Oggi è il 12 aprile, una giornata di sole, ma un vento fastidioso di libeccio non la rende piacevole, benché sia bello vedere il cielo terso e il mare di un blu scuro intenso, solcato da un’infinità di creste biancheggianti di spuma.
Sto qui in un bar al porticciolo di Santa Marinella e non riesco a togliermi dalla testa la drammatica vicenda di Daniela.
Ha ucciso il padre, che, all’età di 9 anni, dopo la morte della mamma, l’aveva costretta ad essere la sua schiava sessuale e gli abusi non erano mai cessati per 12 anni consecutivi. La mente di Daniela, per lungo tempo, fu invasa da un coacervo di sentimenti contrastanti, dove, però, a prevalere erano il terrore e la vergogna, finché un giorno trovò la forza di denunciare la relazione incestuosa, che aveva subìto sin dalla fanciullezza come una profonda, immedicabile ferita.
Dai carabinieri fu da subito considerata una malata. Nel verbale si riferisce: “Uno stato emozionale poco controllato, infatti le tremano vistosamente le labbra e le mani, inoltre l’eloquio è impacciato e caratterizzato da carenza di parole significative” (sic). Quando, poi, il padre esibì un foglio sottoscritto da uno psicoterapeuta, dove si parlava di fantasmizzazione, vale a dire di una cosa non vera, ma vissuta psicologicamente come vera, per la tenenza dei carabinieri non ci furono dubbi: “una povera ragazza presumibilmente malata, molestata solo dalla sua morbosa fantasia”.
Passarono ancora sei mesi, ma al fin della licenza…
Il delitto fu perpetrato, nottetempo, durante uno dei tanti amplessi, col taglio netto di un vecchio rasoio nella vena giugulare del turpe amante.
La ragazza si presentò per denunciarsi, presso il presidio dei carabinieri, alle sei del mattino.
Al processo, per la difesa, si presta volontariamente una mia amica, una persona di alto livello professionale e senso profondo della morale.
Questa signora, avvocato penalista, si chiama Marta. Ci conosciamo dai tempi dell’università. Le ho parlato: “ Marta, tu pensi che questa cosa della fantasmizzazione sia una bufala?”
“Si, sicuramente. Innanzi tutto, questo sedicente psicoterapeuta l’ha formulata senza neanche vedere la ragazza, sulla base di un colloquio col padre, una sorta di memoria per un progetto di terapia, infatti dice: ”Il soggetto potrebbe essere affetto da forme psicotiche, con sintomatologie fantasmatiche e maniaco- depressive” Capito? “Potrebbe”.I carabinieri si sono accontentati di questa cartuscella, esibita dal padre, anche perché ‘sto signore si presentava ben vestito, calmo, sorridente, parlava un italiano corretto, quasi forbito, non era brutto, direi che poteva essere considerato un piacione, il che induceva a pensare che non gli sarebbero mancate le possibilità di avventure erotiche fuori casa. Ma nel processo ci vuole qualcosa di più consistente. Io sono sicura che ha mentito. E lo dimostrerò!
Tra l’altro, questo sedicente psicologo terapeuta, a parte la targhetta sulla porta, messa appena laureato, è un ragazzino inesperto e presuntuoso e dovrà rispondere di questa cartuscella scritta su carta intestata e basata su un’ipotesi ricavata dal colloquio col padre, una cosa fuori da ogni deontologia professionale. Poi è significativo che un padre, sentendo ipotizzare che la figlia è malata e ha bisogno di una psicoterapia, non dà seguito per la ragazza a nessuna cura, né con questo imbecille, né con altri psicoterapeuti. La cartuscella porta una data risalente a quasi due anni prima dell’omicidio. Mi sembra evidente che il padre scelse proprio questo cretino per procurarsi una carta, con la parvenza di un documento clinico, da esibire, nel caso di denuncia, cosa che avvenne in realtà. Ti rendi conto?
Pare, poi, ci sia anche la testimonianza di un’amica di Daniela, che ha avuto la confidenza di una donna di servizio. Una che, pare, abbia involontariamente visto qualcosa di strano e inquietante in quella casa. Non so ancora niente di preciso. Devo sentire le due donne domani o dopodomani.”
Marta mi è parsa ferma e convinta e credo che la sua tesi prevarrà, ma le relazioni tra morale e giustizia, morale e legalità restano, a mio avviso, ambigue e sono perplesso su che cosa augurarmi per la sorte di Daniela.
Se prevale la tesi dell’abuso sessuale, quella che noi crediamo essere la verità, la ragazza sarà comunque condannata, perché si è fatta giustizia da sola. Se prevale la tesi che l’omicidio è dovuto a una malattia della mente, quella che noi crediamo essere una menzogna, Daniela sarà, più o meno, salvata da “un’adeguata terapia e ospedalizzazione”, così ho letto sulla cronaca di un giornale locale. “Salvata”? Mi pare quanto meno semplicistico.
