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Un’intervista a Lisa Ginzburg

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Lisa Ginzburg risponde a Giacomo Sartori

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GS “Per Amore” si ispira a una tua vicenda personale, ma poi molti elementi sono di invenzione, mi dicevi. Mi piacerebbe sapere con quali criteri, se  ci sono, e se ti va ti rispondere, hai rispettato la “verità dei fatti”, e dove invece te ne sei allontanata. Non certo per scavare nella tua vita personale, ma per capire meglio la genesi e le motivazioni di questo lavoro.

LG La pulsione a romanzare qualcosa di (anche) privato si è innestata sulla necessità di costruire questo libro: due trazioni ugualmente forti. Non potevo scrivere la storia che ho poi raccontato, in altra forma che non fosse una in cui verità e invenzione potevano liberamente intrecciarsi, interagire sino a camuffarsi a vicenda, trasformandosi in un materiale ai miei stessi occhi inedito: non certo estraneo, ma “lavorabile” nel suo essere artefatto. Dall’inizio ho optato per la terza persona, senza più cambiare idea. Anziché dare alla protagonista un nome, l’ho battezzata “lei”. Una scelta che solleva domande tra i lettori. Rispondo loro che non è stata una presa di distanza, la mia. Piuttosto, ergere a nome un pronome ha significato aggirare il pericolo di un’adesione eccessiva a questo personaggio femminile. Evitare una deriva simbiotica che sarebbe andata a detrimento del racconto. La “spersonalizzazione” che un pronome comporta rispetto a un nome, è stato un criterio-faro per me, quello pure che durante le varie fasi del lavoro non è sbiadito. Sono tuttora convinta che l’interesse della storia stia nel suo comunicare qualcosa che la trascende, un senso più ampio dei singoli fatti, una frattura di portata maggiore rispetto al mero rendiconto di una sciagura privata.
L’invenzione di questa “lei”, così come della toponomastica brasiliana (tutta di fantasia, tranne per il caso di Rio de Janeiro e São Paulo), per me hanno funzionato da sponde. Anziché frantumare la storia, la densità della sua realtà, le invenzioni sono stati argini: hanno contenuto e foggiato questa materia mista di verità e finzione che avrebbe altrimenti rasentato l’informe.
La “verità dei fatti” è quella che la donna ricostruisce a partire dal trauma di una perdita e un lutto che la sconquassano. È una verità filtrata dal suo ricordare incessante, ossessivo. Una verità dunque del tutto soggettiva, non fosse che la donna è costretta a confrontarsi con altre verità, inimmaginate, ben più potenti del sentire di lei.

GS Una delle note fondamentali di questo testo mi sembra essere, indipendentemente dalla natura autobiografica o meno della vicenda, la volontà di scavare nell’intimità dei due personaggi principali. Da una parte la donna che ha perso il suo compagno pare mossa da una necessità per certi versi impellente, e dolorosa, di indagare il mistero di questo “altro” con il quale ha avuto un rapporto molto profondo, rapporto che dura anche dopo la sua scomparsa, e dall’altra pare avere un altrettanto sofferto bisogno di capire meglio se stessa, di aderire il più possibile ai fatti per trarne la loro verità più segreta. In altre parole il racconto sembra essere spinto da una sua necessità propria, più che procedere per assicurare il piacere della fruizione, o insomma per creare degli effetti per così dire codificati, che si ritrovano in tantissima narrativa contemporanea. Questo mi fa pensare a scrittrici nelle quali avverto una simile logica interna, e potrei citare qualche nome. Ma volevo chiedere a te se ti sei ispirata a qualche scrittrice o scrittore, o se insomma nella concezione e durante la scrittura avevi in mente dei testi che ti hanno accompagnata. 

LG Io credo molto in quella che tu definisci “necessità propria” dei testi. È stata la necessità a guidarmi, nient’altro: e non quella di cercare un allevio nello scrivere un romanzo (diffido dell’idea di “scrittura terapeutica”), ma perché ho sentito si trattava di una storia che era necessario raccontare. Quanto alle letture, hanno contato molto per me quella de L’anno del pensiero magico di Joan Didion, e di Men we reaped di Jasmine Ward. Il primo libro lo avevo letto quando uscì in italiano, amandolo moltissimo. Non ci ho pensato in modo consapevole mentre lavoravo a Per amore, ma dopo ho capito quanto il ricordo di quella prosa così intensa, nuda, a spirale nel suo fedele ripercorrere un cammino à rebours sulle tracce interiori di un lutto traumatico, avesse agito carsicamente in me. L’altro libro, Men we reaped (un memoir dedicato a un fratello e a degli amici, persone tutte perdute a poca distanza di tempo l’una dall’altra) l’ho ricevuto in regalo una volta che ero a New York e già avevo incominciato a scrivere Per amore. Ho sentito subito una grande sintonia con il modo di raccontare di Jasmine Ward, piano, lucido, così veritiero nel dare forma al sentimento della perdita.

GS E poi volevo chiederti, visto che citi autrici non italiane, cosa rappresenta per te scrivere in italiano, tu che vivi fuori dall’Italia, frequenti altre lingue, e descrivi situazioni non italiane (anche nella tua ultima raccolta di racconti, “Spietati i mansueti”). Perché certo il romanzo è un organismo che vive in tanti paesi diversi, come i funghi, che hanno ife in un raggio enorme, tutte appartenenti a uno stesso organismo, e che da sottoterra si spingono fino alla cima degli alberi, però poi uno scrittore italiano si  trova a scrivere in italiano, e lì il campo delle possibilità offerte dalla lingua stessa si restringe forse molto.

LG Può essere più difficile scrivere nella propria lingua, quando si raccontano mondi lontani “da casa”, e più ancora quando lontano “da casa” si vive. Il rapporto con le parole si fa più intenso nella misura in cui è solitario, non supportato dalle atmosfere circostanti. Nella narrativa italiana mi pare si dia eccessivo valore alla connotazione geografica della scrittura, come se origini “forti” da un punto di vista territoriale dessero maggiore forza e carattere allo stile. Io rivendico un diritto “cosmopolita” della lingua: che come per un rizoma, una stessa radice possa ramificarsi dando vita a contesti veri o immaginari non importa, ma diversi. Mi viene in mente John Berger, inglese di nascita i cui libri sono di impronta assolutamente transnazionale. Il futuro non è certo solo di narrative locali; né è necessario date atmosfere conoscerle dalla nascita, esserne biograficamente intrisi, per decidere di volerle raccontare. Se intendi come “restrizione del campo delle possibilità” una condizione di esilio della lingua dai suoi propri mondi, io aggiungerei che quella restrizione per la stessa lingua è anche un’opportunità, di misurarsi con se stessa, e di lì ampliarsi.

GS Certo, però l’italiano non è l’inglese, è una lingua relativamente recente, nella sua forma attuale, e che è stata usata relativamente poco per descrivere gli universi non italiani. E secondo me si porta dietro in qualche modo questa tendenziale limitazione dello sguardo, questa chiusura su se stessa. Tu mi sembra che ce ne esci molto bene, e questo dando alla tua lingua una grande essenzialità, che non è secchezza, ma pur sempre una estrema concisione, che impartisce alle tue frasi una tensione quasi vibrante di metallo sotto sforzo. Quasi l’impellenza di essere più precisa possibile non ammettesse nessuna sbavatura, nessuna aggiunta non strettamente necessaria. La forza della narrazione, e il valore del romanzo, mi sembrano venire da lì. Volevo chiederti se a questo risultato arrivi già con la prima stesura, o invece hai bisogno di lavorarci molto, passando per molte versioni.

LG Molto lavoro, moltissime riletture, varie stesure. Asciugare gli eccessi di uno stile rafforza la prosa, ne mette in risalto l’urgenza, il senso. Lo penso in assoluto, e nel caso di questo libro in particolare. Si trattava di una materia troppo incandescente, per non necessitare di venire controllata il più possibile dal punto di vista formale. Se uno scrittore riesce a dominare le possibili derive liriche della propria prosa, allora può nutrire più speranze di comunicare con i suoi eventuali lettori. Se invece per farsi sentire deve far leva sull’eccesso, o la ridondanza, o altri effetti “speciali”, allora si può presumere che qualcosa manchi a monte, che ci sia un vuoto all’origine del processo creativo. Al nucleo vero, allo strato di maggiore intima autenticità di una storia, si arriva per eliminazione, non adornando con scritture rutilanti una materia che di suo possiederebbe consistenza scarsa, poca luce.

GS Tornando al tuo romanzo, mi sembra che ci sia una lettura più di superficie, quella cioè dell’infatuazione amorosa, dell’estasi del corpo e di una comunanza totale, che si scontra poi con la dura realtà delle differenze culturali, di provenienza, di storia, di sesso, di tutto, e del tempo che passa, dell’inesorabile curva discendente di ogni amore. È una spiegazione che è presente nello stesso “Per amore”, e che ho letto in vari commenti al libro, ma che non mi soddisfa completamente, non foss’altro perché non mi sembra una molla sufficiente a tenere attaccata la protagonista a quel lungo calvario, certo anche con brevi istanti di gioia, però sostanzialmente molto doloroso. Perché non ci sono solo i momenti di insostenibilità assoluta, sopportati con una costanza autolesionista degna di un’eroina di Lars von Trier, quando si ritrova prigioniera della famiglia di lui, ma anche le parentesi della distanza sono in fondo intrise di infelicità. Io credo che la vera ragione del restare della protagonista nella relazione, anche quando questa è finita tragicamente, sia qualcosa di non detto, e che forse nemmeno lei sa, e che viene a coincidere con la sua testarda esigenza di capire, lavorando prima sui dati che via via accumula, e poi su quelli della memoria. Quasi la relazione totalizzante con l’altro, sia anche un modo per scendere in se stessa, per fare un viaggio interiore. Non so sei d’accordo con questa lettura, che mi sembra ricollegarsi a quanto dicevi prima, di un senso profondo che travalica i singoli fatti.

LG No, non credo che lei, la donna, resti al centro di tutto, che usi strumentalmente questo incontro per “viaggiare” dentro di sé. È la relazione, nelle sue complessità, a restare protagonista. La caparbietà, in una storia, si tratti pure di una relazione tra due esseri nati e cresciuti in identico ambiente, può esserne parte importantissima. Può esserci ostinazione nell’amare, o nel cercare una strada per sentirsi amati, o nel voler smontare (per ricostruire) una relazione. L’impegnarsi testardo non altera la natura dei sentimenti – né li potenzia, né li sminuisce. Piuttosto parlerei di una perseveranza che è consapevolezza (“che l’amore diventi coscienza dell’amore”, Pasolini diceva, ed è un buon modo di maturare, per un legame, la coscienza). Quel che conta, io credo, è che quell’ostinarsi, ai sentimenti non si sostituisca: che rimanga uno sfondo, una nota di accompagnamento. Forse ciò che accade, nella storia che ho raccontato, è questa sostituzione, da un certo punto in poi. Lo sforzo diviene preponderante sulla realtà che lo sforzo cerca di mantenere viva. Ma di costanze, autolesioniste o distruttive o sadiche o quant’altro, le relazioni profonde sono disseminate.

GS Capisco bene quanto dici, e sono d’accordo. Però nello stesso tempo il protagonista maschile è un iniziato, e ha un suo modo di vedere la realtà diverso da quello della razionalità occidentale, intuitivo. E finisce in certi momenti, grazie ai suoi poteri, per avere anche un ruolo di guida nei confronti della protagonista, che non ha queste facoltà, o comunque per opporle un qualcosa al quale lei non può accedere, del quale riconosce però il valore. Questa dimensione spirituale mi sembra fondamentale nel testo, perché se non fosse presente resteremmo nel dominio delle relazioni amorose classiche, quali sono state rappresentate e analizzate in tanti romanzi e racconti. E invece in qualche modo qui la passione ruota anche attorno a un mistero più profondo, di fronte al quale la razionalità, che è la sola arma di lei, resta impotente. Anche di qui mi sembra venire la sua attrazione, e il suo non esitare a sacrificarsi.

LG La sintonia più profonda tra Ramos e la donna, è di natura spirituale. Lui è più avanti quanto a consapevolezza delle proprie capacità intuitive: qualcosa da cui lei viene stregata, nella misura in cui si tratta di una ricerca, un percorso che già la interessano. Prima di tutto, a colpirla è la forza con cui Ramos comunica, danzando, la vibrazione di un mondo spirituale potente, l’olimpo degli Orixás del Candomblè afrobrasiliano. Un po’ come un medium a cavallo tra realtà e altre dimensioni più sottili: così le appare Ramos. Un canale di trasmissione tra terra e cielo – cielo affollato di figure archetipali, immagini simboliche di qualità e vizi dei viventi. Il talento di lui è un fiume che la travolge, accende il suo innamoramento. Lui anche però, Ramos, trova posto, si sente a casa nell’indole riflessiva di lei, nel suo osservare il mondo spesso provando a meditarlo, a meditare. Sono anime vicine, lui e lei, in questo pensare le cose come riflessi ed effetti di movimenti più forti, invisibili. Ed è la spiritualità la sola loro intesa davvero salda, consolidata, quella che neppure alla fine viene scalfita, quando morendo lui lascia comprendere a lei sino a che tragico punto si fosse spiritualmente smarrito.

