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Azulejos e altre poesie #4. Jorge de Sena

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Smartphoto di Nunzia de Palma*
Smartphoto di Nunzia de Palma*
Smartphoto di Nunzia de Palma
Alcune foto di azulejos scattate con smartphone da N.d.P. sono diventate un diario fotografico bilingue dal titolo “Today I feel/Hoje Sinto-me”

Clicca sulla foto per saperne di più

 

«Em Creta, com o minotauro»: una poesia di Jorge de Sena (1919-1978) tradotta da Serena Cacchioli.

Qui il poeta la recita in portoghese:

 

sena

A Creta, con il minotauro


I
 

Nato in Portogallo, da genitori portoghesi,

e genitore di brasiliani in Brasile,

forse diventerò nordamericano quando sarò là.

Collezionerò nazionalità come camicie che si svestono,

si usano e si gettano, con tutto il rispetto

necessario per i vestiti che si mettono e che prestano servizio.

Io stesso sono la mia patria. La patria

da cui scrivo è la lingua in cui per un caso generazionale

sono nato. E quella da cui faccio e da cui vivo è la

rabbia che ho della poca umanità in questo mondo

quando non credo in un altro, e soltanto un altro vorrei che

questo stesso fosse. Ma, se un giorno mi dimenticassi di tutto,

spero di invecchiare

bevendo caffè a Creta

con il Minotauro,

sotto lo sguardo di dei senza vergogna.

 

II

Il Minotauro mi capirà.

Ha le corna, come i saggi e i nemici della vita.

È metà bue e metà uomo, come tutti gli uomini.

Violentava e divorava vergini, come tutte le bestie.

Figlio di Pasifae, fu fratello di un verso di Racine,

che Valéry, il cretino, trovava uno dei più belli della “langue”.

Fratello pure di Arianna, lo avvolsero in un gomitolo ma se ne fregò.

Teseo, l’eroe, e, come tutti i greci eroici, un figlio di puttana,

gli rise nel rispettabile muso.

Il Minotauro mi capirà, si berrà un caffè con me, mentre

il sole serenamente scende sul mare, e le ombre,

piene di ninfe ed efebi disoccupati,

si chiuderanno dolcissime nelle tazze,

come lo zucchero che mescoleremo con il dito sporco

del cercare le origini della vita.

 

III

È lì che voglio ritrovarmi dopo aver lasciato

la vita per il mondo in pezzetti ripartita, come diceva

quel povero diavolo che il Minotauro non ha letto, perché,

come tutti, non sa il portoghese.

Anche io non so il greco, secondo le fonti più certe.

Converseremo in volapuk, visto

che nessuno di noi lo sa. Il Minotauro

non parlava greco, non era greco, ha vissuto prima della Grecia,

di tutta questa dotta merda che ci copre da secoli,

cagata dai nostri schiavi, o da noi quando siamo

schiavi di altri. Al bar,

ci diremo l’un l’altro le nostre tristezze.

 

IV

Con patrie ci comprano e ci vendono, in mancanza

di patrie che si vendano abbastanza care da vergognarsi

di non appartenervi. Né io, né il Minotauro,

avremo nessuna patria. Soltanto il caffè,

aromatico e ben forte, non d’Arabia o Brasile,

della Fedecam, o d’Angola, né di nessun posto. Ma caffè

tuttavia e che io, con tenerezza filiale,

vedrò scorrergli dal mento di bue

fino alle ginocchia d’uomo che non sa

da chi ereditò, se dal padre, se dalla madre,

le corna ritorte che gli ornano la

nobile fronte precedente ad Atene, e, chissà,

alla Palestina, e altri luoghi turistici,

immensamente patriottici.

 

V

A Creta, con il Minotauro,

senza versi e senza vita,

senza patria e senza spirito,

senza niente, né nessuno,

che non sia il dito sporco,

mi berrò in pace il mio caffè.

 

Le cose possibili

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lecosepossibili_copdi Martina Germani Riccardi

uno, uno, uno.
provo a pensare solo uno

e passano i primi venticinque metri.

due, due
neanche metto la testa fuori,
neanche la giro:
voglio restare qui sotto
né per difesa né per fiato, solo per
stare con me.

Un giorno ci svegliamo vivi

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[Esce per Valigie Rosse, Premio Ciampi 2016 per la poesia straniera, l’antologia di Ioan Es. Pop, straordinario poeta rumeno. Qui alcuni testi, in coda un brano dell’introduzione che ho scritto per il libro. a. i.]

di Ioan Es. Pop

traduzione di Clara Mitola

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Appunti nomadici 2

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di Giuseppe Cossuto

Proseguiamo il nostro viaggio nel passato di coloro che venivano considerati nomadi, scrivendo qualche nota sulla situazione degli zingari nell’ex mondo del “Socialismo Realmente Esistente” (la prima puntata è qui).

Elevare il grado socio-culturale distruggendo la cultura tradizionale

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, la fine del nazismo e del fascismo come sistemi di governo rappresentò per gli zingari sopravvissuti alle politiche di sterminio la fine di un tremendo incubo. Ancora scossi, molti sopravvissuti spesso rifiutavano di fornire le proprie generalità sia alle autorità americane che a quelle sovietiche. Molti, in vari Paesi europei, riconoscendo fascisti, nazisti e delatori, compirono vendette private e furono puniti dai tribunali militari alleati.

Tuttavia, nessuno zingaro venne mai chiamato a testimoniare contro gli aguzzini nei processi di Norimberga e, in quanto legalmente non perseguitati per motivi razziali ma per i “loro precedenti sociali e delinquenziali”, a buona parte dei superstiti non venne concesso alcun risarcimento da parte del governo della Repubblica Federale Tedesca.

Ciò nonostante un numero notevole di zingari provenienti dall’Europa Centrale ed Orientale continuò a scegliere proprio l’Austria e la RFT come luogo di immigrazione dopo l’instaurazione dei governi comunisti.

Il motivo dell’emigrazione è abbastanza complesso, e si lega soprattutto all’applicazione della concezione dogmatica marxista riguardo il “nomadismo” come stadio evolutivo primitivo dal quale emancipare gli zingari (ed altri gruppi nomadici).

Per l’emancipazione sociale degli zingari (e dei nomadi e dei vaganti) secondo i gradi progresso che contrastavano nettamente con i loro modi di vita, i governi del socialismo realmente esistente, investirono molte energie e risorse, sia economiche che di impegno umano.

Sedentarizzazione, collettivizzazione, lotta al presunto nomadismo si accompagnavano a politiche di acculturazione e di elevazione sociale, il più delle volte non gradite agli zingari, specialmente a chi da secoli viveva spostandosi.

Si erano avuti antecedenti di queste politiche già nei primi anni della presa di potere dei bolscevichi in URSS con attivisti comunisti di origine rom, come Ivan Ivanovich Rom-Lebedev, che molto si prodigarono nell’opera di combattere le “pratiche nemiche del lavoro produttivo”, intendendo per queste soprattutto la mendicità e la chiromanzia. Già nel 1925, era stata autorizzata la creazione dell’Unione Rom Pan-Russa, che aveva giurisdizione su tutta l’Unione Sovietica.

Con la creazione della prima fattoria collettiva per Rom, a Rostv, nel 1925, si intensificarono le pratiche anti-nomadiche e tra il 1926 e il 1928, ben 5000 rom si insediarono stabilmente in fattorie collettive in Crimea,  Ucraina e Caucaso settentrionale. Nel 1927 venne creato un alfabeto romanes avente per base il cirillico, mentre la prima grammatica, la Tziganskji Jazik (La lingua zingara), apparve nel 1931, così come l’anno prima era stato dato alle stampe il dizionario zingaro-russo, comprendente circa 10.000 vocaboli.

Oltre alla sedentarizzazione in fattorie collettive, tipica dei primissimi anni del bolscevismo, nei primi anni Trenta si iniziò ad “industrializzare” gli zingari, in appositi gruppi di lavoro chiamati artel’ (cooperative industriali specialmente chimiche e meccaniche).

Tuttavia l’Unione Rom Pan-Russa, già nel 1927-28 era stata oggetto di indagini e meticolosi controlli statali e polizieschi, che ne minarono l’azione, incarcerando e destituendo con vari capi di imputazione, molti dirigenti, per finire nello scioglierla definitivamente.

Sempre nei primi anni Trenta, numerosi zingari non di lingua russa, ma riconducibili ai Vlax, si accamparono nei dintorni di Mosca per venire poi radunati in un numero di 5470, per essere successivamente inviati nei campi di lavoro in Siberia.

Queste azioni del governo centrale contro i rom, colpirono, fino al 1938, numerose altre piccole nazionalità.

Grandi passi nella cultura ma che comportarono la distruzione dello stile di vita tradizionale.

Lo stesso schema fu applicato, con alcune varianti e differenze tra Stato e Stato, nei diversi Paesi del “Blocco Socialista”.

Ad esempio la lotta contro il nomadismo (o meglio, contro la non-stanzialità) come sistema di vita portò alla creazione di immensi ghetti zingari, come “Fakultet” a Sofia o di città abitate quasi esclusivamente da zingari come in Romania e in Bulgaria.

In Slovacchia, coloro che praticavano il “nomadismo”, dal 1958, potevano essere messi in carcere per sei mesi e, nel 1972, le politiche governative cercavano di invogliare le donne zingare a farsi sterilizzare.

Come “zingari” venivano classificati tutti i nomadi e, probabilmente, è proprio a causa di queste politiche assimilative “ziganizzanti” che si è perduta la maggior parte delle culture nomadiche, molte delle quali antichissime, che sopravvivevano, sia pur con difficoltà, nell’Europa orientale.

La drammatica evoluzione

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di Bernardo Pacini

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KANGASKHAN

Aborto naturale: defunto al sesto mese.
La madre che fraintese il corpo e il capezzale.
Il figlio era un progetto d’amore non saputo,
ridotto ad uno sputo al margine del letto.
Il fatto comportò la cupa depressione
che getta in contrizione qualunque Pokemòn.
Lei artiglia nella tasca il vuoto devastante,
espone sulla fronte la brama che rinasca.
Ma non c’è differenza tra giorno, sera e notte:
persino nelle lotte − è inutile − lei pensa:

«Da quando ho perso il figlio, è il male il mio giaciglio».

***

HAUNTER

Scriveva bene, Haunter, con grazia sepolcrale.
Racconto di Natale, Amleto, Poe & Bram Stoker,
letture un po’ datate, ma un buon apprendistato.
Talvolta era riuscito, scrivendo paginate
a prendere una forma: consistere incarnato.

Non spettro di se stesso, non madido riflesso.

Ma tutto quel talento, vuoi colpa del mercato
vuoi il tempo ahimè sprecato, rimase vivo a stento.
Mancò forse un maestro, un riconoscimento.
Sprecò il suo genio, Haunter, di fine narratore:
di un arido scrittore fu semplice ghost writer.

L’abisso che era scrivere se lo sentiva addosso.

***

PSYDUCK

Frequenti mal di testa, dolori ed emicrania
prostravano Psydùck, un dramma i suoi rapporti.
Un giorno andò in colonia che davano una festa
gli amici meno accorti gli offrirono un cognac.

«Compagni, vi ringrazio, ma devo declinare.»

Le zampe sugli orecchi, lui non sentiva niente.
Sperava che la mente, con tutti i suoi punzecchi
(lo stato di amnesia e logica stoltezza)
fosse per lui bellezza, gioiosa emorragia

o cumulo di buio, addio incondizionato.

***

ONIX

Come un mostro, arrotolato
nei dintorni di una cava.
Ha una colpa: essere un
corpo, un involucro sgradito.

La sua intima natura
ormai l’ha dimenticata
una massa rara, in onice,
la stupenda zonatura.

 

Testi da Bernardo Pacini, La drammatica evoluzione (Oedipus, 2016)

Disegno di Riccardo Bargellini e Manuela Sagona

Extraterrestrial activity #5: Hijab scene

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hijab

Scena dell’Hijab #3

“Qualcuno vuole candidarsi per il consiglio di classe?”
ha chiesto la donna picchiettando con la penna il portablocco,
“Sì, io”, ho detto, senza nessun effetto,
non mi vedeva proprio.
“Qualcuno per il consiglio di classe?” ha ripetuto,
“Sì, io” ho detto,
fossi stata antimateria era lo stesso.
Una regolare madre americana accanto a me
ha fatto spallucce e scosso la testa,
“Io! Io!”, ho mandato razzi d’emergenza,
suonato tamburi, sventolato bandiere di segnalazione,
provato coi segnali di fumo, il linguaggio dei segni,
l’alfabeto morse, Western Union, telex, fax,
il tenente Uhura ha provato a metterci in contatto
su un’altra frequenza.
“Dannazione, Jim, sono una donna musulmana, non un Klingon!”
Ma il campo di forza positronica del mio hijab
disturbava le sue coordinate cosmiche.
Salveremo l’astronave su cui siamo entrambe?
Salveremo
i cristalli di dilitio?

 

 

*

 

 

Hijab Scene #3

“Would you like to join the PTA?” she asked,
tapping her clipboard with her pen,
“I would,” I said, but it was no good,
she wasn’t seeing me.
“Would you like to join the PTA?” she repeated,
“I would,” I said,
but I could’ve been antimatter.
A regular American mother next to me
shrugged and shook her head,
“I would, I would,” I sent up flares,
beat on drums, wave navy flags,
tried smoke signals, American Sign Language,
Morse code, Western Union, telex, fax,
Lt. Uhura tried hailing her
for me on another frequency.
“Dammit, Jim, I’m a Muslim woman, not a Klingon!”
– but the positronic force field of hijab
jammed all her cosmic coordinates.
Can we save the ship we’re both on,
can we save
the dilithium crystals?

