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restituzione

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di Gian Piero Fiorillo

 

fra la vita e la norma c’è una tensione

quando il movimento che la esprime diventa legge

il crimine è compiuto

 

Ho davanti un centinaio di studenti fra sedici e diciotto anni, qualche insegnante, un preside. Siamo alla fine di un viaggio intorno alla follia e allo stigma che da sempre marchia i fuori norma. Ho immaginato più volte questo momento, mi sono chiesto cosa avrei potuto dire che non fosse scontato. Il mandato del dipartimento di salute mentale è: andare nelle scuole, parlare della Legge 180 che «ha chiuso i manicomi». Quest’anno ricorre il quarantennale. Ho cercato di sottrarmi ma il direttore è stato categorico: Tu sei un sociologo, chi può parlare di stigma meglio di te? Non mi ha dato scelta. Ho provato a fare il bartleby della situazione, ma non sono portato. Brontolo, mugugno, arretro. Ricorrenze, puah. Per le scale ho incontrato Vita, amica e fisioterapista: che ti succede? Niente, ricorrenze. E ti fanno tanto arrabbiare? Servono solo a schermare il presente: si ricorda ciò che non andava per tacere ciò che non va. Lei sorride: scandalizzarsi per il passato mette in pace la coscienza. Rumino: quest’anno ricorre anche il cinquantennale del 68, l’anno scorso era il quarantennale del 77; quest’anno è anche il quarantennale dell’uccisione di Aldo Moro, che se fosse morto nel suo letto nessuno saprebbe chi era. Accidenti, t’hanno fatto arrabbiare sul serio. Non che qualcuno lo sappia, a parte i familiari, i servizi americani e qualche dirigente DC. Un uomo è sempre un mistero per tutti, anche per se stesso. Un uomo di stato europeo del dopoguerra è molti misteri. Aldo Moro è moltissimi misteri, e forse quelli legati alla fine sono i meno importanti. Comunque è grazie a quei giorni di prigionia e martirio che resterà nella storia. Al pari di Cesare o Joseph K. vivrà molte reincarnazioni, sarà rappresentato in teatro, ispirerà molti film. Sta aspettando il suo Shakespeare, il mito fagociterà la storia. Mi dispiace vederti in questo stato.

 

Non è di Aldo Moro che devo parlare agli studenti, oggi 9 maggio 2018, devo «restituire» i dati di un questionario sullo stigma, la follia e la 180. Restituire, diciamo così noi sociologi: avete compilato un questionario e noi vi «restituiamo» i numeri, le percentuali, le interpretazioni: è il nostro modo di ringraziarvi e catturare la vostra benevolenza. La 180 venne approvata il 13 maggio di quarant’anni fa. Maggio è tempo di eventi irripetibili, mese Mariano, delle rose, del risveglio di primavera, dell’annuncio di un’estate ormai soltanto da cogliere. Ei fu siccome immobile. PRIMOMAGGIO: quando l’evento non era il concerto a San Giovanni e nemmeno il comizio della CGIL, efficace precursore delle nullità concertuali. Ninetta mia morire di maggio. Anche se il nostro maggio ha fatto a meno del vostro coraggio. Come prendere una rima abusata e farla splendere. Strofinarla in sidol maggiore. (Quando Ugo Gregoretti era nervoso prendeva una pezzetta imbevuta di sidol e strofinava le maniglie di casa per ore, trasformando lentamente l’incazzatura in lucida ispirazione) (Stefania Sandrelli – io la conoscevo bene – lucida nervosamente una maniglia poi lucidamente apre la finestra e si butta di sotto). Però il Maggio con la maiuscola resterà sempre il Mai 68. (Abbiamo vissuto di miti e di amori e ci siamo presi i nostri rischi) (Stucchevole retorica) (Tutto ciò che accadeva era benvenuto).

 

Non è del maggio ’68 che devo parlare oggi agli studenti, né dell’agosto di quell’anno quando, liceali di provincia, chiedemmo udienza a Marco Ferreri e lo invitammo a ritirare i suoi film da una rassegna per solidarietà con il movimento pacifista americano massacrato dalla polizia a Chicago. Ricevemmo un sonoro rifiuto: siete giovani, disse Ferreri, e i giovani tendono a fare di ogni cosa un piccolo Vietnam. Claro, amigo, queremos crear dos tres muchos Vietnam. Niente da fare. Ci restammo male ma poi andammo a vedere tutta la rassegna cavalcando la contraddizione e scavalcando le maschere che non volevano farci entrare perché minorenni e pure comunisti. Tutto questo oggi non ha importanza, è vano ricordo di febbri esantematiche. Sono venuto qui per celebrare il 13/5/1978, giorno in cui venne approvata la Legge Basaglia. Lui, a dire il vero, impiegò poche ore per prendere le distanze. Disse alla stampa che omologare la psichiatria alla medicina, cioè il comportamento al corpo, era come omologare i cani con le banane (perché proprio cani e banane è ulteriore mistero). Dovremmo smetterla di chiamarla legge basaglia, non rendiamoci colpevoli di regalare sempre di nuovo la follia alla medicina e Basaglia all’establishment. Dovrei dirlo ai ragazzi. Non lo farò. Cosa dire allora? Come togliermi dall’imbarazzo di pronunciare parole in cui non credo? Dovrò parlare della legge 180, certo, ma non sono qui per soddisfare le aspettative di chi a Basaglia accende un cero all’anno e canta il de profundis ogni giorno. Non posso pronunciare le solite banalità. Già troppi lo fanno, la banalità del banale non è solo una malattia dello spirito – è l’attualità del male dietro la maschera progressista. I dipartimenti di salute mentale stanno a Basaglia come la STASI a Marx.

 

Era una legge per imbavagliare il movimento e la chiamarono liberazione.

 

Gli studenti rumoreggiano. I bidelli hanno acceso lo stereo, collegato i microfoni: prendete posto, stiamo per iniziare. Il tecnico ha deciso di mandare una canzone di Loreena McKennith per ingannare l’attesa. Mistica nuvola avvolge la sala. Sono quasi pronto quando un sipario scende rapido davanti ai miei occhi: è la gigantografia di Giorgiana Masi, uccisa il 12 maggio del 1977. Nessuna rimembranza ufficiale: lo Stato ricorda le «sue» vittime, non le «sue» vittime. Serantini, Ceccanti, Lo Russo: chi erano? Oggi: Stefano Cucchi. Gabbo. Aldrovandi. Le «sue» vittime non quelle che miete. Lo Stato ricorda Aldo Moro, io ricordo una notte del ‘67 nella sede della federazione giovanile comunista, avevo quindici anni. Nella divisione dei compiti toccò a me realizzare uno striscione con una scritta blu su fondo bianco: MORO: ABBANDONA GLI ASSASSINI. Io mi richordo anchora quanto mi venne brutta la gamba della R: storta, a punta, mi vergognai di quello sgorbio per tutta la manifestazione anche se nessuno mostrò di accorgersene: con quello che accadeva nel mondo, la guerra sporca in Vietnam, quella fredda in Europa. VIA LA NATO DALL’ITALIA VIA L’ITALIA DALLA NATO. Ma cosa vuoi, a quindici anni e pieno di brufoli sei convinto che tutti guardano te. Forse è per questo che hai già deciso di abbattere tutti i cancelli e distruggere tutte le bombe del mondo. Pensavamo di farcela.

 

Mi sono perso in fantasticherie. Mi incalzano: quando parla il sociologo? Un momento, un momento, mandate ancora un po’ di musica. 13 maggio del 1978. Luccichini del potere democristiano dopo la notte cupa dell’uccisione di Moro. Il 9 lo Stato irremovibile abbandona un uomo al suo destino. Il 13 lo stesso Stato, lo stesso potere, lo stesso governo si scopre libertario, apre le porte dei manicomi e scarcera gli internati. Ferma così il movimento antipsichiatrico e antiautoritario che rischia di mostrare al paese non solo la disumanità degli ospedali psichiatrici ma quella di tutta la disciplina. Vorrei dire ai ragazzi. Quel giorno la psichiatria riprese il cammino trionfale verso la piena legittimità disciplinare, forte di un documento abusivo di libertazione: la 180. Falsche Bewegung. Passaporto falso grazie al quale le malefatte continuano senza chiamate ai danni. Questo vorrei dire and more, much more than this, say it my way. Non credete troppo agli insegnamenti, insegnatevi da soli. Siate autodidatti. Se tutti dicono la stessa cosa chiedetevi cosa non dicono. Se tutti fanno apertamente la stessa cosa chiedetevi cosa fanno di nascosto. Non fate i bulli con i compagni, non sono loro il nemico, il nemico marcia sempre alla vostra testa. Il nemico sono io. Se incontrate il Buddha per la strada, occhio.

 

Quello che non gli riuscì di imbrigliare lo massacrarono.

 

Sapete ragazzi, quello che vorrei davvero dirvi è che se state male, vi sentite infelici o agitati, non riuscite a studiare, pensate di farla finita o non riuscite ad abbandonare lo smartphone nemmeno un minuto, se vi sentite in pericolo e temete le vostre stesse azioni, non fidatevi degli psichiatri. È rischioso. Se andate male in matematica non credete a chi vi dice che avete la discalculia, è soltanto che andate male in matematica, non un dramma. Non credete alle parole brutte e difficili dei controller. Se vi dicono che avete l’ADHD non credeteci, l’ADHD non esiste. Non lasciatevi drogare dalle parole. Quando una parola diventa credenza è difficile toglierla dai vocabolari. Se siete dipendenti dal telefonino non siete dipendenti dal telefonino, ma dagli uomini che tessono il mondo, producono fatti sociali e su questi costruiscono poteri planetari. SIETE DIPENDENTI DAGLI ORCHI, NON DAI TELEFONINI. Tutte le relazioni che vi sembrano relazioni con le cose, le sostanze, gli apparati, sono relazioni con gli uomini e generano sofferenza. Le relazioni con gli uomini sono diventate relazioni con le cose e quelle con le cose relazioni con gli uomini, già lo diceva un oscuro pensatore dell’ottocento, un certo Karl Marx, nato a Treviri il 5 maggio 1818. Or sono duecento anni, la Terra nutriva ancora una speranza. Mi capite se vi dico questo, se vi parlo di rovesciamento della realtà?

 

cosa aspetta a iniziare?

non lo so, ho bisogno di tempo

ma sta per finire

cosa?

il tempo

no quello no, è il mondo che sta per finire il tempo no

no?

 

Mi mettono fretta, ragazzi. Vogliono che dica le solite quattro cose. Menzogne abituali. Non ci riesco. Non posso inneggiare a una riforma-non-riforma. Un fallimento. Le etichette della psichiatria, non solo il manicomio, sono la vera follia, il vero stigma. Il danno. Creano realtà che crea altra realtà. Se scrivo discalculia sul computer il programma non riconosce la parola. Ma la parola esiste ed è diventata fenomeno: se sei abbastanza bravo e inventi la parola e la fai circolare allora hai inventato il fenomeno e ci puoi fare una fortuna.

 

ma insomma, perché il sociologo non parla?

non so cosa dire

facciamo parlare qualcun altro

cosa potrebbe dire al posto mio

lo stigma, la 180…

no, parlo io

ma non è in condizioni

sì che lo sono

 

Discalculia, ADHD, schizofrenia: ragazzi, sono solo etichette stigma impronta bollo marchio timbro di fuoco sul corpo dei dissidenti. Giovani bambini adulti donne. Strega, il rogo ti aspetta. Supplizi psicofarmaci elettrochoc biotech. Il rogo sono i moderni inquisitori psichiatri insegnanti neuro-qualcosa ad accenderlo. Torturano dietro lo schermo della falsa scienza. Tutti, compresi quelli della 180. Lo stigma originario è la diagnosi psichiatrica. Le terapie servono a confermarlo. Restituiscono al medico la garanzia di una diagnosi corretta. Vizio circolare: se riconosci di essere malato ti darò i farmaci appropriati / se prendi i farmaci vuol dire che sei malato.

 

Dottore, sono i farmaci che mi fanno ammalare. Questa affermazione prova la tua malattia.

 

il sociologo sta poco bene

è svenuto

chiamate un’ambulanza

abbiamo problemi per restituire i risultati dei questionari

 

io mi richordo anchora che senthia musicha celthica

mentre la nave bianca scricchiolando

senza ammortizzatori su sconnessi

sampietrini romani trasportava

il corpo delirante all’ospedale

erano in atto tentativi di rianimarlo

confusioni, vanvera – né capo né coda

e venne l’ambulanza a trasportarlo

ma chi è questo?

è il sociologo;

che dice?

sapete ragazzi, vi fottono con le parole, dovete fare molta attenzione alle parole, le parole sono fatti, organizzano la realtà, non c’è realtà prima delle parole solo caos ma quando le parole hanno definito una cosa è difficile cambiarla, vince l’abitudine

avete sentito, ci chiama ragazzi

diglielo che ho cinquant’anni

vi racconterò una ricorrenza, il 12 dicembre del 69 a Chicago Allen Ginsberg testimoniava sui fatti di agosto 68 alla convention democratica, quando la polizia aveva massacrato i dimostranti senza preavviso

non avevano fatto nulla di pericoloso o violento, li aveva massacrati gratis

sta delirando, gli diamo qualcosa per calmarlo?

nello stesso tempo e nello stesso Stato, però a migliaia di chilometri di distanza, fra le Alpi e il Mediterraneo, esplose una bomba

di che parla?

delira

uccise sedici persone, ricorrenze?

perché parla di ricorrenze?

nel 1968 a Boston si riunisce il comitato di lotta dei sopravvissuti alla psichiatria

e che fanno?

parlano

è facile parlare se non si passa ai fatti

le parole sono fatti

ma che dice?

il presente è un’invenzione della memoria

 

ora riportatemi a scuola devo una restituzione agli studenti

qui facciamo un TSO altro che scuola

sta delirando, se ne rende conto?

ah, ma se deliro come faccio a rendermene conto

firmi questo foglio

io non firmo niente

predisponiamo il TSO

lasciatemi! devo andare dagli studenti, si aspettano una restituzione

ma che cosa deve restituire? non può farlo domani?

no, domani è troppo tardi

scade il tempo?

 

due giorni fa, mentre preparavo le tabelle da mostrare ai ragazzi, prendevo appunti, commentavo le loro risposte ai questionari, preparavo insomma la restituzione, hanno bruciato una strega, Erendira

non di questo ero venuto a parlare, ragazzi, ma non riesco a pensare ad altro, allora che faccio? me ne vado e vi lascio in balia di liete novelle sulla 180 che ha chiuso i manicomi e liberato i matti? non ci sono più i manicomi pubblici ma ci sono altri inferni, i circuiti obbligati della riabilitazione, i simulacri della psicoterapia, la libertà vigilata,  l’abbandono; il nostro paese, ma tutto il mondo è paese, no? è strano, chiude i bordelli e pensa di avere eliminato la tratta delle donne, chiude i manicomi e pensa di avere debellato la piaga dei maltrattamenti psichiatrici;

al dipartimento di salute mentale hanno sempre tanto da fare: cambiano spesso la carta intestata iniziando dal font, ah, il font! è così importante il font, e poi il logo, il logo! lunghe discussioni per decidere dove va messa la firma del direttore: a destra o al centro in fondo alla pagina? e la data? e il numero di protocollo? elettronico o manuale, il numero di protocollo va in alto a sinistra subito sotto il logo, sembra facile decidere la collocazione del numero di protocollo nella carta intestata, ma è una grande responsabilità!

sì, lo so, intanto c’è chi muore in un rogo, si butta nel fiume o si spiaccica in strada volando dalla finestra, ma pure un logo non è cosa da poco

c’è chi muore intossicato di psicofarmaci in una clinica o in ospedale, lo so, c’è chi muore come Erendira; s’è bruciata nel parco (due righe di cronaca e via) s’è uccisa (che ci puoi fare quando uno è malato di mente spesso s’ammazza) ha scelto un modo atroce per andarsene, cospargersi di solvente e darsi fuoco (è la malattia) (vuole manipolarci, fare leva sui nostri sensi di colpa)

non dite che è stata assassinata dal sistema, sono pensieri che non si fanno più da tanto tempo, non parlate di femminicidio di Stato, dimenticate in fretta Erendira – occhi impauriti sorriso timido intelligenza tagliente come un bisturi, Erendira vittima dell’indifferenza dei protocolli, del gelo terapeutico, del suo stesso carattere dimesso e ribelle, resistenza passiva difficile da domare, veicolare

due o tre cose so di Erendira, una donna è sempre un mistero, eppure pensavo di conoscerla – richordo le mani, le unghie cortissime rosicchiate dall’ansia dalla timidezza dalla paura – chi le ha strette quelle mani di recente? chi l’ha abbracciata? non rientra nei compiti del dipartimento, Erendira non è carta intestata, non possiamo farci carico dei sentimenti di tutti – richordo i saluti quando arrivava al centro di riabilitazione e quelli per le scale quando usciva – io la conoscevo bene? al dipartimento di salute mentale dobbiamo occuparci di molti, troppi, e poi anche dei quarant’anni della 180, della propaganda sui media e i social, dobbiamo decidere chi mettere a capo delle unità operative complesse e di quelle semplici, di come organizzare la carta intestata, suddividere il territorio, comporre le equipe, dobbiamo sapere chi farà carriera e chi no altrimenti saltano le alleanze

per Erendira, suicida in un parco là dove la città finisce, finisce che non c’è tempo – e adesso il tempo è finito – verrà seppellita in terra sconsacrata? verrà cremata per finire l’opera?

 

***

Roma, 23 luglio 2018

Un nuovo ruolo per il soggetto agli inizi del Novecento. Anche a proposito della relatività #3

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di Antonio Sparzani

Conseguenze come vedrete piuttosto strane, quelle di cui si diceva qui, ma tale stranezza necessariamente deriva dalla stranezza dell’ipotesi iniziale. Siamo infatti io vredo tutti ben convinti che, se la velocità di un treno che corre sulle rotaie ha un certo valore, rispetto alle rotaie, mettiamo 130 Km/h (chilometri all’ora), rispetto invece ad un altro treno che corra su un binario parallelo, e nella stessa direzione, mettiamo a 100 Km/h (sempre rispetto alle rotaie) sia di 30 Km/h, no? E questo è certamente vero e misurabile con tutti gli strumenti di misura che possediamo. Invece la luce fa, per così dire, eccezione: la luce viaggia a 300.000 Km/s (chilometri al secondo) – valore approssimato – rispetto a qualsiasi riferimento, cioè vista da qualunque altro osservatore, su treni o razzi come si vuole; se io mi metto ad esempio su un razzo che viaggi – diciamo rispetto alla Terra dalla quale viene emesso un raggio di luce parallelo al mio moto – a 250.000 Km/s (cosa difficoltosa assai, con i mezzi che possediamo, ma facciamo finta) e se misuro la velocità di quel raggio di luce, trovo sempre il valore di 300.000 Km/s, e non, come ci si potrebbe aspettare, il valore di 50.000 Km/s.
Tenete presente che queste misure sono tutt’altro che facili, trattandosi di velocità così elevate, ma, a quel che sappiamo a tutt’oggi, le cose stanno proprio così, come avevano cominciato a scoprire Michelson e Morley, e come Einstein ipotizzò nel 1905.

Einstein fin da piccolo fantasticava su cosa si dovrebbe provare quando si cavalca un raggio di luce. Sentite cosa scrisse nella sua, peraltro scarna, autobiografia:

«Perdonami Newton, tu trovasti proprio l’unica via che alla tua epoca era possibile per un uomo dotato della più alta forma di pensiero e di creatività. I concetti che tu creasti guidano ancor oggi il nostro pensare nella fisica, anche se oggi sappiamo che, se vogliamo tendere a una comprensione più profonda delle interconnessioni, essi devono essere sostituiti da altri ben più lontani dalla sfera dell’esperienza immediata».