 

NdR “Per amore” è pubblicato da Marsilio (2016), e su NI ne ha scritto qui Ornella Tajani; sempre su NI, qui Francesco Forlani parla invece della raccolta di racconti “Spietati i mansueti”, uscita successivamente con Gaffi (2016)

 

Che la droga non è un mistero

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di Andrea Inglese

 

Che la droga non è un mistero. Forse questo è un testo che plagia un testo altrui, perché il plagio a casa propria non si può fare, il plagio sul divano è impossibile, comunque Christophe Tarkos (Marsiglia, 1963 – Parigi, 2004) ha detto quel che andava detto della droga, in una trasmissione in diretta, in particolar modo ha detto – tutto per iscritto – che la droga è buona a drogato, plagio però a memoria, io, non avendo sottomano né droga né testo, e quindi è un plagio assai imperfetto, e me ne scuso con gli avvocati della parte avversa, droga si diceva, soprattutto. Che non è un mistero.

43 poeti per Ayotzinapa. Voci per il Messico e i suoi desaparecidos

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A poco più di due anni dalla notte di Iguala e dalla sparizione forzata di 43 studenti della scuola di Ayotzinapa, vogliamo ricordare tutti i figli delle violenze in Messico attraverso alcuni stralci dal libro appena uscito: 43 poeti per Ayotzinapa. Voci per il Messico e i suoi desaparecidos (a cura di Lucia Cupertino, con prefazione di Fabrizio Lorusso e postfazione di Francesca Gargallo), Edizioni Arcoiris, 2016.

Il libro sostiene la causa della scuola normale rurale di Ayotzinapa, storica fucina di cambiamento in Messico, appoggia le famiglie e tutti i membri della scuola e comunità e pertanto il ricavato sarà devoluto all’Associazione dei genitori della Scuola Normale Rurale “Raúl Isidro Burgos” di Ayotzinapa.]

I 43 SONO FIGLI DI TUTTO IL MESSICO E I POETI LO SANNO

di Francesca Gargallo

43-poeti-per-ayotzinapa-copertina43 poeti per scacciare la morte, per dar sfogo a una indignazione vitale. La poesia come una affermazione, sono qui, sono con te, sono per tutti. Dove tutti significa molte persone, tutte le vive, tutte le sparite, tutte le torturate, tutte le assassinate di questo Messico contemporaneo, immerso in una guerra contro i poveri, contro chi si sente sicuro di fare il proprio dovere, contro chi vuole essere libero. Molte di più dei 43 studenti desaparecidos dall’esercito, la polizia e i narcotrafficanti ad Iguala la notte tra il 26 e il 27 settembre 2014. Però quei 43 ragazzi risvegliano la poesia: sono stati trasformati dal desiderio popolare di mettere fine alla violenza di stato e della delinquenza (nessuno sa dove finisce una e comincia l’altra) in semi di speranza.

La notte d’Iguala: cinque autobus di seconda classe che portano a casa o in città dei bambini che vengono dalla scuola, dal campo di calcio e raccontano tra sé cose da bambini. Così come stanno zitte le vecchiette, dormicchiano gli uomini e cinguettano le mamme. Iguala è una città pericolosa, spariscono molte persone, le fosse clandestine aperte nei dintorni hanno rivelato centinaia di corpi. Le mamme, i papà si stringono ai loro bambini. Ma sanno anche rilassarsi quando è il momento. Sui cinque autobus salgono gli studenti di Ayotzinapa che vogliono essere portati a Città del Messico per andare a una manifestazione che ricorda un massacro di molto tempo fa, quello degli studenti del 1968 a Tlatelolco, un 2 ottobre che non si scorda.

Una storia comune, molte volte ripetuta quella degli studenti che fanno caciara ed esigono un trasporto popolare. Sono belli, scuri, giovani e si siedono sugli autobus dove c’è spazio, un po’ qui, un po’ lì, senza pagare. Le persone di Iguala non hanno paura degli studenti, gli sorridono. Però per un motivo che non si capisce, che stupisce, quella notte no, gli studenti non sono ammessi. Droga nascosta nella carrozzeria di un autobus, ripicca del sindaco che non sa tenerli a bada, ordine di repressione per lanciare un messaggio di timore a tutti i docenti messicani? La polizia, l’esercito forse, magari già anche i narcotrafficanti mitragliano gli autobus, uccidono persone, le sparpagliano nei campi dove è calata la notte, dove si ha paura, dove ci si chiama con la voce fioca.

Poi molti ragazzi, 43 ragazzi della Scuola Normale Rurale “Raúl Isidro Burgos” di Ayotzinapa, una storica fucina di maestri ribelli alla povertà e all’ignoranza, una eccellente scuola, in cui studiarono anche Lucio Cabañas e Genaro Vázquez, fondatori dei movimenti guerriglieri degli anni ‘70 nello stato di Guerrero, nel sud ovest del Messico, vengono fatti salire su pattuglie e camioncini e spariscono nel nulla dopo aver passato la notte tra fughe, ospedali e caserme.

Da allora i 43 sono figli di tutto il Messico. Sono un simbolo. Producono 43 modi di resistere contro i sequestri, le bugie della polizia e l’impunità degli agenti di stato associati ai delinquenti. Producono madri e padri che da due anni non smettono di cercarli, insieme alla pace per il Messico, che solo può nascere dalla verità sui fatti di sangue. Producono 43 forme di essere studenti, giovani, costruttori. 43 calci, pugni, graffi all’impunità e alla cultura della sopravvivenza a qualsiasi prezzo, pure quello del silenzio e l’umiliazione.

E riuniscono anche 43 voci di poeti che ripensano la morte, il territorio della morte, la cultura che normalizza la morte dell’altro e non vuole pensare la sua. Maya, bianchi, mestizos, zapotechi, mixtechi, latinoamericani, spagnoli, donne e uomini, fanno della tragedia storica un mormorio che sale e scende ed esige d’essere ascoltato. Come lo fa Briseida Cuevas Cob in “Mese Xuul”, i poeti ricordano che la morte arriva dai quattro punti cardinali, però che oggi l’odore dei morti giunge non si sa da dove perché ha cancellato le sue orme. Incalza la poeta maya: “Mentre sopporti le burle del potere / sfogli il fior di morto; / Interroghi ogni petalo marcito: / Vivono…? Non vivono…? / E a ogni do- manda senza risposta si sfoglia la tua anima.”

Il 2 novembre 2014, notte dei fedeli defunti, notte dei morti com’è conosciuta in Messico, la poesia “Ayotzinapa” di David Huerta, letta a Oaxaca nel patio del museo di arte contemporanea, il MACO, dove era stata incisa sul muro, fu la prima voce di conforto, di condoglianze del Messico con se stesso: il poeta ha in- nalzato il grido del Paese delle fosse clandestine, degli strilli, dei bambini in fiamme, delle donne martoriate.

“Ayotzinapa” ha ricordato ai turisti che si trovavano in un Paese che è alla ricerca, oltre che dei 43 ragazzi della scuola normale, anche di altre 30.000 persone sparite nel nulla. Che è alla ricerca di pace per i suoi oltre 150mila morti ammazzati violentemente e di giustizia per le madri delle ragazze che escono di casa per andare a lavorare, lasciando nella loro stanza i quaderni della scuola serale e temendo di non potervi fare ritorno, e per i bambini nati dai parti delle adolescenti, sogni di dolci fidanzati inesistenti.

“Ayotzinapa” sul muro del patio del museo, circondata dai lumicini che brillano nel buio della notte dei morti, ricordava a signore e signori una realtà: il Messico è un Paese che prima della guerra alle droghe, quella falsa guerra che serve per sottrarre alla vista la militarizzazione e la guerra contro i popoli, corollario dei piani d’espansione del commercio globale come il Plan Puebla-Panamá o il Transpacifico, si conosceva, conosceva se stesso, la sua storia ed esistenza, ma oggi ha gli occhi riarsi dal fumo, si sente perso, si sforza per tendere una mano alle persone morte e sparite.

Il Paese degli ahoritas, degli “adesso, dei subito” che non arrivano mai, come ha definito i messicani il poeta spagnolo Antonio Orihuela, non ne può più di vivere soffocato da Vergini di Guadalupe, sfruttamento dei corpi e del lavoro, dai morti e dalle mafie. Non ne può più di essere complessivamente quell’alienato martire del progresso descritto da David Hernández Rivera. Non vuole più essere il corpo scelto dall’anofele che ti gira intorno per irrompere nei tuoi sogni descritto da Héctor Iván González.

Irma Pineda sa che il Messico non vuole essere mai più la domanda di una donna a sua madre su come vivere quando l’esercito sequestra suo marito. La poeta zapoteca vuole decifrare la speranza negli occhi del firmamento di ognuna delle figlie del Messico, vuole sapere dove vanno a finire i fiori strappati alla terra che sostiene le loro radici. La poesia è come i corpi, cammina, perfino vola, ma non può essere sradicata. È fluida come le identità contemporanee, ma si sofferma, medita, consente la vita perché, come dice Javier Castellanos, anche lui zapoteca, è sempre più di quello che è: è la colonna poetica dei non dominanti che desidera lo spagnolo Jesus Lizano, è il bambino maestro del maya Jorge Cocom Pech, è il miglior raccolto di una terra, come sottolinea Juan Campoy.

La particolarissima narrativa in loco dello scrittore Tryno Maldonado, che da novembre del 2014 è andato a vivere a Ayotzinapa per spartire significati con madri, padri, mogli, figli, fratelli minori e sorelle maggiori dei 43 studenti di Ayotzinapa, ci permette di vedere con i loro occhi i volti e toccare con le loro mani i sogni e i progetti dei ragazzi, che si preparavano per diventare maestri rurali, agenti dei sogni delle bambine e dei bambini dei popoli che com- pongono il Messico incarnato nel mais, i fagioli, le zucche e il lavoro collettivo. E questa vicinanza si riscontra con la poesia della spagnola Katy Parra che vuole ripetere i loro nomi per esigere la loro vita, qui e adesso. Tra “Ayotzinapa. El rostro de los desaparecidos” di Tryno -un racconto che fa leva sulla cultura contro la violenza ed è una testimonianza intima e multifocale dei fatti della notte di Iguala- e “La canzone dei desaparecidos” di Katy, i nomi compongono i volti e creano un vincolo di solidarietà di ferro tra i ragazzi e i lettori.

Il Messico che attende notizie sui 43 studenti spariti è anche il Messico de Las Patronas, le donne di Veracruz che da anni preparano da mangiare per porgerlo alle persone migranti che viaggiano su La Bestia, il treno che va dalla frontiera sud con Guatemala alla frontiera nord con gli Stati Uniti. È il Messico delle carovane per la pace. Quello in cui, dal 2010, ogni 10 maggio marciano per le strade delle principali città le madri che non hanno nessuno che le festeggi in casa propria: le madri delle ragazze e dei ragazzi spariti nel nulla. Come María Herrera, che cerca quattro figli, un nipote e un genero. Perché? Forse perché vivevano nel posto sbagliato, in quel Michoacán che in altri tempi era un bosco rigoglioso e felice.

Marciano le camminatrici delle polverose strade del Messico del nord, le promotrici della Fundec e la Fundel, le fondazioni “nuestros desaparecidos de regreso a casa” (i nostri desaparecidos di ritor- no a casa) che agiscono tra Coahuila e Nuevo León. Il corteo si ripete ogni 10 maggio, giorno della mamacita (“mammina”) messicana, la madre dea della casa, la madre esaltata un giorno all’anno. Si tratta di una ricorrenza voluta nel 1922 da un supermercato e dal direttore del quotidiano Excélsior, influenzato dal ministro dell’istruzione José Vasconcelos, per festeggiare “la madre messicana” e vendere i prodotti necessari a svolgere i “doveri di genere” e porre un freno al nascente movimento femminista che aveva realizzato due incontri nazionali nel 1916 nello Yucatán.