 

 

*

 

 

Mohja Kahf è autrice di poesia e professore all’università dell’Arkansas. È nata nel 1967 a Damasco, in Siria, paese che è stata presto costretta a lasciare per via delle pressioni contro la sua famiglia di oppositori politici. Al centro del lavoro poetico di Kahf l’incontro e le frizioni tra diverse identità culturali, la messa in discussione, spesso ironica, degli stereotipi, la meditazione sul senso di ‘casa’, ‘appartenenza’, ‘nostalgia’. E-mails from Sharazade (2003) è la sua prima raccolta di poesia, tradotta di recente in italiano da Mirella Vallone per i tipi di Aguaplano. Questa traduzione, invece, è a cura di chi posta.

 

Nell’immagine: una giornata complicata per Wonder Woman, appena tornata dal Punjab. In Sensation Comics, n.20, Dec. 2014.

Notizie dalla Descrizione del mondo ° 7/12/2016

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(sommario: Raffaella Aragosa, Gianluca Codeghini & Andrea Inglese – in Riscrizioni di mondo – , Alessandra Greco, Lorenzo Casali e Micol Roubini, Luca Rizzatello, Laurent Grisel…)

Non si potrebbe immaginare un tipo di scritti (nuovi) che, situandosi più o meno tra i due generi (definizione e descrizione), avrebbero del primo la sua infallibilità, la sua indubitabilità, la sua brevità anche, e del secondo il suo riguardo per l’aspetto sensoriale delle cose.

Francis Ponge

La geopolitica der paesello, la matita di Pelù e l’ecologia del seggio elettorale

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di Lorenzo Declich e Anatole Pierre Fuksas

Lorenzo. Leonardo Bianchi si è messo a scavare su pagine facebook semi-dormienti, Tipo “800.000 iscritti per Homer Simpson presidente del Consiglio”. Consiglio una rapida visione, il mondo lì sembra fatto al contrario. Tutto assomiglia al mondo pentastellato, fatto di ka$sta e “!1!!!” e “a casaa!”, di toni accesi, ma i contenuti sono integralmente antigrillini. Leonardo mappa il tutto e dice alla fine che si tratta di un’operazione di marketing politico. Mattia Salvia, in ottobre, si era “informato solo tramite pagine facebook per una settimana” e la differenza c’è: sta proprio nel fatto che la prima delle due echo chambers è costruita attorno al sì al referendum, la seconda descrive un intero universo di riferimento (oggi c’è il referendum, ieri c’era qualcos’altro, domani ci sarà qualcos’altro ancora). Si vede che qualcuno ha studiato Misinformation e segue le regole del confirmation bias. Qualcuno che ha preso atto di come funziona e prova a lavorarci su, applicando una semplice strategia tit-for-tat (cioè brutalmente “pan per focaccia”). Avrà successo? I numeri dei like, il commentario pletorico di queste pagine buongiorniste per il sì sono grossi ma boh, più di questo non si può dire. Si può dire però con certezza che qui termina ufficialmente l’era dei cacciatori di bufale e dei debunkers: loro combattono con il fioretto mentre sul campo di battaglia esplodono bombe atomiche. Soprattutto si configurano come qualcosa di “neutrale”, cioè un qualcosa che non ha il formato del social network, dunque sono destinati a sparire col fiorire di falsi cacciatori di bufale, debunkers bufalari ecc.

Anatole. Disvelatori di complottoni di tutto il mondo unitevi! Auguriamogli miglior sorte di quella alla quale è andato incontro Iacoboni, perché la merita. Questa cosa dei siti buongiornisti riconvertiti alla propaganda renziana del sì, che scimmiotterebbe er peggio der peggio del grullismo, nella nostra prospettiva è davero affascinante. E tutto sommato rispecchia bene i temi di questa campagna elettorale, che se vince il sì pare che ormai ti ricrescano pure i capelli. Ugualmente interessante sul fronte del debbunking abbestia è l’articolo di Nardelli e Silverman uscito su BuzzFeedNews, che collega l’hacker russo ai siti moldavi, impelagati con Trump, al movimento cinquestello italiano, ma anche a Putin e Assad. Tenendo da parte il fatto che il buongiornismo è un complottone di suo, meritevole di un approfondimento (l’articolo di Mattia Salvia su Vice, che abbiamo già citato da qualche parte nelle puntate precedenti scoperchiava il dramma in tutta la sua tragica evidenza), si può parallelamente pensare che se andiamo avanti così potremo scoprire che in realtà è tutta una manovra propagandistica per promuovere il film di Stone su Snowden, che ho scaricato da un sito russo, appunto, proprio ieri. La battuta meglio è quella della fidanzata, che a un certo punto si dichiara molto lusingata del fatto che le sue #fotoditette possano essere una cosa che ha a che fare con la sicurezza nazionale, quando lui, paranoico, le dice di cancellarle dall’hd. Neanche male il cerotto sulla telecamera del laptop, che potrebbe spiarli mentre scopano, perché l’hacker russo sa attivarle anche da remoto col computer idle. Insomma, siamo un po’ al punto che anche la #fotodicazzo in DM assume un rilievo drammatico per le sorti del mondo intero, cosa che probabilmente riflette il dramma schizoparanoico degli utenti buongiornisti dei social network. Ma la cosa che forse fa più ridere di tutte dell’articolo di BuzzFeedNews è l’emergere sotto traccia di una questione inedita e inaudita, cioè la possibilità, ma che dico l’eventualità, non so bene come dirlo nemmeno, di una politica estera grillina. Cioè, cos’è il mondo cinquestello? L’estero, concetto che ci rimanda indietro agli anni ‘cinquanta (“sei stato all’estero?”), appare di per sé come grande complottone. I ghiacci polari sono già squagliati? Gli americani hanno tutti il chip sottopelle? La trivalente è una trasfusione di sangue rettiliano proveniente dall’Africa? Anche senza scherzare, la storia dell’immigrato spedito in Italia dagli americani per destabilizzarci, sotto le mentite spoglie del profugo siriano fa veramente tagliare in due da ridere.

Lorenzo. Fa molto ridere in effetti. Gli “esteri” per queste persone qui sono qualcosa che ha molto a che vedere nel migliore dei casi col concetto di mirabilia.

Anatole. Le meraviglie dell’India je spicciano casa a questi, veramente! Prete Gianni who? Marco Polo facce ‘na pippa!

Lorenzo. Nel peggiore – e temo che ci avviciniamo molto al peggiore – il tutto è inquadrabile in un quadro pesantemente xenofobo: gli unici amici che avremmo sarebbero autocrati e tiranni con cui fare affari. Laddove la xenofobia è proprio una delle cifre dei regimi dittatoriali, con buona pace di chi, in tempi lontani, rendeva “neutro” il concetto di xenofobia associandolo a quello di xenofilia.

Anatole. Una Camboggia.

Lorenzo. Un marasma insopportabile, nel quale dovremmo imparare a nuotare per non affogare.

Anatole. Daje

Lorenzo. Ad esempio si possono fare le mappe delle storie e delle parole, per capirci qualcosa.

Anatole. Spiegati.

Lorenzo. Cioè, invece di impegnarci stupidamente in un debbunking (ormai ci piace con due b) teso a stabilire se in questi deliri ci sia aderenza o meno  alla realtà, possiamo utilizzare due o tre strumenti di analisi, per avere qualcosa di sensato su cui ragionare. Per fare questa cosa bisogna prima di tutto disinteressarsi della relazione tra fatti e racconto. Esempio: i miti di fondazione raccontati oralmente sulla costa Swahili. Da essi non riusciamo a ricostruire un fatto storico positivamente dimostrabile in quanto tale, ma possiamo inferire che nelle città-stato in formazione ci doveva essere una contesa politica tra le parti, ognuna delle quali aveva il suo mito di fondazione (questo è un punto di partenza su questo tema). Ora: prendiamo l’Antidiplomatico: non riusciamo davvero a capire cosa succede “all’estero” (ed è perfettamente inutile che diciamo “voi dite cazzate”), ma capiamo benissimo che “gli esteri” per i cinquestelli sono uno dei campi di battaglia della politica interna, capiamo, insomma, che nel mondo cinquestello si parla di esteri in relazione al fatto che i cinquestelli vogliono vincere le prossime elezioni. La cartina di tornasole si ottiene valutando cosa dicono i cinquestelli che stanno al parlamento europeo. Lo dicevo qui:

Più ci si allontana da Roma più i grillini diventano meno assadiani — i loro rappresentanti al Parlamento Europeo, ad esempio, hanno a suo tempo denunciato le torture di Assad, dopo aver visto le fotografie di Caesar.

E questo è un evento che non ha avuto alcuna risonanza qui in Italia. Facendo questa sorta di analisi areale (o meglio calcolando sommariamente il fetch) delle opinioni cinquestelle su Putin e Asad scopriamo insomma la loro funzione. Da lassù i cinquestelli non “percepivano” che il putinismo e l’asadismo del loro movimento funzionasse davvero bene in politica interna.

Anatole. È interessante questa cosa che dici e ci permette di leggere il complottismo in una chiave estremamente provinciale. Abbiamo sottolineato poco questo aspetto che è invece caratteristico e decisivo, che cioè quando vivi ar paese, e l’Italia in particolare è un posto dove la gente vive ar paese, anche quando si è trasferita in una metropoli cosmopolita da generazioni, l’unica cosa di cui ti frega è il paese e la canizza del paese. Voglio dire che qualunque cosa accada nel mondo ti interessa solo se riferita agli effetti che ha sul paesello in cui vivi e siccome non ne ha nessuno, ma devi trovare di necessità un punto di contatto tra quello che succede nel mondo e la tua vita, per non dover concludere che è inutile e priva di significato, ecco che il mondo intero diventa un complotto contro di te, ovvero contro il paesello e i suoi valori genuini.

Lorenzo. Sì, infatti. Che poi, se inseriamo tutto nella dinamica telefonone-Bello Figo, possiamo in questo modo intercettare quello che è definibile come “effetto Gorino”, se ci pensi. Di fronte a un evento assolutamente irrilevante e microscopico, cioè l’arrivo di poche persone bisognose e tranquille in un villaggio, dei criptofascisti hanno bloccato la viabilità innalzando pseudo-barricate.

Anatole. E così, anche, si spiegano bene i complotti americani per invadere l’Italia di africani, da Cerasito di Mezzo, per dire, a Gorino appunto, luoghi che, in realtà non esistono (soprattutto il primo, che è in Molise e non so se abbia a che fare con l’immigrazione, in realtà) fuori dalla mente di chi li popola. In sintesi, il complottismo, oltre a tutte le cose che abbiamo detto fin qui, è una forma profondamente provinciale. La scia chimica è un chiaro esempio: il mondo entra nel tuo campo visivo per il tramite di un aereo che solca il cielo e sparisce alla vista, l’impronta che lascia non può che essere nociva, perché vorresti essere su quell’aereo, ma non lo sai nemmeno, perché il tuo scenario di desiderio è sotto il tuo stesso livello di percezione, invece stai in un buco di culo sperduto e ci morirai sepolto senza che sia fregato niente a nessuno di chi eri e di chi non eri. Perché non eri assolutamente un cazzo di niente.

Lorenzo. Mentre il telefonone ti segnala che al mondo succedono miliardi di cose importantissime che ti stai perdendo, facendoti scattare l’unico succedaneo del desiderio che sei capace di percepire: l’ansia.

Anatole. Esatto, è evidente che, date queste premesse, ogni ingresso del mondo nel campo percettivo del grande provincialismo che ci circonda non può che diventare una minaccia delle multinazionali, della finanzia internazionale, delle elité liberal, che vogliono frocizzare i tuoi figli, farli copulare coi negri, contaminare le abitudini tradizionali, stanarti da quel buco in cui ti senti al sicuro. Una grande verità che Corbin O’Brien, il supervisor alla NSA dice a Snowden durante una scena di caccia del film di cui sopra è che “non vogliono libertà, vogliono sicurezza”. Stiamo perfettamente dentro questo frame. Il complotto è la forma che la minaccia costituita dall’enormità, dalla vastità, dalla grande complessità del mondo, assume agli occhi provinciali degli individui insignificanti sepolti nel paese sperduto, programmati, in realtà, dal battesimo all’estrema unzione (e quello è il vero complotto, cioè, il complotto sono loro).

Lorenzo. L’altro esempio che mi piace fare è sull’arrivo in Italia della parola “wahhabismo”, che si riferisce al movimento nato nel XVIII secolo nel Najd, attuale Arabia Saudita e che poi è divenuta la confessione ufficiale in quel paese e in Qatar. Notare: i wahhabiti non si definiscono wahhabiti: sono altri soggetti che chiamano i seguaci di Ibn Abd al-Wahhab in questo modo. Loro si definiscono semplicemente “musulmani” o (usando una semplificazione) “unitari” (muwahhidun) cioè “coloro che professano l’unicità di Dio” (unico vero caposaldo teologico dell’islam). In Italia la “fortuna” della dicitura è recente e si deve all’ingresso della propaganda russa, che ha fatto irruzione in Italia con la questione siriana e più precisamente da quando la Russia ha iniziato a uscire allo scoperto in Siria. Diciamo, sommariamente, a partire dal 2013. I russi chiamavano i jihadisti ceceni in questo modo perché una volta finita l’Unione Sovietica i sauditi iniziarono a fare proselitismo nelle ex-repubbliche sovietiche a suon di corani lanciati dagli aeroplani e/o costruendo moschee a tutto spiano. Prima si preferiva parlare di salafismo (che poi sarebbe meglio chiamarlo neo-salafismo ma lasciam perdere). Oggi chi parla di wahhabiti a sproposito è spesso individuabile come persona che subisce o si associa a quella propaganda russa, usando fonti come Russia Today o Sputnik. Ovviamente l’uso si espande anche ad altri soggetti ma riusciamo ancora a fare una mappa della provenienza delle notizie usando come bussola la parola “wahhabita”. Tante altre cose le possiamo mappare così.

