noi, a collegare universalmente cose e griglie.
Le combinazioni binarie bianco-nero sì-no zero-uno eroe-vinto.
E i due uomini di fianco al presidente nella foto appesa alla parete della baracca. Quello alto e bello, e l’immigrato dalle sopracciglia cespugliose. Avrebbe benissimo potuto essere una foto di Oppenheimer e Teller con il corpo unto di olio solare che citano vicendevolmente brani di scritture indù.
Om non fa rima con bomb. È solo un’impressione.
Morte e magia, ecco cos’è il fungo. O morte e vita immortale. La psilocibina è un composto ottenuto da un fungo messicano che può trasformare l’anima in materia da fissione, secondo gli studiosi del fenomeno.
Loro sono dappertutto allo stesso tempo, collegati all’infinito, e si finisce col semicredere alle cose più improbabili perché sarebbe stupido non farlo.
Tutta la tecnologia fa riferimento alla bomba.
Seduto nella polvere con gli occhi aperti, Matt si rese conto che il sole stava sorgendo dietro di lui e si chiese cosa volesse dire.
Voleva dire che per tutto quel tempo era stato girato dalla parte sbagliata.

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[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. Ogni prima domenica del mese, Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]

 

In tutte le direzioni, purché non nella falsa coscienza

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di Lorenzo Mari

 

A tre anni di distanza da Epica dello spreco (Dot.com, 2015), è uscito, alcuni mesi fa, il secondo libro di poesia di Laura Di Corcia, intitolato In tutte le direzioni (Lietocolle, collana gialla, 2018) e già finalista al Premio Rimini 2017 con il titolo Traduzioni e microsismi. La genealogia del libro, però, non si esaurisce qui: come ha dichiarato la stessa autrice in questo interessante e intenso dialogo con Davide Castiglione, almeno una sezione, la “Parte Prima” (pp. 13-31), era stata approntata ancora prima della pubblicazione di Epica dello spreco.

Diaconia dell’Immaginario. Una comunità di artisti

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di Bianca Battilocchi

 

«Intendiamo fondare un ORDINE che definiamo della ‘diaconia dell’immaginario’ per la realizzazione di nuovi compiti e impegni di pensiero e di immaginazione, e, analogamente, di attuazione di una innovante visione del mondo e dei rapporti tra il mondo e le arti.»

Così si avvia il testo di un progetto di Emilio Villa, stilato agli inizi degli anni settanta e pubblicato senza commento nel catalogo Emilio Villa, poeta e scrittore, da Mazzotta nel 2008. Questo contiene in sé differenti spunti di riflessione per quanto riguarda la ricerca sperimentale artistica del secondo Novecento e la possibilità di un’azione collettiva, al di fuori di trend o correnti definite.

L’ultimo testo pubblicato di Villa.

Il progetto lascia talora intravedere un dialogo già avvenuto con alcuni dei possibili partecipanti all’ordine e non esclude uno spazio alle necessarie aggiunte e modifiche da decidersi una volta formato il primo nucleo di ‘confratelli’. I campi di studio includono tutte le espressioni artistiche della parola, del suono; del moto, del pensiero, della produzione, riproduzione, coproduzione; della interpretazione, valutazione pensosa … del rito.

Aperta a diverse decine di artisti, selezionati per vocazione e integrità, senza preferenza di genere, età o nazionalità, la vita in comunità si sarebbe strutturata in momenti di ‘meditazione, percezione, creazione, ricreazione, ripensamento, in nome delle ‘strutture libere dell’immaginario’; quello profondo dell’uomo, non quello imposto dai settori della cultura istituzionale. Se è piuttosto evidente il modello monastico e il lessico ecclesiale a cui Villa attinge, tuttavia, come già osservò Tagliaferri nel “Clandestino”, il poeta intreccia a questa concezione del tempo quotidiano la presenza dell’eterno nell’arte.

È questo un tipico appello villiano alla libertà, contro il servilismo del consumo, del gusto, delle ideologie, degli scatoloni preconfezionati, del già visto, di un tempo considerato minore. L’ ‘Indagine immaginaria allo stato puro’ si pone come rottura con tale sistema e si mette a servizio di un immaginario definito ‘rivelante’ e ‘illimite depositario dell’inimmaginabile’. Villa dal canto suo scavalcava le mura delle singole discipline – poesia (visiva, sonora e oggetti poetici), filologia semitica, traduzione, studi e scritti sull’arte primitiva e su quella aniconica coeva – portandole avanti parallelamente e intrecciandole come strumenti finalizzati a una comune ricerca sulle origini dell’arte e del linguaggio. Si dà voce così all’enigma, all’eternità, aspirando a risacralizzare l’arte e ‘fare leva sulle dimensioni più profonde della soggettività, sulla sfera degli impulsi e sull’esperienza della singolarità’ (A. Tagliaferri, Emilio Villa e la riscoperta dell’America da Rothko a Duchamp). Gli artisti con cui collaborava o sui quali scriveva venivano infatti eletti per una stessa vocazione artistica, che sposava la prospettiva duchampiana, di andare oltre all’arte retinale per portare a galla i prodotti della materia grigia. Si può menzionare ad esempio Trous, un’opera nata dalla collaborazione con l’artista Enrico Castellani che realizzò una serie di opere da affiancare ai testi del poeta sul leit motiv dei ‘fori’: simbolo della mancanza come condizione tragica umana.

Enrico Castellani, 5 chalcographies for Trous, with poems by Emilio Villa, 115 copies,
Proposte d’Arte Colophon, Belluno, 1996.

La vita dell’ordine mirava a creare le condizioni ideali per questa indagine, parallelamente individuale e collettiva, lasciando la libertà ai singoli di condurre la propria ricerca per condividerne successivamente i risultati (anche con l’esterno). Si fa appello a un principio di accoglienza che non prevede nessun direttore né insegnante ma una equa distribuzione di servizi per ciascun membro: ognuno proporrà se stesso come alunno dell’immaginario e come esempio; ognuno guarderà agli esempi che si proporranno; ognuno opererà producendo il massimo sforzo spirituale e morale, geniale e responsabile, e per l’adempimento delle finalità dell’ordine.

Il silenzio che resta

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di Francesco Borrasso

Le luci artificiali della ruota panoramica brillavano a poca distanza da un cielo livido di fine febbraio, un contrasto rosso e blu e giallo. Marta se ne stava seduta sopra una panchina, la sciarpa avvolta intorno al collo, una sigaretta lunga tra le dita. Un uomo con il viso colorato di bianco restava immobile, a due passi da lei, le persone di passaggio, a volte, gettavano una monetina in un cappello consumato vicino ai suoi piedi. Poco distante c’era il carretto dello zucchero filato e Marta continuava a guardare una delle cabine della grande ruota panoramica che girava lentamente. C’era un’aria fredda e lei sapeva che la doveva smettere di pensare al fatto che siamo tutti minuscoli e fragili e mortali; smetterla di dirsi che ci sono forze che ci sovrastano e che non siamo in grado di controllare.

Devono essere state quelle forze, pensò, deve essere stato per colpa loro.

La ruota panoramica si fermò, Gianmarco scese dalla sua cabina e correndo si avvicinò a Marta, aveva il viso arrossato per il freddo e forse per l’eccitazione.

«Com’è andata?», chiese Marta.

«Bene, ma ho avuto paura».

«Hai avuto paura?».

«Sì, lì in alto la cabina si è fermata e ho avuto paura che non ripartisse più».

«Saresti rimasto lì sopra per sempre?», chiese la madre, alzandosi dalla panchina.

Gianmarco non rispose, cercò la mano di Marta e la strinse.

Passarono vicino al tiro a segno, c’erano ragazzini in piedi che imbracciavano piccoli fucili e sparavano contro lattine di metallo, una musica allegra veniva via dagli altoparlanti del parco giochi, c’erano delle casse affisse ai pali della luce. Marta comprò per lei e per il figlio delle noccioline caramellate, aprì la bustina con i denti.

«Ti sta divertendo?».

Gianmarco non rispose, incantato a guardare una giostra a forma di piovra; aveva delle braccia meccaniche che simulavano i tentacoli, e su ogni tentacolo c’erano dei sediolini per prendere posto.

«Posso fare un giro lì?», chiese.

Quanto tempo era passato da quel giorno? Oggi Marta proprio non riusciva a ricordarlo, due mesi? Tre mesi? C’era qualcosa tra quelle giostre che le condizionava il ricordo.

«Vuoi fare un giro sulla piovra?».

«Sì, se vuoi vieni anche tu».

«Io?».

Pagarono il biglietto e si posizionarono uno dietro all’altro. Quando un uomo magro e molto alto azionò il pulsante di avvio, la piovra incominciò a girare su sé stessa, muovendo prima piano e poi sempre più veloce le braccia meccaniche. Il vento che la colpiva sulla faccia sembrava ghiaccio, Marta chiuse gli occhi e ricordò di quando Antonio l’aveva portata per la prima volta sulla neve, ricordò la sensazione di gelo sulle mani nonostante i guanti, il modo in cui sorrideva, rivide la sua faccia la volta che gli disse di essere incinta. Gianmarco, appena qualche metro davanti a lei, tentava di tenere gli occhi aperti, quando le braccia meccaniche si spostavano verso l’alto in lui prendeva vita l’illusione di poter toccare quasi il cielo, e allora gli veniva forte la voglia di staccare le mani dalla sbarra di ferro e allungare le braccia verso l’alto, ma non lo faceva. I giri della piovra aumentavano di intensità man mano che il tempo passava, Marta sentì delle gocce schizzare via dagli occhi, scorrere lungo le guance appena un po’ e poi le senti spinte indietro dal vento. Si accorse che stava piangendo quando aprì le palpebre e tutto quello che vide sembrò essere sommerso dall’acqua. Perché non aveva lasciato scritto niente? Almeno a lei avrebbe potuto dire qual era il motivo. E invece no, continuava a pensare, invece no, mi hai trattata come hai trattato tutti gli altri.

Scesero dalla giostra, Gianmarco sentiva il cuore pulsargli dentro le orecchie, i suoni del parco giochi si univano al tonfo dei suoi battiti cardiaci e tutto quel chiasso gli fece quasi mancare il respiro.

«Mamma ma perché stai piangendo?».

«Chi piange? È stato il vento… chi piange».

Il bambino abbassò la testa e si guardò la punta delle scarpe, prese il sacchetto di noccioline dalla tasca del cappotto e ne masticò tre, in contemporanea; sentiva che erano dolci, molto dolci e poi verso la fine un pizzico di sale lo sorprendeva ai lati della lingua.

Fiancheggiarono La casa stregata e poi, andando leggermente verso sinistra, si trovarono davanti al Labirinto degli specchi. Tutto il buio che li circondava veniva smorzato dalle lucine colorate delle attrazioni elettriche, e i suoni e i tonfi delle giostre arrivavano alle orecchie di Marta come un’eco; si sentiva svenire, aveva continuamente la sensazione di svenire, ma poi non succedeva mai.

