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Conversazione con Ezio Sinigaglia sui suoi due romanzi Eclissi e Il Pantarèi.

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di Roberta Salardi

All’inizio si pone una questione di metodo. “Il suo progetto puntava dritto all’oscurità per cogliervi una luce. Era inesplicabile a lui stesso. Eppure era il progetto più forte e preciso che avesse mai formulato in vita sua.”: così l’incipit di Eclissi (Nutrimenti, Roma 2016, pag 7). Allo stesso modo si potrebbe ipotizzare che Il pantarèi (ora riproposto da TerraRossa edizioni, Bari 2019, a quasi trentacinque anni dalla prima edizione – SPS-Sapiens, Milano 1985) punti all’oscurità, alla complessità tipiche dei maggiori romanzi del Novecento, per cogliervi un’indicazione su come proseguire il lavoro in questo che diviene un genere completamente diverso nel secolo che ci precede.

Non è certo arbitrario questo parallelo metodologico o, se vogliamo, progettuale fra i miei due soli romanzi finora pubblicati. In più di un’occasione ho lasciato capire che l’incipit di Eclissi, “Il suo progetto puntava dritto all’oscurità per cogliervi una luce”, appeso lassù in cima alla prima pagina come un esergo, è anche una dichiarazione d’intenti, una promessa fatta al lettore più attento, o viceversa un monito rivolto a quello più frettoloso e meno disposto all’avventura. In questo senso, dunque, il progetto di Akron, il protagonista, coincide con il progetto dell’autore, ed è quindi lecito ipotizzare che non si tratti di un progetto isolato, ma che per l’autore scrivere voglia dire proprio questo: tuffarsi nelle tenebre per sfruttare la sorprendente potenza che una flebile luce può assumere quando è circondata dall’oscurità più totale. Perché naturalmente la luce che noi (intendo noi poveri artigiani della scrittura, che non osiamo più nemmeno chiamarci artisti), la luce che noi, dicevo, nella migliore delle ipotesi, riusciamo ad accendere è una fiammella davvero minuscola, come quella di un cerino, e dunque può essere di qualche utilità soltanto nelle tenebre assolute. Ma non credo che questo principio, nel quale adesso – a settant’anni – mi sembra condensarsi il segreto stesso della letteratura, mi fosse così chiaro a ventott’anni, quando concepii il progetto del Pantarèi e mi accinsi a realizzarlo. Il mio movente di allora era piuttosto, come ho cercato di chiarire nella Prefazione a questa seconda edizione, l’ambizione di dimostrare che il romanzo non era affatto morto. Certo, per realizzare un simile progetto era necessario calarsi a fondo dentro la vicenda del romanzo del Novecento e aprirsi una strada fra i cespugli dei suoi apparenti paradossi fino a trovare un filo di coerenza da seguire. Il che equivale forse a dire che occorreva inabissarsi nell’oscurità fino a cogliervi una piccola luce. Di questo però non ero consapevole a quei tempi: credo di essermi lasciato guidare dall’istinto o, se preferisce, dalla mia passione di lettore, che era già forte e consolidata, e dalla mia vocazione di scrittore, che cominciava ormai a palpitarmi sottopelle. In fondo il progetto del Pantarèi è nato nella mente di un ragazzo che, fino ad allora, aveva avuto della letteratura un’esperienza esclusivamente passiva: una mente ingenua e avventata, anche se provvidenzialmente armata di senso critico e ironia. Eppure questo romanzo si colloca così armoniosamente all’inizio del mio percorso, lungo e accidentato, di scrittore, che si direbbe un esordio studiato a posteriori.

 

A pagina 98 del Pantarèi in un momento di esaltazione il narratore protagonista leva una preghiera a padre Joyce: “Lode a te, organismo uno e trino. Gloria al padre intelletto, al cuore figlio e alla santa spiritualità del corpaccio nostro gaudente e dolente. Padre Joyce che sei nei cieli, posa i tuoi occhi sofferenti su di noi, […] Amen.” Se non bastasse questa dichiarazione di poetica, Il pantarèi si dimostra nel complesso joyciano: molte sono le parti di flusso di coscienza, le variazioni stilistiche di capitolo in capitolo, i giochi di parole, i termini-macedonia sintesi di più vocaboli, la radicale opposizione al linguaggio semplificato in auge nell’attuale industria editoriale. Nel romanzo successivo, Eclissi, è stata invece rintracciata da vari commentatori soprattutto l’influenza di Proust. Verso quali Maestri si sente in particolare debitore?

I due autori che lei cita, Joyce e Proust, costituiscono in effetti, con Svevo, la mia personale trinità letteraria: sono cioè i tre grandi sulle cui pagine mi sono formato come romanziere. Di conseguenza rappresentavano anche, per me, a quel tempo, tre padri, tre ingombranti modelli dai quali era necessario che mi allontanassi se volevo conquistare una mia autonoma personalità di scrittore. Il pantarèi mi ha offerto la preziosa occasione di separarmene mentre rendevo loro omaggio. Ciò detto, non posso negare che Joyce abbia nel Pantarèi un ruolo privilegiato, che sia una sorta di primus inter pares. E la buffa preghiera che Stern gli rivolge ne è la prova. La conferma viene da questa frase rivelatrice: “Ricordagli che, come tu hai stabilito, non vi sarà altro romanzo dopo di te.” Insomma, l’ho dichiarato esplicitamente: la mia intenzione di dimostrare che il romanzo non era morto, che al contrario aveva ancora un futuro, era principalmente una sfida a Joyce. Era una sfida ad armi impari, si capisce, ed era anche una dichiarazione d’amore. Ma, proprio come il mio protagonista Stern, io rifuggo, in ogni campo, dalle unioni monogamiche. Perciò l’amore da me portato a Joyce in quella mia stagione non esclude affatto, e neppure ridimensiona, l’amore per gli altri miei modelli. Il pantarèi è tutto un gioco a rimpiattino fra discorso esplicito sul romanzo del Novecento e discorso nascosto, crittografato, sullo stesso tema. Ciascuno degli otto autori trattati nel romanzo ha a sua disposizione un capitolo in cui si parla di lui nella parte saggistica e si celebra qualcosa di suo nella parte narrativa. La cosa è tutt’altro che scoperta, anzi, spesso è ben celata, ma chi ha pazienza (e una buona conoscenza degli autori in questione) se ne può sincerare. Ora, la maggior parte degli autori compare soltanto nel suo capitolo “di pertinenza”, Svevo e Proust affiorano invece in vari luoghi, anche – per così dire – in casa d’altri, e per finire Joyce mette lo zampino un po’ dappertutto. Posso aggiungere che il progetto del Pantarèi, che già accarezzavo da diversi anni, si fece più concreto grazie a una memorabile rilettura dell’Ulisse, durante una vacanza fuori stagione in Liguria, fra il settembre e l’ottobre del 1976. Quindi: sì, è vero, nel Pantarèi Joyce è primus inter pares. La stessa cosa accade, a ruoli in parte rovesciati, in Eclissi, dove il nume tutelare è Proust (la svolta irreversibile della narrazione è legata a un’irruzione violentissima di un ricordo involontario nella coscienza del protagonista), ma anche Joyce e Svevo ricevono i loro debiti omaggi, grazie all’occhieggiare continuo, dal passato, di Trieste e del suo dialetto (che Svevo parlava ogni giorno e che Joyce ha consacrato, facendone una delle tessere del mosaico linguistico di Finnegans Wake).

 

Uno dei più pesanti attacchi alla struttura del romanzo positivista da parte del romanzo moderno è quello al narratore onnisciente, come ben messo in luce a pag 63 del Pantarèi. Tuttavia Eclissi è interamente scritto in terza persona, nonostante l’abbondante uso dell’indiretto libero, e Il pantarèi in parte: come mai questa fedeltà alla terza persona?

Il ricorso alla terza persona non esclude affatto il sovvertimento della regola ottocentesca del narratore onnisciente. Un esempio mirabile di romanzo scritto in terza persona e dove nondimeno tutto è raccontato esclusivamente dall’interno della coscienza dei personaggi è Mrs Dalloway di Virginia Woolf, grandissima scrittrice che non figura nel canone del Pantarèi soltanto perché, nella particolarissima prospettiva critica del mio romanzo-saggio, ho inevitabilmente privilegiato il tema della destrutturazione del genere romanzo rispetto a ogni altro. Mrs Dalloway non è il solo esempio di questo tipo nella produzione di Woolf. Tutt’altro. Lo scelgo perché le sue modalità di scrittura sono facilmente descrivibili e l’effetto di novità (il romanzo, uscito nel 1925, è di soli tre anni posteriore all’Ulisse di Joyce) macroscopico. Qui abbiamo una voce narrante che dobbiamo per forza definire “esterna”, visto che non appartiene a nessuno dei personaggi del romanzo. Ma il suo modo di essere “esterna” è davvero curioso. Basta gettare gli occhi sulle prime due pagine del romanzo, che cito nella traduzione italiana di Nadia Fusini (La signora Dalloway, Feltrinelli, Milano 1996), per farsene un’idea. All’inizio del romanzo Clarissa Dalloway sta uscendo di casa. La prima frase che leggiamo (“La signora Dalloway disse che i fiori li avrebbe comperati lei.”) non ci dice nulla di quel che sarà di questa terza persona, delle sue trasformazioni repentine e infinite. Ma già dopo sette-otto righe cominciamo ad averne un assaggio: “Che gioia! Che terrore! Sempre aveva avuto questa impressione, quando con un leggero cigolio dei cardini, lo stesso che sentì proprio ora, a Bourton spalancava le persiane e si tuffava nell’aria aperta. Com’era fresca, calma, più ferma di qui, naturalmente, l’aria la mattina presto, pareva il tocco di un’onda, il bacio di un’onda …”. La voce narrante è entrata nella testa della protagonista e ne sfoglia i pensieri, i ricordi, ne capta le sensazioni di gioia, di freddo, il piacere tattile dell’aria che la tocca, che la bacia come un’onda. Se poi voltiamo pagina e ci accontentiamo semplicemente di leggere le prime righe della seconda, possiamo cogliere con poco sforzo qualcosa di veramente nuovo: “Si irrigidì appena sul marciapiede, aspettando che passasse il furgone di Durtnall. Una donna affascinante, pensò di lei Scrope Purvis (che la conosceva come ci si conosce tra vicini a Westminster); somigliava a un uccello, a una gazza verde-azzurra, esile, vivace, malgrado avesse più di cinquant’anni, e le fossero venuti tanti capelli bianchi dopo la malattia.” Non è meravigliosa questa mossa che un uso nuovo della terza persona consente a Virginia Woolf? Quelle notizie banali, eppure preziose, forse indispensabili, che uno scrittore fornisce solitamente circa l’aspetto fisico del suo personaggio ci vengono trasmesse, in virtù di un invisibile gioco di prestigio, attraverso i pensieri di un altro personaggio, un personaggio minimo, che di lì a poco uscirà di scena, ma il cui cervello è stato visitato per un istante dal microbo della voce narrante come per un misterioso contagio. Questo micro-organismo continuerà a saltare di cervello in cervello per tutto il romanzo, incarnandosi via via in una serie di personaggi dei quali il lettore verrà a conoscere il pensiero dall’interno. Ecco perché dico che la scelta della prima o della terza persona diventa indifferente, una volta che si è fatta, a monte, la scelta ben più radicale di un punto di vista interno alle coscienze. L’una e l’altra, prima e terza persona, hanno i loro vantaggi e i loro limiti. Lo stesso Joyce, nell’Ulisse, non sceglie la prima persona, ma una terza instabile, mobilissima, che tende a trasformarsi di continuo in prima: per un istante, come accade spesso, o per un intero capitolo, come nel celebre monologo finale di Molly Bloom. Dei romanzi di cui si parla nel Pantarèi soltanto tre (la Recherche proustiana – con l’importante anomalia di Un amore di Swann –, La coscienza di Zeno di Italo Svevo e Morte a credito di Céline) presentano un Narratore in prima persona che è anche il protagonista della storia. Perciò non c’è nulla di strano nel fatto che Il pantarèi, sorta di beffardo “estratto Liebig” del romanzo del Novecento, sia scritto prevalentemente in terza persona, con frequenti scivolamenti nella prima. L’uso della terza persona mi offriva fra l’altro il grande vantaggio di poter mettere in scena un gioco di specchi fra me stesso, il mio sdoppiamento in autore del romanzo, la figura di Stern come eventuale doppio dell’autore, l’autore dei saggi come doppio di Stern, e ancora Sax – protagonista del romanzo incompiuto di Stern – come altro doppio di Stern lontano anni luce dal primo, e di insinuare così nell’aria del libro un altro dei temi cruciali del romanzo del Novecento: il problema dell’identità, sul quale s’impernia l’intera opera di un grande autore come Max Frisch che – pur non potendo a sua volta figurare nel canone del Pantarèi – meritava certo di essere evocato. La prima persona l’ho usata in un inedito che mi sta particolarmente a cuore, Sciofì, Fifì e l’Amor, perché lì mi era indispensabile. Eclissi è un romanzo per il quale ho scelto una voce narrante ingannevolmente tradizionale, che è classica nella forma e si lascia credere onnisciente nella natura, ma che viene a tal punto intaccata e incrinata dal multilinguismo dei personaggi (ci sono cinque lingue diverse in quel piccolo libro) da trasformarsi nell’officina stessa della mia sperimentazione letteraria.

 

Vivere, scrivere

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di Angelo Ferracuti

L’allerta meteo qui a Montpellier mi pare davvero provvidenziale. Un evento naturale cambia la tramatura della vita sociale, fa chiudere le scuole, minaccia persino lo svolgimento del nostro convegno, e piove ormai da due giorni ininterrottamente. Questo ci dice qualcosa sull’imprevedibilità di chi scrive come me reportage narrativi, e di come un evento di questo tipo possa produrre storie e deragliamenti, possa essere capace di cambiare persino un punto di vista. E’ un po’ il mistero e il fascino del reportage, che è vivente perché sta dentro la vita. In un libro che ho letto di recente, “In viaggio con Erotodo” di Kapuscinsky questa cosa è sempre presente, il racconto compie dei deragliamenti di continuo, come quando in Congo il famoso reporter incontra dei soldati che gli vengono incontro, o quando al Cairo il guardiano di un hotel vuole accompagnarlo per forza a vedere delle cose. Se avessi dovuto scrivere un reportage a Montpellier, sicuramente questa faccenda avrebbe condizionato la mia storia. In questo modo è come se si mettesse un elemento di finzione nella realtà, anzi, come se la realtà mettesse un elemento di finzione dentro se stessa.

Invece per spiegare meglio la mia condotta, il mio scrivere, voglio partire da un contesto, quello italiano, proprio in generale e nel pieno dell’era digitale, segnato profondamente dalla crisi della lettura e del libro tradizionale, e credo anche da un indebolimento cognitivo molto grave. A tutto questo si aggiunge un’altra crisi, quella della carta stampata, e in generale della cultura, che ormai non è più pensata come creatrice di senso, di senso critico, di visione del mondo, ma più come un’attività d’innocuo intrattenimento, che vede il libro come prodotto da consumare, merce di un’industria con le sue campagne di marketing, gli investimenti pubblicitari e sugli scaffali della libreria, il lavoro degli uffici stampa. Quindi la condotta di un autore come me sta dentro questo contesto frustrante, dove a maggior ragione se hai una postura autoriale e letteraria, per non dire politica, a parte pochissimi casi, sei assolutamente marginalizzato, spogliato del tuo ruolo sociale. Parlo di quegli scrittori che già nelle opere che scrivono hanno una connotazione molto civile e che raramente partecipano al dibattito collettivo, come accadeva una volta, perché il dibattito collettivo è ormai il talk show, con i tempi e i modi televisivi, cioè in un terreno ostile agli intellettuali perché è volutamente il luogo della semplificazione, della banalizzazione, quello dello spettacolo. Quindi oggi quel tipo di scrittore pensatore, che s’interroga sulle sorti dell’umanità, che ha una sua idea particolare del mondo e della vita, è fuori dal dibattito, è orfano del proprio ruolo. E’, appunto, relegato nell’ambito letterario, e in quello editoriale. Fare reportage avventuristici, un po’ come facevano i “francescani della Leika”, cioè gli arditi dell’agenzia Magnum, secondo me è anche un gesto per sottrarsi a una condizione deprimente dello scrittore marginalizzato.

Premesso questo, credo in tutta sincerità di non aver mai scritto una vera storia di pura invenzione, non ho mai avuto nessun interesse o forse capacità a inventare, questo è un fatto. Inventare mi sembrava tradire, forse quelli che più inventano sono i romanzieri, gli scrittori di fantascienza, i giallisti, quelli che fanno la letteratura di genere o quella fantastica, chi scrive favole per bambini, mentre io mi considero un narratore, che è una cosa diversa, più incline a trasformare qualcosa di esistente, a “inventare dal vero” come diceva Bilenchi, a rielaborare l’esperienza. C’è una frase di Debenedetti a proposito del lavoro di Federigo Tozzi che mi ha sempre colpito molto confermando questa cosa: “Narra, perché non può spiegare”. Anche se vengo dalla poesia, avendo scritto per anni versi, sono nato e ho una natura di narratore, o meglio di raccontatore sin dalla prima raccolta, che s’intitolava “Norvegia”, ed era stata concepita come unitaria, cioè era una specie di romanzo di racconti collegati tra di loro, come “Winesburg Ohio” di Sherwood Anderson. Il tentativo era di rinnovare il racconto italiano innestandolo con i modi, i ritmi, i dialoghi di quello americano che sentivo più contemporaneo e vitale, meno lezioso, in particolare con i racconti e i modi di Raymond Carver, ingiustamente definito “minimalista”, che è stato anche uno scrittore capace come pochi di raccontare l’universale classe media, la “meccanica sociale” giusto per citare il titolo di un suo fulminante racconto.