Einstein in questa fase della sua vita propose e sperimentò come non mai questo allontanamento, certo molto più di quanto non sia poi stato disposto a fare durante il successivo periodo di ulteriore grande fermento connesso con l’emergere della meccanica quantistica.
Egli semplicemente rovesciò la struttura logica della problematica esistente, ponendo assiomaticamente a fondamento della propria nuova teoria quanto prima andava invece spiegato.
Forse diede retta a un’aurea massima che il suo illustre conterraneo Wolfgang Goethe scrisse in una lettera del 1828 al compositore berlinese Carl Friedrich Zelter, con il quale intratteneva una fitta corrispondenza, e che suonava letteralmente così:

“L’arte più grande nella vita del mondo e della cultura consiste nel saper trasformare un problema in un postulato; così ce la si cava”.

Non è straordinario?

Bene, le conseguenze strane della stranezza iniziale sono ad esempio queste:

1. Se un osservatore inerziale O ha con sé un regolo di lunghezza assegnata L, allora un altro osservatore O’, che si muova rispetto ad O di moto rettilineo uniforme con una certa velocità v parallelamente alla lunghezza del regolo, e che voglia misurare la lunghezza del regolo di O, non trova più il valore L, trova bensì un valore un po’ minore che si ottiene moltiplicando il numero L per un fattore minore di 1 che dipende dal rapporto tra la velocità v e la velocità c della luce. Precisamente questo fattore, chiamiamolo β, è pari a ; tenete conto che, per tutte le velocità cui siamo abituati, il rapporto v/c è assai piccolo – ad esempio per la velocità di un missile che viaggi a 10 Km/s , pari a 36000 Km/h, v/c è pari a circa 0.0000333, così che il fattore β differisce da 1 per meno di un miliardesimo, cioè, su una lunghezza di un chilometro, per meno di un micron. È evidente dunque che si tratta di differenze che, a velocità ordinarie, non sono neppure misurabili; tuttavia una simile conclusione rappresenta in linea di principio un notevole sconvolgimento rispetto alla fisica classica, nella quale la lunghezza degli oggetti era un invariante per tutti gli osservatori, in moto l’uno rispetto all’altro in modo qualsiasi.

2. Se l’osservatore O ha un pendolo che scandisce il secondo del suo orologio e l’osservatore O’, sempre in moto rettilineo uniforme rispetto a O con velocità v, misura con il proprio orologio, beninteso identico a quello di O, ogni quanto tempo batte il pendolo di O, trova un valore un po’ maggiore; trova cioè che quando per O è passato un secondo per lui è passato un tempo leggermente superiore, e, anche in questo caso, secondo il fattore β. Dunque secondo O’ il tempo di O scorre un po’ più lentamente. Va anche subito detto che non vi è alcuna asimmetria in tutto questo: ogni osservatore osserva nell’altro, in moto rispetto a lui, gli stessi effetti: così come O’ vede il tempo di O leggermente rallentato, anche O vede il tempo di O’ altrettanto rallentato e così come O vede le lunghezze di O’ accorciate, anche O’ vede le lunghezze di O altrettanto accorciate. Nessuna contraddizione logica, né fisica, si dà in questa simmetria perché ha senso confrontare tra loro tempi e lunghezze misurate dallo stesso osservatore.

Dunque qualcos’altro è necessariamente cambiato nella nostra divisione iniziale tra aspetti oggettivi e soggettivi nella conoscenza. Sembra evidente che a questo punto è aumentato sensibilmente il bagaglio che va ascritto al soggetto osservante: quello che un soggetto vede L, un altro vede βL, e così per gli intervalli temporali. Le proprietà pertinenti al solo oggetto, indipendenti dall’osservatore, diminuiscono. In questo caso, ad esempio, c’è ancora qualcosa che rimane invariante per tutti gli osservatori, ma è qualcosa di un po’ più astratto, di meno intuitivo, è una certa espressione quadratica che contiene gli intervalli di tempo e le lunghezze che qui non mette conto di scrivere esplicitamente, ma che tuttavia costituisce qualcosa di più fondamentale, dal punto di vista di questa nuova teoria, che non le semplici lunghezze o gli intervalli di tempo.

Un altro notevole passo è dunque stato compiuto nella direzione che avevamo indicato inizialmente. Aggiungerei soltanto che su questa strada un ultimo passo, sembrerebbe definitivo, è stato compiuto con la cosiddetta teoria della relatività generale, sempre ad opera di Einstein, nel 1916, sui cui aspetti tecnici certo qui sorvolo, ma a proposito della quale sarà sufficiente indicare, come ormai è prevedibile, che lo spazio della conoscenza riconducibile al puro oggetto si restringe ancora una volta. I soggetti, cioè gli osservatori, “permessi” sono molto aumentati – in realtà sono tutti gli osservatori fisicamente possibili – e dunque più numerose sono le grandezze che possono variare.

Vista sotto questo profilo, dunque, l’evoluzione dell’idea di relatività presenta aspetti che, all’interno dell’ottica della scienza, appaiono inaspettati; essi sono tuttavia necessari non appena si riflette che l’esigenza principale che viene perseguita lungo il filo di questa idea è quella di dire cose della realtà il più intersoggettive possibili, il più possibile comuni a tutti gli osservatori, l’esigenza ultima cioè di non considerare alcun osservatore come privilegiato, né quello che dal Sole vede la Terra ruotargli attorno, né quello sulla Terra che vede il Sole ruotargli attorno, né quello situato al centro della nostra Galassia, che vede – oltre a milioni di altri oggetti celesti – il nostro Sole girargli attorno con una schiera di piccoli oggetti che a loro volta eseguono un moto ad elica attorno a tale Sole, né alcun altro mai.
Lo scopo ultimo della relatività — contrariamente a quanto il suo mal scelto nome potrebbe far pensare – è forse il modo della fisica di cercare la kantiana cosa in sé, l’essenza ultima e inattingibile di ciò che è altro da noi e di cui vogliamo conoscere ciò che da noi è completamente indipendente.
È con questo tipo di sviluppo che la fisica si inserisce in quel più generale contesto culturale che vede, al volgere del secolo, una più vasta e generalizzata espansione, o quanto meno una definizione più precisa, del ruolo del soggetto. La prossima volta parleremo di questi altri contesti.

(Nuove) vite indegne di essere vissute

6

di Mariasole Ariot  

Alla sera abbiamo preso un paio di birre,
e mangiato del chili; è stato magnifico, veramente magnifico.
E non ho scordato un solo istante di essere libera.*

                                                                                                                                                                                          
 

 

Non è novità : la legge 180 viene messa in discussione dalla sua nascita, nella sua alba dagli stessi medici, successivamente in piccole zone liminari, nei bar di periferia, tra le nuove forze di estrema destra e non solo : il pazzo  è un pericolo per la società!, dovrebbe essere internato, riaprano i manicomi!

Un cicaleggio,  frastornante per chi – già stigmatizzato – ne paga le conseguenze sulla propria pelle, nei propri organi interni, ma pur sempre un cicaleggio.

 

Ma il cicaleggio restava un rumore di fondo avvertito solo da chi aveva l’udito troppo fine o già riempito di un vociare continuo, avvertito da corpi in lotta che lottano per riaggiudicarsi uno statuto di dignità.

Quando invece è un Ministro dell’Interno a dirlo pubblicamente, non si tratta più di un rumore di sottofondo ma di un sottosuolo che riappare ed esonda, un rumore dato dalla voce di chi ha voce per imporsi e cavalcare il sottovoce di chi nel lamento ha bisogno di sempre nuovi capri espiatori.

La società psichiatrica ha risposto. Non solo a questa dichiarazione fintamente buonista (come se a Salvini importasse delle famiglie dei malati psichiatrici e dei malati stessi), ha risposto anche ad altre dichiarazioni fatte a voce dallo stesso che dicono “esplosione di aggressioni da parte di persone affette da disturbi mentali”.

 

(dunque i fatti degli ultimi giorni : le pistole alle finestre a sparare al migrante o alla bambina rom : malati psichiatrici?)

 

Eppure, anche questa risposta non basta, non basterà, è necessario aprire le bocche dal basso. Perché, sfortunatamente, nel tentativo lodevole di negare le parole del Ministro degli Interni, anche la società psichiatrica cede e si contraddice. Prima afferma che forse il ministro non sa che l’Italia in questo campo è un’eccellenza, poi, nella contraddizione, chiede che piuttosto vengano dati fondi dove fondi non ce ne sono, dove i fondi sono stati tagliati e continuano a essere tagliati, dove gli operatori addetti alla salute mentale sono troppo pochi per lavorare bene, e le risorse troppo poche per accogliere e prendersi cura di chi ne ha bisogno.

La realtà italiana non è un’eccellenza. Eppure vi sono delle sacche di resistenza che abbracciano la prospettiva basagliana in modo onesto e civile. Mancano i soldi, e questo purtroppo crea una lacerazione tra il voler fare e il poter fare.
Tagli alla sanità, e il taglio è ancor più profondo quando si ritiene che in fondo si ha a che fare con esseri umani di poche pretese, che possono accontentarsi di un pasto, 50 euro al mese per uno stage lavorativo per la reintroduzione al mondo del lavoro , farmaci, un letto, una sala del fumo.

 

Purtroppo esistono ancora i legacci attorno alle sbarre del letto. Le falle del sistema sono tante.

 

Ma il punto è : l’Italia più buona, per Salvini, non sarebbe quella di aiutare seriamente i servizi territoriali per permettere ai malati (specialmente a chi si affida ai servizi pubblici) cure dignitose e spazi di cura decenti, un incremento delle possibilità per i curanti di essere presenti in modo costante e continuativo. L’Italia più buona, per Salvini, è quella di retaggio fascista. Un’Italia in cui i soggetti più deboli vengono rinchiusi o fatti affondare. Un’Italia in cui quelle vite che nel programma Aktion t4 veninivano considerate indegne di essere vissute, per razza o per disabilità, vanno eliminate.

 

Certo – si dirà – nessuno ha parlato di eliminare fisicamente nessuno.
Ma riaprire i manicomi o gli OPG, mettere in discussione una delle poche leggi che hanno segnato un’apertura in questo paese, una fuga in avanti, un passo verso la restituzione della libertà e della soggettività a coloro ai quali era stata sottratta, non è forse, ancora una volta, l’ennesimo tentativo di questo governo di eliminazione, di epurazione?

Si tratti di ri-confinare o di alzare i confini, l’idea di fondo resta la stessa : un ritorno fascista e autoritario che decide come va trattato, operato chirurgicamente nell’esercizio biopolitico di un potere perverso, esseri umani a cui non dev’essere concesso il diritto di vivere una vita degna di essere vissuta.

*testimonianza tratta dalle note di campo di Erving Goffman per la stesura di Asylums

 

Lo straniero è colui che viene. Una nota al margine di Edmond Jabès

1

di Giorgiomaria Cornelio

-Qual è l’idea che l’immigrato si fa dell’autoctono?

Quello di un patriota che lo incita a essergli somigliante affinché sia pienamente integrato nella collettività che il patriota stesso rappresenta; e questo, sia nel caso gli rinfacci la presenza, sia in quello che sia mosso dalla buona volontà più sincera. Per lo straniero, ebreo o scrittore, ma ciò vale per tutti gli emarginati (…) che la società, a suo dire per la propria salvezza, condanna in blocco, anche se loda o festeggia qualcuno di loro in nome del pensiero, dell’arte o della scienza, pensando in questo modo di darcela a intendere; ebbene, per lo straniero, quella società è la somiglianza della sua propria differenza, nella separazione, volontaria o temuta, che lo rafforza.

L’immigrato che è ansioso di non essere più considerato come uno straniero, sa che, una volta esaudito il suo desiderio, cessa di colpo di essere se stesso, non essendo ormai altro che una cattiva copia di un modello sospetto?

Lo straniero è forse colui che acconsente di pagare, modesto o esorbitante che sia, il prezzo della propria estraneità.

Dunque, il prezzo pagato per rimanere straniero; per ciascuno di noi, il prezzo pagato per essere se stessi.

Ti ricordi la storia, ad un tempo comica e drammatica, di quell’africano, entusiasta, sentimentale, il cui amore per la Francia era talmente espansivo, che la notte si coricava sulla nostra bandiera, fino al giorno in cui fu vilmente denunciato alle autorità di polizia da parte di alcuni vicini che avevano interpretato questo gesto come un oltraggio alla patria?

Ma, più che dell’immigrato, prototipo della più grossolana idea che si potrebbe avere dello straniero, è prima di tutto di noi che si tratta. […]

Edmond Jabès, “Uno straniero con, sotto il braccio, un libro di piccolo formato”

 

Intanto lo studio delle strutture cave.

Se scrivo questa nota sul greto della pagina è per prendere congedo da un doppio fraintendimento sulla parola straniero, e per vivificarne il senso attraverso la scrittura di Edmond Jabès.

Integrazione: non sappiamo più che farcene dell’inquieta dolcezza di questa definizione. L’abuso ne ha soffocato la lateralità, e il groviglio di radici. Ugualmente per l’immigrato o l’emarginato, essa si è risolta con una duplice congiura alla sua estraneità: il rifiuto o l’assimilazione sociale.

Eppure lo straniero sembrava essere giunto soltanto per ribadire che l’identità è una regione disabitata, o piuttosto quanto perdura a trattenersi come dissomiglianza.

Per lo straniero che ha appreso la sua totale estraneità, e dunque il continuo divenire altro, fingere un’amnesia non è abbastanza quando tutto tradisce il marchio d’una antica registrazione. Ma è proprio l’obbligo a ricordare a costituire, per lui, un’esortazione alla dimenticanza.

Così, rivolgendosi ad esempio alla razza e al genere– questi toni dell’essere da lui dismessi e che tuttavia non zittiscono l’umore tumultuante della loro superficie – egli si chiede: che farne ora del loro perimetro ancora bruciante di riconfigurazioni e di fermenti, di formicolii tellurici e archetipici?

Risponde: giochiamoli come protesi per inventare la vita, come tinte da sviluppare in luogo di una trascolorazione, cioè come esperienza acrobatica e schizofrenica del bordo, dal quale sempre non si fa altro che partire e congedarsi.

Così, vigilando una concentrazione di visitazioni e sopravvivenze, lo straniero –perpetua sorgente di conversioni- va montando la propria modellatura vivente come fosse un praticabile per un corpo a venire, limine e “metafora di un inaccessibile”, di un infigurabile:

“-Lo straniero è colui che viene.
-È sempre colui che è sul punto di venire.”

Il nido

2

di Gianni Biondillo

Tim Winton, Il nido, Fazi Editore, 2017, 442 pagine, traduzione di Stefano Tummolini

Trovarsi quasi a cinquant’anni, dopo una vita di successi personali frantumati: questa è la condizione di Tom Keely, rincantucciato all’ultimo piano del condominio dove abita, spesso riverso a terra, svenuto dopo sbronze colossali o uso eccessivo di farmaci. Per stordirsi, per annientarsi.

È la storia di un fallimento quella che ci racconta Tim Winton. Di come un ambientalista noto ai media australiani per le sue battaglie ideali, dopo aver calpestato un callo di troppo al potente di turno, venga messo all’angolo, abbandonato da tutti.

Conosciamo il protagonista de Il nido forse nel suo momento peggiore, quando le sue certezze sono ormai definitivamente sfaldate. Poi il caso (come ogni romanzo che si rispetti) ci mette lo zampino. Tom scopre che al suo stesso piano abita Gemma. Si conoscevano in gioventù, lei, più giovane di pochi anni, si rifugiava spesso a casa sua, scappando da un padre violento. Oggi è una donna che conserva a fatica la sua bellezza passata. Ha poco più di quarant’anni e un bambino di sei anni, Kai, intelligente e triste, curioso e autistico. Kai in realtà non è suo figlio. Gemma è la nonna. La giovane madre è in carcere, perduta in un giro di droga e con un marito più sballato di lei.

Il nido è la storia dell’incontro di tre fallimenti: l’idealista divenuto cinico, la ragazza invecchiata troppo in fretta, il bambino convinto che non conoscerà l’età adulta.

La scrittura di Winton appare dapprima zoppicante, colloquiale, antigraziosa. In realtà è inesorabile come un meccanismo ad orologeria, capace di porre il lettore di fronte a situazioni di grande intensità, evitando patetismi stucchevoli o triti espedienti romanzeschi. La paura qui è paura. L’ansia, l’angoscia, l’impotenza, la speranza, il disincanto sono veri. Il romanzo, chiusa l’ultima pagina, memorabile.

(precedentemente pubblicato su Cooperazione, numero 5 del 31 gennaio 2017)

Il fascismo secondo Romain Gary

1

Lettera a Dominique de Roux

di

Romain Gary

(traduzione di Francesco Forlani)

Romain Gary mi scrive.

Ho letto il suo Gombrowicz. Contiene dei forti ‘pezzi di scrittura’.

Le dico allora… esiste in lei un autentico scrittore, indubbiamente degno di nota che però, me lo conceda, dà l’impressione di essere scampato soltanto per un banale inconveniente anagrafico, al vortice dei contraddittori eventi del ’45.

Leggendo Dominique de Roux, è impossibile non chiedersi cosa avrebbe provato nel ’41. La resistenza, forse umanamente, ma dal punto di vista letterario l’ira.

Non si tratta per nulla di una questione di fascismo di fondo:  è il gusto eccessivo della forma che sfiora il vuoto, l’aura del ‘detto’ che sembra esigere, reclamare, sbattendo e puntando i piedi per terra, il fondo fascista, il contenuto nazista.

Il fatto è che non esiste, né è esistito mai un contenuto fascista. Il fascismo è sempre stato un contenitore che soffre del vuoto interiore, del suo vuoto, ecco perché può trasformarsi facilmente in fossa comune. I cadaveri fanno sempre molto ‘contenuto’.

Che nel vostro caso si tratti solo di cadaveri letterari -J-J.S;-S, Nabokov o X,Y,Z, la musica non cambia.

Quando si è nel 1971 e si è troppo intelligenti per fare il Rebatet, ci si ammanta d’anarchia; è una nudità che immediatamente riveste. Quando si rifiutano del fascismo delle idee troppo vuote, in realtà le si sostituiscono con facce da prendere a schiaffi, anche quando non si prova niente per quelle facce: è questo che « fa contenuto ». Qualsiasi faccia andrà bene, poiché in base allo stile in questione, non sono le facce ad attirare gli schiaffi, ma gli schiaffi a creare e inventare le facce. A tutto ciò va aggiunta la sua mania di fare appello senza sosta alla faciloneria letteraria più vecchia del mondo, Céline o Gombrowicz: il nulla. Perfino il nulla -senza paradossi- fa “contenuto”. Eppure il nulla basta a tal punto a sé stesso da generare in filosofia o in letteratura  soltanto altro nulla.

Poiché reputo il talento del suo ‘scrivere’ degno di nota, e che da osservatore quale sono la trovo simpatico – mi piace starmene a guardare giovani talenti letterari che a ogni nuova generazione ricominciano questi balletti parigini, questi «Pomeriggi di un fauno» – e poiché l’avere sperimentato in svariate occasioni simili trabocchetti fa di me un esperto in materia, la metto semplicemente in guardia dal pericolo.

Lasci perdere questi regolamenti di conti personali per interposte personalità.

La vaghezza di contenuti che la mette in collera la spinge a riempire quel vuoto con facce che calpesta con l’impressione di sentire finalmente qualcosa di consistente sotto i tacchi.

