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Verbosfiora

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di Joe Ross / traduzione di Andrea Raos

Toracecaldo risolinosalto parcoschermo invito materia
Sillabadipendenza carezza golagrattato biplano
Spallaingobbito lavoratoreperversione tambutobattito salariodirigente
Liberomercato crepasquadra incrociocultura falcato embriobistecca
Perifericamenteannegato trascuratezzacaduto amoreaffamato rimasuglio.

L’eleganza del Riccio (Ignazio)

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di

Francesco Forlani

 

Conosco Ignazio da molti anni e ho imparato a conoscerlo attraverso un bel progetto editoriale da lui curato insieme a Paolo Graziano. Ne animava le pagine  un coraggioso manipolo di redattori, cronisti, critici della cultura e dello spettacolo, penne finissime come quelle di Anna Smeragliuolo e di Giusi Marchetta, fotografi come Salvatore Di Vilio, solo per citarne alcuni. Sulle pagine di Fresco di Stampa quello che mi colpiva della scrittura di Ignazio, sia che si trattasse di editoriali o di inchieste era la sobrietà dello stile, l’incisività, l’asciuttezza della frase, quella concretezza che richiama la parola inglese concrete, cemento; the jungle concrete, la giungla di cemento potrebbe essere anche il titolo di quella Campania divisa tra Napoli e Caserta, quella per intenderci che coinvolge città come Aversa dal prefisso telefonico napoletano e dal codice postale casertano. Aversa, la città di cui Ignazio  è non solo uno storico cronista ma uno dei suoi maggiori animatori intellettuali, una delle voci, insieme a quella di Pino Montesano o di Salvatore D’Angelo, di quella radura che è la storica libreria Quarto Stato fondata da Ernesto Rascato.

Questa conversazione, tra Ignazio Riccio e Gianluca Di Gennaro  procede per condensazioni, divagazioni, tappe obbligate, quella di Scampia per esempio nel capitolo 7 , e riflessioni che offrono attraverso le parole del giovane attore napoletano veri e propri spiragli di vento, di correnti d’aria in grado di rendere respirabili luoghi altrimenti cupi, ossessivamente rinchiusi su di sé.

La storia di Gianluca Di Gennaro però non è solo la storia di un giovane attore che riesce a “cogliere” il momento giusto, a giocarsi le sue chance, il debutto a quattordici anni in Certi Bambini ( Premio Flaiano per la migliore interpretazione), le serie, soprattutto Un posto al soleLa Squadra e da ultima Gomorra dove interpreta lo zingariello, insomma di uno che nonostante the jungle concrete ce l’ha fatta. Il valore di questo libro è a mio avviso nel tono generale dello scambio tra i due autori, un tono senza retorica, quel tono di chi è interessato a sapere, più che a far  sapere, parlare più che far parlare. Il suo valore inoltre non va cercato nel memoir che data la giovane età del protagonista, ventotto anni, sarebbe un po’ prematuro, quanto nel tentativo costante di farsi testimone di questo tipo di narrazioni cinematografiche e attraversare con vere e proprie turnè il territorio per disinnescare certi pericolosi dispositivi di sovrapposizione fiction-realtà e certe altrettanto pericolose derive mimetiche che in questi nostri territori “di confine” della legalità ma non solo, visto il successo internazionale di Gomorra, sono all’ordine del giorno. Scrive così Ignazio:

“Scampia per Gianluca non è solamente una tappa lavorativa. Tra il giovane attore e gli abitanti del luogo, durante e, soprat- tutto, dopo le riprese de L’oro di Scampia, si è instaurato un rapporto speciale. L’incontro con Gianni e Pino Maddaloni e con le associazioni che operano per il rilancio del territorio, sommato all’affetto spontaneo dei ragazzi che vivono nelle vele, i cosiddetti borderline, sempre sul filo tra il bene e il male, hanno spinto Gianluca ad assumere un impegno morale e materiale nei confronti di questa gente, di cui lui stesso ci racconta.”

Ecco perchè auguro a Ignazio e Gianluca, al loro libro, di continuare a girare per le scuole, per i quartieri a rischio, facendosi oltre che testimoni messaggeri di un altro mondo possibile al di là di quello che viene solitamente raccontato.

ps

Pochi giorni fa in una delle due scuole medie in cui insegno, in quasi Normandia, un giovane che sembrava appena uscito da una strada dei quartieri, ma francese da almeno tre generazioni, con uno sguardo a metà tra la sfida e la complicità mi spara passandomi accanto : “song xxx di Scàmpia“. Mi sorprende, mi ha quasi battuto, ma poi faccio in tempo  a girarmi e a correggerlo: Scampìa, on dit Scampìa, je t’ai eu!

.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nota di lettura sull’attentato di Macerata del 3 febbraio 2018

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di Andrea Raos

Se il terrorista di Macerata abbia avuto dei complici, lo stabiliranno le indagini.

Gli ispiratori (i “mandanti morali”) devono essere oggetto di dibattito politico e sociale.

Ma io, quando ho letto i primi articoli dopo l’attentato, d’istinto mi sono detto “Che bravi che sono stati!”, al plurale.

Nomi

1

Paola SIlvia Dolci / Michaela D'Astuto, I processi di ingrandimento delle immaginidi Paola Silvia Dolci

 

i molti sessi dello sguardo

I.

p’tit caporal

i.
36 nodi di vento contrario
il mare è un toro meccanico
ho visto due delfini e una sirena
spaventosa

ii.
carte postale, île rousse
ogni mattina offro il caffè ai pesci
e pianto un seme di albicocca nella sabbia
stasera ti scrivo dalla rhumerie, brugal,
coi mori sotto i platani le cosce incollate
sono così disordinata che sospetto
mi gettino i libri fuoribordo

Ai direttori e alle direttrici delle reti televisive e delle testate giornalistiche

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Siamo studiosi e studiose, scrittori e scrittrici, preoccupati dal dilagare dell’odio nei media italiani. Odio verso le donne, i migranti, i figli di migranti, la comunità Lgbtq. Un odio che è ormai il piatto principale di moltissimi talk show televisivi nei quali vige da tempo la politica dei microfoni aperti, senza nessuna direzione o controllo. E spesso le parole che escono fuori da alcuni dibattimenti televisivi sono parole che mettono fortemente in crisi o addirittura contraddicono l’essenza stessa della nostra Costituzione, il richiamarsi a un patto antifascista e democratico.

L’attentato di Macerata, dove un simpatizzante neonazista ha cercato la strage di uomini e donne africani, è qualcosa che ci interroga nel profondo. Le vittime sono diventate il bersaglio di un uomo la cui azione terroristica si è nutrita della narrazione tossica veicolata non solo da internet ma anche dal mainstream mediatico. Dopo quello che è successo non possiamo restare in silenzio. Serve una maggiore assunzione di responsabilità, serve un nuovo patto fra chi fa comunicazione e i cittadini.

Le parole di odio, lo abbiamo visto chiaramente, possono tradursi in atti di violenza omicida. Azioni che, acclamate e imitate, rischiano seriamente di innescare una spirale di violenza. Per noi è evidente che il nodo mediatico ha contribuito a produrre e legittimare lo scatenarsi delle pulsioni peggiori. Per questo chiediamo ai media di non prestare più il fianco alla propaganda d’odio, ma di compiere anzi uno sforzo nel contrastarla. Intere fette di società (per esempio i migranti e i figli di migranti) nella rappresentazione mediatica esistono pressoché solo come stereotipo o nei peggiori dei casi come bersaglio dell’odio, contraltare utile a chi fa di una propaganda scellerata il suo lavoro principale.

Sappiamo che nei media lavorano seri professionisti che come noi sono molto preoccupati per la piega degli eventi. Servono contenuti nuovi, modalità diverse, linguaggi aperti e trasparenti. Non possiamo permettere che nel 2018, ad 80 anni dalle leggi razziali, ritornino quelle parole (e quegli atti) della vergogna. Dobbiamo cambiare ora e dobbiamo farlo tutti insieme. Ne va della nostra convivenza e della nostra tenuta democratica.

Quello che chiediamo non è un superficiale politically correct. Chiediamo invece una presa in carico di un mondo nuovo, il nostro, che ha bisogno di conoscersi e non odiarsi.

Antonio Gramsci scriveva: Il vecchio mondo sta morendo. Quello nuovo tarda a comparire. E in questo chiaroscuro nascono i mostri. Dipende da noi non lasciar nascere questi mostri. Dipende da noi evitare che torni lo spettro del fascismo nelle nostre vite. Per farlo però dobbiamo lavorare in sinergia e cambiare i mezzi di comunicazione. E dobbiamo farlo ora, prima che sia troppo tardi.

Vanessa Roghi
Helena Janeczek
Igiaba Scego
Sabrina Varani
Christian Raimo
Paolo di Paolo
Michela Monferrini
Frederika Randall
Graziano Graziani
Francesca Capelli
Shaul Bassi
Loredana Lipperini
Shulim Vogelmann
Amin Nour
Reda Zine
Sabrina Marchetti
Amir Issa
Alessandro Triulzi
Francesco Forlani
Fiorella Leone
Francesca Melandri
Ilda Curti
Marco Balzano
Alessandro Portelli
Attilio Scarpellini
Filippo Tuena
Francesco M.Cataluccio
Laura Bosio
Gianfranco Pannone
Antonio Damasco
Franco Buffoni
Evelina Santangelo
Caterina Bonvicini
Lisa Ginzburg
Camilla Miglio
Emanuele Zinato
Andrea Inglese
Andrea Raos
Maria Grazia Meriggi
Alessandra Di Maio
Roberto Carvelli
Francesco Fiorentino
Grazia Verasani
Caterina Venturini
Alessandra Carnaroli
Lorenzo Declich
Gennaro Carotenuto
Silvia Ballestra
Chiara Valerio
Marco Belpoliti
Paola Caridi
Marco Missiroli
Alessandro Robecchi
Valeria Parrella
Nicola Lagioia
Enrico Manera
Jamila Mascat
Maria Luisa Venuta
Rossella Milone
Giacomo Sartori
Antonella Lattanzi
Barbara del Mercato
Amara Lakhous
Rino Bianchi
Carola Susani
Roberto Carvelli
Isabella Perretti
Rosa Jijon
Davide Orecchio
Antonella Lattanzi
Simone Giusti
Simone Siliani
Alberto Prunetti
Chiara Mezzalama
Elisabetta Mastrocola
Teresa Ciabatti
Andrea Tarabbia
Antonella Anedda
Elisabetta Bucciarelli
Francesco Fiorentino
Paola Capriolo
Paolo Morelli
Simona Vinci
Giorgio Vasta
Orsola Puecher
Anna Tellini
Marina Della Bella
Antonio Scurati
Vins Gallico
Daniele Petruccioli
Enrico Macioci
Maria Grazia Calandrone
Eraldo Affinati
Elena Pirazzoli
Leonardo Palmisano
Emiliano Sbaraglia
Maura Gancitano
Marco Mancassola
Rosella Postorino
Alessandra Sarchi
Carlo Lucarelli
Giorgio Pecorin
Gianni Biondillo
Ornella Tajani
Mariasole Ariot
Giorgio Fontana
Girolamo Grammatico
Francesca Ceci
Brunella Toscani
Tommaso Giartosio
Attilio Scarpellini
Simone Pieranni
Elisabetta Liguori
Giuliano Santoro
Orofino di Giacomelli
Maria Grazia Porcelli
Giovanni Contini
Federico Faloppa
Federico Bertoni
Flaminia Bartolini
Dario Miccoli
Emanuela Trevisan Semi
Alessandro Mari
Tommaso Pincio
Laura Silvia Battaglia
Anna Maria Crispino
Andrea Bajani
Renata Morresi
Francesca Fiorletta
Federica Manzon
Angiola Codacci Pisanelli
Alessandro Chiappanuvoli
Società italiana delle Storiche
Benedetta Tobagi
Giuseppe Genna
Fabio Geda
Daniele Giglioli
Angelo Ferracuti
Alessandro Bertante
Riccardo Chiaberge
Giorgio Mascitelli
Gherardo Bortolotti
Annamaria Ferramosca
Anita Benedetti
Letizia Perri
Luisella Aprà
Masturah Atalas
Rosalia Gambatesa
Barbara Summa
Lorenzo D’Agostino
Anna Toscano
Fabrizio Botti
Chiara Veltri
Sergio Bellino
Barbara Benini
Valentina Mangiaforte
Maria Motta
Emanuele Plasmati
Giuseppe Maimone
Paolo Soraci
Pina Piccolo
Graziella Priulla
Leonardo Banchi
Valentina Daniele
Massimiliano Macculi
Susanna Marchesi
Corrado Aiello
Giovanni Scotto
Liliana Omegna
Domenico Conoscenti
Francesco Falciani
Mario Di Vito
Ileana Zagaglia
Maria Elena Paniconi
Antonio Corsi
Stefano Luzi
Nicola Marino
Barbara Lazzarini
Antonella Bottero
Camilla Mauro
Pietro Saitta
Gianni Montieri
Francesca Del Moro
Adam Atik
Maurella Carbone
Sabrina Fusari
Francesa Perlini
Antonella Bastari
Donatella Libani
Alessandra Pillosu
Lidia Massari
Gianni Girola
Andrea Fasulo
Lidia Borghi
Roberta Chimera
Gaetano Vergara
Camilla Seibezzi
Lisa Dal Lago
Nicoletta Mazzi
Annamaria Laneri
Sandra Paoli
Cristina Nicoletta
Leonardo De Franceschi
Olga Consoli
Chiara Barbieri
Valentina De Cillis
Letizia Perri
Angelo Sopelsa
Alessandra Greco
Simone Buratti
Giacomo Di Girolamo
MariaGiovanna Luini
Costanza Matafù
Lorenza Caravelli
Elena Maitrel Cavasin
Leopoldina Bernardi
Donatella Favaretto
Simona Brighetti
Margherita D’Onofrio
Ivana Buono
Manuela Olivieri
Maria Cristina Mannozzi
Helleana Grussi
Elisabetta Galeotti
Antonio Sparzani
Lorenza Miceli
Laura Califano
Lucio Nalesini
Giulio Cavalli
Simona Filippini
Daniele Fusi
Tiziana Barillà
Francesca Riolo
Cristina Cobianchi
Vincenzo Mastropirro
Federica Rocco Contin
Paola Andrisani
Sergio La Chiusa
Federica Pulin
Meris Angioletti
Paola Minoia
Paolo Dilonardo
Giacomo Raccis
Michele Turazzi
Massimo Cotugno
Alessandro Mantovani
Moira Mattioli
Francesco Gabellini
Chiara Bertone
Margherita Becchetti
Maria Cristina Scarfia
Ettore Siniscalchi
Giuseppe Prosperi
Simone Bachechi
Francesco Iacono
Giulia Bondi
Seia Montanelli
Cristiania Panseri
Vincenzo Bagnoli
Simone Ghelli
Cristina Schiavone
Tatiana Petrovich Njegosh
Marta Bonetti
Caterina Davinio
Stefania Nardini
Evelina Crespi
Cristina Cilli
Giovanni Pinto
Giovanna Caporale
Annamaria Giannini
Giuliana De Rosa
Paolo Polvani
Silvia Palombo
Carla Toffolo
Laura Papini
Giulia Lucarelli
Emanuele Secco
Marina Loro
Marcella Corsi
Elena Cimenti
Alberto Ibba
Eda Marina Lucchesi
Riccardo Corrieri
Barbara Tasca
Marina Mercaldo
Domenico Andreoli
Simone Barillari
Maria Anderlucci
Donatella Degani
Giulio Calella
Francesca Coin
Antonio Montefusco
Nicola Perugini
Alberica Bazzoni
Maria Cristina Bertolo
Alberto Piccinini
Paola Rondini
Ada Tosatti
Giuseppe Rizza
Damiano Sinfonico
Eugenio Lucrezi
Ivana Spaggiari
Rossella Noviello
Ettore Marini
Giovanni Solinas
Alessandro Vecchi
Marco Giovenale
Gianluca Cangemi
Alessandra Terni
Filippo Brunetti
Simone Zafferani
Lina Gonnella
Luciana Losi
Antonio Castore
Primula Bazzani
Federica Sgaggio
Anna Cascella Luciani
Clara Nubile
Sandra Conti
Carmine Vitale
Maria Grazia Sampietro
Lorenzo Mari
Marco Vitale
Caterina Sala
Daniela Palumbo
Marta Barone
Federico di Vita
Marco Giacosa
Claudia Puddu
Vincenzo Neve
Jolanda Guardi
Nadia Pedot
Domenico Vuoto
Viviana Fiorentino
Lucia Marchitto
Aurora Delmonaco
Simona Baldelli
Daniele Dottorini
Daniele Barresi
Pasquale Polidori
Iacopo Ninni
Giusi Montali
Olimpia Affuso
Annalisa Pomilio
Kristine Maria Rapino
Livio Romano
Annalisa Lo Pinto
MDaniella Svanini
Aloisia Iocola
Maurizio Cometto
Maria La Tela
Roberto Plevano
Giulio Mozzi
Alessandro De Vito
Andrea Breda Minello
Vincenzo Maccarrone
Andrea Lanini
Francesca Genti
Romano A. Fiocchi
Cristina Mariani
Martina Gambini
Massimiliano Manganelli
Mirco Bovini Casciola
Sabrina Minetti
Marco Riccini
Françoise (Kika) Bohr
Sergio Renzetti
Paola Silvia Dolci
Marta Bricco
Enrico Parizzi
Marco Benazzi
Sandra Mici
Gloria Gaetano
Debora Barletta
MIchela Zucca