Molte madri di desaparecidos temono oggi che i 43 studenti di Ayotzinapa opachino con la loro tragica luce la realtà di un Paese che affonda nella più brutale violenza. Anche le madri delle “morte di Ciudad Juárez”, le vittime dei femminicidi che hanno richiamato l’attenzione mondiale sulla violenza in Messico già dal 1993, paventano il pericolo che lo sguardo puntato solo su 43 persone, tra le migliaia di sequestrati, spariti e ammazzati, faccia perdere di vista il quadro generale di violazioni ai diritti umani e di continue omissioni della polizia nei confronti delle denunce, sporte ma mai seguite, relative ad altri migliaia di casi. Per questo il gruppo di scultori che ha forgiato l’anti-monumento detto “+43” in tre pezzi, collocati durante un’azione artistica collettiva e clandestina il 26 aprile 2015 all’incrocio tra Avenida Reforma e Bucareli, in pieno centro di Città del Messico, hanno insistito nel dare importanza proprio alla prima delle tre parti dell’anti-monumento, cioè a quel “+” alto tre metri di ferro rosso, che sta a rappresentare l’esigenza del ritrovamento in vita dei 43 ragazzi e anche di tutte le altre persone sparite.

Ma i poeti lo sanno: il lutto s’estende a tutto il Messico e la poe- sia non è una struttura innocente, come ben dice Marc Delcan, perché parlare del mondo è una forma di proporre un mondo senza false verità, senza principesse stolide né poliziotti malfattori. Se, come scrive e canta Lorenzo Hernández Ocampo nel suo dolce idioma mixteco, non riposerà il suo canto di pioggia, si moltiplicheranno i simboli che fanno ballare le nuvole, si moltiplicheranno i suoni mitici fino a far riapparire le figlie e i figli dell’acqua. Figli della pioggia: tutte le persone che spariscono in Messico e nel mondo perché è più facile non dire quello che è necessario ricordare sempre. La poesia ha deciso di non tacere. Ne va della sua vita.

FRANCESCA GARGALLO

Città del Messico, 2016

Anteprima della postfazione del libro “43 poeti per Ayotzinapa. Voci per il Messico e i suoi desaparecidos.” (a cura di Lucia Cupertino), Arcoiris, Salerno, 2016.


Juan Campoy

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Spagna

AYOTZINAPA

Erano il miglior raccolto del Paese,

una generazione

di pensatori liberi,

la speranza di un popolo.

Ma il potere appesta

e va marcendo

fino a servire d’adorno

negli uffici.

Tutto ciò che poteva essere orizzonte,

un cielo libero fecondato di vita,

non era nient’altro che una pagina

archiviata in uno scantinato buio.

43 voci con faccia e nome

disposti ad essere concime nel campo,

viveri sul tavolo dei poveri,

vaccino miracoloso

contro la febbre nera del lebbroso,

43 poesie

contro la longitudine vertiginosa

di una sferza o di una sciabola.

Erano il miglior raccolto del Paese,

però hanno lasciato solo equazioni

irrisolte,

verbi e aggettivi contro l’inverno

e il suo bacio mortale,

così riga dopo riga

hanno scagliato metafore

contro l’iniquità

insopportabile dei genocidi.

Forse li colsero distratti,

o forse avevano troppa fiducia

nei pilastri basilari della loro fede.

Spaccati in pronomi,

il campo è rimasto seminato di ossa.

Juan Campoy

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España

AYOTZINAPA

Eran la mejor cosecha del país,

una generación

de pensadores libres,

la esperanza de un pueblo.

Pero el poder apesta

y va pudriéndose

hasta servir de adorno

en los despachos.

Todo lo que pudo ser horizonte,

un cielo libre preñado de vida,

no era más que una página

archivada en un sótano oscuro.

43 voces con rostro y nombre

dispuestos a ser abono en el campo,

víveres en la mesa de los pobres,

vacuna milagrosa

contra la fiebre negra del leproso,

43 poemas

contra la longitud vertiginosa

de un látigo o de un sable.

Eran la mejor cosecha del país,

pero sólo dejaron ecuaciones

sin resolver,

verbos y adjetivos contra el invierno

y su beso mortal,

que renglón a renglón

dispararon metáforas

contra la iniquidad

insoportable de los genocidas.

Quizás los eligieron distraídos,

o porque confiaron demasiado

en los pilares básicos de su fe.

Partidos en pronombres,

el campo quedó sembrado de huesos.

Traduzione di Lucia Cupertino

 

Dove trovare il libro: www.edizioniarcoiris.it

Leggere altre poesie dal libro: http://www.lamacchinasognante.com/ayotzinapa-messico-a-due-anni-memoria-e-poesia-marciano-assieme/

La prefazione al libro di Fabrizio Lorusso: https://www.carmillaonline.com/2016/09/27/ayotzinapa-somos-todos-prologo-e-poesie-del-libro-43-poeti-per-ayotzinapa/

mater (# 12)

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di Giacomo Sartori

Volevo dirti

volevo dirti che

il libro su dio

vendicchia benino

anche se certo

la critica latita

(i clerici delle lettere

son così ligi

ai riti prestabiliti

così disattenti

così asserviti!)

1

EBLAST A FORD 20XVI

’Tis Pity She’s a Whore

Il teatro di John Ford e

la fortuna di una tragedia crudele

 

Napoli

Sala del Capitolo

Complesso Monumentale di San Domenico

15.XII.20XVI

Azulejos e altre poesie #4. Jorge de Sena

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Smartphoto di Nunzia de Palma*
Smartphoto di Nunzia de Palma*
Smartphoto di Nunzia de Palma
Alcune foto di azulejos scattate con smartphone da N.d.P. sono diventate un diario fotografico bilingue dal titolo “Today I feel/Hoje Sinto-me”

Clicca sulla foto per saperne di più

 

«Em Creta, com o minotauro»: una poesia di Jorge de Sena (1919-1978) tradotta da Serena Cacchioli.

Qui il poeta la recita in portoghese:

 

sena

A Creta, con il minotauro


I
 

Nato in Portogallo, da genitori portoghesi,

e genitore di brasiliani in Brasile,

forse diventerò nordamericano quando sarò là.

Collezionerò nazionalità come camicie che si svestono,

si usano e si gettano, con tutto il rispetto

necessario per i vestiti che si mettono e che prestano servizio.

Io stesso sono la mia patria. La patria

da cui scrivo è la lingua in cui per un caso generazionale

sono nato. E quella da cui faccio e da cui vivo è la

rabbia che ho della poca umanità in questo mondo

quando non credo in un altro, e soltanto un altro vorrei che

questo stesso fosse. Ma, se un giorno mi dimenticassi di tutto,

spero di invecchiare

bevendo caffè a Creta

con il Minotauro,

sotto lo sguardo di dei senza vergogna.

 

II

Il Minotauro mi capirà.

Ha le corna, come i saggi e i nemici della vita.

È metà bue e metà uomo, come tutti gli uomini.

Violentava e divorava vergini, come tutte le bestie.

Figlio di Pasifae, fu fratello di un verso di Racine,

che Valéry, il cretino, trovava uno dei più belli della “langue”.

Fratello pure di Arianna, lo avvolsero in un gomitolo ma se ne fregò.

Teseo, l’eroe, e, come tutti i greci eroici, un figlio di puttana,

gli rise nel rispettabile muso.

Il Minotauro mi capirà, si berrà un caffè con me, mentre

il sole serenamente scende sul mare, e le ombre,

piene di ninfe ed efebi disoccupati,

si chiuderanno dolcissime nelle tazze,

come lo zucchero che mescoleremo con il dito sporco

del cercare le origini della vita.

 

III

È lì che voglio ritrovarmi dopo aver lasciato

la vita per il mondo in pezzetti ripartita, come diceva

quel povero diavolo che il Minotauro non ha letto, perché,

come tutti, non sa il portoghese.

Anche io non so il greco, secondo le fonti più certe.

Converseremo in volapuk, visto

che nessuno di noi lo sa. Il Minotauro

non parlava greco, non era greco, ha vissuto prima della Grecia,

di tutta questa dotta merda che ci copre da secoli,

cagata dai nostri schiavi, o da noi quando siamo

schiavi di altri. Al bar,

ci diremo l’un l’altro le nostre tristezze.

 

IV

Con patrie ci comprano e ci vendono, in mancanza

di patrie che si vendano abbastanza care da vergognarsi

di non appartenervi. Né io, né il Minotauro,

avremo nessuna patria. Soltanto il caffè,

aromatico e ben forte, non d’Arabia o Brasile,

della Fedecam, o d’Angola, né di nessun posto. Ma caffè

tuttavia e che io, con tenerezza filiale,

vedrò scorrergli dal mento di bue

fino alle ginocchia d’uomo che non sa

da chi ereditò, se dal padre, se dalla madre,

le corna ritorte che gli ornano la

nobile fronte precedente ad Atene, e, chissà,

alla Palestina, e altri luoghi turistici,

immensamente patriottici.

 

V

A Creta, con il Minotauro,

senza versi e senza vita,

senza patria e senza spirito,

senza niente, né nessuno,

che non sia il dito sporco,

mi berrò in pace il mio caffè.

 

Le cose possibili

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lecosepossibili_copdi Martina Germani Riccardi

uno, uno, uno.
provo a pensare solo uno

e passano i primi venticinque metri.

due, due
neanche metto la testa fuori,
neanche la giro:
voglio restare qui sotto
né per difesa né per fiato, solo per
stare con me.

Un giorno ci svegliamo vivi

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[Esce per Valigie Rosse, Premio Ciampi 2016 per la poesia straniera, l’antologia di Ioan Es. Pop, straordinario poeta rumeno. Qui alcuni testi, in coda un brano dell’introduzione che ho scritto per il libro. a. i.]

di Ioan Es. Pop

traduzione di Clara Mitola

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Appunti nomadici 2

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di Giuseppe Cossuto

Proseguiamo il nostro viaggio nel passato di coloro che venivano considerati nomadi, scrivendo qualche nota sulla situazione degli zingari nell’ex mondo del “Socialismo Realmente Esistente” (la prima puntata è qui).

Elevare il grado socio-culturale distruggendo la cultura tradizionale

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, la fine del nazismo e del fascismo come sistemi di governo rappresentò per gli zingari sopravvissuti alle politiche di sterminio la fine di un tremendo incubo. Ancora scossi, molti sopravvissuti spesso rifiutavano di fornire le proprie generalità sia alle autorità americane che a quelle sovietiche. Molti, in vari Paesi europei, riconoscendo fascisti, nazisti e delatori, compirono vendette private e furono puniti dai tribunali militari alleati.

Tuttavia, nessuno zingaro venne mai chiamato a testimoniare contro gli aguzzini nei processi di Norimberga e, in quanto legalmente non perseguitati per motivi razziali ma per i “loro precedenti sociali e delinquenziali”, a buona parte dei superstiti non venne concesso alcun risarcimento da parte del governo della Repubblica Federale Tedesca.

Ciò nonostante un numero notevole di zingari provenienti dall’Europa Centrale ed Orientale continuò a scegliere proprio l’Austria e la RFT come luogo di immigrazione dopo l’instaurazione dei governi comunisti.

Il motivo dell’emigrazione è abbastanza complesso, e si lega soprattutto all’applicazione della concezione dogmatica marxista riguardo il “nomadismo” come stadio evolutivo primitivo dal quale emancipare gli zingari (ed altri gruppi nomadici).

Per l’emancipazione sociale degli zingari (e dei nomadi e dei vaganti) secondo i gradi progresso che contrastavano nettamente con i loro modi di vita, i governi del socialismo realmente esistente, investirono molte energie e risorse, sia economiche che di impegno umano.

Sedentarizzazione, collettivizzazione, lotta al presunto nomadismo si accompagnavano a politiche di acculturazione e di elevazione sociale, il più delle volte non gradite agli zingari, specialmente a chi da secoli viveva spostandosi.

Si erano avuti antecedenti di queste politiche già nei primi anni della presa di potere dei bolscevichi in URSS con attivisti comunisti di origine rom, come Ivan Ivanovich Rom-Lebedev, che molto si prodigarono nell’opera di combattere le “pratiche nemiche del lavoro produttivo”, intendendo per queste soprattutto la mendicità e la chiromanzia. Già nel 1925, era stata autorizzata la creazione dell’Unione Rom Pan-Russa, che aveva giurisdizione su tutta l’Unione Sovietica.

Con la creazione della prima fattoria collettiva per Rom, a Rostv, nel 1925, si intensificarono le pratiche anti-nomadiche e tra il 1926 e il 1928, ben 5000 rom si insediarono stabilmente in fattorie collettive in Crimea,  Ucraina e Caucaso settentrionale. Nel 1927 venne creato un alfabeto romanes avente per base il cirillico, mentre la prima grammatica, la Tziganskji Jazik (La lingua zingara), apparve nel 1931, così come l’anno prima era stato dato alle stampe il dizionario zingaro-russo, comprendente circa 10.000 vocaboli.

Oltre alla sedentarizzazione in fattorie collettive, tipica dei primissimi anni del bolscevismo, nei primi anni Trenta si iniziò ad “industrializzare” gli zingari, in appositi gruppi di lavoro chiamati artel’ (cooperative industriali specialmente chimiche e meccaniche).