Anatole. Si aprono vari fronti, se inquadri il problema così. Innanzitutto quello dell’approssimativa “precisione” nella descrizione dei fenomeni sociali e culturali, ma anche nei fatti della cronaca e della politica in genere.

Lorenzo. Il tagging accazzo al quale qualsiasi cosa, per essere intercettata da un pubblico, deve essere sottoposta.

Anatole. Esatto. Ci sono tantissime etichette accazzo che si usano per apparire più credibili e affidabili che alla fine non sono per niente pertinenti, non più che se, appunto, chiamassi tutti “gli arabi”. E questa cosa rimanda al problema che più volte abbiamo notato, che cioè o le cose le sai, o non le sai e se non le sai faresti meglio a interpellare chi le sa per capirle, invece di lanciarti in sbandatissime improvvisazioni.

Lorenzo. Sì, il fenomeno è di portata universale.

Anatole. Più in generale c’è quest’altro livello di analisi che caratterizza la formazione di opinioni sulla contemporaneità, che da una parte fa, diciamo così, pendant con il complottismo, basato sull’associazione abusiva di fatti irrelati, e dall’altra con la gestazione delle fake news basata su un’inversione del rapporto tra dato e metadato, tra fatti che accadono e categorie che li spiegano, con le seconde che, paradossalmente, producono i primi. Si tratta del fatto che le posizioni su un determinato argomento, diciamo la crisi dei rifugiati, la guerra in Siria, il terremoto, se deve uscire tizio o caio a un talent show o a quell’altro, se era rigore o no, qualunque cosa, non dipendono più tanto da come veramente la pensi, ma da quello che ti fa comodo per polarizzare l’opinione pubblica su un altro tema.

Lorenzo. Assolutamente. E qui si spiega molto di quello che entra in gioco nei complottismi. Anche in questo caso ignorando l’aderenza dei racconti alla realtà fattuale e ragionando sulle proprietà dei nessi causali messi in ruolo si riesce a capire chi polarizza, come e perché.

Anatole. Possiamo quindi aggiungere alle due modalità che abbiamo accertato anche questa terza, che è lo spostamento continuo dell’oggetto del contendere, con risultante distanziamento dai fatti in quanto tali, dei quali in fondo non te ne frega veramente nulla. Cioè, se affonda un altro barcone nel mediterraneo non te ne frega di per sé, perché sei di fronte ad una catastrofe umanitaria e devi in qualche modo trovare una soluzione per farla finire, ma perché ti interessa dire che questo o quell’altro ti sta facendo invadere dagli africani su mandato di una potenza straniera che avrà un suo qualche vantaggio (mai chiaro).

Lorenzo. Proprio così. Per anni mi sono dato pena di discutere sulla Siria, poi ho capito che della Siria a questi discussori non fregava assolutamente niente. Che a questi interessava dire qualcosa su, che ne so, l’antimperialismo o Renzi.

Anatole. Si tratta di una nuova versione del mondo fatto a nostra immagine e somiglianza, in maniera anche più stupida e vana che in passato. Cioè, non usiamo categorie nostre per descrivere cose che non capiamo, come i culturalismi ci hanno abituato a pensare. Parrebbe che adesso, pur avendo eventualmente gli strumenti per capire, non lo facciamo di proposito, perché un mondo disegnato in maniera intenzionalmente proiettiva serve a costruire opinioni su altri temi. Oppure, peggio ancora, relativizziamo qualunque cosa, perché la dobbiamo ricondurre alla dinamica della canizza paesana.

Lorenzo. Usando le nostre categorie: è evidente che una visione complottistica che metta insieme da una parte Soros, Renzi, la Clinton, il compagno del liceo che su facebook scrive cose sarcastiche e il saccente barista, dall’altra Murdoch, Grillo, Trump, il tassinaro e lo zio picchiatello è più rapido, semplice e comunicabile che non provare a capire fatti complicatissimi come quelli che attraversano la contemporaneità, che determinano assetti apparentemente improbabili, geometrie variabili di accordi e disaccordi di un sistema polimorfico, difficile da ridurre a questi contro quegli altri.

Anatole. Di sicuro se vuoi catalizzare l’attenzione, secondo il modello Povia o Marco Carta, di cui abbiamo parlato nelle puntate precedenti, piuttosto che discettare dei precari equilibri tra le tribù sunnite in Iraq, o ragionare sulle problematiche che emergono dal rapporto ISTAT, fai prima a tirare fuori il complotto della matita copiativa appena uscito dalla cabina referendaria, come Piero Pelù, un altro cantante in via di santonizzazzione:

 

peloo

 

A seguito di ciò possiamo riportare indizi di un paese intero che, nella domenica del derby, per dire, si ritrova in preda alla psicosi della matita. Un complotto di Alfano che poi dà ordine di scancellare i voti no? In che modo c’entra di mezzo l’hacker russo? L’invasione degli africani? La scia chimica che traccia il cielo sopra al tuo paesello natio?

Lorenzo. Questa è molto istruttiva. La mente complottista è fortemente adattativa, e trova soluzioni (sbagliate) in tempi brevissimi. Mi allungo un po’ però sta cosa mi sembra importante: nel libro di Shaw sulle false memorie si spiega molto bene il fatto che il pilastro della memoria è di tipo associativo. Ogni memoria, e ogni pensiero che ne deriva, vive in una sua ecologia fatta di altre memorie che vi si associano in forme più o meno stabili e/o corrette. L’esempio che fa è molto semplice: quando dico “poliziotto” penserò a qualcosa che è associato in maniera molto forte al concetto di “legge” e molto poco a quello di “tavolo”. Bene, in una mente complottista queste ecologie sono sostanzialmente sostituite da quella del complotto, che si associa praticamente a ogni cosa, essendo una specie di carattere jolly, molto comodo (ma anche riflesso di un sottile malessere, o forse proprio di una modalità psichiatrica), che si attiva ogni qual volta l’ecologia di quel concetto è assente o scarsa. In altre parole: se dici “Soros” o “ISIS” molti non hanno quasi altro concetto da associare se non “complotto”. La memoria interviene quando ragioni sulle cose ma anche quando hai esperienza di qualcosa. Nel caso peluviano, il cantante stava vivendo l’esperienza di votare e probabilmente si sentiva profondamente a disagio in quella situazione dovendo in qualche modo esprimere “protesta”, cioè rappresentarsi come il Cantante Rock anti-establishment. Niente di più facile, in quelle condizioni, che accendere il neurone del complottone, poiché così attivi l’ecologia protestataria che hai alimentato a modo tuo per una vita intera, dando un senso a quel momento di assoluta solitudine che è l’Esperienza dell’Urna. E poiché davanti all’autore di Eroi nel Vento c’è solo un foglio e una matita, una delle due cose dovrà pur rappresentare un problema. La scelta cade sulla matita. Il tutto poi incontra il sentiment di masse infinite di persone che manco la matita avevano pensato ed erano uscite dall’urna con un attacco di panico incipiente, determinato dall’evidente sensazione di non contare un emerito niente e/o aver sbagliato tutto nella vita. Ecco fatto, il complotto espresso. Niente di più probabile, stando a ciò che diciamo.

Anatole. Inteso dall’angolazione ecologica il caso della matita di Pelù diventa comprensibilissimo. Il seggio elettorale è per Pelù un luogo che si collega in automatico ad un complotto: il posto dove si esercita il più sacrosanto momento della democrazia non può che essere associato ai brogli, perché le istituzioni sono corrotte e ti inoculano vaccini autistici testati dai rettiliani sulle scimmie che l’animalismo cerca di proteggere eccetera. Automaticamente la sua interazione con la matita porta con sé un’idea di mondo, è cioè ibridata da un sistema di credenze, fatto caratteristico delle ecologie umane, come dicevamo con una collega estone in un articolo mirato a sviluppare tecniche di apprendimento situato della letteratura. Quindi la matita sarà scancellabile pefforza, perché ti pare che non ti scancellano il voto per rendere l’esito della consultazione elettorale conforme ai desideri della finanza internazionale?

Lorenzo. Niente di più ovvio.

Anatole. Ma pensiamo a quelli che la leccano: proprio un’altro livello di interazione corporea, altra gestualità, è un tema sul quale dovremmo interpellare minimo Vittorio Gallese, veramente!

Lorenzo. [Cade dalla sedia in preda a convulsioni provocate dal riso]

Anatole. [Continuando però imperterrito a parlare] In realtà, se ci pensi, può essere anche un modo fantastico di drammatizzare situazioni a bassa intensità. Quando vai a votare, dai il documento, ti danno la scheda, voti e te ne vai. Che palle. Cioè, dopo mesi di isteria sui social network vorresti qualcosa di più avventuroso.

Lorenzo. [Da sotto al tavolo, in lieve ripresa] Che almeno il presidente del seggio si riveli essere un Grigio.

Anatole. Sì. O che almeno esploda il cesso della scuola in cui vai a votare. Dunque ti inventi la matita che non scrive, la lecchi, poi denunci l’accaduto, scatti una foto, la pubblichi, tutto il mondo parla di te… che figata. Da “sticazzi” a “mecojoni!”, senza gran sforzo.

Lorenzo. Ritorniamo lì. Al Graal del “mecojoni!” che dà senso al telefonone.

Anatole. Il cerchio si chiude di nuovo.

Lorenzo. E per ora direi che è tutto.

Anatole. Passo a chiudo quindi.

Lorenzo. Passo e chiudo, sì.

mater (# 11)

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di Giacomo Sartori

Al maestro dicevo

al maestro dicevo

ch’eri sempre fuori

sempre fuori

di giorno e di notte

(soprattutto la notte)

fuori con la pelliccia

fuori con i rossetti

Chi dice che Varanasi è sporca non ha capito

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Testo e foto di Chiara Cerri

 

Torno a Varanasi, solo col pensiero.
Ci sono posti che ritrovi solo dopo mesi, ci sono foto che lasci a fermentare nel tuo hard-disk, fino al momento in cui le ritroverai. Diverse, lontane, sbiadite?
Ci sono viaggi che ti lasci alle spalle, solo per riposarti e poi riprenderli con la mente fresca e quieta del ritorno.
Ci sono foto che rivedi ed è come un tuffo in un passato lontanissimo che è solo di cinque mesi o di due anni fa.
Se i ricordi si sparpagliano riapro il mio diario di viaggio e tra le righe di una calligrafia sempre diversa tutto riprende le fila, i giorni si susseguono, gli itinerari combaciano, i nomi tornano alla mente.

Concerto a richiesta e altre poesie

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Viktor Krivulin

Contenere l’amore nel corpo della giovinezza,
sul ciglio del sonno, tra le rughe di una coperta.
(come l’ombra di un remo si torce, trepida
su un fondale assolato e sabbioso)
Quel tempo sin dai sedici anni, quando
gli oggetti quotidiani profumano di donna
(come l’ombra di un remo che cade in acqua,
come l’acqua oziosa e giallastra)
e quel costume bagnato, attillato,
e quel piccolo sole sulla spalla…

 

 

 

La nostra causa è cercare e non trovare,
La nostra causa è amare, fugaci, in segreto,
E i peccati ci sono rimessi solo perché
Nessuno è senza peccato, nessuno lo è.

Il nostro tempo è nebbia d’autunno sul fiume,
È il nostro nome eliso dalla nostra mano,
Perché di notte non ci restano che
Il dubbio, la coscienza e la neve.

 

 

 

In posa fetale

dieci anni di libertà
e ancora oggi ogni mattina
ti risvegli in posa fetale
avvinghiato con le mani
strette alle ginocchia
col mento sulla clavicola
e giaci così come una virgola
sopra un documento secretato
su lettera a inchiostro simpatico
coperta da segreto assoluto

 

*

 

Viktor Krivulin, Concerto a richiesta e altre poesie, a cura di Marco Sabbatini (Passigli, 2016).

 

Pratiche lesbiche e vincoli ciechi

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di Simonetta Spinelli

Ho chiesto a Simonetta Spinelli il permesso di pubblicare alcuni suoi articoli scritti diversi anni fa e già postati sul suo blog. Le ho anche chiesto di scrivere una breve nota di accompagnamento per ogni intervento, raccontando in sintesi le circostanze della composizione e il contesto di discussione in cui si inseriva, e lei lo ha fatto, per questo la ringrazio. La scelta di ripubblicare questi testi in serie (uno al mese) spero sia evidente a chi legge: (non solo sono incredibilmente belli, ma) sono inattuali e perciò parlano al presente.

Qui il primo post della serie: Una donna lesbica femminista.

Qui il secondo: Queering Wittig?.

 

***

Il silenzio è perdita (2016)

L’articolo pubblicato nel 1986 in DWF è il risultato di una riflessione che, ancora oggi, mi angustia. In Italia – e solo da noi – le donne lesbiche non riescono a restituire le loro esperienze di vita in discorso politico autonomo. Donne che si dichiarano lesbiche, che si esprimono pubblicamente in mille modi: studiose, letterate, scrittore, storiche, archiviste. Donne di pensiero, attive nella politica, che scrivono su tutto e su tutto restituiscono un patrimonio di consapevolezza. Ma il lesbismo resta come un inciso, tenuto al riparo, come se non potesse quell’esperienza fondante del nostri percorsi essere la base dalla quale partire per costruire una visione di mondo a propria dimensione. Non a caso nasce l’adesione sempre più massiccia alle lotte per i diritti civili, perché la richiesta di equiparazione e di tutela, per quanto possa essere dettata da sacrosante esigenze pratiche, non costringe ad esplicitare il sapere delle nostre vite, né ad assumere la fatica di una contrattazione complessiva sull’intero sistema dei diritti.