 

Lettera aperta alla comunità maceratese (a tutela di quanto si è lasciato fuori)

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[ricevo e pubblico la lettera di Giorgiomaria Cornelio, giovane autore che da due anni vive a Dublino, ma ha vissuto i precedenti 19 a Macerata. E’ un appello complesso, che stasera mi pare tanto più prezioso. Dopo aver vissuto il panico e lo choc di una città sotto assedio ieri mattina, la furia e i fattoidi dei social, la solidarietà irresponsabile di alcuni, e poi le parole semplificatorie e roboanti di vari commentatori politico-televisivi, e ancora la rabbia e l’incredulità a ripensare alla messa in scena dell’attentatore, la foto fattagli in caserma che gira tra i social in stile rivendicazione jidahista, dopo questa massa di pulsioni incontrollate, bisogna subito tornare a pensare, e profondamente, e a rinsaldare una tradizione antifascista e una vocazione all’apertura che qui è ancora ferma, compatta, anche tra i più giovani. rm]

Cari compagni,

la violenza imperdonabile è un sigillo di trascuratezza: consiste, cioè, nel misconoscere con ostinazione il carattere di una città. Nel pretendere, scioccamente, che si faccia parte di una comunità poiché si è italiani, indigeni, figli dei padri. Casa è, piuttosto, il luogo eletto a dimora del proprio nomadismo, del proprio rivolgimento, della propria testimonianza di passo: abitare non solo un paese, ma un’aria che si progetta come indizio di comunità. Macerata abita, da troppo tempo, soltanto la fodera della propria geografia, dimenticando la sua vocazione sotterranea, le sue arborescenze tutte sparse per gli anfratti, le sue presenze e i suoi “roveti ardenti” d’inarrivabile poesia. Per viverla, questa Macerata, occorrerebbe inventarsi (una volta ancora) di essere stranieri nella lettura dei suoi luoghi per restaurare una smemoratezza che è, nello stesso momento, un obbligo a ricordare, a sporgersi un tratto su un istmo di memoria che sempre allude a un oblio d’acqua. Si tratta di farsi custodi di un appello, di appellarsi a quanto per l’immediato ci è sconosciuto, ad una promessa di non appartenenza catacombale. L’unica storia possibile, ora, è la storia dei fiati lasciati fuori, delle testimonianze rimaste inascoltate che pure costituiscono un progetto a venire, e che per questo vanno custodite: una città è quanto sempre veniamo facendo, non quanto è dato per fatto. Un poeta maceratese, Remo Pagnanelli, scrisse:

«Forse, se ascolti bene, c’è l’eco di qualcosa che è accaduto prima e che, non per imitazione, lo ripeto, è innominabile. Altro non esiste e se doveva esserci è restato nel cielo delle infinite possibilità. Cercale anche per me.»

I fatti di questi giorni sono gli indizi di una violenta approssimazione: l’ostinarsi a rivendicare un’identità che sola garantirebbe la qualifica di “veri cittadini”. Ma costituire una comunità vuol dire sfollare la definizione dei suoi dati certi e smentire la naturalità del “primo uomo”.
L’urto sismico costringe a ridefinire la propria geografia nella stessa maniera in cui una scossa sociale dovrebbe essere intesa come radicale occasione per ritrattare i propri modelli: farsi stranieri in casa propria è, oggi, una necessità ineludibile. Un piano di edificazione è possibile laddove si è disposti ad abolire le qualifiche e le specifiche fissate come immutabili, e laddove si è disposti a cercare e a custodire quanto trabocca dalla propria cronistoria cittadina.
Non è più tempo, oramai, di liturgie della distruzione.

Giorgiomaria Cornelio

 

 

 

 

 

 

Facciamo un esempio. Simonetta Spinelli

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di Jamila Mascat

 

A fine 2017  DWF ha dedicato un numero speciale a Simonetta Spinelli, venuta a mancare a febbraio dello scorso anno.  Il numero raccoglie tutti i suoi scritti  – Scritti politici– pubblicati su DWF tra il 1986 e il 1998, anni in cui Simonetta ha fatto parte della redazione della rivista. Ciascun testo è stato riletto e introdotto  – si legge nella presentazione del numero – da donne “che con lei hanno avuto una relazione significativa”. Mi sono sentita per molti versi un’intrusa in mezzo a questo gruppo di donne, intime compagne di Simonetta, che per lei  hanno certamente significato molto. Posso dire, a mia volta, che l’incontro con i suoi scritti ha significato tanto per me.

Mi è stato chiesto di rileggere un testo del 1993 intitolato Le faccio un esempio, che ripubblico qui sotto (e a seguire la mia rilettura per DWF).

Questo l’indice del numero

MATERIA

Poesia
Edda Billi

Sì, Simonetta è proprio ancora come dicevi tu
RILETTURA DI JE NE REGRETTE RIEN, 1986
Patrizia Cacioli e Paola Masi

Chi ha parlato per noi?
RILETTURA DI IL SILENZIO È PERDITA, 1986
Francesca Manieri

Fantascienza. Nuovi mondi e nuovi corpi
RILETTURA DI DEL SESSO E DI ALTRE ALIENE QUOTIDIANITÀ, 1991
Liana Borghi

Il lesbismo come politica
RILETTURA DI NELL’INSIEME E NEL DETTAGLIO, 1991
Bianca Pomeranzi

Facciamo un esempio
RILETTURA DI LE FACCIO UN ESEMPIO, 1993
Jamila Mascat

Decostruire – Ricostruire l’immaginario
RILETTURA DI HO FATTO A PEZZI LA REGINA CRISTINA, 1998
Monica Pietrangeli

SELECTA

ELENA GENTILI. LA MIA PRESENTAZIONE PER DWF, 1993
Simonetta Spinelli

Recensioni a cura di Simonetta Spinelli, 1994-1998

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Le faccio un esempio 

di Simonetta Spinelli,  DWF, 1993,1 (17), pp. 18-21

Un corso di aggiornamento – tema: prove oggettive di valutazione – in cui vengo edotta su come misurare i livelli di apprendimento della popolazione studentesca che ho davanti, con la formula matematica x per  fratto c (margine di casualità delle risposte). Una classe – tema: un’insegnante poco seria in azione (si fa per dire) – e Vanessa che suda e cambia colore perché ha deciso (lei, io nemmeno ci provo) di farsi ‘verificare’ (ma lei non lo sa che le interrogazioni nei recenti progetti ministeriali si chiamano verifiche.

Anche Vanessa è una studente poco seria. Mangia a tutte le ore, soprattutto quando è a dieta.

I grafici sono labirinti in cui inciampa, rotola, si perde. I suoi ormoni entrano in agitazione solo quando vede la sua cavalla – e di ciò dà ampia testimonianza scrivendo Prune in ogni spazio libero del banco (nel senso di spazio non precedentemente occupato da disegni di cuori con scritto dentro Prune). Il margine di casualità delle risposte rappresenta la sua metodologia di studio. Se affronta, sudando e soffrendo, l’interrogazione è solo perché non vuole perdere la faccia con me (mi ama, per quanto trovi insensata la mia fissazione per l’economia). Per lei sono un’eccentricità culturale. Conosco un mucchio di parole e di cose. Sono il suo vocabolario e la sua enciclopedia. Le evito di fare le scale per raggiungere la biblioteca. Chiedermi spiegazioni ai più disparati quesiti è meno faticoso. Se non avessi il vizio di ossessionarla con la fatidica frase: “Fammi un esempio”, per lei sarei quasi perfetta. La ricerca degli esempi è il suo prezzo da pagare ad un insegnamento non convenzionale, ma le risolve, in fondo, il problema dei grafici. Per il resto, grazie al cielo, io sono io e il mondo è il mondo. E del mondo conosce le regole, e dove non conosce, e non trova esempi, rintraccia scorciatoie. E utilizza, per ovviare alla mancanza di logica e al disinteresse costante per tutto ciò che non somigli a un cavallo, la sua enorme carica empatica. Fa il cucciolo. Si fa adottare. Le riesce, a volte, anche con me. Comunque tenta. E allora mi guarda con l’aria di una che si vuole far perdonare, perché ha imparato un’altra lezione più antica, che non è la mia ma funziona: se non trovi l’esempio svicola, distrai, aggira, mimetizzati.

Per Vanessa il femminile è questo. Poi esiste l’autorità: un incrocio dove il maschile e il femminile vivono una confusione di generi che – se avesse le parole per dirlo – chiamerebbe neutro, ed esprime una mozione d’ordine. Io non sono un’autorità perché non esplico funzione magistrale. Perché credo che l’unico magistero possibile sia “fare un esempio”. E che l’esempio sia altro dalla mozione d’ordine. Che codifica il linguaggio invece di inventarlo e blocca, così, proprio la sua funzione eccentrica di dire altro, di dire un po’ più in là. Quello che non è stato detto. E che Vanessa rintraccia, a volte, solo nella materialità della sua vita, quando mi sorprende, nel tentativo di spiegarmi l’ultima prodezza della sua passione, e rotola sulle parole note, e si intriga e poi, all’improvviso, le si accende di complicità lo sguardo, e mi racconta – su un patto di ascolto che dà per fondato tra me e lei, e in cui si dimentica che mi vive come un’eccentricità culturale – “Prune, sa… le faccio un esempio”. Ciò che fa ostacolo tra lei e me – e fa sì che Vanessa legga in termini di eccentricità culturale la consapevolezza di essere un soggetto sessuato e la visione del mondo che ne deriva – è la mancanza di un’autorità femminile, nel senso di autorità di un soggetto collettivo che rimanda immagine, tanto da rendere possibile il collegamento tra la sua materialità di vita e la mia in un orizzonte di senso comune. Al di fuori di questa mediazione, il passaggio di consapevolezza è parziale ed episodico, legato ad un ascolto che non si pone come regola di necessità, ma viene utilizzato a senso unico, e ritradotto in termini di attitudine caratteriale, disponibilità da dama di S. Vincenzo o altro (che nessuna, per favore, mi venga a spiegare che anche le dame di S. Vincenzo nel loro piccolo ecc., perché non è qui il punto).

La teorizzazione è fondata, ma mi sembra che grande sia la confusione sotto il cielo stellato. Vanessa, se non fosse Vanessa, mi chiederebbe: “Mi faccia un esempio”.

Questo mi sembra faccia ostacolo: abbiamo perso la capacità di esemplificare. Il che non è senza conseguenze. La forza del movimento è stata costruire pensiero e dimensione culturale aperte, in espansione, in cui ognuna poteva rintracciare il senso che partiva dalla sua vita e alla sua vita restituiva rimandi. L’autorevolezza collettiva era costituita da un costante lavoro di svelamento da cui, chi da quell’appassionamento si lasciava prendere, come da un’irrimandabile necessità, era partecipe e beneficiaria. La costruzione di linguaggio si articolava su una miriade di esperienze singole e collettive, di interpretazioni che sedimentavano una cultura altra: ogni esperienza esemplificativa di un punto che rafforzava trama di rapporti e colore. Costruire somiglianze e appartenenze era costruire parallelamente la reciproca necessità di ascolto. Segnale in un rumore di fondo continuo, la voce dell’altra/delle altre era la banda sonora verso la quale indirizzare la propria voce, evitando dispersioni nel vuoto. Abbiamo insieme assunto lo spazio come spazio nostro. Spazio di un corpo, di luoghi, di discorso. Del farsi corpo, luogo, discorso verificavamo – per esempi – gli esiti.

Proprio sugli esiti c’è stato un arroccamento. Ognuna ha scelto il suo esito. E questo ha spostato l’attenzione dal collettivo al singolare, dalle pratiche alla pratica, dall’autorevolezza all’autorità.

Se individuo un esito come l’unico possibile, non ho bisogno, né desiderio, di ascolto. L’ascolto mi fa perdere energia, mi distrae dal mio esito. Il percorso che ignoro, all’ascolto del quale mi chiudo, è come se non esistesse e, quindi, non crea dissonanze con il mio. Né mette in discussione l’equilibrio che quell’esito e quel percorso stabilizzano. Ma un percorso che ho, scientemente, deciso di non conoscere, mi evita la fatica di esemplificare. Perché l’esempio serve a chi considera necessità politica l’ascolto. Funziona a doppio senso. O non funziona. Se non episodicamente per la solita banale casualità. Se l’ascolto non è una necessità, e può essere interdetto, fondare autorevolezza collettiva è fatto di scarso rilievo. Prioritario è il rafforzamento di un’autorità, che è tale perché capace di trasmettere quell’esito, indiscusso perché dato come indiscutibile. In quest’ottica, autorevole non è ciò che svela senso, ma ciò che – collegato all’autorità – svela e ripete quel senso. E ripropone negli stessi termini – perché deve riprodurre quell’esito – la medesima forma di autorità: genealogicamente definita da tratti somatici simili a quelli trasmessi da madre in figlia (anzi più somiglianti, visto che i padri nel DNA delle figlie riescono sempre ad infilarsi).