«Andiamo nel labirinto?», chiese il figlio.

Ci sarebbe dovuto essere anche papà, pensò; poi si ricordò di quando, qualche anno prima, lui e il padre erano andati insieme sulle montagne russe, ricordò che quella giornata avevano riso molto, e che erano stati bene.

«D’accordo, ma tra un po’ dobbiamo andare via».

«Mi manca papà», disse Gianmarco.

Quelle parole gli uscirono dalla bocca da sole, sapeva che non avrebbe dovuto dirle, perché ogni volta che le diceva, la madre faceva una strana espressione del viso e cambiava umore e delle volte lui l’aveva vista anche piangere, dopo quella frase.

Iniziarono a camminare più veloci, fecero il biglietto ed entrarono.

«A te non manca?», chiese il figlio.

«Lo sai che mi manca».

«Non ne parliamo mai».

Videro le loro figure storpiate da uno specchio che li allungava, proseguendo si videro ingrassati e poi ancora, molto bassi.

«Quale strada si prende per uscire?», chiese Marta.

«Mamma ma sei una schiappa».

«Come sarebbe a dire?».

«Vienimi dietro».

«Ma non lasciarmi la mano», fece lei.

L’aria, all’interno di quel labirinto, era strana, sembrava artificiale, di plastica. Le luci bianche appiattivano tutte le prospettive e dopo qualche minuto in cui continuavano a girare a vuoto Marta dovette fermarsi perché le girava la testa.

«Si respira male, qui dentro», disse.

Come aveva respirato quel giorno? Si ricordava solamente che quando lo aveva visto aveva sentito le gambe diventare molli e poi si era ritrovata seduta sul pavimento e non sapeva come era successo. Una pressione forte contro il petto e sulla gola, le prime volte che aveva tentato di ingoiare la saliva, quasi stava per rimanere strozzata. Poi vomitò, sulle mattonelle bianche, vomitò quasi di fianco ad Antonio.

Furono fuori e Marta raccolse l’aria fredda a grossi bocconi, aprendo il torace, sentendo il gelo dentro la bocca, sulla lingua, fino allo stomaco. Si era alzato un vento forte che le spostò i capelli all’indietro, Gianmarco aveva lo sguardo fisso per terra, sentiva che qualcosa, dentro quel Labirinto degli specchi, non era andato come sarebbe dovuto andare. Lasciò la mano della mamma ed andò a sedere sopra una panchina, alzò il cappuccio sulla testa e mise le mani dentro le tasche del capotto.

«Che ti succede?», chiese Marta, affiancandolo sulla panchina.

Aveva la sensazione che la pelle le andasse troppo stretta. Pensò alla sua adolescenza, a come fosse scivolata via, a come l’età adulta era arrivata veloce a spazzare via tutto e a ricoprire ogni cosa di dolore. Si guardò intorno, seppe con la lucidità con cui si sa in che modo respirare, che tutto quello su cui posava lo sguardo era in decadenza, ogni cosa stava andando via, lei per prima.

«A volte penso che è stata colpa mia», disse Gianmarco.

«Non pensarla mai una cosa del genere, mai!», disse con voce alta, la madre.

«Perché l’ha fatto? Io gli volevo bene».

Iniziò a piangere, un pianto dolce, leggero, i lacrimoni gli si affollavano dentro lo sguardo e poi cadevano via. Marta lo circondò con un braccio e lo strinse a sé, ma il suo movimento mancava di convinzione.

«A volte gli adulti fanno delle cose stupide».

Lui alzò la testa e iniziò a guardare qualcosa in lontananza.

«Cosa guardi?».

«C’è un palloncino».

«Dove?».

«Lì», disse Gianmarco, allungano un braccio e indicando con il dito un piccolo puntino colorato che saliva nella notte.

«Ecco, lo vedo», disse Marta e sorrise e pensò a tutto il sangue sul pavimento, al modo giusto in cui avrebbe dovuto dare la notizia a suo figlio. Come glielo avrebbe spiegato? Tra non molto me ne andrò anche io? Si chiese. Potrei morire, tutti potremmo morire.

Si girò in testa questa parola: morire. Somigliava ai cieli di neve. Poi tornò a guardare il palloncino e tolse il braccio dalle spalle di Gianmarco.

«Andiamo a casa?», chiese.

«Ok».

«Pizza?».

«Pizza».

Erano quasi fuori dal parco quando Gianmarco si fermò.

«Ehi, perché non cammini?».

«Stavo pensando».

«A cosa?».

«Secondo te, quel palloncino, che fine ha fatto?».

Marta restò qualche secondo in silenzio, da lontano si sentivano le automobili al di là del parcheggio, si sentiva il fruscio del vento tra i rami degli alberi e stormi di uccelli si alzarono in volo all’unisono, facendo strane traiettorie, mischiandosi.

Aveva telefonato alla madre di Antonio, e glielo aveva detto per telefono, aveva detto: mio marito, aveva detto mio marito e la donna all’inizio non capiva.

«Non lo so», aveva risposto Marta continuando a guardare il figlio.

«Secondo me va da qualche parte che non possiamo vedere», disse Gianmarco.

«Dici?».

«Magari come papà».

Gli si avvicinò e gli prese nuovamente la mano, la pelle fredda e secca della sua faccia quasi le faceva male.

«Magari sì», disse Marta.

Amici per paura

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  di Gianni Biondillo

Ferruccio Parazzoli, Amici per paura, SEM, 2017, 219 pagine

Francesco è un bambino di otto anni. Per lui la guerra è una cosa di soldatini di carta da ritagliare sul tavolo della cucina, un’avventura fiabesca, un gioco di eroi immaginari, dove, in fondo, nessuno muore mai. Poi il 19 luglio del 1943 la guerra, con tutta la sua brutalità, arriva anche a Roma. I bombardamenti devastano interi quartieri della capitale. Alla famiglia di Francesco non resta che sfollare nelle Marche. Una nuova avventura per Francesco, che di pagina in pagina crescerà e muterà le sue idee nei confronti degli “eroici” fascisti e dei temibili “alleati”. Nelle Marche conoscerà storie magiche, nuove amicizie, preti comunisti, appigliato alla incrollabile certezza infantile che in guerra i bambini non muoiono mai. È roba da grandi.

Ferruccio Parazzoli scrive con la grazia del miglior novecento italiano senza averne la pedanteria. Una scrittura già classica eppure perfettamente contemporanea. Non conosco la biografia dell’autore, ma le poche note nella bandella mi fanno pensare che Amici per paura più che un romanzo storico sia piuttosto un memoire autobiografico: non una ricostruzione filologica, ma un flusso di ricordi, spesso minori, a lato della Grande Storia, ma proprio per questi più veri, più vividi.

Fra il fronte alleato che non sfonda a Cassino, il padre del protagonista che raggiunge la famiglia nottetempo travestito da prete, zii con la camicia nera e vicini di casa partigiani, fra sospetti reciproci e nuove compagnie di ventura, fra fughe e ritorni in città, Amici per paura sembra quasi non abbia un filo narrativo forte, ma sia composto da episodi all’apparenza slegati, lampi di luce sul passato, dove un bambino, nel giro di due anni (e duecento pagine) conoscerà la durezza e la violenza della fame e della guerra, riuscendo comunque a non perdere mai la propria innocenza.

(precedentemente pubblicato su Cooperazione, numero 18, del 2 maggio 2017)

Il bambino sulla spiaggia

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di Antonio Sparzani

È il titolo del libro scritto da Fatima (abbreviato in Tima) Kurdi, con il contributo di suo fratello Abdullah, edito da Piemme Voci (gennaio 2019, € 18,50), tradotto dall’originale inglese The Boy on the Beach da Annalisa Carena; originalmente pubblicato in Canada da Simon & Schuster. L’ho letto in questi giorni d’un fiato perché ne ho sentito parlare a radio3 in maniera assai attraente.
Io non son bravo a fare recensioni, perché mi verrebbe da dire “correte in libreria, compratelo e leggetelo”, almeno se vi interessano i problemi di quelle innumerevoli persone che oggi vanno sotto il nome di rifugiati, o profughi o molti altri termini più o meno sinonimi. La verità è che, malgrado tutte le notizie ascoltate alla radio o alla televisione, o lette in rete dai vari giornali, non mi ero mai abbastanza informato sulla drammatica situazione dei profughi siriani. E del resto oggi di drammatiche situazioni non c’è che l’imbarazzo della scelta, purtroppo; però, dato che mi è capitato di sentire quella trasmissione radio, mi sono concentrato su quella, e ho scoperto un mondo che sostanzialmente ignoravo.