“Norvegia” era un libro che raccontava la mia generazione, quella dei ragazzi della provincia italiana usciti dall’esperienza politica degli anni ’70, di quei ragazzi che allora non venivano chiamavano precari ma “non garantiti”, l’entrata nel mondo del lavoro dopo gli anni del riflusso, della disillusione, quel sogno che per molti di noi era diventato un incubo, di autodistruzione e violenza. Era un libro di formazione in tutti i sensi, letteraria ed esistenziale, e il primo racconto s’intitolava per l’appunto “Collocamento”, questo per dire che il tema del lavoro, che poi ho sviluppato più tardi, c’era già anche allora, come nei miei libri successivi “Attenti al cane” e “Un poco di buono”, che è l’unico vero romanzo che ho scritto, probabilmente anche l’ultimo, perché quello che sto scrivendo da qualche anno ha come protagonista – anche se non viene mai detto – me stesso, questo a conferma della mia incapacità di inventare storie. Quest’uomo, che è una persona, e non un personaggio, è stato un ragazzo a Fermo, ha partecipato ai movimenti politici degli anni ’70, è uno scrittore, ha perso una moglie giovanissima, accudirla e portarla alla morte sono state le uniche cose della sua vita che non considera un fallimento.

Comunque il mio passato politico sta dentro tutti i miei libri e, forse peccando di presunzione, quando scrivo, mi penso ancora dentro il dibattito sociale, scrivo immaginando che quello di cui mi occupo possa avere una urgenza, per esempio quando scrivo di morti sul lavoro, di fine del lavoro e deindustrializzazione, di passaggio dalla società post-industriale a quella digitale, oppure racconto i luoghi attraverso i portalettere e il combattimento in corso tra il “naturale” e “l’artificiale” che erano due categorie molto care all’ultimo Volponi, lo scrittore che più di ogni altro (insieme a Pasolini) ha visto le derive del capitalismo finanziario, del neoliberismo, l’avvento della società liquida.

Mi considero uno scrittore della realtà, e oggi il reportage è la risposta realista al mondo che viviamo, così come funzionò nei grandi momenti di trasformazione sociale con i libri di London, Orwell, Steinbeck, Vassilj Grossmann, tanto per fare qualche nome. C’è stato un ritorno del reportage non solo in Italia, e il Nobel a Svjatlana Aleksievič è la dimostrazione che da Kapuscinsky in poi è ormai un genere letterario che ha pari dignità e lettori della cosiddetta letteratura di finzione, che invece mi sembra subire un momento di stanca e di crisi creativa.

Credo che la mia idea di letteratura si sia formata dentro il lavoro culturale che si è sviluppato intorno alla politica, alle dinamiche politiche della mia generazione, nel corso di una stagione ricca di ribellioni e sperimentazioni. L’humus sono stati gli anni ’70, che ho vissuto nei suoi ultimi fuochi ma che mi hanno lasciato dentro una traccia profonda. “Gli anni giovani” di cui ha scritto il poeta Gianni D’Elia non sono stati solo segnati dalla letteratura, ma anche dal cinema, dal teatro, dalle arti figurative, soprattutto stranieri, da tutto il portato di cambiamento e di scontro contro i poteri costituiti, il progetto di liberazione culturale, la realtà internazionale, il movimento pacifista contro la guerra, quello femminista, l’antipsichiatria, naturalmente la storia del movimento operaio direttamente legata alla democrazia, alle conquiste sociali. Molti scrittori di quella generazione e di quella ancora precedente (penso a Piersanti, Tondelli, Palandri, persino Del Giudice) si sono formati dentro quella stagione, quando ancora c’era una società letteraria, un magistero critico, dentro il ‘900, ma il lavoro editoriale si stava trasformando, le case editrici di cultura diventavano sempre di più aziende con logiche commerciali.

In quel primo libro, “Norvegia”, c’era sempre una “invenzione dalla realtà”, cioè prendevo dei fatti realmente accaduti o che mi avevano raccontato ai quali cercavo di dare una natura letteraria. A posteriori, posso dire che le stesse cose che faccio adesso le facevo già allora, anche se quella sembrava fiction rispetto al mio narrare di oggi che non saprei come definire, ma che certamente non è giornalismo perché a me non interessa spiegare i fatti ma sono attratto dalla loro complicazione. Forse si potrebbe chiamare “racconto sociale”. La narrativa non deve spiegare ma dare una rappresentazione a ciò che non è visibile, a ciò che è sommerso, che non si vede, cioè portare in superficie porzioni di realtà, porzioni di senso, collegare parti apparentemente distanti tra di loro, e costruire con tutto questo degli immaginari. Se allora portavo la cronaca dentro la finzione, ora semmai faccio un’operazione contraria, anche se m’interessa sempre saldare questi due elementi. Perché il reportage narrativo di uno scrittore è diverso da quello di un giornalista, tutto ciò che attiene al ritmo, alle descrizioni, alla scrittura mira a un risultato estetico diverso, più curato. Questo forse è l’unico vero elemento di finzione che mi concedo. Anche i miei reportage in fondo sono dei racconti, qualcuno l’ha anche scritto, per esempio Ermanno Paccagnini sul Corriere, che ha definito “Andare, camminare, lavorare” come un libro fatto da “53 racconti di particolare struttura”. C’è sempre una narrazione, infatti, e al centro il sottoscritto che fa intanto una esperienza corporale, sensoriale, esplora i luoghi, gli spazi, vede, scopre insieme al lettore. A questa si legano altri materiali di un ibrido eccentrico che poi sono gli altri scrittori che credo di essere, cioè il narratore tout court, per esempio, e lo scrittore di viaggio, cosa che ho fatto per alcuni anni, identificando nei luoghi microcosmi sensibili con un loro preciso precipitato antropologico fatto di storie della Storia. E’ anche un tipo di letteratura che considero più democratica perché fatta insieme ai molti, come scrive Kapuscinsky, la quale si scontra con la dittatura del trama e la postura autoritaria dello scrittore onnisciente.

Prima, quando parlavo della mia prima raccolta di racconti, “Norvegia”, dicevo dare una natura letteraria a una storia orale, ascoltata da altri, significa creare una forma e una lingua. La lingua che usavo allora quando ero considerato uno scrittore di finzione è la stessa di adesso, non la percepisco troppo diversa, semmai il processo di scarnificazione l’ha ulteriormente semplificata, impoverita, faccio uso di pochi vocaboli, è una lingua nuda, quella cosa che il poeta Claudio Damiani chiamerebbe “la difficile facilità”. La lingua che uso è stata all’inizio qualcosa di istintivo, di naturale, poi di lei ho preso coscienza e per anni diciamo che ho lavorato alla sua definizione, dopodiché la uso in automatico. Ho cercato di mantenere una lingua non compromessa con gli stilemi della contemporaneità, non contaminata, impastata con i linguaggi del “villaggio globale”, non uso termini televisivi, della pubblicità, aborrisco le parole in lingua straniera. Faccio uso di una lingua povera, francescana, spogliata di ogni orpello, una lingua semplice, classica, perché credo che proprio in virtù di questo possa diventare più espressiva. E’ una questione estetica ma anche etica e politica, perché io voglio essere quella lingua, sono quella lingua, mi rappresenta. Non scrivo “in falsetto”, non ho bisogno di inventarmi una lingua letteraria nel senso di artefatto, perché la mia lingua è molto simile a quella che parlo, è una lingua che ha nostalgia dell’oralità perduta, cioè sono costretto a scrivere ma vorrei raccontare ad alta voce. Anche questa è una risposta “naturale” in un mondo sempre più “artificiale”.

Più avanti questa mia idiosincrasia per l’invenzione è addirittura aumentata, e nel 2002 ho smesso definitivamente di scrivere storie di finzione in senso stretto, votandomi interamente al racconto dal vero. Prima ero stato molto condizionato dalle condotte di due scrittori che hanno recuperato la forma reportage, ma nel senso più letterario possibile, parlo di Edoardo Albinati ed Eraldo Affinati, anche loro hanno contribuito a farmi compiere questa scelta, così come un fotografo che per me è stato un punto di svolta, Mario Dondero, un grandissimo reporter, con il quale ho avuto il privilegio di lavorare e che mi ha fatto capire, fondamentalmente, che come lo faceva lui andava oltre la forma fotografica o letteraria, e diventava una vera e propria esperienza. Lo chiamava “collante delle relazioni umane”, ma si può definire anche “racconto empatico” o racconto vivente, che è un’altra strada del realismo ai tempi dell’iperfinzione. Quindi, credo di essermi poi trasformato in qualcosa di diverso da uno scrittore, di aver pensato che il risultato estetico fosse secondario, la carriera fosse marginale, in una società letteraria sempre più mondana, autoriferita, competitiva e narcisistica, questo scarto fa la differenza. Adesso, quando comincio un libro, so che per due, tre anni della mia vita mi occuperò di questo e sarò in viaggio, incontrerò molte persone, leggerò molti testi, guarderò diversi film e ascolterò alcune canzoni. So che questo “libro vivente” cambierà pelle moltissime volte, e anch’io cambierò con lui, gli incontri che farò, i luoghi che visiterò, questo intreccio di antropologie, di nozioni storiche, di storie vissute al presente alla fine prenderanno una forma sul campo, in itinere.

Ricordo una frase di Salman Rushdie ai tempi in cui cominciai a fare questi ragionamenti, che era anche la citazione che pubblicizzava la rivista che leggevo allora, di cui mi piacevano il taglio e il pensiero, diretta da Goffredo Fofi, “Linea d’ombra”: “La narrativa, dice la verità in un’epoca in cui le persone cui è demandato di dire la verità inventano storie. Abbiamo i politici, i media o chi, altri; coloro che creano le opinioni che, in effetti, inventano storie. E allora diventa il dovere di uno scrittore cominciare a dire la verità”. Quella frase fu per me un viatico importante, perché riassumeva ciò che in quel momento pensavo e volevo fare. Anche se Rushdie diceva che “I romanzi sono pieni di bugie, di bugie che dicono la verità”, mentre trovavo la narrativa contemporanea sempre più prevedibile proprio per questo suo statuto d’invenzione, di fiction in un contesto sociale dove tutto stava diventando spettacolo. Dove “la narrazione”, lo storytelling appunto inventa la realtà, diventa un potente strumento di marketing, commerciale e politico, religioso, turistico. Pochi mesi fa il Presidente del consiglio Renzi a Vinitaly ha espresso tutto questo alla perfezione, utilizzando il retroterra retorico del suo ispiratore Baricco, cioè il vino italiano è qualitativamente migliore di quello francese, solo che loro sanno raccontarlo meglio. Voleva dire che raccontandolo meglio, diventa più buono, diventa migliore, dicendoci anche che non è importante la realtà ma l’invenzione della realtà, o meglio la falsificazione della realtà, la differenza tra la finzione e il falso è questa.

Sono molti anni, ormai, che scrivo reportage narrativi. Lo faccio nell’unico modo possibile in cui queste vere e proprie esperienze sul campo si possono fare, almeno per uno come me, cioè con la massima partecipazione emotiva, i sensi aperti, i nervi scoperti, vagabondando a volte alla cieca nei luoghi, cercando di capirli, di interrogarli, e mettendomi in gioco. Questo modo di scrivere storie dal vero, più della fiction, compie una vera e propria trasformazione non solo della materia narrativa, della forma che di volta in volta si sceglie, ma anche dei sentimenti, delle convinzioni profonde chi scrive. Il reportage è un’opera aperta straordinaria che migliora negli anni perché ogni reporter affina il suo modo, che è diverso da quello di tutti gli altri, appunto per questa sua assoluta soggettività. Diventa uno stile, certo, un modo di scrivere e dare prospettiva al raccontare storie vere, che si avvicinano alla realtà, se non altro alla verità dei fatti, ma anche un modo di fare che serve per raggiungere determinati risultati, in definitiva un modo di vivere, di stare al mondo.

 

Da Contro la finzione. Percorsi della non-fiction nella letteratura italiana contemporanea, a cura di Daniele Comberiati e  Carlo Baghetti, Ombre Corte 2019. 

 

Acquerelli istantanei

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di Delorda – Mahy

Tra noi c’è un patto ferreo

NON IN NOSTRO NOME!

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DIRETTA TV
L’arrivo di Sea Watch al porto di Catania. L’equipaggio sarà sentito dalla Procura della Repubblica di Catania.
 

Ricordi della natura umana. The last Saul

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Presentiamo un saggio contenuto in L’albero del romanzo. Un saggio per tutti e per nessuno in uscita per Effigie (Milano, 2018, pp. 204).

di Massimo Rizzante

 

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Saul Bellow è nato l’undici giugno del 1915 a Lachine, Quebec, Canadà, da genitori ebrei emigrati da San Pietroburgo nel 1913, ed è morto il cinque aprile del 2005, dopo dodici romanzi, diverse novellas, numerosi racconti, alcuni testi teatrali, un libro di saggi, un reportage sulla «Terra promessa», cinque matrimoni, tre National Book Awards, un Premio Pulitzer, il Nobel per la letteratura (1976) e dopo aver fondato con Keith Botsford tre riviste: The Noble Savage (1960-1962), Anon (1970), The Republic of Letters (1997-2005). Una vita ben spesa, fino all’ultimo.

Quasi qui

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di Jean-Jacques Viton

traduzione di Andrea Raos

U.S. [ Ultimi Sospiri ] MILANO 1943-1945

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[ripropongo questo post del 2013, come inizio di un lungo lavoro sulla memoria famigliare, perché solo attraverso il ricordo, i nomi, le date, le storie ciò che è morto e lontano torna ad essere vivo, a illuminare un presente oscuro e sempre pronto a ripetere gli stessi errori, gli stessi razzismi, gli stessi fascismi]
 
 

di Orsola Puecher

Tutto è lontano e ho solo un archivio di ricordi, di affetti, una mappa dispersa di sentimenti: visi, vite, parole, lettere conservate amorosamente, suoni e fragori, voci di alte ed “egregie cose“. Le immagini sono cariche di suggestioni sempre diverse, di particolari inquieti che innescano percorsi non lineari, come se nel passato ci fossero dimenticati sprazzi di futuro anteriore ancora da decrittare, impazienti di essere raccontati. Cosa avrà provato… avrà detto… avrà sofferto… pensato… o fatto… Sono storie fra due guerre, di uomini, padri e figli, di donne: nonne, madri, sorelle, zie e nipoti, numeri di tombola estratti nella sequenza di un viaggio ideale attraverso una città, fra tracce e strade di un percorso cifrato.

* gli undici numeretti sopra la mappa sono cliccabili così
come i link, che a loro corrispondono, sotto l’immagine
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2milano

U.S Ultimi Sospiri Convitto Infermiere Principessa Jolanda Album di famiglia Crolli Ritrovo Danzante sulla Terrazza del Palazzo della Triennale Salvatore Quasimodo legge *Agosto 1943* 30/6/1943 Si miete il grano in Piazza Duomo Albergo Regina Sede del Comando Nazista dal 1943 16/12/1944 Ultimo discorso di Mussolini al Teatro Lirico Mauthausen-Scheda del Prigioniero Giorgio Puecher Passavalli 25 aprile 1945 U.S Ultimi Sospiri

[1] La nipote. [2] La Carla. [3] Album di Famiglia. [4] Crolli. [5] Tu cosa farai di me. [6] I vivi non hanno più sete. [7] La fame. [8] I supplici. [9] Con le unghie e con i denti. [10] Ultime parole. [11] Il cerchio si chiude.

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[1] Via Caradosso N.6 “La nipote

bimba d'albero La “bimba d’albero” percorre ogni giorno la via Caradosso per andare a scuola. Ha una cartella rossa con il pelo di cavallino bianco e nero. Come si usava negli anni sessanta. Circa all’altezza del numero 6 attraversa la strada, entra nel Chiostro di Santa Maria delle Grazie, gioca un po’ con la Fontana delle Rane [ dove se con un dito tappi la bocca a una – o più – delle bronzine batraci – le rimanenti schizzano – in proporzione – un fortissimo getto ad arco perfetto che travalica i confini deputati della vasca – provare per credere – anche se – ora – un’odiosa catenella – vietando l’accesso al chiostro – lo impedirebbe – teoricamente ] poi percorre le navate fresche, la penombra rimbombante, per sbucare di fianco alla Elementare Fratelli Ruffini. La scritta U. S., con le due frecce convergenti sulla trifora del gotico milanese fine ottocento, è all’altezza dei suoi occhi. Nel seminterrato si intravedono altissimi rotoli accatastati di un deposito di stoffe.
 
il cappottino

Ha un cappottino grigio, con il colletto e i bottoni di velluto rosso. Fa moltissime domande e non sta mai zitta. La vecchissima e traballante maestra Grazia Della Grazia per punizione le ha fatto scrivere cento volte sul quaderno a quadretti di Prima “Io sono una chiacchierona” e in un residuo di educazione littoria, per imparare le vocali, le ha fatto anche scrivere, pennino e inchiostro, due facciate di EIA EIA ALALA’. I genitori hanno protestato dal Direttore Didattico. “Che cosa vuol dire U. S.?” chiede. La mamma le risponde: “Ultimi sospiri!” e racconta del tempo di guerra e dei bombardamenti. Dell’aereo inglese soprannominato Pippo che arrivava con un ronzio basso per primo. Cose vicine allora che si raccontavano ancora molto spesso. Alla sirena dell’allarme si doveva correre nei rifugi, che erano le cantine. Il capo caseggiato indossava un elmetto e l’unica maschera antigas a disposizione e si stava là sotto, seduti sulle brande con il cappotto sopra il pigiama, a tremare fino al cessato allarme. U.S., se il palazzo fosse stato colpito, indicava una possibile via d’accesso per salvare gli eventuali superstiti. Ultimi sospiri perché tutti erano consapevoli di quanto aleatorie fossero la SICUREZZA e l’USCITA in caso di crollo. E nella città che tutto o quasi ha dimenticato, rimosso e ricostruito, restano del “temp de guera” solo queste ultime scritte disseminate nei vari quartieri, un po’ segrete e indecifrabili ai più, sfuggenti alla fretta di traffici e affari, resistite a piogge, smog e graffiti, a malinconico monito delle cose perdute.