Correlata a questa iperfetazione dell’autorità è la proliferazione massiccia non di figure femminili (che era quanto qualcuna di noi si augurava) ma di ‘eccentricità culturali’. Cioè di individualità femminili scollegate le une dalle altre, definibili attraverso caratterizzazioni più macchiettistiche che politiche. Semplificazioni per stereotipi: la lesbica, la filosofa, la stravagante. Ordini di scuderia al posto di donne concrete che costruiscono spazio di libertà: sei “della differenza sessuale” o “del pluralismo democratico”. Il Palio di Siena – direbbe Vanessa – si corre per contrade. La banalizzazione è oppositiva: o/o. Non ammette sfumature né passaggi. Fissa un codice di stretta osservanza, traducibile solo attraverso parametri dati. Prevede una regola rigida e un meccanismo sociale di controllo. Al contrario dell’esemplificazione, che tende a riassumere la singolarità dell’esperienza ma, nello stesso tempo ne evidenzia percorso ed esiti, e ne restituisce un senso passibile di essere applicato a situazioni altre. Non fonda categorie ma metodologia di indagine. E proprio per questo è trasmissibile, in quanto allarga la dimensione del possibile senza immediatamente costruire una gabbia.

Se non esiste questo rimando dall’esperienza singola a quella collettiva e viceversa, se non assumo la stravaganza, rispetto a me e rispetto ad un’altra donna, come categoria conoscitiva, e non rintraccio nel mio e nel suo essere eccentrica ad un codice, e negli esiti di svelamento che tale eccentricità produce, il punto di incontro e di comunicazione che costruisce tra noi discorso, probabilmente avrò fondato un equilibrio, ma non libertà, né autorità femminile. Sarò al più quella dispensatrice di mozioni d’ordine, che Vanessa a volte teme e a cui a volte aspira, perché – come dice lei – “Quel povero cavallo mio non ne può più dell’economia”.

 

*** 

Facciamo un esempio

di Jamila Mascat, DWF,2017, 1 (113)

Comincio facendo un paragone, non un esempio, che forse a Simonetta non sarebbe stato gradito. Lo faccio per deformazione professionale (il mestiere è affibbiare concetti a fenomeni, e viceversa), ma anche per distinguere meglio, non per assimilare. In un saggio sul metodo, intitolato “Che cos’è un paradigma?”, G. Agamben illustra le virtù di questa forma esemplare per la ricerca in filosofia, da Kant a Kuhn passando per Foucault. Per Agamben, il paradigma, che in greco è “esempio”, permette a chi conduce l’indagine filosofica di  isolare e comprendere figure, connettere eventi ed espedienti, produrre scomposizioni e ricomposizioni, espandere e inventare.  L’intento che anima il discorso di Agamben  non è pedagogico né politico, ma metodologico, sebbene  l’autore, citando Heidegger, esprima un certo disagio nei confronti della speculazione su questioni di metodo: quasi si trattasse di affannarsi ad affilare coltelli quando in realtà  non c’è nulla da tagliare.

Simonetta sceglie l’esempio per “la sua funzione eccentrica di dire altro, di dire un po’ più in là”. A voler fare etimologia da bar, si direbbe che mentre il paradigma indica, mostra e dimostra (παραδείκνυμι), l’esempio opera una trazione, un’estrazione, un movimento centrifugo, qualcosa che somiglia più a una scoperta che a una prova (eximere).

L’esempio è eminentemente politico e pedagogico perché è il primum dell’impegno, perché nuoce gravemente al solipsismo, perché consente l’esercizio di un’euristica dal basso. Nulla a che vedere con gli exempla medievali, nessuna esemplarità da erigere sul piedistallo per combattere le forze del male e le tentazioni eretiche; nulla a che vedere con le mozioni d’ordine, come dice Simonetta.

Piuttosto nell’esempio si condensa la fatica genuina di scoprire e condividere quel che è proprio, e che non merita di rimanere relegato nei confini angusti delle singolarità-a-tutti-i-costi o nella gabbia delle “eccentricità culturali”.

“Abbiamo perso la capacità di esemplificare”, scrive. Abbiamo smesso di considerare fondamentale e doveroso il compito di parlare per essere comprese? Abbiamo  dimenticato che partire da sé non significava rimanere al punto di partenza? Abbiamo frainteso?

Le mie studentesse di Gender Studies, studente direbbe Simonetta, student* direbbero loro, hanno un’idea troppo pudica, o semplicemente distorta, della parola femminista. Ne fanno una parola timida e modesta che può pronunciarsi solo alla prima persona singolare, che può parlare per sé e di sé, ma difficilmente può parlare d’altro (di ciò che non ha sperimentato, vissuto, toccato con mano) e ancor meno può parlar d’altre. Tutto quel che trascende la membrana del sé finisce male e rischia d’imbattersi in due peccati capitali : l’impostura o l’astrazione. Le invito a peccare in continuazione, ma con scarso esito e con un certo rammarico.

Giovedì, di nuovo, si parlava in classe di astrazioni. “Donne” sarebbe una di quelle glaciali astrazioni, fuori moda e impronunciabile. E se dicessimo “patriarcato”, “sfruttamento”, “libertà”, “imperialismo”? Ancora astrazioni impietose, colpevoli di radere al suolo la miriade di cose, modi e maniere plurali che fioriscono su questa terra, con il solo scopo di renderle nominabili e, per approssimazione, in un certo senso, comuni. Possiamo davvero farne a meno?

Ho suggerito che possiamo, e che anzi dobbiamo, permetterci di astrarre quanto basta per salvaguardare un mondo condiviso dalla minaccia dei linguaggi privati e dei private jokes che non divertono nessuno.

Poi ho tirato in ballo Simonetta, ho scritto il suo nome alla lavagna con un pennarello verde scuro, e ho usato il suo esempio degli esempi. Che non fa appello all’astrazione, ma è servito a perorare la causa dei rimandi ad altro contro quella dei vissuti a circuito chiuso. L’esempio è un fenomeno singolare, concreto e ben radicato da qualche parte, che si lascia volentieri trasportare altrove. Dovremmo prendere esempio dagli esempi, esigere di essere trasportabili, forse non ovunque, ma da qualche parte.

Alla fine ho fatto un esempio, distopico: come sarebbe un mondo in cui nessuna è più capace di esemplificare? Rinunceremmo a conoscerci. Non avremmo più nulla in comune. Perderemmo comunanza, ridotte a fare comunella. Smetteremo di tradurci l’una per l’altra. Non avremmo niente da imparare. Ci resterebbe poco da fare, in effetti. Forse solo chiamarci per nome, e poi retrocedere in silenzio, a riposo.

Prove d’ascolto #22 – Silvia Tripodi

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Usabilità della prosa
(2015-16)

 

il Buddha è grande
il Buddha non si sa se sia buono o cattivo
è una divinità
di base il Buddha è fermo
la staticità è una delle sua virtù
non si dice fermo come un Buddha
la fermezza di un Buddha
la grandezza di Buddha invece si dice
non si dice ha la fermezza di carattere di un Buddha
o ha la caparbietà di un Buddha
quello che sappiamo di Buddha ci proviene spesso dalle immagini sui libri
o dalle storie leggendarie rappresentate nei film
si dice adorato come un Buddha
a qualcuno preme di sapere quanto pesa la grande statua del Buddha
qualcuno è curioso di conoscere la stazza del Buddha
l’immagine del Buddha è quello che sappiamo del Buddha
se non approfondiamo le nostre conoscenze a riguardo
tra il Buddha e noi che grado si separazione esiste
immagiamo sia un grado di separazione molto alto
per questo a volte rinunciamo a comprendere chi fosse e cosa ha fatto
se è esistito veramente
ci sono statuette molto piccole
e ci sono grandi statue del Buddha
ognuna di esse ha una funzione
molti pensano che possedere una statuetta del Buddha significhi
qualcosa di buono
non si sa di preciso se porti influssi buoni
ma è sempre rassicurante vederne una
in un appartamento
in mezzo ad altri oggetti
si pensa subito legami misteriosi
a storie avventurose
a decenni di vita passati a cercare
eravamo destinati a vedere la statuetta del Buddha
proprio in quell’appartamento
di colpo il cerchio si chiude
ce ne facciamo una ragione
abbiamo trovato riparo
siamo nel posto giusto

occorre fare un elenco di nomi
estratti da un manuale
stenderli spalmarli
un lungo elenco in ordine alfabetico
apri una pagina a caso e via
nomi di piante e animali
nomi rari e bizzarri
una serie di parole
una massa di parole
un elenco lunghissimo
che sostituisca una passeggiata
che riempia un’ora intera
che sia la metafora di una passeggiata
che sia la metafora di un’intera giornata
del tempo che ci occorre per arrivare dal punto x
al punto y
che serva alla memoria
che sostituisca un manifesto politico
che aggiri un testo civile
un elenco che aggiri il soggetto
che lo soverchi
che lo metta in primo piano
che lo metta ai margini
che lo aggiri
che sia l’oggetto del soggetto
il soggetto sia l’oggetto dell’elenco
che questo nominare le cose
che dirle assertivamente e non assertivamente
abbia un valore politico
assuma valore
consumi il valore
senza che questa pratica sia un modello
che ci sia l’intenzione
che non ci sia alcuna intenzione
che alla fine di detto elenco
resti l’eco della voce
le immagini a massa delle parole
le une sulle altre
le immagini
le intenzioni
le enunciazioni
ci si soffermi sulle intenzioni
una intenzione sull’altra
una folta schiera di intenzioni

un rifugio piano
di luoghi comuni
di sterpaglie di siepi
di viali di vicoli non ciechi
o anche ciechi
il rifugio è nella passeggiata
al posto della passeggiata
ai piedi del Buddha suddetto
al cospetto del Buddha di cui sopra
al centro dell’occhio del Buddha
proprio al suo centro
all’interno del suo occhio fermo
immobile remoto
che fissa un punto dello spazio
come l’elenco spalmato di parole
di termini fissati all’infinito su un piano
letteralmente liminale ai margini della statua del Buddha
se il Buddha si spostasse impercettibilmente
se almeno fossimo in grado di percepirne il movimento
per vedere scorrere l’infinito elenco di termini
i suoi pezzi uno sull’altro
se fatto a pezzi il Buddha
una volte per tutte
sostituire l’oggetto con il soggetto senza per questo
essere l’oggetto autentico della nostra intenzione
tutto il tremore e la coscienza di stare nei pressi di quei pezzi franti
dato che il Buddha è l’espediente e non è l’espediente
per esprimere questo tempo
che ci attraversa
attraverso questo spazio che ci attraversa
essere il rifugio del Buddha
che non cerca riparo
essere nel rifugio senza il Buddha
siamo comunque al riparo
dalla massa di parole spalmate
omesse intenzionalmente
che qui non si elencano i pezzi del Buddha fatto a pezzi
perché quello che preme dire
va messo da parte
è come non sentirsi a casa propria
non siamo nell’appartamento dove c’è la statuetta del sacro Buddha
un aggettivo basta e avanza a sovraccaricarci di una responsabilità
quindi mettiamocela tutta
o lasciamo stare
descrivere asetticamente Buddha e pezzi
farne un spartito ritmico
uno scarto
con tutto quello che ci sarebbe da dire
che cosa salta in mente
nella testa di chi non è il Buddha
pezzo dopo pezzo
io non sono il Buddha che cosa vi passa per la testa
non vi voglio menare per il naso
sono un soggetto che dice assertivamente
toglietemi il Buddha dalla testa
non offritemi riparo
non saldate il conto che vi presenta il senso comune
preparate una serie di lastre
fatevi visitare
fatevi fare a pezzi
da una serie di copie del Buddha
da una serie di elenchi camuffati da Buddha
salitevi addosso l’uno sull’altro
toccatevi fatevi male
datevi le forze dei vettori
senza lo slancio delle slavine

 

*

 

quanti zombi ci sono
dentro il film
gli zombi hanno passi lenti
sono dei vegetali in pratica
non hanno la capacità di scavalcare i cancelli
fanno vedere questi non morti
che si accalcano ai cancelli
o dietro le staccionate
che scalpitano e urlano
un modo per fare fuori uno zombi
è di colpirlo alla testa con un oggetto
fracassandogli il cranio
quando accade questo
un uomo si salva e si evita di diventare uno zombi
a sua volta
non si sa perché esistano né come riescano a uscire fuori
dalla terra
dalle fosse
si vedono sempre persone barricate nei supermarket
nascoste che cercano di non fare rumore
per non farsi scoprire
è molto difficile non farsi accorgere da uno zombi
quelli che ce la fanno
sono i bravi del film
i quasi sempre bravi nei film
i quasi sempre bravi nelle serie televisive
che fanno una bella serie televisiva sugli zombi
fatta bene girata bene come un film
dell’orrore che non fa spaventare troppo però
c’è molto sangue e corpi a brandelli
bravi attori che fanno la parte principale

l’attrice che recita la parte principale
sembra che abbia un problema
di base un problema relazionale
che traspare da alcuni dialoghi in alcune scene
questo viene riportato come se fosse importante
ai fini della riuscita del film
l’attrice accetta questa parte che è molto semplice
dovrà lottare con gli zombi
contro una massa di mostri che la vogliono far fuori
ci riuscirà malgrado in parallelo
i suoi problemi relazionali
si faranno sempre più difficili
è il bello della storia
fa parte della trama
c’è molta ansia nei corridoi deserti
l’ansia viene riprodotta anche con la musica
con un incalzare di immagini spezzate
montate apposta per fare più reali le scene
degli inseguimenti
lo zombi si accorge dell’attrice che è una persona
viva non ancora morsa
allora non bisogna assolutamente farsi mordere dallo zombi
bisogna costruire una trama differente
a un certo punto della storia
quando le forze vengono meno
e ci si accorge di avere le gambe pesanti
e il sole non è abbastanza alto
per vedere le cose all’interno del supermarket
quelli del film hanno spento le luci
vogliono davvero fare le cose credibili
in modo che non ci siano contraddizioni
scene ambigue passi maldestri