Non ho mai conosciuto nessuno in letteratura che convinto di danzare sulla testa dell’ennesimo capro espiatorio della propria consapevolezza del vuoto interiore, dell’angoscia da derviscio turbinante, non si trovasse alla fine la propria faccia sotto i piedi.

Lei ha più talento di quanto non creda, e merita di più dell’essere il Tom Woolf delle piccole lettere francesi, del resto, come traspare nel suo Gombrowicz, lei passa per le armi Nabokov come il nano Woolf ha appena fatto con Leonard Bernstein in Radical chic.

In altre parole, lei dovrebbe affrontare non altri ma sé stesso con ferocia, coraggio e senza pietà.

Io è un contenuto che la chiama, il grande appuntamento letterario è con lui. Però non si va da nessuna parte se si è presi nel balletto intorno alla propria testa.

(21 octobre 1971.)

Nota al passo

Questo testo di Romain Gary è contenuto nel libro pamphlet Immédiatement di Dominique de Roux e che uscirà nella collana Tamizdat (ed Miraggi) quest’autunno. Di Dominique de Roux avevo già pubblicato su Nazione Indiana alcuni frammenti che è possibile leggere qui. Ho ritenuto importante pubblicare questa lettera in questi concitati giorni di furia post fascista perché con quasi mezzo secolo di anticipo sui nostri tempi, troviamo nelle parole del grande scrittore francese Romain Gary la migliore risposta a quanto sta accadendo in Italia. L’errore maggiore che si possa commettere  è allora quello di ostinarsi a pensare il fascismo come un contenuto e soprattutto tentare di riempire quel vuoto consustanziale al fascismo con la più fascista delle reazioni, ovvero, cercarsi delle facce da prendere a schiaffi.

La codardia e il silenzio

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di Michele Toniolo

Tu sei codardo, figlio mio. Non riuscirai mai a conquistarti un posto nel mondo. Tu sei codardo.

Mio padre è sconfitto. Queste parole iniziano la sua malattia. Si arrende alla sesta notte d’insonnia e le spinge verso di me. Lascia che accadano dopo averle trattenute in un esodo sterminato. La sua mano si solleva come una radice strappata e si aggrappa alla sbarra del letto, mio padre solleva il busto e mi guarda. Perché piangi? Sta dimenticando. Copro la sua mano con la mia. Mio padre allunga le gambe verso il fondo del letto, adagia la schiena, appoggia la nuca sul cuscino, tira le coperte e il lenzuolo fin sotto il mento, parla senza voce ora, a sé stesso, muovendo appena le mani, senza dolore né rassegnazione.

La malattia di mio padre mi ha impugnato senza tregua. Mi ha chiesto stretto al suo fianco per sei anni. L’ho aiutato a riconoscersi, dopo ogni caduta, di nuovo uomo. Tutto è accaduto nel silenzio di mio padre e nella sua immobilità. Riconosceva nella mia presenza il coraggio che le sue parole avevano negato, ma nella sua malattia mi sentivo giustificato. Mi ero aggrappato alla malattia di mio padre come un rampicante. L’avevo coperta con tutto me stesso e coprendola l’avevo tenuta viva, perché se si fosse spenta mi sarei spento an­ch’io. Avevo riempito il silenzio di mio padre con tutte le mie parole, agitato la sua immobilità con ogni mio gesto. Avevo avuto bisogno della sua malattia come una zecca di una pecora. Ma questo per mio padre non contava nulla. La sera in cui riconsegnò tra le mie braccia il suo respiro a Dio, mi parlò. Lo fece come se non fosse stato in silenzio per sei anni, quanto le notti d’insonnia che lo avevano costretto a letto. Non mi consegnò l’assoluzione da una colpa, né il perdono di un errore. Mi insegnò chi ero. Non temere, mi disse. Hai saputo ama­re. Sorrise e chiese le mie braccia per alzarsi, come se avesse finto anche l’immobilità, non solo il silenzio.

 

NdR: questo è il primo racconto della raccolta “La tentazione di Bonhoeffer”, di Michele Toniolo, pubblicata da Galaad (2018, 7 euro)

Altri consigli rilkiani ai poeti

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di Antonio Sparzani

Dodici anni fa pubblicavo qui una delle lettere di Rainer Maria Rilke a un giovane poeta, cercando di dare sollievo e conforto, e magari consigli, per l’appunto a tutti i giovani poeti. Adesso mi sono imbattuto nel Malte Laurids Brigge, dove ho trovato quest’altro testo, forse meno incoraggiante, o comunque con consigli assai più pesanti. Vedete voi.

Credo che dovrei cominciare a lavorare a qualche cosa, ora che sto imparando a vedere. Ho ventotto anni, e non è accaduto quasi nulla. Ricapitoliamo: ho scritto uno studio sul Carpaccio, cattivo, un dramma intitolato Matrimonio che vuole provare una tesi falsa con mezzi ambigui, e versi. Ma i versi, ahimè, significano così poco, se scritti presto. Si dovrebbe aspettare a farne, raccogliere saggezza e dolcezza per una vita intera, una vita lunga, se possibile, per riuscire forse, alla fine, a scrivere dieci righe che siano buone. Perché i versi non sono, come si crede, sentimenti (che si hanno abbastanza presto) – sono esperienze. Per un solo verso bisogna vedere molte città, uomini e cose, bisogna conoscere gli animali, bisogna sentire come volano gli uccelli, e sapere i movimenti con cui i piccoli fiori s’aprono il mattino. Bisogna poter ripensare a cammini in contrade sconosciute, a incontri inattesi, e ad addii che si vedevano da tanto in arrivo, a giorni dell’infanzia ancora inesplicati, ai genitori che dovevamo amareggiare quando ci portavano una gioia che non capivamo (era una gioia per un altro…), a malattie infantili, che cominciavano in modo così singolare, con mutamenti tanto gravi e profondi, a giorni in stanze quiete e raccolte, e a mattini sul mare, al mare, ai mari, a notti di viaggio che frusciavano via alte e volavano con tutte le stelle – e non è ancora abbastanza, bisogna avere ricordi di molte notti d’amore, nessuna uguale all’altra, di grida di donne con le doglie e di bianche, lievi puerpere addormentate, che si chiudono. Ma occorre anche essere stati vicino a moribondi, essere stati seduti accanto a dei morti nella stanza con la finestra aperta e i rumori che entrano a folate. E non basta neppure avere ricordi. Bisogna saperli dimenticare, quando sono molti, e attendere, bisogna avere la grande pazienza di attendere che tornino. Perché neppure i ricordi sono ancora esperienze. Solo quando essi diventano in noi sangue, sguardo, gesto, anonimi e indistinguibili da noi, soltanto allora può succedere che la prima parola di un verso, in un’ora rarissima, s’alzi ed esca dal loro centro.
Ma i miei versi sono nati altrimenti, dunque non sono versi… E come m’ingannavo, quando scrissi il mio dramma. Ero un pazzo o un imitatore ad aver bisogno di un Terzo per raccontare il destino di due persone che se lo rendevano difficile a vicenda? Con che facilità caddi nel tranello.

[Rainer Maria Rilke, I quaderni di Malte Laurids Brigge, Adelphi, Milano 2001, pp. 20-22]

Do you remember Alessandro Leogrande?

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Perché rileggere Il naufragio di Alessandro Leogrande

 

di Fausto Maria Greco

 

Alla sua morte, il 26 novembre scorso, lo scrittore, giornalista e animatore culturale di origine tarantina Alessandro Leogrande è stato ricordato da tutti gli organi di stampa, televisivi ed in Rete.

Avremmo sentito la mancanza – dicevano – della penna di Leogrande, capace di produrre, in soli quarant’anni di vita, inchieste decisive sul caporalato nel sud Italia (il pluripremiato Uomini e caporali, 2008), sulla criminalità organizzata (Le male vite, 2003; Nel paese dei viceré, 2006), sui flussi migratori tra passato e presente (La frontiera, 2015), oltre ad aver curato interessanti antologie di narrativa e collaborato con numerosi giornali e riviste nazionali.

Eppure, nel corso di queste ultime settimane caratterizzate da una martellante propaganda politica condotta sulla pelle di oltre seicento migranti messi in salvo dalla nave Aquarius e di molti altri dispersi a est di Tripoli tra giugno e luglio, pochi sono stati i riferimenti, a nostro avviso emblematici, alla vicenda di cui Leogrande si è occupato in uno dei suoi libri più importanti, Il naufragio (2011). La tragedia della Kater i Rades (letteralmente “Battello in rada”), affondata la sera del 28 marzo 1997 nel Canale d’Otranto, contiene invece una lezione da non dimenticare. L’autore definisce tragico, perché assolutamente evitabile, il naufragio della motovedetta albanese, partita stracarica di migranti dal porto di Valona alle tre del pomeriggio. Le cause della morte di 57 persone, più 34 superstiti e 24 dispersi, sono state umane, non naturali.

Il racconto di Leogrande, frutto di una lunga ricerca condotta tra Italia e Albania, partiva dalla crisi politica apertasi nel paese balcanico nella primavera del ’97, in seguito al crollo delle società finanziarie a cui tantissimi albanesi avevano affidato i loro risparmi e dopo la rivolta del sud del paese, con lo scoppio di una guerra civile. Quando il presidente della Repubblica Sali Berisha decise di imporre il coprifuoco e di chiudere militarmente la partita con il sud, gli scontri a fuoco diventarono pressoché quotidiani e molti albanesi, impossibilitati a partire dall’aeroporto di Tirana e dai porti di Durazzo, Saranda e Valona (tutti chiusi dalle autorità), provarono a imbarcarsi clandestinamente verso l’Italia, salendo a bordo di qualsiasi natante. Sulla Kater i Rades, piccola motovedetta adatta a contenere non più di nove o dieci persone, trovarono posto circa centoventi tra uomini, donne e bambini. I clan di Valona, che organizzavano questi trasporti, avevano chiesto loro dalle cinquecentomila a un milione di lire a testa. Nel racconto di Leogrande, tra i passeggeri c’è Bardhosh, imbarcatosi con tutta la sua famiglia, alla quale sopravvivrà dopo il naufragio. C’è Fatmir, che nella tragedia perderà la madre, la sorella, il figlio della sorella e il cognato. C’è Ermal, che ha imparato l’italiano seguendo i programmi televisivi del nostro paese e che al momento dell’affondamento si trova nella stiva, insieme alle donne e ai bambini. Sua madre gli dice di salire sopra e lui obbedisce: non la rivedrà più perché, pochi secondi dopo, si ritroverà in acqua e raggiungerà con difficoltà, a nuoto, la nave militare italiana che si è scontrata con la motovedetta albanese.

 

Ermal ripensa spesso a quelle poche parole: “Va’ su. Non stare qui”. Anzi, quell’esortazione, che gli ha salvato la vita, non gli esce più dalla testa. E da allora, per sempre, per tutti gli anni a venire, sarebbe stata la prima frase che gli veniva in mente appena svegliato, e l’ultima a cui pensare prima di addormentarsi. La madre, quasi avesse intuito quello che sarebbe successo pochi secondi dopo, quasi parlasse già dal mondo dei morti, gli aveva salvato la vita. Lo aveva sottratto all’abbraccio del Mediterraneo. Va’ su. Non stare qui… Va’ su. Non stare qui…[1]

 

Fra i trentaquattro superstiti si conteranno due sole donne: una è Ismete, che voleva raggiungere il marito a Brescia e che nell’incidente perde la figlia dodicenne. A Valona, molte altre si ritrovano ignare della sorte dei loro mariti. Una di queste è Pushime, che ha visto partire a bordo della motovedetta albanese il marito Kastriot con sua sorella e due bambini.

Il reportage di Leogrande alterna le storie delle vittime e dei loro familiari, dei sopravvissuti e dei comitati in cui si sono riuniti, all’approfondimento del contesto politico e sociale di riferimento e alla ricostruzione delle difficili indagini giudiziarie e dei processi riguardanti la tragedia del Venerdì Santo. Il modello letterario è quello di A sangue freddo (In Cold Blood, 1965) di Truman Capote, ma tanto l’inchiesta quanto il saggio, per Leogrande, vanno «sventrati», come l’autore spiegò in un intervento a Gioia del Colle : alternare la prima persona alla terza, l’oggettività alla soggettività, l’approfondimento alla narrazione, si rende necessario per restituire non soltanto la complessa dimensione storico-politica della vicenda, ma anche e soprattutto quella umana, individuale, che altrimenti rischierebbe di sfuggire. L’esempio di Anatomia di un istante (Anatomía de un instante, 2009) dello scrittore spagnolo Javier Cercas, autore di un’inchiesta sul colpo di stato del 23 febbraio 1981 in Spagna, influenza poi la struttura del testo di Leogrande: la penna di Cercas si sofferma, infatti, sulle biografie dei soli tre parlamentari che, di fronte alle minacce del colonnello Tejero, restarono seduti ai loro posti sfidando i golpisti e finisce per tornare, pressoché in ogni capitolo, su quei secondi decisivi che restano impressi nella mente di tutti gli spagnoli e che furono trasmessi in televisione in lieve differita. Analogamente, il racconto di Leogrande torna più volte al momento del naufragio, alle concitate manovre che si svolsero sulla nave albanese e su quelle militari italiane che si trovavano, nel tragico Venerdì Santo del 1997, nel Canale d’Otranto. Un po’ alla volta, però, si allarga lo sguardo al contesto di riferimento e i dati che l’autore cita nel libro concorrono a motivare un giudizio critico sugli eventi narrati.

Tuttavia il senso del libro di Leogrande si dispiega già nelle prime pagine, quando le storie dei naufraghi lasciano il posto alla vicenda parallela del capitano di corvetta Angelo Luca Fusco. Il 28 marzo del 1997, Fusco si trovava al comando Maridipart di Taranto, la sala operativa che teneva i contatti con le navi dislocate nell’area di pertinenza (mar Jonio e Canale d’Otranto), in coordinamento con il Comando in capo della squadra navale (Cincnav) di Roma. Il processo che riguarda la strage si è basato proprio sulla testimonianza del militare, che ha ascoltato parte delle comunicazioni intercorse tra le navi e i comandi da terra prima di allontanarsi e venire a sapere, poche ore dopo, del naufragio. Fusco si è ritrovato, all’uscita dalla sala operativa, alle nove di sera, nel mezzo della processione dei Misteri, in corso di svolgimento a Taranto durante il Venerdì Santo. Tra i penitenti scalzi e incappucciati, mentre tenta di uscire dalla folla, Fusco si trova di fronte alla statua dell’Ecce Homo e vi riconosce il proprio stesso sconvolgimento:

 

Un Cristo triste con la corona di spine posta sulla testa insanguinata e una pezza rossa intorno al corpo nudo. […] Quell’uomo, scolpito nel legno tre o quattro secoli prima, non sta provando compassione per il mondo, ma stupore. Una profonda meraviglia, velata di tristezza, per la violenza, il non senso, l’indifferenza, l’ignavia, l’impossibilità di raddrizzare le cose. Quel Cristo dai lineamenti popolari sembra un innocente piombato improvvisamente in mezzo a una mattanza.[2]

 

Alla storia del capitano Fusco fa seguito, ne Il naufragio, la ricostruzione dell’iter processuale relativo al disastro della Kater i Rades. Con la seguente avvertenza:

 

Seguire parola per parola ciò che viene pronunciato in un tribunale produce spesso uno strano effetto. Si ha la sensazione che accanto alla corrente centrale di ogni azione penale, quella volta all’accertamento di questo o di quel reato (in tal caso, un naufragio), vi sia – ai margini – un’accanita battaglia delle idee e delle parole tesa a spostare ora un centimetro avanti, ora un centimetro indietro, l’interpretazione del contesto. E l’interpretazione del contesto altro non è, in fondo, che l’interpretazione dell’Italia, il paese in cui certe cose possono accadere. Il paese in cui ogni strage, quando non sia prodotta da un evento naturale, è avvolta da una insopportabile coltre di silenzio.[3]

Più ancora della coltre di silenzio che ha reso difficile l’accertamento delle responsabilità,[4] a Leogrande interessa però il piano dell’«esegesi del presente che ci circonda attraverso i suoi brandelli che si sedimentano in reperti, che lasciano traccia di sé nelle carte giudiziarie, oltre che nella vita dei sopravvissuti, degli esseri umani in carne e ossa»[5]. Un naufragio è infatti «solo apparentemente un fatto collettivo», è prima di tutto «la somma di tanti abissi individuali, privati, ognuno dei quali è incommensurabile, intraducibile, mai pienamente narrabile»[6]. Il tentativo di raccontare, di dar voce a tutte queste prospettive individuali, andava fatto. In tal senso, diversi elementi sono intervenuti a confortare le scelte dello scrittore. Innanzitutto, nel caso della Kater i Rades, la richiesta dei familiari delle vittime e dei superstiti di ottenere giustizia è stata l’occasione per una consapevolezza che ha riguardato tanto il nostro Paese quanto l’Albania. Nel 2011 pareva dunque a Leogrande che quello della Kater i Rades fosse «forse l’unico naufragio recentemente accaduto nel Mediterraneo che abbia sedimentato, nel tempo, una comunità di sopravvissuti», i quali oggi vivono in ogni parte del mondo, non solo a Valona, e si riconoscono in quella tragedia. Una comunità, allargata anche ai parenti e conoscenti delle vittime, che prende forma già nei giorni successivi alla tragedia, ricostruiti da Leogrande con estrema attenzione. Nessun ministro italiano, allora, si reca a Brindisi. Il presidente del Consiglio Romano Prodi va a Valona solo il 13 aprile, più di due settimane dopo il naufragio, per promettere il recupero del relitto e ribadire la tesi sostenuta dallo stato maggiore della Marina: la colpa dell’incidente sarebbe da attribuire alla nave albanese, che ha accostato a destra improvvisamente, causando lo scontro con la corvetta della Marina militare italiana, ben più lunga e pesante, impegnata nel pattugliamento di quel tratto di mare. Intanto, nella stessa notte del disastro, l’ONU dà il via alla missione internazionale “Alba”: il contingente italiano avrebbe presidiato l’aeroporto di Tirana e le principali vie di comunicazione del paese.