Il libro (di quello voglio parlare e non delle variopinte polemiche che sono sorte a proposito di un caso così enfatizzato) è principalmente la storia di una famiglia, raccontata in prima persona da una donna, Fatima Kurdi, secondogenita dei figli (quattro femmine e due maschi) di Ghalib e Radiya Kurdi; ognuno di questi figli si è sposato e ha avuto a sua volta dei figli, maschi e femmine, per un totale di 24 nipoti di Ghalib e Radiya.
L’occasione del racconto è quella vicenda che un paio d’anni fa ha commosso tutto il mondo: la foto, che vedete qui all’inizio, di un ragazzino morto sulla spiaggia turca vicino a Bodrum, di fronte all’isola greca di Kos, distante “appena” 4 chilometri dalla costa. Le virgolette su appena derivano dal fatto che gli scafisti, nel libro chiamati trafficanti, usano, anche lì, come ben sappiamo da quel che avviene sulla rotta Libia Italia, gommoni poco affidabili e poco adatti a tenere il mare. Va aggiunto che usano questi gommoni se uno non può pagare grosse cifre: una famiglia di due genitori e due figli piccoli deve prendere il gommone, insieme con altre, sempre troppe, persone, se può pagare “solo” 4000 dollari. Avendo ancora più soldi si può venire imbarcati (sempre comunque stivati) su pescherecci o battelli più affidabili.
L’occasione del libro è quel bambino sulla spiaggia, figlio di uno dei due fratelli maschi di Fatima, Abdullah, che in verità perde nel naufragio del gommone, dovuto all’ingrossarsi del mare, frequente in quella zona, non solo il piccolo Alan, quello della fotografia, ma anche l’altro figlio Ghalib e la moglie Rehanna, rimanendo così privato di una famiglia amatissima. Il dolore di Abdullah è indicibile. Nel libro si narra tra l’altro dei molti sforzi fatti dalla sorella Fatima, che vive, perché emigrata prima dei fatti che cominciarono a sconvolgere la Siria nel 2011, a Vancouver, British Columbia, Canada, sforzi finanziari e di relazioni con politici locali e non, per riuscire a far emigrare anche Abdullah, oltre al fratello maggiore Mohammad che già era riuscito fortunosamente a raggiungere la Germania.
Nel libro – circa 270 pagine – si narra con grande dettaglio l’intricata storia di tutti i disperati tentativi di fuggire dalla violenza della guerra civile (se così si può, un po’ ossimoricamente, chiamare) di tutti i membri della famiglia; famiglia che inizialmente viveva unita e felice a Damasco (la “città dei gelsomini”, capitale della Siria) e che poi un po’ alla volta è costretta a disperdersi, dapprima in Siria (per esempio a Kobane, città assai vicina al confine turco, dove l’orrore dell’ISIS arriva più tardi) e poi in Turchia e, dopo infinite vicissitudini, burocratiche e non, in vari paesi europei, soprattutto Germania.
Ma quello che mi ha colpito del libro, scritto – lo si sente in ogni pagina – con una partecipazione così accorata, dolorosa e straziante da strappare davvero il cuore, è il quadro d’insieme di tutta la faccenda. All’interno di un paese con milioni di abitanti scoppia a un certo punto (2011) una protesta contro il regime certamente assai illiberale di Baššār Ḥāfiẓ al-Asad, detto da noi comunemente Assad, e in questa protesta, duramente repressa dalle forze governative, intervengono un po’ alla volta molti altri fattori, nazionali e internazionali, che mi guardo bene dall’analizzare qui, che non ne sarei certo capace, ma che fanno della Siria, negli anni successivi al 2011, un posto pericoloso per chiunque e mediamente invivibile.
I rifugiati sono ormai milioni.
E qui, dalla mia privilegiata posizione di cittadino di una nazione che, per quanto afflitta da molti mali, consente ancora una vita più che dignitosa, mi chiedo come sia possibile arrivare agli atti di terribile barbarie (di cui vi risparmio qui la descrizione, che anche nel libro è presente solo in alcuni punti, ma questi bastano, ve lo garantisco) perpetrati da homo sapiens su homo sapiens; ma di quale sapiens parliamo? Di quale? Queste persone che nella loro follia decapitano e torturano a sangue freddo e sistematicamente uomini, donne e bambini, cos’hanno imparato da piccoli, cosa è stato loro ficcato nella testa, che ricompensa è stata loro promessa?
Il libro si chiude con l’indicazione di una Kurdi Foundation, nella quale lavorano tra gli altri Tima e Abdullah, il cui fine è quello di aiutare i bambini rifugiati dovunque e comunque. Per concludere eccovi un estratto dalla parte finale del libro:

La scrittura di questo libro è stata una gigantesca sfida per Abdullah. Nell’ultimo anno l’ho tormentato ogni settimana e a volte ogni giorno chiedendogli dei particolari della sua vita prima della tragedia.
“Sei stato tu a piantare il seme – gli ho ricordato – hai detto che dovevamo scrivere questo libro”
“La mia storia non è più importante di quella di chiunque altro”
“Ma la gente vuole conoscere la storia della nostra famiglia. Vogliono sapere di Rehanna, di Ghalib, di Alan. E noi vogliamo tenere vive le loro voci. Vogliamo riempire il silenzio lasciato da troppe morti assurde. Vogliamo fare il possibile per fermare la guerra”
“Ma Fatima, noi eravamo come milioni di altri profughi”
“Sì, lo eravate. Lo sei. Ma se parli della tragedia che ti è capitata, questo potrebbe impedire che altra gente anneghi in quel mare”
“Okay, sorella. Quel che ho imparato è che non importa se sei senza soldi e se vivi in un tugurio mangiando lenticchie. L’unica cosa che conta è che tu abbia la tua famiglia con te, che tu abbia l’amore. L’amore ci dà la forza e il potere di dimenticare il dolore e la sofferenza, Dillo alla gente. Dì loro che non c’è nient’altro che conti”.

Gli interventi economici cinesi e italiani in Africa

1

di Marta Tufariello

Stupisce che l’opinione pubblica occidentale ignori quasi totalmente che nell’ultimo decennio molti stati o regioni del continente africano hanno sperimentato un importante processo di stabilizzazione politica e di crescita economica. L’Africa si sta ritagliando un ruolo di crescente rilevanza nel sistema economico mondiale ed è diventata fonte di interesse per tutti i principali attori internazionali. In un mondo dove la popolazione è in costante aumento, ma le riserve di risorse naturali sono in progressivo esaurimento, l’Africa rappresenta una importante fonte di materie prime. La scarsità di materie prime è una delle principali sfide che gli uomini dovranno affrontare, probabilmente in un futuro non troppo lontano. A differenza di quanto sia largamente creduto negli stati occidentali, tale sfida non riguarda solamente i paesi meno sviluppati economicamente, le cui popolazioni sono afflitte da alti livelli di povertà e malnutrizione. Oltre alla forte limitazione della crescita economica mondiale e all’aumento dell’instabilità politica a livello globale, è in gioco anche il mantenimento degli alti standard di vita e dei consumi delle popolazioni dei paesi più ricchi. Di conseguenza, il continente africano ha acquistato sempre più rilevanza nel panorama internazionale, soprattutto dopo l’arrivo all’inizio del ventunesimo secolo di nuovi importanti attori economici come la Repubblica Popolare Cinese (RPC). Inoltre, le vicende interne degli stati africani riguardano in misura sempre maggiore la comunità internazionale, basti considerare l’emergenza causata dalle attività terroristiche negli stati europei e statunitensi e le difficoltà nella gestione delle ondate migratorie.

Africa: una breve panoramica storica

A partire dalla metà dell’Ottocento il continente africano si trova a dover affrontare numerose trasformazioni e continui stravolgimenti politici ed economici. Il processo di conquista delle terre africane da parte delle potenze europee, iniziato nella seconda metà del diciannovesimo secolo, segna un profondo cambiamento nell’assetto politico-territoriale dell’Africa e inserisce il continente nel sistema dell’economia mondiale in una posizione di totale sudditanza economica. Con la fine della prima guerra mondiale termina l’epoca dell’imperialismo coloniale e si assiste alla nascita del movimento nazionalista africano. Dopo la seconda guerra mondiale ha inizio la storica fase della decolonizzazione: tra gli anni cinquanta e sessanta quasi tutti gli stati africani conquistano l’indipendenza e vengono (almeno formalmente) riconosciuti come stati sovrani. Tuttavia, il riconoscimento formale dell’indipendenza non si traduce nella cessazione del controllo europeo sui possedimenti africani un tempo appartenenti agli imperi coloniali: ha inizio la successiva fase del neocolonialismo, nella quale gli stati occidentali continuano a esercitare una forte influenza politica ed economica nella vita del continente africano. Gli stati africani sono deboli e limitati da una forte instabilità politica ed economica. Di conseguenza, prevale l’assetto dello stato autoritario e repressivo e si verifica una militarizzazione del potere. La politica degli aiuti allo sviluppo promossa dai donatori occidentali e dalle istituzioni del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale non ha gli effetti sperati: nonostante vengano inviati centinaia di milioni di dollari agli stati africani, non si riescono a raggiungere gli obiettivi di crescita economica e di riduzione della povertà. Al contrario, la dipendenza dagli aiuti condanna gli stati africani a un circolo vizioso di corruzione, indebolimento delle istituzioni, conflitti armati, inflazione, riduzione degli investimenti e infine scoraggiamento della crescita economica.[ii] È solo durante gli ultimi anni del Novecento che si possono osservare i primi segnali di ripresa economica e di riforma politica.

Il continente africano inizia il ventunesimo secolo registrando una incoraggiante crescita economica e una maggiore stabilità politica, alle quali si aggiungono importanti progressi sul fronte sanitario e dell’istruzione. L’Africa è riuscita a ritagliarsi un nuovo ruolo di preminenza a livello internazionale ed è diventata principale terreno di competizione per l’acquisizione delle risorse globali. Inoltre, tra il 2000 e il 2017 il continente africano è stato il principale destinatario di Investimenti Diretti Esteri (IDE) tra le regioni meno sviluppate del mondo.[iii]

La Repubblica Popolare Cinese emerge tra i principali attori internazionali presenti nel continente africano: in pochi anni è diventata primo partner commerciale dell’Africa e può vantare una solida presenza economica e politica nel continente grazie all’istituzione del Forum on China Africa Cooperation (FOCAC), alla presenza di ambasciate in quasi tutti gli stati africani e allo sviluppo della nuova iniziativa One Belt One Road (OBOR).

Nel 2000 viene inaugurato il primo Forum on China Africa Cooperation (FOCAC), di cui fanno parte cinquanta stati africani e che si pone l’obiettivo di istituzionalizzare le relazioni tra Cina e Africa e favorire un percorso di sviluppo comune basato sul dialogo paritario, sulla comprensione e sulla cooperazione. Tenutosi ogni tre anni, alternativamente in Cina e in uno stato africano, il FOCAC ha segnato un cambiamento delle relazioni sino-africane, che cessano di essere prevalentemente diplomatiche e riflettono invece i nuovi interessi commerciali e politici cinesi: verso la fine del Novecento gli interessi della Cina in Africa abbandonano l’ambito ideologico, focalizzandosi sull’acquisizione di risorse naturali e sul supporto politico che i cinquanta stati africani possono garantire alla Cina all’interno delle organizzazioni internazionali. Il FOCAC rappresenta dunque una piattaforma per coordinare e potenziare queste relazioni, creando un’alternativa alle istituzioni occidentali. Ogni forum approva un piano per i due anni seguenti che prevede lo sviluppo di diverse forme di cooperazione economica e finanziaria, come l’erogazione di prestiti e di aiuti allo sviluppo, che interessano diversi settori (infrastrutture, agricoltura, sviluppo tecnologico, progetti sociali). Nel corso di questi forum il governo cinese ha annunciato la cancellazione del debito contratto dagli stati africani per un valore superiore a 2 miliardi di dollari e lo stanziamento di notevoli prestiti (10 miliardi di dollari nel 2006, 20 miliardi di dollari nel 2010 destinati allo sviluppo delle infrastrutture, dell’agricoltura, della manifattura e delle piccole e medie imprese).[iv] Il 3 e 4 settembre 2018 Pechino ha ospitato la settima edizione del Forum, al quale hanno preso parte oltre 50 capi di stato e di governo africani e attori internazionali. Il presidente della RPC Xi Jinping ha annunciato lo stanziamento di altri 60 miliardi di dollari per l’Africa in forma di prestiti, linee di credito, fondi speciali, sgravi fiscali e progetti infrastrutturali, stessa cifra di aiuti stanziata nei tre anni precedenti. Questo impressionante flusso di investimenti deve essere considerato nell’ambito del nuovo grande progetto lanciato dalla RPC nel Forum del 2013: la One Belt One Road (OBOR), definita anche Belt and Road Initiative o Nuova Via della Seta. L’OBOR è un piano commerciale e infrastrutturale di ammodernamento transcontinentale, che prevede la costruzione di una cintura di trasporti e servizi, terrestri e marittimi, al fine di collegare la Cina all’Africa, all’Asia e all’Europa, e di consolidare la sua egemonia mondiale. Nel caso specifico dell’Africa è prevista la costruzione di una rotta via mare e di investimenti per lo sviluppo logistico del continente, in particolare di determinati paesi strategici, con la costruzione di nuove linee ferroviarie e l’ammodernamento di porti come Gibuti, Tripoli, Port Said e Lagos.[v] L’Unione Africana ha riconosciuto l’OBOR come progetto complementare agli obiettivi di Agenda 2063, un piano di sviluppo infrastrutturale che mira alla trasformazione socio-economica del continente africano, e ha deciso di aprire una sua sede a Pechino, come segno della volontà di rivestire un ruolo attivo nei processi decisionali della Nuova Via della Seta.[vi]

L’impegno cinese in Africa viene guidato dal concetto della win-win cooperation, che consiste nell’instaurare relazioni economiche da cui possono trarre vantaggio sia la RPC che gli stati africani. La strategia della RPC mostra sostanziali differenze rispetto al modello occidentale, in quanto basata sul principio di non interferenza e sulle nozioni di eguaglianza politica, di indipendenza e di autodeterminazione degli stati africani. I paesi del continente africano possono dunque avere accesso a prestiti agevolati svincolati da qualsiasi criterio di condizionalità economica e politica.