Tuttavia l’Unione Rom Pan-Russa, già nel 1927-28 era stata oggetto di indagini e meticolosi controlli statali e polizieschi, che ne minarono l’azione, incarcerando e destituendo con vari capi di imputazione, molti dirigenti, per finire nello scioglierla definitivamente.

Sempre nei primi anni Trenta, numerosi zingari non di lingua russa, ma riconducibili ai Vlax, si accamparono nei dintorni di Mosca per venire poi radunati in un numero di 5470, per essere successivamente inviati nei campi di lavoro in Siberia.

Queste azioni del governo centrale contro i rom, colpirono, fino al 1938, numerose altre piccole nazionalità.

Grandi passi nella cultura ma che comportarono la distruzione dello stile di vita tradizionale.

Lo stesso schema fu applicato, con alcune varianti e differenze tra Stato e Stato, nei diversi Paesi del “Blocco Socialista”.

Ad esempio la lotta contro il nomadismo (o meglio, contro la non-stanzialità) come sistema di vita portò alla creazione di immensi ghetti zingari, come “Fakultet” a Sofia o di città abitate quasi esclusivamente da zingari come in Romania e in Bulgaria.

In Slovacchia, coloro che praticavano il “nomadismo”, dal 1958, potevano essere messi in carcere per sei mesi e, nel 1972, le politiche governative cercavano di invogliare le donne zingare a farsi sterilizzare.

Come “zingari” venivano classificati tutti i nomadi e, probabilmente, è proprio a causa di queste politiche assimilative “ziganizzanti” che si è perduta la maggior parte delle culture nomadiche, molte delle quali antichissime, che sopravvivevano, sia pur con difficoltà, nell’Europa orientale.

La drammatica evoluzione

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di Bernardo Pacini

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KANGASKHAN

Aborto naturale: defunto al sesto mese.
La madre che fraintese il corpo e il capezzale.
Il figlio era un progetto d’amore non saputo,
ridotto ad uno sputo al margine del letto.
Il fatto comportò la cupa depressione
che getta in contrizione qualunque Pokemòn.
Lei artiglia nella tasca il vuoto devastante,
espone sulla fronte la brama che rinasca.
Ma non c’è differenza tra giorno, sera e notte:
persino nelle lotte − è inutile − lei pensa:

«Da quando ho perso il figlio, è il male il mio giaciglio».

***

HAUNTER

Scriveva bene, Haunter, con grazia sepolcrale.
Racconto di Natale, Amleto, Poe & Bram Stoker,
letture un po’ datate, ma un buon apprendistato.
Talvolta era riuscito, scrivendo paginate
a prendere una forma: consistere incarnato.

Non spettro di se stesso, non madido riflesso.

Ma tutto quel talento, vuoi colpa del mercato
vuoi il tempo ahimè sprecato, rimase vivo a stento.
Mancò forse un maestro, un riconoscimento.
Sprecò il suo genio, Haunter, di fine narratore:
di un arido scrittore fu semplice ghost writer.

L’abisso che era scrivere se lo sentiva addosso.

***

PSYDUCK

Frequenti mal di testa, dolori ed emicrania
prostravano Psydùck, un dramma i suoi rapporti.
Un giorno andò in colonia che davano una festa
gli amici meno accorti gli offrirono un cognac.

«Compagni, vi ringrazio, ma devo declinare.»

Le zampe sugli orecchi, lui non sentiva niente.
Sperava che la mente, con tutti i suoi punzecchi
(lo stato di amnesia e logica stoltezza)
fosse per lui bellezza, gioiosa emorragia

o cumulo di buio, addio incondizionato.

***

ONIX

Come un mostro, arrotolato
nei dintorni di una cava.
Ha una colpa: essere un
corpo, un involucro sgradito.

La sua intima natura
ormai l’ha dimenticata
una massa rara, in onice,
la stupenda zonatura.

 

Testi da Bernardo Pacini, La drammatica evoluzione (Oedipus, 2016)

Disegno di Riccardo Bargellini e Manuela Sagona

Extraterrestrial activity #5: Hijab scene

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hijab

Scena dell’Hijab #3

“Qualcuno vuole candidarsi per il consiglio di classe?”
ha chiesto la donna picchiettando con la penna il portablocco,
“Sì, io”, ho detto, senza nessun effetto,
non mi vedeva proprio.
“Qualcuno per il consiglio di classe?” ha ripetuto,
“Sì, io” ho detto,
fossi stata antimateria era lo stesso.
Una regolare madre americana accanto a me
ha fatto spallucce e scosso la testa,
“Io! Io!”, ho mandato razzi d’emergenza,
suonato tamburi, sventolato bandiere di segnalazione,
provato coi segnali di fumo, il linguaggio dei segni,
l’alfabeto morse, Western Union, telex, fax,
il tenente Uhura ha provato a metterci in contatto
su un’altra frequenza.
“Dannazione, Jim, sono una donna musulmana, non un Klingon!”
Ma il campo di forza positronica del mio hijab
disturbava le sue coordinate cosmiche.
Salveremo l’astronave su cui siamo entrambe?
Salveremo
i cristalli di dilitio?

 

 

*

 

 

Hijab Scene #3

“Would you like to join the PTA?” she asked,
tapping her clipboard with her pen,
“I would,” I said, but it was no good,
she wasn’t seeing me.
“Would you like to join the PTA?” she repeated,
“I would,” I said,
but I could’ve been antimatter.
A regular American mother next to me
shrugged and shook her head,
“I would, I would,” I sent up flares,
beat on drums, wave navy flags,
tried smoke signals, American Sign Language,
Morse code, Western Union, telex, fax,
Lt. Uhura tried hailing her
for me on another frequency.
“Dammit, Jim, I’m a Muslim woman, not a Klingon!”
– but the positronic force field of hijab
jammed all her cosmic coordinates.
Can we save the ship we’re both on,
can we save
the dilithium crystals?

 

 

*

 

 

Mohja Kahf è autrice di poesia e professore all’università dell’Arkansas. È nata nel 1967 a Damasco, in Siria, paese che è stata presto costretta a lasciare per via delle pressioni contro la sua famiglia di oppositori politici. Al centro del lavoro poetico di Kahf l’incontro e le frizioni tra diverse identità culturali, la messa in discussione, spesso ironica, degli stereotipi, la meditazione sul senso di ‘casa’, ‘appartenenza’, ‘nostalgia’. E-mails from Sharazade (2003) è la sua prima raccolta di poesia, tradotta di recente in italiano da Mirella Vallone per i tipi di Aguaplano. Questa traduzione, invece, è a cura di chi posta.

 

Nell’immagine: una giornata complicata per Wonder Woman, appena tornata dal Punjab. In Sensation Comics, n.20, Dec. 2014.

Notizie dalla Descrizione del mondo ° 7/12/2016

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(sommario: Raffaella Aragosa, Gianluca Codeghini & Andrea Inglese – in Riscrizioni di mondo – , Alessandra Greco, Lorenzo Casali e Micol Roubini, Luca Rizzatello, Laurent Grisel…)

Non si potrebbe immaginare un tipo di scritti (nuovi) che, situandosi più o meno tra i due generi (definizione e descrizione), avrebbero del primo la sua infallibilità, la sua indubitabilità, la sua brevità anche, e del secondo il suo riguardo per l’aspetto sensoriale delle cose.

Francis Ponge

La geopolitica der paesello, la matita di Pelù e l’ecologia del seggio elettorale

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di Lorenzo Declich e Anatole Pierre Fuksas

Lorenzo. Leonardo Bianchi si è messo a scavare su pagine facebook semi-dormienti, Tipo “800.000 iscritti per Homer Simpson presidente del Consiglio”. Consiglio una rapida visione, il mondo lì sembra fatto al contrario. Tutto assomiglia al mondo pentastellato, fatto di ka$sta e “!1!!!” e “a casaa!”, di toni accesi, ma i contenuti sono integralmente antigrillini. Leonardo mappa il tutto e dice alla fine che si tratta di un’operazione di marketing politico. Mattia Salvia, in ottobre, si era “informato solo tramite pagine facebook per una settimana” e la differenza c’è: sta proprio nel fatto che la prima delle due echo chambers è costruita attorno al sì al referendum, la seconda descrive un intero universo di riferimento (oggi c’è il referendum, ieri c’era qualcos’altro, domani ci sarà qualcos’altro ancora). Si vede che qualcuno ha studiato Misinformation e segue le regole del confirmation bias. Qualcuno che ha preso atto di come funziona e prova a lavorarci su, applicando una semplice strategia tit-for-tat (cioè brutalmente “pan per focaccia”). Avrà successo? I numeri dei like, il commentario pletorico di queste pagine buongiorniste per il sì sono grossi ma boh, più di questo non si può dire. Si può dire però con certezza che qui termina ufficialmente l’era dei cacciatori di bufale e dei debunkers: loro combattono con il fioretto mentre sul campo di battaglia esplodono bombe atomiche. Soprattutto si configurano come qualcosa di “neutrale”, cioè un qualcosa che non ha il formato del social network, dunque sono destinati a sparire col fiorire di falsi cacciatori di bufale, debunkers bufalari ecc.

Anatole. Disvelatori di complottoni di tutto il mondo unitevi! Auguriamogli miglior sorte di quella alla quale è andato incontro Iacoboni, perché la merita. Questa cosa dei siti buongiornisti riconvertiti alla propaganda renziana del sì, che scimmiotterebbe er peggio der peggio del grullismo, nella nostra prospettiva è davero affascinante. E tutto sommato rispecchia bene i temi di questa campagna elettorale, che se vince il sì pare che ormai ti ricrescano pure i capelli. Ugualmente interessante sul fronte del debbunking abbestia è l’articolo di Nardelli e Silverman uscito su BuzzFeedNews, che collega l’hacker russo ai siti moldavi, impelagati con Trump, al movimento cinquestello italiano, ma anche a Putin e Assad. Tenendo da parte il fatto che il buongiornismo è un complottone di suo, meritevole di un approfondimento (l’articolo di Mattia Salvia su Vice, che abbiamo già citato da qualche parte nelle puntate precedenti scoperchiava il dramma in tutta la sua tragica evidenza), si può parallelamente pensare che se andiamo avanti così potremo scoprire che in realtà è tutta una manovra propagandistica per promuovere il film di Stone su Snowden, che ho scaricato da un sito russo, appunto, proprio ieri. La battuta meglio è quella della fidanzata, che a un certo punto si dichiara molto lusingata del fatto che le sue #fotoditette possano essere una cosa che ha a che fare con la sicurezza nazionale, quando lui, paranoico, le dice di cancellarle dall’hd. Neanche male il cerotto sulla telecamera del laptop, che potrebbe spiarli mentre scopano, perché l’hacker russo sa attivarle anche da remoto col computer idle. Insomma, siamo un po’ al punto che anche la #fotodicazzo in DM assume un rilievo drammatico per le sorti del mondo intero, cosa che probabilmente riflette il dramma schizoparanoico degli utenti buongiornisti dei social network. Ma la cosa che forse fa più ridere di tutte dell’articolo di BuzzFeedNews è l’emergere sotto traccia di una questione inedita e inaudita, cioè la possibilità, ma che dico l’eventualità, non so bene come dirlo nemmeno, di una politica estera grillina. Cioè, cos’è il mondo cinquestello? L’estero, concetto che ci rimanda indietro agli anni ‘cinquanta (“sei stato all’estero?”), appare di per sé come grande complottone. I ghiacci polari sono già squagliati? Gli americani hanno tutti il chip sottopelle? La trivalente è una trasfusione di sangue rettiliano proveniente dall’Africa? Anche senza scherzare, la storia dell’immigrato spedito in Italia dagli americani per destabilizzarci, sotto le mentite spoglie del profugo siriano fa veramente tagliare in due da ridere.

Lorenzo. Fa molto ridere in effetti. Gli “esteri” per queste persone qui sono qualcosa che ha molto a che vedere nel migliore dei casi col concetto di mirabilia.

Anatole. Le meraviglie dell’India je spicciano casa a questi, veramente! Prete Gianni who? Marco Polo facce ‘na pippa!

Lorenzo. Nel peggiore – e temo che ci avviciniamo molto al peggiore – il tutto è inquadrabile in un quadro pesantemente xenofobo: gli unici amici che avremmo sarebbero autocrati e tiranni con cui fare affari. Laddove la xenofobia è proprio una delle cifre dei regimi dittatoriali, con buona pace di chi, in tempi lontani, rendeva “neutro” il concetto di xenofobia associandolo a quello di xenofilia.

Anatole. Una Camboggia.

Lorenzo. Un marasma insopportabile, nel quale dovremmo imparare a nuotare per non affogare.

Anatole. Daje

Lorenzo. Ad esempio si possono fare le mappe delle storie e delle parole, per capirci qualcosa.