Berlusconi, all’epoca capo dell’opposizione politica in Italia, arriva invece a Brindisi pochi giorni dopo l’incidente, incontra i sopravvissuti e promette di portarli nella sua villa di Arcore :

 

“Son cose che sono indegne di noi,” dice colui che undici anni dopo, da presidente del Consiglio, avrebbe firmato gli accordi di amicizia italo-libici per il respingimento dei migranti nel Mediterraneo. […] Vorrei che tutti gli italiani avessero avuto l’incontro che adesso ho avuto io con questa gente che perso tre figli, che ha perso la moglie, che sperava di venir qui a trovare un paese libero, democratico in cui poter lavorare, in cui potersi affermare”.[7]

 

Ma i sopravvissuti chiedono giustizia, non elemosina. Il comitato che riunisce i superstiti e i parenti delle vittime della Kater i Rades chiede innanzitutto il recupero della motovedetta e dei corpi. A sette mesi dal naufragio, il relitto viene effettivamente riportato alla luce e tocca le sponde pugliesi. Nella stiva non nasconde pistole, né altre armi o munizioni come qualcuno ha sostenuto, ma corpi di varia grandezza: «decine di corpi imprigionati, ammassati e sbattuti qua e là. Donne e bambini, nient’altro che donne e bambini, abbracciati tra loro. Con le bocche spalancate. Avvolti da una strana panna bianca, untuosa, viscida, gelatinosa. Dall’odore rancido».[8]

Ermal riconosce il cadavere di sua madre e torna a Valona. Lì lo raggiunge lo scrittore, interessato a conoscere da vicino la società albanese, a incontrare i parenti delle vittime del naufragio, a farsi raccontare le loro storie. Altri familiari sono in Italia: è il caso di Hasim, il quale vive a Roma e risponde così a Leogrande che lo intervista:

 

Fermare le navi? Mi chiedi se mio fratello quando è partito sapeva che l’Italia aveva deciso di fermare le navi? No, e che sapevamo noi? Ma tu sai che cos’è una guerra civile? Sai come si vive durante una guerra civile? Non ho mai visto in vita mia una roba del genere. La gente brucia le macchine per strada, durante una guerra civile. È armata, durante una guerra civile. Tu passi e loro ti fermano, e poi ti sparano senza motivo, per due soldi in tasca.[9]

A Valona, il 14 novembre del 1997, si svolgono i funerali delle vittime, a cui partecipano circa cinquantamila persone. Leogrande descrive il mausoleo eretto al centro del cimitero, con le tombe ai due lati (comprese quelle dedicate ai dispersi in mare), e racconta l’odissea di alcuni familiari, come quella di Xhiko Muçaj, il cui figlio, da un certo momento in poi, non figura più negli elenchi ufficiali dei dispersi, come se non fosse mai salito su quella nave. Di fronte alle loro storie, scrive: «Vorrei urlare, solo urlare, urlare contro tutto questo non senso, contro tutti questi rivoli di sofferenza, di vite spezzate, di vite andate a male, di cui in Italia non si sa più niente, o forse non si è mai saputo niente»[10]. Alla vista di quel che resta della Kater i Rades, nulla più che «un catorcio arrugginito» nei pressi del Forte a Mare, davanti al porticciolo turistico di Brindisi, la domanda è: «Quanti minuti impiega un bambino per morire affogato?».[11]

Per Leogrande, quel Venerdì Santo di morte non può che tornare in mente ogni volta in cui si parli e si parlerà di “respingimento di clandestini” in alto mare. «Per questo, – spiega – col tempo quella tragedia non la si è nominata più, fino a dimenticarla. Il paragone avrebbe orientato ogni dibattito politico sul contenimento dei flussi migratori in altro senso. Invece, buttando a mare quella che poteva essere la pietra angolare di ogni discorso, quel dibattito è tornato ogni volta vergine, esattamente allo stesso punto di partenza del 25 marzo 1997, tre giorni prima dello speronamento, quando Dini e il ministro albanese si sono scambiati le loro lettere»[12]. Le lettere a cui si fa riferimento sono quelle scambiate tra il ministro degli Esteri italiano di allora, Lamberto Dini, e il suo omologo albanese Starova, allo scopo di rafforzare la collaborazione tra i due governi e far fronte al crescente «flusso illegale di cittadini albanesi verso altri paesi»[13]. Il governo italiano offriva la propria assistenza per «il contenimento in mare degli espatri clandestini», compreso il fermo in acque internazionali e «il dirottamento in porti albanesi da parte di unità delle Forze navali italiane di naviglio battente bandiera albanese o comunque riconducibile allo Stato albanese»[14]. Di fatto, osserva Leogrande, lo scambio di lettere sanciva una sorta di blocco navale, le cui regole di ingaggio, emanate lo stesso 25 marzo del ’97, prevedevano anche azioni di disturbo e manovre intimidatorie volte a interrompere la navigazione verso le coste italiane (si trattava di operazioni di harassment, termine usato anche in un’altra sfera, quella delle violenze sessuali, per indicare le molestie esplicite).

Per Leogrande nel 2011, ma crediamo valga anche per noi in questo 2018, non molto sembra essere cambiato da quel marzo del 1997. Il mutamento è stato di carattere geografico: alla frontiera orientale (Albania-Salento) si è sostituita quella meridionale (Libia-Lampedusa), ma i termini della questione sono «simili a quelli posti negli anni dell’“emergenza albanese”»[15]: da una parte migliaia di esseri umani che provano a raggiungere le sponde dell’Europa; dall’altra i paesi dell’Unione che vorrebbero respingere i flussi o governarli, mentre proseguono le morti in mare.

Il naufragio della Kater i Rades costituisce, così, un paradigma imprescindibile per tutti i naufragi successivi, non tanto per il numero dei morti quanto perché non si è trattato di un evento naturale, ma di un prodotto delle politiche di respingimento e perché anche semplicemente ipotizzare l’idea di un blocco navale nel Mediterraneo significa correre il rischio di una strage. Ciononostante, già nel 2011 secondo Leogrande, il dibattito politico pareva impermeabile al ricordo del naufragio del Venerdì Santo. Ancora oggi, ogni volta che aumenta la pressione alle frontiere, l’espressione “blocco navale” torna sulla bocca di politici e commentatori, proprio come avveniva nell’anno in cui è stato pubblicato il reportage narrativo di Leogrande.[16]

Il naufragio della Kater i Rades è una pietra di paragone per tutti i naufragi successivi anche per un’altra ragione, che in parte abbiamo già accennato: perché è stato possibile raccontarlo, ricostruire le storie di chi è partito ed era a bordo della nave, di chi aveva salutato la motovedetta in partenza sul molo di Valona e di chi la attendeva all’arrivo in Italia. È merito anche dei superstiti, osserva il narratore: a differenza di quanto accade di solito, essi non hanno preferito dimenticare o chiudersi nel silenzio. «La richiesta di recupero del relitto, e poi quella dei risarcimenti, ha sedimentato una comunità di superstiti e famigliari»[17] che il 28 marzo di ogni anno si reca al molo di Valona a gettare fiori in mare. Alla memoria dell’evento hanno poi contribuito le testimonianze rese al processo, nonostante questo non abbia accertato, secondo l’autore, una parte delle responsabilità, in particolare quelle della politica e degli alti comandi militari. In ogni caso, raccontare la vicenda del naufragio significa provare a «rompere la cappa di assuefazione che avvolge tutte le morti in mare»[18]. Il ricordo non può prescindere da parole pronunciate sia in italiano che in albanese, dal racconto dei superstiti e degli anziani genitori delle vittime, dei figli e dei nipoti. Non basta che il relitto della Kater sia oggi divenuto un monumento, esposto presso il porto di Brindisi: «i monumenti […] rimangono sepolcri imbiancati, contenitori vuoti, se non vengono irrorati di storie e di ricordi, di rabbia e di redenzione».[19]

Ancora un’altra ragione ci suggerisce di rileggere il testo di Leogrande per coglierne attentamente la lezione. Secondo l’autore, gestire diversamente quei mesi del ‘97, con l’arrivo di poche migliaia di persone sul suolo italiano, soprattutto «senza farsi ricattare dalla questione sicurezza-immigrazione», avrebbe evitato la tragedia. Invece l’Italia non seppe gestire l’emergenza dei boat-people durante la guerra civile albanese e mise la propria Marina militare in una condizione molto difficile, stretta da un lato da accordi politici che tradivano una scarsa conoscenza delle reali dinamiche del mare (mentre oggi è la Guarda Costiera a mostrare imbarazzo)[20] e dall’altro da un clima politico surriscaldato. Uno dei grandi pregi del racconto di Leogrande è proprio la restituzione di quel clima politico, le cui parole d’ordine ricorrono ancora oggi nel dibattito pubblico, ma in modo più approssimativo e penoso:

 

Il 25 marzo 1997, tre giorni prima del naufragio, i vertici della Lega emettono un comunicato: «Il Governo provvisorio della Padania, esaminata la grave situazione di tensione e preoccupazione che si è venuta a creare in Padania, a causa delle irresponsabili decisioni del Governo di Roma sull’introduzione di migliaia di albanesi, di cui molti evasi dalle carceri di Tirana, ha decretato la costituzione dell’Associazione di protezione civile Ronde Padane con il compito di operare attivamente sul territorio della Padania per la prevenzione e per la difesa dei diritti dei cittadini minacciati nella loro incolumità, nel loro patrimonio, nella loro identità». Pochi giorni prima, Umberto Bossi ha gridato da un palco che è necessario istituire una Guardia nazionale composta da uomini armati di mitra. Si inizia così a parlare di ronde. Roberto Maroni, che è stato ministro dell’Interno, e che lo sarà ancora dal 2008, si affretta ad affermare che quello delle ronde è un movimento spontaneo. Non può essere arrestato. Deve essere solo riconosciuto. Fermare il volere del popolo è roba da leggi speciali.[21]

 

Si ricorda, poi, l’intervista rilasciata al “Corriere della sera” da Irene Pivetti, fino a pochi mesi prima Presidente della Camera, che sosteneva «che per fermare l’invasione sarebbe stato necessario “ributtare a mare” tutti profughi albanesi», mentre la campagna elettorale per le amministrative, in quel periodo, vedeva al centro dell’agenda proprio la linea della fermezza e le misure antialbanesi.[22] Per non parlare dell’«uso di donne e bambini come scudi umani» sulle navi e sui barconi degli albanesi: un’espressione che nei venti anni successivi sarebbe stata usata per provare a giustificare qualunque tipo di violenza nei confronti di civili inermi. Così, anche nella ricostruzione di un clima politico, del suo lessico, del linguaggio che lo sostanzia, Alessandro Leogrande ci aiuta a comprendere meglio l’eterno presente in cui viviamo fin dal 28 marzo del 1997.

 

 

 

 

[1] A. Leogrande, Il naufragio. Morte nel Mediterraneo, Milano, Feltrinelli, 2011, p. 115.

[2] Ivi, p. 53.

[3] Ivi, pp. 106-107.

[4] Già il processo di primo grado, apertosi a Brindisi nel maggio del 1999, ha avuto soltanto due imputati: il comandante della nave militare italiana e il timoniere della Kater i Rades; mentre quello di secondo grado, apertosi nel 2010, ha stabilito che il comandante italiano non avesse posto in essere le manovre di harassment che la sentenza di primo grado gli addebitava, eppure le responsabilità di parte italiana non sono state azzerate e la tesi della presunta “manovra suicida” del timoniere albanese è stata ancora respinta. Dopo la pubblicazione de Il naufragio, è giunta nel 2014 la sentenza della Cassazione. Cfr. http://www.brindisireport.it/cronaca/strage-del-venerdi-santo-i-due-comandanti-condannati-anche-in-cassazione.html.

[5] A. Leogrande, Il naufragio cit., p. 170.

[6] Ivi, p. 180.

[7] Ivi, p. 61.

[8] Ivi, p. 118.

[9] Ivi, p. 132.

[10] Ivi, pp. 190-191.

[11] Ivi, p. 38.

[12] Ivi, p. 35.

[13] Ivi, p. 20.

[14] Ibidem.

[15] Ivi, p. 200.

[16] Cfr. A. Leogrande, Il naufragio cit., p. 204.

[17] A. Leogrande, Il naufragio cit., p. 206.

[18] Ivi, p. 207.

[19] Ivi, p. 211.

[20] https://www.avvenire.it/attualita/pagine/pettorino-prestare-aiuto-a-chiunque-rischi-di-perdere-la-vita-in-mare

[21] A. Leogrande, Il naufragio cit., p. 88.

[22] Ivi, pp. 19-20.

Ci sono bestie al confine (parte II)

0

di Benny Nonasky

Arrivammo al bosco e la luna di formaggio era ancora alta in cielo. Il bosco era un completo di ombre e scricchiolio di neve e giunture. Non sapevamo quanto tempo ci avremmo messo a raggiungere il fiumiciattolo e il muro divisorio. La guida non aveva specificato nulla, tranne dirci che non ci fossero pericoli al suo interno. <<Ci ha lasciati così, senza dire nulla. Che Dio perdoni la sua cattiveria>>, disse l’uomo anziano che tenevamo in mezzo per evitare che lo perdessimo o che si facesse male cadendo. <<È stato un figlio di puttana! Se fossimo ancora a casa, a un tizio del genere gli avrebbero spaccato la testa. Codardo. Vengono qui e si montano la testa! E la fratellanza? E Dio? E la misericordia? Figlio di una cagna.>>, disse innervosito il ragazzino dietro al vecchio. <<Basta, con queste parole. Sprechi solo fiato. E poi, quant’anni hai? Dieci? Undici? Dove le hai prese quelle parole? Ti senti meglio di lui a pronunciarle? Tieni il vecchio che sta per cadere! Quel tizio avrà quello che si merita. Dio è testimone e giudice. Che sia benedetto.>>. Dissi questo con stizza e paternalismo. Non che io fossi credente o altro, ma era l’unico modo per calmare quelle anime infreddolite, stanche e nervose. In fin dei conti, era l’unica cosa che non fuggiva dalle nostre menti indolenzite. Era sempre lì quando lo si cercava. O no? Quel Dio era l’unica soddisfazione che gli era stata permessa. Grazie a lui potevano parlare, avere un lavoro, delle medicine quando stavano male, dei sogni da raccontare. Era il biglietto da visita e l’identità. Altro non era consentito. Non più. Altro era morte. Per questo dovevo rassicurarli con Dio e la sua grandezza. Ma poi, quale grandezza? Eccoci qui, esiliati e derisi e offesi. Quale Dio vuole per la sua gente tale martirio e silenzio? Quale Dio mette nelle mani degl’uomini odio e rancore? Quale Dio desidera la morte del bambino, il divieto del bacio in pubblico, l’oscurità dei volti di una donna, costringendoci ad accompagnarle in giro anche quando non si ha voglia, a produrre armi e bombe, a difenderci dalle zanzare e i reumatismi? Con quale Dio hanno bombardato la mia casa, ucciso mio padre e il futuro di un intero popolo? Pensavo e mi domandavo le solite cose. Da quando ero partito, ero ossessionato dall’incomprensione generale e dall’esser giudicato per la mia religione e non per il mio stato di uomo in pericolo, costretto a fuggire per la violenza subìta. Ho visto bambini e donne e uomini annegare, venir picchiati e uccisi nelle carceri e nelle strade. Ho visto le macerie e la fine di una generazione. Siamo nulla. Non ho altri pensieri. Anche in quel momento e mi ritrovai solo. Me lo meritavo. I miei compagni di viaggio erano scomparsi. Solo io e il bosco. Avrei voluto gridare i loro nomi, ma i miei compagni non esistevano e correvo il rischio futile di esser udito anche dalle guardie di frontiera. Comincia a sentirmi soffocare. Tornai indietro. Scavai la neve che mi circondava le ginocchia. Perché tutto ciò? Per quello che ho detto al ragazzino? Per quello che ho pensato? Non sapevo più dove mi trovassi. Girovagavo a zig zag tra gli alberi. Sudavo e continuavo ad aver freddo. Inciampavo, cadevo e mi rialzato. Fino a quando non vidi un uomo venire correndo verso di me. Mi fermai. Si fermò. Annaspava. Come me stava sicuramente cercando una via di fuga da quel labirinto. Decisi di andargli incontro e così fece pure lui. A pochi metri di distanza mi fermai. Per quanto il tempo ne avesse rovinato l’aspetto: quell’uomo ero io. Lo guardai. Lui fece un ghigno. Scattammo insieme. Lo presi per il collo. Lui rideva e non faceva resistenza. Capì subito che era inutile: qualsiasi cosa fosse era già morta. Lo lasciai andare e mi allontanai deluso e sfinito. <<Dove vai, stupido? Non hai capito che è puro fallimento? Stai andando contro un finale già scritto e maturato da millenni di storia. Nessuno ti vuole. Nessuno ci vuole. Non ti bastano le migliaia di vittime? Non ti bastano i muri e le guardie che chiedono i documenti e scelgono per te? Hanno scelto sempre per noi. E tu hai tradito la tua terra andandotene, dimenticandoti di tutti. Ti ricordi la via dove correvi per arrivare prima al venditore ambulante di pistacchi? Non esiste più. Anche quell’uomo, sgozzato come esempio, perché era solo un esempio, non un uomo timorato di Dio, ma un esempio tra gli esempi per apprendere il compito e la punizione. Te lo ricordi? Riuscirai a raccontare in giro i tuoi ricordi, la bellezza del luogo, la tua felice adolescenza? Pensi che questo ti farà avere un posto a tavola dopo il confine? Pensi che loro da te vogliano la felicità, il ricordo, la meraviglia dei minareti? Stupido, loro vogliono vederti piangere, soffrire per riempire il loro vuoto umano, politico, giornalistico. Loro hanno una carta sanitaria, noi siamo solo stranieri venuti da un mondo lontano, incomprensibile. Esattamente quel mondo che loro hanno plasmato e distrutto. Mi dispiace, amico, ma stai andando dalla parte sbagliata: la tua storia è dalla parte del male. Ti è andata così.>> Mi voltai lentamente. Non avevo afferrato tutto quello che aveva detto, mi interessava ben poco. Sapevo che era la parte riluttante di me. Io dovevo andare avanti. Diventare l’esempio buono perché c’era un uomo buono che lo stava aspettando, ovunque andasse. <<Ascolta, io sono quasi arrivato alla mia meta, che sia libertà o prigione ben poco mi preoccupa: ho visto la fine e non mi resta che portarla sulle spalle e nel cuore. Altro non mi duole. Io passerò quella fottuta barriera e ricomincerò. E se per caso mi bloccassero o mi pestassero o mi gridassero contro qualsiasi merda esistente: nulla, nient’altro sarebbe utile a sconfiggere la mia voglia di rinascita, vita e speranza. Il dolore che porto in me non ha cura, ma solo la voglia sfrenata di ricominciare e con quel dolore ricostruire la mia vita e quella della mia terra. Pensi che me ne sia dimenticato? Pensi davvero che io abbia perso l’amore verso di essa? Io voglio esser di nuovo bambino e correre allegro tra la gonna di mia madre e il bastone del nonno. Io voglio ancora le carezze di mio padre e le sue letture poetiche prima di andare a dormire. Sono cose che non potrò più avere, ma che posso dare. Il mio dolore è il mio biglietto da visita. Ma io sono un altro uomo, che posso ancora dare e riemergere.>> L’altro me mi guardò beffeggiante e disse secco: <<Non qui.>> Poi fece il solito ghigno e proseguì: <<Imparerai la lezione. Sei solo un numero, un ennesimo numero da catalogare, gestire e ricollocare. La tua fiducia mi fa venire il voltastomaco. Dovresti solo pregare di non finire in ospedale dopo aver incontrato le armi della polizia al confine. Lo farò io per te. Ti aspetto al ritorno. Ben arrivato.>> <<Eccolo lì il muro! Quel bastardo della guida aveva ragione, è pieno di cani e agenti armati. Ora come la mettiamo?>>, il ragazzino sputò a terra e si strinse le braccia al petto per il freddo. Sì, eravamo arrivati. Effettivamente era pieno di guardie, anche se non sembravano controllare tutto il reticolato. Spostandoci verso destra avremmo avuto un ampio spazio libero. Il problema erano i cani e il loro naso. Puzzavamo. Puzzavamo di miseria e paura. Mi voltai e mi vidi guardarmi, sorridere, alzare le mani al cielo e urlare. Fu così che arrivarono i draghi.