Sebbene l’intervento cinese in Africa presenti numerosi aspetti positivi, emergono anche diverse criticità. L’arrivo della RPC in Africa è riuscito a ridare al continente un valore reale, risvegliando l’interesse della comunità internazionale per le terre africane, a lungo dimenticate e sottovalutate. Inoltre, la diffusione di prodotti a basso costo e la costruzione di importanti infrastrutture hanno permesso un miglioramento delle condizioni di vita della popolazione africana e una consistente diminuzione della disoccupazione. Tuttavia, non sono da sottovalutare il forte danno ambientale e i pericolosi effetti competitivi per alcuni settori dell’economia locale, generati dalla massiccia importazione di prodotti cinesi a basso costo. Risultano ancora problematiche le condizioni di lavoro degli operai africani nelle società cinesi: in Zambia gli operai sono costretti a lavorare senza sosta in zone a rischio, con insufficienti dispositivi di protezione e perennemente sotto minaccia di licenziamento. Infine, la RPC sostiene militarmente regimi dittatoriali responsabili di gravi violazioni dei diritti umani. Analogamente alle potenze occidentali, la Cina infatti sfrutta le situazioni di conflitto per avere accesso alle risorse e far circolare le proprie armi in Africa.

 

La Repubblica Italiana in Africa

La presenza italiana in Africa invece rimane estremamente limitata e inferiore al potenziale per tutto il corso del Novecento: il continente africano si è limitato infatti a rivestire un ruolo marginale nella politica estera della penisola, che ne ha fortemente sottovalutato l’importanza e le potenzialità.

Da tale quadro di scarsa presenza economica ed esigua influenza politica si distacca solamente l’Eni, multinazionale italiana dell’energia che è attiva in Africa fin dagli anni cinquanta ed è riuscita a imporsi come principale operatore petrolifero mondiale nel continente africano. Proprio grazie ai cospicui investimenti di Eni è stato possibile porre le basi per una riscoperta di interesse da parte dell’Italia per gli stati africani. Negli ultimi anni si è assistito infatti a un improvviso e consistente aumento degli investimenti diretti esteri italiani verso il continente e in poco tempo l’Italia è tornata in cima alla classifica degli investitori in Africa, collocandosi come terzo investitore mondiale.

A differenza dell’approccio sistematico e organizzato del governo della Repubblica Popolare Cinese, l’intervento italiano in Africa non è guidato da una chiara strategia statale. Tuttavia, vi sono iniziative di singoli enti o imprese italiane che meritano di essere prese in considerazione. Uno degli attori pubblici più rilevanti presenti in Africa è l’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo, che sebbene sia nata da pochi anni è già operativa nel continente africano con diversi progetti orientati allo sviluppo rurale, al supporto delle imprese e del settore pubblico africani e all’intervento umanitario. Di grande rilievo sono anche le numerose Organizzazioni Non Governative, come il Centro Laici Italiani per le Missioni (CeLIM), che ha contribuito a migliorare sensibilmente le possibilità lavorative di molti giovani in Zambia grazie alla creazione dello Youth Community Training Centre.

Tra le imprese italiane presenti in Africa emergono per importanza Eni, Salini Impregilo e il Gruppo Trevi. L’impegno del gruppo Salini Impregilo in Africa risale agli anni cinquanta e ha permesso la realizzazione di progetti in 40 stati africani in tutti i settori delle grandi infrastrutture, tra i quali si distinguono GIBE III e GERD in Etiopia (le più grandi dighe in Africa). La costruzione di tali impianti idroelettrici ha consentito la creazione di migliaia di posti di lavoro e ha costituito un impulso alla crescita economica dello stato africano. Inoltre, la popolazione ha beneficiato di corsi di formazione professionale e della costruzione di scuole e di strutture sanitarie.

Tuttavia, gli interventi delle aziende italiane nei settori dell’estrazione petrolifera e della costruzione delle infrastrutture hanno presentato numerosi aspetti problematici. L’attività di estrazione petrolifera di Eni in Congo ha causato ingenti danni ambientali: l’acidificazione del terreno, l’inquinamento delle falde acquifere e dell’aria hanno reso impossibile praticare la pesca e l’allevamento e hanno provocato un consistente peggioramento delle condizioni di vita della popolazione locale. Analoghe problematiche sono state osservate in Etiopia a causa della costruzione delle dighe da parte di Salini Impregilo: i danni ambientali minacciano la sicurezza alimentare di centinaia di migliaia di indigeni, che sono costretti a subire violenze e trasferimenti forzati.

 

Le due strategie a confronto

Emerge chiaramente che esiste una profonda differenza tra l’approccio perseguito dalla RPC e quello italiano in Africa. Il continente africano riveste un ruolo molto rilevante nella strategia del governo cinese, che negli ultimi venti anni ha impegnato ingenti risorse per acquisire il controllo delle materie prime localizzate in Africa (e in altre regioni del mondo), di cui ha fortemente bisogno per sostenere la propria straordinaria crescita economica e per soddisfare la domanda interna. Inoltre, il continente nero rappresenta una delle destinazioni della diaspora cinese, favorita dal governo per alleviare la pressione demografica in Cina, creare occupazione e gestire l’incremento del consumo di beni e servizi, prodotto dal miglioramento degli standard di vita sperimentato dalla popolazione cinese. Di conseguenza, il governo cinese, che riveste un ruolo centrale nelle attività economiche e commerciali dello stato, spinge tutti i soggetti economici ad aderire ai suoi obiettivi di investimento in Africa e favorisce il consolidamento della presenza cinese nel continente. Le aziende cinesi infatti possono contare sul completo appoggio dello stato in termini di finanziamenti, di prestiti agevolati e dell’accesso privilegiato a contatti governativi esteri. Tali vantaggi consentono alle compagnie cinesi di vincere la concorrenza e di assicurarsi la maggior parte delle gare d’appalto.

Al contrario, nella strategia del governo italiano gli stati africani rivestono solamente un ruolo marginale e l’impegno italiano nel continente rimane limitato a iniziative improvvisate e altalenanti orientate sul breve termine. Sebbene le aziende italiane abbiano enormi potenzialità in Africa date dai prodotti di alta qualità del made in Italy e dalle competenze nel settore dello sviluppo sostenibile, la loro presenza nel continente rimane molto limitata. Il principale fattore alla base del mancato sviluppo della presenza italiana in Africa è la totale assenza di sostegno del sistema bancario-creditizio e delle istituzioni di supporto pubblico nazionali. A differenza delle aziende cinesi, le imprese italiane non possono contare su finanziamenti statali dedicati e di conseguenza non possono competere con la concorrenza cinese. Il mancato sostegno statale e la forte discontinuità nella politica estera italiana costituiscono due fattori estremamente penalizzanti per le aziende italiane, come testimonia Paolo Porcelli, amministratore delegato della Cooperativa Muratori e Cementisti di Ravenna (Cmc), che opera in Mozambico da trent’anni.[1] Porcelli afferma che sebbene vi siano enormi possibilità per le imprese italiane in Africa, si soffre l’assenza del sistema bancario italiano e, mancando il necessario supporto finanziario, risulta impossibile competere con i cinesi che finanziano intere grandi opere grazie alle risorse statali.

Ulteriori fattori che incidono negativamente sulle possibilità di espansione delle società italiane in Africa sono la comunicazione mediatica pervasa di stereotipi tradizionali, che rallenta la percezione collettiva delle opportunità offerte dalle economie africane in crescita, l’assenza di coordinamento tra le aziende e l’insufficiente organizzazione per affrontare i mercati internazionali.  Il personale delle imprese italiane infatti non dispone spesso di sufficienti conoscenze linguistiche e manca la conoscenza della struttura geografica ed economica del continente e delle dinamiche di sviluppo locali.

 

Per concludere

Da quanto emerso dalle mie ricerche posso affermare che gli investimenti della RPC abbiano un impatto più positivo sul benessere delle popolazioni africane rispetto a quelli italiani. L’arrivo della Cina in Africa ha permesso di spezzare il controllo che gli stati occidentali detenevano sul campo delle risorse naturali africane e ha consentito al continente africano di abbandonare il ruolo marginale a cui era stato condannato dalle potenze occidentali per iniziare a essere considerato come importante destinazione di investimenti.[vii] Inoltre, l’aumento degli scambi commerciali tra Cina e Africa riapre delle possibilità per il commercio africano che le misure protezioniste occidentali avevano negato. La RPC si è impegnata nello stringere relazioni economiche con gli stati africani basate su mutui benefici e su un rapporto di parità, a differenza del tradizionale approccio “paternalista” occidentale. Grazie alla costruzione di scuole, strade, ferrovie e di ospedali la RPC ha contribuito a un reale miglioramento della vita locale. Diverse indagini mostrano infatti che la presenza cinese gode di un consenso diffuso in numerose regioni dell’Africa, venendo spesso preferita rispetto all’intervento occidentale. Tuttavia, la Cina deve impegnarsi per migliorare le condizioni di vita dei lavoratori africani, soprattutto nel settore dell’estrazione mineraria. Gli stati africani spesso condividono parte della responsabilità per le pessime condizioni di lavoro che gli operai locali devono sopportare. Risulta quindi fondamentale per i diversi governi africani dotarsi di nuove e chiare regolamentazioni ambientali, politiche e lavorative. Inoltre, in numerosi paesi emerge la necessità di incrementare i fondi e il personale a disposizione del governo, al fine di garantire il rispetto delle leggi da parte degli investitori stranieri e di assicurare una maggiore tutela ai propri cittadini lavoratori.