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[2] via G.A. Sassi N.1 “La Carla

Carla crocerossinaE quasi di fronte alla scritta U.S. in una rientranza di via Caradosso, la via a fondo chiuso Sassi, c’è il piccolo Ospedale Principessa Jolanda, di fianco a Santa Maria delle Grazie. Qui nel 1912 viene fondata dalla Croce Rossa Italiana una Scuola-Convitto per Infermiere, con criteri moderni e professionali. E qui studia e si diploma la prozia Carla, bellissima ma immensamente seria e compresa nella divisa quasi monacale della foto ufficiale. Da ruolo subalterno di semplice accudimento servile le infermiere acquisiscono una formazione medica specifica. Nella Prima Guerra Mondiale partivano volontarie per gli Ospedali da campo al fronte. Per una ragazza dei primi del novecento questo costituiva un’esperienza di emancipazione femminile e professionale di notevole peso: la lontananza da casa, la vita precaria degli accampamenti, il dover affrontare da vicino, in prima linea, esposta al pericolo, la carneficina di una guerra, la cura dei feriti con i pochi mezzi dell’epoca, che si risolveva nella maggior parte dei casi con amputazioni eseguite in condizioni d’emergenza e soprattutto il dover dare sollievo umano e spirituale alle sofferenze. Carla Gianelli, come si legge nella bella lettera della sorella Anna Maria all’amica Nina, ne fa, oltre che orgogliosamente un lavoro, una vera e propria missione umanitaria. Nella preoccupazione crescente della famiglia, non ascolta nessuno e non vede l’ora di tornare al fronte, nonostante la convalescenza per una ferita di guerra. Sarà decorata con la Medaglia d’Argento per essersi prodigata sul fronte del Carso.
 
lettera 11 novembre
 

Ronchetto 11 novembre
Mia cara Nina,
[…]
… le giornate terribili che abbiamo passato la settimana scorsa quando la sapevamo tanto esposta e non potevamo avere notizie.- Per fortuna ella è arrivata sana e salva, nonostante il viaggio disastroso di tre giorni e tre notti attraversando ogni pericolo.- Il nostro povero Papà l’ha protetta anche stavolta, ed ella ha avuto la soddisfazione di compiere fino all’ultimo il suo dovere.- Era stata tanto fortunata e la sua vita di lavoro intanto le faceva superare con indifferenza ogni sacrificio, tanto era contenta di poter essere utile e far del bene e vorrebbe riprendere subito servizio, ma dopo la ferita ricevuta, ha bisogno di un po’ di riposo e la quiete completa della campagna…
[…]
Tutta la tenerezza dalla tua
Anna Maria

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[3] Via Broletto N. 39 “Album di Famiglia

Al 29 di Via Broletto c’è la Chiesa di San Tomaso in Terramara, dove il 14 aprile del 1920 Anna Maria Gianelli, sorella di Carla e nonna, mai conosciuta, della “bimba d’albero si sposa con il notaio Giorgio Puecher Passavalli.
Sempre all’amica Nina con la scrittura distesa, elegante e nervosa, confida emozioni e trepidazioni:
 


 

6 aprile 1920
Mia carissima
….. puoi immaginare come le ore volano e come ogni mio minuto sia preso.- Ho tanta serenità in cuore, e nell’animo una profonda emozione; dovrei esser felice, ma penso che non ho il mio Papà per accompagnarmi all’altare!!- Devo e voglio essere forte per il mio Giorgio che merita tutta la mia serenità, ma tu che mi vuoi bene prega per me. Sono sicura di vederti e di abbracciarti prima di partire, mi par ieri quando il mio pensiero ti ha seguita con tanto affetto durante il tuo matrimonio.
[…]
Tutta la mia tenerezza
Anna Maria

 
E tutto sembra ancora intatto e luminoso. Nascono tre bambini: Giancarlo [1923], Virginio[1926], detto Ginio e Gianni [1930].
 
il carrettino

[ è il 1930 – ma le scarpine dei fratelli – con la punta a biscotto e il cinturino – sono le stesse della “bimba d’albero” – le bicolori traforate di Anna Maria – sempre con il cinturino – erano di gran moda negli anni ’30 – Gianni appena nato è in braccio alla mamma – Giancarlo da bravo cavallino ha al collo dei sonagli – lo senti il tintinnio? – Ginio – seduto sul carrettino – è imbronciato come in tutte le foto che lo ritraggono – pettinato alla paggio per anni – perché la madre avrebbe voluto una bambina – veniva regolarmente preso in giro dai compagni di classe ]
 
Anna Maria, fra le prime donne a Milano, prende la patente di guida. Guida benissimo e carica figli e cugini in allegre scorribande per la campagna brianzola vicino a Lambrugo, dove vanno in vacanza. Il notaio Giorgio non guida benissimo invece e gratta spesso con il cambio, fra le risate e la disapprovazione generale.
Anche Carla ha tre bambini e la banda dei cugini trascorre spesso le vacanze insieme, una tribù viaggiante di bambini, bauli, cappelliere, cani, gatti, Tate, Mademoiselles, Miss e le fedeli domestiche Berta e Rosa. E la terza sorella Gianelli: Lia, non sposata, viaggiatrice instancabile in Europa e Oriente. Detta Szà. Minuta e vivace.

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[4] Via Broletto N. 39 “Crolli

La famiglia allargata abita nel palazzetto di via Broletto 39, i Puecher al secondo piano, la Szà al terzo e la nonna paterna Carlotta Bossi nella mansarda. Gli anni passano e il fascismo imperversa anche nell’educazione dei bambini. Ginio, particolarmente insofferente alle riunioni dei Balilla, ne detesta la divisa e si rifiuta di marciare con il moschetto in spalla e di fare gli assurdi esercizi ginnastici. Chiede, se fosse possibile, di suonare solo il tamburo.
 
Balilla
 
E viene così degradato ed espulso di fronte alla piccola truppa. Riuscirà anche a farsi dare l’Esame di riparazione a Ottobre di Ginnastica. Per contrapposizione al fratello maggiore Giancarlo, atletico, esuberante e portato a tutti gli sport, detesta ogni attività fisica, e si nasconde a leggere i libri di Emilio Salgari nella soffitta, dove abita e gli fa compagnia la civetta Eulalia, che lui nutre catturando topi e rubando qualche bocconcino di carne dalla cucina.
 
sedie
[ anni ’40 – sandali – Giancarlo senza calze – sorride – espone muscoli e possanza fisica – Ginio insaccato nella sedia a sdraio – sandali con calze – vestito di tutto punto – la solita espressione imbronciata – occhi bassi e lunghe gambe magre di adolescente – non sopporta di mostrare i piedi nudi – per anni ]
 
Qualcosa comincia a incrinarsi. Zia Carla, la valorosa crocerossina della Prima Guerra Mondiale, muore il 14 Luglio 1937 in seguito a una banale operazione di appendicite. Il chirurgo le ha dimenticato una garza nel ventre e la setticemia a quei tempi, senza antibiotici, non perdona. Anna Maria è annientata dal dolore e si prodiga oltre ogni limite per i tre cugini orfani Isa, Maria Luisa e Luigi che vengono ad abitare anche loro in via Broletto 39.
Si ammala di tumore l’anno dopo. Operata è costretta a portare un busto di metallo per riuscire a stare in piedi.
Nella notte tra il 15 e il 16 giugno 1940 Milano subisce il primo attacco aereo inglese, dopo solo 5 giorni dall’entrata in guerra dell’Italia. L’allarme antiaereo suona alle 1.48. Le incursioni notturne continuano per tutto l’anno. Ginio si rifiuta di scendere in cantina e osserva i bombardamenti da un’altana della soffitta, come fossero uno spettacolo pirotecnico.
Il 1941 invece passa senza nessun altro attacco.
Nell’estate le condizioni di Anna Maria si aggravano. Ginio costruisce una specie di grande ventaglio a pedale per alleviare le sue sofferenze e la assiste per lunghe ore leggendo ad alta voce per lei. Giancarlo studia come un matto frequentando due anni in uno, per conseguire il Diploma di Maturità il più presto possibile. Anna Maria muore il 31 luglio di quella caldissima estate di guerra.
La zia Lia detta Szà resta sola ad accudire ai nipoti.
La perdita della presenza forte, vitale e piena di entusiasmo di Anna Maria è un vuoto tangibile e getta Giorgio Puecher in una disperazione profonda e silenziosa.
Nell’Ottobre del 1942 riprendono i bombardamenti su Milano. Il 24 Ottobre alla 17.57 suona improvvisamente l’allarme antiaereo. La gente è disorientata, non si erano mai verificati attacchi in pieno giorno. L’allarme inoltre viene dato in ritardo e dopo solo tre minuti le bombe cominciano a cadere: 73 aerei Lancaster ne sganciano a ondate successive 12 da 2000 chili, più di 2.000 bombe incendiarie di grosso calibro e più di 28.000 di piccolo calibro. Viene abbattuto anche il muro del Carcere di San Vittore. Gli attacchi continuano di giorno e di notte. I milanesi cominciano a sfollare dalla città. I Puecher si rifugiano nella casa di campagna a Lambrugo. Chi lavora torna di giorno.
Nella notte tra il 15 e il 16 agosto 1943 anche la casa di via Broletto 39 viene colpita e distrutta.

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[5] Viale Alemagna N. 6 “Tu cosa farai di me

Affacciato sul Parco Sempione sorge nel 1933 il Palazzo dell’Arte per ospitare la Triennale di Milano, ad opera dell’architetto Muzio, con i soliti volumi monumentali squadrati schiaccia-uomo dell’architettura dell’epoca, ma ingentiliti da un loggiato di archi bianchi dove trovano posto un ristorante e sulla terrazza soprastante un Ritrovo Danzante molto frequentato. Le orchestre dell’epoca suonano il loro quick&slow, i cantanti confidenziali, resi famosi dalle trasmissioni radiofoniche dell’EIAR, con un discreto e affettato birignao, cantano le canzoni apparentemente spensierate di quegli anni, che spesso nascondono velate critiche al regime come “Pippo non lo sa” e “Maramao perché sei morto” di Mario Panzeri.
Vittorio Belleli, all’epoca una vera celebrità, canta “Cosa farai di Me” [1942] la versione italiana di “Vous qui passez sans me Voir” Successo del ’36 di Charles Trenet. Le parole sono sempre di Panzeri e forse la domanda del titolo può essere velatamente estesa al destino traballante del Regime e del Duce. Quel ma forse un giorno tu di me ti stancheraie più non crederai…. suonano profetiche.
 

Tu, cosa farai di me
lo devi dir perché
amo te con tutta l’anima,
ma forse un giorno tu
di me ti stancherai
e più non crederai
al mio cuor, al mio amor.
Sento che tu sei
tutto il mio destino,
però se non mi sei vicino
pensando al tuo amor fremo.
Tu, cosa farai di me
lo devi dir perché
amo te, solo te.
Oh si tu, cosa farai di me
lo devi dir perché
amo te, solo te.

 
Si balla molto nella Milano in guerra, nei locali e nelle feste in casa con i primi grammofoni portatili a manovella e i dischi a 78 giri. Giancarlo è conteso da nugoli di ragazze, Ginio invece è addetto a girare la manovella della fonovaligia e balla con le fanciulle in attesa di ballare con il fratello. Appena il disco rallenta però deve correre a girare. Ma siamo ormai agli sgoccioli. Tutto sta finendo.

[GINO BECHI La strada nel bosco 1943]

Durante l’occupazione nazista il Ristorante del Palazzo della Triennale viene adibito a circolo ricreativo per gli alti ufficiali tedeschi e assume il nome di Balllhaus. La terrazza danzante viene chiusa e ospita una batteria di contraerea. Anche il famoso Belleli, scoperta la sua origine ebraica, viene licenziato in tronco dall’EIAR ed è costretto a cantare sotto falso nome.

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[6] Agosto 1943 “I vivi non hanno più sete

 

Invano cerchi tra la polvere,
povera mano, la città è morta.
È morta: s’è udito l’ultimo rombo
sul cuore del Naviglio. E l’usignolo
è caduto dall’antenna, alta sul convento,
dove cantava prima del tramonto.
Non scavate pozzi nei cortili:
i vivi non hanno più sete.
Non toccate i morti, così rossi, così gonfi:
lasciateli nella terra delle loro case:
la città è morta, è morta.

 
SALVATORE QUASIMODO [1943]

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[7] Piazza Duomo La fame

Nel luglio del “43 il sagrato di Piazza Duomo, le aiuole di Piazza Castello e di Piazza della Scala, sotto il monumento a Leonardo da Vinci, sono ricoperte di messi dorate ondeggianti al sole attraversate dai tram, demagogiche e insufficienti a sfamare i cittadini milanesi costretti a lunghe code per le misere razioni concesse dalla Tessera Annonaria. Questa mietitura cittadina appare come un’estrema presa in giro di un regime ormai allo sfascio e forse il progressivo distacco psicologico del popolo italiano dal fascismo inizia lentamente proprio dalla fame patita in quell’anno terribile.

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[8] Via Silvio Pellico N.7 “I supplici

Gli avvenimenti precipitano, non si miete più il grano e molti dopo l’8 settembre fanno la loro scelta di ribellione.
Fra i primi Giancarlo Puecher che pagherà con la fucilazione il 21 dicembre del 1943, condannato da un processo farsa.
 
“L’amavo troppo la mia patria non la tradite…”
 
La zia Szà, dopo la morte del nipote e l’arresto e la deportazione per rappresaglia del notaio Puecher, rimase sola a difendere la famiglia da quel mondo rovesciato, in cui erano le colpe dei figli a ricadere sui padri. Nella lettera al Comando Nazista invoca giustizia e clemenza. Non le avrà. Dopo una permanenza di qualche mese, piena di speranze e di illusioni, a Fossoli, Giorgio Puecher viene deportato a Mauthausen. Con con un coraggio che forse oggi ci è difficile comprendere, la Szà si reca anche di persona a chiedere la liberazione del cognato all’Hotel Regina, requisito dai Nazisti che, dopo aver ormai occupato militarmente la città, vi avevano installato il loro Comando: un luogo terribile di interrogatori, torture, da cui era quasi impossibile uscire vivi.
 

Milano 21 giugno 1944

Alto Comando Germanico
Milano Hotel Regina
 
Mi rivolgo a codesto Comando perché con magnanimità venga presa visione di quanto qui espongo, Mio cognato Dottor Puecher Passavalli, notaio in Milano, padre di tre figli minorenni e orfani di madre, venne arrestato il 13 novembre 1943 all’atto di una perquisizione eseguita dal capitano Senise dei carabinieri di Lecco, l’indomani che il figlio Giancarlo, suo primogenito, essendosi trovato fuori col coprifuoco, venne fermato.
Il figlio Giancarlo venne accusato di appartenere a bande di ribelli e fucilato il giorno 21 dicembre.
[…]
Avvenuta la liberazione il dott. Puecher venne chiamato alla questura di Como il 15 febbraio e consegnato alle SS di Cernobbio e subito a quella dell’Hotel Regina e incarcerato a San Vittore, ove rimase due mesi; il 26 aprile partì per il campo di concentramento di Fossoli presso Carpi (Modena) dove è tutt’ora. Si sa che il Prefetto di Como Franco Scassellati, coadiuvato dal Questore Pozzoli hanno per l’azione del figlio, dimostrato viva ostilità al padre, ritenendolo, data la minore età del ragazzo, come responsabile, mentre tutti possono dimostrare come il padre vivesse fuori da ogni campo e opinione politica,
[…]
Certi che questa nostra domanda verrà esaminata, ci rivolgiamo fidenti alla giustizia e alla clemenza di codesto Comando.