la mente di un uomo vacilla
tra un passo e l’altro
il cranio è la parte più pesante del corpo
fin dalla nascita
i muscoli si rafforzano
quelli dei gracili rimangono gracili
quelli dei più atletici si irrobustiscono
la testa dondola di qua e di là
lascia un mondo lontano
al di sopra del quale getta uno sguardo
se si trova in alto
abbassandosi solo un poco
in modo da non precipitare
teste molto pesanti si vedono dondolare
altre stanno ben ferme molto salde
sono alcuni crani di attori
che hanno studiato un modo
per non farsi schiacciare dalle idee
quelli che dal basso hanno la testa davvero pesante
che non possono in alcun modo risalire ai piani alti
per via di alcune trappole tra un piano e l’altro
tipo la porta che non si apre
e fa perdere del tempo prezioso
alla testa che intanto corre
di qua e di là
rimasti in basso quelli alzano lo sguardo
quel tanto che basta per capire che non ce la possono fare
allora per velocizzare il tutto
si fa emettere un suono sinistro non identificabile
e quelli che sono in basso sono spacciati

quanto buio occorre per fare una morte lenta
per fare la costruzione di una scena
dove uno muore
la penombra necessaria alla morte
è universale e cala
a lenta tenebra
come una nebbia che avvolge le cose
si cambia scena si restituisce il morso
restituisco il morso che mi aveva reso l’attore zombi
per farne polpette in un prossimo film
mentre ci si immedesima attraverso una metafora
un po’ banale
alla quale ci si affaccia bovinamente
abbassando le ciglia scrutando per terra
osservando i lati del discorso
scoscesi ai lati del discorso
quello del film o di quello che ti pare

quello che mi pare è lontano ed è vicino
è prossimo al morso simile alla morte diffusa
nelle metro che sono un’altra ambientazione tipica delle serie sugli zombi

pare che il problema relazionale abbia la meglio
presso gli uffici dove si hanno colleghi
dove ci si rapporta giornalmente con persone che fanno
il tuo stesso lavoro
allora la voce che senti nel film
torna a dondolare dentro la testa ben salda
tutto è saldo e fermo
come il sole con getto straniante di calore
al di là dei vetri una mattina che sei
pieno di buone intenzioni
che sei leggero che sai che la sera giungerà
alla stessa ora
in quel preciso momento senti che l’amore
che provi è racchiuso in uno scricciolo
o all’interno di una stanza lontana
per metà giornata
allora prosegui estraneo e indifferente
mentre il tuo amore passa e non passa
pesante e leggero
acuto e molle come un mollusco
con tutta la forza che serve al mollusco per rimanere
ben saldo allo scoglio

dimenticati gli zombi
il sapore della bocca è tutto dentro la bocca
spesa a margine dei costi sociali
fare patto con il personale che ti gira intorno
mentre te ne strafotti del tuo dovere
mentre pensi che il tempo a disposizione è poco
o che è bene orchestrato
per farti credere che può bastare
dal corridoio al morso
passano ombre lunghe che ti recano il sollievo della metafora
che sai solo tu
senza mezzi termini per dire
ci pensi come fosse una parte del lavoro che ti pagano per fare
ti hanno rovinato
vogliono rovinare occupando le teste più pesanti

il loro spazio verde
gli spazi riservati
quelli pubblici
una forma di vita che si tende da un’ora all’altra
fa una forma dell’uomo che non vuole morire
occupandosi di altra gente
facendo il suo dovere per fare una macchina ben oliata
che articoli bene i rami della costituzione
che ti hanno illuso che le teste più leggere
che ti hanno detto che quelle più pesanti
ogni passo ogni parola detta
persa la metafora della luce
la bellezza della luce la sua particolare gradazione
le luci che si accendono dentro le case
la morte di giocare senza il patema d’animo
la vita e tutto il suo corpo
nel corso del tempo
che cade dentro un abbraccio
si scambia la vista del giorno
con un margine di cosa
legandosi oggetti e amore
al discorso che ti resta
all’altra metà del tempo che ti resta
l’altra metà del tempo invece resta
al di fuori dello scambio
fuori di metafora resta
a memoria la serialità scivolosa del patto che hai istituito
con il mondo uno stupore meccanico ai piedi del Buddha
una noia grave le spalle del Buddha
povero Buddha strumentalizzato
braccato dal soggetto bisognoso di scambi
di oggettivare tutta la paura e le colline
i corridoi le strade
gli interni degli appartamenti
che non fanno testo

 

*

 

Usabilità della prosa in three stages

di Niccolò Furri

 

 

*

 

Usabilità de l’usabilità della prosa di Silvia Tripodi

di Simona Menicocci

L’usabilità è definita
come l’efficacia, l’efficienza e la soddisfazione
con le quali determinati soggetti cioè lettori
raggiungono determinati obiettivi in determinati contesti.
Quindi
l’usabilità definisce il grado di facilità
dell’interazione tra un soggetto e uno strumento
(console, leva del cambio, interfaccia grafica, prosa, poesia, ecc.)

Quindi
il termine non si riferisce
a una caratteristica intrinseca dello strumento, della prosa,
quanto al processo di interazione tra:
classi di soggetti cioè lettori, prodotto cioè testo e finalità.
È però d’uso comune l’uso
di questo termine in forma di aggettivo.

Il problema dell’usabilità si pone
quando il modello del progettista cioè dello scrittore
(ovvero le sue idee riguardo al funzionamento
del prodotto cioè del testo, che trasferisce sulla forma
del prodotto cioè del testo) non coincide
con il modello dell’utente finale cioè del lettore
(ovvero l’idea che l’utente cioè il lettore
concepisce del prodotto cioè del testo e del suo funzionamento).

Il grado di usabilità si innalza
proporzionalmente all’avvicinamento dei due modelli
(modello dello scrittore e modello del lettore).

Ma è anche vero che
usabile è un aggettivo disposizionale cioè una parola
che conferisce una disposizione
a fare o subire
qualcosa a qualcosa
ad esempio la prosa.

Ma una disposizione è effettivamente
tale se, e solo se, non si realizza sempre.
Infatti
la trasformazione dell’uso in usabilità
è realizzata dalle azioni del differire e dell’esitare
e comporta la negazione dell’uso
cioè la sua sospensione senza sostituzione
cioè non si fa qualcosa
nella misura in cui se ne prospetta la possibilità.
Quindi
usare la prosa
vuol dire usare il possibile
che nella prosa è contenuto, che alla prosa,
come ad ogni altra forma, strumento, pertiene.

Il carattere fisiognomico della prosa
è la continuità della frase all’interno
dello spazio della pagina, nessun a capo
se non quello forzoso del margine della pagina,
un blocco di testo, un mattone, una campitura.

Ma nel caso di Silvia Tripodi
e non solo in quello / questo
il testo va a capo
come nella poesia.

Quindi
il testo disattende le attese
costruite dal titolo, costringe
a una riconfigurazione cognitiva,
cioè una riconfigurazione ermeneutica
vista la non coincidenza, non familiarità,
con ciò che comunemente si sa o si pensa
rispetto alla prosa.
Cioè si mette in condivisione il risultato
di un esperimento in cui la prosa è stata usata
in modo differente.
Ma
non avendo utilizzato prosa preesistente,
non trattandosi di montaggio, cut-up, sought prose,
ciò che Silvia Tripodi sta usando
è l’idea, comune, di prosa.

Usare un’idea in modo differente
vuol dire fondare un’idea diversa
da quella comune.
Ma un’idea diversa
ha bisogno di un termine
nuovo, diverso, mentre qui viene usato
il non nuovo, non diverso, termine prosa.
Quindi
usare un’idea in modo differente
senza fondare un’altra idea
che a quella vi si aggiunge
e da quella si distingue
vuol dire ampliare lo spettro del significato
cioè del possibile
di quell’idea comune.

Ma è anche vero che
un’idea comune è una definizione
predeterminata
preconfezionata
quindi è un prodotto
disponibile gratuitamente nel capitale
della lingua cioè della società cioè della lingua cioè eccetera
che viene consumato e riprodotto
secondo modelli imposti
che vengono così confermati e perpetrati.

Quindi
un’idea comune è uno schema di pensiero
economico-politico
totalitario.

Quindi
il soggetto che pensa cioè che parla
nelle e con le idee comuni
è un ripetitore di modelli obbligatori e sovra-personali
quindi non sa
cosa fa quando parla non sa
perché parla come parla non sa
di appartenere a processi che gli fanno
vedere il mondo in determinati
(cioè predeterminati, quindi imposti, quindi forzati)
modi.

In questo modo il soggetto diventa anonimo
quindi il verbo diventa impersonale
acquista la forma del si pensa e si dice, poco importa su cosa.
Quindi
il discorso diventa una chiacchiera inconsistente
dove la vita si fa inautentica,
il mondo insignificante,
il linguaggio banale avvolgendosi
su se stesso cioè il parlare fine
a se stesso dove ciò che conta non è il valore
del discorso, ma la sua reiterazione coestesa:
le cose stanno così perché così si dice.

Ma un soggetto anonimo
che usa verbi impersonali
che fa discorsi inconsistenti
vive, pensa, parla,
a sua insaputa.
Ma se non sa
di essere un essere
vivo, linguistico, eterodeterminato,
è un soggetto desoggettivato, alienato,
quindi è un non morto
cioè uno zombi che cammina.

Oggi come oggi
gli zombi hanno molto successo.
Questo perché
al livello più elementare dell’identità umana,
tutti i soggetti sono degli zombie, lo zombi
è il grado-zero del soggetto
cioè una rappresentazione
della vita inumana che persiste
quando il significato della vita è assente
cioè è lo spazio cioè la distanza
tra morte simbolica di un soggetto e morte
fisica di un corpo.

Quindi
lo zombi è un corpo senza
la soggettività cioè mera vita biologica senza
una lingua nella quale quella, e anche questa, vita può essere
capita o comunicata
quindi
modificata.

Quindi
incontrare uno zombi è traumatico perché
il soggetto incontra sé senza sé.

Ma è anche vero che
per alcuni anche sapere
che gli zombi hanno diritto al voto
è traumatico.

È impossibile avere una relazione empatica
con lo zombi, lo zombi deve essere
ucciso perché trasforma il soggetto in uno zombi.
Non è cattiveria, si chiama spirito di sopravvivenza.

Ma è anche vero che
oggi come oggi
come ieri
sono le condizioni socioeconomiche
a zombizzare i soggetti.

Quindi
le storie sugli zombi possono essere
viste cioè interpretate
come un incitamento alla lotta
di classe dei senza classe.

Se il soggetto vuole e tenta
di smarcarsi dal pensare, parlare, usare
usando idee comuni
ad esempio quella di prosa
così come se il soggetto vuole e tenta
di opporre resistenza ai processi di zombizzazione
vuol dire che l’idea comune
ad esempio quella di prosa
deve essere ricostruita
a partire dai progetti pragmatici
che le produzioni cioè gli usi
manifestano.
Vuol dire che il processo di zombizzazione
deve essere decostruito
a partire dai progetti pragmatici
che i soggetti hanno per il futuro.

L’uso differente di un’idea comune
annulla, mette in crisi, la possibilità
di appoggiarsi su quella idea comune
cioè fa smottare il terreno dell’idea, cioè del senso
comune, lo rende non sicuro, non edificabile
per costruire altre idee, altre realtà,
altri testi, altri soggetti, altri significati, altri eccetera.

Ma è anche vero che
esiste il fenomeno dell’abusivismo
quindi il proliferare di idee, realtà, testi, soggetti, significati,
comuni non può essere arrestata.
In più esistono i condoni
quindi
i suddetti fenomeni di abusivismo
possono essere non solo sanati
ma anche storicizzati.

Quindi
usare una parola comune
per nominare un’idea che comune non è
cioè far corrispondere una parola a una cosa
cui non corrisponde comunemente
vuol dire attivare un processo di soggettivazione
cioè un processo di disidentificazione
in cui si inserisce una logica differente
ad esempio eraclitea, paratattica, polivalente,
che fa resistenza
che aggiunge
alle categorie del vero e del falso
la categoria del problematico.

Questo perché finché
le leggi
della logica si riferiscono alla realtà non sono
certe e finché sono certe non si riferiscono
alla realtà.
Soprattutto visto che ormai la realtà è solo quella particolare
informazione che viene considerata
vera dalla maggior parte dei soggetti.

E non è finita qui
perché si dà il caso che anche
chi è consapevole è alienato.

Ma è anche vero che
il soggetto alienato può tentare di uscire
cioè di costruire un’uscita
dall’alienazione alienandosi dall’alienazione
cioè da sé
trasformandosi in un soggetto alieno
che può mettere a lavoro il linguaggio cioè il pensiero
alienato creando una distanza tra sé e sé
cioè tra sé e il proprio linguaggio
cioè tra il proprio linguaggio e il linguaggio stesso
così da dare una visibilità rinnovata ai meccanismi
ai giri a vuoto, ai crampi, del linguaggio in cui il linguaggio
non lavora e va in vacanza.

Questo non vuol dire
ricreare una nuova, diversa, specificità
del linguaggio letterario, ma sottrarre
un uso differente al linguaggio comune
cioè riappropriarsi dell’inappropriabile
quindi costruire la possibilità
per il soggetto che ascolta che legge
di concepire un uso altro, diverso, nuovo
di ciò che è comune.

Quindi
la letteratura fa, è, politica non
per il tema, non
per l’ideologia, non
per il messaggio
ma in quanto letteratura, cioè in quanto regime
di costruzione e condivisione di significazione,
che contribuisce a creare una comunità, cioè uno spazio
di interpretazione della realtà e di modifica
delle interpretazioni della realtà
attraverso la costruzione di forme
di critica del mondo cioè della società cioè della lingua cioè eccetera
spesso più efficaci della critica stessa.

Quindi
la prosa può anche andare a capo.
Quindi
la poesia può anche non andare a capo.
Quindi
chi usa la prosa e/o la poesia
può fare un po’ come gli pare.

Ma è anche vero che
non può darsi uso senza regole
cioè idee
quindi
ogni uso è concettuale
quindi
ogni uso è ideologico
e, a rigore, teleologico.

Quindi
se i confini e i contorni
della prosa e della poesia si fanno aleatori ed effimeri
ci si sposta in un panorama sovragenerico
al cui interno c’è la prosa, la poesia,
ci sono usi altri, nuovi, diversi,
cioè idee altre, nuove, diverse,
di prosa, di poesia,
di ‘prosicità‘, di poeticità,
cioè tutto il possibile
della letteratura cioè della lingua cioè della società
cioè eccetera.