 

***

Il silenzio è perdita (1986)*

Come un gesto di irritazione di fronte ad un’intimità invasa. A volte penso che l’incapacità di parola che chiude il lesbismo in un discorso difficile da articolare, e che rende anche i gruppi politici in qualche modo insofferenti ad approfondire, in termini teorici,  quanto in questi anni si è espresso in pratica di rapporti, sia lo stesso atteggiamento a difesa di un’intimità, che sembra di avvilire nominandola[1].

Approfondire un’analisi sulla realtà del lesbismo significa scavare, inevitabilmente, in una storia tutta intima e renderla esplicita, abbandonando la ricerca di un sapersi che, proprio del lasciar tutto implicito, aveva fatto una strategia. Restringendo lo spazio di comunicazione alla denuncia di un’oppressione. E il resto raccontandolo in un gesto di interruzione di discorso. Un discorso che esisteva, per ogni donna lesbica, prima ancora che esistesse il desiderio di costruire linguaggio. Come se la chiusura ad ogni sforzo di parola fosse la premessa necessaria ad esprimere un desiderio, che solo nel contatto con il corpo dell’altra poteva dirsi, perché implicitamente diceva un’esistenza.

Se l’altra è corpo del desiderio, fra i due corpi di donna si costruisce uno spazio di coscienza che rompe la logica della negazione. L’incontro tra i due corpi – non detto del linguaggio a cui la materialità del desiderio restituisce presenza – rimanda, nello stesso tempo, all’una e all’altra donna, un’immagine di sé come soggetto desiderante e una intuizione del proprio corpo come strumento di indagine e di intelligenza. Prima di ogni analisi e presa di coscienza, dividere, dirsi il desiderio è nominarsi l’un l’altra e scambiarsi riconoscimento. Questo impatto di conoscenza è così forte che capovolge il senso di tutta la realtà. Per un momento. Perché la quotidianità ricostruisce le barriere del senso comune. E si struttura una mediazione tra l’insostenibilità e la voglia di onnipotenza, che è percorso di tutte le donne, ma che per le donne lesbiche contiene l’ostinata memoria di quel “sapere del primo istante”[2] negato, rimosso e irrimediabilmente presente. Amuleto raccolto in un tempo remoto, che dei simboli magici ha l’orrore di essere esplicitato, e di cui niente più si sa di preciso, se non che gettarlo è gettare la vita. E’ più facile esprimere una protesta, difendere una strada comune alle altre donne, o la specificità di un percorso e di una pratica. Ogni cosa ci segna, ci lega e ci attrae, basta che non tocchi, a livello singolo e collettivo, quel fulcro di sapienza di intimità che è lo scandalo delle nostre vite e il nostro scandalo. E non si deve dire, perché scioglierne i nodi è rischiare di perderci.

Appartenenza per una donna lesbica è percorso di esplicitazione di quel sapere di intimità. Ma questo percorso presuppone che l’intimità sia nominata, in qualche modo esposta. Là dove il segreto le manteneva il senso di difesa magica contro la cancellazione. Se neanche io so dare un nome a ciò che non può essere nominato, né articolarne i connotati, lo sottraggo all’indagine del mondo. Che lo sottragga alla mia sembra poca cosa di fronte al fatto che, inespressa, quell’intuizione dà spessore alla mia vita. Il timore è che la violazione del divieto sommi trasgressione a trasgressione e cancelli, banalizzandolo, ciò che mi dice esistente. Quando lo spirito non abiterà più la pianta, sparirà dalla terra il popolo degli alberi.

Concepire l’appartenenza in termini di esplicitazioni contiene, oltre al fantasma della perdita, il fantasma del tradimento. Gran parte delle donne lesbiche politicizzate ha concentrato i suoi sforzi nella significazione del soggetto donna, ma ha evitato – o rifiutato – di articolare in linguaggio il sapere delle sue pratiche di intimità. D’altra parte, le donne lesbiche che si sono aggregate nei gruppi spontanei sono rimaste, spesso, legate all’esaltazione ideologica di una pratica, peraltro non esplicitata. In ambedue i casi non c’è stata accumulazione di sapere. Quell’accumulazione di sapere che ha permesso la fondazione di un soggetto collettivo donna, l’inizio di un’articolazione di significato, che non è ancora linguaggio, ma già spazio di comunicazione sessuata, all’interno del quale è possibile problematizzare intrecci, relazioni e contraddizioni tra pratiche di rapporto e ambito collettivo in cui quelle pratiche si significano.

All’interno del soggetto collettivo donna, un soggetto collettivo lesbica non è mai esistito, perché le donne lesbiche non hanno posto – se non in termini rivendicativi o confusi – l’esigenza teorica di articolare un linguaggio a partire dalla propria esperienza di comunicazione, segnata proprio dalla materialità del rapporto con l’altra. Si verifica un paradosso. Quanto più il lesbismo non si esplicita in un soggetto collettivo, tanto più le donne lesbiche sembrano sviluppare una dinamica di difesa di fronte al tentativo di approfondire l’indagine sulle pratiche di rapporto, che è interpretato, collettivamente, come minaccia di frattura, di abbandono. Come se esistesse una realtà di vite separate, che non si mettono reciprocamente in gioco, ma si stringono in corpo sociale ogni volta che è a rischio quel patto, che nessuna dichiara, ma di cui ognuna registra le violazioni. Opera qui una doppia concezione di appartenenza, che invece di articolarsi entra in collisione, pur fondando su quell’implicito sapere di intimità, perché quelle che appaiono negarsi reciprocamente sono fatiche concrete, che hanno segnato storie e vite, così a fondo che i meccanismi di difesa scattano prima di qualunque razionalizzazione.

Appartenere a sé per una donna lesbica è percorso così legato all’appartenenza all’altra che scindere le due proposizioni è ripercorrere una strada che è stata obbligo prima di essere conquista. La materialità dell’incontro con l’altra restituisce alla donna lesbica la titolarità di un desiderio che può essere espresso. Ma l’essere soggetto desiderante è legato all’altra, al suo essere soggetto desiderante. Se l’altra è immagine senza corpo, lo stesso esistere perde senso. Il sapere dell’intimità coesiste con il fantasma della perdita. Qui scatta la prima difesa. Sembra più urgente sottrarre all’indagine quel vincolo, piuttosto che rischiare di perderlo analizzandone il dato di acquisizione di conoscenza. Al rischio della perdita di senso si oppone l’occultamento di senso. Che sembra investire anche l’atteggiamento opposto di chi rifiuta un’esplicitazione di percorso, considerandola svilente di fronte alla sfida che quel rapporto, così connotato, fondi di per sé un linguaggio che scardina la logica sociale. Perché, di fatto, ridurre ogni possibilità di rappresentazione all’esemplarità astratta di un percorso, azzera le singole vite e impedisce proprio la costruzione di un sapere collettivo, fondato sulle pratiche concrete e non sull’immaginario di quelle pratiche.

La scoperta di altre donne, legate dalla stessa materialità di rapporto, non cancella il timore della perdita. Ne muta le coordinate. Le altre donne lesbiche sono spazio di socialità che permette un intreccio articolato di rapporti. Concreti. Nei quali quel sapere di intimità, non espresso, è presupposto dato. C’è uno spostamento di ottica, in cui l’appartenenza si ridefinisce, ma sempre in termini di “ciò a cui appartengo”. Il processo di costruzione di un’identità è per le donne lesbiche troppo legato alla paura della solitudine, all’ansia di non rintracciare somiglianze, al bisogno di rappresentazione sociale, perché l’appartenenza possa immediatamente porsi in modo diverso da “appartenere a”. Sembra più vitale fare corpo insieme contro l’estraneità, stabilire un patto sulla base di una somiglianza che non può essere smentita. Il dato di fatto di una pratica di intimità si sostituisce ancora una volta all’indagine sul sapere di quell’intimità. E la sostituzione diventa nello stesso tempo punto di coesione e  base per il riprodursi di un’estraneità. Perché rappresenta le donne lesbiche in un corpo sociale votato alla perdita di senso.

Sembra un gioco ad incastro, in cui spostare una pedina è spostarle tutte. Prendere distanze dall’estraneità, nominando il proprio sapere, evoca di nuovo il terrore di essere appartenenti a nessuna, e di contribuire alla disgregazione di un corpo che del suo essere non soggetto a verifica aveva fatto forza coesiva. D’altra parte, ripercorrere una rimozione rompe un patto con sé, e provoca un’espropriazione che nessuna “appartenenza a” può sanare.

La pratica politica non smentisce la difficoltà di esplicitazione con la quale le donne lesbiche reagiscono alla paura che, nominando ciò a cui danno valore prevalente rispetto alle loro vite, si produca una perdita. L’appartenenza al Movimento è stata la mozione d’ordine sulla quale le lesbiche si sono cancellate. Più la loro presenza è stata significativa, e ha contribuito alla rassicurazione generale di “essere insieme”, più è stato nascosto e taciuto il sapere delle loro pratiche di intimità. Che restava, del Movimento, il non detto. Su cui fondava la coesione. Anche qui si è prodotto un immaginario di corpo sociale omogeneo, quasi omologato, che era costantemente smentito dalle pratiche, né omogenee, né omologabili. E si è verificata la stessa spaccatura tra ossessione della perdita ed estraneità. Con un’ambiguità similare. Perché non dare, o dare lettura parziale, delle loro pratiche di rapporto è stato per le donne lesbiche sminuire quanto di quelle pratiche aveva informato, e informa, l’accumulazione di sapere che negli anni è stata costruita tra le donne.

Storicizzare un percorso, individuale e collettivo, significa oggi ridefinire un’appartenenza in termini di “appartenenza a sé”. Urgente è trovare ciò che mi appartiene, che mi rimanda una somiglianza verificabile e non estraneità, che non riduce la mia vita, né restringe i miei spazi di espressione. Ho bisogno di confrontare pratiche concrete, nominate, e il percorso di indagine che le ha modificate. In questo cercare ciò che mi appartiene il silenzio rappresenta la perdita. Di me, perché obbliga la mia ricerca in coordinate rigide, in cui il mio desiderio di costruire linguaggio è negato, e che mi rappresentano, ancora una volta, come corpo muto. Delle altre donne perché l’immaginario sulle vite sostituisce la conoscenza e il confronto reale, e ci rende l’una all’altra astratte, prive di quei corpi di cui si tace il sapere. Della cultura collettiva che della esplicitazione delle pratiche e della materialità che le sottendeva aveva fatto il suo punto di forza. Della possibilità di costruire una rete di rapporti, rafforzata da spostamenti di coscienza individuali e collettivi, perché il non detto copre la consapevolezza di quei rapporti, e ne impedisce la rappresentazione.

Esplicitare una pratica di intimità non significa riproporre divisioni, né opporre l’una all’altra le vite delle donne. Scommetto su un’altra donna perché scommetto su di me. Quello che lega me e lei è ciò che ognuna delle due riconosce come qualcosa che le appartiene. E perché ci sia riconoscimento occorre nominare. Non esplicitare che sono una donna lesbica nega, nello stesso tempo, la mia vita e quanto della vita dell’altra deve poter essere detto, la mia pratica e la sua. Se anche niente dell’altra sapessi, saprei che raccontare il mio percorso è dire l’intimità con una donna, con altre donne che vivono la stessa pratica, lo sforzo di assumere e di significare il sapere di quel rapporto e di quei rapporti e come ha segnato un’esperienza quotidiana e un’elaborazione politica. Perché questo abbiamo fatto negli anni, espresso politicità costruendo lo spessore delle nostre vite. E mi sembra contraddittorio – in questo momento, in cui la discussione si accentra sull’esigenza di significare le nostre pratiche di rapporto, di nominarle e di nominare i soggetti che ne sono titolari, e ci siamo già assunte, difendendo un’appartenenza a noi stesse, la fatica di tradire i patti di silenzio perché cancellano le donne – riproporre la miseria di una parola che da me parte, ma in qualche modo obliquo anche mi evita. E far finta di non sapere, ancora una volta, che “il silenzio tra le donne è calunnia”[3].

 

* In Dwf, Appartenenza, 1986 (4), pp. 49-53

[1] Il riferimento è qui chiaramente alla realtà italiana, che è atipica rispetto ad altre situazioni europee o nord-americane, nelle quali il movimento lesbico nasce separato, a volte in antagonismo con il movimento delle donne. Al contrario, in Italia, le donne lesbiche politicizzate hanno scelto di confrontarsi all’interno dei collettivi e del dibattito femminista, rifiutando la separazione dalle altre donne. Il lesbismo femminista è la realtà più generalizzata e visibile, tanto più che le aggregazioni spontanee, per quanto diffuse, non esprimono desiderio di produzione teorica, e le punte di radicalismo, peraltro deboli, restano assorbite dal dibattito complessivo.

[2] Alessandra De Perini introduce questa problematica al Seminario di Firenze, 1-2 novembre 1986: “Il sapere del corpo lesbico […] E’ un sapere implicito, sapere del primo istante, che non prende tempo per riflettere. E’ un sapere poco articolato. Frammentario […] che ancora non è un Sapere, eppure molto sa delle donne, dei loro pensieri, dei loro piaceri”. Dattiloscritto, p. 7.

[3] Dall’intervento (inedito) di Elena Gentili al convegno Una ricerca lesbica: Etica e politica dei rapporti tra donne (Roma, 1-2 novembre 1985).