Ringraziando
Lia Gianelli

 

15 Gennaio 1944
All’Eccellenza il Prefetto Di Como

 
Dal Conte Treccani degli Alfieri abbiamo saputo del benevolo vostro interessamento alla sorte della nostra povera famiglia così duramente provata dalla sventura.
Abbiamo anche saputo che sul nostro Papà gravano delle accuse per incaute parole che egli, nell’esasperazione del suo dolore dopo la catastrofe, avrebbe pronunciato in carcere.
Ciò aumenta il nostro affanno, mentre si attendeva dalla sua liberazione un addolcimento delle nostre sofferenze.
Noi siamo orfani della mamma adorata: con essa ci è mancato e ci manca la sua amorevole assistenza; ritornateci, Eccellenza, con un atto di pietosa clemenza che solo Voi potete fare, il nostro povero Papà e Vi assicuriamo che noi ci stringeremo amorevolmente attorno a lui, affinché trovi nel nostro affetto tutto il possibile conforto,
Chiusi nel nostro dolore ci adoperiamo affinché la nostra immensa sciagura sia causa solo di pietoso compianto.

Gianni Puecher Passavalli
di anni 13
Virginio Puecher Passavalli
di anni 17

 
All’interessamento del Conte Treccani e alla supplica dei figli il 16 Gennaio il Prefetto di Como risponde così:
 

Voi mi avete molto parlato del Dott. Puecher con accorato sentimento di amicizia, mi avete detto di lui cose belle, buone e dolorose, mi avete per lui offerto la vostra personale garanzia.
Orbene, voglio credervi e benché al Dott, Puecher vari addebiti diretti ed indiretti possono essere mossi. Vi comunico di aver disposto che la Questura Repubblichina di Como, pur dando corso agli atti ed alle risoluzioni relative alla sua attività, provveda alla sua scarcerazione immediata. […]

 
Ma le decisioni del Comando Nazista erano ormai superiori a quelle di tutti gli apparati della Repubblica di Salò e non ci fu nessuna scarcerazione.

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[9] Via Larga N. 14 “Con le unghie e con i denti”

L’11 dicembre 1944 è nevicato sulle macerie. Il 16 una Milano illividita dal freddo e dalla fame accoglie il Duce che pronuncia il suo ultimo discorso pubblico al Teatro Lirico di Via Larga. Sorprende l’accoglienza festante della gente e dei fedelissimi Repubblichini. Forse una specie di ultimo ottuso tributo prima della fine vicina. Da Gargnano sul Lago di Garda, dove vive ormai ostaggio dei Tedeschi, invecchiato smagrito, stretto nel cappotto militare Mussolini arriva al Lirico salutato da tre squilli di tromba, dalle braccia alzate nel saluto romano e dal canto di Giovinezza. Parla in pubblico per la prima volta dal 25 luglio.
Camerati, cari camerati milanesi…” esordisce.
Noi vogliamo difendere, con le unghie e coi denti, la Valle del Po, vogliamo che la Valle del Po resti repubblicana in attesa che tutta l’ Italia sia repubblicana.
E lo ripete poi ancora nel finale, quasi a volersene autoconvincere.
Camerati, cari camerati milanesi. E’ Milano che deve dare e darà gli uomini, le armi, la volontà e il segnale della riscossa“.
Ma è un discorso fiacco, sono lontani gli arroganti e assertivi dialoghi con la folla osannante. Traspare la stanchezza retorica e lo svuotamento delle parole e dei fini. Si inscena poi anche una parata militare e un discorso sulla torretta di un carro armato davanti alla Muti di via Rovello.

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[10] Strasse: Via Gaetano Negri 10 “Ultime parole”

Sulla ⇨ Scheda Personale del Prigioniero del Campo di Concentramento di Mauthausen sono minuziosamente registrati i dati anagrafici e somatici di Giorgio Puecher. Questo cartoncino giallo è fra le poche carte che lo riguardano pervenute dall’Archivio Generale dell’Olocausto di Bad Arolsen, insieme alle due pagine del Totenbuch, ⇨ [1] e ⇨ [2], il libro della morte, che registrava cause e ora del decesso. L’indirizzo di residenza riportato, Via Negri 10, è in realtà quello dello Studio Notarile Cassina-Puecher.
Il Totenbuch riporta, a distanza di cinque minuti l’uno dall’altro, l’ora precisa in cui i poveri corpi venivamo cremati.
Giorgio Puecher Passavalli | ital.| Notar | deceduto per “allg. Korperanfall“, alla lettera “crisi generale del corpo“, “decadimento fisico” viene cremato alle ore 1.05 dell’8 aprile 1945. Il campo sarà liberato dai Russi l’8 maggio, solo un mese dopo.
Nei momenti convulsi della Soluzione Finale il forno ardeva notte e giorno, senza tregua
Sulla scheda il segno delle morte è solo una piccola croce a matita in alto e di fianco alla data sulla riga che la sbarra trasversalmente.
Un uomo si poteva cancellare con un sottile rigo di matita.
Il timbro rosso sbiadito HOLLERITH-ERFASST letteralmente “schedato nel sistema Hollerith” fa riferimento al ⇨ sistema di schedatura con schede perforate inventato da Hermann Hollerit e usato nei Lager con macchine fornite dall’IBM americana nell’ingente e vergognoso giro d’affari che ruotava intorno alle Fabbriche della Morte, pesantemente colluse con il sistema capitalistico non solo tedesco.
In queste lettere inviate da Fossoli alla famiglia traspare fino all’ultimo la commovente, e davvero sempre per me straziante, speranza dell’uomo di Legge e Giustizia incredulo fino all’ultimo di quanto lo stava aspettando.
 

Lettera di Giorgio Puecher
25 maggio dal campo di Fossoli
a Lia Gianelli

 
[…] Penso alle nostre belle rose e alla prima nostra frutta; chissà, presto potrò venire a godere almeno la seconda, gli avvenimenti promettono bene… Chissà quando la potrò rivedere e con essa rivedere il luogo dove giacciono i nostri due angioli! Giancarlo è spesso all’ordine del giorno nei discorsi e da chi l’ha conosciuto anche soltanto per riverbero. […]

 

Lettera di Giorgio Puecher
30 maggio dal Campo di Fossoli
a Lia Gianelli

 
[…] Dì a Rosa che ho molto gustato la sua torta, e che spero di non ritardare tanto a gustarla anche a casa…[…]

 

Lettera di Giorgio Puecher
21 giugno 1944 dal Campo di Fossoli
a Lia Gianell
i
 
Carissima Lia, partiamo per ignota destinazione, probabilmente per ora, per Suzzara, sospendi quindi per ora qualunque invio, vi terrò informati. Comunque in alto i cuori e speriamo di rivederci presto. Un bacione e un abbraccio a tutti voi.

 

Cartolina spedita da Fortezza
al notaio Piero Cassina
collega dello studio Notarile di Via Negri.

 
Raccomando ai figlioli di essere forti. Salvo contrordine o miracolo, stasera parto, sia pure in ottima e scelta compagnia pel campo di concentramento (sembra a Innsbruck). Prega subito l’amico T, e tutti quelli che possono influire che ottengano un ritorno immediato o almeno sollecito, proponendo se del caso Ces. B. Speravo di fare a meno anche di questa nuova prova: l’unica certezza è che sarà breve e che con l’aiuto di Dio ne potrò uscire validamente. Il pensiero più grave è quello dei miei figlioli, tanto più dopo quanto mi è successo, ma il guaio si è la categoria alla quale appartengo. Raccomando a te, ai miei cognati, ai miei cugini Majno che so tanto buoni, i miei figliuoli e in modo speciale a te e a mio cognato di assistere mia cognata negli interessi di famiglia; per quanto possa occorrere di urgente avete la procura. Baciami i figlioli, salutami cognati, parenti, amici e clienti; un abbraccio fraterno. Appena possibile vi manderò il mio indirizzo.

 
Un’altro messaggio arriva per vie traverse: ⇨ una cartolina per Ginio gettata dal treno verso l’Austria.

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[11] Il cerchio si chiude

Il 25 Aprile 1945 Milano è libera.
La sede dell’EIAR che, dopo il bombardamento del Palazzo di Corso Sempione, si era trasferita in periferia, nella ex Scuola Elementare di Morivione, viene occupata dal Comitato Nazionale di Liberazione e trasmette con il nome di Radio Milano Libera. La voce di Sandro Pertini invita alla Sciopero Generale.
Le ultime parole di questo lungo itinerario sono quelle di Lia Gianelli, che in un suo memoriale rievoca i momenti tristi e indimenticabili di quando il 15 Dicembre 1944, rilasciata dopo il suo arresto insieme alle domestiche Vanna, Berta e Rosa, avvenuto l’11 Dicembre, si reca a visitare Giancarlo e Giorgio nel carcere di San Donnino a Como dove erano detenuti.
 

Quando andai a Como dai miei, si rise del soggiorno a San Donnino: ma vi era un velo di preoccupazione sul viso di Giancarlo. Giorgio era pure inquieto, ma di riflesso. Bastò una settimana perché la tragedia avvenisse.
Il lunedì 20 dicembre vennero chiamati alla questura padre e figlio. Io ero con loro e li vidi impallidire un poco. Salutai Giancarlo dicendogli di non perdersi d’animo; con un sorriso rispose: “ Stai sicura Szà, sai che non mi perdo mai d’animo.”
Dovevano essere le ultime parole, che udivo da lui, e fu l’ultimo bacio che gli diedi.

[…]
Il giorno 30, di sera, giunse a Lambrugo un’autolettiga della Croce rossa: e al buio, ché doveva essere ignoto, ritornò Giancarlo a noi in una semplice bara e passò la notte in un nido di verzura che gli avevamo preparato. Di sotto ai fiori nascosi una bandierina. la bandiera della Patria per la quale si era offerto.
E poi andò a riposare accanto alla mamma, la mamma sua che lo aveva accolto in cielo.

[…]
All’Hotel Regina, sede delle SS, ero derisa quando insistevo a chiedere, finché mi si intimò di desistere se non volevo correre il rischio della confisca dei beni ai Puecher.
[…]
Lunghi mesi di dolore e di pena passarono, Ginio dopo aver vissuto nascosto a Milano – preparandosi alla licenza liceale in condizioni d’animo assai tristi, povero figliolo, è pur riuscito bene nonostante le difficoltà, dovette essere allontanato per sicurezza. Sempre per mezzo dei buoni amici Treccani ⇨ ebbe modo di andare in Svizzera accompagnato da Pio Bruni (ora si può dire).
Partì il 18 gennaio 1945, Rimanemmo soli, Gianni ed io, nella triste dimora di Lambrugo.

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La disobbedienza sentimentale – Eleonora Lombardo

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Incipit del romanzo d’esordio di Eleonora Lombardo

La disobbedienza sentimentale

Cairo Edizioni, 2019

 

Le cose andranno come devono andare» aveva detto Sogno qualche settimana prima, quando aveva incontrato l’ultima volta la Professoressa – così la chiamava – per specificare i dettagli del piano.

Lei lo aveva guardato con terrore e lui se ne era accorto, sembrava volesse sentirsi dire: «Non è possibile». Lei delegava al destino la sua salvezza e proprio mentre sanciva il suo patto, sperava in segreto che si presentasse un intoppo, che fosse proprio Sogno, poveraccio fra i poveracci, a illuminarla, spiegandole che la sua era un’idea assurda, pericolosa, illegale.

Invece lui aveva tirato fuori quell’oracolo che non lasciava scampo alle esitazioni: «Le cose andranno come devono andare». E così sia.

Il determinismo palermitano ancora una volta aveva avuto il sopravvento e in quel momento, mentre lei dormiva nel suo letto la sua ultima notte tranquilla, Sogno era gasato come se fosse cominciata una gita clandestina, o come se fosse la sua vita quel fluire di respiro fresco, quel cieco vedere gli alberi e le sterpaglie di traverso al buio, quella lieve brezza che drizzava i peli dei suoi avambracci, quell’essere lì, in silenzio, padrone dell’universo.

Sogno non articolava così le sue fantasie, lui era epidermico e traduceva il suo sentimento in leggerezza intorno al cuore, in gioia che annacquava lo sguardo e rilasciava i sensi e scorreva come una sorsata di birra fresca che dalla gola si diffondeva fino a rivelare un sapore che dallo stomaco ritornava al cervello e scioglieva le ginocchia.

Questa mollezza concreta e neomelodica la voleva condividere con Maradona, il suo compagno, anche se era certo di non trovarlo ben disposto a filosofeggiare sul senso della vita, in piena notte, in mezzo alla campagna, di traverso a una ferrovia e con un lavoro da portare a termine. Uno di quelli che davano senso alla vita di delinquenti di serie B come loro.

Pensando al suo compagno, Sogno si inchiodò di colpo e realizzò di non sapere più da quanto tempo non sentiva alle spalle i passi veloci, saltellanti e rumorosi di Maradona.

Si girò, e non lo vide.

Fino a dove arrivavano i suoi occhi non c’era traccia d’uomo, solo natura aggravata dalla notte, quella che un momento prima lo aveva innamorato e adesso quasi lo spaventava tanto che guardando indietro gli sembrava di essere appena uscito dallo stomaco di un mostro, espulso con un rutto. La luna che lo aveva rischiarato era diventata un riflettore posticcio puntato sull’acciaio arrugginito dei binari e le agavi nell’ombra esibivano soltanto gli aculei come artigli.

Senza muovere un passo, provò a cercare Maradona con lo sguardo, mettendo a fuoco gli angoli oscurati dalle fronde. I cespugli, le foglie, i muretti a secco non si distinguevano dalle ombre. Quando poi si rassegnò ad averlo perso, dentro un pozzo o dentro una buca mentre lui camminava avanti e si riempiva il cuore della campagna notturna, si decise a chiamarlo. A gridare sussurrando di gola: «Maradò… Maradò…».

«Che minchia gridi?»

«Ma dove minchia sei?»

«Qua sono.»
«Ma dove? Testa di minchia, non ti vedo.»

«Qua, qua sotto. A sud.»

«E che minchia sono, una bussola?»

Sempre immobile, come se i piedi avessero messo radici e anche lui fosse parte di quello scenario, Sogno ruotò gli occhi alla ricerca del compagno. Pochi passi a fianco, completamente sdraiato sul binario, con le braccia molli, aperte come un Cristo con i gomiti inchiodati al profilato d’acciaio, stava Maradona. Tranquillo.

«Ma che minchia stai facendo, Maradò?»

Maradona silenziò, poi respirò con il naso e fece uscire l’aria tutta in un colpo dopo essersi gonfiato il petto: «Cerco lavoro per il mio principale».

«Tu sei pazzo preciso, alzati che da qua il treno ancora ci passa. Che gran testa di minchia.»

«Dimmi una cosa…» domandò Maradona senza muoversi.

«Prima alzati, non ci parlo con i morti.»

«Ora mi alzo, ma tu dimmi… è sicuro che se ti passa un treno di sopra si muore?»

«Sì, è sicuro Maradò.»

«Anche se uno è preparato, e si fa piatto piatto tipo una sarda?»

«Sì, Maradò. È sicuro che se non ti alzi vai a riempire una cassa al tuo principale.»

«Ma i treni… pure di notte passano?»

«Dipende dove vanno.»

«E dove possono andare se passano da qui… o a Trapanio a Palermo.»

«O all’inferno a lasciare a te, alzati testa di minchia. Ti ho detto alzati» digrignò Sogno.

Maradona si alzò silenziosamente, si spolverò e smosse con la punta delle scarpe qualche pietra della massicciata, e mentre si rimetteva ligio a seguire Sogno pensò al suo datore di lavoro, alle Pompe Funebri La Fata, e gli venne da ridere. Ogni volta che Maradona leggeva, all’angolo tra via Crispi e via Matteotti, l’insegna delle Pompe Funebri La Fata, gli spuntava un sorriso.

Qualche anno prima, a casa, a un’ora tarda, aveva visto un film porno che si intitolava La fata delle pompe, una storia tutt’altro che funerea. Da quando aveva visto quel film sul quale si era abbondantemente masturbato, andava a lavorare con uno spirito diverso e pensava alla morte con meno tristezza ma, anzi, con un pizzico di malinconico erotismo. Immaginava che, una volta chiusa, la bara si trasformasse in un boudoir a luci soffuse e che da qualche parte si materializzasse una vecchia puttana molto truccata che rilassava il cliente con uno svogliato pompino. Nella fantasia maradoniana le Pompe Funebri La Fata offrivano questo servizio. E lui era orgoglioso di farne parte. Preso da questo pensiero la morte gli sorrideva e, pensandoci, disse a Sogno: «E che fa? Tanto, prima o poi, tutti là dobbiamo andare a coricarci. Nella cassa del mio principale».

«Testa di minchia, non sei altro che una testa di minchia» sentenziò Sogno, che la poesia bucolica se la teneva solo per sé, poi tutto il mondo lo svirgolettava a colpi di minchia. Per non sbagliare.

 


 

Eleonora Lombardo è nata a Palermo nel 1978. Dopo la laurea in greco antico, ha conseguito il master in Teoria e tecnica della narrazione pres­so la Scuola Holden di Torino. Ha lavorato come autrice in Rai e per il teatro. Giornalista, scrive di cultura per l’edizione siciliana di la Repubblica e tiene corsi di scrittura creativa. Il resto lo fa da ghost, compreso vivere a Palermo. La disobbedien­za sentimentale è il suo primo romanzo.

Dix fiabes difficìles

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di Andrea Franzoni

“l’eroe in A. F., in quell’unica riga, è un corpo in cui il peso del portato tradizionale e familiare si depone nel senso del mantello. Si depone cioè si mette al margine, tenta anzi di spostarsi ma il peso del mantello, per sua assunzione, è un peso centrale. Individuale. Ma la deposizione del mantello è un continuo tentativo di dargli un posto per la notte. La tragedia dell’eroe si gioca con un corpo da indossare. Il portato tragico è sempre nell’assunzione.”