Ieri Marta mi ha mandato un messaggio sul cellulare: ”Parlato con signora Assunta, la collaboratrice domestica, grosse novità. Oggi non possiamo vederci. Ti lascio la chiavetta con la copia della registrazione da Nico, qui al bar del Tribunale. So che muori dalla curiosità”….
Marta ha la buona abitudine di registrare, con certi sofisticati strumenti da agente segreto, ogni colloquio che riguardi il suo lavoro, non chiede l’autorizzazione agli interlocutori, ma sa che non ne farebbe mai usi impropri, se ne serve esclusivamente da efficientissimi pro memoria. Quando può, come in questa circostanza, mi rende partecipe. Ho ascoltato il colloquio di Marta con la domestica sul mio iPad:
“Dottoressa che le devo dire? Si, è vero che andavo da Daniela per i lavori domestici, ma solo una volta la settimana, la mattina, quando il padre non c’era, perché lui stava al ministero, che non lo so che faceva là. Cioè doveva essere un pezzo grosso.”
“ Ma lei, signora, in quella casa ha visto o sentito qualcosa che l’ha turbata e che può essere utile alla difesa di Daniela?”
“No, e che dovevo vedere? Cioè niente di …Dottoressa, io ho paura a parlare”.
“Perché ha paura? Di che? Si apra, non si tenga tutto dentro! Avanti! Io so che lei si è confidata con Mariacarla, l’amica di Francesca”.
“Si, dottoressa, e lei mi giurò che non l’avrebbe detto a nessuno”.
“E, infatti, Mariacarla ha mantenuto il segreto. Aveva capito che lei era terrorizzata all’idea che il padre di Daniela venisse a conoscenza che lei sapeva e aveva capito. Ma quel signore è morto e non può farle del male. Ripeto, Mariacarla ha mantenuto il segreto anche adesso, ha solo detto che lei, signora, sa qualcosa e se vuole dire finalmente la verità e liberarsi la coscienza di un peso…lo può fare tranquillamente”.
“Dottoressa, io ho 36 anni e sono vedova e madre di due gemelli, lo so che non corro rischi, ma ho paura lo stesso”.
“Non deve aver paura di me… Io sono solo l’avvocato difensore di Daniela, capisce? E so anche che lei è affezionata a questa ragazza, so che le vuol bene. Su, mi dica, che cosa sa?”
“Si, a Daniela voglio un bene dell’anima e, sapete che vi dico, quello era un demonio e la fine che ha fatto se l’è meritata. Dottoressa un giorno… E’ una cosa brutta….”
“Un giorno?”
“Un giorno andai a fare i servizi di pomeriggio, perché di mattina c’era stata la messa di suffragio per mio marito, buonanima. Lui, il padre di Daniela, venne che potevano essere le sette, non lo sapeva che stavo in casa. Appena entrato, si buttò nella sua poltrona in salotto e chiamò la figlia, due volte e disse gridando una cosa brutta”.
“Che cosa disse?”
“Disse…. Troietta, sto arrapato,vieni a farmi… Dottoressa lei ha capito? Non mi faccia ripetere…”
“Si, certo, ho capito.”
“Daniela stava con me in cucina, mi fece cenno col dito di tacere e mi sussurrò di andarmene senza far rumore. Se scopre che sei qui ci ammazza”.
Ecco, la registrazione si ferma qui. Mi sembra tutto esplicito. Marta ed io non avevamo dubbi.
Io non ho le attrezzature culturali per districarmi nella filosofia della morale e del diritto e approfondire questi rapporti, ma, guardando in una fotografia, il volto di Daniela, il suo sguardo limpido e dolcissimo, ho provato una stretta al cuore e un’istintiva partecipazione al delitto. Sì, una partecipazione come unica e terribile forma di solidarietà.
La mia birra scura sta per finire. Forse ne ordinerò un’altra. Il vento sembra sia aumentato di intensità, lo vedo dall’agitarsi straziante delle petunie di tanti colori nei vasi qui, davanti al bar.
Ma si può essere solidali con un assassinio? Le mie idee del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto sembrano immerse in una valle piena di nebbia, dove mi è impossibile accedere. Mi assale un’angustia, uno strano turbamento, un senso di impotenza, di incapacità a gestire i pensieri che arrivano e scompaiono come piccoli stizziti fantasmi. Il naufragare in questo mare, oddio, non mi è dolce…
«Velocità della visione» vuol dire essere in grado di rappresentare il proprio tempo. È un moto situazionale, provocato da forze contrastive e convergenti: quelle della tradizione e quelle della sperimentazione. Sperimentare a favore della tradizione, perché la continuità si risolva pure nelle inevitabili fratture della storia.