Anatole. Spiegati.

Lorenzo. Cioè, invece di impegnarci stupidamente in un debbunking (ormai ci piace con due b) teso a stabilire se in questi deliri ci sia aderenza o meno  alla realtà, possiamo utilizzare due o tre strumenti di analisi, per avere qualcosa di sensato su cui ragionare. Per fare questa cosa bisogna prima di tutto disinteressarsi della relazione tra fatti e racconto. Esempio: i miti di fondazione raccontati oralmente sulla costa Swahili. Da essi non riusciamo a ricostruire un fatto storico positivamente dimostrabile in quanto tale, ma possiamo inferire che nelle città-stato in formazione ci doveva essere una contesa politica tra le parti, ognuna delle quali aveva il suo mito di fondazione (questo è un punto di partenza su questo tema). Ora: prendiamo l’Antidiplomatico: non riusciamo davvero a capire cosa succede “all’estero” (ed è perfettamente inutile che diciamo “voi dite cazzate”), ma capiamo benissimo che “gli esteri” per i cinquestelli sono uno dei campi di battaglia della politica interna, capiamo, insomma, che nel mondo cinquestello si parla di esteri in relazione al fatto che i cinquestelli vogliono vincere le prossime elezioni. La cartina di tornasole si ottiene valutando cosa dicono i cinquestelli che stanno al parlamento europeo. Lo dicevo qui:

Più ci si allontana da Roma più i grillini diventano meno assadiani — i loro rappresentanti al Parlamento Europeo, ad esempio, hanno a suo tempo denunciato le torture di Assad, dopo aver visto le fotografie di Caesar.

E questo è un evento che non ha avuto alcuna risonanza qui in Italia. Facendo questa sorta di analisi areale (o meglio calcolando sommariamente il fetch) delle opinioni cinquestelle su Putin e Asad scopriamo insomma la loro funzione. Da lassù i cinquestelli non “percepivano” che il putinismo e l’asadismo del loro movimento funzionasse davvero bene in politica interna.

Anatole. È interessante questa cosa che dici e ci permette di leggere il complottismo in una chiave estremamente provinciale. Abbiamo sottolineato poco questo aspetto che è invece caratteristico e decisivo, che cioè quando vivi ar paese, e l’Italia in particolare è un posto dove la gente vive ar paese, anche quando si è trasferita in una metropoli cosmopolita da generazioni, l’unica cosa di cui ti frega è il paese e la canizza del paese. Voglio dire che qualunque cosa accada nel mondo ti interessa solo se riferita agli effetti che ha sul paesello in cui vivi e siccome non ne ha nessuno, ma devi trovare di necessità un punto di contatto tra quello che succede nel mondo e la tua vita, per non dover concludere che è inutile e priva di significato, ecco che il mondo intero diventa un complotto contro di te, ovvero contro il paesello e i suoi valori genuini.

Lorenzo. Sì, infatti. Che poi, se inseriamo tutto nella dinamica telefonone-Bello Figo, possiamo in questo modo intercettare quello che è definibile come “effetto Gorino”, se ci pensi. Di fronte a un evento assolutamente irrilevante e microscopico, cioè l’arrivo di poche persone bisognose e tranquille in un villaggio, dei criptofascisti hanno bloccato la viabilità innalzando pseudo-barricate.

Anatole. E così, anche, si spiegano bene i complotti americani per invadere l’Italia di africani, da Cerasito di Mezzo, per dire, a Gorino appunto, luoghi che, in realtà non esistono (soprattutto il primo, che è in Molise e non so se abbia a che fare con l’immigrazione, in realtà) fuori dalla mente di chi li popola. In sintesi, il complottismo, oltre a tutte le cose che abbiamo detto fin qui, è una forma profondamente provinciale. La scia chimica è un chiaro esempio: il mondo entra nel tuo campo visivo per il tramite di un aereo che solca il cielo e sparisce alla vista, l’impronta che lascia non può che essere nociva, perché vorresti essere su quell’aereo, ma non lo sai nemmeno, perché il tuo scenario di desiderio è sotto il tuo stesso livello di percezione, invece stai in un buco di culo sperduto e ci morirai sepolto senza che sia fregato niente a nessuno di chi eri e di chi non eri. Perché non eri assolutamente un cazzo di niente.

Lorenzo. Mentre il telefonone ti segnala che al mondo succedono miliardi di cose importantissime che ti stai perdendo, facendoti scattare l’unico succedaneo del desiderio che sei capace di percepire: l’ansia.

Anatole. Esatto, è evidente che, date queste premesse, ogni ingresso del mondo nel campo percettivo del grande provincialismo che ci circonda non può che diventare una minaccia delle multinazionali, della finanzia internazionale, delle elité liberal, che vogliono frocizzare i tuoi figli, farli copulare coi negri, contaminare le abitudini tradizionali, stanarti da quel buco in cui ti senti al sicuro. Una grande verità che Corbin O’Brien, il supervisor alla NSA dice a Snowden durante una scena di caccia del film di cui sopra è che “non vogliono libertà, vogliono sicurezza”. Stiamo perfettamente dentro questo frame. Il complotto è la forma che la minaccia costituita dall’enormità, dalla vastità, dalla grande complessità del mondo, assume agli occhi provinciali degli individui insignificanti sepolti nel paese sperduto, programmati, in realtà, dal battesimo all’estrema unzione (e quello è il vero complotto, cioè, il complotto sono loro).

Lorenzo. L’altro esempio che mi piace fare è sull’arrivo in Italia della parola “wahhabismo”, che si riferisce al movimento nato nel XVIII secolo nel Najd, attuale Arabia Saudita e che poi è divenuta la confessione ufficiale in quel paese e in Qatar. Notare: i wahhabiti non si definiscono wahhabiti: sono altri soggetti che chiamano i seguaci di Ibn Abd al-Wahhab in questo modo. Loro si definiscono semplicemente “musulmani” o (usando una semplificazione) “unitari” (muwahhidun) cioè “coloro che professano l’unicità di Dio” (unico vero caposaldo teologico dell’islam). In Italia la “fortuna” della dicitura è recente e si deve all’ingresso della propaganda russa, che ha fatto irruzione in Italia con la questione siriana e più precisamente da quando la Russia ha iniziato a uscire allo scoperto in Siria. Diciamo, sommariamente, a partire dal 2013. I russi chiamavano i jihadisti ceceni in questo modo perché una volta finita l’Unione Sovietica i sauditi iniziarono a fare proselitismo nelle ex-repubbliche sovietiche a suon di corani lanciati dagli aeroplani e/o costruendo moschee a tutto spiano. Prima si preferiva parlare di salafismo (che poi sarebbe meglio chiamarlo neo-salafismo ma lasciam perdere). Oggi chi parla di wahhabiti a sproposito è spesso individuabile come persona che subisce o si associa a quella propaganda russa, usando fonti come Russia Today o Sputnik. Ovviamente l’uso si espande anche ad altri soggetti ma riusciamo ancora a fare una mappa della provenienza delle notizie usando come bussola la parola “wahhabita”. Tante altre cose le possiamo mappare così.

Anatole. Si aprono vari fronti, se inquadri il problema così. Innanzitutto quello dell’approssimativa “precisione” nella descrizione dei fenomeni sociali e culturali, ma anche nei fatti della cronaca e della politica in genere.

Lorenzo. Il tagging accazzo al quale qualsiasi cosa, per essere intercettata da un pubblico, deve essere sottoposta.

Anatole. Esatto. Ci sono tantissime etichette accazzo che si usano per apparire più credibili e affidabili che alla fine non sono per niente pertinenti, non più che se, appunto, chiamassi tutti “gli arabi”. E questa cosa rimanda al problema che più volte abbiamo notato, che cioè o le cose le sai, o non le sai e se non le sai faresti meglio a interpellare chi le sa per capirle, invece di lanciarti in sbandatissime improvvisazioni.

Lorenzo. Sì, il fenomeno è di portata universale.

Anatole. Più in generale c’è quest’altro livello di analisi che caratterizza la formazione di opinioni sulla contemporaneità, che da una parte fa, diciamo così, pendant con il complottismo, basato sull’associazione abusiva di fatti irrelati, e dall’altra con la gestazione delle fake news basata su un’inversione del rapporto tra dato e metadato, tra fatti che accadono e categorie che li spiegano, con le seconde che, paradossalmente, producono i primi. Si tratta del fatto che le posizioni su un determinato argomento, diciamo la crisi dei rifugiati, la guerra in Siria, il terremoto, se deve uscire tizio o caio a un talent show o a quell’altro, se era rigore o no, qualunque cosa, non dipendono più tanto da come veramente la pensi, ma da quello che ti fa comodo per polarizzare l’opinione pubblica su un altro tema.

Lorenzo. Assolutamente. E qui si spiega molto di quello che entra in gioco nei complottismi. Anche in questo caso ignorando l’aderenza dei racconti alla realtà fattuale e ragionando sulle proprietà dei nessi causali messi in ruolo si riesce a capire chi polarizza, come e perché.

Anatole. Possiamo quindi aggiungere alle due modalità che abbiamo accertato anche questa terza, che è lo spostamento continuo dell’oggetto del contendere, con risultante distanziamento dai fatti in quanto tali, dei quali in fondo non te ne frega veramente nulla. Cioè, se affonda un altro barcone nel mediterraneo non te ne frega di per sé, perché sei di fronte ad una catastrofe umanitaria e devi in qualche modo trovare una soluzione per farla finire, ma perché ti interessa dire che questo o quell’altro ti sta facendo invadere dagli africani su mandato di una potenza straniera che avrà un suo qualche vantaggio (mai chiaro).

Lorenzo. Proprio così. Per anni mi sono dato pena di discutere sulla Siria, poi ho capito che della Siria a questi discussori non fregava assolutamente niente. Che a questi interessava dire qualcosa su, che ne so, l’antimperialismo o Renzi.

Anatole. Si tratta di una nuova versione del mondo fatto a nostra immagine e somiglianza, in maniera anche più stupida e vana che in passato. Cioè, non usiamo categorie nostre per descrivere cose che non capiamo, come i culturalismi ci hanno abituato a pensare. Parrebbe che adesso, pur avendo eventualmente gli strumenti per capire, non lo facciamo di proposito, perché un mondo disegnato in maniera intenzionalmente proiettiva serve a costruire opinioni su altri temi. Oppure, peggio ancora, relativizziamo qualunque cosa, perché la dobbiamo ricondurre alla dinamica della canizza paesana.

Lorenzo. Usando le nostre categorie: è evidente che una visione complottistica che metta insieme da una parte Soros, Renzi, la Clinton, il compagno del liceo che su facebook scrive cose sarcastiche e il saccente barista, dall’altra Murdoch, Grillo, Trump, il tassinaro e lo zio picchiatello è più rapido, semplice e comunicabile che non provare a capire fatti complicatissimi come quelli che attraversano la contemporaneità, che determinano assetti apparentemente improbabili, geometrie variabili di accordi e disaccordi di un sistema polimorfico, difficile da ridurre a questi contro quegli altri.

Anatole. Di sicuro se vuoi catalizzare l’attenzione, secondo il modello Povia o Marco Carta, di cui abbiamo parlato nelle puntate precedenti, piuttosto che discettare dei precari equilibri tra le tribù sunnite in Iraq, o ragionare sulle problematiche che emergono dal rapporto ISTAT, fai prima a tirare fuori il complotto della matita copiativa appena uscito dalla cabina referendaria, come Piero Pelù, un altro cantante in via di santonizzazzione:

 

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A seguito di ciò possiamo riportare indizi di un paese intero che, nella domenica del derby, per dire, si ritrova in preda alla psicosi della matita. Un complotto di Alfano che poi dà ordine di scancellare i voti no? In che modo c’entra di mezzo l’hacker russo? L’invasione degli africani? La scia chimica che traccia il cielo sopra al tuo paesello natio?