R.Bisogno.

 

I

Cucinare un pozzo al centro del reale

E tra le due lune

La tua capacità di svegliarti

Metodo

Per mutare un pensiero in un problema.

Il tempo e lo spazio di Francesco Leonetti

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di Marco Rustioni

( fino al 31 gennaio si tiene presso la fondazione Mudima, via Tadino 26, Milano, da lunedì al venerdì 11-13 e 15-19, ingresso gratuito, la mostra Il tempo e lo spazio di Francesco Leonetti a cura di Marco Rustioni. Per ricordare lo scrittore riprende qui alcune pagine tratte da Il “caso Leonetti” utopia e arte della deformazione, Pacini Editore, 2010, di cui è autore lo stesso Rustioni, g.m.)

 

4.3 Un’ipotesi processuale: tra sperimentalismo e eversione

Che Leonetti sia malcompreso lo dimostra la scarsa attenzione ricevuta dal corpus narrativo e poetico su cui non esiste, in via preliminare, un’adeguata riflessione teorica. Manca del tutto, ad esempio, una qualche presa di coscienza relativa agli strumenti critici applicabili alle opere leonettiane. La complessità delle operazioni stilistiche e strutturali elaborate dall’autore rende tortuosa la lettura, ed i suoi testi non si prestano facilmente ad essere commentati perché richiedono un non indifferente sforzo esegetico. I modi dell’invenzione non rinviano quasi mai ad aspetti normativi e vincolanti, gli stessi poi tramandati dal patrimonio tradizionale, ma vengono assunti per essere smentiti e discussi all’interno del mutevole orizzonte cognitivo ed epistemologico che intendono affrontare[1]. Con i generi e i sottogeneri attraversati nel corso della sua esperienza artistica l’autore mantiene un rapporto pragmatico e neppure rinuncia, preso atto dei valori espressi dalla norma letteraria, a svincolare la forma dalle regole imposte dall’editoria. Su questo piano tutte le sue opere possono considerarsi meta-narrative e meta-poetiche, in quanto Leonetti invita il lettore a confrontarsi pure con gli strumenti conoscitivi da lui implicitamente evocati. In un certo senso, il circuito letterario descritto da Jakobson, fondato sul rapporto tra emittente e ricevente, non sembra più concentrarsi in modo esclusivo sul testo, e per quanto riguarda Leonetti è sempre opportuno mantenere in costante sollecitazione dialogica un altro canale comunicativo, quello che unisce tra loro strategia autoriale e intervento dell’interprete. Al contrario di quanto accade nella consuetudine, simile modalità d’interscambio non è ricostruibile a posteriori ma è implicitamente assorbita dalle opere, che introiettano principi di riflessività nel processo compositivo.

Ma a questo atteggiamento è collegabile un’ulteriore difficoltà ermeneutica: Leonetti non accumula sui detriti della propria formazione nuovi elementi di poetica e nemmeno stabilisce una volta per tutte l’asse delle proprie convinzioni ideologiche. Il recupero dei modelli finora citati, da Diderot al manierismo brechtiano, lascia  immaginare che Leonetti sia sospeso, più di quanto lui stesso abbia voluto finora ammettere, fra centro e periferia, fra innovazione e tradizione, fra scelta controcorrente ed abile riuso, sul piano inventivo, del bagaglio culturale di cui si sente erede. Rispetto al altri intellettuali della medesima koiné sperimentale, egli sembra perciò impegnato a trasmettere frammenti di un passato letterario sottomesso alle regole imposte dal codice comunicativo e a liberarne le possibilità rivoluzionarie attraverso un’elevata tensione utopica. Da questo punto di vista, se è lecito qui proporre una categoria a cui assimilare l’autore, avanzerei l’ipotesi di una formula non ancora adottata, quella di sperimentalismo eversivo. In fondo Leonetti cerca di agire all’interno della “tradizione del nuovo”, ma resta convinto che sia necessario svincolarsi da ogni classificazione e ribadire il proprio sradicamento di marginale. La progettualità esibita dalle sue opere non mira a stabilire, una volta per tutte, un nucleo di conoscenza più o meno duraturo a cui aggregare, nel corso degli anni, ulteriori variazioni di senso.Da qui deriva il carattere eversivo dello sperimentalismo promosso dall’ autore teso a cogliere, in una serie di sintesi parziali, lo svolgimento di una duplice processualità in fieri, quella esterna al soggetto, influenzata dal contesto storico e materiale, e quella dell’individuo, costruita mediante un’attenta rielaborazione dei dati di realtà.

Se, come credo, è a partire da questa prospettiva che deve essere giudicato il corpus d’autore, è opportuno allora discutere delle modalità di lettura attuate dalla critica per deciderne l’esclusione (o l’ammissione) all’interno del canone. Leonetti si rivela mal interpretato perché dei testi sinora editi, anziché ricostruire i rapporti intrecciati col referente storico-sociale, viene in qualche modo postulata un’improbabile uniformità d’insieme. Ora, simile pratica intellettuale è viziata, ab origine, da un malinteso: predisporre un ordinamento unitario e di tipo macrotestuale delle sue opere significa perdere di vista l’intento eversivo che connota la strategia culturale promossa da Leonetti. Ogni volume pubblicato è da considerarsi strettamente interconnesso con i temi più dibattuti dell’epoca e costituisce una risposta immediata alle sollecitazioni provenienti dal contesto. In assenza di simili presupposti, è quasi inevitabile valutare in modo restrittivo le componenti formali delle sue opere, che non sembrano in grado di abbattere i confini della prima ricezione e tantomeno di entrare a far parte di un patrimonio di lunga durata. Ecco perché merita raccordare ai rispettivi campi d’appartenenza, se non i testi sinora analizzati, almeno i raggruppamenti proposti. La narrativa degli anni Sessanta resta incomprensibile se non viene messa a confronto con le soluzioni romanzesche elaborate, negli stessi anni, dagli esponenti della neoavanguardia. Attraverso Conoscenza per errore, L’incompleto e Tappeto volante, con gli autori del Gruppo 63 Leonetti cerca di stabilire un dialogo o di avviare una dialettica di ordine contrappositivo, e rispetto a simile produzione la sua opera rivela una complessità e un’originalità decisamente superiori.[2] Per le raccolte degli anni Settanta invece, senza dubbio Fortini esprime con Questo muro (1973) un inavvicinabile modello di riferimento, mentre tra gli sperimentali, solo Pasolini mi sembra offrire in Trasumanar e organizzar (1971) un apporto altrettanto significativo. Ma esclusi questi due nomi, è difficile inserirne altri che perseguono, negli stessi anni, la tensione etico-civile trasmessa da Percorso logico e da In uno scacco. In ultimo, tutte le opere che compongono la terza fase dell’esperienza artistica di Leonetti, quella allegorica, rinviano a soluzioni progettuali di notevole efficacia e non possono non avere un ruolo di primo piano nel panorama degli ultimi anni. Campo di battaglia (1981) è forse il testo più riuscito e significativo di tutta la sua produzione, mentre Palla di filo (1986) inaugura una stagione conflittuale ed eversiva a cui Leonetti contribuisce in prima persona assieme al Sanguineti di Novissimum Testamentum (1986) agli  Epigrammi ferraresi (1987) di Pagliarani e a Nel silenzio campale (1990) di Paolo Volponi. Con ogni probabilità infine, sia Le scritte sconfinate (1994) che Piedi in cerca di cibo (1995) rappresentano le estreme propaggini di una periferia antinormativa di cui interpretano con originalità l’orientamento destabilizzante.

In questa rete allargata di riferimenti, di volta in volta Leonetti assume un ruolo di primo piano e le sue opere pervengono a una non scontata efficacia artistica. Ma simile capacità d’intervento diviene visibile solo smembrando in una serie di orizzonti d’attesa separati l’asse diacronico del secondo Novecento. Ad ognuno di essi l’autore ha offerto una risposta ed ha agito da protagonista in tutti i dibattiti avvenuti in quasi mezzo secolo di attività culturale. Detto questo, non intendo affermare che Leonetti abbia dato vita ad una serie di opere memorabili e tantomeno attribuirgli, con eccessiva arbitrarietà interpretativa, un ruolo centrale nel canone del Secondo Novecento. Semmai è opportuno ridiscutere della funzione critica svolta da alcuni autori rimasti volutamente ai margini del sistema. L’asse centrale del canone, così come si è stabilito negli ultimi trent’anni, non può non essere espressione di un’identità estremamente composita e a cui concorrono varie istituzioni del corpo sociale[3]. Rispetto a questo ordine precostituito, riconducibile a processi di stabilità e di compromesso, Leonetti decide di non sottostare ad alcun vincolo normativo e di mantenere il suo progetto artistico in un’area fluttuante e laterale, quella, se non altro, più contraddistinta da rivolgimenti e da conflitti; e se l’autore non ha lasciato un segno indelebile, la sua presenza in tutti gli snodi cruciali della storia recente non può essere messa in discussione. In fondo, paragonato agli altri sin qui citati, se si eccettua Fortini e Pasolini, Leonetti non è certo considerabile un autore secondario, e tutte le questioni relative alla grandezza delle sue opere sembrano costituire un alibi privo di fondamento.

 

4.4 La crisi e le ossessioni (della critica). Leonetti e la contemporaneità

Le cause allora sono da ricercarsi altrove. Certo, al contrario di quanto avvenuto per altri dell’area sperimentale, l’autore non ricorre a schemi predefiniti né sembra in grado di divenire un marchio identificabile, un sottoprodotto culturale “alternativo” destinato ad un target di lettori. Leonetti rivela infatti un’accentuata idiosincrasia nei confronti dello status quo e quasi mai indulge in un abile e calcolato culto della propria immagine, né si dimostra scrittore che ama gestirsi e risparmiare energie. Ma soprattutto, in linea con quanto emerso negli anni della protesta, la letteratura scaturisce da un contatto più dinamico col mondo reale. Il comportamento, le attitudini, la capacità di rompere e di inventare nuove forme organizzative, acquisiscono nella sua ricerca un ruolo predominante, e il primato attribuito alla cultura, intesa come luogo di incontro tra valori ereditati e norme socialmente gerarchizzate di diffusione, sconta ora una crisi irreversibile. Subentra una praticabilità vissuta, un confronto spregiudicato e creativo con le fonti del sapere: per Leonetti, l’esperienza e l’ampliamento percettivo e spaziale della realtà, la capacità di intervenire da protagonista al suo interno, possono contrastare il rigore astrattamente teorico imposto dai modelli conoscitivi dogmaticamente appresi. Ecco, credo che questo sia divenuto paradossalmente inaccettabile, o comunque situato fuori dalla prospettiva del presente, quasi che l’orizzonte odierno non riuscisse più a tradurre un simile ordine di problemi in un sistema di valori condivisi. Ma se una parte delle istituzioni che compongono l’universo della letteratura non riesce più ad accettare una simile sfida, ciò è ascrivibile, innanzitutto, ai problemi di identità incontrati negli ultimi anni dalla critica, la cui crisi ha richiamato l’attenzione di molti autorevoli interpreti. Come già ricordato, i termini della querelle aperta da Segre nel 1993 possono rivelarsi utili per spiegare l’ostracismo che attualmente circonda Leonetti, ma solo a partire da un essenziale rovesciamento di metodo. Non credo infatti sia un azzardo sostenere che la sua scomparsa dal canone possa fornire più di uno spunto di riflessione sui limiti e sulle difficoltà della critica odierna. Nel corso degli ultimi anni è venuta meno una gerarchia di valori capace di trasmettere la pluralità delle posizioni letterarie, ed è per questo che un certo modo di intendere la realtà, configurabile come luogo del conflitto e del progetto, non riesce più a incidere sui processi sociali. Da questo punto di vista la vicenda di Leonetti si rivela, più di altre, paradigmatica. Non è un caso che l’indifferenza attuale colpisca l’autore più deciso, tra quelli ancora in vita, ad affrontare in prima persona gli eventi storico-culturali della seconda metà del secolo. Ma soprattutto è ancor meno casuale che il valore della sua scrittura non sia più riconosciuto. In fondo anche dai lavori più recenti, forse non all’altezza di quelli pubblicati, almeno, fino alla metà degli anni Novanta, traluce una profondità stilistica che pochi continuano a perseguire tra quelli della sua generazione, più volte rassegnata ad accettare tutti gli effetti di comunicabilità imposti dal mercato. La scrittura deve in qualche modo coinvolgere il destinatario in uno spazio di ricerca comune e la letteratura, come del resto accadeva per Volponi, per Pasolini e per Fortini, resta una scommessa fondata sul responsabile impegno intellettuale. Ecco perché, al di là del dibattito teorico merita forse ristabilire per mezzo, anche, di questi autori, che hanno attraversato l’ultima tranche epocale, un modello di società su cui ancora scommettere. Da questo punto di vista, l’opera di Leonetti mira, in modo se non altro eccentrico, a sovvertire il senso comune e ad elaborare ipotesi di ricerca destabilizzanti, e su questi aspetti può fornire un vettore orientativo di riferimento. Un simile esercizio mi pare sempre più necessario anche perché il dibattito sulla crisi della critica rischia di rimanere, al di là di alcuni meritevoli interventi, del tutto astratto. A tal proposito, è impossibile non concordare con quanto afferma Lavagetto: il sintomo più rilevante della crisi è l’esistenza di una fin troppo cospicua letteratura secondaria dedicata a questo tema. L’estesa bibliografia elaborata in questi anni non sembra interessata a risolvere le questioni poste dal dibattito ma ad accumularsi su se stessa e a riprodurre, colpita da una forma di elefantiasi sclerotizzante, argomenti già affrontati. Sempre più manca, come avverte Lavagetto in un suo recente volume del 2005, l’ossessione del critico.

Piuttosto […] è qualcos’altro di cui avverto la mancanza e  che non mi è  facile definire: salvo eccezioni – e nonostante l’intelligenza, la vivacità, lo strumentario ricco e articolato – quello che non c’è quasi mai (o che non avverto quasi mai) è l’ossessione del critico, il suo tornare e ritornare caparbiamente sugli stessi punti, ponendosi le stesse domande e cercando di aggredirle da posizioni diverse. Mancano i punti d’ingorgo, quelli su cui capita di vedere i critici accanirsi nel tentativo di trovare una via d’uscita, una soluzione d’emergenza: sono nuclei che non si lasciano aggirare o rimuovere, sono citazioni che ritornano come enigmi imprescindibili, lance piantate nella carne, domande senza risposta ma che non si lasciano eludere[4].

 

Ad una tale denuncia la critica può pretendere di offrire una risposta solo se l’urgenza di nuove ossessioni si tradurrà in rinnovate forme di impegno sociale. Come ha ribadito di recente Luperini[5], se sarà in grado di inventarsi, a partire dai bisogni suscitati dal contesto, possibilità pratiche d’intervento, la letteratura potrà ritagliarsi ancora spazi d’erosione e sarà in grado di trasformare il dissenso in un organico e coeso modello progettuale, in una forma di prassi socialmente orientata, rivolta a comunicare verso l’esterno il proprio significato e a produrre, più o meno condivisa o discutibile, una verifica dell’esistente. A questo proposito si rivela ancora attuale quanto Fortini afferma in un intervento del 1946 apparso sul «Politecnico» e dedicato all’edizione critica delle Rime di Dante curata da Gianfranco Contini.

[…] quello che distingue una cultura attiva e viva da una cultura di decadenza è appunto l’attitudine a non abitare tra i monumenti della propria letteratura nazionale (e dall’altrui) come tra i vaghi miti di una religione defunta, a quel modo che fanno i fellah tra le statue dei Faraoni o i patagoni fra i colossi dell’Isola di Pasqua; ma a scegliere invece di render parlanti alcuni di quei monumenti ed abitabili alcune di quelle necropoli o chiese o città; e abbattere il resto[6].

 

Con ogni probabilità tutto questo, se riferito a Leonetti, può apparire paradossale. Che in un domani non troppo lontano la forza del suo lavoro possa oltrepassare i limiti esistenti non è ancora postulabile, inutile farsi illusioni. Ma la speranza richiede, in questo caso, una paziente capacità di attesa. Vegliare significa, anche, non farsi trovare impreparati.

 

Note:

 

[1] Utili indicazioni e spunti teorici, qui variamente rielaborati, scaturiscono da M. Ganeri, Il romanzo storico in Italia, Manni, Lecce 1999, pp.7-25.

 

[2]Per quanto riguarda l’aspetto formale, solo Fratelli d’Italia, negli stessi anni, risulta in grado di attraversare le contraddizioni del decennio con più incisività (e, non sarà inutile sottolinearlo, con maggiore frivolezza e cinismo).

 

[3] Utili a riguardo sono le indicazioni offerte da R. Luperini, Il canone oscillante: postmoderni e neomoderni nell’ultimo trentennio, in La fine del postmoderno, Guida, Napoli 2005, pp. 67-79.

 

[4] M. Lavagetto, Eutanasia della critica, Einaudi, Torino 2005, pp.67-68.

[5] R. Luperini, Precettistica minima per convivere con la “crisi della critica” e provare ad uscirne, in La fine del postmoderno, cit., pp.23-31.