Signa de rerum jattura vociferantur, inchiostro e gesso su carta, 2014
(da KROWTEN, omaggio ad Alfio Fiorentino, catalogo, edizioni Offerta Speciale, Torino 2014)
Mankind is superior, collage, 2016 (inedito)
Stile
Lo stile è stato, per secoli, il fattore umano dell’arte, la sintesi ideale tra esigenze espressive dell’individuo e consapevolezza partecipe del divenire storico di un gusto comune. Poi l’arte ha smesso di raccontare la realtà in maniera univoca, e l’opera ha preso a rappresentare la complessità della visione, moltiplicando le prospettive fino alla disgregazione dell’identità stessa dell’artefice. Il grimaldello di quanti oggi, in questa maniera, si provano a riscrivere artisticamente la storia collettiva non può essere, pertanto, che l’abbandono dello stile. Al suo posto, l’inciampo, l’interruzione e il ricominciamento permettono ai più audaci di sperimentare una pluralità di materiali e di forme nella più grande libertà, ma a prezzo di una svalutazione d’intenti e di una perenne precarietà di risultati.
Eugenio Lucrezi (1952) è di famiglia leccese e vive a Napoli. Ha pubblicato quattro libri di poesia: Arboraria, Altri termini, Napoli 1989; L’air, Anterem, Verona 2001; Cantacaruso : Lenonosong (con Marzio Pieri), libro + CD musicale, La finestra, Lavis 2008; Mimetiche, Oèdipus, Salerno-Milano 2013; e i libri d’artista Freak & Boecklin (con Marzio Pieri), Morra-Socrate, Napoli 2006, Nimbus, Eureka, Corato 2015 e Sapìa, Il laboratorio di Nola, 2016. Ha pubblicato il romanzo Quel dì finiva in due, Manni, Lecce 2000. Suona nel quartetto “Serpente nero blues band”, il cui ultimo disco, intitolato Frieda e altre storie, è uscito nel 2013. Già redattore della rivista di letteratura Altri termini, diretta da Franco Cavallo, è attualmente direttore della rivista di poesia e arte Levania.
[ Auto-antologie prosegue con Eugenio Lucrezi e il suo percorso poetico. Appartengono alla stessa rubrica gli spazi dedicati a Francesco Tomada , a Vincenzo Frungillo , a Francesco Filìa e a Viola Amarelli. Sul lavoro di Eugenio Lucrezi è possibile leggere un mio intervento qui B.C.]
Rassegna internazionale di scritture di ricerca a cura di Mariangela Guatteri e Giulio Marzaioli
Per comprendere la realtà EX.IT è necessario entrarvi, farne un’esperienza, attivare modalità di lettura del territorio libere dall’incombenza di difenderlo; predisporsi a uno sguardo fluido, idoneo alla percezione delle aree più frammentate, ma non solo.
«In un certo senso l’exit, l’esodo, la defezione, è una sottrazione intraprendente, cioè non ci si può sottrarre se non fondando qualcosa di nuovo o, per prolungare il richiamo biblico, se non abbandonando l’Egitto inoltrandosi nel deserto e sperimentando lì forme di autogoverno che prima non erano neanche immaginabili.»
Diversi anni più tardi sono al matrimonio dello Staderini, ormai stabilmente texano. Si sposa con un’ingegnera indiana del suo dipartimento e il matrimonio è in India.
Dopo una prima fase in un resort ci spostiamo su traballanti autobus fino alla giungla del Kerala, dove abita la famiglia della sposa. Ci danno dei bungalow che sono di fatto delle palafitte senza pareti. Cavallette grandi come gattini solcano l’aria e atterranno sull’impiantito e sulle persone. Non tutti apprezzano. Mi informo se ci siano ragni. La padrona di casa mi dice che c’è una tarantola in bagno, dice che le piace lì, perché è più caldo. La guardo negli occhi e capisco che sta scherzando, che fa dell’ironia sul panico che ha colto molti degli invitati occidentali. Eppure, quando rientro, racconto della tarantola agli altri ospiti, serissimo.
Ma se ne sta buona nella sua tela, compa’?, fa un ingegnere elettronico di Gravina (e Houston).
Magari! È una predatrice notturna. Mobile. Rapida.
Aggressiva, compa’?
Forse mi sbaglio, ma credo sia pure di quelle che scagliano gli aculei…
Il ragno che ho creato passa di bocca in bocca, acquista sostanza. C’è chi va in bagno col cappello e chi portandosi dietro una rivista arrotolata o uno scacciamosche; in capo a qualche giorno c’è chi giura di averla vista passare tra il cesso e la doccia. Se ne parla: c’è chi ne descrive i balzi, chi ne approssima le dimensioni con le mani. Mai visto niente del genere, compa’.