 

 

La renitenza al risveglio ( bagatella mattiniera)

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di Giorgio Mascitelli

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La renitenza al risveglio è un piacere sottile e pericoloso che affligge Guido della Veloira  tutte le mattine. Il risveglio non è mai istantaneo, ma è un processo lento che spesso precede il suono della sveglia e in cui l’apertura degli occhi è solo una fase che succede al sorgere, sotto la cupola del sonno, di un barlume di coscienza delle cure del giorno, cioè delle angosce che esso porterà. Quando gli occhi si aprono una prima volta nell’oscurità per subito richiudersi, l’acre sapore delle angosce del giorno emana i suoi miasmi che s’insinuano fin nei precordi. Allora, e solo allora, comincia una lenta pantomima di giravolte sotto la coperta che non è un semplice stirarsi, ma è un complicato rituale di dilazione e di liberazione dell’istante dalle incombenze del poi. Il dolce tepore tra le coltri suggerisce che non è ancora arrivato il momento di alzarsi e questa salutifera consapevolezza del non ancora diventa piacere. Piacer figlio d’affanno, mentre la sveglia non suona ancora, ma emette il suo regolare ticchettio.

Proprio la sveglia è una specie di relitto vivente, come certi pesci negli abissi degli oceani,  di un’epoca passata in cui la misurazione rigorosa del tempo era necessaria per una misurazione rigorosa del lavoro che a sua volta era preludio di una vita rigorosa fondata sullo sfruttamento del lavoro. Il tempo dell’orologio fu il tempo della produzione. Ora che il tempo del computer è di una rapidità incalcolabile per qualsiasi mente produttiva, la sveglia diventa uno strumento obsoleto che si ostina a porre dei limiti a ciò che non ne deve avere perché usura è operativa ventiquattro ore su ventiquattro.  E’ il tempo incalcolabile  del progresso.

La sveglia suona, frattanto,  ma il rivolgimento nel letto prosegue per un istante allo stesso modo che la lucertola a cui è stata tranciata la testa prosegue per un frangente millesimale i suoi movimenti. Ancora due minuti e poi non si può più differire l’incontro con il muro del giorno.

Le angosce nel dormiveglia sono dismisurate ché ancora la ragione non le ha chetate, poste tra parentesi, contenute, analizzate, delimitate: verosimilmente sono sproporzionate. Il pieno risveglio le disciplina, anzi è la disciplina. Ma basta distrarsi un attimo con il tubetto del dentifricio in mano oppure nell’aspettare che il caffè venga su nella moca perché questo paziente lavoro degli strumenti della ragione vada in malora. D’altra parte se non ti puoi fidare nemmeno più della sveglia, è logico che per Guido della Veloira tutto diventi incombenza.  Ma dopo colazione, contro la forza centrifuga dell’angoscia del mondo che vorresti tenere fuori dal tuo mondo, muove con passo sicuro una uguale e contraria centripeta: la paura di attardarsi e di essere escluso.

Forse è vero quel che dice sempre Giampaolo  che si conosce il mondo solo nell’esclusione, nella separazione, quando la macchina sociale ti ha esodato fuori per qualsiasi motivo ( salute, età, pazzia, migliori opportunità d’investimento altrove); forse è vero che l’uomo è  così stolido che ci capisce qualcosa solo quando ormai sta sorseggiando la spuma o il gingerino al circolino della vita, mentre gli altri sfrecciano intorno. Quanto a Guido della Veloira lui non condivide le opinioni di Giampaolo, ma segue la doxa. Come chiude la porta di casa, gli si accende una spia rossa nel cervello, la cui luce è osservabile attraverso le tempie in certe giornate non molto luminose, che dice ‘non lasciatemi indietro’.  Non è facile di seguire le opinioni di Giampaolo tuttavia, persino il protagonista di Pentotal si lamenta di essere isolato in una Bologna del Settantasette in cui avrei immaginato che si pensasse a tutto fuorché all’ansia da esclusione. Essa non molla facilmente la presa, bisogna aver subito un danno pressoché irreversibile alla capacità di nutrire ambizioni o aspettative per essere sputato fuori.

Può anche darsi che Giampaolo abbia torto e ogni posizione che ci si trovi a occupare nell’arco dell’esperienza è soltanto un angolo della visuale senza alcuna priorità. Per il momento Guido della Veloira non si pone il problema e non conosce nemmeno Giampaolo, finché il fiato non si fa grosso nel correre e nel superare le persone per prendere il treno del metro che sta arrivando, ma senza sgomitare solo di agilità, anzi perfino disponibile a cedere il passo all’attempato claudicante e nonostante questo sempre per primo lì alla porta. Ma poi questi tempi finiranno. E anche adesso, che è nel pieno delle forze ma non lontano dagli affanni che tramano  nella penombra del risveglio, basta un incidente banale qualsiasi, che so un treno guasto, una giornata di sciopero del metro, uno che si butta sotto il treno per cancellare questa facciata olimpica di tranquillità e da sotto riemerge il solito banale urlo di sempre.

l’immagine è Freccia rossa di giovane artista milanese contemporaneo)

Ideafelix: un progetto di libri

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di Davide Orecchio

loniganSembra che i libri debbano darsi da fare. Non possono più accontentarsi di essere libri. Così, per restare nel mondo, i libri mutano. Alcuni perdono il potere della carta, e acquistano qualità digitali. Altri prendono la strada della socializzazione in Rete; capita in questi casi che il libro, che già di suo dovrebbe contenere tutte le storie possibili, divenga parte di una storia, o di uno storytelling intarsiato di status, post, video e immagini del quale il volume è solo l’innesco e poi appena un frammento. Altre mutazioni, le più frequenti, esulcerano nel protagonismo (virtuale, di network sociale) degli autori, che a volte aiuta il libro, a volte lo danneggia, a volte incoraggia i lettori ma può anche distrarli.

In altre circostanze, invece, il libro può diventare in dose non minima il motore di un progetto più ampio, e reale. È il caso di ideafelix (ideafelix.com), una nuova piattaforma editoriale aperta da pochi mesi che pubblica sei romanzi l’anno e che finanzia iniziative culturali o laboratori didattici nelle scuole, destinando loro il 20% del prezzo di copertina dei volumi, tutti in formato cartaceo e acquistabili direttamente dal sito.

«Abbiamo creato ideafelix – si legge nel chi siamo della piattaforma – perché vorremmo che l’esperienza legata alla lettura di un testo si trasformasse in qualcosa di funzionale alla nostra vita quotidiana. Così ci siamo chiesti: e se la vendita di un libro fosse anche l’occasione per finanziare dei progetti culturali o promuovere la creatività dei nostri figli? E se potessimo divulgare il messaggio: “Leggi una storia, realizza un progetto”? Oppure, al contrario: “Vuoi realizzare un progetto? Leggi un libro o chiedi ai tuoi amici di farlo”. I libri hanno finalmente una seconda vita: sono oggetti da leggere e sono oggetti che generano finanza da destinare alla realizzazione di altri progetti culturali».

Ideafelix è anche una piattaforma di crowfounding: chiunque può lanciare gratuitamente un progetto, condividerlo pubblicamente e ottenere un finanziamento collettivo.

Finora i romanzi pubblicati sono due. Scelte originali. Repêchages di autori e opere fuori catalogo non banali. Come  Studs Lonigan dello scrittore nordamericano James T. Farrell (1904 – 1979), primo capitolo (tradotto da Giuliana Villa) di una trilogia che negli anni Trenta del Novecento ebbe molto successo negli Stati Uniti, e ispirò, tra gli altri, Ernest Hemingway, Tom Wolfe, Norman Mailer, Kurt Vonnegut. «Attraverso i suoi libri – ha scritto Vonnegut di Farrell – mi ha mostrato che era perfettamente normale, e forse anche utile e bello, raccontare com’è davvero la vita, cosa si dice e cosa si prova veramente, cosa si fa, cosa succede»; e ancora: «Il suo lavoro è immenso. Balzachiano nella sua vastità. Se solo avesse prodotto una tale mole di opere in un paese più piccolo, avrebbe già vinto un Premio Nobel». Farrell, figlio di immigrati irlandesi, cresciuto all’inizio del secolo nei quartieri più poveri e violenti del South Side di Chicago, riporta alla vita quei luoghi col raccontare le peripezie del quattordicenne Studs e dei suoi compagni. La violenza, gli scontri tra bande, l’amore, il sesso, la povertà, la speranza e la paura del futuro escono dalla penna di un autore profondamente socialista.

Studs Lonigan ha contribuito a realizzare “L’alba della meraviglia”, un laboratorio di filosofia per bambini tra i 6 e i 10 anni in una scuola elementare. Leggiamo dalla descrizione: «Domandare in continuazione, cercare risposte sempre nuove e diverse, non accontentarsi mai dei risultati raggiunti: non sono forse queste le caratteristiche comuni ai bambini e alla filosofia? E allora perché non farli incontrare proprio nel luogo che la nostra società ha costruito per far sì che ciascun individuo cresca e progredisca nelle sue capacità intellettuali, affettive, morali, ossia un’aula scolastica?».

Il meccanismo ha funzionato. «Siamo molto soddisfatti – racconta Felice Di Basilio di ideafelix –. Siamo riusciti a presentare un circuito virtuoso in cui i libri generano finanza da destinare ad altri progetti culturali. Quindi il libro è diventato più forte, un vero protagonista. Ad oggi il romanzo Studs Lonigan ha finanziato il 60% del laboratorio didattico “L’alba della meraviglia” (sei classi su dieci). Ma avremmo voluto finanziare il 100%, quindi c’è ancora molto lavoro da fare».

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La seconda tappa (uscita: il 30 novembre) è La montagna ci cade addosso (traduzione di Valeria Lupo), dello svizzero Charles-Ferdinand Ramuz (1878 – 1947). Scritto nel 1934, il romanzo è ispirato alla frana che nel 1714 si staccò dal monte Diablerets, e – citiamo le parole dell’editore – si tratta di un’opera «lirica, dallo stile irregolare, magico e avvincente, che svela l’imperscrutabile e misterioso legame che unisce l’uomo al suo ambiente». Qui la protagonista, «l’eroina viva e pulsante, è una montagna, una creatura che parla e a cui gli esseri umani rispondono. Alle volte ride, fa brutti scherzi, gioca con il diavolo, e ha una sua chiara volontà».

Il romanzo finanzierà il progetto Radio Freccia Azzurra, curato dall’Associazione Matura Infanzia e rivolto a sei classi della scuola elementare e a una classe della scuola media: «Una web-radio scritta e condotta dai bambini: interviste impossibili, microstorie sonore inventate, lezioni in classe preparate da bambini e insegnanti come fossero un’équipe di ricercatori al servizio di una comunità che impara ad ascoltare. Un laboratorio di radio per trasformare la scuola, gli ambiti delle materie, il curriculo scolastico in un potenziale palinsesto radiofonico».

Spiega ancora Di Basilio: «Ideafelix vive grazie al coinvolgimento di una comunità, così come il libro esiste se incontra dei lettori. La nostra comunità deve crescere ancora molto, consolidarsi. Ogni progetto è una sfida molto impegnativa. Essere riusciti a finanziarne uno non assicura il successo di quello successivo. Così ogni volta che presentiamo il nuovo progetto e il nuovo romanzo è come iniziare tutto da capo. E per questo ci vuole molta lucidità e soprattutto un’ottima organizzazione. Il nostro primo romanzo non è stato distribuito nelle librerie, ma non è frutto di una scelta ideologica. Diciamo che il motivo è molto più banale: non abbiamo avuto tempo di organizzarlo. Siamo presenti in una libreria perché sono stati loro a proporsi. E’ la libreria Fahrenheit di Piacenza, il nostro primo amore. Adesso ci presenteremo in alcune librerie di Roma e con il tempo cercheremo di aumentare la nostra esposizione».

Ma non è semplice – conclude Di Basilio, «perché il modello ideafelix presuppone vendite certe in un lasso di tempo di circa due mesi. Quindi con le librerie stiamo cercando una formula commerciale che rispetti questa esigenza. Tutti i nostri interlocutori – l’utente, le scuole, le Onlus, i privati – vogliono sapere in tempo reale e nella più assoluta trasparenza quello che succede, come avviene in una classica piattaforma di crowfunding. Quindi complicato, ma si può fare».

Maldifiume

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logo-biblioteca-viandante-orizz(La biblioteca del viandante è una nuova collana diretta da Luigi Nacci per Ediciclo. Vuole accogliere opere scritte con i piedi sulla strada e la testa nell’utopia. Non testi d’occasione, non guide, non manuali sul camminare, ma libri-progetto,  che sappiano attraversare i generi con lo stesso passo con cui attraversano la realtà. E’ in libreria il primo volume. Direttore, editore e autrice ci regalano l’incipit. E noi li ringraziamo. G.B.)

 

di Simona Baldanzi

Il fiume non sta in un barattolo

Gli italiani mettevano tutto in un barattolo” mi disse un uruguayano di oltre novantanni una calda sera di febbraio sotto il pergolato della sua bassa e spartana casa. Santino, suo nipote, spremeva limoni, triturava il ghiaccio e ci passava i margaritas. Quell’uomo anziano, alto e snello, che teneva con una mano il bracciolo di una sedia in ferro e con l’altra il bicchiere tozzo e largo, iniziò a parlarmi dei primi italiani che conobbe, quelli che emigravano e arrivavano nel Sud America. Per lui gli italiani erano quel popolo che conservava tutto: pomodori, marmellate, confetture e passate di ogni tipo. Le parole di quell’uomo erano biascicate e impastate di alcol, limone e ghiaccio, faticavo a comprenderlo, le palpebre si chiudevano in un movimento lentissimo e ogni volta definitivo, un tempo e un gesto a cui non ero abituata, eppure lo ascoltai tutta la notte.