Tu devi sperimentare il dramma per conoscerlo e prevenirlo. La pelle altrui ti fa schifo, non la sopporti, inquina l’ambiente abituale. Devi generalizzare per decifrare un malessere soggettivo. Perché tu vuoi partecipare, e per farlo devi condividere il pensiero della massa deforme. Tu sei convinto di non poter vivere altrimenti. Ti hanno insegnato che la diversità genera ribellioni e solitudini. Hai appreso la lezione e ora giustifichi la tua aridità col principio che le acque sono morte e gli algoritmi utili alla socialità. Tu abbrevi il raggio della speranza nell’immobilità dei divani. Sei un pollice su di un pulsante in procinto d’un’infiammazione perenne. Click. Da dietro cime abissali s’alza un demoniaco urlo che sconvolge la piattezza dei giorni a venire. Gli alberi s’inchinano al suo disperato lamento. C’è una lunga processione d’animali che cerca un paesaggio utile alla salvaguardia della specie. Tu stai pronto col mirino puntato. Conterai fino a dieci e poi: no, non lo farai: sei un qua qua qualsiasi. Non mi stupisce questa tua ritrosia. La guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza. La menzogna è realtà e diviene presente e passato. L’estremismo abbraccia le tue esperienze sterili. È quotidianità. Tu vivi nel dilemma identificativo, non sai da che parte stare. Nel frattempo cadono come alberi secchi sul suolo e il loro corpo genera una ferita inestinguibile perché la terra ha solo memoria del sangue che s’accumula, si dilata, che attende il giorno del verdetto e della condanna. La terra è realtà ed è presente, passato e futuro. Tu apprendi questa lezione dai telegiornali e dai titoli accattivanti condivisi dagl’amici. Tu perdi il tuo tempo a discapito del tuo corpo e della sanità pubblica. Tu dai troppo lavoro ai becchini. E i cimiteri esplodono di gioia.

I draghi ruotavano sulla nostra testa; facevano un chiasso assurdo coi loro rauchi versi e lo sbatter d’ali lento e meccanico. Il fuoco delle fauci era un faro che circoscriveva la zona protetta. Il vento improvviso ci costrinse a chiudere gli occhi e a coprirci i volti sudati dal freddo intenso dell’ansia e della fame e del ghiaccio che marmorizzava gli alberi e rendeva difficile la salita fino al muro. I soldati non davano peso a quel assordante suono e alle folate improvvise. I soldati, essendo pezzi di ferro e circuiti, non avevano i problemi di una casa esplosa e il cuore ferito dalla morte dietro ogni sguardo. Stavano fermi, sicuramente ci aspettavano, il tradimento fa parte della condizione umana per la sopravvivenza del più forte. <<Non so bene come fare, la signora va caricata sulle spalle. Tu pensi di farcela? Io starò davanti, ho le cesoie nella borsa. Inoltre, se per caso mi beccano, vi coprirò: correrò verso di loro mentre voi tornate indietro di corsa. Ci siamo capiti?>>, dissi strofinandomi gli occhi indolenziti. <<Non penso sia una buona tattica. Lo dico per te: se gli corri incontro, ti farai uccidere. Tu non conosci la loro lingua né loro la tua. Ti prenderanno per un pazzo suicida. I saggi ormai sono morti con la prima alba del mondo.>>, disse il vecchio rivolgendo lo sguardo alla notte. <<Non importa. Sono già morti tutti e io avrei poco da guadagnare dopo quel muro. Ho sofferto e continuerò a soffrire. Non sono né giovane né anziano. In poche parole: non servo a nulla.>> Non ci furono altre osservazioni, perché l’attenzione venne catturata da una situazione orribile che si stava andando a creare: da una delle torrette sbucò uno di quegl’esseri marci e zoppicanti incontrati tra i fabbricati. Cominciò a confabulare con uno dei soldati e, d’un tratto, indicò noi, il bosco, la catastrofe della nostra storia. Il soldato che discuteva con quell’abominio urlò qualcosa ai suoi colleghi. Questi si voltarono e puntarono i fucili verso il nostro nascondiglio. Nel frattempo i draghi presero a puntare il loro fuoco verso di noi. <<Siamo nella merda>>, disse il ragazzo. Arrivarono altri soldati e altri esseri deformati armati. <<Ma a cosa servono tutti quei mostri e quelle armi, siamo solo dei dispersi e dei disperati! Che Dio ci aiuti.>>, disse la signora con le lacrime agl’occhi e le mani giunte a preghiera rivolte al cielo. <<Mi prenda con lei, capitano. Non posso accettare questo dolore e quest’infamia verso l’uomo. Ho bisogno di combattere per dare un senso al mio posto sulla terra, per ricordare i nome di tutti i defunti. Mi dia una spada e uno scudo: che le mie ferite siano il sangue dei martiri e della possibilità!>>, dissi guardando il cavaliere che fissava i soldati pronti all’attacco. Disse: <<Voi siete il presente, noi il passato e loro tentano di conquistare il futuro. Voi capitate in mezzo, sarà sempre così per il presente. Siete un passaggio, un errore di calcolo; nessuno vi considera nel momento in cui voi esistete. A loro non interessa cosa vi accadrà oggi né cosa vi sia successo ieri. A loro interessa che domani non sia come oggi, che l’ordine venga rispettato e che le paure siano sempre condivise e rese inquietanti. Loro hanno capito che se si vuole un domani, bisogna cancellare ciò che è avvenuto in passato così da renderlo possibile, non colpevole, non compreso, riutilizzabile e giustificato dalle masse. Tu devi salvare il tuo corpo e il tuo spirito e quello dei tuoi compagni. Non siamo mai soli. Tu sei degno di questa terra. E ogni morte è un’offesa inscritta nel tempo e, cosa che loro non vogliono comprendere, nel futuro. Quel futuro d’odio e repressione che stanno creando.>> Non ci furono altre parole tra noi due. Iniziò la battaglia. Un’altra guerra dove crollarono case, le ossa e vennero psicologi per sostenere gl’incubi dei bambini. Noi ci trovammo immersi in altri rimpianti e colpi di mortaio. La descrizione della guerra si risolve in polvere, fiammate urla e crateri inestinguibili. Tagliai la rete di filo spinato, feci passare i miei compagni e dinnanzi a noi si parò il vuoto. Un grande abisso ci assorbì nel suo insieme confusionario e immobile. La nostra identità non ha certificato di nascita. Tutta la nostra esistenza si è ridotta a una ricerca forsennata della casa dei nostri sogni: quella che abbiamo lasciato, quella che siamo costretti a ricevere. Mi voltai indietro ad osservare la fine di un conflitto che non conosce misericordia. Non c’era più nessun combattimento. Solo soldati che ci prendevano a calci mentre tentavamo la fuga verso l’ennesima, provvisoria salvezza. Ci furono degli spari. I cani ringhiavano sotto la luna di formaggio. Qualcuno gridò ad un Dio che nel silenzio dei secoli ha sconfitto l’idiozia e la banalità del figlio ribelle, lasciandolo al suo inferno, al suo destino programmato. Mi girai verso i miei compagni, erano stanchi ma confortati. Loro non hanno visto nulla dietro ai loro passi. Loro vivono nella speranza di una casa e nell’amore democratico di una madre carica di cicatrici e disprezzo. <<Andiamo.>>, dissi. E c’incamminammo mentre la notte sbiadiva e un’altra notte riluceva nei brividi infiniti di una prigione o di un cespuglio umido e selvaggio.

2.

Europa era una ragazza dotata di una bellezza singolare. Quando Zeus la vide ne fu talmente eccitato da portarla sull’isola di Creta per violentarla. Ciò avvenne dentro un boschetto di salici. Così nacque la prima piaga. Da qui parte e si conclude la nostra storia, carica d’amore e aggressività. Incipit della creazione. Andando tutti per lo stesso mare. Andando tutti per la stessa strada. La nostra storia.

Io: Ho un cuore in un letto d’ospedale innamorato del letto d’ospedale.
Lei: Mi hai tradito ancora.
Io: Mi sono allontanato da ogni cosa.
Lei: Cosa ti spinge verso l’estremo?
Io: Le mie ali scorticate.
Lei: Così cadrai dentro le tenebre del ricordo.
Io: C’è già un cadavere dentro di me.
Lei: Posso vederlo?
Io: Guardami.
Lei: Posso toccarlo?
Io: Toccami.
Lei: Non mi ami più.
Io: Ho amato così tanto da indurre al suicidio il mio corpo.
Lei: La tua metamorfosi è stata solamente un cicatrice nell’anima.
Io: Le mie ossa tremano. Nasce in me un senso di pericolo incontrollabile.
Lei: Hanno offeso la tua vita.
Io: Hanno distrutto le mie origini.
Lei: Ora aspettami dove mai più c’incontreremo.
Io: Ti aspetto da un tempo non descrivibile.
Lei: Sono sempre stata lì. E ti ho osservato.
Io: Ti ho sempre vista lì, ma non ricordavo il tuo nome. Per raggiungerti.
Lei: Bastava un tuo sguardo e sarei diventata il tuo viaggio di speranza.
Io: Io ho conosciuto la tua ospitalità in divieti e bastoni.
Lei: Questa è la malattia che mi ha colto.
Io: Non so se ci sarà mai un citofono col mio cognome a casa tua.
Lei: La tua terra ti chiama.
Io: La mia terra non mi offrirà più il sole del mare. La mia terra è silenzio.
Lei: Fin quando non tornerai, resterai uno straniero. L’accento del luogo ti rende parte del suo passato.
Io: Il mio passato è stato distrutto e non trovo nessun ricordo tra le cose che lo rappresentano.
Lei: Sei destinato all’assenza.
Io: La mia terra è assenza. E io sono la mia terra.
Lei: Non c’incontreremo mai. Lo ricorderai il mio nome?
Io: Il tuo nome è una cicatrice inferta. Tu ricorderai il mio?
Lei: Il tuo nome è inciso sulle mie labbra e le mie labbra conoscono unicamente la tua carne.
Io: Conosco i brividi dei tuoi morsi e dei tuo baci agognati.
Lei: C’incontreremo.
Io: Non c’incontreremo mai. Sono qui e non mi vedi. Sono qui e sono in prigione. Chi sono per te?
Lei: Sei la lesione sulla mia pelle divisa e mai contenta. Ricorre in me l’odio e la deportazione.
Io: Non voglio far parte di te. Cullami e basta.
Lei: C’è un lato di me che lo farà.
Io: Non mi considerare un numero nelle tue tabelle. Non cerco la sopravvivenza.
Lei: Io sono solo il tramite. Ora, ti prego, amami per quella che sono.
Io: Ti amo per quella che sei. Sono qui per te.
Lei: E non hai paura della mia follia politica e razzista?
Io: Ho solo paura delle tenebre del ricordo.
Lei: C’è già un cadavere dentro di te.
Io: È la mia terra e la mia famiglia. Il mare che non rilascia perdono.
Lei: Sei destinato all’assenza.
Io: Non senza di te.
Lei: Io sono già assente. Al primo sbarco, al primo centro d’identificazione.
Io: Mi abbandonerò alle cose che accadono e cercherò la mia terra.
Lei: La tua terra ti chiama?
Io: La mia terra è silenzio. E io invece urlo. E anche tu servi silenzio.
Lei: Siamo fatti della medesima costituzione. Scompariamo, divorati da una malattia indicibile.
Io: Allora, ora, ti prego, amami per quello che sono.
Lei: Sarà fatto: ce ne andremo insieme e torneremo a casa, la casa del vuoto e delle macerie.
Io: C’incontreremo lì.

(Ed il pubblico esorta ed applaude)

Qui la prima parte del racconto

Bagatelle su una sciarada in divenire

0

di Andrea Piccinelli

 

Ciò che assurge a nozione comune
come interazione di interferenze
divergenti, scoordinate nel tempo
e nello spazio. I modelli validi
perché pensati, elaborati,
confrontati, sussunti,
veicolati, introiettati. Fino a
divenire (moriture, ineffabili)
idee prevalenti.

 

 

 

Gli esiti collettivi irrazionali
determinati da moventi
individuali razionali
conformati a pretesto
per ridurre l’impronta dello Stato.

 

 

 

Se le mire egemoniche degli uni
collidono con le aspirazioni altrui
le garanzie da conseguire e
i propositi di cooperazione
saranno ineluttabilmente vani.

 

 

 

Sul delegare a uffici indipendenti
il progetto velleitario e
le risoluzioni da attuare
per solcare il giusto sentiero
sotto l’egida dell’Urgenza.

 

 

 

Chi avalla logiche moralistiche
applicate ai casi più disparati
fomentando i prodromi
di un risentimento diffuso.

 

 

 

Non pare peregrino
notare l’approccio monetarista
e la mutria dei nostrani burgravi
estensori della congiura
che additò lo zimbello
per forviare l’indignazione.

 

 

 

In ossequio a un paradigma di breve
respiro, si persevera nell’estenuare
i passivi privati con
l’inesorabile profluvio
di capitali da allocare
in operazioni profittevoli
(scevre da rischi per i creditori)
in virtù del sistema valutario
artatamente anchilosato.

 

 

 

Le aspre ricette austriache
dei novelli tribuni della gente
atte a frenare gli schiamazzi
e custodire l’ordine sociale.

 

 

 

Come preconizzato
da eoni di riscontri empirici
la tara è il parossismo
del lato dell’offerta
che, in assenza di acquirenti,
produce scorte per i magazzini.
Ne consegue la riduzione
del denominatore
con l’ovvio detrimento
del rapporto tra i termini.

 

 

 

Il paradosso singolare
dei depositari di ampie visioni
che, con subdola sicumera,
invocano l’intervento espansivo
del banchiere centrale
per dar linfa all’apparato tarlato
imputando all’egoismo
dei congiunti iperborei
le storture di un meccanismo
ideato per non funzionare.

 

 

 

Dunque, potrebbe radicarsi
la coazione alla continenza,
la polvere negli occhi torvi,
l’inciampo (rimugina), l’emergenza,
l’omodossia dell’austerità espansiva,
il paradigma familiare
del risparmioaccumulospesa
per remunerare gli ottimati
e fare i necessari passi avanti
verso una piacevole asfissia.

 

 

*

 

 

da Andrea Piccinelli, Degenza autoptica, Sigismundus, 2017.

Il leone mise il suo burnus ad asciugare nel fiume

1

di Armand Robin

Il sorprendente insieme di parole: «Il leone mise il suo burnus ad asciugare nel fiume», incontrato in una raccolta di traduzioni quando studiavo l’arabo letterario, all’inizio mi stupì, ma mi sembrò ragionevole dopo aver visto che lo scopo prefissato era soltanto di far applicare su un piccolo numero di precise parole alcune formule di quell’algebra che è la lingua araba. (E poi, mi dicevo, perché i leoni non dovrebbero fare quello che vogliono, e che a noi sembra assurdo?)
Analogamente, ora che mi è venuta fame di studiare una nuova lingua con l’intento di riuscire a leggere nel testo originale i poemi epici antropofagi, mi è sembrato eccellente che il pastore Vernier, autore di una grammatica tahitiana di cinquantasette pagine, mi proponga fin dall’inizio degli esempi come questo: «Mi piacciono le cozze, ma non la balbuzie». Così sono certo che il mio uomo è serio: pensa unicamente alla grammatica.
Del tutto diverso, da quello che riesco a capire, è il linguaggio stupefacente che i politici parlano con tanta naturalezza. David Rousset normalmente viene criticato proprio perché scrive frasi tipo «Il leone mise il suo burnus ad asciugare nel fiume». Bah! Non si merita un biasimo tanto encomiastico. Riconosco una certa finezza nell’«arrivismo del cattivo stile» di cui i politici si servono con incontestabile maestria; ma se dovessi biasimare David Rousset di qualcosa, di certo non sarebbe per il leone, il burnus, o per il fiume, ma per il fatto che per tutto il periodo dell’occupazione tedesca, durante il quale ho voluto considerarlo come uno onesto, mi abbia sempre dato del tu, e che di colpo, non appena si è sentito sicuro di aver conquistato saldamente quel fantasma tra i fantasmi che in gergo chiamano «successo», mi dia del lei. Preoccupato di tenermi fuori dal suo «tu», e dando un grave significato non grammaticale a un tradimento grammaticale, improvvisamente si è ritrovato ben al di sotto del probo pastore Venier, che una simile infamia la commise soltanto allo scopo di fornire un’occasione per far capire bene come in polinesiano sia di una certa importanza distinguere la «û» dalla «U». Da David Rousset non ci possiamo aspettare che scriva secondo verità: «Il leone mise il suo burnus ad asciugare nel fiume».
Dal canto suo, dovendoci dire che il cielo gli è parso particolarmente azzurro, Éluard scrive: «Il cielo è azzurro come un’arancia». Esiste qualcosa di più naturale, di più chiaro? Di fatto, «il cielo è azzurro come un’arancia (è arancio)». È triste che un tale poeta, geniale nell’ellissi, perda qualsiasi senso della grammatica non appena si fa prendere dal linguaggio ellittico della politica; per esempio non esiterebbe un secondo a ripetere: «Tito è un agente del Vaticano». Mi fa pensare a Picasso, che con un unico tratto disegna i contorni di un corpo di donna senza tracciare le forme di una gamba, e questa, assente, è non solo visibile ma persino evidente: vediamo ciò che materialmente non ci ha dato modo di vedere; eppure è lo stesso uomo che preso da un lavoro difficilmente qualificabile (perché politico), fa tappezzare i muri del mondo intero con le sue colombe firmate, e nessuno le vede. In queste colombe più nessuna ellissi; eppure non mancano le piume, a mancare è l’anima di Picasso, la quale, nata da lui, infinitamente reale, non ha bisogno di disegnare una colomba per essere vista.
Éluard e Picasso sanno scrivere e dipingere «leone, burnus e fiume» finché restano indenni dalla propaganda. Ma non appena questa malattia mentale li prende, pur conservando in apparenza la composizione dei medesimi insiemi di parole o di forme, eccoli rivestiti da un corpo estraneo che tramite le loro mani maneggia l’istupidito pennello o la stilografica. Come mai il poeta o il grammatico sono nel vero quando propongono degli insiemi di strane parole, mentre il politico, facendo lo stesso con il linguaggio, si ritrova quasi automaticamente in errore? È un mistero che vale la pena di spiegare.