Io stesso mi scopro a pisciare a occhi chiusi – io! – e allora apro gli occhi, ridacchio tra me, eppure, lì al buio, in un angolo di quel vespasiano tropicale, forse…
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Deserto tra il Portogallo e la Spagna, lago di Idanha-a-Nova, terzo o quarto giorno di un festival goa. Mattina colorata di psicotomimetici, di luce che passa attraverso il nylon della tenda dove già si disegnano motivi aztechi, frattali, volti autoricombinanti, mentre apro gli occhi dopo quello che a stento può essere definito sonno. Sole alto sull’isola, lo si vede bianco attraverso il nylon, i battiti della pista principale una emanazione sintetica che non si slega dall’acqua del lago, dalla sabbia, dalle voci che si chiamano qua e la, dalle ragazze dai capelli colorati che fanno il bagno, dal mio svegliarmi. Irraggiante sulla parete dove c’è la zip, enorme un ragno. Guardo sulla tenda quella tegenaria portoghese che si gode l’umido caldo del mio interno tenda, della mia febbre enteogenica. Cerco un pezzetto di carta; non ce ne sono.
Allora apro la zip, la raccolgo con le due mani, la metto fuori e la guardo sgambettare via; poi tiro un grido al mio compare nella tenda di fronte:
( Do qui un’anticipazione del romanzo Per sempre partigiano di Pino Tripodi, ed Derive e Approdi, 2016, euro 16,g.m.)
la storia inizia per caso. tutto comincia quando decido di fare una vacanza collinosa sul belbo in quel tratto di fiume incastonato tra le province di cuneo asti e alessandria prima che le sue acque ancora giovani si perdano nel tanaro.
il belbo anche lui muore giovane come tutte le vite – suicide o meno – inghiottite da fiumi più grandi di loro.
la politica e i partigiani contano un fico secco in quella decisione. c’entrano invece l’ottimo vino la viranda del mio amico claudio solito e l’idea di rivedere i luoghi pavesiani.
prenoto un albergo e smacchino pigramente da quelle parti. giunto in hotel ho giusto il tempo di sistemare le cosettuole che mi seguono e di chiedere un caffé in camera.
la vita cambia direzione appena mi metto a sfogliare i racconti di cortazar.
quell’11 aprile 1998 il primo tocco – solitario subito soffocato – delle campane a morto mi desta un’immediata curiosità. il suono a bicchiere quello riservato per le celebrazioni solenni annuncia la fine di una persona particolare.
smetto subito di leggere. mi alzo di scatto. dispongo istintivamente l’orecchio sinistro verso la finestra da cui arriva la musica. sette secondi distante il secondo tocco mi indubbia. poi qualcosa prendo a intuire.
dalla memoria inatteso affiora un ricordo che spenso di aver mai registrato. l’annuncio dell’agonia di mio padre con i tre tocchi delle campane a distesa ripetuti più volte tanti anni prima.
dalla musica delle campane s’intuisce che il morto è del posto. si tratta di un uomo di 77 anni. appartiene a qualche confraternita. ma qualcosa rimane oscuro. perché le campane finito il concerto ricominciano a suonare senza attendere le pause canoniche che precedono il rito funebre? a chi vogliono far sapere che qualcuno qualcuno di certo importante se ne anda? quei suoni sembrano smaniosi di infiltrarsi nei padiglioni auricolari di chi non vuole ascoltarli.
dopo quarantacinque minuti con gli orecchi incollati alle campane decido di verificare di persona di che morto si deve vivere quel giorno.
abbandono l’albergo. percorro quel centinaio di metri che mi separa dalle campane. davanti alla chiesa non c’è nessuno. niente parenti niente catafalco. anche le panche e i confessionali dell’interno sono vuoti. guardo nella cantoria oltre l’altare e in sacrestia. nessuno. non rimane che chiedere informazioni al campanile sonante. inizio correndo la scalata ma devo presto accorgermi che le gambe mi diventano lignee. passo passo freno l’ascesa non contando gli scalini. nell’ansia di raggiungere la sommità mi sembrano più dei quattrocento del campanile di giotto.
finalmente arrivo alle campane. si ostinano ad annunciare il transito ben oltre il tempo concesso normalmente ai morti. mi aspetto di incontrare il sacrestano. vedo invece un vegliardissimo sacerdote solennemente vestito con cotta e stola bianca sopra l’abito talare ricoperto dal velo omerale. gli faccio segno più volte. passano più minuti poi finalmente non so se per le mie insistenze o perché quel sistema di concerti funebri termina le campane si tacciono. chiedo al parroco a che ora inizia la funzione.
oggi non c’è alcuna funzione funebre dice con mia enorme sorpresa.
se non oggi quando si svolge in chiesa il funerale della persona di queste campane?
mai.
mai? perché è morto altrove?
è morto a cento metri da qui.
forse non si trova il corpo?
no.
è morto suicida?
cosa c’entra.
c’entra che mi piacerebbe conoscere la ragione di un concerto funebre senza fine per un funerale che non ha luogo.
il funerale sta per iniziare non in chiesa.
dove?
direttamente al cimitero.