 

*

Su “Usabilità della prosa” di Silvia Tripodi

di Renata Morresi

“Usabilità” mi ha molto colpita. È una di quelle parole molli con cui mi è capitato di aver a che fare per motivi professionali (quando mi sono occupata, ahimè,  di ‘valutazione’). Suggerisce non tanto l’utilità di qualcosa quanto la sua adeguatezza a uno scopo, l’essere appropriata al contesto. ISO (che è l’organizzazione internazionale per gli standard, cioè quell’ente supremo-quasi-leggendario che stabilisce i criteri di comparazione del comparabile) dice che la misura dell’usabilità riguarda le seguenti componenti: l’efficacia, cioè l’abilità a realizzare bene una cosa, l’efficienza, ovvero quante risorse occorre mobilitare per farla quella cosa, e infine la gratificazione, se chi la usa, insomma, ne sarà contento. Capite quando qui sopra ho detto che “usabilità” è parola “molle”? Perché è tecnica ma plasmabile, specifica ma ambigua, inevitabilmente legata al suo contesto e ambiziosa di descrivere ogni cosa (la puoi applicare a qualsiasi reame umano: dal programma di correzione ortografica all’estrazione dell’olio). Cosa c’entra con questi criteri di rendimento la “prosa”? È un’ironia? Considerato poi che il testo è in poesia, dico. Una poesia non propriamente ‘poetica’, d’accordo, che ha al cuore del suo funzionamento non il verso bensì la frase. Quel modulo molto semplice, breve, sensato, la cui accumulazione ragionata attraverso concatenamenti logici e semantici crea un testo verbale ben fatto, coerente. Eppure queste frasi di Tripodi non procedono così, hanno un altro istinto, un’altra temporalità. Non quella della prosa che spiega, descrive, ragiona (per quanto questo testo sembri spiegare, descrivere, ragionare, del Buddha e delle sue molte varianti e svuotamenti). Non quello della prosa che aspira ad apparire coerente (sebbene questo testo sembri voler esporre il varco vuoto da cui fiotta l’ansia di coerenza, se non l’ansia di un dio). Per un attimo ho pensato a certi serious games usati per i soldati con disturbo post-traumatico; tornati dalla guerra devono re-imparare le cose più semplici, come fare la spesa o prendere l’autobus, dire le frasi giuste, capire le parti di un oggetto comune:

 

occorre fare un elenco di nomi
estratti da un manuale

[…]

una serie di parole
una massa di parole
un elenco lunghissimo
che sostituisca una passeggiata

 

Così chi scrive sembra stare eseguendo un compito: smontare una operazione in apparenza semplice nelle sue minime costituenti, e ripeterla, continuarla, fino a che non torni tutto ‘normale’, ovvero enormemente complesso. La poesia avanza in questa doppia focalizzazione: sapendo sempre un po’ di più o un poco meno. A questo contribuisce anche l’andamento anaforico ed epiforico, a metà tra il disvelamento di un contenuto sapienziale e la ripetizione quasi infantile:

 

a qualcuno preme di sapere quanto pesa la grande statua del Buddha
qualcuno è curioso di conoscere la stazza del Buddha
l’immagine del Buddha è quello che sappiamo del Buddha

 

Qualcosa mi ha fatto ripensare all’adattamento grafico di Città di vetro di Paul Auster. È lì che i fumettisti Karasik e Mazzucchelli impiegano un accorgimento particolare per disegnare il bubble di Peter Stillman, l’uomo vittima di un esperimento agghiacciante. Rinchiuso in una stanza da bambino e privato di qualsiasi contatto con altri esseri umani da un padre che cercava di provare definitivamente “se dio aveva una sua lingua”, Stillman parla nel modo strano e automatizzato appreso da grande, una volta liberato; il suo stesso fumetto è allungato a imbuto, come uno strumento gastroscopico ficcato in gola e da cui le parole escono senza tono, come nude, senza riparo. Mi è parso di riconoscere nel testo di Tripodi questo stesso effetto di sottrazione e di sovra-esposizione, di disturbo e di eccesso.

Qual è il trauma, dunque? L’aggressività delle cose? L’ossessione con la loro classificazione, con l’identificare la loro utilità, efficacia, efficienza, definizione, valore, ecc.?

Qual è l’esperimento? Guardare cose, eventi, fenomeni, rappresentazioni nella loro dimensione letterale, senza mediazioni consolatorie, senza riconoscere soggetto e oggetto dei tanti “pezzi franti”, né il ‘frantumatore’ né il ‘frantumato’ potendo vantare un intero, un’origine, un univoco. Tale adesione implacabile a continuare a esaminare costituisce la qualità anti-economica più interessante di questa poesia. Essa si esercita sul piano discorsivo, come ripetizione dell’ovvio o del futile, o almeno apparentemente tale fino a che, per virtù di cumulazione, non diventa sintesi complessa di estremi ed opposti:

 

un elenco che aggiri il soggetto
che lo soverchi
che lo metta in primo piano
che lo metta ai margini
che lo aggiri
che sia l’oggetto del soggetto
il soggetto sia l’oggetto dell’elenco
che questo nominare le cose
che dirle assertivamente e non assertivamente
abbia un valore politico
assuma valore
consumi il valore
senza che questa pratica sia un modello

 

C’è anche qualcos’altro in queste concrezioni, come una vena di possessione, piccoli raptus di rapimento estatico in cui la ripetizione sembra tornare a una sua funzione antica, viscerale, a fare da marcatura del rituale. Paradossalmente una instanziazione del rituale avviene, dunque, proprio durante la messa in discussione del ‘religioso’ o pseudo-tale. In questo equilibrio ossimorico Tripodi costruisce una poesia potente, autorevole, sconfessando ogni “pratica” modellizzante, senza doversi porre, “assertivamente” o “non assertivamente”, come autorità.

 

 

 

*

Prove d’ascolto è un progetto di Simona Menicocci e Fabio Teti

 

Le stanze dell’addio

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di Francesca Fiorletta

Possibile che tu mi voglia muto in faccia alla tua assenza, mentre indico a chi mi sta attorno un punto inconsistente, e non riesco a dire che di lì, forse, mi pare di averti vista passare: così mi vuoi? 

Proprio come in Cara, il celebre inno all’amore di Lucio Dalla che pure troveremo citato più avanti (“Cosa ho davanti? Non riesco più a parlare”) questo libro lascia per qualche istante ammutoliti: è una sorta di effetto inevitabile, un gesto naturalissimo, come davanti allo scodinzolare di balene nel mare agitato della memoria dei sentimenti.

Perché ci sono le balene, ne “Le stanze dell’addio” di Yari Selvetella, recentemente edito da Bompiani, balene di ogni genere e natura: c’è Moby Dick, che inaugura ciascuna delle tre parti di cui si compone il romanzo, con citazioni sempre calzanti, immaginifiche e altrettanto aderenti al doloroso contesto di realtà; ci sono viaggi che s’interrompono prematuramente e traversate su cui imbarcarsi all’improvviso, a bordo di grandi navi che solcano le onde spumose, rifugio non rifugio per i mammiferi tanto cari. 

Tutto nel mondo è burla

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di Giorgio Mascitelli

Tutto nel mondo è burla/ l’uom è nato burlone,/la fede in cor gli ciurla,/ gli ciurla la ragione sono i primi versi della fuga che conclude il Falstaff verdiano. Benché sia avviata dallo stesso Falstaff, questa fuga è intonata da tutti i personaggi beffati e beffatori o spesso entrambe le cose. Questo aspetto cambia tutto il senso dei versi: infondo se a cantare fosse il solo Falstaff, la cosa non sarebbe interessante perché il fatto che un cialtrone veda in luce cialtronesca tutto il mondo non fa problema. La fuga invece falstaffizza, per così dire, tutti i personaggi e la misura di Falstaff diventa la misura del mondo. C’è di che preoccupare ben più di un cardinale se fede e ragione vacillano davanti alla burla. Qui è probabile che  il librettista Arrigo Boito  abbia una reminiscenza della sua gioventù scapigliata e attraverso di essa dell’ironia romantica.

Nella vita contemporanea l’affermazione che tutto nel mondo è burla è diventata per così dire uno scarto di lavorazione, un residuato dello stile di vita, un sottinteso  che non si sa bene dove smaltire perché nessuna forma di coscienza, anche quella minima banalmente funzionale all’espletamento di una serie di operazioni che il sistema richiede, può sopportare di vivere in un mondo dove, se tutto è burla, lo sono anche i drammi del proprio narcisismo. In più è difficile trovare negli esseri umani in carne e ossa l’encomiabile souplesse di Falstaff, che essendo beffato anziché beffatore, non per questo perderà appetito e buon umore. Il rischio concreto è invece quello di imbattersi costantemente, talvolta anche nello specchio del proprio bagno, in Falstaff dimagriti, irritabili e sommariamente scolpiti dal fitness del logorio della vita moderna che vedono stagliarsi il proprio dramma su un mondo che considerano, di solito in modo subliminale e inconsapevole, pura burla.

Per sgombrare il campo da equivoci: questa idea che tutto nel mondo sia burla non produce necessariamente persone inclini alla risata, specialmente tra coloro che non sanno di avere quest’idea. Anzi spesso il modo in cui  la coscienza la sperimenta soggettivamente è una forma di conflitto interiore tra la spinta a raccontarsi una storia su di sé con le sue necessità drammatiche e l’evanescenza del mondo, oggi poi acuita dalla sua percezione in forma virtuale.  Di solito, tuttavia,  conflitti di questo tipo sono generati dall’ideologia dominante e nel contempo la celano . Come si è detto sopra, qui però  la cosa è di natura più singolare perché l’idea del mondo come burla non è affatto funzionale all’ideologia dominante, che tende invece a costruire una sua religione del denaro, ma è piuttosto un effetto collaterale o meglio una reazione psicologica al contatto prolungato con forme invasive di razionalità strumentale.

Il problema letterario della rappresentazione critica di una società dominata dall’idea che tutto nel mondo sia burla è molto complesso: non si tratta infatti di far emergere e cortocircuitare una forma di falsa coscienza ideologica perché quest’idea non è paragonabile a pregiudizi sociali come, per esempio, quella che gli schiavi siano tali per natura o che l’economia sia una scienza naturale. Data la sua natura di effetto collaterale, questa idea è la forma apparentemente oggettiva in cui si presenta l’immutabilità di fondo dei rapporti di potere e di produzione nella nostra società a una coscienza reificata, che è qui un modo veloce per dire una coscienza che non si percepisce affatto come dentro la storia, come prodotto e soggetto di mutazioni storiche.

Un modo di rappresentazione naturalistico, per così dire, potrebbe essere quello di creare un personaggio tipico, che incarni l’idea che tutto nel mondo è burla e che agisca in situazioni tipiche. E’ un modo di rappresentazione diretto e chiaro in cui possiamo ridere impunemente del personaggio, che riflette nella sua tipicità un processo magari anche diffuso, ma estraneo alla condizione dello scrittore e del lettore. “Se leggi, allora non sei così” e “De nobis fabula non narratur” sono i messaggi sottesi alla forma di questa rappresentazione, il che non impedisce naturalmente che per queste via si possano scrivere capolavori di tipo paesaggistico, in cui il presente di questa percezione è raccontato come se fosse quello di un paese o di un tempo lontani. Le forme, oggi molto in voga, da docufiction rendono invece più difficile la percezione di questa situazione perché, usando materiali di documentata verità, ubbidiscono alla spettacolarizzazione della realtà, che è uno dei fattori che ha prodotto nel nostro tempo la convinzione che tutto sia burla.

La rappresentazione per via umoristica presenta il vantaggio, che è al contempo uno svantaggio, di consentire spazio per svariate avventure dello scrittore e del lettore. Eppure lo scrittore umoristico è singolarmente sprovveduto di fronte all’idea che nel mondo tutto è burla: egli sa imitare parodicamente il discorso di un avversario o metterlo in ridicolo tramite l’ironia, ma qui non ci sono avversari; sa far emergere, rendendo ipertrofico un dettaglio strano e casuale, una verità nascosta, ma questa non è una verità nascosta bensì un’opinione condivisa; sa far girare le parole in modo che l’insensatezza del linguaggio illumini l’insensatezza di ogni cosa, ma qui il problema è illuminare l’insostenibilità che tutto sia burla salvo le proprie tragedie private. E’ chiaro che per un tema del genere ci vorrebbe uno scrittore tragico, ma la nostra cultura da almeno un paio di secoli non produce e più e, soprattutto, ha rimosso le premesse simboliche che ne consentivano la nascita. Lo scrittore umoristico allora deve sapere di agire come un supplente di una letteratura tragica che non è più possibile nell’attuale contesto non perché, giova ripeterlo, non ci siano più tragedie nel mondo, ma perché non è più sostenibile la loro dicibilità.

Non c’è naturalmente nessuna censura o nessun interdetto nei confronti della tragedia, anzi possiamo liberamente oggi informarci su una quantità di tragedie pressoché illimitata, anche se nella maggior parte dei casi in forme spettacolarizzate, è semplicemente il corso delle vite nella nostra società che lo rende impossibile. Infatti se, come spiega Hartmut Rosa, la nostra società è determinata da una continua accelerazione dei tempi della vita e in particolare se ‘l’accelerazione sociale è definita da una crescita nei ritmi di decadenza dell’affidabilità di esperienze e aspettative e dalla contrazione degli archi temporali definibili come “presente”’ ( H. Rosa Accelerazione e alienazione, trad.it. Torino 2015), non c’è modo di rappresentare comprensibilmente e credibilmente  in forma tragica questo processo esasperato di caducità dell’esperienza, che permette di credere che tutto nel mondo sia burla.

Allora resta soltanto la scrittura umoristica, ultima supplente, per tentare di esprimere cosa implichi veramente l’assunto che tutto nel mondo è burla, ma è una via contorta che si avvicina per approssimazione, allusivamente, in quelle forme paradossali che oscillano tra oscurità e illuminazione, al suo oggetto.

 

 

 

 

Su Pacific Palisades, dal libro alla scena

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di Mario De Santis

Avevo letto Pacific Palisades prima di vederne la mise en scene fatta con la regia e la lettura di Alessandro Baricco e la con video installazione e con la musica dal vivo di Michele Tescari suonata dall’autore e dai suoi musicisti, a Roma nel programma RomaEuropa Festival.