Quando la radio di Mosca, nel servizio in lingua ceca del settembre 1951, trasmette che Tito «è un agente del Vaticano, un brigante assoldato dal Papa», etc, etc, inizialmente si potrebbe essere tentati di ammirare, o meglio di gridare all’involontario talento poetico. D’altronde, grammaticalmente parlando, è evidente che in simili ingiurie le ellissi sono ovunque: restituito alla sua interezza, il ragionamento potrebbe svolgersi come segue:
Tutto ciò che è «americano», ovvero tutto quello che non sta dalla nostra parte, è portatore di ogni vizio e di ogni crimine; ora, Tito da un lato, e il Papa dall’altro, considerato che non sono conformi ai nostri sogni, sono al servizio degli americani; dunque, Tito è una spia al soldo del Papa e il Papa una spia al soldo di Tito.
Schema degno di nota, manca solo il buon senso! Allo stesso modo, grazie a una famosa deviazione della virtù retorica, nel 1946 gli staliniani accusavano gli avversari trotskisti di essere agenti della Gestapo: «Non siete forse stati deportati e puniti dalla Gestapo? Di conseguenza avete avuto qualcosa in comune con la Gestapo!» Ridotti all’unico argomento possibile contro l’evidenza, ecco cosa sono arrivati a dire. Nel caso dello spirito totalitario, ovvero (detto semplicemente) nel caso della follia, il contrario assorbe il suo contrario, così che il principio di identità è metafisicamente pervertito; il segno di diversità più evidente viene trasformato nel suo contrario. Logico: qualsiasi atto di guerra contro le facoltà dello spirito termina con una violazione del sillogismo.
Abbiamo parlato di ellissi grammaticali. Nell’esempio dato sono effettivamente numerose e di grande insolenza. Ma bisogna andare più in là: in realtà non si è trattato affatto di ellissi di qualità grammaticale; per essere anche più precisi, le ellissi grammaticali, relativamente facili da rilevare, sono soltanto l’ombra portata su frasi e parole da un’ellissi gigante che invece non ha nulla di grammaticale ed è pertanto, intrinsecamente, una mistificazione. Quello che non viene mai espresso in queste propagande, nemmeno nella sua forma più nascosta, è la petizione di principio, di carattere metafisico, secondo la quale l’avversario è ontologicamente il male, e che per questo non ha diritto di esistere, e ancora meno ha diritto a parole corrette. In attesa di essere annientato fisicamente, l’avversario deve essere verbalmente annichilito, in qualunque maniera: in breve, nel suo caso, il limite dell’assurdo deve venire costantemente infranto, e l’assurdo reso perfetto, in modo da scoraggiare lo Spirito e lo strumento dello Spirito: il Verbo. Niente deve niente significare. Una trappola che non ha nulla a che vedere con le legittime astuzie dello stile sta surrettiziamente posata sopra ogni parola.
La prima settimana del mese di giugno del 1951, la radio di Bucarest (descrivendo la Francia) trasmette:
«La Francia di oggi ha il volto pallido e avvizzito, ha gli occhi lucidi, l’angolo della bocca è orribilmente scosso da un ghigno impotente e bloccato e la fronte è devastata dal presentimento del castigo incombente. La scuola del crimine funziona a pieno regime, soprattutto nelle chiese, e con ogni mezzo».
Fin qui, nulla da criticare allo stile; il testo non manca di una certa energia; l’autore, marxista, deve aver letto soprattutto la Bibbia, a meno che non abbia letto niente al di fuori di quel nulla che corrisponde agli ordini di dire qualcosa di ben determinato. La qualità del testo sul piano dell’irreale è innegabile. Per quale ragione, malgrado tutto, è un cattivo testo? Per quale ragione apprezziamo «Il leone mise il suo burnus ad asciugare nel fiume», e qui, invece, nonostante l’innegabile buona volontà, ci è impossibile anche la più blanda approvazione?
Il fatto è che il grammatico arabo propone un’assurdità apparente, che tale non è: perfettamente adeguata al suo oggetto essa smette di essere assurda. Lo stilista di Bucarest invece ci inganna o è ingannato, o meglio (in rapporto a una verità certa) ci inganna ed è ingannato al contempo, poiché in fondo quelle parole lanciate come un anatema non possono esistere realmente, e accedono all’essere solamente se il loro divulgatore – o il loro attore o il loro autore – sa di essere posseduto da un’entità di propaganda, sa diessere agito da delle potenze metafisiche che premono su di lui dall’esterno e se ne servono come di uno strumento di vaniloquio, utilizzando il suo linguaggio come un sotto-linguaggio. Ma anche se lo sapesse, avendo percepito il proprio annullamento, diventerebbe immediatamente incapace di sfuggire al nulla. In un modo o nell’altro, il suo testo in verità è inesistente, di un’inesistenza potente, se così si può dire. E poi come concepire un «ghigno bloccato» che «scuote l’angolo di una bocca»! Il mio grammatico arabo in confronto ha del talento. Siamo tristemente costretti a concludere che non soltanto questa gente non ha niente da dire, ma che in più non sa come dirlo.
Una mente fragile di ordine molto inferiore (l’uomo era anche più basso!), apprezzatissima dalla borghesia – si faceva chiamare Stalin – ha licenziato uno scritto penoso sulle questioni grammaticali. Ne ho sentito parlare per settimane, mesi, anni, secondo tutte le ricette della propaganda ossessiva. Di solito mi si accusa di essere troppo indulgente nei confronti di quell’ingenuo! Lo so che le sue considerazioni sulla grammatica sono davvero noiose e che di certo non avrebbero la stima dell’onesto pastore Vernier, ma sono pronto ad ammettere che nelle circostanze che seguono fui preso dalla tentazione di apprezzare il grammatico Stalin:
Tra i notiziari informativi della radio interna russa, ce n’è uno che per almeno tre anni, dalle 6,45 alle 7 del mattino, fu di natura talmente fantasmagorica da poter essere preso sul serio da coloro che si interessano di politica o diplomazia.
Per quanto mi riguarda, quella radio mi invaghì grammaticalmente. Mi accorsi che tutte le frasi, e per tutta la durata della deliziosa trasmissione, erano composte da poche parole rette da un’unica ferrea legge: come per una regola inedita nella storia del linguaggio, i tre termini «iosif vissarianovič stalin» dovevano occupare la metà di ciascuno degli insiemi di termini. Per il cervello l’effetto prodotto era terrificante.
Vidi lì il primo esempio d’un tentativo di soggiogamento non più soltanto dei popoli e delle menti, ma persino delle leggi elementari di costruzione delle frasi: avevo a che fare con una lingua russa per la quale quindici minuti ogni mattina tutte le parole eranoabolite a profitto della triade sopraverbale «Iosif Vissarionovič Stalin». Ne sono più che certo: lì davanti a me stava uno dei supremi tentativi per ottenere l’alienazione mentale di ogni uomo.
Ho detto che in quell’occasione fui tentato di ammirare il grammatico Stalin. Dopo qualche istante di riflessione invece mi resi conto che in tale circostanza Stalin non aveva affatto agito da grammatico, ma da stregone. Lo sentii vecchio, superato. Il pastore Vernier mi sembrò molto più sicuro della memoria degli uomini.
Lo Stalin, che non ha mai studiato la grammatica araba, non ho smesso di seguirlo. È caduto sempre più in basso, quasi la mente più impotente del tempo presente, soddisfatto di farsi ripetere ad ogni istante dalle sue radio che è l’uomo più geniale, più amato, più saggio che il mondo abbia mai conosciuto. Ogni giorno si fa servire il genere di discorsi di cui ha bisogno il debole. Rinuncia a dominare la grammatica; è come se in un sapere così modesto avesse trovato una forza superiore.
Nei momenti in cui l’essere di propaganda vi assale con maggior forza e già vi considera sua preda, è auspicabile scongiurarlo mettendogli davanti una frase tanto carica di verità come:
«Il leone mise il suo burnus ad asciugare nel fiume».
L’innocenza del Verbo risiede lì.

 

*

da Armand Robin, L’indesiderabile. La falsa parola e altri scritti. A cura di Antonio Malinverno. Giometti & Antonello, Macerata, 2018 (pp.23-28)

 

ANTONIO MORESCO Come si diventa nazisti oggi

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L’Italia di Salvini raccontata tre anni prima. (da qui)

(Pubblichiamo volentieri questo video, dove tre anni fa Antonio Moresco già intuiva la svolta autoritaria, che ha confermato con il governo Lega/5telle le sue peggiori previsioni. Gli amici de Il primo amore hanno condiviso qui la risposta di Helena Janeczek a Roberto Saviano.)

Post in translation: Jan Balabán

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da Chiedi a papà

di

Jan Balabán

traduzione dal ceco di Alessandro De Vito

Hans aveva una specie di superstizione. Valutava il giorno che veniva dal fatto se al mattino incontrava più belle donne, o se ne incontrava più di brutte.

Per quegli occhi profondi sbirciati qua e là furtivamente, per quelle labbra sensuali, per quell’inclinare il capo o quel sorriso che attraversa il volto come un’affermazione della vita terrena Hans non rimpiange di stare in tram e non al volante del fuoristrada nero che in quel momento è fermo al semaforo rosso accanto al tram. Il conducente tamburella nervosamente con le dita sul cruscotto, visibilmente in preda alla rabbia perché l’incrocio lo sta tenendo fermo allo stesso livello di quegli sfigati che osservano la sua auto dai finestrini del tram. Ascolta il suo stereo ma non può vedere con quanta bellezza quella ragazza appoggia la testa all’asta di sostegno, non al lucente palo da striptease di un dancing bar, ma qui, di fianco alle porte di un tram. Lei ascolta la sua musica con le cuffie, appesa al giorno, senza sospettare che qualcuno sia così incantato dalla sua grazia. Hans sente il brusio delle cuffie e immagina come la musica a pieno volume si incanali nei suoi rosei canali uditivi, come con quella musica vibri tutta, e vibri il cerchietto argentato coperto a metà dai suoi capelli. Hans ci crede, a quell’istante. Non alla ragazza. Sa bene che può accadere che apra la bocca e che da essa fuoriesca qualcosa di volgare o di stupido. Hans crede di aver scorto il lembo tondeggiante della splendida giornata che oggi potrebbe essere, che certamente per qualcuno è.

Poi diventa verde. Il SUV nero in basso sotto il finestrino scatta con tutta la sua velocità, a capofitto e lesto come un maiale verso la greppia. La ragazza si gira verso Hans, lo guarda, poi si perde tra la gente.

Le cose stanno in modo del tutto diverso, gli aveva detto un giorno suo fratello minore Emil a proposito di quella sua indagine stregonesca. Statisticamente deve esserci ogni giorno più o meno la stessa quantità di belle e di brutte. Sono solo i tuoi occhi che a volte riescono a selezionare le belle, in quella massa di persone, e altre volte quelle che fanno schifo.

Che fanno schifo, così aveva detto, aveva usato quella parola. Diceva tranquillamente di una donna, solo così allo sguardo, che fosse uno schifo. Emil era fatto così già nell’infanzia. Tutte e tutti sono schifosi, per contro è bella solo quella a cui sta pensando lui. Così fantastica, che non può davvero esistere. Può presentarsi solo per un momento, solo per un secondo, e la cosa peggiore è che in Emil la delusione non arriva con la bellezza, ma la precede. E questo, Emil, sono di nuovo i tuoi occhi a farlo. Sono occhi che la bellezza non la vogliono vedere, ma vorrebbero lanciarla sulla gente. Un po’ come tu ti getti sulla gente, come un cane lupo su una recinzione sormontata da filo spinato.

Emil sarebbe stato d’accordo con quel cane. Sì, la bellezza deve ferire, strappare la cortina dell’indifferenza.

Ma questa cortina qualche volta è necessaria, perché l’uomo non si esasperi ed impazzisca. Perché, Emil, possa essere normale almeno nelle cose normali.

E cosa sono le cose normali? Hans richiamò alla mente l’aspetto furente – e la voce – di Emil. Il suo rancore verso tutto ciò che proprio in quel momento non è suo. Verso tutto ciò su cui non ha messo le mani da solo, come il cacciatore sul cervo.

Le cose normali non esistono. Solo un idiota può desiderare delle cose normali. Hans, tu lo sai cos’è che mi ferisce, per me non è così. Le tue persone normali vorrebbero vedermi rinchiuso in riformatorio, in manicomio, in caserma con una baionetta nel culo, legato stretto.

Emil era capace di mettersi subito a urlare e subito offendersi violentemente, a umiliarsi e a vendicarsi da solo di quell’umiliazione, e tutto in un solo minuto, in un solo secondo che non fosse dedicato a lui.

Hans prosegue verso il suo posto di lavoro, come ogni normale persona onesta, ma sente che gli è sfuggito qualcosa, di aver dimenticato di pagare, di compilare, di inviare, di dire qualcosa a qualcuno. Tutto ciò è probabile, ma non gli fa male. Neppure quella cosa della bellezza. A fargli male è l’angoscia di Emil. Il ricordo di quando ce l’avevano entrambi, insieme. Di quando tutti e due guardavano il mondo solo dall’angusta feritoia di una cittadella solo loro. Gli fa male come il ricordo di una vecchia consuetudine. Il ricordo di un uomo che è morto, di papà, sulla cui tomba la terra non si è ancora assestata. E come la prendeva lui? In realtà più come Emil, ma ha trascorso tutta la vita nell’idea che il mondo è buono, per via del Signore.

Il tram si fermò al parco nella piazza. Un tempo qui avevo l’ufficio, ma non mi è andata bene. Hans si ricorda di come restava in attesa di un lavoro qualsiasi per giorni interi. Controllava la posta nevroticamente, ogni ora. Telefonava. Stupidamente domandava alle segretarie dei suoi perlopiù ex clienti se non avessero qualcosa per lui. Fingeva di non essere sul lastrico, e con sempre maggiore difficoltà allontanava la voglia di fare un salto attraverso il parco al negozio a prendere una bottiglia. Non ne aveva i soldi, o meglio, non ne avrebbe dovuti avere, dato che gli mancavano per l’affitto di casa e per le tasse.

Una volta, finalmente, dopo una giornata del genere uscì da quella trappola del lavoro senza lavoro e incontrò al parco, sotto un alto pioppo nero, una ragazza che risplendeva nel suo sorriso. Sorrideva così pienamente e completamente, come se in effetti le fosse riuscito qualcosa, come se si fosse proprio innamorata. Dei grandi occhi scintillanti. Poi la ragazza si pulisce il naso col fazzoletto, che tiene, un po’ curiosamente, nella manica del cappottino rosso. Ed ecco che sorride ancora di più, perché non si tratta di un fazzoletto, ma di un sacchettino di plastica con del solvente. È così bella che tutto dovrebbe finire proprio adesso. La vita e il mondo. Adesso, e non chissà quando in ospedale, tra bende e garze e sputacchiere, o attaccati a qualche terribile macchinario che delle spietate infermiere ti lasciano squittire vicino alla testa per tutta la notte.

Hans scese dal tram. Il pioppo nero non può certo sfuggirgli, in quella luce mattutina. È dalla morte di suo padre che ci va, è una specie di totem. Il suo tronco alto e imponente è incurvato come una fiamma per una ventata. Quando il vento si placa la corona torna indietro, anche se il tronco resta ancora sbilanciato nella direzione del soffio. Un magnifico arco che resiste lì da almeno quarant’anni. I pioppi neri crescono velocemente e muoiono, come fanno le persone. Quarant’anni è durato il vento che ha incurvato il tronco, il vento che ha piegato mio padre, la mia gente e il mio paese, e ora vorremmo credere di poter tornare di nuovo verticali? Quell’albero è un monumento al nostro tempo e ai suoi piedi c’è una giovane ragazza, quasi ancora bambina, con la sua droga e gli occhi spalancati sull’universo, che sorride più di quanto sia mai possibile.

Il pittore Hans ripiegò il suo blocco con diversi schizzi di un’unica immagine, chiedendosi tra sé come sarebbe stata quella bella giornata.

Nota al romanzo del poeta e amico Petr Hruška

«La morte osserva le nostre vite.
L’evento centrale dell’ultimo romanzo di Jan Balaban è l’agonia e la morte di un uomo, ma ciò che racconta davvero è l’impegnativa ricerca della vita. Poiché questa deve sempre essere trovata nella profondità di ciascuno. E poi di nuovo reinventata. In un certo senso siamo tutti simili ai personaggi della meravigliosa storia di Jan Balabán, traboccante di conversazioni, di soliloqui e silenzi. Una storia in cui si cerca la verità, e si trova la sincerità. Tutti noi, nella nostra parabola mortale, cerchiamo di scoprire qualcosa sull’essenza della realtà, o almeno trovarci per un un momento vicino a qualcosa di importante.
È quasi impossibile, perché ne sappiamo terribilmente poco. La nostra mente è sopraffatta da domande e dubbi, sfiducia e incredulità, nervosismo e aggressività. L’energia viene sprecata nel cieco affanarsi quotidiano. Le parole si ribellano in una inesattezza maligna, le mani sono corte…
Abbiamo ancora un cuore.»

 

VivaVoce#08 Edna St. Vincent Millay [ 1892 – 1950 ]

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Edna St. Vincent Millay a Mamaroneck NY, 1914, foto di Arnold Genthe.

Edna St. Vincent Millay a Mamaroneck – NY, 1914, foto di Arnold Genthe.

Edna St. Vincent Millay
legge Recuerdo
da Collected Poems [1931]


 

Recuerdo

We were very tired, we were very merry
We had gone back and forth all night on the ferry.
It was bare and bright, and smelled like a stable
But we looked into a fire, we leaned across a table,
We lay on a hill-top underneath the moon;
And the whistles kept blowing and the dawn came soon.
 
We were very tired, we were very merry
We had gone back and forth all night on the ferry;
And you ate an apple, and I ate a pear,
From a dozen of each we had bought somewhere;
And the sky went wan, and the wind came cold,
And the sun rose dripping, a bucketful of gold.
 
We were very tired, we were very merry
We had gone back and forth all night on the ferry.
We hailed, “Good morrow, mother!” to a shawl-covered head,
And bought a morning paper, which neither of us read;
And she wept, “God bless you!” for the apples and pears,
And we gave her all our money but our subway fares.

Ricordo

Eravamo molto stanchi, eravamo molto allegri,
Eravamo andati avanti e indietro tutta notte sul ferry;
Era vuoto e illuminato, e sapeva di stalla
Ma abbiamo fissato un fuoco, siamo crollati su un tavolo,
Ci siamo sdraiati in cima a una collina arresi alla luna;
E i fischi continuavano e l’alba è venuta subito.
 
Eravamo molto stanchi, eravamo molto allegri
Eravamo andati avanti e indietro tutta notte sul ferry.
E tu hai mangiato una mela, e io ho mangiato una pera,
Della dozzina che da qualche parte avevamo presa;
E il cielo divenne pallido, e il vento si fece freddo,
E il sole sorse sgocciolando d’oro un secchio.
 
Eravamo molto stanchi, eravamo molto allegri
Eravamo andati avanti e indietro tutta notte sul ferry.
Abbiamo salutato, “Buondí, mamma!” una con in testa lo scialletto,
E comprato un giornale del mattino, che nessuno avrebbe letto;
E lei ha pianto, “Dio vi benedica!” per le mele e le pere,
E le abbiamo dato tutti i nostri soldi, tranne quelli per la subway.

[ trad. Orsola Puecher ]

 

di Orsola Puecher

 

La voce di Edna Saint Vincent Millay cantilenante a tratti, ma ferma e forte, ci arriva dall’inizio del secolo scorso per raccontare di un traghetto notturno, quello di ⇨ Staten Island, che non costa nulla e non si ferma mai, e vaga per tutta la notte, portando due amici, forse innamorati, in un viaggio che finisce regalando delle pere e delle mele, comprate magari come cena per risparmiare, a una donna, una mamma archetipo, con uno scialletto in testa. Ancora sul traghetto, o sulla riva, o durante la corsa, o dopo, la mattina presto, le regalano anche tutti i loro pochi soldi, tenendosi solo quelli della tariffa della metropolitana per il ritorno.
 
  
  

L’avventura di un incontro fra due giovani bohemienne del Greenwich Village, il ricordo di una notte, i rumori, i fischi, il chiarore di un fuoco, sdraiarsi alla luce della luna, aspettare l’alba, con pochi soldi, la stanchezza e l’allegria della libertà da ogni vincolo di tempo e spazio. La stanchezza allegra di quando si é giovani e innamorati dopo una notte di veglia fra le tante piccole sconsiderate cose che si fanno. I primi due versi “Eravamo molto stanchi, eravamo molto allegri/Eravamo andati avanti e indietro tutta notte sul ferry.” si ripetono all’inizio di ogni stanza. Come in una ballata inquadrano le singole scene e trattengono solo per qualche istante il passato e lo scorrere della notte. La parola è semplice: il racconto quotidiano, liberato dal lirismo ottocentesco, diventa acutamente poetico solo nel descrivere il cielo che impallidisce, l’alba che sgocciola oro e la rima culla la notte fino al mattino. La semplicità eleva e trasfigura ogni cosa.


 
Henry e Cora

Edna Saint Vincent Millay è la prima donna a vincere il Premio Pulitzer per la Poesia da poco istituito, a soli 31 anni nel 1923, con la raccolta The Ballad of the Harp-Weavernasce. Nasce a Rockland nel Maine. Il secondo nome Saint Vincent, da lei molto amato, le viene dato in onore di un ospedale di New York dove lo zio ebbe salva la vita poco prima della sua nascita. La madre Cora Lounella Buzelle è infermiera e il padre Henry Tolman Millay insegnante, vive un’infanzia fra le montagne in una mitica casa dove
 

Between the mountains and the sea where baskets of apples and drying herbs on the porch mingled their scents with those of the neighboring pine woods.