Quando ero arrivata a Pasos de Los Toros insieme a Caterina e Pia, facevano 42 gradi. Un caldo che aveva spento tutto: rumori, odori, movimenti. Le uniche cose vere sembravamo noi, noi che spingevamo la porta aperta di casa di Santino, noi che entravamo in una casa senza chiavi, noi che avevamo il permesso di sistemarci anche se non c’era nessuno. Posati i bagagli guardammo i colori alle pareti, i libri di Mario Benedetti, i pochi mobili, le tende con disegnati le nuvole e gli uccelli. Il caldo e quella sensazione del tempo fermo non cessavano e quando con le gambe madide provammo a darci lo smalto alle unghie e il rosso si seccava prima di distenderlo, decidemmo di uscire.copertinamal

I negozi erano chiusi, le strade erano strisce roventi di asfalto e non trovavamo nessuno. Individuammo un passante, che camminava svelto per scansare il sole, lo fermammo. Ci guardò con stupore e ci disse che erano tutti al fiume. Quale fiume? El Rio Negro. Ci indicò la via, oltre la scultura del grande toro che dava il nome al paese. Facemmo una ventina di minuti a piedi sotto un cielo accecante, di quelli che paiono che neanche il sole ci sia da quanto è scoppiato ovunque. Quando arrivammo fummo inondati dal verde, da ogni tono di verde e sfumatura e densità. Un alito di vento, un gorgoglio d’acqua, una risata. Tutto si mescolava, si confondeva e si dispiegava. Donne, uomini, bambini, anziani, stavano tutti lì. In acqua o sulle rive di quel fiume verde colmo di piccole alghe che parevano ci avessero versato tutte le scorte di mate, circondato di erba, alberi, macchia. Bevevo quello che vedevo, si placava la sete e il caldo. Ricordo ogni passo verso l’acqua più alta, la freschezza sulla pelle, i brividi, gli occhi di una bambina che guardava il mio pallore dilatarsi e galleggiare.

Avevo i capelli ancora umidi e intrisi delle piccole alghe del Rio Negro, quando il nonno di Santino posò sul tavolo un guscio di tartaruga. Lo aveva trovato intatto durante l’alluvione del Rio Negro. In ogni esagono c’erano incise date e numeri. C’erano le partite, le coppe, i goal più importanti. Seguivo il suo indice rugoso e sottile. La storia di quell’uomo vissuto da calciatore professionista in Uruguay stava tutta imbastita in quel guscio donato dal fiume.

Ancora non lo sapevo, ma il primo momento in cui ho iniziato a pensare a un viaggio lento lungo l’Arno, è stato lì, su quel tavolo in Uruguay, a migliaia di chilometri di terre e mari lontano da casa. Quel Rio Negro che mi aveva accolta a quel modo, bagnata e risvegliata, mi poneva tante domande. Cosa è per me il fiume? Cosa è l’Arno? Cosa è diventato? Come è cambiato? Noi italiani che mettiamo tutto nei barattoli, che prepariamo riserve, che siamo bravi a conservare, cosa ce ne facciamo oggi del fiume? Come viviamo il fiume che passa paesi, parchi, città, che si muove vicino a ferrovie, autostrade, che sibila sotto i ponti, che divide comunità in due rive, che attrae e spaventa insieme?

Le domande aumentavano, ma io non guardavo fuori, cercavo l’intimità, la mia storia, i miei fiumi.

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Tronismo di massa e sestessità scatologica: la cifra stilistica del populismo quotidiano, da Titti Brunetta a Lapo Elkann, via Maria Feliziani

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di Lorenzo Declich e Anatole Pierre Fuksas

Lorenzo. La cosa che mi ha più colpito dell’intervista a Titti Brunetta è stata questa frase: “Non ho giocato, ero io con il mio animo, le mie passioni politiche, il mio impegno civile e i miei rapporti di affettività. Io sono Bea e porto nel cuore questa esperienza…”. Sembra una specie di brevissima ode all’autenticità. Ma è anche qualcosa di formulare, sembra quasi che Titti dica questa cosa con lo stesso mood che si ha quando si consegnano i documenti di identità a un poliziotto che li richiede: ecco, io sono io. Siamo in pieno Tronismo e, allo stesso tempo, nel cuore di un momento di verità altissimo. Il complotto del complotto è smascherato con la semplice frase: “io sono vera”. Voglio dire: questa vicenda, oltre a raccontarci di falsificazioni e algoritmi che saltano, ci rivela anche una delle fondamentali realtà del social network, ossia che, come mirabilmente spiega esemplificando David Cohn su Medium:

When I see content shared by a friend, I am not first learning about the world, I am primarily learning about my friend. Facts don’t matter. Truth does. Tim’s truth. Tim’s view of the world.

Si apre, da una ulteriore prospettiva, il grande capitolo della presunta distanza di tutto questo puffare dai fatti. Cioè: non c’è soltanto il porre in secondo piano l’effettivo accadimento, non c’è soltanto la confusione tra reale, vero e autentico; c’è anche che il telefonone, il social ecc. sono un fatto in sé ovvero cose che avvengono realmente, ma avvengono attorno a narrazioni, o quel che sono. Questi strumenti generano per definizione dei metadati rispetto alla realtà fattuale.

Anatole. vuoi dunque sottolineare vari addentellati della vicenda di cui parlavamo nella puntata scorsa con altre questioni che abbiamo trattato in quelle precedenti, a cominciare dal rapporto tra gesto di parola e fatti a cui faceva riferimento l’Economist e che Alessandro Lanni precisava, riconducendolo alla sua originaria matrice filosofica. E al contempo sottolineare che la Moglie di Brunetta (il sessismo dell’etichettatura si deve al fatto che è ormai per noi un complottema top) surfa l’onda del get real rappettaro nella chiave maccheronica del tronista, autentico, vero, non artefatto, dunque un non-complotto.

Lorenzo. sì voglio effettivamente far questo, sento che infine riusciremo anche a dire due cose sul posto che in questa ecologia occupano le bugie e i fascisti.

Anatole. Forse non siamo ancora abituati ad una situazione nella quale i fatti-fatti e i fatti che si autoproducono nel corso di una narrazione dei fatti sono parte dello stesso sistema reticolare che definisce la realtà abitabile.

Lorenzo. Va bene, e allora abituiamoci, alleniamoci a ragionarci sopra, i lanzichenecchi sono là, sulla linea dell’orizzonte, ma ci resta ancora un po’ di tempo.

Anatole. Cerchiamo ancora di distinguere tra un fatto ed un commento ai fatti, in una situazione nella quale, invece, il fatto-fatto è spesso prodotto dalla visione del mondo che lo dovrebbe commentare, secondo un ordine invertito del rapporto classico tra fatto e commento. Cioè, rendiamoci conto che è un po’ saltato questo rapporto gerarchico, col risultato che noi altri, filologi, storici, gente che vorrebbe ancora stabilire una concatenazione lineare e possibilmente gerarchica tra eventi e testimonianze, evidenze positive in genere, facciamo una gran fatica per elaborare sintesi delle quali non frega in realtà niente a nessuno. Ha ragione Cohn quando dice che «all acts center around identity creation and networking» e che «the entire news industry changed its strategy to accommodate this practice». Non stupisce che in questo contesto il metadato applicato ad un discorso diviene rapidamente dato esso stesso, anzi, a volte produce il dato, sfuggendo alle architetture di sistema controllabili.

Lorenzo. Sì, è un po’ il seguito di quello che si diceva commentando la frase di Dumbledore, in calce al lenzuolone su postverità e palllone sbagliato collegato alla riflessione sulla “guerrra di parole” che facciamo in “Da «sticazzi…» a «mecojoni!»”. A questo punto è necessario citare Vincenzo Marino e il suo “Bomberismo, troll e capre: ho cercato di capire se esiste un’alt-right italiana” uscito su Vice. Ci narra, fra le altre interessanti cose, del circuito dato-metadato scaturito dall’uscita di un video in cui alcuni nazisti facevano saluti nazisti-trumpisti durante un evento tenutosi a Washington D.C. a pochi giorni dall’elezione di Trump.

Il giorno dopo l’uscita di questo video, girato a una giornata di conferenze alt-right lo scorso sabato, hanno spiegato che i saluti nazisti non-ironici erano in realtà “effettivamente ironici”—sul serio).

Cioè questi dell’alt-right hanno detto questa cosa dell’ironia per dire che non sono nazisti, pur essendolo. La conclusione è che: “Una definizione precisa di alt-right è impossibile da stendere – sommersa com’è da strati di ironia, non-ironia e post-ironia”. il ché, a uso nostro, significa che il circuito è attivato, e stare su un “piano di realtà” significa considerarlo.

Anatole. Il conflitto in corso tra le élite e la massa può in un certo senso ridursi al fatto che la ka$ta vorrebbe mantenere il controllo della cosiddetta narrazione, mentre laggente vorrebbe il webbe libero dove può insultare chi le pare. Le élite, diciamo Iacoboni e Lotti per capirci, vorrebbero dimostrare che la massa è in realtà soltanto un transponder che replica in maniera eterodiretta le narrazioni prodotte ai rami alti del complotto, mentre laggente reclama un proprio protagonismo, una propria autenticità. Cioè, laggente dicono (l’anacoluto è ormai grammaticalizzato), noi non è che ti insultiamo a te ka$ta perché ci dicono di farlo, ma proprio perché ce fai schifo e nella Moglie di Brunetta, da questo punto di vista, troviamo un mirabile e emblematico role model. Il che ci riporta al «fact doesn’t matter» di Cohn, perché laggente non stanno parlando dei fatti, si stanno presentando, stanno reclamando un protagonismo, che il Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e il giornalista de La Stampa hanno acquisito come un diritto. Il vero conflitto, se ci pensi, è qua: voi volete continuare ad essere qualcuno, mentre noi dobbiamo tornare nel nostro pallosissimo anonimato, così voi potete droppare i nomi degli altri opinion leader come voi, collusi con la finanza internazionale, durante le cene di Farinetti negli attici terrazzatissimi del centro, mentre noi non contiamo niente, perché la crisi ci ha fatto ricordare che non siamo grandi tennisti (con la racchetta di Decathlon) o avventurosi viaggiatori (low cost), come proviamo a farvi (e a farci) credere via Instagram. E qui viene su la pretesa di autenticità: non sarò Federer, ma, cazzo, sono autentico.

Lorenzo. Sì, esatto. L’esempio più drammatico è di quello che si suicida in diretta sul social network, fatto cui segue un commentario interminabile. L’esempio estremo è  invece, su FB, la pagina mai cancellata di chi muore: capita che l’algoritmo ti restituisca suoi post a qualche anno di distanza e ti mandi di fatto il messaggio che quella persona è morta, mentre il post diceva: “Oggi le emissioni di radon sono alle stelle, dormirò in macchina”. Questa cosa qui è un grande tema, che dovremmo sviluppare. In qualche forma ne ha scritto Costanza Jesurum, che di mestiere fa la psicoterapeuta junghiana, anche se forse lei non è d’accordo col fatto di averne scritto ma vabbene lo stesso e mi aspetto che si arrabbi perché l’ho citata a sproposito. Faceva l’esempio di Cosimo Pagnani:

che ammazza la moglie e ne scrive fiero e probabilmente allucinato su Facebook – e trecento persone o più esprimono il loro apprezzamento a “sei morta troia” aumentando le richieste di amicizia e commentando con vivo entusiasmo.

Nel post che cito Jesurum è impegnata a de-sociologizzare l’analisi della cosa. Facendo questo entra nei gangli di un meccanismo sul quale ragionare a fondo:

Possiamo decidere che sono tutti qualcosa – per esempio maschilisti – ma poi dobbiamo discernere i diversi possibili usi psichici di sei morta troia – che afferiranno a diverse soggettività e a diverse microculture possibili.

“Ci saranno i misogini […]”, osserva. “Ci saranno le donne che hanno una psicopatologia dell’identità di genere, e un problema doloroso con il femminile interno […]”, ma soprattutto (dal mio punto di vista) :

Ci saranno quelli che useranno l’omicida come un soggetto postmoderno ed estetico, che rappresenta il maschilismo interno, non la misoginia, essi – e credo che non siano pochi – scinderanno la realtà della morte la realtà dell’omicidio dalla frase, la annulleranno e la metteranno tra parentesi in modo da poter leggere nella frase “sei morta troia” la concretizzazione di quell’insulto che rispetti una distribuzione di poteri che si vuol e vedere nella realtà, l’uso simbolico in questo caso è leggermente diverso, perché la troia è una donna da punire in quanto libera, non da ammazzare in quanto donna. La differenza è di capitale importanza.

E infine:

Credo poi che ci siano persino certi, che abbiano assolutamente desoggettificato anche l’omicida, che l’abbiano trasformato in un giocattolo che lo abbiano come dire videogamesizzato. E credo che questo riguardi una discreta percentuale di quelli che gli hanno chiesto l’amicizia. In questo caso l’oggetto simbolico da manipolare psicologicamente non è il femminile morto, ma il maschile vivo. E il problema potrebbe essere con quel maschile vivo che su internet viene improvvisamente proposto come animale da circo, come foca che salta nel cerchio. Vediamo che cosa fa? Vediamo come si comporta? Se si pente, se si suicida, se va al gabbio se mostra i muscoli se sputa al giudice. In alcune delle reazioni a questa funesta vicenda io ho psicologicamente visto anche questo uso simbolico del misogino cioè : l’oggetto da denigrare con violenza per un problema con il proprio maschile.

Ritorniamo alla monotonia della vita del – come lo abbiamo chiamato? – microborghese promosso dal debito pubblico col telefonone sottoutilizzato ecc ecc. In sostanza nella vita non succede una mazza e a quel punto il metadato serve, eccome, per non dirsi quanto ci si sta annoiando. Si prendono questi metadati, che sono alla dovuta distanza, e ci si fa un po’ la qualsiasi: diventano dati. E, per riallacciare il nodo con la puntata precedente: più il titolo suona “mecojoni” più il metadato/dato acchiappa.