[6] F. Fortini, (Come leggere i classici), in «Il Politecnico», 31-32, 1946. Ma il passo è mutuato da Saggi ed  epigrammi, Mondadori, Milano 2003, pp. 1248-1249.

 

 

 

I poeti appartati: Anthony Hecht

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Nota

di

Alida Airaghi

Di Anthony Hecht (New York, 1923Washington, 2004), la critica ha sempre sottolineato sia l’interesse per le tragiche vicende storiche del ’900 (la seconda guerra mondiale, a cui partecipò combattendo come fante in diversi paesi europei, e l’orrore dell’Olocausto, di cui fu testimone diretto durante la liberazione del campo di concentramento di Flossenbürg, nell’aprile del ’45), sia l’adesione a scelte formali severamente controllate e poco consuete, attraverso l’utilizzazione del pentametro giambico, con cui dava luogo a versi lunghi e complessi, dall’andamento narrativo, prediligendo la forma del poemetto rispetto alle composizioni brevi.

Nato da genitori ebrei-tedeschi, studiò letteratura inglese al Bard College di New York, dove ora è sepolto: conobbe e frequentò i più importanti scrittori della sua epoca: da Jack Kerouac a Robert Lowell, Randall Jarrell, Elizabeth Bishop, Wystan Hugh Auden e Allen Tate. Professore universitario alla Rochester di New York e alla St. George di Washington, dagli anni ’50 fino alla morte pubblicò diversi volumi di poesia e vinse significativi premi (tra cui il Pulitzer nel 1968). In Italia sono stati editi solo I vespri veneziani (L’obliquo, Brescia 2012) e Le ore dure (Donzelli, Roma 2018).

Tratti da sei raccolte scritte da Hecht tra il 1967 e il 2001, introdotti da Joseph Harrison e resi in una sapiente e ardita versione da Damiano Abeni e da Moira Egan, i versi di quest’ultima antologia schiudono agli occhi del lettore un ventaglio di possibilità interpretative, offrendogli non solo molteplici puntelli culturali di riferimento (dalle Sacre Scritture al teatro elisabettiano, dai tragici greci al cinema, dalla mitologia all’arte figurativa), ma soprattutto una gamma di emozioni contrastanti cui abbandonarsi: ironia e spavento, brutalità e delicatezza, inquietudine e commozione, rabbia e pietà.

A cominciare dalla poesia con cui si apre il volume, in cui il senso del paesaggio e dei suoi colori vivifica e riporta alla coscienza un ricordo assopito: “In Italia, dove cose così sanno accadere, / una volta ho avuto una visione – ma, capirete, / in nulla come quelle di Dante, o dei santi, / forse per niente una visione”. Nel paese europeo che più amava, Hecht camminava lentamente “in una piazza calda di sole”, circondato da amici e magnifici panorami, quando improvvisamente allo splendore di Palazzo Farnese si sovrappose l’immagine “di una collina color topo e brulla”.

Con un procedimento da lui spesso adottato, una memoria personale riaffiora dall’inconscio, a turbarlo, oscurando minacciosamente la possibilità di un abbandono sereno alla bellezza e alla positività dell’esistenza. In questo caso, la visione della collina aspra e desolata davanti a cui adolescente trascorreva le giornate invernali, irrompe ostile con un annuncio di negatività.

Ma in altre poesie può essere una persona, un oggetto, un gesto o un dettaglio qualsiasi a indicare che il male può avventarsi inatteso, imprevedibile, a inquinare il corso della storia individuale e collettiva.

Così, nel “mondo di struggimento” che Hecht ama descrivere, troppo spesso bagnato da “inevitabili lacrime”, in cui anche l’ambiente più banale, tetro o squallido viene riscattato da un’aspirazione alla bontà (“le punte minuscole dei crochi / che si fanno strada nella luce tra cumuli di neve”), e giustificato persino nella sua bruttezza o crudeltà (“Chi avrebbe mai pensato / a un qualsiasi altrove?”), una matura cameriera che cerca conforto per una delusione amorosa nelle riviste patinate offerte ai clienti del suo albergo, solo osservando un grappolo d’uva su un tavolo apparecchiato intuisce “un profondo segreto dell’universo”, cioè la caducità e l’insignificanza di tutto ciò che accade, e a cui è saggio rassegnarsi. Anche una giovane donna malata di leucemia, preferendo non ricevere visite consolatorie dai parenti, si aggrappa al poco bene intravisto intorno all’ospedale: “pare non mi importi molto della fine, / di come tutto si sistemerà, se si sistemerà. / Invece siedo alla finestra, / guardo gli alberi di fronte”. L’ immagine esterna dell’intreccio dei rami, descritta con acuta sensibilità pittorica, le ricorda il giocattolo di un’amichetta, L’uomo trasparente nel cui corpo di plastica erano visibili gli organi interni, e tutto l’apparato circolatorio di vene e arterie rosse e blu. Mondo vegetale e fisico umano nascondono misteri insolubili, è illusorio pretendere “di poter guardare oltre, e comprendere il mondo”.

Anthony Hecht (far left), James Merrill, Richard Wilbur and others travel to the 50th Anniversary celebration of the Academy of American Poets at the Library of Congress
(https://www.poets.org/ )

Incomprensibile rimane soprattutto la malvagità gratuita, con cui le persone si comminano reciprocamente dolori e cattiverie, in tutte le epoche e latitudini: la governante teutonica fornita di “quel gusto particolare per il dolore inflitto” che terrorizza con sadica severità il bambino ebreo in sua custodia, profetizzandogli persecuzioni a venire; o il centurione romano costretto a osservare il suo imperatore mentre viene scuoiato vivo (“la pelle venne affidata a uno dei loro sellai / che la doveva conciare, imbottire e cucire. A che scopo?”).

Nella descrizione dei personaggi (specialmente felici sono i ritratti femminili), Anthony Hecht accompagna ai dati concreti e attuali, fisici e caratteriali, le fantasticherie e le elucubrazioni più imprevedibili, i rimpianti del passato e le speranze per il futuro, le delusioni e i desideri di vendetta.

La bellezza è ovunque (negli alberi, nel profumo di rosmarino, nei corvi “becchini” sui rami, nella neve e nelle nuvole, in tutti i colori della tavolozza di un pittore devotamente impegnato a “catturare quanta verità sia possibile”). Ma pure la colpa e lo sfacelo sono dappertutto, e l’elenco è impietoso: nella coppia di sposi che si sta separando con “duro non sentire”, nei malati di Aids (“l’intera / ciurma d’innocenti”), in una vittima torturata da aguzzini (“sorvegliata giorno e / notte da giovani pretoriani muniti di smartphone”), in Giuditta che vendica su Oloferne tutti i soprusi subiti dai maschi (“Anche i più fiacchi, nelle loro fantasticherie, / trionfano come atleti sessuali”), nella fidanzata abbandonata che si punisce con sesso e droga, per poi suicidarsi (“Due anni per lo più felici. / In tutto quel tempo cosa hai imparato di me? // … E quando te ne sei andato ho preso una brutta china”).

Ma è innanzitutto il bambino ebreo de Il Libro di Yolek, in una tra le composizioni più drammatiche e commoventi del libro, a impersonare la sofferenza innocente della vittima sacrificata da un carnefice ottuso e spietato: “Yolek che era debole di polmoni, e nemmeno un giorno / oltre i cinque anni, cui si impose di lasciare il pasto / e trascinarsi tra guardie armate”.

Il nazismo, la guerra, i campi di concentramento, essendo stati vissuti e partecipati direttamente dal poeta, tornano con un incubo ricorrente nei suoi versi, emblema del male assoluto e ingiustificabile (“ma per anni continueranno le urla, notte e giorno. // … La sera, Padre, al buio, quando imploro, / io sono là, io sono là”, “Perché tutto ciò mi scuote tanto, come un codice segreto / o un presagio attutito / di intenti ed eventi preordinati?”, “Sto in piedi al freddo sotto un pino / appena prima dell’alba, non so bene dove in Germania, / con un fucile Garand, freddo e bagnato, tra le mani”).

Il dolore sperimentato da soldato tormentò Hecht per anni, costringendolo addirittura a un lungo ricovero in clinica psichiatrica, e lo investì della missione di farsi testimone indignato di quella terrificante esperienza: “a me sta il compito di trovare parole / per ricordare come si deve // coloro che s’accalcano fitti / con numeri blu tatuati / di traverso sulle arterie, / gli ebrei che bruciano, muti”,

“Chi non impara dalla storia / ha come maledizione il compito di ripeterla”.

Nei poemetti di questa antologia ‒ argomentati razionalmente, documentati storicamente, attenti all’introspezione psicologica dei personaggi ‒, Hecht assume con orgogliosa consapevolezza il ruolo

di portavoce di un’etica calpestata da recuperare, in nome di una dignità che riguardi non solo il genere umano, ma anche tutto ciò che è vivo e respira, che è passato ma rimane fondamentale nella cultura e nella storia universale. Non rinunciando all’ironia e addirittura al sarcasmo, riesce tuttavia a farsi interprete della resistenza civile a ogni sopruso e ingiustizia, con la religiosità laica di un non credente convinto della necessaria affermazione del bene.

Se il suo impegno di poeta si esprime nell’eccellenza di una scrittura complessa, erudita, studiata nella struttura metrica, nell’uso sapiente delle rime, in una sintassi elaborata, l’impegno di uomo lo rende (come scrive nell’importante prefazione Joseph Harrison, sottolineando “il suo interesse per l’analisi, profondamente umana e spesso dolorosa, di chi siamo, di cosa abbiamo fatto gli uni agli altri e a noi stessi”), “il più limpido cronista della disumanità dell’uomo nei confronti dell’uomo, sia che il teatro di tale crudeltà fosse pubblico sia che fosse privato”.

Amnesia

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di Francesco Staffa

Amnesia, difesa da un trauma o impedimento alla presa di coscienza? Arrendevole oblio o irrequieto tormento? È tra questi poli opposti che si srotola la storia di Izzy Darlow. “Una storia a più voci, una varietà tale di voci da non sembrare la storia di un solo uomo”, che si struttura per cerchi concentrici e che arriva a lambire la Storia umana, a contenerla e a restituirla per la sua drammatica ferocia.
Una storia che Izzy narra come una confessione ipnotica, circolare, magnetica rilasciata alle inconsapevoli orecchie di un anonimo archivista. Un uomo dalla vita apparentemente ordinaria, un uomo che sta per sposarsi da lì a poche ore. Un uomo che, irretito dal racconto, devierà dal proprio percorso perché forse non era “destinato a costruire qualcosa”. Forse era “destinato a essere un vagabondo” e, nel suo girovagare, destinato a raccogliere il canto sussurrato dai luoghi. Destinato a chiudere il cerchio di quella narrazione che, inizialmente confusa e confusionaria, attraverso frammenti, riflessi, schegge “si ripete” e “riproduce come un cancro”. “Un dramma nel dramma, una storia nella storia: la più piccola parte di questo racconto contiene al suo interno, come un ologramma, l’inizio, lo svolgimento e la fine dell’intera vicenda”.
Disperato, incalzante, fluviale, il racconto di Izzy si intreccia, sovrapponendosi, alle storie di Katie (fragile e complessa icona archetipica della femminilità violata), di Campell (incarnazione di una coscienza dai tratti ambigui e mutevoli), di Margaret (rappresentazione del senso di colpa), della stessa famiglia di Izzy, di cui è rievocata la disgregazione (che è poi quella di un intero popolo se non quella dell’umanità tutta). Lo scenario è quello di una città, Toronto, ma ancor di più delle sue strade, dei suoi archivi, delle sue biblioteche, della sua decadenza e delle sue rovine da cui affiorano le fondamenta della Storia (individuale e collettiva). La città si fa corpo e mente, mostra le proprie ferite, le proprie crepe e, come la memoria, si disvela per essere raccontata e rivissuta. Ma per lacerare il velo rassicurante dell’oblio è necessario passare dall’oscura gola che sembra fagocitare ogni cosa richiudendola nel suo abisso profondo. È necessario abitare quella tenebra, lasciarsi soffocare dalla sua selvatica natura, affrontare il fantasma della colpa ancestrale che rende la gola viva, pulsante, divoratrice. È necessario morire lì per poter rinascere da quel grembo umido, sferzato dal vento. È necessario assecondare il dolore, assorbirlo e superarlo “in un momento di sintesi” in cui “qualcosa si chiarisce”. Solo così è possibile essere rigettati dalla gola per trovare poi il “proprio posto”. E da lì osservare “la mappa” con uno sguardo differente, pronto. Scoprire che d’un tratto dice qualcosa. Che “c’è una logica in quelle linee. Non si limitano a rinviare, parlano” o cantano. “La mappa si estende alla città che ti circonda, e c’è un momento di chiarezza, di corrispondenza, di reciprocità. Il mondo si disegna. La mappa diventa uno specchio. Il tuo volto, riflesso nello specchio, si ritrova nella culla della città. […] È un momento di integrazione, di chiarezza, un istante in cui si tracciano coordinate”. Ed è allora che l’imperfezione diventa ricordo, bagaglio imprescindibile per continuare a esistere. Lo svelamento è compiuto e con esso la trasformazione, che Cooper ipotizza possibile grazie ad alleati che illuminano e accendono le sinapsi della mente: l’arte, la letteratura, la cultura tout court.
Ripubblicato da d editore a distanza di oltre vent’anni dalla sua prima uscita italiana, Amnesia risulta, oggi, ancora più necessario per la sua sconcertante attualità. In tempi in cui la “perdita della memoria” diventa un vanto, uno “stigma” di cui andare fieri, una pratica doverosa e cercata per poter giustificare (o meglio, sottovalutare) gli errori che si commettono, questa lunga “via dei Canti” che Cooper ha composto sembra essere un rituale che tutti dovrebbero compiere per riappropriarsi della propria identità. Sembra un monito, un grido disperato affinché ci si rammenti che, in assenza di una ritualizzazione degli eventi passati, appare inevitabile il sopraggiungere di un decadimento completo, di uno schizofrenico disorientamento spirituale che coinvolge tutti gli aspetti della vita individuale e comunitaria. E proprio per scongiurare questo pericolo è necessario dare voce ai luoghi, ascoltarli per poi narrarli, restituendo le loro storie a chi sia pronto a recepirle: perché “parlare non è un rimedio (solo) se siamo soli”.
Un romanzo sorprendente, una “mappa” da seguire per ricomporre la geografia della propria storia e riconnetterla a quella più ampia della collettività, senza il timore di comprendere e accettare le debolezze peculiari dell’“essere” umani.

Michel Houellebecq ou l’extension du domaine des livres (prima parte)

3

di

Francesco Forlani

“Sono davvero sotto shock, non mi era mai capitata una cosa del genere, non lo auguro davvero a nessuno di trovarsi come me davanti a una finestra e un attimo dopo scaraventato in bagno dall’esplosione. Quando ho visto il letto ricoperto dalle schegge dei vetri andati in frantumi ho pensato sì alla fortuna di non essermi trovato lì ma soprattutto, te lo ripeto, a momenti come questi dove in un attimo quello che c’era prima di colpo non c’è più.”

Così mi ha detto al telefono, quasi ansimando, uno dei reporter coinvolti nella terribile esplosione avvenuta una settimana fa nel quartiere detto dei Grands Boulevards in seguito a una fuga di gas in una boulangerie. Il suo migliore amico Davide mi aveva telefonato per chiedermi di dargli una mano ed è per questo che lo avevo sentito. Ma al di là della coincidenza temporale di quell’evento e dell’altro dei gilets jaunes mobilitati come ogni sabato – il ragazzo era del resto venuto proprio per documentare la manifestazione – con la lettura appena finita del nuovo libro di Michel Houellebecq, credo che nessuna immagine possa rendere al meglio l’idea di Serotonina quanto quella descrizione fatta dal miracolato cronista.

Non è raro per un autore intercettare “lo spirito del tempo”, questa dovrebbe esserne anzi la regola, ma di rado accade che un libro agisca come detonatore, possa innescare seppure “romanzescamente” e far esplodere la polveriera che ogni epoca più o meno consapevolmente custodisce con le proprie contraddizioni e violenza congenita.

Per capire meglio questo perentorio cambiamento di stato  basterebbe avere sotto gli occhi le due edizioni, quella francese e quella italiana. Se la prima è vuota, nella sua neutralità, la seconda sembra fin troppo piena; da una parte il silenzio di Flammarion e dall’altra il vacarme della Nave di Teseo.

Innanzitutto che cos’è la serotonina? C’est un petit comprimé blanc, ovale, sécable. L’incipit del romanzo è  la definizione che segue immediatamente dopo la voce, il titolo in copertina. Ne è il prologo e ne sarà l’epilogo con delle pagine finali che sono un vero pugno allo stomaco e una carezza, talmente autenticamente sincere da indurre perfino il più cinico dei lettori alla commozione.    La pagina di apertura è dedicata essenzialmente ai sintomi dell’infelicità  di cui soffre il protagonista, Florent-Claude Labrouste, alla sua droga preferita la nicotina, perfetta perché “se définit entièrement par le manque et par la cessation du manque”. La Serotonina è un neurotrasmettitore, conosciuto come l’ormone del buon umore e serve a curare la depressione mentre Captorix è il nome del medicinale che l’autore cita in apertura prima ancora del proprio, come se, poniamo il caso, Melville prima di scrivere Call me Ishmael si fosse attardato sugli istinti suicidi del narrante, sul cattivo appetito, l’insonnia. Comunque sia Florent-Claude non ama affatto i due nomi, entrambi da froci seppure per ragioni diverse.