Il testo mi era sembrato diverso da quelli scritti da Voltolini che avevo letto negli anni 90, ad iniziare dal primo Un’intuizione metropolitana. Il registro di Voltolini finita la lettura su carta, mi aveva lasciato l’impressione di una partitura che rispetto ai primi libri, avesse minori combinazioni sonore nella prosodia, minori risonanze di ritmi, era come rallentata, non insisteva sulla ricercatezza verbale.  Insomma quello che Lotman direbbe un “tasso figurale” più basso, anche se paradossalmente con la scelta del verso – lungo – e gli accapo – il libro si dispiegava in un poema, in un dispositivo narrativo più nettamente versificatorio e “largo”. LA prima lettura è stata però corretta dalla sua esecuzione nello spettacolo per la scena su cui tornerò alla fine nella postilla**

Nel libro c’è pur sempre un’intuizione, ovvero un pensiero che  rincorre sé stesso, non solo la percezione ma in misura maggiore il ricordo, mescolando tutto. Tiene assieme un intreccio di storie che sembra affondare nella biografia autoriale, con sfumature di luci, atmosfere, riflessioni sul tempo. Pacific Palisades narra di varie figure di un’Epopea famigliare, sei fratelli dispiegati biograficamente nel secolo Ventesimo che fu popolare e industriale – e in questo caso comprendiamo quanto, interamente, con questi caratteri, si debba considerare torinese

Quando non aprire

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Mariasole Ariot, Quando non aprire

di Mariasole Ariot

Quando chiudere la porta, quando aprirla, quando la porta è piena, quando la luce è incomprensione, quando la pelle è putrefatta, quando la luce è accesa, quando è scesa sulle cose …

Come un polittico che si apre

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Esce domani in libreria per l’editore Marcos y Marcos il nuovo lavoro di Franco Buffoni,  Come un polittico che si apre, libro intervista con Marco Corsi per i settant’anni dell’autore. Ne diamo qui volentieri un’anticipazione. Buona lettura a tutti. 

di Franco Buffoni

ULTIMI IRRIDUCIBILI IMPEGNI:

SUL VIVERE IN SOCIETÀ 

Siamo tornati al clima di partenza, perché queste conversazioni si sono protratte nell’arco di un anno. Oggi il tempo è benigno, promette una discreta primavera, e vorrei parlare della tua attività di pensiero e di impegno nei confronti della società… prenderei le mosse da un titolo che sbirciando in metropolitana in questi giorni mi ha particolarmente colpito, su uno di quei giornali gratuiti che vengono diffusi ad ogni angolo: “Anche i gay possono adottare”. Ecco, vorrei riflettere con te sull’utilizzo di un termine ancora inquadrato come categoria estetica, invece che come realtà di un individuo, come suo modo di essere all’interno della società; un appellativo ancora lontano da un riconoscimento dei diritti naturali della persona. A partire dall’aggettivo “naturale”, vorrei chiederti della differenza tra “diritto naturale”, per certi versi sempre tirato per la coda dai conservatori, a dispetto di quel “diritto positivo” che si è affermato con l’illuminismo ma che ancora non si è imposto completamente. C’è questa frizione evidente, anche con le direttive ONU e le direttive europee. Che cosa vuol dire, per te, trovarsi ancora in Italia nell’evidenza di una situazione sociopolitica che si rispecchia in un titolo come “Anche i gay possono adottare”?

Quel titolo è certamente uno specchio dello stato anche della lingua italiana. Il fatto di dover ricorrere a un ex aggettivo della lingua inglese è sintomatico. Gli inglesi però metterebbero la s del plurale. Altrimenti parlano di gay community, che comprende tutte le categorie che noi tentiamo di rappresentare con la sigla Lgbt, a cui continuiamo ad aggiungere lettere. Adesso è Lgbtqi per comprendere anche Queer e Intersex. Peraltro, quando la sigla era solo di quattro lettere, personalmente preferivo Glbt per una questione metrica. Glbt è quadrisillabico, mentre Lgbt è un pentasillabico. Questa cosa la dissi in pubblico a un convegno di militanti e vidi attorno a me solo occhi sgranati: capii che non era il caso di insistere. Dobbiamo ricorrere ai termini inglesi perché non abbiamo le parole adatte, se non nella volgarità dei dialetti. (Omosessuale perlatro è un termine medico ottocentesco). E non abbiamo le parole perché non avevamo il reato, i nostri codici non contemplavano il crimine. Invece il mondo di lingua inglese aveva il reato e lo definiva, poi l’ha abolito, ma sono rimasti i termini per definire lo status. Noi non avevamo il reato, persino il codice Rocco non menziona l’omosessualità: si mandavano al confino gli omosessuali come disadattati o asociali. Tornando al tuo titolo, è evidente che l’espressione ad effetto “Anche i gay” strizza l’occhio a quella parte di pubblico che ritiene gli omosessuali altra cosa da sé. Così denunciando una non-accettazione intrinseca. In effetti oggi un giudice in Italia può solo valutare caso per caso. Quella invocata dal titolo sarebbe stata la stepchild adoption, che M5s non volle far passare, sulla pelle di sei milioni di italiani e delle loro famiglie, per mettere in difficoltà il Pd.

Già, il canguro…

Non riesco ad esclamare: Right or wrong my country! Che poi un giudice illuminato a Trento emetta una sentenza a favore, vuol dire soltanto che la società civile è più matura del legislatore, che il potere giudiziario è più avanzato rispetto al legislativo. Quanto alla riflessione generale che la tua domanda presuppone, ebbene, mi illusi negli anni settanta e primi ottanta che le cose si stessero finalmente muovendo: divorzio, aborto, cambiamento di sesso, legge Basaglia…

Poi che cosa accadde?

Accadde che la revisione craxiana del concordato nel 1984 portò al subdolo imbroglio dell’ottopermille, che arricchì enormemente la Cei. Abolendo l’assegno statale di congrua ai sacerdoti, sparirono i preti del dissenso: la loro sopravvivenza ormai dipendeva direttamente dalla Cei, che poteva affamarli come e quando voleva. Cl e Opus dei si infiltrarono nei centri di potere e i diritti civili in Italia restarono al palo.

Con la seconda metà degli anni Ottanta l’Aids…

Paralizzò tutto, anche sul piano del costume, ma fece sorgere una solidarietà nuova tra appestati e reietti: un senso di comunità; poi ebbe inizio il ventennio del Menzogna, quello secondo il quale Eluana poteva ancora partorire. La nostra timida ripresa è dovuta all’Europa: grazie ai danesi, agli olandesi, ai belgi e via via a tutti gli altri: noi come sempre fanalino di coda. Il nostro ritardo e la parzialità della legge approvata nel 2016 dimostrano una grave arretratezza, implicita per altro nella prima parte della tua domanda, con la menzione di diritto naturale e diritto positivo…

Vogliamo parlarne brevemente?

La teoria del diritto naturale, o giusnaturalismo – alla quale i clerico-fascisti ancora oggi si rifanno – postula l’esistenza di una serie di princìpi eterni e immutabili, inscritti nella natura umana, cui si darebbe il nome di diritto naturale. Il diritto positivo – cioè il diritto effettivamente vigente – non sarebbe altro che la traduzione in norme di quei principi. Per le confessioni religiose ovviamente si tratta dei princìpi dettati dai loro testi sacri. Per gli studiosi laici ottocenteschi i princìpi furono quelli di giustizia e di equità, oppure concezioni quali il “popolo” e lo “stato”. Non essendoci accordo sui princìpi – a meno che essi non siano imposti da un potere autoritario – il fondamento stesso della teoria del diritto naturale venne considerato obsoleto già alla fine dell’Ottocento, quando cominciò ad affermarsi il positivismo giuridico o giuspositivismo che, contrapponendosi al giusnaturalismo, asserisce che il diritto è solo ed esclusivamente diritto positivo, e non può esservi spazio per alcun diritto naturale trascendente il diritto positivo. La filosofia del diritto si sposta così dal campo del trascendente a quello dell’immanente, dal dominio della natura a quello della cultura. Sono in tal modo poste le basi per il successivo e fondamentale passaggio che nel secondo Novecento porterà al costruttivismo relativistico giuridico. Quindi il ricorso alle categorie del diritto naturale nel secolo XXI per contrastare unioni omoaffetive e GPA non ha alcun fondamento scientifico. E’ antistorico, patetico.

Per rimanere su un terreno linguistico, quando parlo con persone della tua generazione, a dispetto del confronto che posso avere con i coetanei o con quarantenni che non provengono da territori accademici e di ricerca… ecco, tu prima hai fatto ricorso a un termine come fascista, connotandolo. Quanto si è dimenticato, quanta parte di memoria è andata persa con l’evoluzione dei costumi e dei comportamenti? Insomma, che cosa è accaduto? C’è stata davvero una rivoluzione socio-politica? E il Welfare? Se un tempo il costume condizionava il pensiero politico, quanta memoria bisogna recuperare per uscire da una condizione così disarmata e ondivaga che non riesce a produrre niente di concreto a livello sociale, politico e economico?

Vorrei risponderti sempre sulla base degli studi che ho compiuto. Solitamente chi scrive nel campo della memorialistica omosessuale è qualcuno che ha studiato, che ha potuto riflettere su sé stesso: un intellettuale, scrittore poeta filosofo. Un individuo, portato all’individualismo. Il popolo, nella sua saggezza, ha sempre risolto questi problemi a modo suo. E pure la chiesa cattolica. La soluzione della chiesa era una bella veste nera che tutto ricopriva, dal collo fino ai piedi, e poteva diventare anche rossa o persino bianca… Mentre il popolo si era inventato le categorie dei femminielli, delle checche… trovando un ruolo per queste persone, proprio come lo trovava la chiesa. Perché nelle nostre famiglie contadine, il figlio più sensibile, più intelligente, più delicato di salute, quello meno adatto a produrre figli e arare i campi, andava in seminario. Poi va beh, se ci scappava qualche chierichetto ogni tanto, si chiudeva un occhio. L’attenzione ecclesiastica per i pre-adolescenti c’è sempre stata. Che cosa credi che accada – da sempre – nelle scuole coraniche? La differenza è che oggi nel mondo occidentale la si denuncia definendola pedofilia: è il tramonto di un’epoca e di una civiltà culturale.

Dicevi dell’intellettuale…

C’era una élite intellettuale che talvolta lasciava qualche testimonianza. Non tutti, certamente. Gadda per esempio, distrusse ogni traccia delle sue memorie; resta una lettera di Montale del 21 novembre 1946 indirizzata al critico Silvio Guarnieri: “Carissimo Silvio, qui le cose non vanno bene, ora i giornali escono a due pagine perché manca la corrente per le industrie, cartiere comprese; e così anche la collaborazione al «Corriere» (unico mio reddito) sarà molto ridotta. (…) Landolfi è sempre a Pico ed è meglio per lui che stia là. Il «Mondo» è morto. Carlemilio è a Venezia con alcuni pennerasti (si impaluda sempre più) e degli altri meglio non parlare… Tuo Eusebio”. Il sommo poeta s’inventa un dispregiativo per gli amici omosessuali dell’omosessuale Gadda, storpiando il nome di Sandro Penna.

Toglie il fiato…

Poi c’era il popolo che aveva le sue soluzioni, mentre i codici ignoravano il problema. Questa secolare tradizione è stata messa in discussione da istanze giunte dal mondo anglosassone e nord-europeo. Sappiamo bene con quanta ostilità da parte della chiesa cattolica e delle destre. Attraverso la musica leggera e il cinema nuovi modelli sono penetrati nel tessuto sociale più semplice e popolare. E il costume è mutato. Ricordo che in una circostanza pubblica, quando uscì Zamel nel 2009, avevo fatto un lineare excursus citando i vari pionieri della emancipazione omosessuale, fino all’Associazione americana di psichiatria che il 17 maggio 1990 ottenne la cancellazione dell’omosessualità dall’elenco delle patologie da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità: da qui la festa del 17 maggio ormai celebrata in tutti i paesi civili. Ebbene, alla fine, bonariamente, un ascoltatore intelligente osservò: “Dal suo discorso sembrerebbe che da Stonewall nel 1969 si sia passati al manifesto del Gay Liberation Front e poi al 17 maggio come per una lineare evoluzione. E che le legislazioni nei vari paesi ne abbiano preso atto derubricando il reato di omosessualità tra adulti consenzienti. Fino al riconoscimento delle unioni civili e poi del matrimonio egualitario. Però se pensiamo alla fascia medio-bassa della popolazione, che è la più numerosa, forse più dei documenti da lei citati hanno giocato un ruolo fondamentale le canzoncine di Raffaella Carrà”. Credo che il gentile interlocutore avesse ragione. Forse oggi citerebbe Maria De Filippi che apre al tronista gay… In effetti le canzoncine della Carrà permisero un’espressione di gaiezza totale agli zii operai d’Italia. Come oggi Maria De Filippi entra nelle case degli ex-contadini e dei piccolo borghesi mostrando che domani il figlio timido potrà salire su quel trono e scegliersi un fidanzato. Sui grandi numeri inevitabilmente Elton John e la Carrà sono imbattibili. E noi intellettuali con le nostre rivendicazioni di diritti costituiamo un’astrazione. Ci vogliamo anche noi, certo, ma è evidente che nella società italiana prima è venuta Raffaella Carrà con la sua subliminale operazione, e solo molto più tardi la (parziale) acquisizione legislativa. In pratica si doveva riconoscere qualcosa che nella concezione giuridica italiana non era mai stata sancita come reato. Che semplicemente non esisteva.

Interférences #15 / Il romanzo come arte. Intervista a Lakis Proguidis sull’Atelier du roman

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[Da oggi, presento anche su NI dei pezzi mensili pensati in origine per il sito alfabeta2 e per la rubrica Interférences: interventi di taglio e tema variabilissimi, ma accomunati da interazioni (anche inattuali) con fenomeni francofoni e francesi di società, arti e scritture.]

a cura di Andrea Inglese

A. I. – Sei direttore da 24 anni di una rivista intitolata L’Atelier du roman, nata a Parigi all’inizio degli anni Novanta e che, da allora, non ha smesso d’interrogare, difendere, esplorare le ragioni della scrittura romanzesca al di là di ogni frontiera storica e geografica.

Prove d’ascolto #21 – Fabio Teti

1

teoria di che cosa
(estratti, 2015 – in fieri)

 

[ da: ai bordi della blatta ]

e adesso e adesso perché impelle
ripetere il mai detto, reintentarsi del problema della polvere
inesplosa delle spore, la casa cosa essendo scarsi tratti
fatti in terra con il gesso, nemmeno, fratti in testa
col discorso, mettiamo // che in questo sia possibile disporre
parola «blatta» sotto un’altra, «radiatore» (va pensato
anche un soggetto percipiente): tutto e niente / conta infatti
averla vista, ma per entro quale e quanta imprevisione (partizione)
le incapaci successive passeranno
frasi o meno di strappare quella e moto

molto moto alla parola «tanatosi»

*

primo, è l’iguanodonte, secondo le rigonfie
meduse fra i pilastri
della circonvallazione – oggetti
per indurre allora ancóra // quattro le domande
da rivolgere alla blatta, per cominciare, alla necro-
mimèsi, se sia o meno cioè possibile descriverli,
perché e dove, e finalmente
da chi, se non da quello stesso
altro sé che adesso espone
un suo progetto voce roca, fronte contro
radiatore, di dizionario in cui il sintagma
storia umana sia previsto / tanto fra i sinonimi
della flessione «perpetrarsi»
quanto fra quelli del lemma «estinzione»

*

il cui anagramma è «ostinata», si attaglia
morta non è morta
al fatto che vedere sia a suo modo un modo della
predazione e che nel buio, della bocca da cui queste,
delle altre anche se aperte, stia taciuto un odassismo,
o detto meglio peggio: preparazione di una zanna.
VARIANTE: al fatto che a vedere siano gli occhi, non siano
gli occhi propriamente; ESEMPIO (più citazione): pensiamo
ad un punto di attacco, di vista
tecnicamente possibile, come in “Testa elaborata secondo
il metodo del Trasferente” (nel Manoscritto di Dresda,
folio 91r), e tuttavia impossibile,
umanamente («a meno che Dürer non tenga al di sopra
dei suoi occhi una testa mozzata»); PREMESSA: si attaglia
al bisturi di Christopher Tipping, Delaware, Pennsylvania,
donde i sette che sappiamo
in cui poi blatta ancóra vivere,
giorni o meno e se-
nza quella

*

dal diario di qualcuno, giorno il 13 novembre,
lo lego mentre lo leggo, anno il 70 d.N., che vale
«dopo Nagasaki»: la finestra è un rettangolo sopra
il radiatore e dentro non
si danno àceri – disàmare – Gerione – lo stormo
nero urtato dalla cosa che da dietro gli occhi guarda
se diventa o non diventa una murena
di storni nel cielo – sotto, leggevo, c’è la blatta che manca,
ha lo stesso colore dell’inchiostro che impedisce
l’impedimento qui nell’uso che già è il proprio
analogo in pragmatica, distribuito dalle frasi, giorno il 12
settembre, lungo il bordo intitolato “del sostare”, 1),
per minuti fronte all’àcero, 2) di accettarne il “come se”
del non silenzio, 3) poi di scegliere se dirne
e dirne in termini di 4): «urlìo» o «cavitazione».
questo concerne la domanda, in cui la blatta non si dà
che cancellandosi. e la risposta, in cui chiunque
qualunque riguarda, così come l’inverso.