Lorenzo. Questa è molto istruttiva. La mente complottista è fortemente adattativa, e trova soluzioni (sbagliate) in tempi brevissimi. Mi allungo un po’ però sta cosa mi sembra importante: nel libro di Shaw sulle false memorie si spiega molto bene il fatto che il pilastro della memoria è di tipo associativo. Ogni memoria, e ogni pensiero che ne deriva, vive in una sua ecologia fatta di altre memorie che vi si associano in forme più o meno stabili e/o corrette. L’esempio che fa è molto semplice: quando dico “poliziotto” penserò a qualcosa che è associato in maniera molto forte al concetto di “legge” e molto poco a quello di “tavolo”. Bene, in una mente complottista queste ecologie sono sostanzialmente sostituite da quella del complotto, che si associa praticamente a ogni cosa, essendo una specie di carattere jolly, molto comodo (ma anche riflesso di un sottile malessere, o forse proprio di una modalità psichiatrica), che si attiva ogni qual volta l’ecologia di quel concetto è assente o scarsa. In altre parole: se dici “Soros” o “ISIS” molti non hanno quasi altro concetto da associare se non “complotto”. La memoria interviene quando ragioni sulle cose ma anche quando hai esperienza di qualcosa. Nel caso peluviano, il cantante stava vivendo l’esperienza di votare e probabilmente si sentiva profondamente a disagio in quella situazione dovendo in qualche modo esprimere “protesta”, cioè rappresentarsi come il Cantante Rock anti-establishment. Niente di più facile, in quelle condizioni, che accendere il neurone del complottone, poiché così attivi l’ecologia protestataria che hai alimentato a modo tuo per una vita intera, dando un senso a quel momento di assoluta solitudine che è l’Esperienza dell’Urna. E poiché davanti all’autore di Eroi nel Vento c’è solo un foglio e una matita, una delle due cose dovrà pur rappresentare un problema. La scelta cade sulla matita. Il tutto poi incontra il sentiment di masse infinite di persone che manco la matita avevano pensato ed erano uscite dall’urna con un attacco di panico incipiente, determinato dall’evidente sensazione di non contare un emerito niente e/o aver sbagliato tutto nella vita. Ecco fatto, il complotto espresso. Niente di più probabile, stando a ciò che diciamo.

Anatole. Inteso dall’angolazione ecologica il caso della matita di Pelù diventa comprensibilissimo. Il seggio elettorale è per Pelù un luogo che si collega in automatico ad un complotto: il posto dove si esercita il più sacrosanto momento della democrazia non può che essere associato ai brogli, perché le istituzioni sono corrotte e ti inoculano vaccini autistici testati dai rettiliani sulle scimmie che l’animalismo cerca di proteggere eccetera. Automaticamente la sua interazione con la matita porta con sé un’idea di mondo, è cioè ibridata da un sistema di credenze, fatto caratteristico delle ecologie umane, come dicevamo con una collega estone in un articolo mirato a sviluppare tecniche di apprendimento situato della letteratura. Quindi la matita sarà scancellabile pefforza, perché ti pare che non ti scancellano il voto per rendere l’esito della consultazione elettorale conforme ai desideri della finanza internazionale?

Lorenzo. Niente di più ovvio.

Anatole. Ma pensiamo a quelli che la leccano: proprio un’altro livello di interazione corporea, altra gestualità, è un tema sul quale dovremmo interpellare minimo Vittorio Gallese, veramente!

Lorenzo. [Cade dalla sedia in preda a convulsioni provocate dal riso]

Anatole. [Continuando però imperterrito a parlare] In realtà, se ci pensi, può essere anche un modo fantastico di drammatizzare situazioni a bassa intensità. Quando vai a votare, dai il documento, ti danno la scheda, voti e te ne vai. Che palle. Cioè, dopo mesi di isteria sui social network vorresti qualcosa di più avventuroso.

Lorenzo. [Da sotto al tavolo, in lieve ripresa] Che almeno il presidente del seggio si riveli essere un Grigio.

Anatole. Sì. O che almeno esploda il cesso della scuola in cui vai a votare. Dunque ti inventi la matita che non scrive, la lecchi, poi denunci l’accaduto, scatti una foto, la pubblichi, tutto il mondo parla di te… che figata. Da “sticazzi” a “mecojoni!”, senza gran sforzo.

Lorenzo. Ritorniamo lì. Al Graal del “mecojoni!” che dà senso al telefonone.

Anatole. Il cerchio si chiude di nuovo.

Lorenzo. E per ora direi che è tutto.

Anatole. Passo a chiudo quindi.

Lorenzo. Passo e chiudo, sì.

mater (# 11)

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di Giacomo Sartori

Al maestro dicevo

al maestro dicevo

ch’eri sempre fuori

sempre fuori

di giorno e di notte

(soprattutto la notte)

fuori con la pelliccia

fuori con i rossetti

Chi dice che Varanasi è sporca non ha capito

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Testo e foto di Chiara Cerri

 

Torno a Varanasi, solo col pensiero.
Ci sono posti che ritrovi solo dopo mesi, ci sono foto che lasci a fermentare nel tuo hard-disk, fino al momento in cui le ritroverai. Diverse, lontane, sbiadite?
Ci sono viaggi che ti lasci alle spalle, solo per riposarti e poi riprenderli con la mente fresca e quieta del ritorno.
Ci sono foto che rivedi ed è come un tuffo in un passato lontanissimo che è solo di cinque mesi o di due anni fa.
Se i ricordi si sparpagliano riapro il mio diario di viaggio e tra le righe di una calligrafia sempre diversa tutto riprende le fila, i giorni si susseguono, gli itinerari combaciano, i nomi tornano alla mente.

Concerto a richiesta e altre poesie

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Viktor Krivulin

Contenere l’amore nel corpo della giovinezza,
sul ciglio del sonno, tra le rughe di una coperta.
(come l’ombra di un remo si torce, trepida
su un fondale assolato e sabbioso)
Quel tempo sin dai sedici anni, quando
gli oggetti quotidiani profumano di donna
(come l’ombra di un remo che cade in acqua,
come l’acqua oziosa e giallastra)
e quel costume bagnato, attillato,
e quel piccolo sole sulla spalla…

 

 

 

La nostra causa è cercare e non trovare,
La nostra causa è amare, fugaci, in segreto,
E i peccati ci sono rimessi solo perché
Nessuno è senza peccato, nessuno lo è.

Il nostro tempo è nebbia d’autunno sul fiume,
È il nostro nome eliso dalla nostra mano,
Perché di notte non ci restano che
Il dubbio, la coscienza e la neve.

 

 

 

In posa fetale

dieci anni di libertà
e ancora oggi ogni mattina
ti risvegli in posa fetale
avvinghiato con le mani
strette alle ginocchia
col mento sulla clavicola
e giaci così come una virgola
sopra un documento secretato
su lettera a inchiostro simpatico
coperta da segreto assoluto

 

*

 

Viktor Krivulin, Concerto a richiesta e altre poesie, a cura di Marco Sabbatini (Passigli, 2016).

 

Pratiche lesbiche e vincoli ciechi

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di Simonetta Spinelli

Ho chiesto a Simonetta Spinelli il permesso di pubblicare alcuni suoi articoli scritti diversi anni fa e già postati sul suo blog. Le ho anche chiesto di scrivere una breve nota di accompagnamento per ogni intervento, raccontando in sintesi le circostanze della composizione e il contesto di discussione in cui si inseriva, e lei lo ha fatto, per questo la ringrazio. La scelta di ripubblicare questi testi in serie (uno al mese) spero sia evidente a chi legge: (non solo sono incredibilmente belli, ma) sono inattuali e perciò parlano al presente.

Qui il primo post della serie: Una donna lesbica femminista.

Qui il secondo: Queering Wittig?.

 

***

Il silenzio è perdita (2016)

L’articolo pubblicato nel 1986 in DWF è il risultato di una riflessione che, ancora oggi, mi angustia. In Italia – e solo da noi – le donne lesbiche non riescono a restituire le loro esperienze di vita in discorso politico autonomo. Donne che si dichiarano lesbiche, che si esprimono pubblicamente in mille modi: studiose, letterate, scrittore, storiche, archiviste. Donne di pensiero, attive nella politica, che scrivono su tutto e su tutto restituiscono un patrimonio di consapevolezza. Ma il lesbismo resta come un inciso, tenuto al riparo, come se non potesse quell’esperienza fondante del nostri percorsi essere la base dalla quale partire per costruire una visione di mondo a propria dimensione. Non a caso nasce l’adesione sempre più massiccia alle lotte per i diritti civili, perché la richiesta di equiparazione e di tutela, per quanto possa essere dettata da sacrosante esigenze pratiche, non costringe ad esplicitare il sapere delle nostre vite, né ad assumere la fatica di una contrattazione complessiva sull’intero sistema dei diritti.

 

***

Il silenzio è perdita (1986)*

Come un gesto di irritazione di fronte ad un’intimità invasa. A volte penso che l’incapacità di parola che chiude il lesbismo in un discorso difficile da articolare, e che rende anche i gruppi politici in qualche modo insofferenti ad approfondire, in termini teorici,  quanto in questi anni si è espresso in pratica di rapporti, sia lo stesso atteggiamento a difesa di un’intimità, che sembra di avvilire nominandola[1].

Approfondire un’analisi sulla realtà del lesbismo significa scavare, inevitabilmente, in una storia tutta intima e renderla esplicita, abbandonando la ricerca di un sapersi che, proprio del lasciar tutto implicito, aveva fatto una strategia. Restringendo lo spazio di comunicazione alla denuncia di un’oppressione. E il resto raccontandolo in un gesto di interruzione di discorso. Un discorso che esisteva, per ogni donna lesbica, prima ancora che esistesse il desiderio di costruire linguaggio. Come se la chiusura ad ogni sforzo di parola fosse la premessa necessaria ad esprimere un desiderio, che solo nel contatto con il corpo dell’altra poteva dirsi, perché implicitamente diceva un’esistenza.

Se l’altra è corpo del desiderio, fra i due corpi di donna si costruisce uno spazio di coscienza che rompe la logica della negazione. L’incontro tra i due corpi – non detto del linguaggio a cui la materialità del desiderio restituisce presenza – rimanda, nello stesso tempo, all’una e all’altra donna, un’immagine di sé come soggetto desiderante e una intuizione del proprio corpo come strumento di indagine e di intelligenza. Prima di ogni analisi e presa di coscienza, dividere, dirsi il desiderio è nominarsi l’un l’altra e scambiarsi riconoscimento. Questo impatto di conoscenza è così forte che capovolge il senso di tutta la realtà. Per un momento. Perché la quotidianità ricostruisce le barriere del senso comune. E si struttura una mediazione tra l’insostenibilità e la voglia di onnipotenza, che è percorso di tutte le donne, ma che per le donne lesbiche contiene l’ostinata memoria di quel “sapere del primo istante”[2] negato, rimosso e irrimediabilmente presente. Amuleto raccolto in un tempo remoto, che dei simboli magici ha l’orrore di essere esplicitato, e di cui niente più si sa di preciso, se non che gettarlo è gettare la vita. E’ più facile esprimere una protesta, difendere una strada comune alle altre donne, o la specificità di un percorso e di una pratica. Ogni cosa ci segna, ci lega e ci attrae, basta che non tocchi, a livello singolo e collettivo, quel fulcro di sapienza di intimità che è lo scandalo delle nostre vite e il nostro scandalo. E non si deve dire, perché scioglierne i nodi è rischiare di perderci.

Appartenenza per una donna lesbica è percorso di esplicitazione di quel sapere di intimità. Ma questo percorso presuppone che l’intimità sia nominata, in qualche modo esposta. Là dove il segreto le manteneva il senso di difesa magica contro la cancellazione. Se neanche io so dare un nome a ciò che non può essere nominato, né articolarne i connotati, lo sottraggo all’indagine del mondo. Che lo sottragga alla mia sembra poca cosa di fronte al fatto che, inespressa, quell’intuizione dà spessore alla mia vita. Il timore è che la violazione del divieto sommi trasgressione a trasgressione e cancelli, banalizzandolo, ciò che mi dice esistente. Quando lo spirito non abiterà più la pianta, sparirà dalla terra il popolo degli alberi.

Concepire l’appartenenza in termini di esplicitazioni contiene, oltre al fantasma della perdita, il fantasma del tradimento. Gran parte delle donne lesbiche politicizzate ha concentrato i suoi sforzi nella significazione del soggetto donna, ma ha evitato – o rifiutato – di articolare in linguaggio il sapere delle sue pratiche di intimità. D’altra parte, le donne lesbiche che si sono aggregate nei gruppi spontanei sono rimaste, spesso, legate all’esaltazione ideologica di una pratica, peraltro non esplicitata. In ambedue i casi non c’è stata accumulazione di sapere. Quell’accumulazione di sapere che ha permesso la fondazione di un soggetto collettivo donna, l’inizio di un’articolazione di significato, che non è ancora linguaggio, ma già spazio di comunicazione sessuata, all’interno del quale è possibile problematizzare intrecci, relazioni e contraddizioni tra pratiche di rapporto e ambito collettivo in cui quelle pratiche si significano.