è perché mai?
perché il morto pensa di non credere.
mi sta dicendo che lei suona le campane così solennemente per un uomo che non è cattolico.
per un uomo che pensa di non esserlo.
perché lo fa.
anche se un uomo è incapace di riconoscere i meriti di dio dio sa riconoscere i meriti dell’uomo.
ma non si suonano le campane per un miscredente.
dio non suona a comando perché così si usa fare.
il mio interesse per il morto cresce.
dove si trova il cimitero?
a cinquecento metri dalla chiesa.
allora andiamoci.
lo dico a me stesso ma il sacerdote lo accoglie come un incoraggiamento a fare quello che la testa sua fino a quel momento non gli ordina. affronto la discesa con gli occhi incollati ai piedi. quei gradini che in salita sembrano solo numerosi ora mi appaiono anche dislivellati smussati bucherellati. l’ideale per capitombolare. giunto in piano mi metto lesto a camminare. la testa ora può occuparsi del mondo senza limitarsi al pensiero piccino di salvare se stessa. dietro di me a passo molto più vecchio il prelato.
il cimitero arriva coi dodici gradini dell’ingresso. oltre a sinistra si presenta subito la camera mortuaria. dentro appoggiata sul marmo una bara già sigillata e tre persone due anziane e una giovane a onorare il defunto. arrivano i becchini uno in più dei congiunti del morto. fanno scivolare il feretro su un carrello. seguiti dai tre da me e dal sacerdote lo conducono presso un loculo. lacrimoso il più anziano improvvisa una brevissima orazione leggendo male da un foglio manoscritto non bene. poi la bara si infila nella sua angusta dimora. presto un manovale cementa l’ingresso del loculo. in attesa del marmo sul cemento ancora fresco uno dei tre il più giovane illacrimabile con un temperino scrive 1921-1998. per sempre partigiano.
mi appunto nome anno di nascita e di morte. è lo stesso nome pronunciato spesso in casa. un partigiano leggendario. ma qualcosa non torna. credo faccia parte del pantheon dei vincitori ma a vederlo ridotto così solingo non capisco.
prima che quel mancato corteo funebre si sciolga provo a chiedere come mai un partigiano tanto importante muore in una solitudine così estrema. di solito gli eroi si accompagnano al viaggio ignoto con bande fanfare gagliardetti e discorsi oceanici.
la storia ha l’altalena mi risponde il sacerdote.
la solitudine e la vita di quel partigiano da allora mi diventano un’ossessione. comincio a chiedermi perché la storia è così capricciosa. perché lascia che alcuni facitori di mondo muoiano tanto soli. perché li usa come schiavetti decidendo alla fine di cancellarli dalla sua vita.
perché gli uomini possono fare a meno della loro storia.
non so dare spiegazioni logiche. amico d’infanzia dell’uomo solo il vegliardissimo sacerdote che da quel giorno accompagno alla morte prima di sparire me ne bisbiglia una.
quel partigiano non possiede il dono della viltà della vita.
da quando la viltà è diventata un dono.
giovanotto forse non ha senso intendere il mio parlare e certo è ancora più vano che io tenti di spiegarlo. non si fermi alla realtà addomesticata delle parole.
mi dia un appiglio.
l’esistenza è fatta di piccole viltà. senza è impossibile vivere. l’esistenza che sfida le viltà della vita è insopportabile agli uomini normali. meglio che venga seppellita fino a quando un mito non le restituisce un briciolo di ghignante beffarda verità.
In portoghese, desencontro è una parola dolceamara, scivolosa e però irresistibile, che contiene la dolcezza di qualcosa che è passato e l’impossibilità amara di restare nell’incontro. «La vita, amico, è l’arte dell’incontro», cantava Vinicius de Moraes in Samba delle benedizioni, sebbene anche lui sottolineasse che l’esistenza è costellata di mille disincontri. Nella versione italiana il termine fu tradotto con «disaccordo», che è solo una delle accezioni possibili, forse la più piatta, quasi che all’epoca dell’album, frutto della collaborazione tra de Moraes, Ungaretti e Sergio Endrigo, fosse sembrata prerogativa linguistica tutta portoghese quella di racchiudere, in una sola parola, molti mondi possibili.
Il disincontro contiene il bene e il male, «meu bem meu mal», canta ancora Gal Costa, e Lisa Ginzburg non manca di ricordarlo nel suo ultimo romanzo Per amore (Marsilio, 2016), un libro di amore e morte, come è stato detto, che è anche la cronaca di un desencontro – sentimentale, culturale, sociale, geografico. Vitulca, documentarista italiana, si innamora di Ramos, un ballerino brasiliano sulla via del successo, incarnazione del carisma, della gioia di vivere e della jouissance, e seguace del Candomblé, religione afrobrasiliana. I due si sposano a Parigi, dove lei vive, nella mairie del XVIII arrondissement: si scattano le foto di nozze in place Jules Joffrin, accanto alla giostra, e in quel momento, quasi vi fosse salita per un giro, Vitulca volteggia fra la propria felicità e gli sguardi scettici degli invitati al pensiero che la loro relazione non durerà.