Edna, Norma e Kathleen
Dopo alcuni anni di separazione i genitori divorziano ed Edna con la madre Cora e le sue due sorelle Norma e Kathleen e si trasferiscono di città in città vivendo molto poveramente, ma con al seguito un baule pieno di libri, classici da Shakespeare a Milton, che la madre era solita leggere alle figlie. Le ragazze crescono indipendenti e con atteggiamenti inconsueti per l’epoca. Edna che amava farsi chiamare Vincent si scontra per questo con il preside della scuola elementare. Alle scuole superiori inizia a sviluppare il suo talento letterario, vincendo premi di poesia e pubblicando sonetti su piccole riviste locali
 
 
Nel 1913 a 21 anni entra nel famoso ⇨ Vassar College, crogiolo di talenti letterari, da Mary McCarthy a Elizabeth Bishop.

  
  

Si laurea nel 1917 e si traferisce a New York da sola, nel Greenwich Village, dove vive una vita molto povera ma molto stimolante, in un ambiente che era il fulcro della vita culturale e letteraria dell’epoca. Scrive drammi sperimentali per il teatro e articoli su riviste con lo pseudonimo di Nancy Boyd per mantenersi. E’ molto corteggiata ma molto indipendente.
 

Smoking!

 
Con il poema ⇨ Renascence ottiene il quarto posto nel concorso The Lyric Year, ma a detta di tutti avrebbe meritato il primo premio, così il vincitore del secondo posto le offre i suoi 250 dollari e una facoltosa mecenate delle arti Caroline B. Dow dopo aver sentito la Millay recitare le sue poesie e suonare il pianoforte al Whitehall Inn di Camden, nel Maine, ne fu così impressionata, che si offrì di pagare i suoi studi al Vassar College, che altrimenti Edna non avrebbe mai potuto frequentare.

  
  

Edna e Jan

 
La raccolta del 1920 A Few figs from Thistles suscita scandalo per la sua esplorazione della sessualità femminile. Nel gennaio del ’21 Edna va a Parigi dove incontra e ha un breve relazione con la scultrice ⇨ Thelma Wood e nel 1923 sposa Eugen Jan Boissevain vedovo di una sua compagna del Vassar College, l’avvocato e giornalista femminista ⇨ Inez Milholland.
Un matrimonio molto aperto che durò 26 anni, con vari altri rapporti per entrambi, come l’importante relazione con il poeta ⇨ George Dillon, che Edna aveva incontrato in occasione di una sua lezione all’Università di Chicago nel 1928, quando Dillon era ancora uno studente ed era di ben quattordici anni più giovane di lei. La relazione le ispirò i sonetti della raccolta Fatal Interview, pubblicata nel 1931.
 
Edna e George

 
Edna e Jan comprano la fattoria di Steepletop ad Austerlitz NY con orto e giardini, dove si stabiliscono.
 
Austerlitz estate 1929

 
Durante la Prima Guerra mondiale Edna è pacifista, ma nel ‘40 sostiene le forze alleate, cosa non molto ben vista nei circoli letterari. Scrive un articolo sul New York Times Magazine sulla città boema di Lidice devastata dai nazisti che poi le ispira il poema Murder of Lidice, usato come base per il film del ‘43 Hitler’s Madman. diretto da Douglas Sirk.
 

The whole world holds in its arms today
The murdered village of Lidice,
Like the murdered body of a little child.



 
Nel ‘43 riceve la Medaglia Robert Frost per il suo contributo alla poesia americana.
Boissevan muore nl 1949 di cancro ai polmoni e Millay vive da sola ad Austerlitz per l’ultimo anno della sua vita. Nel 1950 cade dalle scale per un infarto e viene trovata solo dopo 8 ore. E’ sepolta ad Austerlitz con il marito.
La sorella di Edna, Norma, e il marito, il pittore ed attore Charles Frederick Ellis, si stabilirono a Steepletop dopo la morte di Edna. Nel 1973 fondano una colonia di artisti sui sette acri intorno alla casa e alla rimessa. Dopo la morte del marito, avvenuta nel 1976, Norma prosegue nel programma fino al suo decesso, avvenuto nel 1986.
 
La casa di Steepletop

da Storia di un avanguardia
di ⇨ Matthew Josephson
Il saggiatore, aprile 1965
Pag. 66-68
[ trad. Matilde Boffito Serra ]
 
 
Una sera a Clemenceau Cottage il ronzio delle chiacchiere e il fuoco di fila dei paradossi si arrestò quando uno degli habitués si presentò con una giovane donna sui ventisei anni, piccolina, dai capelli color rame. Aveva un nasino all’insù e un sorriso incantevole, sebbene non fosse una bellezza, era graziosissima, parlava con una voce dolce e camminava come se fluttuasse nell’aria. Era Edna St. Vincent Millay, una delle voci nuove della poesia americana, che si era conquistata la fama qualche anno prima con la lirica Renaissance, diventando così la graziosa sibilla dell’epoca nuova. A quel tempo la su produzione teatrale, Aria da capo, in cui ella stessa doveva rappresentare la parte principale, era in prova al teatro dei Provincetown Players, sotto la direzione di John Light.
Edna Millay, la piccola fata di Rockland, nel Maine, e di Vassar College, creava facilmente intorno a se un’aria d’incanto a cui tutti bramavano partecipare. Ci raggruppavamo intorno a lei, pendevamo dalle sue labbra, la viziavamo un poco; i più maligni si esprimevano con dolcezza. Quando se ne andò parlammo di lei con profondo interesse. Circolavano già due sottili volumetti di sue liriche. Alcuni di noi che scrivevano versi, ma alla maniera di Ezra Pound, si domandavano se non ci fosse ancora nell’opera sua un pochino del gergo ottocentesco sulla natura e sulla vita. Ma gli altri ci fecero tacere indignati come se avessimo bestemmiato. Indicarono numerosi brani che riflettevano direttamente e con forza, la naturale personalità della Millay e non erano chiacchiere per amor della rima, Queste espressioni del suo alto spirito e del coraggio con cui affrontava la vita esercitarono un forte fascino sulle femministe di tutto il decennio. Numerose ragazze venivano da Radcliff o dal Vassar College per far carriera a New York, spronate da verso come: ”Oh mondo, non posso abbracciarti abbastanza stretto…”; parlavano arditamente di vivere in fretta e di andare in ferryboat a Staten Island con il loro giovane amico.
Senza dubbio Edna Millay descriveva il proprio godimento dei piaceri d’amore con una schiettezza e un’evidenza rare nelle poetesse dal tempo di Saffo in poi, e difendeva il diritto della donna all’”incostanza”, ben poteva essere stato incostante l’uomo, in passato, ma che apertamente una giovane donna dichiarasse passeggera l’attrazione provata per alcuni individui dell’altro sesso, e
 
…ragione insufficiente
per riparlarne quando c’incontreremo di nuovo.

 
era un po’ forte. E ancora:
 
Quali labbra baciarono le mie, e dove e perché.
Più non ricordo, e quale braccio si posò
Sotto il mio capo fino alla mattina…

 
Più di un galante conquistatore del nostro circolo letterario doveva essere scottato da quelle provocanti dichiarazioni. Ho interrogato recentemente in proposito una delle vecchie amiche della Millay, Susann Light, ora Susan Jenkins. Non erano offesi quei bei tipi della capacità di Edna di dimenticare il loro fascino virile? “Ah” fu la risposta “non ci credevano mica!”
Con mio rincrescimento vidi assai di rado Millay fino a parecchia anni dopo a Parigi. A dire il vero non era nel suo elemento, come a Staten Island o sulla costa del Maine. Non c’erano, lì, le onde dell’oceano, non selvaggi promontori, non gabbiani roteanti intorno alla sua graziosa testolina. Non bisogna dimenticare tuttavia l’effetto ispiratore, quasi di una George Sand americana, da lei esercitato sulla concezione morale della vita degli anni venti.


 
Fra i libri

 

 

VivaVoce#01: Thomas Stearns Eliot [1888–1965]
VivaVoce#02: Gherasim Luca [1913–1994]
VivaVoce#03: Sylvia Plath [1932–1963]
VivaVoce#04: Guillaume Apollinaire [1880–1918]
VivaVoce#05: Juan Gelman [ 1930, Buenos Aires ]
VivaVoce#06: Elizabeth Bishop [ 1911 – 1979 ]
VivaVoce#07: Virginia Woolf [ 1882 – 1941 ]

 

Sulla scogliera

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di Claudio Magris

(riporto qui una delle “istantanee” scritta da Claudio Magris nel 2009, ma quanto mai attuale sul tema migranti. a.s.)

Sulla riviera di Barcola, a Trieste. Si fa per dire, riviera; una sottile striscia di scogli, spiaggia libera che costeggia la strada principale di accesso alla città, acqua subito profonda, sulla riva tamerici spumose come onde, un orizzonte marino vasto e aperto, che nell’infanzia dava il senso dell’immensità oceanica, in un’educazione sentimentale in cui s’imparava una volta per tutte il legame fra l’eros e il mare. Quella gente in costume da bagno, non in uno stabilimento né su una vera spiaggia, ma alle porte della città e quasi già in città, dà un’impressione di vita persuasa e goduta.

Trieste non è solo crocevia tra Est e Ovest, come recita la sua didascalia, ma pure fra Nord e Sud, fra la malinconia scandinava di certi tramonti d’inverno e la vitalità meridionale dell’estate. In fondo al golfo, dove le acque italiane divengono slovene e poi croate, si vedono il duomo di Pirano, la plurisecolare orma del leone di San Marco nell’Istria, e più avanti Punta Salvore, col suo faro e i suoi pini nel vento. La popolazione che da maggio a ottobre arriva ogni giorno su quella scogliera di Barcola è abitudinaria; per tacita convenzione, ognuno di noi ha il suo posto sulla riva, genericamente rispettato dai vicini, con cui s’intrattengono rapporti garbati ma senza prendersi né dare confidenza. Ogni tanto aleggia, annunciata sui giornali, la minaccia di divieti, piani regolatori, costruzioni di stabilimenti a pagamento o di porticcioli turistici, minaccia finora ogni volta sventata da pugnaci lettere inviate alla stampa e alle autorità dagli uomini di penna, numerosi e assidui fra quei bagnanti, e da proteste che arrivano da triestini residenti da anni a New York o ad Adelaide ma non dimentichi di quella scogliera. Le autorità, a dire il vero, dimostrano di comprendere che quella libertà di tocio ossia di tuffo è un bene pubblico, una buona qualità di vita collettiva, e si preoccupano delle docce gratuite e delle tamerici. Qualche anno fa la scogliera era salita alla ribalta delle cronache grazie a un annegato, il cui corpo riportato a riva e coperto da un lenzuolo era rimasto a lungo in mezzo ai bagnanti che avevano continuato tranquillamente a prendere il sole accanto a lui, in quella familiare indifferenza della vita per la morte che la grande e rovente luce dell’estate rende ancora più spietata. Il telo che lo copriva sembrava non tanto un rispetto per lui e per l’inviolabile, universale mistero che gli era accaduto e in cui egli era entrato, quanto un riguardo verso i bagnanti, perché non fossero turbati dall’intollerabilità e dall’impudenza della morte. Solo un bambino guardava incuriosito quella sagoma a terra, forse senza capire bene cosa fosse successo, come un cane che fiuti qualcosa di ignoto. Pochi gli schiamazzi, rari i disturbi alla quiete pubblica. Una madre redarguisce il figlio, un bambino di quattro o cinque anni che gioca con un’incantevole coetanea — nera come l’ebano, evidentemente adottata dai genitori, due tedeschi che si sono sistemati un po’ più lontano — sparando con una pistola ad acqua e scavalcando di corsa i corpi distesi al sole, per lui non ancora desiderabili o conturbanti. Sgridato, il bambino protesta, dicendo che allora bisogna rimproverare pure la bambina. “Quale bambina?” chiede la madre, che non la vede perché si è nascosta dietro un albero. “Quella che parla che non si capisce niente,” risponde lui, evidentemente colpito dal fatto che la piccola chiami le cose in modo per lui incomprensibile e un po’ arrabbiato di scoprire che esse possano avere altri nomi.

Non gli passa per la mente di identificarla con il colore della sua pelle, che pure spicca nettamente anche accanto all’abbronzatura dei bagnanti; quella differenza dí colore, che in altre situazioni avrebbe potuto e forse potrebbe ancora provocare separazione e segregazione, è irrilevante rispetto alla differenza tra l’italiano e il tedesco. Neppure quest’ultima, peraltro, ha il potere di separarli, perché, appena riapparsa la bambina nel frattempo debitamente ammonita (in tedesco) dai suoi genitori, i due riprendono subito a rincorrersi e a spruzzarsi, ignari di aver tenuto una bella lezione sulla diversità e sull’identità, temi del resto cari anche ai convegni cultural-balneari così frequenti sulle spiagge estive, almeno quelle un po’ più eleganti della scogliera di Barcola.
10 agosto 2009
[da C.M., Istantanee, La nave di Teseo, Milano 2016, pp. 95-98]

Helena Janeczek risponde all’appello di Roberto Saviano

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Qui l’appello di Roberto Saviano

L’importanza di essere piccoli – ottava edizione

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L’IMPORTANZA DI ESSERE PICCOLI è un festival di poesia e musica nei piccoli borghi dell’Appennino tosco-emiliano che si svolge dal 2012 e organizzato dall’associazione SassiScritti. L’ottava edizione del festival, dal 2 al 5 agosto è dedicata alla memoria di Pierluigi Cappello, poeta che abitando un margine ha stabilito un nuovo centro. Di seguito riportiamo il programma e tutti i dettagli per potervi partecipare.

 

Programma di incontri e concerti acustici

(ingresso gratuito)

 

giovedì 2 agosto ore 20

loc. Stanco, Grizzana Morandi, BO

Lastanzadigreta (concerto acustico)

Maria Grazia Calandrone (lettura)

MADERA BALzA – Monica Demuru e Natalio Mangalavite (concerto acustico)

 

venerdì 3 agosto ore 21

loc. Monte Baducco, Castiglione dei Pepoli, BO

Silvia Vecchini (lettura) e Bianco (concerto acustico)

in caso di pioggia: Casa del Popolo di Rasora

 

sabato 4 agosto ore 20

Parco Didattico Sperimentale del Castagno, Varano, Granaglione, BO

Sibode DJ in La storia di Sibons (storia musicale fantastica per bimbi dai 5 ai 92 anni)

Poetry Slam ‘I Piccoli’ – con E. Galli, P. Gentiluomo, F. Gironi, G. Sandron, S. Garau, M. Simonelli – Mcee Luigi Socci

“Impara a nuotare” – Filippo Gatti  con Francesco Di Bella

presentano Virginia Tepatti e Viviana Strambelli (concerto acustico)

 

domenica 5 agosto ore 21

Centro di Educazione Ambientale di Acquerino, Sambuca Pistoiese, PT

Ida Travi (lettura) e Antonio Di Martino e Fabrizio Cammarata (concerto acustico)

 

 

Anche questa è poesia:

programma di passeggiate, laboratori e altri attraversamenti

 

giovedì 2 agosto, ore 17

loc. Stanco, Grizzana Morandi, BO

‘Luoghi morandiani, trekking a cura di Michela Marcacci (guida ambientale escursionistica)

prenotazione obbligatoria: info@guidappenninotrekking.it – 348 340 8892

a seguire Lastanzadigreta (concerto itinerante con laboratorio per grandi e bambini)

 

venerdì 3 agosto, ore 16:30

loc. Monte Baducco, Castiglione dei Pepoli, BO

‘L’anima del bosco’, trekking a cura di Michela Marcacci (guida ambientale escursionistica)

durante il trekking: “Con passi piccoli” laboratorio erboristico a cura di Cecilia Edera Lattari

prenotazione obbligatoria: info@guidappenninotrekking.it – 348 340 8892

 

sabato 4 agosto, ore 16:30

Parco Didattico Sperimentale del Castagno, Varano, Granaglione, BO

visita guidata del Parco a cura di Ugo Neretti (agronomo)

Prenotazione obbligatoria: amministrazione@cooperativasocialemonghidoro.com – 335 534 9605

a seguire Sibode Dj in La storia di Sibons (storia musicale fantastica per bimbi dai 5 ai 92 anni)

 

domenica 5 agosto

Centro di Educazione Ambientale di Acquerino, Sambuca Pistoiese, PT

15:00,  I suoni del bosco,  trekking a cura delle guide del Centro di educazione ambientale di Acquerino, con Alessia Fappiano (naturalista), in collaborazione con Lorenzo Gori del Rifugio Il Faggione

prenotazione obbligatoria: cea.acquerino@yahoo.com

 

dalle 17 alle 19 ,  La Misura dell’erba:  Installazione e Laboratori di illustrazione per bambini e grandi

a cura di Ginevra Ballati e Laura Cameli,

costo: 10 euro adulti, 5 bambini prenotazione obbligatoria: misuradellerba@gmail.com

 

È possibile cenare nei luoghi in cui si terranno gli eventi – prenotazione consigliata 3485900361

In caso di pioggia gli eventi (tranne i trekking) si terranno comunque in posti al chiuso nei luoghi indicati

 

FB SassiScritti_ L’importanza di essere piccoli

www.sassiscritti.org ; 3493690407 – 3495311807

L’importanza di essere piccoli c’è grazie a: Daria Balducelli, Ambrogina Bertone, Andrea Biagioli, Alessandro Borri, Azzurra D’Agostino, Sante Di Clemente, Lucia Mazzoncini, Guido Mencari, Andrea Montagnani, Lara Monterastelli, Silvia Tesone, Luca Zanoni e tutti coloro che si fanno piccoli.

 

realizzazione grafica: Guido Mencari www.gmencari.com

video: Andrea Montagnani www.pupillaquadra.com

fotografie: Beatrice Bruni www.beatricebruni.com

 

con la collaborazione di: Parco Didattico Sperimentale del Castagno, Casa del popolo circolo arci di Rasora, ARC di Monte Baducco, Associazione Amici di Stanco, CEA di Acquerino, libreria l’Arcobaleno di Vergato, libreria Lo spazio di via dell’Ospizio di Pistoia, Birra del Reno di Castel di Casio, I testi del Borgo di Porretta Terme, Azienda Agroforestale Iori Massimo, Le grandi ricette di Anna B. catering Castel di Casio, Califfo ristopub di Porretta Terme, Hotel Roma di Porretta Terme, Hotel Helvetia di Porretta Terme, Fiorista Pozzi, gelateria la Baracchina di Porretta Terme, Oriana Giocattoli e Bomboniere, rifugio Il Faggione di Acquerino, B&B ”6 Stanco?” di Stanco

 

Un ringraziamento in ordine sparso a: Luca Boschi, Patrizia Guidi, Andrea Mussi, Marco Tamarri, Francesca La Mendola, Sara Lodovisi, Marco Leporatti, Carolina Mariti, Anna Castellari, Lorenzo Gori, Samuele Pesce, la famiglia Grandi di Stanco

Immagine di apertura di Guido Mencari.

 

Ci sono bestie al confine (parte I)

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di Benny Nonasky

1.