 

NOTE

[i] Gian Paolo CALCHI NOVATI, Pierluigi VALSECCHI, Africa: la storia ritrovata, Roma, Carocci, 2016, p. 46

[ii] Moyo DAMBISA, Dead Aid: Why Aid Is Not Working and How There Is Another Way for Africa, Allen Lane, Penguin Books, Londra, 2009, pp. 48-67

[iii] Maddalena PROCOPIO, Investimenti: chi gioca la partita in Africa, in ISPI, ottobre 2018, https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/investimenti-chi-gioca-la-partita-africa-21298, consultato il 7.11.18

[iv] Giovanni CARBONE, Gianpaolo BRUNO, Gian Paolo CALCHI NOVATI, Marta MONTANINI, La politica dell’Italia in Africa, ISPI, 2013, p. 54

[v] Paola BOSSO, “I nuovi enormi investimenti della Cina in Africa”, in Il Post, 4 settembre 2018, https://www.ilpost.it/2018/09/04/i-nuovi-enormi-investimenti-della-cina-in-africa/, consultato il 15.09.18

[vi] Maddalena PROCOPIO, “Forum Cina-Africa: cosa è cambiato in 18anni?”, cit., https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/forum-cina-africa-cosa-e-cambiato-18-anni-21173, consultato il 15.09.18

[vii] Moyo DAMBISA, Winner take all “China: Race for Resources and What it Means for Us, cit., p. 89

 

 

Riferimenti bibliografici

Gian Paolo CALCHI NOVATI, Pierluigi VALSECCHI, Africa: la storia ritrovata, Roma, Carocci, 2016

Giovanni CARBONE, Gianpaolo BRUNO, Gian Paolo CALCHI NOVATI, Marta MONTANINI, La politica dell’Italia in Africa, ISPI, 2013

Moyo DAMBISA, Dead Aid: Why Aid Is Not Working and How There Is Another Way for Africa, Allen Lane, Londra, Penguin Books, 2009

Moyo DAMBISA, Winner take all “China: Race for Resources and What it Means for Us, New York, Basic Books, 2012

Torturarli a casa loro? Io sto con Samed

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di Andrea Inglese

Certo che vorrei essere un rappresentante della classe media durante le sue due settimane ufficiali di vacanza da passare in modo spensierato e certo che vorrei mantenere lo spirito anarchico che non vuole né patria né padroni, ma le notizie che inevitabilmente leggo sulle nuove strategie messe in opera dallo Stato italiano con il solidale sostegno dell’Unione Europea per risolvere il problema del flusso di migranti dalla Libia all’Italia mi procurano un voltastomaco ben superiore rispetto a tutti i disagi della canicola epocale.

Mio padre e le sue mogli

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di Ruska Jorjoliani

Non mi ha mai detto che aveva già avuto una moglie, prima di mia madre. Ne sono venuta a sapere per caso, giusto qualche anno fa, e ho cercato in modo ossessivo di saperne di più. “Erano molto giovani e ingenui” mi ha detto la zia. “Che t’importa?” si è meravigliato lo zio. Solo una loro cugina è stata disposta a dirmi di più: “Lei era molto bella, lui è andato a fare il militare in un paese baltico, c’è rimasto per più di un anno e quando è tornato era come se si fosse guastato qualcosa, come se non si riconoscessero più”.
Volevo capire mio padre, quest’uomo taciturno facile

Andare a scuole

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Guido Canella, centro civico e scuole a Pieve Emanuele
Guido Canella, centro civico e scuole a Pieve Emanuele

di Gianni Biondillo

Da giovani studenti del Politecnico si andava in giro per architetture. Non solo monumenti insigni del passato, molto più spesso si visitavano edifici contemporanei. Non era raro vederci davanti a palazzi, sedi comunali, collegi o scuole, intrufolarci dentro, fotografare di rapina. Prima a Milano, poi, allargando il raggio, nella prima cintura milanese, fino a puntate in macchina verso il varesotto o nel pavese. Cercavamo lavori di professori della nostra facoltà, volevamo capire come un progetto, quella cosa che imparavamo a fare sulla carta, diventasse materia, spazio, architettura. Mi ricordo discussioni accese su chi preferiva l’intransigenza brutalista di Canella, l’eleganza di Caccia Dominioni, il postmodernismo di Aldo Rossi. C’era chi puntava sulla tradizione modernista di Gentili Tedeschi, chi sulla “misura lombarda” di Zanuso.

Probabilmente sembravamo curiosi come turisti, forse un po’ fanatici, come un qualunque appassionato è, in fondo. A ben vedere andavamo a studiare edifici che furono costruiti proprio per noi, per quella generazione di baby boomer nata con la crescita economica degli anni sessanta. Tutto era possibile in quegli anni, il futuro, il progresso sembravano fuori discussione. I bambini di quel mondo, qualunque fosse la loro estrazione sociale, avevano il diritto a strutture adeguate alla loro istruzione, alla loro crescita come cittadini. Quando divenni studente d’architettura quell’ideologia novecentesca stava già tramontando. Crisi petrolifere, economiche, demografiche. Ma in noi c’era ancora la voglia di imparare dalla buona architettura.

Aldo Rossi, atrio della scuola di Broni

Mi chiedo se oggi i giovani studenti del mio Politecnico si organizzino ancora per queste curiose gite fuori porta. Quello che per me era sostanzialmente contemporaneo sarebbe, per loro, Storia. D’altronde è nella lunga durata che una architettura dimostra la sua capacità di diventare significativa, necessaria. Time is on my side, cantavano i Rolling Stones. I tempi dell’architettura scavalcano le generazioni. E chi la abita, chi la usa, se ne appropria facendone un po’ quello che vuole. Oggi che il culto su Aldo Rossi si è un po’ appannato, rivedere la sua scuola a Broni, uno degli edifici all’epoca più pubblicati al mondo, con gli intonaci sbollati, le pensiline arrugginite, dimostra quanto il fascino di Rossi stesse più nei suoi splendidi disegni che nella sua capacità di costruttore. Così come vedere oggi la simmetria monumentale dell’atrio con la fontana triangolare, smorzata da cose banali, della vita quotidiana, una bacheca, un paio di armadietti, alcune piante, la rende più umana. Sono bambini, sono insegnati, bidelli, che vivono questi spazi, solo la capacità di essere flessibili, adattabili, li fa ancora vivi, emozionanti.

Scuola Enaip di Enrico Castiglioni a Busto Arsizio

Consiglierei davvero, all’ipotetico gruppo di giovani studenti, di andare a fare visita a queste architetture. Scoprirebbero l’esistenza di un progetto collettivo di architettura sociale che, coinvolgendo le migliori firme all’epoca in circolazione, ha saputo nobilitare i paesi e le periferie della più grande area produttiva del Paese. Spesso sperimentando forme che forse sembravano astruse, azzardate ma che oggi riempiono di tenerezza chi le osserva. Ammirare l’opera del meno famoso Enrico Castiglioni, architetto bustocco capace di immaginare scuole sospese su ponti in cemento armato, con uno sguardo che alcuni teorici oggi chiamano “retrofuturista”. Cioè quell’idea di nostalgia per i futuri passati che non abbiamo vissuto. Quel periodo visionario che ci fa associare gli autogrill di quegli anni alle astronavi, le stazioni agli astroporti. Quando essere architetti non era una cosa che aveva a che fare semplicemente col gusto personale, l’effimero, il capriccio, ma significava sentirsi investiti da un ruolo, un dovere sociale irrinunciabile.

(precedentemente pubblicato su Casa Vogue, ottobre 2018)

Dietro la maschera del sonno il cervello piange

6


 
di Mariasole Ariot
 
Una copertura: dietro la maschera del sonno il cervello piange. Il mutismo dei lineamenti, l’inflessione straniera, appena piegata sul bordo: non dicono niente.
Questa apparente nuova cera è un frutto chimico, composizione di elementi. La lingua non batte, e voi cosa vedete? Quando uno sguardo perfora e si acceca trafitto da se stesso, e vede il retro senza aver mai notato la fronte.
E cosa vedete voi – di questa mascherata silenzosa, che ha perso i denti nella muta, di questa cosa che credete sia passato e invece resta. Tutto l’inchiostro delle mani è ora rappreso nella zona cava dell’interno, dove tace, mentre si dice: è solo un momento.
Il bianco che ho ingoiato per secoli ha seccato la lingua.

***

Crolla il rovescio dei mondi sulla tua faccia d’animale, e cade tra intenti e milioni di corpuscoli conficcati nella lingua.
Ricordi i ricordi della prima nascita? Ricordi la tragedia?
Quando le foglie dicevano la stagione secca, e tu scricchiolavi sulla mia schiena costole e polmoni. Il volto che mi hai creato addosso non mi appartiene: una mandria infuriata
di ossicine.

***

La notte poi dilata le ferite, questa lingua nera degli sconosciuti, i passati che si muovono nei sotterranei dei presenti dove tu affili gli strumenti a perforare le tane che mi hai scavato negli occhi. Escono bulbi dalle finestre come linci impazzite, uomini con la testa separata, membra putrefatte – e in questo buio crepano le cose, si angosciano contenuti e contenitori, uno sguardo fisso che dice colpevolezza, che infrange il tempo sicuro della gestazione.
La protezione non è mai abbastanza, l’ombra che mi hai infilato nella bocca parla e dice: un reato d’esistenza.

***

Siamo formati da lividi e da richiami di parole d’antenati, ci sediamo calmi nell’attesa prossima di vedere aprire una porta, far entrare il sonno nella stanza, aprire le bocche e infilarcelo dentro a forza fino a quando raggiunge le parti più alte, il principio di ogni cosa. Così decidiamo per la caduta: stenderci immobili ad est, raccogliere le piante morte del giorno e darci vita nella massa scura del notturno – hai ascoltato, madre, questo canto di sirena, l’hai seguito? Hai ancora la coda lucida e le mani fasciate, ti sono caduta dalle braccia.
Il giorno non arriva se non per tranciare i tempi, dividere gli spazi, mentre gruppi di ragazzine ballano sulla collina degli accigliati, quando le serpi entrano sottopelle e si muovono premendo verso l’esterno per urlare il loro gioco preferito. Nascondersi, non farsi mai più trovare, la paura della luce.