Col matrimonio inizia anche la giostra di tentativi per reggere un rapporto che costringe ad attraversare di continuo le frontiere (oltre alla Francia e al Brasile, anche Birmingham, Roma, Bitonto, Siviglia), fra voli intercontinentali, telefonate Skype, sfiancanti altalene fra il vuoto e il pieno di una storia a distanza; dopo un po’ anche la presenza diventa faticosa, decisamente troppo piena se per Vitulca passare due mesi in Brasile con Ramos, nel bairro popolare dove lui vive, significa essere quasi costantemente circondata dalla sua tribù, composta da una famiglia numerosa e da un corteo di gente varia, amici, conoscenti opportunisti, ammiratori sempre pronti a «vampirizzare» la sua allegria. Ma è ai sentimenti che Vitulca bada, e in fondo lo ha sempre saputo che «un amore da lontano le si addice»; se è vero che, da documentarista, è abituata a osservare il dato di realtà, dall’altro conosce la regia e il montaggio, strumenti prodigiosi dell’ambiguo: così, l’inquadratura che sceglie di privilegiare vede lei e Ramos in primo piano, il resto sullo sfondo.
Sotto l’abbagliante bagliore della sua vitalità, del suo intenso desiderio di godere della vita, Ramos nasconde però un segreto forse taciuto anche a se stesso, una tragedia intima, un destino «fatale» nel senso di oggetto di interesse da parte del fato, il quale com’è noto solo s’interessa a esseri straordinari. È questo destino che l’autrice ripercorre, con una sintassi a tratti sincopata che rende bene il faticoso lavorio della ricostruzione, il viaggio a ritroso nel tempo che la protagonista s’impone per ricomporre i tasselli di una relazione durata anni. Ricostruire, leggere i segni che in passato si sono trascurati, è un’operazione ossessiva, perché nella realtà i segnali del fato si palesano solo a tragedia già avvenuta, e nondimeno danno luogo a ipotesi diverse, verità molteplici – vari mondi possibili, come detto in apertura.
La tour di Montparnasse, dove Vitulca e Ramos trascorrono uno degli ultimi momenti insieme, è un palcoscenico perfetto per il disincontro: pur offrendo uno dei più bei panorami parigini, è un luogo immensamente tetro, non felice; come se la bellezza lì davanti agli occhi fosse già passata, già ricordo. Nel disincontro però restano, già etimologicamente, i frammenti dell’incontro che è stato, e che in quanto incontro è fondativo, determinante a livello umano, emotivo e identitario. «In fondo, le nostre vite sono i nostri morti»: la splendida citazione di Jesmyn Ward posta in esergo al libro è anche il sigillo ideale di questo romanzo appassionato eppure ostinatamente lucido, il cui ritmo nel finale precipita, stringendosi in una spirale quasi soffocante, subito prima di sciogliersi in una scena tinta di serenità e di cauta, silenziosa speranza.
Non credo di ricordarmi come riuscii a trovarla. Non fu facile, comunque; soprattutto perché non la stavo nemmeno cercando. Tutte le sere andavo a piedi alla radio dove allora lavoravo: gli studi non erano vicini, ma mi piaceva camminare ed ero abituato a percorrere chilometri senza difficoltà, provando anche diversi tragitti attraverso la periferia per rendere meno noiose quelle mie passeggiate. Talvolta azzardavo anche qualche «deriva metropolitana» psicogeografica, lasciando che fossero i miei passi a guidarmi: ma quella volta dovevano avermi tratto in inganno, perché la strada sembrava molto più lunga del solito, più faticosa, e più rigida del normale la sera invernale. C’era qualcosa che non tornava. Un po’ disorientato, mi ero fermato a un incrocio, quando la scorsi.
Si trovava in un seminterrato, sul fianco di un palazzo un po’ discosto dalla via che stavo percorrendo. L’insegna, dipinta a mano e priva di illuminazione, recava scritto solo «La boutique du diable»; non si vedeva quasi dalla strada, nel lungo e fioco crepuscolo metropolitano; ma qualcosa mi aveva indotto a sporgermi sul cortile esterno che, sotto il piano stradale, dava accesso ai garage, come se avessi già saputo che doveva essere lì. Scesa una breve scaletta, notai anche la piccola vetrina, un riquadro grande quanto una finestra, in cui stava la scritta in neon rosa «cartomanzia» e, su un fondale optical a larghe righe bianche e nere, erano esposti vecchi fumetti di Brunner, Steranko e Druillet, romanzi erotici e di fantascienza del secolo scorso, LP e singoli degli anni Settanta: Led Zeppelin IV, The Idiot, Voyage of the Acolyte, Over-Nite Sensation, Quicksand, Tubular Bells. Sul fondo, le gambe di un manichino con calze a rete, abbastanza volgari.