 

 

 

 

[ da: 35 argomenti per la stesura di 10 tesi sulla blatta ]

5.
Se prendiamo la definizione
aristotelica
di blatta, c’è un nome di soggetto
(polites)
che è definito da un prendere parte
(metexis)
a un modo dell’agire
(l’archein)
e al patire che a quello corrisponde
(l’archesthai).

Se esiste un proprio della blatta, risiede
in questa relazione
che non è una relazione
tra soggetti ma che è
una relazione tra due termini
contraddittori
grazie alla quale
si definisce un soggetto.

6.
Il proprio della blatta è l’esistenza
di un soggetto definito
dalla sua partecipazione a dei contrari.
La blatta infatti un tipo
paradossale di azione: essa ci parla
di un essere che a un tempo
è l’agente di un’azione
e la materia su cui tale
azione si esercita.

7.
In altre parole, l’opposizione di praxis
e poiesis

non risolve per nulla il paradosso
della definizione della blatta.

14.
O nell’Iliade quando
Polidamante si lamenta del fatto
che suo fratello Ettore non tenga
in conto il suo parere: «con te», dice,
«non bisogna, chi è blatta, parlare».

Blatta infatti non designa
una categoria
sociale inferiore: fa parte della blatta
colui che non rientra
nei conti, colui che non ha
parola da fare
intendere. Fa parte della blatta
colui che parla quando
non deve parlare,
chi prende parte a ciò
di cui non ha parte.

18.
L’essere divenuta della blatta
rimanda il suo concetto a ciò che essa
non racchiude. La blatta si specifica
in relazione a ciò per cui si separa
da ciò a partire da cui
è divenuta; la sua legge
di movimento è la sua
propria legge formale.

19.
La blatta è dunque l’esistenza
supplementare
che inscrive nel visibile il conteggio di coloro
che non sono contati
o la parte di chi è senza
parte, l’esistenza che inscrive
supplementare
l’uguaglianza degli esseri parlanti
senza la quale la stessa
ineguaglianza è impensabile.

20.
Ciò che la blatta identifica col tutto
della comunità
è una parte quindi vuota, è una parte
sovrannumeraria,
che separa la comunità dalla somma
delle parti del corpo
sociale. Questa
separazione primaria
fonda la blatta come azione
dei soggetti che eccedono
il conteggio delle parti
della società.

21.
Il cuore di tutta la questione
blattoidea
risiede dunque nella
interpretazione
di questo vuoto e di questo
soprannumero.

26.
Esistono due modi di contare le parti
della comunità: o si contano soltanto
le parti reali, i gruppi
effettivi, definiti dalle differenze
di nascita, dalle funzioni,
dai luoghi, dagli interessi
che costituiscono il corpo
sociale escludendo
supplementi, o invece si conta
in più
una parte dei senza
parte. Chiameremo
il primo modo polizia,
blatta il secondo.

28.
L’essenza della blatta, si capisce,
è la manifestazione del dissenso
come manifestazione
di uno scarto del sensibile rispetto
a se stesso,
che fa vedere ciò che prima
non aveva ragione di essere
visto, dentro un mondo
mette un mondo
diverso.

29.
La polizia ne dice: non c’è niente
da vedere, ne dice: lo spazio
della circolazione
non è nient’altro che lo spazio
della circolazione.

La blatta consiste
nel trasformare questo spazio
della circolazione in quello della
manifestazione di un soggetto,
nel riconfigurare
lo spazio e quel che c’è,
all’interno di esso,
da fare, vedere, nominare.

30.
D’altra parte, a guardare la realtà,
ovvero ciò che è diventata, si è resa
insopportabile l’essenza
affermativa della blatta, per essa inevitabile.
La blatta deve volgersi contro
ciò che costituisce il suo proprio
concetto, così diventando
incerta fin nella
sua più intima fibra.

31.
Una difficoltà pratica consiste nel sapere
qual è il segno che permette
di riconoscere il segno, ovvero
come ci si assicura che la blatta
che vi sta di fronte e non emette
suoni con la bocca
stia articolando un discorso
invece di esprimere soltanto
un certo stato,
di morte o di magari
tanatosi.

33.
Sembra certo a priori che qualsiasi
definizione si possa
dare della blatta e che qualsiasi
definizione si possa
dare della blatta, sia sempre un malinteso
supporre che nella
formulazione si esprima ciò che
si vuol dire realmente. Eppure
la tendenza, l’urto, indicano qualcosa.

36.
La blatta, essendo costruzione di un mondo
paradossale
che mette insieme mondi
separati, non ha dunque luogo proprio
né soggetti naturali (non è, il soggetto
blattoideo, un gruppo di interessi, non è
un gruppo di idee. Il soggetto
blattoideo è l’operatore
di un dispositivo peculiare
di soggettivazione del dissenso
attraverso cui c’è nel mondo
la blatta)

37.
Lo ripeto: l’essenza della blatta risiede
nei modi di soggettivazione
dissensuale
che manifestano la differenza
della blatta rispetto
a se stessa.

(Non consentite: il consenso
è la riduzione della blatta
a polizia, è la fine della blatta,
il ritorno allo stato

di cose normale. Lo stato
di cose normale
è quello in cui non si dà blatta).

38.
È possibile comunque definire un legame
positivo
tra l’esistenza senza proprietà
di un modo del discorso
e la moltiplicazione senza legge
del molteplice. Ciò presuppone una certa
idea dell’anarchia
blattoidea che riassumiamo come segue:
la blatta è quel tipo di discorso che disfa
le partizioni tra reale
e finzionale, tra la prosa
e la poesia, o detto ancóra
meglio: tra il proprio
e l’improprio.

39.
Abbiamo quindi a che fare con una
figura dell’alterità
più vile ed insieme più pura: quel
molteplice senza
nome che in latino
si chiama proles e si chiama
proletarius e si chiama
in età moderna col termine
omonimo di blatta, che non è il nome
di una categoria sociale ma
quello di un molteplice
singolare, che analizza l’essere-
insieme immettendo
distanza nei corpi produttivi
e riproduttivi
rispetto a se stessi.

42.
La blatta allora è questa
corporeità
indecisa che immette disordine
tra i corpi, che crea un ambiente
in cui si espone il disordine che ogni
separa, corpo da se stesso.

 

 

 

 

[ da: esercitazioni per l’innesco della blatta ]

1.
se un occhio colpisce la blatta
la blatta manca oppure
la blatta c’è ma è entrata
in tanatosi

ho scritto «un occhio» l’articolo
ne comporta quindi un altro

lo porta in bocca una cernia che attraversa
la casa nel punto     l’atlante
in cui s’incrocia il meridiano quindicesimo
col parallelo 35

(cos’è vedere)

vedere è dunque vedere
la polvere che sotto il radiatore
le mattonelle
in uno col tentacolo che sfiora         nel nero

un occipite        poi splenio

senza urticare        è importante

senza urticarli più

2.
se un occhio colpisce la blatta
la blatta manca oppure
la blatta c’è ma è stata
disinnescata

diversamente

se un occhio colpisce il radiatore
e l’altro colpisce
la sabbia in sospensione intorno al gomito
c h e s t a t o c c a n d o i l f o n d a l e
c h e s t a t o c c a n d o i l f o n d a l e
c h e s t a t o c c a n d o i l f o n d a l e
c h e s t a t o c c a n d o i l f o n d a l e

allora si dà blatta oppure
la blatta è stata innescata

3.
se coniughiamo ovvero usiamo l’infinito
abitare (frequentativo, si noti, di «habere»)
dove tutto è stato preso ad altri

se coniughiamo l’infinito abitare
p. es. all’iguanodonte, p. es. alle rigonfie
meduse fra i pilastri
della circonvallazione

la blatta c’è ma è quella di Tipping
decapitata

la blatta manca mancandole
il possibile – è possibile
che sia invece un’invenzione
(la blatta)
continua, del presente

 

*

[Riguardo teoria di che cosa di Fabio Teti, di Niccolò Furri]

 

 

 

 

 

 

*

 

Variabile vs. Variazione

Note su Teoria di che cosa di Fabio Teti

di Alessandro De Francesco

 

            In questa occasione di lettura generata dal laboratorio Prove di ascolto mi interesso a due scritture della stessa generazione: quelle di Daniele Bellomi e di Fabio Teti, che mi sembrano tra l’altro accomunate da un elemento formale non altrettanto visibile nelle scritture di ricerca italiane anche di una mezza generazione precedente: l’attenzione per la metricità versificatoria. Se la questione del ritmo è sempre stata al centro del discorso poetologico degli ultimi decenni, su scala internazionale, un approccio metrico del verso è invece stato principalmente l’appannaggio, negli ultimi anni, di scritture piú tradizionali, per lo meno in Italia. Bellomi e Teti operano, nei modi che sono loro propri, una riattivazione del gesto metrico all’interno di un approccio per cosí dire sperimentale. Essendo due tra gli autori piú significativi della nuova generazione italiana, è un fenomeno da prendere sul serio. Inoltre, la lingua italiana si presta a una ritmicità metrica subito fortemente ondulante, per non dire musicale, che in questi versi di Teti, in particolare, dato il tema, produce un evidente effetto ironico.

Tale effetto è acuito dalla semantica scientifico-filosofica, che prevale sugli altri registri per accerchiare il suo feticcio concettuale, sociale, biologico: la blatta. Benché il testo ne dia non poche definizioni, in particolare politico-sociali, assimilando la blatta alla classe proletaria, che però non è qui “il nome / di una categoria sociale ma / quello di un molteplice / singolare”, è inevitabile chiedersi innanzitutto quale sia il ruolo della blatta in questi testi, e perché questo animale sia stato scelto al posto di altri. Se l’andamento della serie di testi fa pensare, sin dal titolo della seconda sezione (35 argomenti per la stesura di 10 tesi sulla blatta), alle Tesi su Feuerbach di Marx e, nella sua struttura descrittiva, al Tractatus di Wittgenstein e quindi anche all’Etica di Spinoza, la figura della blatta ci rinvia inevitabilmente a Gregor Samsa. Con l’insetto kafkiano, mi sembra, la blatta di Teti ha in comune un aspetto centrale: sono entrambi variabili, nel senso algebrico. Non già simboli o allegorie, ma piuttosto variabili riempite di volta in volta dal loro ruolo sociale, politico, ed anche grammaticale, come indicano bene i quattro testi introduttivi, Ai bordi della blatta. Variabili le cui funzioni sono quelle dell’epoca storica, dal preistorico “iguanodonte” al Mar Mediterraneo, tra commerci, guerre e immigrazioni: queste le coordinate “in cui s’incrocia il meridiano quindicesimo / col parallelo 35”. Variabili quindi tanto vuote – in quanto variabili, in quanto vuoti possibili, pre-eventi – quanto piene, anzi pienissime, e tale contrasto, oltre a renderle figure certamente metafisiche, le rende anche e soprattutto figure ironiche: “Il cuore di tutta la questione / blattoidea / risiede dunque nella / interpretazione / di questo vuoto e di questo / soprannumero.”

L’ironia, quando si indirizza alla moltitudine (di blatte o di uomini, giacché la blatta è variabile per ogni moltitudine, sincronica e diacronica) e alla storia, non può che essere triste. Ecco, a mio avviso, la ragione sostanziale della scelta della blatta in questo contesto. L’essere piú basso e triste a cui si possa pensare, qui però riattivato dall’ironia in qualità di variabile storica non solo come funzione descrittiva, ma persino come motore di evoluzione sovversiva: “il consenso / è la riduzione della blatta / a polizia, è la fine della blatta […] Lo stato / di cose normale / è quello in cui non si dà blatta”. La blatta è l’animale sporco contro la pulizia della polizia, è la moltitudine sotto il “radiatore”, che soffre ma resiste. La blatta incarna (è il verbo giusto) in quanto variabile gli emarginati, i dimenticati, tutti coloro che esistono nonostante che si faccia finta del contrario: “fa parte della blatta / colui che non rientra / nei conti, colui che non ha / parola da fare / intendere.” A differenza dell’insetto kafkiano, siamo anche per questo in presenza di un insetto ben definito: la blatta e non un altro insetto simile, non uno scarafaggio qualsiasi. Le differenze si moltiplicano: la blatta è qui moltitudine e non individuo, e soprattutto non v’è un processo di metamorfosi ma piuttosto di coincidenza letterale nella variabile tra blatte e gruppi sociali.

Si impone quindi una distinzione fondamentale: nonostante l’apparenza, questi testi non sono variazioni sul tema. Non v’è un preesistente tema della blatta, un tema-guida ben definito su cui la poesia possa costruire il suo gioco linguistico, bensí un tema-blatta, in cui la blatta è il tema e il tema è la blatta, il vuoto della variabile riempito dalla moltitudine delle vicende e delle parole. La blatta si situa al contempo al livello del contenuto e della forma, della storia e del poema, come mostrano i versi performativi del testo n. 42: “il disordine che ogni / separa, corpo da se stesso.” Del resto, la blatta può assumere essa stessa una funzione poetologica, ma non metapoetica, nella misura in cui la sua presenza come variabile a tutti i livelli non autorizza – altro legame possibile con Wittgenstein – nessun metalinguaggio: “la blatta è quel tipo di discorso che disfa / le partizioni tra reale / e finzionale, tra la prosa / e la poesia”.