***

Quando dire – allora? : è finito

Jonas Mekas. Anti-100 Years of Cinema Manifesto

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[Pubblichiamo qui la traduzione del manifesto che Jonas Mekas scrisse in occasione del centenario della nascita del cinema. Il testo fu  presentato all’American Center di Parigi l’11 febbraio 1996, e ci pare ancora di particolare rilevanza: al di là delle misure agiografiche, è lo studio dei materiali che ci deve sopratutto interessare, e per questo bisognerebbe incominciare a proporre e a tradurre quei testi e quei film momentaneamente sequestrati negli impedimenti della lingua. ]

 

Anti-100 Years of Cinema Manifesto

Come sapete bene è stato Dio a creare     questa Terra e ogni cosa sopra di essa. E pensava che tutto fosse grandioso. Tutti i pittori, i poeti e i musicisti cantavano e celebravano insieme la creazione […]. Ma mancava ancora qualcosa. Così, grossomodo 100 anni fa, Dio decise di creare la cinepresa. E fece proprio così. Creò poi un regista, e gli disse: “Qui c’è uno strumento chiamato cinepresa. Vai a filmare e a celebrare la bellezza della creazione e i sogni dello spirito umano, e fai tutto divertendoti”. Ma al diavolo ciò non stava bene. Quindi mise un borsone di soldi davanti alla telecamera e disse ai registi: “Perché volete celebrare la bellezza e lo spirito del mondo quando potreste guadagnare con questo stesso strumento?”

Credeteci o no, tutti i cineasti si gettarono sul sacco dei soldi. Così il Signore si rese conto di aver fatto un errore. Quindi, circa 25 anni dopo, per correggere questo suo stesso errore, egli creò i cineasti d’avanguardia, e gli disse: “Ecco la cinepresa. Prendetela e andate nel mondo e cantate la bellezza di tutta la creazione, e fate tutto divertendovi. Ma sappiate che farete fatica a farlo, e non guadagnerete mai nulla con questo strumento.”

Così parlò il Signore a Eggeling, a Germaine Dulac, a Jean Epstein, a Fernand Leger, a Dmitri Kirsanoff, a Marcel Duchamp, a Hans Richter, a Luis Bunuel, a Man Ray, a Cavalcanti, a Jean Cocteau, e a Maya Deren, e a Sidney Peterson, e a Kenneth Anger, a Gregory Markopoulos, a Stan Brakhage, a Marie Menken, a  Bruce Baillie, a Francis Lee, a Harry Smith e  a Jack Smith e a Ken Jacobs, a Ernie Gehr, a Ron Rice, a Michael Snow, a  Joseph Cornell, a Peter Kubelka, a Hollis Frampton e a Barbara Rubin, a Paul Sharits, a Robert Beavers, a Christopher McLaine, e a Kurt Kren, a Robert Breer, a Dore O, a Isidore Isou, a Antonio De Bernardi, a Maurice Lemaitre, e a Bruce Conner, e a Klaus Wyborny, a Boris Lehman, a Bruce Elder, a Taka Iimura, a Abigail Child, a Andrew Noren, e a  molti altri, molti altri attorno al mondo.

Presero allora le loro Bolex e le loro piccole telecamere da 8mm e Super 8 e iniziarono a filmare la bellezza di questo mondo e le complesse avventure dello spirito umano, e gli stessi cineasti si stanno ancora divertendo molto nel farlo. E i film non portano soldi e non servono a ciò che è chiamato “l’utile”. E nel mentre, i musei di tutto il mondo festeggiano il centesimo anniversario del cinema, e tutto gira ancora attorno alla loro amata Hollywood. E non si fa menzione alcuna delle avanguardie o dei registi indipendenti del nostro cinema. Ho visto le brochure, i programmi dei musei, degli archivi e delle “cinematheques” di tutto il mondo. Ma questi dicono: “non ci interessa il vostro cinema”.

Nei tempi del gigantismo, degli spettacoli, delle produzioni cinematografiche da cento milioni di dollari, voglio parlare per i più piccoli e invisibili atti dello spirito umano: così sottili e così piccoli che muoiono quando vengono portati fuori sotto i riflettori. Voglio celebrare le piccole forme del cinema: la forma lirica, il poema, l’acquerello, l’etude, lo schizzo, il ritratto, l’arabesco, le bagatelle e le piccole canzoni da 8 mm. Nel tempo in cui tutti vogliono avere successo e avere qualcosa da vendere, voglio celebrare coloro che abbracciano il fallimento sociale e anche quello quotidiano  pur di inseguire  l’invisibile e  le cose personali che non portano né denaro né pane e non fanno la storia contemporanea, ma neppure la storia dell’arte o qualsiasi altra storia. Io voglio sostenere l’arte che si fa l’uno per l’altro, tra amici.

Sono in mezzo alla folle autostrada dell’informazione e sto ridendo perché una farfalla su di un fiorellino da qualche parte in Cina ha appena battuto le ali, e so che l’intera storia e l’intera cultura cambieranno drasticamente a causa di quello svolazzare. Una cinepresa Super 8 ha creato un piccolo ronzio da qualche parte […] e il mondo non sarà mai più lo stesso.

La vera storia del cinema è una storia invisibile: la storia di amici che s’incontrano, che fanno le cose che amano. Per noi il cinema incomincia ad ogni nuova vibrazione del proiettore, ad ogni nuovo ronzio delle nostre cineprese. E ad ogni nuova vibrazione e ad ogni nuovo ronzio, i nostri cuori fanno un balzo in avanti, cari amici!

in collaborazione con il progetto
di ricerca cinematografica ⇨ La Camera Ardente

I giochi di Ryan. Analisi di un video su youtube

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di Alberto Brodesco

Ha avuto una certa risonanza la notizia, pubblicata da Forbes, che una delle star più ricche di YouTube è un bambino di sette anni. Grazie al suo canale, “Ryan ToysReview”, Ryan ha guadagnato in un anno, secondo la stima di Forbes, 22 milioni di dollari. Il canale di Ryan contiene essenzialmente recensioni di giocattoli e video di “unboxing”, ovvero spacchettamento di regali – un genere, destinato in particolare ai bambini in fascia pre-scolare, che gode di un’enorme popolarità su YouTube.

Più che ragionare sul turbocapitalismo, sugli eccessi del mercato, sulla brandizzazione di un bambino, sui dilemmi etici del consumismo o sui meccanismi di divizzazione precoce, vorrei qui analizzare nel dettaglio un video che si intitola “Ryan Surprise Toys Opening Challenge with Toy Jellies”. Dura 13’15”, ed è stato pubblicato il 9 dic 2018 su un canale gemello, “Ryan’s Family Review”, rispetto a quello principale. Ha ricevuto (a febbraio 2019) circa 3.800.000 visualizzazioni.

Il video inizia con qualche secondo di riprese sfocate del soggiorno-cucina della casa dove Ryan abita con madre, padre e due sorelle, gemelle omozigote. La mamma di Ryan, che regge in mano la videocamera, torna a casa e chiama a voce alta il figlio, e poi il padre. Si sente una musica di fondo rockeggiante – basso, accordi di chitarra, batteria. A livello enunciativo, il fuori-fuoco e la ripresa in soggettiva connotano immediatamente il video come amatoriale, domestico.

Appena Ryan e suo padre arrivano di fronte a lei, la madre appoggia sul tavolo una borsa di plastica: “I’ve found something at Target” (una catena di supermercati). Ryan e il padre ne svuotano il contenuto, 10 sacchetti di “Ryan’s jellies”, bustine con dei regalini “a sorpresa”, dei pupazzetti gommosi schiacciabili. La madre si rivolge al figlio per dirgli: “Ryan’s jellies… Are you a jelly?”. Si tratta in effetti di oggetti di merchandising ispirati al canale di Ryan, la serie 1 delle “Mystery Jellies Figures” di marca “Ryan’s World” (TM). Parte ora la piccola sigla del canale.

In quello che si può definire un flashback, ritorniamo da Target, dove osserviamo la madre di Ryan mettere nel carrello le dieci bustine. L’espositore segnala che si possono trovare dieci figure diverse, che vanno da un mini-Ryan a un panda (di nome Combo) segnalato come raro. Il costo di ogni bustina è 5.99 dollari. Mentre è al supermercato, la mamma si imbatte anche in altri giocattoli di marca “Ryan’s world” – un triceratopo sonoro, un gioco da tavolo, macchinette di plastica, slime. Uno stacco di montaggio ci porta alla cassa automatizzata del supermercato, dove la mamma di Ryan passa una delle bustine sotto il lettore del codice a barre. Questa breve inquadratura funge da conferma indessicale, sonora (“bip”), del fatto che quel prodotto è stato effettivamente acquistato.

Il flashback finisce e si torna, dopo 2′, al punto in cui il video è iniziato. Si rivede la mamma che chiama Ryan e il papà. È una scelta enunciativa molto cinematografica: una sequenza (ben 20”) vista poco prima viene riproposta allo spettatore alla luce della competenza cognitiva acquisita grazie al flashback al supermercato. Lo spettatore rivede il sacchetto sapendo già, ora, cosa contiene.

La videocamera inquadra il tavolo pieno di giochi in primo piano. Ryan sta a sinistra, il padre a destra. Lo sfondo mostra la cucina della loro casa, ordinata ma non troppo: non si tratta di un set, è una casa vera. Nell’inquadratura sono a questo punto già presenti diversi Ryan: il bambino in carne e ossa e la sua fotografia che appare in ognuna delle dieci confezioni. Un ulteriore Ryan è raffigurato in forma di fumetto sulla t-shirt che Ryan indossa. Si assiste insomma a una proliferazione di Ryan, il quale, come un Gremlin, continua a moltiplicarsi da qui alla fine del video. Il primo sacchetto che viene aperto da Ryan contiene infatti un pupazzo gommoso di Ryan vestito da super-eroe. È un mulinello, una creazione di effetti a cascata che producono una mise en abyme del soggetto rappresentato. Ryan tiene in mano una bustina con la sua faccia dentro la quale c’è un pupazzetto con la sua faccia.

Il padre aprendo il pacchetto trova invece un gelato (“Ice cream guy”). Il terzo sacchetto recapita in mano a Ryan un altro Ryan. “Un duplicato!”, commenta la mamma fingendo entusiasmo. “Non sapevo che avessi un gemello”, aggiunge mentre colloca i due Ryan fianco a fianco. I successivi giochi sono un gaming controller (“Il mio preferito, finora”, nelle parole della mamma, che privilegia stranamente quest’oggetto al simulacro di suo figlio); un altro controller; poi il pupazzetto “raro”, il panda; un altro gelato. L’allegria si propaga contagiosa. Il gioco successivo, l’ottavo, è una provetta da laboratorio antropomorfa. Gli ultimi due regalini sono un coccodrillino (Gus) e un doppione del pur raro panda. La madre commenta che mancano, per completare la collezione, la pizza, il cartone di latte, le patatine fritte e il pallone da calcio.

Da qui in poi si entra nella parte meno interessante del video, puramente pubblicitaria. Ryan si fa seguire dalla videocamera della madre in una stanza che raccoglie tutto il suo merchandising (“Ryan’s world merch toy room”), disposto in una libreria. Posiziona i nuovi giochi in uno spazio libero. La madre passa in rassegna e pubblicizza gli altri prodotti esposti. La proliferazione di Ryan diventa ora parossistica, quasi un delirio narcisistico che vede l’inquadratura riempirsi di Ryan di ogni tipo, in versione pilota, astronauta, karateka, scienziato, eccetera. Il finale è promozionale, con la madre che suggerisce dove si può comprare cosa e lancia un concorso per trascorrere una giornata di gioco con Ryan.