Ci sono delle bestie al confine. Il cielo è nero e ci spiega che la morte è un sintomo dell’arbitrarietà dell’uomo; le sue azioni bastarde, le carceri dell’aria, l’irrilevanza e lo stoicismo balsamico. Ci sono bestie al confine sotto la neve e il gelo dell’inverno costante e privo d’emozioni. Se qualcuno si chiedesse se il presente è una misurazione del passato: questo è il presente e il passato è un’orgia del presente fluido, maleducato, folle. Troppi aggettivi. Più inutili che interessanti. Come le domande intelligenti sullo stato attuale, le dinamiche, il declassamento del lavoro, il terrore, i continui trattati e minacce e storie strappalacrime. Non funziona più nulla. La fabbrica del cuore si è fermata. Hanno smantellato ogni singolo organo utile alla lavorazione. È come si ci fosse stata un’esplosione immane dentro a quel giorno. Troppi sentimenti in un solo istante. Un crollo dietro l’altro. L’idea di unificazione e perdono. Avere una madre unica, vedova e spenta in un’eredità vile, sporca, annacquata. Eppure ancora c’era gente che doveva nascere (deve sempre nascere altra gente). Qualcuno lo dice: <<I bambini, una volta nati, sono già abbastanza vecchi per poter morire.>> Come non dare attenzione alle paure del vento; come non generalizzare la morale delle mense dei poveri; come non chiedere altri cinque minuti alla sveglia, così, fino a dimenticarsi del mondo, del domani, delle vacche da portare al pascolo, del maiale da ingrossare per la pattumiera dell’umido? La polvere oltrepassa le cose. Avanza in noi un processo meccanico di arrotondamento: bisogna avere sempre un ritorno: bisogna avere un valore economico: il mare è per le crociere: i recinti tengono buone le bestie. Esiste ancora un destino comune? Siamo figli senza sensi di colpa?

Tu non hai sentito la spada che ti ha trafitto. Hai odorato il sangue colante e hai percepito il vomito e il rancore. Tu non sai cosa vuol dire amare la nostalgia e la ricerca di una casa. Può essere la tua salvezza. L’analfabetismo storico accompagna la tua gradevole quotidianità. Le tue origini sono utili per le cresime. Tu generalizzi la struttura politica dei porti. I doganieri ti annoiano. Sei la parte latente della certezza. Ti ancori alle paure delle iene. Ridi con loro. Azzanni la preda già stroncata dall’orrore natìo. Hai accarezzato la vertigine dell’onnipotenza territoriale. Anche se le tue origini dipendono dai piedi logori e scheggiati da una terra cruda e secca. Le mosche hanno seguito il tuo percorso d’espansione. Hai mutato i tuoi lineamenti per la sopravvivenza del figlio. Eri un bastone, poi una pietra, poi un fuoco, un ferro, una lama, un proiettile e plutonio. Hai sviluppato un cervello utile alla macchina e all’omicidio. Hai osservato i treni passare; hai ascoltato le grida sulle navi e nei campi innevati. Non hai appreso un cazzo: sei andato oltre le nuvole e hai stuprato la luna fino a mutare la geometria del cielo. Hai seminato tubi di scarico tra gli uccelli. Hai costruito rovine e non c’è più un flipper disponibile col quale alleviare la tensione dei perdenti. Hai perso il divertimento dello stare insieme, la vecchiaia, il metabolismo corretto. Hai lasciato le frontiere ai manganelli e al filo spinato. Tu hai percepito il vuoto e l’hai condiviso con l’albero e Dio. Ora osservi con pietà il tuo corpo in balìa del tempo che scivola lentamente, in canoa, sul tuo sangue. Il tuo sangue adesso ti parla della crudeltà del gesto di diniego, della bomba sganciata, della famiglia in fuga, del timbro non emesso, del centro d’identificazione e detenzione, del perché è utile lo zen e il condividere la meraviglia di un’Epipogium aphyllum da poco sbocciata o la neve su San Pietroburgo o i mandorli in procinto di eiaculazione. Non manca molto al funerale. Hai odorato il sangue e hai riconosciuto l’eredità che hai portato.

Dovevamo arrivare in un punto preciso, lì la guida ci avrebbe spiegato come arrivare al muro. Ci guardavamo senza dire una parola. Il conforto non stava riposto nel nostro cuore malato. Eravamo su d’un palcoscenico senza conoscere il copione. E la gente cominciava a divertirsi. Noi, i protagonisti. Il silenzio: l’unica possibilità. Si percepivano i passi pesanti, il fiato balbuziente e asmatico. Procedevamo in fila, a ridosso della ferrovia. Ogni tanto si sentiva abbaiare un cane e delle voci in una lingua sconosciuta, ma che ormai faceva parte del nostro mondo quotidiano. Era l’unica certezza dell’esser lì, da qualche parte. <<Dobbiamo andare oltre quei binari. Da lì in poi è tutta una scommessa. C’è una strada sterrata che fiancheggia dei prefabbricati in disuso. Lì siamo allo scoperto. Fiancheggeremo le pareti cercando di tenerci all’oscuro anche se quella maledetta luna sembra prenderci per il culo stasera. Guardate quant’è grossa, la maledetta.>> Era incredibilmente sensuale e mastodontica. Avrei voluta baciarla. Abbracciare la sua crosta livida e porosa. E poi l’avrei presa a morsi perché, era un formaggio, uno di quelli coi buchi. Tra il duro e il morbido. Saporito al punto giusto. Avevo fame. Troppa fame. <<Va bene. Fiancheggiamo i prefabbricati e poi da lì quanto manca alla recinzione?>>, disse una tizio con la barba ben curata e un volto abbastanza magro e serio. La guida non lo guardò, aveva ancora gli occhi fissi sulla luna. Forse anche lui pensava al formaggio. Gli rispose con calma: <<Dopo averli superati c’è un tratto di bosco molto fitto. Lì siamo al sicuri. Ho avuto notizie certe che nel bosco non ci sono guardie né cani. Il problema viene dopo. Il muro di filo spinato è a ridosso di un fiumiciattolo. C’è poca acqua, sicuramente gelata, ma rallenterà la vostra corsa. Ci saranno guardie armate, molte guardie armate pronte a frenare la vostra fuga. Forse qualcuno di voi non ce la farà. Fatti vostri. Il mio compito è quello di portarvi fino al bosco. I soldi valgono tanto. Tu hai portato le tenaglie e le torce?>> Mi voltai e feci sì con la testa. Avevo tutto nello zaino. Pure un coltello lungo diversi centimetri. Ero pronto a tutto. Appena non sentimmo più rumori e non vedemmo più ombre, passammo la ferrovia e ci immergemmo tra i ruderi grigi dei prefabbricati. Non sentivo più le mani, anche se in braccio tenevo il bambino della signora che mi stava dietro. Non so se fosse vivo o morto. Non avevo tempo per accertarlo. Non si lamentava. Non emanava nuvole di vapore. Avevo tanto timore di essere la sua tomba e il suo ultimo ricordo. Pensai ai miei fratelli dispersi sotto le macerie e a mio padre sgozzato davanti a mia madre. Cominciai a piangere. A denti stretti. Bagnai il bambino, ma non si mosse. Senz’altro era morto. Improvvisamente sentimmo degli spari e delle urla. Non capivamo da dove arrivassero. Sembravano intorno a noi. Ma intorno a noi c’erano solo pareti e una strada vuota. Ci nascondemmo dentro una di quelle casupole di mattoni e lamiere. Diventammo delle statue. Dal lato destro della strada sbucarono almeno cento cavalieri, con corazza, scudo e lancia. Dalla parte sinistra, invece, vennero fuori degl’esseri immani, putridi, pieni di chiazze livide e purulente. Strisciavano i piedi e si dannavano. Grugnivano come porci destinati alla mattanza. Sembravano doloranti e feriti, ma impugnavano spade e fucili d’assalto con tono fermo e sicuro. Li dividevano pochi metri. I cavalieri abbassarono le lance, tenendole tese davanti a loro. Gli essere immani invece puntarono le loro armi e alzarono gli occhi al cielo perdendo l’iride chissà dove. Sembravano pronti allo scontro e sapevano già chi avrebbe avuto la testa rotolante dal patibolo. Ma non avvenne nulla. Restarono così per qualche minuto. Poi, dalla cavalleria, si fece avanti colui che teneva nelle mani un cuore crudo che ancora sembrava pulsare. Lo gettò ai piedi degli immani e disse: <<La condizione umana è simile a quella di uomini incatenati in un sotterraneo, la cui porta non si apre e non fa passare luce se non quando il carnefice viene a prendere colui che sarà messo a morte1.>> Dopo aver detto questo, l’uomo scese da cavallo e calpestò il cuore che ancora sembrava pulsare. Gli uomini immani abbassarono le armi e cominciarono ad ululare come demoni imbestialiti. Chiusero gli occhi e presero a correre in direzioni sparse, senza logica. I cavalieri li lasciarono andare. Non si mossero fino a quando l’ultimo essere non fu più visibile alla vista. Poi si girarono in modo sincronizzato verso il nostro nascondiglio e alzarono le lance al cielo. Erano bellissimi e le loro corazze brillavano sotto il bagliore potente della luna. Noi restammo senza fiato. Avevamo paura. Cercai la guida con gli occhi, ma non la vidi. Non la vidi mai più. <<Bastardo>>, dissi a bassa voce. L’uomo che era sceso da cavallo e che aveva calpestato il cuore prese a muoversi verso di noi. <<Uscite>>, disse. <<Ora non siete più in pericolo.>> Effettivamente non provavamo alcun timore. La sua voce sontuosa e calda ci offriva sicurezza – e noi necessitavamo di tale sentimento. Uscimmo allo scoperto. Io mi trovai davanti a tutti. Il cavaliere mi venne incontro e mi tese le mani. Io gli diedi il bambino. Lui lo prese con se e andò verso la madre. <<Madre, lui adesso è nelle mani del mondo. Respira con gli oceani e le montagne. Adesso fa parte di noi. Le prometto che diventerà un uomo valoroso e che manterrà il suo volto, il volto della donna che lo ha amato, per il resto dell’eternità. La difenderà fino al suo ritorno. Lì vi abbraccerete di nuovo e sarete di nuovo famiglia. Non lo dimenticare madre: lui è tuo come la fonte per un ruscello.>> La donna cadde in ginocchio e baciò la terra. Le lacrime le scorrevano sul volto e non avevano suono. Il cavaliere tornò al suo cavallo. Diede il bimbo ad un altro soldato e, spronando il cavallo, si diresse verso il bosco che ci attendeva prima della recinzione. Dopo che vi fu scomparso dentro, anche gli altri cavalieri partirono al suo seguito.

Questo mare fu il primo mare, il primo sale, il primo viaggio, il primo sguardo alle stelle. Oltre di lui, il vuoto e la caduta infinita. Dentro di lui, il vuoto e la caduta infinita. Ora non ci interessano i secoli nei secoli: ora siamo addormentati su di un letto di cadaveri che non abbiamo voluto, votandoci al respingimento coatto della disperazione. L’arancione riflette il bagliore del sole e sono cieco dinnanzi alla morte imminente. Quante storie d’orrore potremmo scrivere su noi stessi.

<<Possiamo andare?>> I ragazzi della ronda erano pronti ad uscire dalla caserma per iniziare il turno. Come ogni notte, si armavano di pistole elettriche, abiti mimetici, torce e lucidi manganelli tra le mani. Ogni notte, ispezionavano il porto di Caulonia, dalla parte ovest dove si trovava il grande centro della marina militare, fino alla punta opposta dove troneggiava il grande faro rimesso in funzione per rintracciare le imbarcazioni dei disperati in arrivo. Le ronde si trovavano in tutte le zone costiere e, tutte le ronde, erano composte da letterati ed artisti; coloro che avevano istituito tali meccanismi di difesa in regime spontaneo e sotto la supervisione della Marina. Queste ronde erano utili per la difesa della Nazione, per lo stipendio e la scrittura – perché la gente voleva leggere quello e quello le si dava. Come ogni notte, i ragazzi della ronda di Caulonia, percorrevano quella decina di chilometri recintati da un muro alto una ventina di metri, con torrette d’appostamento e filo spinato elettrico. L’esercito aveva costruito in fretta e furia quella protezione obbrobriosa su tutto il territorio dopo l’ultimo grande sbarco sulla costa meridionale, che aveva portato ad un duro scontro tra la cittadinanza e la disperazione causando diversi morti e danni ingenti alle abitazioni. Non si poteva più lasciar correre. Non si poteva più far nulla senza una decisione presa dall’alto. Non si poteva più difendere, ma solo attaccare. <<Ma questi sono i soliti discorsi politici. Il problema è il colore, il sudore e la lingua.>>, disse Antonio, grattandosi il naso col mignolo. <<E la religione?>>, gli ribatté Mauro. <<Dio ha già fatto il suo: ci ha divisi alla nascita. Ha già dato.>>, rispose Antonio in tono beffardo e guardando di sottecchi Lara che ascoltava silenziosa con la testa nascosta da un passamontagna spesso e ruvido. Effettivamente era una serata gelida. In quella zona erano anni che non pioveva né cadeva un fiocco di neve. Non si poteva più coltivare nulla. L’acqua era razionata e gli alimenti venivano consegnati, ogni mattina, in ogni casa ancora abitata. Ormai erano rimasti in pochi in quella landa desertica e gestita dai trafficanti di uomini e droga. I sette della ronda erano tutti del posto, obbligatoriamente del posto perché conoscevano ogni anfratto e costruzione. In caso di sbarco, dovevano bloccare ogni fuga prima che le guardie delle torrette sparassero colpi. Altrimenti, non sarebbe stato divertente. <<A che ora dovrebbe arrivare l’imbarcazione segnalataci dal centro di comando?>>, chiese Paolo. <<Intorno alle tre e quindici minuti e 21 secondi. Appena raggiungiamo il faro, controlliamo a che punto sono.>>, rispose Antonio. Il faro era su un promontorio a ridosso della spiaggia. Non ci si poteva entrare. Veniva gestito da un computer dentro una cabina a qualche metro di distanza dalla struttura. Al suo interno, oltre al faro, era stata installata una videocamera a luci infrarosse utile a carpire, già a una debita distanza, le navi in arrivo e comprendere il punto d’approdo. Arrivati, Antonio si mise a smanettare al computer e vide l’imbarcazione carica di disperati puntare alla costa. <<Eccoli lì! Sono un bel po’. Questa notte ce la spassiamo e mi sa che ce n’è pure per l’esercito e le loro banali pallottole. Anche per domani abbiamo qualcosa da scrivere.>> Gli uomini lasciarono la postazione e andarono verso il punto d’arrivo prestabilito dal computer. Antonio, Paolo, Lara, Mauro, Domenico, Luca e Sasà, si misero in formazione: una fila schierata, come muro di pelle in tuta mimetica, sulla spiaggia umida, davanti al mare. Alle tre e quindici minuti e ventuno secondi, la nave attraccò con un tonfo sordo sulla spiaggia. I disperati sapevano a cosa andavano incontro. Saltarono dalla prua e cominciarono a correre in ogni direzione. Ma la ronda era preparata. Dalla spiaggia si alzarono delle reti sostenute da braccia meccaniche piantate nel profondo della sabbia come la coda di un pavone. I disperati ci finirono dentro come pesci senza via di fuga. Partì il gioco. I letterati cominciarono a manganellare e picchiare tutti quegli animali che si dimenavano nella rete. Scariche elettriche venivano lanciate a quelli che correvano, mentre le mine sotterrate nella sabbia e i colpi di fucile automatico sparati dalle torrette facevano saltare in aria coloro che, in qualche modo, erano riusciti a superare la trappola della rete metallica. Il sangue macchiava le tute e le mani. Si sentivano urla e risate e la voce di Antonio che, come ogni notte, raccontava la sua storia: <<Ancora qui, nella notte scura delle belve e del desiderio. Ancora a qui a cercare la correttezza e la pulizia, perché ci guida la mano. Scriviamo quindi con la maiuscola Verità e Giustizia e con la minuscola menzogna e offesa2. Abbattiamo le diversità che non ci competono. Difendiamo questa terra che c’ha partoriti nel suo grembo crudele e magnifico. Battezziamo la nascita col sangue impuro. Che questa paura sia un peccato da purificare; che questa battaglia sia dimora di Dio e perdono del Padre. Andiamo incontro al nemico, carichi di dolore e vendetta. I mostri sono da calpestare per raccontarlo, prima di andare a letto, ai bambini. Non saremo mai pronti a lasciarci andare. Il nostro amore è il nostro amore. Noi siamo la falce che insegna al grano la musica della vita. Nessuno può uccidere i nostri sogni e la nostra sicurezza. Ecco l’assassino, arriva di nascosto, ruba il lavoro e la famiglia, mangia il cibo che trova per le strade, vive nell’ombra e sgozza sotto i ponti le nostre gole pronte a cantare. Da cosa nasce cosa. Il ministro ha assegnato il caso al poliziotto più competente. Lui ha catturato l’assassino e si prepara alla prossima battaglia. Eccolo sulla spiaggia. Sente il tonfo della nave colpire la sabbia. Saltano giù i disperati e cominciano a correre. Lui ha preparato tutto: fa azionare le braccia metalliche per le reti. I pesci sono in trappola. Afferra il suo arnese di tortura e prende a punire nel nome di sua madre violata da questi sporchi bastardi. Sì, perché lui predice il futuro: sa che un giorno accadrà. Quindi colpisce. I crani si frantumano con un colpo secco alla nuca. La colonna vertebrale si spezza premendo il ginocchio sulla schiena con tutto il peso del corpo. Track. Il sangue cola, imbratta le vesti e la notte. Tutto il mare è una ferita che fugge via. Fino all’ultimo. Fino a quando sua madre non lo ringrazia dal regno dei cieli. E può gridarlo. Dirlo al mondo, soddisfatto: “Ci possono essere momenti più belli, ma questo è il nostro!3”>>.

1 Blaise Pascal

2 Czesław Miłosz

3 Jean-Paul Sartre

Bussola

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di Gianni Biondillo

Mathias Enard, Bussola, edizioni e/o, 418 pagine, traduzione di Yasmina Melaouah

Non basta vincere un Premio Goncourt – nello scorso 2015 – per giustificare l’enorme successo in Francia di Bussola, romanzo di Mathias Enard. Quattrocentomila copie per un libro dove, a conti fatti, non succede niente per oltre quattrocento pagine sono un mistero.

Bussola è la storia di una notte insonne. Franz, il protagonista del romanzo, è uno studioso specializzato in musicologia orientale. Si gira e rigira nel letto, senza prendere sonno. E allora pensa, ricorda, elabora, ragiona. Il tutto in un infinito flusso di coscienza ben rappresentato da pagine dense come muri, con pochi punti a capo, saltando di palo in frasca, senza un ordine logico.

Franz pensa sopratutto a Sarah, anch’essa orientalista, all’amore che prova per lei, lontana, distante, chissà dove. Pensa a come l’ha conosciuta, a tutte le volte che si sono incontrati. Ma tutto ciò, a ben vedere, è solo una scusa.

È dell’amore fra Oriente e Occidente che il romanzo in realtà parla. Enard, che è storico dell’arte ed orientalista lui stesso, sfoggia nelle pagine una erudizione davvero ammirevole. Fra nobili austriaci e sultani, fra compositori italiani e archeologi siriani, fra scrittori francesi e fumatori d’oppio egiziani, Fra Vienna e Palmira, Parigi e Costantinopoli, tutto il romanzo è un profluvio di aneddoti, curiosità, citazioni, intuizioni che cullano il lettore fino all’ultima pagina.

Ciò che ne esce fuori, chiusa la titanica avventura della lettura di questo romanzo lento, denso, affascinante, è un’idea meno banale di due concetti oggi così vilipesi dagli integralismi di ogni razza. Enard ci fa guardare alle culture orientali e occidentali non come ad un inevitabile scontro di civiltà, ma come a un infinito incontro amoroso. Un ponte, come quello sul Bosforo, che unisce Oriente e Occidente. Che lega Franz a Sarah.

(precedentemente pubblicato su Cooperazione n° 52, del 27 dicembre 2016)