A  lungo mi sono chiesto chi fossero mai i creatori dei nomi delle droghe vendute in farmacia, e non so se sia per invidia di quelle parole pagate a prezzo d’oro o per via dell’aura mitica che generalmente evocano. Basti pensare ad alcuni antidepressivi da evitare “assolutamente” nel 2018 secondo la rivista Prescrire:

Valdoxan (ottimo nome per una fontina d’Aosta)

Cymbalta (musicalissimo)

Cipralex (Da manuale giuridico)

Effexor (effeffe)

Stablon (Nomen omen)

Come avvertenza al lettore – e non ho mai capito perché in questo campo i foglietti del mode d’emploi si definiscano bugiardini- vale la pena informarlo che a nulla servirà richiedere al proprio farmacista di fiducia Captorix  perché semplicemente non esiste. Per ora. Se fossi infatti il PDG di una casa farmaceutica lo avrei immediatamente commercializzato, sfruttando se non altro la vasta popolarità che Serotonina gli ha assicurato con le centinaia di migliaia di copie vendute in poche settimane.

Per tornare alla doppia copertina, alla descrizione di un’esplosione utilizzata all’inizio, ho pensato che la parola più giusta per descrivere il romanzo di Michel Houellebecq fosse “precipitato”. Da una parte per via della sua pertinenza al mondo della chimica e dall’altra per il suo richiamare il vuoto che solo un precipizio potrà indurre a temere davvero.

Un precipitato è il sedimento frutto di una separazione, è cio’ che resta, potremo dire, alla fine di un processo. In campo giuridico, scrive la Treccani: ciò che si manifesta come conseguenza necessaria di determinate premesse. Precipitate sono le storie d’amore che in un diaporama a ritmi irregolari ma ben scanditi dallo scatto del carrello su cui sono piazzate le diapositive, i fermo-immagine che il protagonista conserva, osserva e racconta fornendo più un’ anatomia della battaglia che una convincente analisi simbolica sul modello della Chambre Claire di Roland Barthes.

La defigurazione in atto – di quella dell’autore ne avevamo parlato in un’intervista al suo traduttore Vincenzo Vega già qui – da intendersi come esibizione delle figure ha sicuramente un suo antecedente in Rester Vivant , l’omaggio  che Le Palais de Tokyo,il prestigioso museo parigino d’arte contemporanea aveva dedicato a Michel Houellebecq mettendogli a disposizione le proprie sale.

“Non è una mostra « su » Michel Houellebecq, ma « di » Michel Houellebecq : come lo scrittore produce una forma che partecipa alla reinvenzione dell’esposizione sparigliando le carte tra letteratura e fotografia, reale e finzione.” recita il catalogo della mostra. Fu proprio in quella occasione che per esempio venni a conoscenza di tre dati biografici a mio avviso essenziali per capire Serotonina. Il primo, che il suo vero nome fosse Michel Thomas successivamente cambiato in Houellebecq, cognome della nonna materna; il secondo, che la madre fosse medico e il padre guida di montagna; il terzo, che Michel Houellebecq si sia laureato in agronomia.

Il protagonista del romanzo è effettivamente un agronomo di professione e la sua esistenza sembra davvero in bilico tra due distinti paesaggi di una stessa natura, la prima interiore, fisiologica, chimica, e l’altra costellata di cime, crepacci, camminamenti- basti pensare al nome della cittadina in cui si risolve sul finale una delle più drammatiche scene del protagonista, Falaise. Due distinte visioni che partecipano di quella stessa parola, precipitato.

Ogni fine capitolo, peraltro estremamente conciso, rapido, si accompagna di una riflessione talvolta lirica altre più teorica su tutte le variazioni sullo stesso tema, la paura della caduta certo ma non quanto quella del volo. In un passaggio tra i più folgoranti, in cui l’esercizio della ratio, la misura, il calcolo, si sovrappone allo slancio metafisico, il protagonista ci dice che “ce n’était pas de l’impact avant tout dont j’avais peur, mais du vol, et la physique l’etablissait avec certitude, mon vol serait bref.”

Molti sono gli scenari in cui il lettore si ritrova insieme al protagonista sul bordo del precipizio, quasi ne sente il respiro, ne segue le titubanze, i “non ricordo” rivolti al lettore ma soprattutto tentato alla stessa maniera di trattenerlo dal compiere il gesto finale o piuttosto di spingerlo a farlo come quando lo vedi indietreggiare e non sai se è perché ha desistito dal proposito o perché sta solo prendendo la rincorsa.

La fotografia che scopriamo nella prima parte del ritrovamento dei corpi dei suoi genitori ha in sé qualcosa di estremamente mitico, ancestrale e allo stesso tempo contemporaneo come il ritrovamento di qualche tempo fa  del bacio più lungo della storia scoperto durante uno scavo nell’area archeologica della città di Teppe Hasanlu, nel nord-ovest dell’Iran.

Nell’immagine sembra allora risuonare la voce del cameriere francese quarantenne che a Schwerin serve al tavolo di Florent-Claude e Kate, la ragazza danese che gli aveva offerto probabilmente la sua più grande chance di amare ed essere amato. Lui lo capisce e di ritorno con le ordinazioni  dice ” restez comme ça  tous les deux, je vous en prie, restez comme ça”. E’ solo quando non si rimane che riaffiorano i resti.

Ancora una volta è l’amore il mistero a cui si attacca Michel Houellebecq con uno stile per certi versi nuovo e forse per questo ancor più efficace nel ritorno in libreria. Ma non c’è soltanto l’amore. Ci sono il potere e l’amicizia, il primo totalmente asservito all’economia del non libero scambio e la seconda che pur di non perdere la sua natura più profonda ovvero la gratuità preferisce farsi da parte. Ci sono i maestri. C’è il tredicesimo arrondissement, il  quartiere in cui vivo e soprattutto il Calvados che è probabilmente l’alcol più comunista e dandy sulla faccia della terra. Di questo l’umile estensore di questa nota vi dirà nella seconda parte ma solo a patto che i lettori ne facciano richiesta nei commenti.

 

 

Da “Il commento definitivo. Poesie 1984-2008” di Jean-Jacques Viton

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tuffo2bis

IL TUFFATORE OCRA

di Jean-Jacques Viton

traduzione di Andrea Inglese

a Béatrice Gabert

su questa pagina 63 adesso

comincio a parlare

di un tuffatore

Nietta o L’arte d’insegnare

1

Nietta o l’arte d’insegnare – Una festa in ricordo di Nietta Caridei

25 gennaio 2019 ore 18:30

Gabriele Frasca omaggia Nietta Caridei con letture di poesie e testimonianze.

Letture di poesie a cura di: Mariano Bàino, Carmine De Falco, Bernardo De Luca, Bruno Di Pietro, Gabriele Frasca, Carmen Gallo, Giovanna Marmo, Tommaso Ottonieri, Daniele Ventre.

In esposizione: Monica Biancardi, Cyop&Kaf, Luca Dalisi, 8KI, Francesco Guida, Mario Persico, Renata Petti, Ivan Piano, Carmine Rezzuti, Quintino Scolavino, Asad Ventrella.

Con le testimonianze di: Giancarlo Alfano, Sergio Brancato, Chiara Cappiello, Carmelo Colangelo, Cesare Moreno, Silvana Musella, Donatella Trotta.

Blandine

2

di Marino Magliani

Quando vado a Roma, che l’editore, la libreria, o l’associazione, non includono nella proposta un minimo di ospitalità, la prima cosa che faccio è – nel senso che lo faccio qualche giorno prima – chiamare il mio amico Riccardo De Gennaro, torinese, che vive a Roma da anni in un appartamento al terzo o quarto piano sul Lungo Tevere, proprio davanti a un famoso ponte e con la vista su una villa molto bella di là del fiume. Naturalmente ogni volta lo invito a una presentazione, tempo fa ad esempio lo invitai a una cosa che si fece a Casalpalocco, ma Riccardo non ha mai tempo, ha sempre da chiudere il numero in uscita di Reportage, la rivista molto bella di cui è editore, e dice non posso, figurati. In genere dopo l’evento vado da lui e finiamo per farci un piatto di pasta. Ma anche quando, raramente, trova uno spicchio di tempo il pomeriggio tardi e accetta di accompagnarmi,  come dai Trapezisti – io in quei casi per educazione lo invito a cena, un posto normale – finiamo per girare mezz’ora senza trovare parcheggio o per chiamare una trattoria e farci dire che non c’è posto, e allora, a tempo scaduto, gli dico: Riccardiño, maledizione, siamo costretti a farci un piatto di pasta da te, fermati da qualche parte che prendo un tubo di vino… No, quello ce l’ho… Bene. Da buon ligure.
Ma l’ultima volta non l’avvisai. Dissi che ero stato in Abruzzo e che avevo una mezza idea di saltare sull’inter city per Genova, ma se ci scappava un riposino… “Dove sei?”, chiese.
Gli dissi che ero sotto casa, col trolly.
“Asp… Ti vedo, anche se questa volta è rischioso”.
Il palazzo ha le finestre sul lungofiume, si attraversa la strada, ci sono dei platani e il muretto, qualche metro sotto il muretto la ciclabile e la riva del Tevere. Alzai la mano, anche lui, ma distratto, guardava in giro, come se cercasse qualcuno sul marciapiede. Poi lo vidi che chiamava e mi squillò il telefono. “Sali su, prima suona al citofono naturalmente, e se uno con la giacca finta di pelle e il berretto e il giornale sotto il braccio ti chiede dove vai non rispondere, si vuol infilare dentro casa, non permetterglielo…”. Ubbidii, chiamai l’ascensore, entrai (nessuno mi chiese nulla) col trolly e al quarto piano mi accolse Riccardo. In casa, andò alla finestra della sala (dove stanno le scatole dei numeri di Reportage, con le foto di Dondero, i racconti di Bravi e Voltolini, le rubriche di Magrelli), guardò in strada, sorrise e col mento mi indicò il divano. Ci sedemmo.
“Chi è l’uomo con la giacca di pelle, Riccardiño?”
“Un bastardo… Non puoi rimanere a lungo, mi spiace, ma stavolta è così”.
“Così come?”.
Aprì una scatola, che stava accanto al divano. Pensai fosse una delle solite scatole piene di Reportage, invece era piena di libri con la copertina azzurro cenere. Ne prese uno, e prima di porgermelo ci passò la mano come si fa per togliere la polvere, ma si vedeva bene che i libri erano freschi di stampa. L’oggetto in copertina assomigliava a una radio o a uno sbobinatore, collegato a un microfono, come copertina catturava, proprio per quel fatto che non si capiva l’oggetto, che agli occhi appariva come dovrebbero apparire gli oggetti dei nostri bagagli quando passano attraverso i detector dei filtri aeroportuali. Il titolo, La realtà pura (Miraggi, collana Scafiblù, euro 12, pagine 128). Glielo feci notare, l’effetto aeroportuale della copertina, probabilmente da collegare al suo recapito. Riccardo De Gennaro, Lungo Tevere…. Forse tutt’attaccato. Mi avvicinai alla vetrata. “Che c’entra quello di sotto col libro?”.
“Vedrai…”
Non avevo ancora perso le speranze sull’ospitalità, e dissi che l’avrei letto volentieri, anche subito, ma ero stanco, e affamato. “Non insistere… Un piatto di pasta però non posso negartelo, ho anche quel formaggio che ti piace… Poi lo so che vuoi lavare i piatti, e sai che è una cosa che amo veder fatta in fretta, perché si fa appunto più in fretta, solo con acqua, prima che il sugo entri nei pori della ceramica… Se vieni di là, mentre faccio il sugo, ti racconto giusto qualcosa, poi con calma lo leggerai… Anzi, prima leggiti la cosa che sta sul sito…”. Estrassi dal trolly il portatile, accesi, mi collegai, andai su Miraggi e lessi.
La realtà pura è un romanzo-metafora dell’Impedimento, esistenziale e metafisico, che ci impedisce di essere ciò che vorremmo essere e ottenere ciò che desideriamo. Quali sono le forze che si oppongono ai nostri disegni? Chi ci impedisce di realizzare i nostri sogni? Il romanzo tenta di spiegarlo, o meglio tenta di dipanare i fili del destino che non riusciamo a sciogliere, fili che – nella finzione romanzesca – sono retti da una fantomatica Organizzazione criminale.
Un uomo di cui non si conosce la provenienza sorveglia e pedina il protagonista, Carlo Gozzini, un economista innamorato di una giovane donna, Blandine, di professione attrice,  ricoverata in manicomio, la quale non ricambia (se non nella mente dello stesso Gozzini) l’amore dell’uomo. L’economista, l’io narrante, tenta di difendersi dalla morsa dell’Organizzazione, che non gli consente il pieno controllo della propria vita e, naturalmente, di raggiungere l’amata. Gozzini vive così una duplice ossessione di matrice paranoide: la “prigionia” e la passione per Blandine, due situazioni che potrebbero essere le facce della stessa medaglia. Il romanzo si conclude con il disvelamento della verità: in forma non di discesa, bensì di ascesa all’inferno.
Mentre preparava il soffritto (ma ogni tanto andava in sala e prendeva il binocolo e lo puntava, credo, oltre il  ponte, sulla villa rossa, poi tornava e riprendeva a parlarmi della Realtà pura) venni a sapere che la storia era ben più complessa e inquietante di come si presentava in quella dozzina di righe. Blandine era un’attrice in cerca di parti e provini, ben consapevole del fatto che il professor Gozzini, con la sua ventina di anni in più, ne era perdutamente innamorato; per questo lei sapeva di poter disporre di lui come e quando voleva. Il romanzo iniziava con un buon respiro fino a stringere le aperture e a costringere il lettore come si fa quando si ospita qualcuno a casa e man mano che costui è lì gli si stringono gli spazi, il corridoio, le camere, la sala, con nuove librerie e nuove pile di libri. Una scrittura stupenda, sorvegliatissima, ma angosciante. Gozzini, l’io narrante, dopo un po’ ci fa penetrare da quel mondo che all’apparenza rasentava la comicità, a un mondo “realmente” comico, fatto di strani uomini con la giacca di finta pelle che ci seguono, comprano il giornale e tornano a piazzarsi sui nostri usci, e strani custodi di una clinica dove, pare, sia stata ricoverata Blandine. E su tutto appunto, appunto, Blandine che è sparita, Blandine che Gozzini rivuole anche se lo umiliava, Blandine da liberare, ma Blandine prigioniera… Nel mentre la pasta era nel piatto, ci sedemmo e mangiammo, bevemmo, anzi, facevo tutto io perché Riccardo De Gennaro seguitava a raccontare. Era quasi sera, e speravo ancora parecchio in un ripensamento e in un invito. Dissi: “Riccardiño, i piatti li lavo dopo, anche il caffè lo prendo dopo… Ora se permetti, mi siedo in sala e leggo…”. Alzò il mento.  Mi portai in sala con La realtà, prima di sedermi mi avvicinai alla vetrata. L’uomo con la giacca in finta pelle ecc. da giù probabilmente si aspettava di vedermi, in fatti teneva la faccia alta e quando mi vide sorrise.
Gozzini ogni tanto fa dei sogni e si sveglia con dei dolori ai piedi e alle ginocchia. Non esce più, ma controlla il suo controllore, al quale non chiede spiegazioni, perché ha scoperto che il burattinaio che tiene collegato pedinatore e Custode della clinica che non lo fa entrare a cercare Blandine, risponde a un entità, all’Organizzazione. Non appena Gozzini sta meglio progetta una vendetta, ma non è facile, anche perché ogni tanto, dopo il ginocchio, a patire sono gli occhi, una strana punizione che gli in qualche modo gli viene inflitta dall’Organizzazione, ma Gozzini è forte e la coscienza di esserlo non l’abbandona mai …
“Gli dimostrerò che anch’io, un intellettuale, posso essere cattivo, molto cattivo, più cattivo di loro, malato e molto cattivo, non immaginano quanto io possa essere malato e cattivo. Ci sono momenti in cui, se mi concentro, raggiungo livelli di collera senza uguali, le pareti dello stomaco diventano dure come il cuoio, la dentatura superiore va a incastrarsi davanti a quella inferiore e preme e schiaccia e digrigna, come la macina di un frantoio. Il cranio, poi, diventa una boccia di ferro, la cassa toracica una fornace. Potrei attraversare i muri, saltare dal terzo piano e rimanere incolume…”
A pagina 96 leggo che “i medici – mi è stato riferito dal mio anonimo informatore – non le consentono di uscire per nessuna ragione, nemmeno per una passeggiata…”.
Mi alzo, il tipo giù non c’è. Informo in fretta Riccardo: “Sparito”.
“Sì, fa orari da cartellino”.
“Senti, sono a pagina 96… Mi sono perso chi è l’anonimo informatore…” Riccardo muove gli ossicini della mandibola. “La ami ancora molto?”. Gli ossicini. “Ma è un romanzo… Che c’entra? C’è una documentazione pazzesca. C’è tutto uno studio sui quadri di Magritte e tu mi chiedi se la amo… C’è la condanna  senza reato, capisci…”. Mi prese di mano il libro, ossicini, e lesse:
Provo ormai compassione per questa persona, una compassione suscitata dal fatto che nessuno si sceglie il proprio destino, ci si finisce dentro e spesso il dramma è già contenuto nella vita della vittima senza che se ne renda conto. Quanto a Blandine, è la distanza sentimentale che mi preoccupa, non quella geografica.
Era a pagina 105 e iniziai a leggere da pagina 104, prima che mi dicesse: “Non eri lì, te l’ho preso di mano che eri a 98…”.
In realtà gli occhi erano caduti su una parola di pagina103-104 e a tutti i costi volevo leggere la frase. La parola era in corsivo. Uscirne. La frase:
Non ne uscirai facilmente, non ne uscirai se non saremo noi a deciderlo, dicevano ancora i suoi pensieri. Sul momento provai una certa inquietudine, ma una volta a casa considerai che un omicidio permette in ogni caso alla vittima di uscirne, dunque se io non dovevo uscirne facilmente, non sarei stato ucciso.
Tornai a pagina 98, finii il libro e, dopo qualche minuto, la caffettiera. Non ci dicemmo nulla. Volevo dirgli che era un romanzo incredibile, e lo pensavo davvero, che mai più sarei riuscito a leggerlo se non fosse che tentavo di fermarmi a dormire, ma ora che l’avevo finito e probabilmente mi prendevo il trolly e salivo sul 170 diretto a Termini e mi cercavo un b&b a buon prezzo, o saltavo sul treno delle undici per la Liguria, avrei voluto dirgli che era davvero una grande esperienza quella scrittura. “Ma tu mi vuoi dire che l’uomo con la giacca di finta pelle ecc. è apparso da quando ti sei messo a scrivere questa storia?”.
“Dal giorno in cui il libro è uscito, esatto”.
“E lei?”.
“ Lei cosa, a volte fai davvero delle domande sceme… L’hai letto il libro? Abbi pazienza, ma non ti capisco”.
“Hai ragione… Sì, l’ho letto. Mi è piaciuto molto. E ora me ne vado ma tornerei domani, fosse solo per andare alle spalle dell’uomo con la giacca eccetera e prenderlo per il bavero”.
“Puoi prenderti la soddisfazione fin da ora. Nel romanzo lo facevo abbandonare la postazione verso le 18 e dopo qualche ora, a volte due, a volte tre, ma mai più di quattro, lo facevo tornare… E lui ora fa esattamente così”.
Andarci a guardare era ammettere che non ci credevo. “Ne sei convinto ora?”. Presi con me la copia de “La realtà pura” e, come facevo di solito anche con gli ultimi numeri di Reportage, infilai tutto nel trolly, Riccardo mi disse che i piatti li lavava lui, e così ci salutammo. In strada mi diressi verso l’uomo, che se ne stava sul marciapiede a guardare le acque fangose del Tevere, che trasportavano giunchi, illuminati qua e là dai lampioni.
Affiancai l’uomo, mollai il trolly, non ci dicemmo nulla. Di là del fiume c’era la grande villa rossa, la clinica in cui nel romanzo lavorava il Custode. Era lui che impediva l’ingresso a Gozzini e non faceva uscire Blandine dal reparto in cui si trovava ricoverata.
“Lo volete lasciare in pace?”.
“Parli con me?”.
“Sì, con te, con la tua cazzo di giacca di finta pelle”. Si guardò la giacca, posò il giornale sul muretto, si aggiustò il berretto.
“Credi ci prenda gusto, a star qui all’umidità?”. Non aggiunsi nulla, mi avviai verso il ponte, e prima di imboccarlo alzai gli occhi. Riccardone era lassù alla vetrata, non poteva sapere cosa ci eravamo detti, ma a quel punto intuiva che stavo imboccando il ponte, che tante volte avevo attraversato con lui, e mi dirigevo alla villa. Credevo che mi avrebbe chiamato, ma mi sbagliai. Giunsi alla villa con l’entrata come il quadro di Magritte. Dissi al Custode: “Senta, vorrei parlare con Blandine, so che è ricoverata qui”. Mi aspettavo mi dicesse si sbaglia, in questo luogo non ci sono ricoverati. Invece si fece una risatina. “Impossibile, lei pensa di venir qui con un cazzo di trolly e di poter far visita ai pazienti?”.
“Per chi lavora?”.
Si alzò, zoppicava. Andò a chiudere il cancello che dava sul cortile interno, lasciandomi al bancone. Da lì non sarei potuto andare da nessuna parte se non uscire. Alla piccola televisione della videocamera che stava sul tavolino oltre il bancone vidi il movimento del Custode… E tre numeri di telefono sul foglio accanto al cordless. Veloce, estrassi il mio, allungai la mano, feci una foto… Se ne accorse, lasciò perdere il cancello e si avventò su di me, all’apparenza senza alcun problema di locomozione.
“Ma tu non zoppichi”.
“Cancella quella foto ed esci immeditamente”. Ripresi il mio trolly e uscii. Non mi seguì, ma dal ponte vidi che di là, il pedinatore stava parlando al telefono e immaginai lo stesse chiamando il Custode. Guardai su, le finestre. Riccardo non c’era. Passò un taxi, lo fermai, saltai su. Dissi che andavamo a Termini. Il tassista mi chiese se volevo mettere il trolly nel bagagliaio, dissi di no.
Dopo un po’, nel mezzo di Trastevere, in mezzo a una serie di gracchianti chiamate della centrale, immagino, alle quali il tassista non rispose, giunse un messaggio diverso, e allora il tassista afferrò il ricevitore. Mentre guidava e ascoltava mi guardava nello specchietto. Quanto a me, facevo caso solo a lui, provando a capire anche solo una parola di cosa gli stessero dicendo, e non mi accorsi che anziché proseguire verso Termini, stavamo tornando al ponte.