In un sol colpo, Ryan’s Family Review riesce a metter in moto due fonti di guadagno, pubblicizzando il suo merchandising e promuovendo il suo canale. La pubblicità non serve più solo a vendere il prodotto ma anche a vendere se stessa. Si osserva una sovrapposizione inestricabile fra pubblicità dell’oggetto esibito (il giochino) e pubblicità (generatrice di visualizzazioni) del canale YouTube. Il prodotto esposto in vetrina viene mostrato anche per vendere l’intero negozio. La vetrina in cui esporre le merci è una merce essa stessa.

La strategia enunciativa, il particolare tipo di vetrinizzazione che abbiamo osservato, combina amatorialità e professionismo, linguaggio dell’home movie e linguaggio del cinema: narrazione piatta più flashback; camera a mano, soggettiva, fuori fuoco più alta definizione; improvvisazione più studiatezza; spontaneità più recitazione; piccola manualità più regole del marketing; ingenuità più posa; dimensione del gioco più business. Non sembra simulata la stupefazione del bambino mentre apre i regali marchiati con il suo brand. Mentre certo appare forzata la reazione degli adulti, appare finta la loro eccitazione. Ma non recitiamo tutti, nella vita, la parte degli entusiasti di fronte all’entusiasmo dei bambini?

In questa tensione tra artigianato e industria, tra creazione e algoritmo, il piccolo Ryan diventa una sineddoche. Nella mediasfera contemporanea il soggetto è ridotto al ruolo di un Umpa Lumpa nella fabbrica di cioccolato di Roald Dahl, immerso in ciò che gli piace eppure alienato, incapace di allontanarsi dal suo feticcio e di riconoscerlo come tale. Come gli Umpa Lumpa venivano pagati in cioccolato, quindi con il frutto stesso del loro lavoro (al netto ovviamente del plusvalore), il guadagno personale di Ryan coincide almeno per il momento con i giochi, ovvero con la merce che deve vendere.

 

Chilografia di Domitilla Pirro

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di  Marco Renzi        

Tutto comincia col sangue che «s’addensa in fili e grumi», con la materia che sarà il filo conduttore dell’intero romanzo assieme al peso di Palma, Mina per i famigliari e Palla per le perfide cape scout. Anche la numerazione dei capitoli è scandita dai chili della protagonista: da embrione di pochi grammi nelle prime pagine fino al quintale e mezzo delle ultime, il lettore percorre con lei le tappe del suo disagio, le risalite, le conquiste e i grandi capitomboli. Già, perché la burrasca è sempre all’orizzonte: del resto, la famiglia non è delle più equilibrate.

Mamma Stefania in fondo fa quel che può, ma la sua incertezza e la sua immaturità la precedono; e lo stesso vale per il padre, Sauro, in seguito allontanato da Stefania per far posto a un altro uomo. Clara, all’apparenza la sorella perfetta, ha nei confronti di Palma un atteggiamento freddo e indifferente: si dimostra in effetti la sorella che nessuno vorrebbe; almeno non quando uno è consapevole d’esser tutto men che perfetto.

Durante la sua parentesi da ragazza normopeso, Palma incontrerà Giulio, col quale le cose non andranno bene: il cibo allora sarà per lei di nuovo un rifugio. Ma per scappare del tutto, Palma si creerà un alter-ego grazie al gioco per PC Simcity, per un po’ di tempo il suo mondo parallelo, e nel quale conoscerà Tato76. Con lui approfondirà la conoscenza tramite un sito per amanti dell’adipe:  Angelo, questo il nome che si nasconde dietro al nick, al contrario di molti, è attratto dal suo peso, ne è sessualmente stimolato.

La loro conoscenza, in breve trasmigrata dal virtuale al reale, li porterà prima a una relazione idilliaca e dopo a una convivenza che pian piano, per Palma, si farà sempre più prossima a una prigionia. Angelo rivela infatti una natura morbosa, violenta; un attaccamento alla donna e alla sua grassezza che pare un rovesciamento del cacciatore di anoressiche messo in scena da Garrone in Primo amore.

Palma troverà quindi un modo per reagire a tutto ciò, per uscire dall’angosciosa spirale di sottomissione all’interno della quale è finita.

Diario vorace di Palla, così recita il sottotitolo del libro; un sottotitolo fuorviante, dato che il romanzo non è né un diario né tanto meno una narrazione in prima persona. C’è però un narratore esterno che non abbandona mai il suo personaggio; lo segue in ogni difficoltà, nell’inadeguatezza che segna al principio il suo essere bambina, ragazza e poi donna; il suo essere figlia e sorella, videogiocatrice, amica virtuale e fidanzata; ma soprattutto il suo essere grassa, vera causa e conseguenza di ogni inquietudine.

Domitilla Pirro dipinge un complesso ritratto di donna e non si ferma alla superficie del problema: la immette sin da subito in un sistema conflittuale, all’interno di una famiglia disfunzionale, ovvero un topos col quale è facile perdersi nei cliché, ma che in Chilografia ritrova davvero il suo senso, grazie a caratteri ben delineati, antieroi a loro modo sempre e comunque perdenti.

Come l’eroina di un videogioco, Palma dovrà combattere e sconfiggere i mostri che incontrerà a ogni livello, siano questi demoni interiori o in carne e ossa; dovrà lottare col suo corpo, poiché il corpo è il guscio dal quale vorrebbe fuggire, provando a dimagrire e riscrivendo se stessa all’interno di Simcity.

Anche a questo giro, Effequ fa uscire un romanzo, com’era stato per Cereali al neon di Sergio Oricci, che fa dialogare il corporeo con l’incorporeo; o meglio, che mette al centro il corpo accostandolo a strumenti che rimandano a una realtà virtuale. Se Oricci guardava alla contemporaneità attraverso il corpo dell’artista Silvano Rei, le cui installazioni visive digitali lo facevano saltare da una esperienza all’altra, Pirro invece si sofferma su un passato recente che parla anche all’oggi, dando ancor più risalto alla materia primordiale, alle viscere, alle budella, al cibo, alla digestione, al colore rosso vivo o scuro del sangue.

Lo stile è senz’altro uno dei punti di forza di Chilografia, ed è la stretta connessione tra forma e sostanza, realizzata per mezzo della varietà dei registri, a far fare al testo il salto di qualità. La lingua usata da Pirro è un italiano imperfetto ma quanto mai vivace: fa a cazzotti col dialetto romanesco e mescola l’alto col basso, lo splendido linguaggio infantile e le parole difettose delle chat, il tutto inframezzato dall’esasperato e viziato lessico famigliare. Una prosa ricca, articolata; ottima per descrivere l’eccesso di certe immagini e per dar vita al corpo sgraziato di Palma: una Pantagruel in miniatura, protagonista di un racconto tanto doloroso quanto divertente, disturbante e a tratti dolcissimo, e che di certo un lettore attento non potrà lasciarsi sfuggire.

Domitilla Pirro, Chilografia (Effequ, 2018)

NApolinaire Sud: Luigi Cinque + Jean-Charles Vegliante

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Composizione
di Luigi Cinque

Footballization: come raccontare dal basso la vita nei campi profughi palestinesi del Libano

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di Giuseppe Acconcia

Abbiamo assistito a Padova, nell’ambito delle iniziative a sostegno di Mediterranea, alla proiezione del documentario Footballization di Stefano Fogliata per la regia di Francesco Furiassi. L’idea è nata dall’incontro con le associazioni Tr3sessanta e Apri gli occhi senza freni con il collettivo Agosf, e dall’esperienza di vita nel campo profughi di Bourj El-Barajneh, un chilometro quadrato in cui oggi vivono 45mila persone, il triplo rispetto a qualche anno fa quando ancora non era scoppiata la crisi siriana.

La cultura delle élite vista da un disadattato

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di Giorgio Mascitelli

Il successo elettorale delle forze populiste ha prodotto  numerose riflessioni sulle ragioni della loro vittoria, tra le quali spicca quella compiuta da Alessandro Baricco su Repubblica, che ha dato inizio a un corposo dibattito sullo stesso giornale.  La tesi dello scrittore torinese che si sarebbe rotto un rapporto di fiducia tra èlite e gente comune, benché comprensibilissima e perfettamente giustificata dal suo punto di vista, mi ha sorpreso: dal mio punto di vista, certo quello forzatamente limitato di un disadattato al proprio tempo,  di un intruso che si è imbucato a un vernissage nella speranza di incamerare un paio di tartine al tavolo dei rinfreschi ma consapevole di non c’entrare nulla con le ragioni dell’inaugurazione,  che però ha vissuto gran parte della propria vita adulta sotto l’egemonia delle suddette élite, l’aspetto sorprendente di questa tesi è dovuto al fatto che mai come in quest’epoca la cultura delle élite è stata meno lontana da quella del popolo. Basti pensare semplicemente all’evidenza che in Italia fino a cinquant’anni fa èlite e gente comune parlavano letteralmente due lingue diverse; ma questo è solo un banale esempio, se si allarga lo sguardo non si può che notare come  dappertutto la cultura di massa abbia uniformato gusti, consumi culturali, mode e stili di vita. D’altra parte è vero che dal dopoguerra in poi non si è mai registrato uno scarto così grande nella ricchezza e nelle disponibilità economiche e, come cercherò di suggerire poi, forse c’è una correlazione tra i due fenomeni apparentemente di segno opposto.

Sia che si intenda  il termine èlite nel suo senso più specifico di gruppi dirigenti, cioè per l’Italia quelle poche centinaia di persone  referenti nazionali del sistema globale che occupano ruoli guida nell’apparato politico, militare, industriale, finanziario, mediatico, universitario e della ricerca, sia che si indichino in senso più ampio le classi elevate, quella che un tempo si sarebbe chiamata alta borghesia, è possibile affermare che il capitale culturale necessario per farne parte si è molto modificato negli ultimi trent’anni ( Bourdieu chiama capitale culturale quell’insieme di saperi non solo professionali, di solito ereditato dalla famiglia, necessari per il successo scolastico e per occupare posizioni di vertice nella società). In particolare nella formazione di questo capitale vi è stata una diminuzione del peso di una cultura generale a vantaggio di una specialistica, di quegli aspetti simbolici di appartenenza quali certe forme di etichetta e, in definitiva, un minor peso dello stesso capitale culturale nel determinare l’accesso alle sfere alte. E’ possibile vedere una traccia di questa trasformazione nel fatto che professioni come l’avvocato o il docente universitario che un tempo portavano quasi automaticamente a far parte delle élite in senso lato, oggi non sono più condizione necessaria né tanto meno sufficiente per accedervi, mentre emergono figure professionali per esempio nello spettacolo e nello sport, alle quali nel passato non sarebbe stato possibile compiere un’ascesa del genere.