Per la medesima ragione, la blatta stessa non è esente da questa operazione di separazione espressa dai due passaggi appena citati. Il suo possibile sovversivo, situandosi nella tristezza della storia, si dà soltanto in un’operazione di disfacimento che la affetta e incide, direi nei due sensi di entrambi i termini: incide su di essa, e la separa da se stessa incidendola: “la blatta c’è ma è quella di Tipping / decapitata // la blatta manca mancandole / il possibile”. Christopher Tipping, citato varie volte nel testo, è un entomologo americano che ha studiato in forma sperimentale, durante gli anni 2000, la capacità che hanno le blatte di vivere per varie settimane anche decapitate. Questo perché la loro testa, diversamente da quella di molti altri animali tra cui gli uomini, non è direttamente collegata a funzioni vitali come la respirazione, e perché le blatte sono capaci di vivere per periodi relativamente lunghi senza mangiare (si pensi anche qui a quanto detto sopra sui reietti della società).

Il tema dell’incertezza del possibile è identificato con molta giustezza sia da Teti che da Bellomi come fattore politico e storico essenziale nel nostro presente. In questi testi di Teti la decapitazione della blatta indica grottescamente una generazione di presente senza possibile, un presente destinato quindi a vita breve: “è possibile / che sia invece un’invenzione / (la blatta) / continua, del presente”, indicano gli ultimi versi, in cui la blatta, anche decapitata, mantiene eroicamente la sua funzione di variabile. Cosa resta quindi da fare alla poesia, arte del possibile, in questo contesto? Come si è visto, la poesia non è esente dalla variabile-blatta, ed anzi lo smembramento ironico del corpo-blatta è anche uno smembramento poetico, non solo e non tanto, nei versi di Teti, nel senso della partizione tra poesia e prosa che essi menzionano esplicitamente, ma anche e soprattutto nella partizione di un metro volto e generare un ritmo proprio, in un serialismo integrale – si direbbe quasi , tematico e ritmico, che rivela ancora una volta lo statuto ontologico della blatta come variabile piuttosto che come variazione. E con questo non si è risposto alla domanda.

 

 

*

 

Su Teoria di che cosa di Fabio Teti, 2016

di Silvia Tripodi

 

[…] riorientava tutta la sua ricerca in funzione di ciò che chiamava i modi di soggettivazione. Non si trattava assolutamente di un ritorno al soggetto, era una nuova creazione, una linea di rottura, una nuova esplorazione dove i rapporti precedenti con il sapere e il potere cambiavano.

Se si vuole, una nuova radicalizzazione. Persino il suo stile cambiava, rinunciava agli scintillii e alle esplosioni e scopriva una linearità sempre più sobria, sempre più pura, quasi pacata. Il fatto è che tutto questo non era una semplice questione di teoria. Il pensiero non è mai una faccenda di teoria. Erano problemi di vita. Era la vita stessa.

(Pourparler, Gilles Deleuze, pag. 141. Edizioni Quolibet, 2014)

 

La blatta infatti non può
essere definita
da alcun soggetto che le pre-
esiste. È nella forma
della sua relazione che va cercata
la differenza blattoidea che permette
di pensare il suo soggetto.

 

La blatta come terzeità estranea a sé stessa, che nella logica delle relazioni, non giunge a rappresentare una sintesi; piuttosto è attraverso il suo dispiegamento e il suo uso nel testo, che vengono ridefiniti gli ambiti del soggetto e della soggettivazione, di significato e significante. Tentando nessuna teoria quindi, o tentandone alcune, profittando di alcune teorie. Tra le quali quella di Adorno. Lasciandone traccia, lasciando tracce, nei testi. Lasciando i testi alle tracce.

Gli spazi della blatta sono “microfisici” e “macrofisici”.

La blatta come intelletto pubblico. Come grimaldello tra pubblico e privato. In Spazio di destot “la medusa staccata a riva si scioglie al sole”. La “disfazione” si compie attraverso il linguaggio, per mezzo del suo progressivo biologico disfacimento organico.

In Teoria di che cosa sembra che l’archeologia barocca di termini, di commutatori di senso, che sono alcune delle peculiarità enunciative di Fabio Teti, abbia trovato un nuovo habitat naturale in stilemi meno giocosi, in forme linguistiche ritratte, a tratti amare, più piane; i dispositivi teorici che incorporano quest’oggetto/soggetto metalinguistico, ne assimilano il senso fino a una progressiva concrezione attraverso una lingua più secca, stavolta ironicamente scientifica. Quest’ombra che sfugge da tutti i lati, che affiora in superficie, che si rivela, che si trova presso tutte le cose, tra gli interstizi della logica, nelle relazioni causa-effetto, nelle relazioni di scambio.

 

Se con la coda dell’occhio scorgiamo la blatta, in quell’attimo la possediamo.
Che cos’è un soggetto deprivato della sua blatta.
Cosa serve.
Che cos’è un soggetto a cui si aggiunge una protesi in forma di blatta.
Che cos’è un oggetto che somiglia a una blatta, ma non lo è.
A cosa serve.
In che misura la sua servibilità è o non è importante.
Quali sono i criteri di somiglianza tra la blatta e il mondo.
Che funzione hanno.
Forse non hanno funzione ulteriore se non quella di essere il paragone tra la blatta e il mondo.
Se anche il mondo è la blatta (e viceversa).
Se anche il mondo e la blatta (e).
Che cosa significa lavorare la blatta e cavarne profitto.
Che tipo di salario danno se si allevano blatte.
Che livello di operosità hanno le blatte.
Un dispositivo elementare all’interno del testo.
Una singolarità generica collocabile a più livelli.
Qual è la sua discendenza politica.

 

 

 

 

*

Prove d’ascolto è un progetto di Simona Menicocci e Fabio Teti

 

Post in translation: Karen Blixen

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Nota

di

Kareen De Martin Pinter

 

Leggere questo ritratto di Karen Blixen (1885-1962) è seguirne le tracce disseminate nella società danese di fine XIX secolo, entrare in una famiglia borghese, la sua, chiusa in se stessa, religiosa, protestante, luterana, che ha tentato in tutti i modi di soffocarla avendo in testa un’unica cosa: la morale.

Nata in un mondo per cui le donne erano né più né meno che graziosi vasi di fiori a cui bisognava insegnare le buone maniere, il canto, il disegno, il cucito e la musica solo per assicurare loro un matrimonio migliore, la piccola Karen Christentze Dinsen, affettuosamente soprannominata dal padre Tanne, riceve intorno alla culla la visita di sette fate, come in una fiaba, ognuna desiderosa di donare una qualità. La prima fata si chiama Nietzsche, ha appena pubblicato un’opera importante e la mette in guardia dalle ideologie che tenteranno di piegarla al conformismo. “La morale cristiana, il peccato, tutte menzogne. Solo il tuo destino conta!”, l’ammonisce.

La seconda fata, un leone, le dona l’occasione di incontrarlo e di poterlo ammirare. La terza, Shahrazad, le fa dono dell’arte di raccontare storie che possano salvarle la vita.

La quarta, il diavolo, chinandosi sulla culla della piccola Tanne le promette di tornare ancora, durante la sua esistenza, per metterle i bastoni tra le ruote finché lei non gli cederà la sua anima in cambio del bene più prezioso.

La quinta fata, Shakespeare, le regala il potere dell’immaginazione, perché la verità è nell’illusione, nel sogno, nel meraviglioso.

La sesta fata, un re africano, le offre l’adorazione per il sole.

La settima è una cicogna che non avrà il tempo di parlare perché il padre di Tanne interrompe la compagnia chiedendo di lasciare tranquilla la sua bambina. La preferita.

Il montaggio dell’opera è vicina al cinema e la tecnica dell’acquarello scelta da Terkel Risbjerg lascia spazio al surreale, a sfumature dolci.

Quando Karen Blixen è costretta a lasciare il Kenya (non prima di aver assicurato la terra ai suoi Masai) e a tornare in famiglia, c’è da chiedersi quale futuro abbia in serbo il destino per questa donna divorziata, ammalata di sifilide, contratta dal marito, e con il fallimento finanziario della piantagione di caffè sulle spalle.

“Morire non è una soluzione” le sussurrerà la vecchia madre echeggiando il suicidio del padre di Karen quando lei aveva dieci anni. Quel padre che le aveva insegnato ad amare l’avventura, la natura e il canto degli uccelli. Sarà il diavolo allora ad intervenire, ancora una volta, dopo aver fatto morire il padre e schiantare l’aereo del suo vero grande amore ai tempi dell’Africa. Le promette il potere di trasformare in opera tutta la sua vita, in cambio della sua anima. L’ anima, ormai, cosa vuoi che sia, le mordicchia all’orecchio come quando era nella culla. Tanne, ripiegata nello studio del padre, accetta.

Nessun editore danese fa caso a lei, anzi, al suo pseudonimo maschile, Isak Dinesen, dal nome del padre. Ma gli Stati Uniti accolgono a braccia aperte i suoi racconti. Un successo. E allora Karen Blixen riprende a viaggiare, col suo vero nome, inizia a raccontare altre storie, la sua vita, e a trovare un senso in tutto ciò che scrive. E a proteggere gli uccelli.

“Imparerà il nome degli uccelli, per prima cosa” dice il padre spingendo le sette fate fuori dalla camera della bambina e poco prima che la moglie piombi nella camera: “Imparerà a riconoscere i loro canti, per poter poi sentire il suo.”

La madre di Tanne lo rimprovera, entrando: “Ti avevo detto di sorvegliarla. (…) Ha soprattutto bisogno di calma e pace. Lasciala tranquilla adesso, deve dormire.”

E, come il volo delle cicogne durante il lungo viaggio della Blixen verso la sua Africa, sembra che il padre abbia davvero vegliato su tutta la vita di Tanne facendole trovare quel bene prezioso che è la sua voce in mezzo al coro dell’universo.

 

 

 

TITOLO: La Lionne, un portrait de Karen Blixen

AUTRICE: Anne-Caroline Pandolfo

ILLUSTRATORE: Terkel Risbjerg

Ed. Sarbacane (France)

Il fatale talento del signor Rong

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di Gianni Biondillo

Mai Jia, Il fatale talento del signor Rong, Marsilio editori, 2016, 412 pagine, traduzione di Fabio Zucchella

Rong Jinzhen è stato il più geniale crittografo cinese del secolo scorso. Ma questo lo scopriremo solo a metà della lettura di Il fatale talento del signor Rong. Prima di giungere a questo punto l’autore, che è anch’esso personaggio del romanzo, decide di cercare nel passato le ragioni del suo genio. Rong Jinzhen era destinato a diventare quello che è diventato. Perché aveva una antica ava capace di interpretare i sogni e un nonno professore all’università. Una dinastia di menti aperte e curiose. Una famiglia dalla testa grossa, in tutti i sensi. Rong Jinzhen ha avuto un’infanzia complicata, abbandonato dalla madre, cresciuto da un vecchio tutore inglese che lo ha educato leggendogli la bibbia e gli ha lasciato sul letto di morte un incarico gravoso, che diverrà stimolo involontario della sua intelligenza matematica. Ancora adolescente, fragile e geniale entrerà in contatto con un matematico ebreo che riconoscerà il suo talento prodigioso. Fino all’incontro con i servizi segreti.

L’autore riesce a comporre una storia che avvince e allo stesso tempo non rispetta alcuna stanca regola delle spy stories all’occidentale. Sembra, quello raccontato in questo romanzo, il reportage di un giornalista curioso, di uno scrittore che nella vita vera ha lavorato per anni come crittografo e che quindi conosce un mondo fatto di muri invalicabili, di porte chiuse, di misteri da tenere segreti. Al punto che si dubita se Rong Jinzhen sia vissuto per davvero o sia solo il sogno di un crittografo diventato scrittore.

Mai Jia evita orientalismi inutili. Racconta la Cina da cinese, nel secolo di Mao, della seconda guerra mondiale, dell’invasione giapponese, della rivoluzione culturale. Il tutto visto nel chiuso della testa di un genio fragile, ai limiti dell’autismo. Ai limiti della follia.

“Non volevo servire i nazifascisti.”

22

di Orsola Puecher

a mio padre

I

Entro a volte nel tuo sonno

1

di Francesca Fiorletta

“È solo una questione di distanza, di messa a fuoco, se mi allontano un po’ il disegno lo vedo anche nel caos”.

Così scrive Sergio Claudio Perroni nel suo ultimo libro, Entro a volte nel tuo sonno, in uscita oggi, 25 gennaio, per La nave di Teseo. E in effetti, questa frase potrebbe raccogliere l’intera scrittura di Perroni, e sicuramente l’intera stesura di questo testo particolarissimo. Un testo affascinante, certamente complesso, che non è un romanzo, non è un poema, non è una raccolta di racconti, non è un epistolario, non è un insieme di motti filosofici, non è un memoir, non è un diario, semplicemente potremmo dire che non è, osservato da vicino, niente di tutto questo. Eppure, allontanandosi un poco dalla pagina, rimettendo le parole in prospettiva, il disegno primigenio affiora, nitido e potente.

La canzone + 1 poesia sugli alberi

5

di Andrea Inglese

 

Io la prima cosa che vorrei fare

la prossima cosa che vorrei fare in tutta la mia vita

è la canzone non scrivere una canzone

dopo alla fine di tutto saprò anche scriverla

ma per la canzone bisogna innanzitutto farla

MEMORIE DELL’OLOCAUSTO “Brundibár” 26 e 27 gennaio 2018 Pesaro/Fano

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[ ancora – anche in quest’anno di “fascismi di ritorno” – come ogni anno – non solo per la commemorazione di un giorno – ma per la inesausta necessità di ricordare ogni giorno – di spendere ancora parole e immagini e suoni ]
 

Il dono di riattizzare nel passato la scintilla della speranza è presente solo in quello storico che è compenetrato dall’idea che neppure i morti saranno al sicuro dal nemico, se vince. E questo nemico non ha smesso di vincere.

da W. Benjamin Sul concetto di storia [1942]

 
MEMORIE DELL’OLOCAUSTO
 
Gli alberi crescono, nuvole corrono, gli anni in fretta passano.
Dall’opera Brundibár
 
Conferenza con supporti multimediali
a cura di Orsola Puecher
 
La storia triste e luminosa della piccola partitura manoscritta di un’opera per voci bianche, “Brundibár” del compositore ceco Hans Krása (Praga, 30 novembre 1899 – Auschwitz, 17 ottobre 1944), eseguita moltissime volte dai bambini del campo di concentramento di Terezin e arrivata fino a noi per testimoniare e ricordare con la forza della musica e della poesia quei bambini, più di un milione, e gli artisti che persero la vita e ogni traccia dei loro stessi corpi fisici nella tragedia dell’Olocausto. Parole di speranza, vita e futuro, che risuonano alte di fronte al vuoto orrore che sarà il loro destino.
 
Bblioteca San Giovanni Pesaro
VENERDI’ 26 gennaio ORE 17.00
locandina in ⇨ pdf
Evento facebook
Per informazioni:
Biblioteca San Giovanni – Comune di Pesaro
via Passeri 102 – 61121 Pesaro
tel.: 0721/387.770
fax: 0721/387.766
e-mail: biblioteca@comune.pesaro.pu.it
www.biblioteca.comune.pesaro.pu.it
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Mediateca Montanari Fano
SABATO 27 gennaio ORE 17.00
locandina in ⇨ pdf
Evento facebook
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