La porta lì accanto, una normale porta di legno verniciata di nero e piena di graffiti, non offriva invece nulla allo sguardo di chi avesse voluto curiosare all’interno; nemmeno lasciava intuire se il negozio fosse chiuso o aperto. Malgrado questa sua refrattarietà (o forse a causa di questa), non esitai a spingerla e a farmi avanti, senza annunciarmi o chiedere permesso, un po’ stupito di questa mia sfrontatezza.
Appena entrato, non vidi nessuno nella quasi oscurità: l’unica sorgente luminosa era uno stretto finestrino a vasistas posto così in alto, vicino al soffitto, che mi era impossibile capire se affacciasse all’esterno o su una bocca di lupo. A terra e sui banconi che riempivano tutto lo spazio c’era quello che mi aspettavo di trovare: pile di albi a fumetti, di cassette vhs, di dischi a 33 giri, a 45 giri, pacchi di cartoline; alle pareti scaffali carichi di libri e libri, un grande specchio dall’aria antica e su un espositore, accanto al quale pendeva appeso un poster di Apocalypse Now, alcuni cofanetti e piccole scatole. Senza sorpresa mi trovai a sfogliare affascinato e felice una rivista per ragazzi in cui avevo letto da piccolo le storie bizzarre di Redipicche. Molte altre figure ammiccavano dalle copertine, ognuna allusiva di una storia, più o meno nota; e ogni storia richiamava ricordi della mia infanzia. Ma più di tutto ero attratto dall’espositore. Mi avvicinai per esaminare il contenuto di quei cofanetti, sapendo già cosa aspettarmi: dovevano essere carte da gioco. Avevo ancora le ossa gelate e la stanza non era riscaldata: così, mentre cercavo di aprire una delle scatole, un brivido rese i miei movimenti goffi e il mazzo mi cadde a terra. Raccolsi in fretta le carte e, dopo averle rimesse in ordine, ne girai una. Erano tarocchi e la carta riproduceva il Bagatto.
«Una mano fortunata, la sua», mi dice la voce della Regina di Cuori alle mie spalle, «proprio come quella del caro Athanasius. Il Bagatto è un buon inizio: “vidi me stesso in lui riflesso come in uno specchio, e credetti di osservarmi attraverso i suoi occhi”».
Trasalendo per la sorpresa, poiché il locale mi era parso deserto, mi volto per cercare di guardare la mia interlocutrice in viso, nell’incerto chiarore che filtrava appena nel seminterrato. È seduta mollemente a un tavolo, posto nell’angolo da cui si può tenere d’occhio l’ingresso e l’intero locale, e mi sorride; davanti a lei è seduta un’altra donna, dall’aria austera, che in grembo tiene un libro aperto, come se stesse leggendo, ma pare invece concentrata sulle carte che stanno sul tavolo, quasi fosse intenta a una partita.
«Athanasius? Lei allude a Kirchner?», domando, mentre mi accosto di qualche passo, nel tentativo di trarmi d’imbarazzo con un’arguzia.
«Ma no», mi spiega paziente l’altra donna: «il signor Athanasius era un cliente, un affezionato cliente…».
«Che proprio come questo signore aveva i suoi momenti d’impaccio. È vero, Madame Sosostris?», chiede ironica la Regina di Cuori, raccogliendo da una pila accanto a sé un LP e mettendosi poi a leggere con attenzione le note sul retro della copertina.
«Non hanno proprio la destrezza di un prestidigitatore, certi signori», replica divertita l’altra, sempre fissando le sue carte: «avranno forse intuito, come dicono di avere, una qualche sveltezza d’occhio. Ma non di mano».
«Gli uomini spesso presumono da loro stessi più di quanto si dovrebbe…», sospira la Regina posando ai suoi piedi l’album: è Aquila, del 1970, una rarità.
L’altra commenta, con una punta di asprezza: «spesso presumono di sapere anche quello che li aspetta, quello che troveranno dietro l’angolo, piombando in una casa, in una storia…».
Tento allora di giustificare tanto la mia presenza quanto la goffaggine con il freddo patito.
«C’è freddo», ammette Madame Sosostris, che ha l’aria di non essere proprio in salute; si aggiusta l’ampio scialle per coprirsi meglio, poi aggiunge in modo vago:
«Il cielo promette qualcosa…».
«Neve?» chiedo io; ma dallo sguardo che ottengo per risposta mi rendo conto che è una domanda fuori luogo e abbasso vergognosamente gli occhi. Dalla copertina di una rivista musicale David Tibet, con l’immancabile gatto in braccio, e un severo John Balance mi fissano con silenzioso rimprovero.