Si potrebbe descrivere questo cambiamento come una tendenziale democratizzazione o la fine di forme di notabilato a favore di un sistema di libere opportunità e questo è  stato parzialmente vero almeno nella prima fase della globalizzazione specialmente nei paesi anglosassoni, ma questo fenomeno diventa più leggibile in un altro senso oggi: il complessivo ridimensionamento del peso del capitale culturale per le èlite rientra nel processo di eliminazione progressiva di ogni fattore  che non sia direttamente funzionale alla mera accumulazione di denaro. E’ insomma tutto ciò un esito del dispiegamento del disegno neoliberista in cui tutti gli ostacoli, ivi compressi quelli culturali, all’imporsi del gioco del mercato devono essere rimossi. Questa tendenza può essere sintetizzata dalla celebre battuta thatcheriana sul fatto che non esista una cosa chiamata società, ma solo individui che si comportano più o meno rettamente; nello stesso tempo man mano che un’idea di società diventa incomprensibile agli occhi dell’individualismo imperante la stessa idea di capitale culturale diventa sempre meno spendibile e sempre meno importante. In fondo per definire che cos’è un èlite, se al posto della società c’è solo il mercato, basta un misuratore astratto ma rigoroso come la quantità di denaro posseduto.

Che tale processo ovviamente induca anche nel contempo una minore capacità delle èlite di governare le tendenze sociali  appare essere un effetto collaterale di quel fallimento del neoliberismo di gestire il disagio della civiltà di cui ha parlato Massimo De Carolis ne Il rovescio della libertà. Se ogni misura e ogni scelta ha senso ed efficacia solo per aumentare e rafforzare la competizione, essa diventa inclusiva solo per i pochi soggetti che risultano vincitori, mentre per gli altri si traduce in un fattore di esclusione, di frustrazione e di marginalità. In una società così fatta prendono sempre più piede forme di dominio non troppo diverse da quelle tradizionali e diminuiscono invece le libertà individuali effettive e la partecipazione democratica. Ciò appare evidente se si prendono in esame tre aspetti cruciali della cultura attuale delle èlite. Alludo  in primo luogo alla cosiddetta condizione postmoderna del sapere, quella per cui ogni sapere importante  ha una validazione solo pragmatica  ossia un sapere vale solo se è spendibile sul mercato, che poi si traduce nella fiducia esclusiva oggi dominante  per la tecnocrazia; in secondo luogo al rifiuto dei limiti della condizione umana, alla non accettazione del fatto  che esistono “dei limiti intrinseci alle possibilità umane di controllo dello sviluppo sociale, della natura, del proprio corpo e degli elementi di tragicità inerenti alla vita e alla storia dell’uomo” ( Christopher Lasch La ribellione delle èlite, trad.it., Feltrinelli 1995); infine la convinzione che internet e il mondo virtuale siano potenzialmente lo strumento adatto per la risoluzione di ogni problema dell’individuo e della società, insomma quello che Evgeny Morozov ha chiamato soluzionismo.

Ciò che accomuna queste idee, prima ancora che la loro funzionalità al mercato,  è la loro natura pragmatica e, per così dire, la loro pura operatività. Questa assenza di contenuti valoriali è l’elemento che contraddistingue le élite del presente da quelle del passato ( affermo ciò in forma meramente descrittiva senza  nessun giudizio di merito implicito: le èlite del 1914 avevano una cultura con contenuti e ciò non impedì loro di accompagnare le rispettive nazioni al massacro della Grande Guerra). Da ciò deriva però un aspetto importante e cioè la maggiore contendibilità del loro ruolo da parte di qualsiasi gruppo che rispetti questo tipo di pragmatica: è il tipo di scenario su cui lavora Houellebecq in Sottomissione quando immagina l’ascesa al potere in Francia degli islamisti, ma è anche lo scenario in cui le forze sovraniste operano concretamente in tutti i paesi. In un certo senso le èlite, se non hanno una cultura contrassegnata da contenuti valoriali, finiscono con il diventare permeabili a gruppi che hanno successo secondo i loro stessi criteri pragmatici. Ciò accade soprattutto se anche la gente comune, il popolo, sperimenta un’analoga assenza di valori,  poiché le idee dominanti sono quelle delle classi dominanti in un contesto di generale depoliticizzazione come quello vigente oggi. Tale assenza di valori viene vissuta con maggiore inquietudine tra chi ha insuccesso nella competizione del mercato perché il perdente ha bisogno di appigliarsi a un fondamento che non è lambito, o quanto meno non sembra esserlo, dalla propria sconfitta.

I populisti reazionari che stanno spopolando un po’ dappertutto utilizzano proprio questo meccanismo: da un lato si adeguano a loro modo alle idee delle élite, non mettendo in discussione l’orientamento al mercato e all’accumulazione individuale di denaro, dall’altro offrono una prospettiva di senso simbolica allo stuolo dei vinti richiamandosi ai contenuti della tradizione reazionaria di tipo identitario e razzista. Del resto in una situazione in cui l’egemonia culturale è completamente  nella mani delle èlite il popolo o la moltitudine ( fa lo stesso) non contesta il sistema, ma si limita a chiedere dei risarcimenti simbolici per la sua adesione a esso.

In questo senso, i populisti reazionari a livello superficiale contestano il sistema, ma nel contempo,a livello subliminale, ne accettano la cultura e le idee di fondo, risultando rassicuranti a dispetto della loro evidente improvvisazione in molti campi.  Così, non è un caso che numerosi commentatori abbiano rilevato come le strategie mediatiche, culto della personalità e approccio semplicistico ai problemi, di leader di sistema, quali Renzi, Macron o Trudeau , non siano poi troppo diverse da quelle dei vari leader reazionari, ammesso e non concesso che gente come Trump od Orban non faccia parte del sistema.  Queste convergenze non vanno considerate come semplici somiglianze tattiche in un solo settore per quanto strategico come quello della comunicazione, ma sono appunto una conseguenza della medesima idea di cultura, che è poi quella delle élite: allo stesso modo le battute di Salvini contro gli intellettualoni e i discorsi delle élite sulla  scuola del futuro in cui le materie di studio saranno state abolite a favore di internet e didattica delle competenze sono due elementi della stessa serie logica e dello stesso campo culturale. La stessa polemica sulle fake news diffuse tramite i social dai populisti contrapposte a una fantomatica era della verità rappresentata dai media tradizionali appare, più che una difesa della correttezza dell’informazione,  un allarme  sulla proliferazione o meglio sull’uberizzazione di determinate tecniche comunicative che nella società dello spettacolo classica erano in mano a pochi operatori professionali del settore, se si analizzano gli standard comunicativi dell’era televisiva e di quella attuale.

Se le cose stanno così, uno degli esiti possibili di questo scontro tra élite e sovranisti, lungi dal diventare una battaglia frontale,  potrebbe essere la cooptazione dei leader più reazionari nelle èlite tramite la riformulazione del linguaggio delle stesse élite, che è poi il codice del politicamente corretto, in senso più sovranista e dall’altra parte tramite l’abbandono degli accenti più antiistituzionali  a vantaggio di un tono politico  in doppio petto. Del resto qualcuno l’aveva già scritto tanto tempo fa che il destino d’un volgo disperso che nome non ha è quello di trovarsi sul collo con il nuovo signore anche quello antico.

 

 

Fare ciò che è Giusto

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di Gianni Biondillo

Date le polemiche che leggo in queste ore, mi piacerebbe per una volta non buttarla in politica ma provare a “buttarla in cultura”. Credo che la nostra Milano abbia il diritto/dovere di avere un Giardino dei Giusti di rilevanza internazionale. Ne ha il profilo etico, la storia, i protagonisti. Il lavoro di Gariwo e del suo presidente Gabriele Nissim è davvero ammirevole ed encomiabile. Sogno un “Giardino dei Giusti di tutto il mondo” che diventi un polo di interesse, di raccoglimento e di studio non solo per i nostri cittadini, ma anche per ogni persona che transiti nella nostra città. Un monumento, nel senso più profondamente etimologico del termine: un monito.

Ecco perché reputo poco coraggioso l’intervento previsto al Monte Stella. Un progetto formalmente debole ed obsoleto che non cerca di vivere di luce propria ma che si depone in modo parassitario su un altro sito della memoria urbana. Un appendice, insomma, non un fulcro significativo. Dal punto di vista della composizione urbana è un errore clamoroso.

Il fatto che non ci si renda conto di una cosa così ovvia dimostra come ancora oggi l’eredità urbanistica del novecento non venga considerata una ricchezza da chi la amministra. Il Monte Stella è il più clamoroso fatto urbano di una città, Milano, che è la vera capitale nazionale dell’architettura e dell’urbanistica del ventesimo secolo. Un monumento alla memoria, ovvio. Un luogo identitario, condiviso, imprescindibile. Da conservare con zelo, diligenza, come si fa con una chiesa romanica o un palazzo rinascimentale. Nessuno si sognerebbe mai di porre un progetto di tale modestia nel mezzo di Campo dei miracoli a Pisa, in piazza Navona a Roma, o nel parco della Reggia di Caserta. Ciò che pare ovvio con il passato più remoto sembra non lo sia col novecento. Così ci ritroviamo con un capolavoro dell’architettura brutalista, il Marchiondi Spagliardi, studiato in tutto il mondo, che, non ostante il vincolo della sovrintendenza, cade a pezzi nell’indifferenza generale.

Abbiamo il diritto a un “Giardino dei Giusti di tutto il mondo” che sia degno di questa città. E il dovere di non sprecare questa occasione, questo obbligo etico, con un progetto frettoloso. Chi ha scelto per me quelle forme? C’è stato un concorso internazionale? Sono stati messi in gioco i migliori progettisti? Non accontentiamoci, insomma. Evitiamo di scadere nel classico “piuttost che nient l’è mej piutost”.

Io non sono fra quelli che dicono “no” per partito preso. A me piace rilanciare. La nostra città sta mettendo in gioco il suo futuro progettando ex novo le aree dei vecchi scali ferroviari. Un Giardino dei Giusti che diventi uno dei temi da mettere a bando su una di quelle aree, sarebbe una soluzione non solo coraggiosa ma anche di buon senso. Potremmo dedicare le giuste dimensioni a un monumento/giardino di tale importanza, far concorrere architetti di fama internazionale, definire un nuovo luogo simbolico della città (impattante come lo è il Memoriale di Eisenman a Berlino), dando un’anima ad uno spazio da riconvertire. Tutto ciò senza scarificare inutilmente la pelle sensibile dell’altro grande monumento urbano alla memoria che è il Monte Stella. La “montagnetta” della nostra infanzia.

(pubblicato ieri sulle pagine milanesi del Corriere della Sera)