Anatole. Certo questa faccenda che menzioni dalla Moglie di Brunetta (stavolta maiuscolo in quanto Archetipo dell’Inconscio collettivo, nonché candidata a Best Complottema 2016) finiamo fino dalla Sciarelli o dalla Leosini, o da tutt’e due, scivolando dallo spoof del film di complotto a quello dell’intrigo thriller scabroso. Ma forse possiamo fermarci a metà strada con la faccenda Boldrini. Nel giorno in cui si tematizza la violenza maschile sulle donne, venerdì 25 novembre, la Presidentessa del Senato pubblica su twitter i nomi e i cognomi di un campione simbolico delle migliaia di molestatori che le rivolgono ormai da anni insulti sessisti sui social network:

 

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Si tratta solo di un piccolo campione, rispetto al quale “sei morta troia” pare quasi poca cosa, in effetti, o comunque parte del medesimo orrore misogino che, come dice Jesurum, è accomunato da una comune matrice maschilista patriarcale, ma sicuramente si articolerà in diverse modalità soggettive afferenti a diverse culture (poi diremo anche ‘sticazzi, bisognerebbe soltanto internarli tutti in un campo di lavoro in Siberia a spalare uranio, ma questo attiene al campo delle soluzioni).

Lorenzo: è da notare quanto questa cosa la si sia capita, in certi contesti. Ieri mi segnalavi questo articolo molto interessante al riguardo, dal titolo: “One by One, ISIS Social Media Experts Are Killed as Result of F.B.I. Program”. Quella che l’FBI chiama “The Legion” è la ormai quasi sconfitta task force dell’ISIS che lavora(va) attorno ai social network: “a band of English-speaking computer specialists who had given a far-reaching megaphone to Islamic State propaganda and exhorted online followers to carry out attacks in the West”. La “Legione” era (e parzialmente è tuttora) in grado di ispirare attacchi da parte di persone che si collegano all’ISIS nelle forme raccontate da Jesurum. Quale altro tipo di legame aveva con l’ISIS reale la coppia di attentatori di S. Bernardino, o il camionista di Nizza, o la guardia privata di Orlando. E cosa li distingue, nel loro approccio al reale, da un ragazzetto tedesco-iraniano, soggetto a bullismi, che spara contro tutti i suoi coetanei a Monaco o a un Anders Behring Breivik? Praticamente nulla, e di certo non una genericissima e financo sbadata affinità confessionale, visto l’esito macroscopico dei loro deliri. Sono invece tutti uguali proprio nella macroscopicità della risposta che danno a loro problemi specifici, che sono i veri motori dell’azione. Per dirla con Jesurum: le loro microculture. In tutto questo l’FBI l’ha capita benissimo, questa storia, e ha proprio un programma il cui scopo è eliminare fisicamente chi – nelle fila dell’ISIS – ha la capacità di ingegnerizzare questa roba qua per poi renderla fruibile in termini di propaganda. Cioè chi è capace di trasformare un camionista, un ispettore del Dipartimento sanitario, una guardia privata in un “soldato dell’ISIS”. Al-Qaida nella Penisola Araba – in un’epoca ormai lontanissima, il 2010 – aveva dato al suo magazine online in inglese il nome Inspire. I “figli” di quell’esperienza lì hanno capito che bisogna connettere quelle ispirazioni ai microproblemi di quattro disadattati. Ora: l’FBI ha capito questo fatto. Sarà ora di capirla anche noi.

Anatole. Be’, questa l’abbiamo capita.

Lorenzo. Ok, allora andiamo avanti, sento che approfondendo il caso Boldrini, possiamo portarci un passo oltre.

Anatole. Si nota a prima vista che gli insulti sessisti sono anche contestualizzati dentro fake news, come quella dei festini e dei pompini a Smaila, per dire (ma centinaia di altre affollano i social network) o chiamano in causa razzismi demodé, come quello nei confronti degli albanesi, che non sbarcano più sulle nostre coste da quindici anni, anzi emigriamo noi da loro. Se da una parte i populismi correnti si nutrono di complottismo per collegare fatti irrelati, dall’altra scaricano merda nel discorso pubblico per fare intrattenimento a partire da spunti che, di per loro, sticazzi veramente. Potendo mischiano le due cose, come è capitato appunto con Boldrini e più e meglio ancora negli USA con la Clinton.

Lorenzo. una specie di grosso contenitore con su scritto “Boldrini” nel quale sembra legittimo sversare veleni anacronistici inoculati in cellule le cui pareti sono costruite di falsi macroscopici. Un’operazione, quella del contenitore, che rende possibile l’interazione (insultante) di individui i quali, isolatamente, non potrebbero che stare zitti. Ma non per questo non penserebbero quello che dicono.

Anatole. Dall’altra parte Trump se ne va tranquillo e beato al NYT a prenderli per il culo sul loro registro, facendo apparire i giornalisti della maggiore testata del mondo come una banda di mistificatori spocchiosi, criticoni liberal, arroganti ed elitari. Anche in questo la caratterizzazione professionale di Grillo si riscopre in maniera certo più costruita ed artefatta nella campagna elettorale del nuovo Presidente americano. Con tutta evidenza le leadership populiste non hanno interesse a rendersi immuni rispetto al discorso satirico, piuttosto mirano a rivolgerlo con forza doppia e contraria contro chi si fa beffe di loro, in considerazione del dilettantismo che portano in campi un tempo altamente professionalizzati, come quelli della cronaca e della politica.

Lorenzo. Qui sta un punto importante perché scopriamo che la sinistra non ha più neanche più la penna per opporsi a tutto ciò.

Anatole. Su questo voglio essere molto chiaro. Dopo aver teorizzato per cinquant’anni appresso a Bachtin che proprio la scatologia sarebbe l’arma con la quale il popolo combatte l’ordine costituito del potere, la sinistra non riesce ad arginare l’ondata di merda sollevata dal maremoto populista, capeggiato da istrioni, giullari o figure che ne scimmiottano le caratterizzazioni stereotipiche. In particolare soffre l’appropriazione della scatologia da parte della gente qualunque, perché la sua collezione di deiezioni scatologiche indirizzate al membro della casta è piuttosto ruvida, rabbiosa, volgare in un senso che non conserva nulla della sua etimologia e risulta piuttosto borderline col più classico fascismo.

Lorenzo. E la cosa lascia molti in uno stato di anomia profondo.

Anatole. E invece questo dato, già collegato a precisi e documentati atti di parola, era già lucidamente osservabile e commentabile un paio d’anni fa’:

Il Giullare Premiato [Dario Fo], dona al Comico con la Barba [Beppe Grillo] la scatologia magica grazie alla quale la spada in duronio dell’esercito di giocatori di ruolo acquisirà la forza necessaria a scardinare e sovvertire il potere della casta. Il Giullare premiato ha una certa età ed ha capito fino a un certissimo punto quello che sta facendo: percepisce chiaramente che il suo gesto è forse coerente rispetto al suo percorso di ricerca, ma fino a un certissimo punto rispecchia davvero le finalità originarie della sua ricerca, quando ad esempio recitava il Mistero Buffo nelle carceri di fronte ai figli del proletariato che volevano fare la rivoluzione. Cioè, in sintesi, il Giullare Premiato si è perso una decina di stagioni di Grande Fratello, dunque non ha capito che il suo tentativo di sovversione è stato riassorbito dalle forze che combatteva e rivolto proprio contro quei ceti che egli ambiva a rappresentare e promuovere, ma è normale che a una certa età si perda di aderenza al contesto.

La distanza che separa il Mistero buffo dalla scoreggia trasparente dei nostri disgraziati eroi emerge in tutta la sua chiarezza dall’ormai classica raccolta di ingiurie a Maria Novella Oppo, giornalista dell’Unità dal 1973, additata al pubblico ludibrio sulla bacheca digitale del Comico con la Barba, che, come si è detto, dà la linea. Secondo lo schema che si è provato ad illustrare, si capirà bene senza neanche andarlo a rivedere, che questo giochetto non può funzionare, primo perché Bachtin aveva ragione fino a un certissimo punto (Rabelais era un chierico, non il primo stronzo che passava in mezzo alla strada), secondo perché, sottratta allo spazio carnevalesco della sovversione, la scatologia determina un cortocircuito estetico piuttosto disturbante. Ma già che ci siamo, andiamocelo a rivedere, dai: http://www.youtube.com/watch?v=uKAXfZzePbM.

Lorenzo. Ricollegando questo simile caso a quello odierno, il fatto che Boldrini abbia chiesto la rimozione da FB e TW degli insulti sessisti mostra con tutta evidenza la difficoltà che la sinistra dimostra quando si tratta di interagire con la violenza populista, impropriamente mascherata da discorso satirico.

Anatole. Ed è penoso che anche persone intelligenti indulgano in questa forma di snobissima corsa alla banalizzazione suscitata dall’articolo di Repubblica che ha regalato un ulteriore momento di protagonismo a questa Maria Feliziani, che se si vergogna di essere esposta per quello che è, fa solo bene. Perché al di là dei sofismi io non capisco proprio come il cosiddetto analfabetismo digitale possa giustificare il fatto che copri di ingiurie sessiste una donna mille volte più figa di te, che può anche permettersi di essere antipatica quanto cazzo le pare. E nessuno mi toglie dalla testa che quegli insulti a Boldrini siano solo il riflesso di un’incultura patriarcale maschilista demmerda, da qualunque parte vengano. Per dire, esce oggi sul Washington Post un sondaggio commissionato dalla EU, secondo il quale circa un europeo su quattro reputa lo stupro accettabile in determinate circostanze, con punte del 55% in alcuni stati membri. Siamo così sicuri che sia un problema di analfabetismo digitale? Non sarà per caso qualcosa di più profondo e radicato nella storia della nostra cultura che tramite la rete affiora più facilmente in superficie? 

Lorenzo. Sì, è capitata una cosa molto simile nei giorni seguenti ai fatti di Gorino. Quest’ansia di dover ricomprendere Laggente Del Polesine (che si-rendeva-conto-di-aver-sbagliato) in un’epopea nazionale così rimasticata da far venire il voltastomaco, dando così una romanella di fascismo a tutti noi, E ancora prima era successo a Fermo, dove il nazista assassino di Emmanuel Chidi Namdi alla fine è diventato l’eroe definitivo della curva, da allora in poi coscientemente razzista, mentre un intero ecosistema di giornali locali gettava fango sulla vittima.

Anatole. Prendiamo un giovane del ‘92, tipo quello che figura nell’ormai celebre scrinsciotto della Boldrini, quello che vorrebbe passare un giorno con lei per mutilarla e farla soffrire prima di farla morire male. Ma veramente ce lo vogliono spacciare per una analfabeta digitale? Vive dentro al telefonino, articola tramite whatsapp, ma quale analfabeta digitale!? Magari analfabeta e basta, di sicuro uno stronzo, probabilmente una merda fascista. E se sei una donna che dai della troia handicappata, anche senza h, di sicuro hai un’alfabetizzazione precaria in assoluto ed un correlato problema di deficit culturale pure.

Lorenzo. Peraltro è facile fare l’umanizzazione dell’ingiuria sessista passando dalla signora che raccoglie le verdure nel campo e si vergogna della sua rabbia repressa (manco più, grazie ai social network). Proviamo a farla intervistando il decerebrato del ‘92 e vediamo se non viene fuori un altro discorso. Ha ragione qui Jesurum, quando dice che non si può prendere un elemento del sistema e generalizzare, perché il concetto generale va poi declinato in tutte le sottoculture dalle quali scaturisce, altrimenti santifichi la povera donna analfabeta digitale, dimenticando che per il suo insulto ne puoi contare un milione di altri che provengono da matrici completamente diverse. E da questo punto di vista è proprio il presunto “giornalismo d’inchiesta” che si trasforma in sciacallaggio, non il fatto che la vittima delle aggressioni denunci i suoi aggressori. Dunque che c’è il ragazzino che inventa bufale razziste per farsi la paghetta. Ma sappiamo anche che il giorno dopo il ritorno a casa dell’assassino Amedeo Mancini, gli ultrà del Fermo espongono questo striscione qui:

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La cosa avviene dopo che – proprio a causa di questo processo che descrivi – da “razzista/fascista”, Mancini era stato “ripulito”, viste le sue origini “popolane”, per diventare un “ultrà”.  Qui la stampa aveva fatto ciò che i nazisti di Washington si erano autocostruiti. Lì entrava prepotentemente il tema della bucìa vera e propria, che viene sdoganata come elemento di verità (non siamo nazisti), la quale verità è falsa (perché in effetti sono dei nazisti). Ma, a pensarci bene, anche in questo caso siamo di fronte a una bugia strutturale e strutturante. La qual cosa, occorre ricordarla, è una costante storica del fascismo – parliamo di un mix di arroganza e di vigliaccheria, con l’attitudine a fare branco a fare da eccipiente.

Anatole. Possiamo insomma osservare, e questa è la parte che ci interessa, che, così come il culturalismo post-modern, anche la teorizzazione dei registri scatologici della letteratura popolare sia ritornata indietro tipo boomerang per colpirci dove non batte il sole. Paradossalmente, mutatis mutandis (e sperabilmente anche le mutande, considerata la natura della metafora in questione), ci si ritrova in una posizione non dissimile da quella dei militanti del cosiddetto islamismo radicale, anche se la differenza di codice è patente. I dileggiatori dilettanti, laggente che insultava Oppo e oggi ancora insulta Boldrini, sono e sempre resteranno (l’anacoluto è ormai grammaticalizzato) un branco di individui carichi di rabbia repressa, sessisti e misogini, mentre Charlie Hebdo è un giornale satirico, che ti può divertire o far schifo, con una responsabilità collettiva di carattere non solo legale, ma anche culturale. Ora, nel momento in cui il populismo corrente fa decadere la differenza tra questi due soggetti e tra i codici che sostanziano il loro agire, ecco che se non «stai allo scherzo» ti si sventola davanti che allora jesuisciarlì? Cioè, facevi tanto il difensore della libertà di espressione quando si trattava dei tuoi amici troskisti che dileggiano il pensiero religioso, mo’ che tocca a te invece sarebbe diffamazione? Il populismo dimostra da questo punto di vista la sua natura proto-fascista, mescolando i codici e cancellando le linee di confine che demarcano la differenza tra un genere espressivo e l’altro. Se non sei un comico, non stai facendo satira, stai soltanto insultando una persona. Non c’entra niente la libertà di espressione. L’autenticità del discorso scatologico ti qualifica davvero come testesso, cioè come una vera merda. Diciamo che diventi il testimonial del discorso scatologico che stai formulando, identificandoti con esso, presentandoti come la sua forma patetica.