All’interno del soggetto collettivo donna, un soggetto collettivo lesbica non è mai esistito, perché le donne lesbiche non hanno posto – se non in termini rivendicativi o confusi – l’esigenza teorica di articolare un linguaggio a partire dalla propria esperienza di comunicazione, segnata proprio dalla materialità del rapporto con l’altra. Si verifica un paradosso. Quanto più il lesbismo non si esplicita in un soggetto collettivo, tanto più le donne lesbiche sembrano sviluppare una dinamica di difesa di fronte al tentativo di approfondire l’indagine sulle pratiche di rapporto, che è interpretato, collettivamente, come minaccia di frattura, di abbandono. Come se esistesse una realtà di vite separate, che non si mettono reciprocamente in gioco, ma si stringono in corpo sociale ogni volta che è a rischio quel patto, che nessuna dichiara, ma di cui ognuna registra le violazioni. Opera qui una doppia concezione di appartenenza, che invece di articolarsi entra in collisione, pur fondando su quell’implicito sapere di intimità, perché quelle che appaiono negarsi reciprocamente sono fatiche concrete, che hanno segnato storie e vite, così a fondo che i meccanismi di difesa scattano prima di qualunque razionalizzazione.

Appartenere a sé per una donna lesbica è percorso così legato all’appartenenza all’altra che scindere le due proposizioni è ripercorrere una strada che è stata obbligo prima di essere conquista. La materialità dell’incontro con l’altra restituisce alla donna lesbica la titolarità di un desiderio che può essere espresso. Ma l’essere soggetto desiderante è legato all’altra, al suo essere soggetto desiderante. Se l’altra è immagine senza corpo, lo stesso esistere perde senso. Il sapere dell’intimità coesiste con il fantasma della perdita. Qui scatta la prima difesa. Sembra più urgente sottrarre all’indagine quel vincolo, piuttosto che rischiare di perderlo analizzandone il dato di acquisizione di conoscenza. Al rischio della perdita di senso si oppone l’occultamento di senso. Che sembra investire anche l’atteggiamento opposto di chi rifiuta un’esplicitazione di percorso, considerandola svilente di fronte alla sfida che quel rapporto, così connotato, fondi di per sé un linguaggio che scardina la logica sociale. Perché, di fatto, ridurre ogni possibilità di rappresentazione all’esemplarità astratta di un percorso, azzera le singole vite e impedisce proprio la costruzione di un sapere collettivo, fondato sulle pratiche concrete e non sull’immaginario di quelle pratiche.

La scoperta di altre donne, legate dalla stessa materialità di rapporto, non cancella il timore della perdita. Ne muta le coordinate. Le altre donne lesbiche sono spazio di socialità che permette un intreccio articolato di rapporti. Concreti. Nei quali quel sapere di intimità, non espresso, è presupposto dato. C’è uno spostamento di ottica, in cui l’appartenenza si ridefinisce, ma sempre in termini di “ciò a cui appartengo”. Il processo di costruzione di un’identità è per le donne lesbiche troppo legato alla paura della solitudine, all’ansia di non rintracciare somiglianze, al bisogno di rappresentazione sociale, perché l’appartenenza possa immediatamente porsi in modo diverso da “appartenere a”. Sembra più vitale fare corpo insieme contro l’estraneità, stabilire un patto sulla base di una somiglianza che non può essere smentita. Il dato di fatto di una pratica di intimità si sostituisce ancora una volta all’indagine sul sapere di quell’intimità. E la sostituzione diventa nello stesso tempo punto di coesione e  base per il riprodursi di un’estraneità. Perché rappresenta le donne lesbiche in un corpo sociale votato alla perdita di senso.

Sembra un gioco ad incastro, in cui spostare una pedina è spostarle tutte. Prendere distanze dall’estraneità, nominando il proprio sapere, evoca di nuovo il terrore di essere appartenenti a nessuna, e di contribuire alla disgregazione di un corpo che del suo essere non soggetto a verifica aveva fatto forza coesiva. D’altra parte, ripercorrere una rimozione rompe un patto con sé, e provoca un’espropriazione che nessuna “appartenenza a” può sanare.

La pratica politica non smentisce la difficoltà di esplicitazione con la quale le donne lesbiche reagiscono alla paura che, nominando ciò a cui danno valore prevalente rispetto alle loro vite, si produca una perdita. L’appartenenza al Movimento è stata la mozione d’ordine sulla quale le lesbiche si sono cancellate. Più la loro presenza è stata significativa, e ha contribuito alla rassicurazione generale di “essere insieme”, più è stato nascosto e taciuto il sapere delle loro pratiche di intimità. Che restava, del Movimento, il non detto. Su cui fondava la coesione. Anche qui si è prodotto un immaginario di corpo sociale omogeneo, quasi omologato, che era costantemente smentito dalle pratiche, né omogenee, né omologabili. E si è verificata la stessa spaccatura tra ossessione della perdita ed estraneità. Con un’ambiguità similare. Perché non dare, o dare lettura parziale, delle loro pratiche di rapporto è stato per le donne lesbiche sminuire quanto di quelle pratiche aveva informato, e informa, l’accumulazione di sapere che negli anni è stata costruita tra le donne.

Storicizzare un percorso, individuale e collettivo, significa oggi ridefinire un’appartenenza in termini di “appartenenza a sé”. Urgente è trovare ciò che mi appartiene, che mi rimanda una somiglianza verificabile e non estraneità, che non riduce la mia vita, né restringe i miei spazi di espressione. Ho bisogno di confrontare pratiche concrete, nominate, e il percorso di indagine che le ha modificate. In questo cercare ciò che mi appartiene il silenzio rappresenta la perdita. Di me, perché obbliga la mia ricerca in coordinate rigide, in cui il mio desiderio di costruire linguaggio è negato, e che mi rappresentano, ancora una volta, come corpo muto. Delle altre donne perché l’immaginario sulle vite sostituisce la conoscenza e il confronto reale, e ci rende l’una all’altra astratte, prive di quei corpi di cui si tace il sapere. Della cultura collettiva che della esplicitazione delle pratiche e della materialità che le sottendeva aveva fatto il suo punto di forza. Della possibilità di costruire una rete di rapporti, rafforzata da spostamenti di coscienza individuali e collettivi, perché il non detto copre la consapevolezza di quei rapporti, e ne impedisce la rappresentazione.

Esplicitare una pratica di intimità non significa riproporre divisioni, né opporre l’una all’altra le vite delle donne. Scommetto su un’altra donna perché scommetto su di me. Quello che lega me e lei è ciò che ognuna delle due riconosce come qualcosa che le appartiene. E perché ci sia riconoscimento occorre nominare. Non esplicitare che sono una donna lesbica nega, nello stesso tempo, la mia vita e quanto della vita dell’altra deve poter essere detto, la mia pratica e la sua. Se anche niente dell’altra sapessi, saprei che raccontare il mio percorso è dire l’intimità con una donna, con altre donne che vivono la stessa pratica, lo sforzo di assumere e di significare il sapere di quel rapporto e di quei rapporti e come ha segnato un’esperienza quotidiana e un’elaborazione politica. Perché questo abbiamo fatto negli anni, espresso politicità costruendo lo spessore delle nostre vite. E mi sembra contraddittorio – in questo momento, in cui la discussione si accentra sull’esigenza di significare le nostre pratiche di rapporto, di nominarle e di nominare i soggetti che ne sono titolari, e ci siamo già assunte, difendendo un’appartenenza a noi stesse, la fatica di tradire i patti di silenzio perché cancellano le donne – riproporre la miseria di una parola che da me parte, ma in qualche modo obliquo anche mi evita. E far finta di non sapere, ancora una volta, che “il silenzio tra le donne è calunnia”[3].

 

* In Dwf, Appartenenza, 1986 (4), pp. 49-53

[1] Il riferimento è qui chiaramente alla realtà italiana, che è atipica rispetto ad altre situazioni europee o nord-americane, nelle quali il movimento lesbico nasce separato, a volte in antagonismo con il movimento delle donne. Al contrario, in Italia, le donne lesbiche politicizzate hanno scelto di confrontarsi all’interno dei collettivi e del dibattito femminista, rifiutando la separazione dalle altre donne. Il lesbismo femminista è la realtà più generalizzata e visibile, tanto più che le aggregazioni spontanee, per quanto diffuse, non esprimono desiderio di produzione teorica, e le punte di radicalismo, peraltro deboli, restano assorbite dal dibattito complessivo.

[2] Alessandra De Perini introduce questa problematica al Seminario di Firenze, 1-2 novembre 1986: “Il sapere del corpo lesbico […] E’ un sapere implicito, sapere del primo istante, che non prende tempo per riflettere. E’ un sapere poco articolato. Frammentario […] che ancora non è un Sapere, eppure molto sa delle donne, dei loro pensieri, dei loro piaceri”. Dattiloscritto, p. 7.

[3] Dall’intervento (inedito) di Elena Gentili al convegno Una ricerca lesbica: Etica e politica dei rapporti tra donne (Roma, 1-2 novembre 1985).

 

 

La renitenza al risveglio ( bagatella mattiniera)

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di Giorgio Mascitelli

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La renitenza al risveglio è un piacere sottile e pericoloso che affligge Guido della Veloira  tutte le mattine. Il risveglio non è mai istantaneo, ma è un processo lento che spesso precede il suono della sveglia e in cui l’apertura degli occhi è solo una fase che succede al sorgere, sotto la cupola del sonno, di un barlume di coscienza delle cure del giorno, cioè delle angosce che esso porterà. Quando gli occhi si aprono una prima volta nell’oscurità per subito richiudersi, l’acre sapore delle angosce del giorno emana i suoi miasmi che s’insinuano fin nei precordi. Allora, e solo allora, comincia una lenta pantomima di giravolte sotto la coperta che non è un semplice stirarsi, ma è un complicato rituale di dilazione e di liberazione dell’istante dalle incombenze del poi. Il dolce tepore tra le coltri suggerisce che non è ancora arrivato il momento di alzarsi e questa salutifera consapevolezza del non ancora diventa piacere. Piacer figlio d’affanno, mentre la sveglia non suona ancora, ma emette il suo regolare ticchettio.

Proprio la sveglia è una specie di relitto vivente, come certi pesci negli abissi degli oceani,  di un’epoca passata in cui la misurazione rigorosa del tempo era necessaria per una misurazione rigorosa del lavoro che a sua volta era preludio di una vita rigorosa fondata sullo sfruttamento del lavoro. Il tempo dell’orologio fu il tempo della produzione. Ora che il tempo del computer è di una rapidità incalcolabile per qualsiasi mente produttiva, la sveglia diventa uno strumento obsoleto che si ostina a porre dei limiti a ciò che non ne deve avere perché usura è operativa ventiquattro ore su ventiquattro.  E’ il tempo incalcolabile  del progresso.

La sveglia suona, frattanto,  ma il rivolgimento nel letto prosegue per un istante allo stesso modo che la lucertola a cui è stata tranciata la testa prosegue per un frangente millesimale i suoi movimenti. Ancora due minuti e poi non si può più differire l’incontro con il muro del giorno.

Le angosce nel dormiveglia sono dismisurate ché ancora la ragione non le ha chetate, poste tra parentesi, contenute, analizzate, delimitate: verosimilmente sono sproporzionate. Il pieno risveglio le disciplina, anzi è la disciplina. Ma basta distrarsi un attimo con il tubetto del dentifricio in mano oppure nell’aspettare che il caffè venga su nella moca perché questo paziente lavoro degli strumenti della ragione vada in malora. D’altra parte se non ti puoi fidare nemmeno più della sveglia, è logico che per Guido della Veloira tutto diventi incombenza.  Ma dopo colazione, contro la forza centrifuga dell’angoscia del mondo che vorresti tenere fuori dal tuo mondo, muove con passo sicuro una uguale e contraria centripeta: la paura di attardarsi e di essere escluso.

Forse è vero quel che dice sempre Giampaolo  che si conosce il mondo solo nell’esclusione, nella separazione, quando la macchina sociale ti ha esodato fuori per qualsiasi motivo ( salute, età, pazzia, migliori opportunità d’investimento altrove); forse è vero che l’uomo è  così stolido che ci capisce qualcosa solo quando ormai sta sorseggiando la spuma o il gingerino al circolino della vita, mentre gli altri sfrecciano intorno. Quanto a Guido della Veloira lui non condivide le opinioni di Giampaolo, ma segue la doxa. Come chiude la porta di casa, gli si accende una spia rossa nel cervello, la cui luce è osservabile attraverso le tempie in certe giornate non molto luminose, che dice ‘non lasciatemi indietro’.  Non è facile di seguire le opinioni di Giampaolo tuttavia, persino il protagonista di Pentotal si lamenta di essere isolato in una Bologna del Settantasette in cui avrei immaginato che si pensasse a tutto fuorché all’ansia da esclusione. Essa non molla facilmente la presa, bisogna aver subito un danno pressoché irreversibile alla capacità di nutrire ambizioni o aspettative per essere sputato fuori.