da “Colpo di stato nella San Marino rossa”

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di Daniele Comberiati

 

Ricorda Balducci, le parole del Gardini, ricordale mentre corri ora che la strada sembra piccolissima sotto i tuoi vent’anni, un tratto breve che i tuoi muscoli hanno percorso tante e tante volte. Ora è tuo l’assalto al cielo, Mario, sarà tuo prima di tutti gli altri: prima del 1968, dei corpi nudi vergognosamente coperti da barbe e capelli lunghi, prima del ferro, piombo e sangue del 1977, prima del Cile, prima dell’Argentina, prima dell’Africa. Prima. È il tuo Vietnam, Mario, prenditelo tutto, e Rovereta l’ultimo baluardo di quei figli di cagna, fratelli infami che tradiscono la propria famiglia in cambio delle briciole della borghesia.

Fuori dal raccordo c’è l’Italia

2

di Gianni Biondillo

E così, anche in questo nuovo romanzo, non ho parlato del Duomo. Sono anni che scrivo di Milano, la studio, la racconto, e mai una pagina, mai una riga dedicata alla cattedrale. È l’unico imperativo che mi sono posto: supera il luogo comune, Milano è molto di più. Questa posizione radicale, ideologica, è la reazione a un modo di rappresentare la mia città nella fiction nazionale. Quando viene rappresentata, ben inteso. Il cinema, si sa, in Italia è appannaggio di Roma. Già fuori dal raccordo sembra ci sia il deserto. Una Roma, per inciso, borghese, tutta Prati-Parioli, con puntate a San Lorenzo o Pigneto se si vuol fare gli alternativi o i popolari. Napoli, l’altra grande metropoli raccontata da Cinecittà (per pura vicinanza geografica, per ragioni logistiche più che artistiche) è sempre stracciona, plebea, violenta ma, non ostate tutto, “piena di umanità”. Mancano solo corni, pizza e mandolino. La cosiddetta “napoletanità” è una maledizione: sembra che un biochimico o un astrofisico non possano nascerci. Solo cantanti, camorristi, nobili e filosofi.

Il resto dell’Italia è ancora più banale: la Puglia è sempre agreste, disseminata di campi di grano e ulivi, masserie candide e mare luccicante. La Calabria è abitata da istinti atavici, preculturali, barbarici, la Sicilia ondeggia fra l’alterigia omertosa e il barocco lussurioso, la Sardegna è etnica ed esotica. Roba da mal di testa. Risalendo lo Stivale non cambia di molto. C’è un generico centro Italia fatto di artigiani e borghi medievali (mai un capannone, mai un’autostrada) con morti che non sanguinano e preti o carabinieri bonari che indagano. Milano poi semplicemente non esiste. L’unica fiction che ho visto ambientata a Milano ha gli esterni girati in Bulgaria. È bastato aggiungere in montaggio qualche ripresa dall’alto del Duomo e il gioco era fatto.

Tutto ciò perché la televisione pubblica è talmente ossessionata dalla politica del palazzo, è talmente ombelicale, che trova naturale intitolare un programma d’approfondimento giornalistico “Fuori Roma”. Come se Bologna, Trieste o Palermo fossero irrilevanti borghi fuori porta, buoni per una scampagnata e qualche appunto sul taccuino, non realtà culturali millenarie. D’altronde ho visto fiction dove abitanti di San Salvario a Torino o iconici cantautori genovesi parlavano con cadenza romanesca senza che nessun produttore si rendesse conto dell’assurdità.

Ma se non ha la fiction, Milano ha la pubblicità. Peggio ancora. A guardare gli spot in tv sembra sia una città abitata solo da bambini biondi dalle vocali spalancate che mangiano snack e attraversano in skateboard attici luminosi, mamme toniche che fanno jogging ai piedi di boschi verticali prima di mettere la lavatrice in funzione e padri incravattati sempre di fretta su macchine che non trovano mai traffico. C’è il Duomo e tutto attorno una selva di grattacieli futuristici. Nessuna periferia, nessun panettiere, neppure una discarica. Se c’è un veneto sembra sempre ubriaco, un romagnolo sempre godereccio, un abruzzese sempliciotto e rurale. Un incubo.

L’Italia è un’altra cosa. Per un po’ avevo sperato ci pensasse la letteratura a raccontarla per quello che era veramente, ma la potenza dell’immaginario televisivo ha fatto danni irreparabili anche nelle patrie lettere. Romanzi consolatori dove Venezia resta inevitabilmente romantica e decadente (che ne sappiamo della vitalità di Mestre? Degli abitanti di Marghera?), Firenze inchiodata senza scampo al suo ingombrante Rinascimento, Milano immersa nelle nostalgie della nebbia, dei navigli, delle case di ringhiera. Che ne è delle imprese tecnologiche all’avanguardia delle Marche o del turismo innovativo della Basilicata? Chi ci racconta lo spopolamento degli Appennini, il dinamismo della piccola impresa cinese, gli investimenti della finanza mediorientale, le frizioni etniche fra vecchi e nuove immigrazioni?

C’è chi lo fa, ovviamente. E molto bene. Autori capaci di toglierci gli occhiali rassicuranti degli stereotipi mostrandoci cosa siamo diventati, cosa diventeremo. Vorrei solo avessero più spazio, più visibilità. Io, per ora, continuo a scrivere di ciò che conosco, Milano, come metafora di un’intera nazione. E poi, chissà, prima o poi entrerò per davvero nella cattedrale della mia città. Per raccontarne l’innegabile meraviglia.

(precedentemente pubblicato su “7” del Corriere della Sera, l’8 novembre 2018)

BATTISTI, LE VITTIME, LO STATO

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(riproponiamo questo pezzo su Cesare Battisti pubblicato il 10.01.2011, con il dibattito che ne è seguito nei commenti; certo andrebbero analizzati ora il retroterra e le ragioni della scomposta esultanza del mondo politico e giornalistico nei confronti dell’arresto di Battisti, a tanti anni dai fatti, così come il corrispettivo silenzio nei confronti dell’impunità della maggior parte dei responsabili, e dei mandanti, delle sanguinose violenze di matrice fascista dello stesso periodo storico)

di Giacomo Sartori

Ho conosciuto personalmente Cesare Battisti, intendo il Battisti di cui si parla tanto in questi giorni, non il mio eroico concittadino, quando ci hanno invitato entrambi a una fiera libraria di una cittadina dell’hinterland parigino.

Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht

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di Antonio Sparzani

Esattamente cento anni fa, il 15 gennaio 1919, Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, tra i fondatori – negli anni della prima guerra mondiale – della Lega spartachista (Spartakusbund) in Germania, venivano brutalmente assassinati, assieme a centinaia di altri spartachisti, per mano dei Freikorps, agli ordini diretti dell’allora cancelliere Friedrich Ebert, leader del Partito Socialdemocratico Tedesco. La Lega era allora sorta come ala sinistra del partito socialdemocratico, costituendo poi le premesse per la nascita di un Partito Comunista Tedesco, sul modello della recentissima esperienza bolscevica in Russia.
Ma, come purtroppo spesso accade, le lotte più feroci avvengono all’interno di una qualche formazione “di sinistra”. Non intendo qui riassumere tutta la vicenda, che può essere utilmente imparata, da chi non ne sia a conoscenza, leggendo varie voci di Wikipedia dedicate all’argomento, intendo solo che non dimentichiamo chi nel passato è morto per le proprie idee, per mano di chi, non sapendo controbatterle, ricorreva alle armi.

Otto e Leo

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di Irene Russo

Otto e Leo avevano smesso di andare a scuola qualche giorno prima di Margherita, quando le lezioni non erano ancora finite. L’estate li aveva chiamati dalle finestre ed erano andati a correre nei campi. Quando li vedeva, Margherita notava sempre le strisce di fango fino alle ginocchia. Li aveva sorpresi diverse volte mentre stavano in bilico sugli argini, finché uno dei due cadeva nell’acqua.

Il giorno che la portarono a vedere la collezione di bruchi, pioveva a dirotto e sembrava che la bella stagione si fosse interrotta di colpo. I campi erano allagati e Otto aveva pensato di invitare Leo e Margherita nella serra di suo padre. Sperava che nessuno li scoprisse in un giorno che poteva essere speciale.

Margherita non aveva mai visto una collezione di bruchi, perciò si avvicinò con cautela alla teca di vetro. Erano almeno un centinaio, impegnati a mangiare le foglie o a trovare uno spazio libero nel groviglio. Leo sapeva già come toccarli senza spremerli per errore. E quando un bruco si raggomitolava terrorizzato, lui aveva il potere di calmarlo. Non si sapeva come, sul dito di Leo il bruco ritornava disteso, con tutte le zampe a posto.

Margherita non conosceva il carattere dei bruchi, ma subito pensò che non le facevano schifo. Semplicemente, era difficile credere che sarebbero diventati farfalle. A dire il vero, un po’ di disgusto le saliva fino alla gola quando vedeva la bava sulla faccia di Otto, mentre Leo giocava ad ammaestrare i vermi e li guidava a scalare il naso del suo amico. Margherita faceva finta di niente, o si sarebbero pentiti di averla portata con loro. Ma quando Leo si infilava il bruco dentro ai pantaloni, Otto non la smetteva di ridere. Margherita non ci trovava niente di divertente. Doveva esserci un segreto che lei non conosceva.

A un certo punto, Otto le lanciò una sfida. Ingoiare un bruco vivo, senza chiudere gli occhi.

Margherita decise di prendere un bruco a caso e di non pensarci. Se avesse osservato troppo a lungo il bruco, le sarebbe passato quel po’ di coraggio che stava sentendo nei pugni. Lo prese con un bastoncino e se lo ficcò in gola in un attimo, così in fretta che Leo per un po’ credette che lo avesse nascosto tra le pieghe della mano. Otto fece finta di niente, perché sapeva che Leo aveva urlato e sbraitato prima di accettare la prova, e poi si era messo in ginocchio pregandolo di non dirlo a nessuno. Otto chiuse la teca, disse a Margherita “Sei una di noi”, poi le mise una manciata di bruchi sul palmo senza nemmeno guardarla negli occhi.

Quel giorno, Margherita non ci trovò niente di dolce nel bruco tra i denti. Tornò anche lei con un po’ di fango sull’orlo, ma nessuno a casa se ne accorse. Entrò dal retro e, in lavanderia, prese un pezzo di sapone per strofinare la punta della gonna. L’indomani arrivò a scuola senza aver fatto i compiti. La maestra non la interrogò perché la bambina sembrava tutt’uno con la finestra. Ripensava al pomeriggio passato coi suoi amici, che erano tornati a scorrazzare insieme al sole. Era una di loro.

Così, quando suo padre le disse che non poteva allontanarsi fino al palazzo abbandonato, non riuscì neanche a piangere perché pensava fosse uno scherzo.  Poi, quando vide la ciurma di ragazzi che tirava dritto senza chiamarla dal vetro, chiuse le imposte e si mise a letto come fosse inverno.

Ci furono altri giorni, ma nessuno così speciale come quello in cui Margherita aveva ingoiato un bruco. Una volta fece una torta e la portò ai suoi compagni, un’altra volta loro le chiesero il piacere di badare ai bruchi mentre erano al mare. Leo le aveva regalato il bastoncino che li ammaestrava, Otto le aveva spiegato come trovare le foglie buone. Al loro ritorno, avrebbero trovato le farfalle?

Nella serra, Margherita smise di preoccuparsi se suo padre la cercava da ore. Immaginava Otto e Leo persi tra le dune, con la sabbia alle ginocchia. Era giunta l’ora di lasciarli andare. Semplicemente, era difficile credere che qualsiasi cosa sarebbe stata, un giorno, diversa da com’era. I bruchi si agitavano nella sua mano, danzando un addio. O così le sembrò un attimo prima di stringere il pugno e schiacciarli.

 

Questo racconto è stato scritto all’interno di Bottega Finzioni, la scuola di scrittura fondata a Bologna da Carlo Lucarelli.