Lorenzo. Poi è anche vero che quando il segretario FNSI dichiara alla Camera che “La rete messa a disposizione di qualsiasi cittadino può diventare un’arma letale” dice un’altra cosa ottusa. Non è un problema di rete, non è un problema di veicolo espressivo, quanto piuttosto di contenuti espressi, dei quali ci si preoccupa sempre meno per le ragioni che stiamo dicendo da mesi, che cioè c’è un prevalere del discorso mediatico, ingegneristico e sociologico quantitativo su ragionamenti di sostanza relativi a chi siamo veramente, cosa pensiamo, perché lo pensiamo e come lo diciamo. E, se valutiamo questi aspetti, ci rendiamo immediatamente conto che non possiamo ridurre tutta questa questione ad un problema di conversational divide, come fa Giovanni Boccia Altieri. Che mi significa proporre “percorsi educativi e di socializzazione” per “analfabeti digitali”? Se quelle persone avessero detto le stesse cose in contesto non digitale non le avremmo forse viste ma la gravità del loro dire non sarebbe minore. Togliendo il “digitale”, sarei d’accordo con Boccia Altieri. Parleremmo della scuola, di come farla funzionare di nuovo. Per di più all’indomani di cose terribili come Gorino o Fermo ecc., si cerca in tutti i modi possibili di mettere questa polvere sotto al tappeto e la cosa è quantomeno irresponsabile.

Anatole. Alla fine mi pare chiaro, ma è anche ovvio, che il divide digitale non può che essere parte di un più articolato discorso sul divide culturale. Non ci crederò mai che se adesso spieghiamo alla signora sessantenne come si usa facebook, allora ecco che la smette di dare della troia alla Presidentessa della Camera. Cioè, magari lo fa, ma il problema rimane, perché l’odio a quel punto represso dove cazzo lo metto? Sotto al tappeto pure quello? Da qualche parte mi salta fuori, non ci sono argini che lo tengano più. Specialmente quando i soggetti in questione sono meno apparentemente innocui e santificabili.

Lorenzo. Esatto. Ma ecco, ecco. In diretta dalla Camera dei Deputati su queste cose che diciamo noi, C’è Walter Quattrociocchi, c’è Boldrini. Anche Boccia Altieri. Be’, che dire? Qualcosa succede.

Anatole. Che se ne parli in sedi istituzionali è già qualcosa. La Boldrini dice, giustamente secondo me, che il problema non è l’odio, ma cosa ce ne vogliamo fare. L’odio non lo puoi eliminare, e di questo dobbiamo parlare in una puntata sulle emozioni che il discorso pubblico veicola, ma certo conta cosa te ne vuoi fare. Se vuoi camuffarlo da sberleffo, sperando di demistificarlo in questo modo, se vuoi cavalcarlo per vincere le elezioni, se vuoi provare a trasformarlo in un altro sentimento meglio spendibile e più costruttivo da un punto di vista della crescita delle dinamiche sociali. Di sicuro non si può parlare solo del mezzo che lo veicola, santificandolo o demonizzandolo, né profilare gli utenti inconsapevoli come fa la stampa del sensazionalismo d’inchiesta. Così rimani dentro la spirale dell’ignoranza, anzi la alimenti. Alimenti soprattutto quel protagonismo che ti fa sentire un sacco autenticamente testesso quando alzi i toni dello scontro, quando sale la temperatura del confronto, come capita nei talk show, oltre che in rete, ma anche un po’ sempre nella vita, indipendentemente dal mezzo.

Lorenzo. Sì, è necessario ritornare al punto delle emozioni, facendo tesoro di tutto questo, e con la consapevolezza che sì, ci abbiamo abbastanza preso. Il nostro scienziato di riferimento, Walter Quattrociocchi, con il suo Pandoors non andrà a caccia di fake ma di “temi sensibili”.

Anatole. La potremmo fare lunghissima, ricominciando con Lapo Elkann, massacrato per tutto il giorno da commenti omofobi, sessisti, qualunquisti, la somma dei quali dà bene la misura di cosa si possa intendere per populismo oggi.  Diciamo che a lui con la post-verità j’è annata male e chiudiamo qua?

Lorenzo. La simulazione di sequestro è troppo sgamata, almeno da Fargo in poi.

Anatole. Deve pigliare un addetto stampa che gli aggiorni le narrazioni.

Lorenzo. Che altrimenti parte il delirio scatologico.

Anatole. Ma de brutto proprio. Mettiamolo nel titolo per fare clickbaiting populista.

Lorenzo. Chi va cor zoppo…

Anatole. Ampara a zoppica’

Sentire voci, inventare lingue. Le narrazioni di Amitav Ghosh.

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di Anna Nadotti

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«Parole! Neel era dell’opinione che le parole, non meno delle persone, fossero dotate di una propria vita e di un proprio destino. Allora perché non c’erano astrologi a studiarne il kismat e a predirne il fato? L’idea che avrebbe potuto essere lui ad assumersi tale compito gli venne all’incirca all’epoca in cui cominciava a guadagnarsi da vivere come linkister – vale a dire durante i suoi anni nella Cina meridionale. Da allora, per molti anni, prese ad annotare regolarmente le sue divinazioni sul fato di certe parole.

da “Semivalori”

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di Virginie Poitrasson

 traduzione dall’originale francese di Robert Rüegger

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avrebbe potuto essere una grammatica

una grammatica delle verosimiglianze

La letteratura garibaldina: la retorica dell’antiretorica

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preziosi_25_9788898007608_0   di Luigi Preziosi

 

 

 

 

 

Lo sforzo di contenimento dell’enfasi retorica non comporta comunque una degradazione del tono epico della narrazione. Piuttosto, i racconti dei memorialisti garibaldini costituiscono un corpus che nel complesso esprime una forma di epica abbastanza coerente e piuttosto riconoscibile. È un’epica domestica, e al tempo stesso quasi un’ammissione di modestia.

Non cercare l’uomo capra – Irene Chias

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Anteprima del nuovo romanzo di Irene Chias

(Estratto dal capitolo « Le lettere di Assane »)

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Ma chère Simona,

questo è un messaggio di auguri per le tue nozze, che mi ha annunciato Luisa.

Oltre agli auguri più belli e all’elogio per il tuo coraggio, voglio darti alcuni consigli, che poi pensandoci bene si riducono a uno: non dare niente per scontato, e cerca, per quanto puoi, di fare in modo che neanche lui lo faccia.

Ho lasciato il Senegal a ventun anni e oggi mi rendo conto che se sposassi una senegalese, sarebbe un matrimonio misto anche per me. D’altra parte, con la moglie italiana che ho avuto, non era forse un matrimonio misto? Quindi forse il matrimonio è comunque misto, perché vi si incontrano e spesso scontrano due persone e quindi i due differenti universi che ciascuno ha costruito dentro di sé. È vero però che questi universi possono essere più o meno discordanti.

C’è ad esempio una cosa che per noi africani, almeno per gli africani delle mie parti (c’est-à-dire Senegal, Gambia, e direi anche Mali), non è tollerabile e che qui sembra invece normale. E devo ammettere che non mi ci sono ancora abituato, anche se misurando il mio tempo si vede che ho trascorso una porzione molto più ampia di vita in Europa che in Senegal. La cosa è questa, ma chère Simona: l’aggressione fisica delle donne nei confronti degli uomini. I ceffoni che si vedono nei film, ma anche i pugnetti ridicoli e impotenti dati per sfogare rabbia più che per fare male. Quando ci capitava di vedere dei film europei o americani a Dakar, prima che venissi in Italia, ricordo che restavamo disturbati da scene in cui una donna aggrediva un uomo. È una cosa che noi non tolleravamo. Ora non so come sia, ma a me è rimasto questo tabù. Perché, se per noi un uomo che picchia una donna è motivo di vergogna, una donna che picchia un uomo è proprio questo, un tabù.

Un tabù simile a quello che viene infranto quando in un film, o anche nella vita, sento un figlio che dice al padre o alla madre frasi come “sei un bugiardo” o “sei una bugiarda”. E lo stesso vale per i fratelli maggiori.

Questo, Simona, solo per dirti che potresti sorprenderti nello scoprire quante cose, che per te sono ordinarie, per tuo marito potranno essere lame acuminate che lo feriranno, e quante cose per te assurde e crudeli per lui saranno normali.

Noi africani, e soprattutto quelli dei piccoli villaggi, abbiamo l’ansia del controllo sociale. Beneficiamo dei vantaggi che questo controllo ci dà, della solidarietà, dell’assistenza, anche della sicurezza. Ma certamente paghiamo un prezzo in termini di discrezione.

Uno dei miei migliori amici dopo il mio arrivo in Italia era gambiano, si chiamava Tidiane. Parlavamo la stessa lingua, il wolof, ma io lo facevo inserendo parole francesi, lui inglesi. È davvero strano quello che succede con i gambiani. C’è uno stesso popolo, con la stessa religione e la stessa lingua, spesso sono membri di una stessa famiglia che nell’Ottocento è stata separata da una linea dritta e irreale tracciata da un francese e da un inglese. Diresti che è una linea immaginaria disegnata su una carta e che quindi non ha alcun effetto sulle persone che invece stanno sulla terra. E però non è così. Io posso testimoniare la differenza fra i gambiani e i senegalesi. Certo è minore e trasversale rispetto alla differenza fra la gente di campagna e la gente di città, eppure c’è. A Banjul, ad esempio, sono molto più pragmatici che a Dakar. E parliamo di due capitali. Ci sono differenze rispetto a noi che io collego alla presenza anglosassone. Ma parlo di persone che hanno fatto le scuole, che sono le scuole dei colonizzatori. Per me il rapporto con i gambiani è la dimostrazione di come la colonizzazione ha plasmato la nostra identità, anche se ci si illude di aver recuperato qualcosa di “precoloniale”che ovviamente non esiste più e si può solo inventare.

Non so che fine abbia fatto Tidiane. Partì per la Germania alla fine degli anni Ottanta, amico mio.

Le linee che separano Gambia e Senegal erano artificiali ed espressione di una ripartizione casuale della nostra terra. Ancora oggi non ci sono gambiani che non abbiano un parente in Senegal. Eppure, come ti dicevo prima, chère Simona, oggi le differenze ci sono. Siamo stati brevemente uniti anche amministrativamente, fra il 1982 e il 1989 formavamo la confederazione di Senegambia. Doveva creare una maggiore cooperazione fra i due paesi, ma poi venne dissolta da Dakar perché il Gambia si rifiutò di andare avanti nella progressiva unificazione.

So che tuo marito è mandingo e viene da un piccolo villaggio, probabilmente non ha neppure fatto le scuole, e questo sarà un ulteriore fattore di distanza fra di voi. Ma c’è un’altra cosa piuttosto triste che riguarda il Gambia e tutti i gambiani, o almeno questo è quello che ho capito da alcuni di loro: si trovano di fatto sotto una specie di dittatura. Quindi c’è un altro elemento da tenere in considerazione: molti gambiani che vengono in Europa fuggono da un presidente di cui hanno paura. Jammeh prese il potere con un colpo di stato quando non aveva ancora trent’anni. Era il 1994 e finora nessuno lo ha smosso da lì. Pare sia anche colpa sua se in Gambia non si studia, non ci sono università importanti, non c’è scambio. E forse è in parte anche un’eredità dell’occupazione inglese, quasi esclusivamente commerciale, che non ha lasciato strutture importanti per i cittadini. Ma stabilire le colpe in situazioni come questa è un’operazione talmente complessa che in questo momento preferirei chiuderla qui.

Prima di lasciarti però, mi preme parlarti di un altro elemento di tristezza, e questo riguarda più o meno tutti quelli che lasciano la terra in cui sono nati e cresciuti: dover abbandonare i propri cari. Vedere i propri genitori invecchiare è triste, ma non triste quanto non vederli invecchiare. Così come veder morire i propri cari è doloroso, ma lo è molto di più non essere lì quando ci lasciano, non aver condiviso con loro gli ultimi momenti della loro vita. Prova a tenerne conto, chère Simona, quando qualche volta tuo marito ti sembrerà scontento o nervoso e tu non capirai perché.

Concludo questa lunga lettera sul Gambia, sui wolof, sui mandingo e su me stesso, rinnovandoti i miei auguri più sinceri, perché i matrimoni sono tutti misti, ma alcuni lo sono di più.

 

Ba benen yoon

Assane Diouf

 

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Irene Chias, siciliana, vive a Milano. Nel 2010 è uscito per Elliot il suo romanzo Sono ateo e ti amo. Nel 2013 Mondadori ha pubblicato il suo Esercizi di sevizia e seduzionevincitore nel 2014 del “Premio Mondello Opera italiana” e del “Mondello Giovani”. Suoi racconti sono apparsi su Granta Italia, su Nuovi Argomenti, sulle pagine siciliane di Repubblica, su diverse antologie. Per Non cercare l’uomo capra, lo scrittore della migrazione Pap Khouma ha scritto la postfazione “Le Afriche inconsce che ciascuno ha dentro”.