Può anche darsi che Giampaolo abbia torto e ogni posizione che ci si trovi a occupare nell’arco dell’esperienza è soltanto un angolo della visuale senza alcuna priorità. Per il momento Guido della Veloira non si pone il problema e non conosce nemmeno Giampaolo, finché il fiato non si fa grosso nel correre e nel superare le persone per prendere il treno del metro che sta arrivando, ma senza sgomitare solo di agilità, anzi perfino disponibile a cedere il passo all’attempato claudicante e nonostante questo sempre per primo lì alla porta. Ma poi questi tempi finiranno. E anche adesso, che è nel pieno delle forze ma non lontano dagli affanni che tramano  nella penombra del risveglio, basta un incidente banale qualsiasi, che so un treno guasto, una giornata di sciopero del metro, uno che si butta sotto il treno per cancellare questa facciata olimpica di tranquillità e da sotto riemerge il solito banale urlo di sempre.

l’immagine è Freccia rossa di giovane artista milanese contemporaneo)

Ideafelix: un progetto di libri

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di Davide Orecchio

loniganSembra che i libri debbano darsi da fare. Non possono più accontentarsi di essere libri. Così, per restare nel mondo, i libri mutano. Alcuni perdono il potere della carta, e acquistano qualità digitali. Altri prendono la strada della socializzazione in Rete; capita in questi casi che il libro, che già di suo dovrebbe contenere tutte le storie possibili, divenga parte di una storia, o di uno storytelling intarsiato di status, post, video e immagini del quale il volume è solo l’innesco e poi appena un frammento. Altre mutazioni, le più frequenti, esulcerano nel protagonismo (virtuale, di network sociale) degli autori, che a volte aiuta il libro, a volte lo danneggia, a volte incoraggia i lettori ma può anche distrarli.

In altre circostanze, invece, il libro può diventare in dose non minima il motore di un progetto più ampio, e reale. È il caso di ideafelix (ideafelix.com), una nuova piattaforma editoriale aperta da pochi mesi che pubblica sei romanzi l’anno e che finanzia iniziative culturali o laboratori didattici nelle scuole, destinando loro il 20% del prezzo di copertina dei volumi, tutti in formato cartaceo e acquistabili direttamente dal sito.

«Abbiamo creato ideafelix – si legge nel chi siamo della piattaforma – perché vorremmo che l’esperienza legata alla lettura di un testo si trasformasse in qualcosa di funzionale alla nostra vita quotidiana. Così ci siamo chiesti: e se la vendita di un libro fosse anche l’occasione per finanziare dei progetti culturali o promuovere la creatività dei nostri figli? E se potessimo divulgare il messaggio: “Leggi una storia, realizza un progetto”? Oppure, al contrario: “Vuoi realizzare un progetto? Leggi un libro o chiedi ai tuoi amici di farlo”. I libri hanno finalmente una seconda vita: sono oggetti da leggere e sono oggetti che generano finanza da destinare alla realizzazione di altri progetti culturali».

Ideafelix è anche una piattaforma di crowfounding: chiunque può lanciare gratuitamente un progetto, condividerlo pubblicamente e ottenere un finanziamento collettivo.

Finora i romanzi pubblicati sono due. Scelte originali. Repêchages di autori e opere fuori catalogo non banali. Come  Studs Lonigan dello scrittore nordamericano James T. Farrell (1904 – 1979), primo capitolo (tradotto da Giuliana Villa) di una trilogia che negli anni Trenta del Novecento ebbe molto successo negli Stati Uniti, e ispirò, tra gli altri, Ernest Hemingway, Tom Wolfe, Norman Mailer, Kurt Vonnegut. «Attraverso i suoi libri – ha scritto Vonnegut di Farrell – mi ha mostrato che era perfettamente normale, e forse anche utile e bello, raccontare com’è davvero la vita, cosa si dice e cosa si prova veramente, cosa si fa, cosa succede»; e ancora: «Il suo lavoro è immenso. Balzachiano nella sua vastità. Se solo avesse prodotto una tale mole di opere in un paese più piccolo, avrebbe già vinto un Premio Nobel». Farrell, figlio di immigrati irlandesi, cresciuto all’inizio del secolo nei quartieri più poveri e violenti del South Side di Chicago, riporta alla vita quei luoghi col raccontare le peripezie del quattordicenne Studs e dei suoi compagni. La violenza, gli scontri tra bande, l’amore, il sesso, la povertà, la speranza e la paura del futuro escono dalla penna di un autore profondamente socialista.

Studs Lonigan ha contribuito a realizzare “L’alba della meraviglia”, un laboratorio di filosofia per bambini tra i 6 e i 10 anni in una scuola elementare. Leggiamo dalla descrizione: «Domandare in continuazione, cercare risposte sempre nuove e diverse, non accontentarsi mai dei risultati raggiunti: non sono forse queste le caratteristiche comuni ai bambini e alla filosofia? E allora perché non farli incontrare proprio nel luogo che la nostra società ha costruito per far sì che ciascun individuo cresca e progredisca nelle sue capacità intellettuali, affettive, morali, ossia un’aula scolastica?».

Il meccanismo ha funzionato. «Siamo molto soddisfatti – racconta Felice Di Basilio di ideafelix –. Siamo riusciti a presentare un circuito virtuoso in cui i libri generano finanza da destinare ad altri progetti culturali. Quindi il libro è diventato più forte, un vero protagonista. Ad oggi il romanzo Studs Lonigan ha finanziato il 60% del laboratorio didattico “L’alba della meraviglia” (sei classi su dieci). Ma avremmo voluto finanziare il 100%, quindi c’è ancora molto lavoro da fare».

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La seconda tappa (uscita: il 30 novembre) è La montagna ci cade addosso (traduzione di Valeria Lupo), dello svizzero Charles-Ferdinand Ramuz (1878 – 1947). Scritto nel 1934, il romanzo è ispirato alla frana che nel 1714 si staccò dal monte Diablerets, e – citiamo le parole dell’editore – si tratta di un’opera «lirica, dallo stile irregolare, magico e avvincente, che svela l’imperscrutabile e misterioso legame che unisce l’uomo al suo ambiente». Qui la protagonista, «l’eroina viva e pulsante, è una montagna, una creatura che parla e a cui gli esseri umani rispondono. Alle volte ride, fa brutti scherzi, gioca con il diavolo, e ha una sua chiara volontà».

Il romanzo finanzierà il progetto Radio Freccia Azzurra, curato dall’Associazione Matura Infanzia e rivolto a sei classi della scuola elementare e a una classe della scuola media: «Una web-radio scritta e condotta dai bambini: interviste impossibili, microstorie sonore inventate, lezioni in classe preparate da bambini e insegnanti come fossero un’équipe di ricercatori al servizio di una comunità che impara ad ascoltare. Un laboratorio di radio per trasformare la scuola, gli ambiti delle materie, il curriculo scolastico in un potenziale palinsesto radiofonico».

Spiega ancora Di Basilio: «Ideafelix vive grazie al coinvolgimento di una comunità, così come il libro esiste se incontra dei lettori. La nostra comunità deve crescere ancora molto, consolidarsi. Ogni progetto è una sfida molto impegnativa. Essere riusciti a finanziarne uno non assicura il successo di quello successivo. Così ogni volta che presentiamo il nuovo progetto e il nuovo romanzo è come iniziare tutto da capo. E per questo ci vuole molta lucidità e soprattutto un’ottima organizzazione. Il nostro primo romanzo non è stato distribuito nelle librerie, ma non è frutto di una scelta ideologica. Diciamo che il motivo è molto più banale: non abbiamo avuto tempo di organizzarlo. Siamo presenti in una libreria perché sono stati loro a proporsi. E’ la libreria Fahrenheit di Piacenza, il nostro primo amore. Adesso ci presenteremo in alcune librerie di Roma e con il tempo cercheremo di aumentare la nostra esposizione».

Ma non è semplice – conclude Di Basilio, «perché il modello ideafelix presuppone vendite certe in un lasso di tempo di circa due mesi. Quindi con le librerie stiamo cercando una formula commerciale che rispetti questa esigenza. Tutti i nostri interlocutori – l’utente, le scuole, le Onlus, i privati – vogliono sapere in tempo reale e nella più assoluta trasparenza quello che succede, come avviene in una classica piattaforma di crowfunding. Quindi complicato, ma si può fare».

Maldifiume

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logo-biblioteca-viandante-orizz(La biblioteca del viandante è una nuova collana diretta da Luigi Nacci per Ediciclo. Vuole accogliere opere scritte con i piedi sulla strada e la testa nell’utopia. Non testi d’occasione, non guide, non manuali sul camminare, ma libri-progetto,  che sappiano attraversare i generi con lo stesso passo con cui attraversano la realtà. E’ in libreria il primo volume. Direttore, editore e autrice ci regalano l’incipit. E noi li ringraziamo. G.B.)

 

di Simona Baldanzi

Il fiume non sta in un barattolo

Gli italiani mettevano tutto in un barattolo” mi disse un uruguayano di oltre novantanni una calda sera di febbraio sotto il pergolato della sua bassa e spartana casa. Santino, suo nipote, spremeva limoni, triturava il ghiaccio e ci passava i margaritas. Quell’uomo anziano, alto e snello, che teneva con una mano il bracciolo di una sedia in ferro e con l’altra il bicchiere tozzo e largo, iniziò a parlarmi dei primi italiani che conobbe, quelli che emigravano e arrivavano nel Sud America. Per lui gli italiani erano quel popolo che conservava tutto: pomodori, marmellate, confetture e passate di ogni tipo. Le parole di quell’uomo erano biascicate e impastate di alcol, limone e ghiaccio, faticavo a comprenderlo, le palpebre si chiudevano in un movimento lentissimo e ogni volta definitivo, un tempo e un gesto a cui non ero abituata, eppure lo ascoltai tutta la notte.

Quando ero arrivata a Pasos de Los Toros insieme a Caterina e Pia, facevano 42 gradi. Un caldo che aveva spento tutto: rumori, odori, movimenti. Le uniche cose vere sembravamo noi, noi che spingevamo la porta aperta di casa di Santino, noi che entravamo in una casa senza chiavi, noi che avevamo il permesso di sistemarci anche se non c’era nessuno. Posati i bagagli guardammo i colori alle pareti, i libri di Mario Benedetti, i pochi mobili, le tende con disegnati le nuvole e gli uccelli. Il caldo e quella sensazione del tempo fermo non cessavano e quando con le gambe madide provammo a darci lo smalto alle unghie e il rosso si seccava prima di distenderlo, decidemmo di uscire.copertinamal

I negozi erano chiusi, le strade erano strisce roventi di asfalto e non trovavamo nessuno. Individuammo un passante, che camminava svelto per scansare il sole, lo fermammo. Ci guardò con stupore e ci disse che erano tutti al fiume. Quale fiume? El Rio Negro. Ci indicò la via, oltre la scultura del grande toro che dava il nome al paese. Facemmo una ventina di minuti a piedi sotto un cielo accecante, di quelli che paiono che neanche il sole ci sia da quanto è scoppiato ovunque. Quando arrivammo fummo inondati dal verde, da ogni tono di verde e sfumatura e densità. Un alito di vento, un gorgoglio d’acqua, una risata. Tutto si mescolava, si confondeva e si dispiegava. Donne, uomini, bambini, anziani, stavano tutti lì. In acqua o sulle rive di quel fiume verde colmo di piccole alghe che parevano ci avessero versato tutte le scorte di mate, circondato di erba, alberi, macchia. Bevevo quello che vedevo, si placava la sete e il caldo. Ricordo ogni passo verso l’acqua più alta, la freschezza sulla pelle, i brividi, gli occhi di una bambina che guardava il mio pallore dilatarsi e galleggiare.

Avevo i capelli ancora umidi e intrisi delle piccole alghe del Rio Negro, quando il nonno di Santino posò sul tavolo un guscio di tartaruga. Lo aveva trovato intatto durante l’alluvione del Rio Negro. In ogni esagono c’erano incise date e numeri. C’erano le partite, le coppe, i goal più importanti. Seguivo il suo indice rugoso e sottile. La storia di quell’uomo vissuto da calciatore professionista in Uruguay stava tutta imbastita in quel guscio donato dal fiume.

Ancora non lo sapevo, ma il primo momento in cui ho iniziato a pensare a un viaggio lento lungo l’Arno, è stato lì, su quel tavolo in Uruguay, a migliaia di chilometri di terre e mari lontano da casa. Quel Rio Negro che mi aveva accolta a quel modo, bagnata e risvegliata, mi poneva tante domande. Cosa è per me il fiume? Cosa è l’Arno? Cosa è diventato? Come è cambiato? Noi italiani che mettiamo tutto nei barattoli, che prepariamo riserve, che siamo bravi a conservare, cosa ce ne facciamo oggi del fiume? Come viviamo il fiume che passa paesi, parchi, città, che si muove vicino a ferrovie, autostrade, che sibila sotto i ponti, che divide comunità in due rive, che attrae e spaventa insieme?

Le domande aumentavano, ma io non guardavo fuori, cercavo l’intimità, la mia storia, i miei fiumi.

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