«Io direi piuttosto… come una notte di brina e un presagio di sgomento», obietta, prendendomi del tutto alla sprovvista, una voce maschile di cui non riesco ancora a scoprire la provenienza.
Davanti al mio muto smarrimento, la Regina di Cuori torna a prendere la parola e declama con posa teatrale:
«Domande, domande… “L’intera vita altro non è che una serie di domande divenute forme”…». Poi, nel tono di una confidenza: «Vede, noi stiamo qui – qui sotto – come domande che contengono già la loro risposta».
«Così come è sopra è anche sotto», proclama l’altra, con il timbro perentorio di chi affermi una verità assoluta, e con solennità chiude il libro: prima che lo metta da parte faccio in tempo a scorgere sulla costa il nome di Jodorowsky. Incuriosito, vorrei indagare su quella lettura, ma vengo per la terza volta colto di sorpresa da un altro intervento:
«Lo sa che in ogni vita c’è una storia, vero?», mi avverte da una poltrona poco discosta da noi la voce di un lettore, intento a sfogliare le vecchie riviste e i libri della pila al suo fianco: «E ogni vita può essere anzi raccontata attraverso una serie d’immagini ricorrenti, sempre le stesse, incredibilmente, spaventosamente simmetriche, che comprendono l’intero arco dell’esperienza».
Northrop Frye
La Regina di cuori lo guarda compiaciuta. Quasi cogliendone un gesto o un desiderio inespresso, una ragazzina bionda esce sollecita dall’ombra per versare da una teiera d’argento un tè caldo, che poi raffredda con il liquido contenuto in un altro bricco; quindi pone la tazza sul coffee table davanti alla poltrona del lettore. Mentre lui si piega in avanti per posare il libro e prendere la tazza, cerco di scoprire che cosa stesse leggendo, e nella poca luce del crepuscolo che appena cominciava a rischiararsi del plenilunio intravedo l’inquietante Book of Job di William Blake.
«E cosa c’è, dunque, in questo racconto?» gli chiede la voce maschile che avevo sentito prima. Ora che i miei occhi si stanno abituando alla penombra distinguo l’uomo cui appartiene: siede con le gambe accavallate su una poltrona più in disparte, nell’altro angolo, davanti a una nicchia nel muro – una specie di finestra chiusa, forse il retro della vetrina – e tiene lo sguardo fisso su quella, quasi cercasse di guardare fuori. Un altro lettore, penso, ma poi mi accorgo che quello che tiene in mano con noncuranza, poggiato sul ginocchio, è in realtà un disco: riconosco la copertina dorata di Hunky Dory.
«Una varietà di elementi e funzioni», gli risponde il lettore, riprendendo con la mano libera il suo libro, «ma ricorrenti: tanto che dalle nostre storie si potrebbe tracciare un alfabeto di figure, un mazzo di illustrazioni che copra l’intero arco dell’immaginazione…».
«Molto di più ancora», argomenta l’altro, con lo sguardo ancora rivolto al muro, come per attraversarlo: «se proviamo a concentrare la nostra attenzione allo strato più profondo, possiamo scoprire che dietro quelle figure vi sono forme primordiali, capaci di raccontare la sua esperienza, la mia, e quella degli uomini vissuti millenni fa o che devono ancora nascere. Prototipi universali per le idee che dentro ognuno di noi si manifestano attraverso fantasie e immagini simboliche…».
La discussione s’interrompe quando, da una porta sul retro che pare immettere nelle cantine, entra salendo da una ripida scala un vecchietto magrissimo e curvo, dai grandi occhiali da vista, accompagnato dal frastuono di un macchinario che si spenge non appena richiude dietro di sé l’uscio, facendo piombare la stanza nel silenzio. Il suo grembiule grigio fa pensare che possa essere il portinaio o un custode: senza dire una parola posa la lampada con cui si faceva luce nel sotterraneo su una pila di LP, in cima alla quale noto una copia di Force the Hand of Chance, degli Psychic TV. Poi, sempre tenendo lo sguardo a terra, brandisce la scopa come un’arma antica e si mette a spazzare il pavimento nei pressi dello specchio, andando qua e là, con movimenti obliqui, senza ordine logico, come un rabdomante.
Mentre tutti tacciono provo allora a guardare quali immagini ci siano in me.
c’è una gita scolastica a Vienna c’è il sonno le MS e la sindrome di Stendhal al Kunsthistorische Museum i postumi della Vecchia Romagna c’è questa notte da solo conosci te stesso coca cola e aspirina le prime tracce di una vita che vivrai il mangiacassette poi cut to
c’è una stanza al pianterreno lontana dalla città sperduta nel grigiore di una strada suburbana l’alba e una pioggia che dura da giorni l’odore di caffè di umidità pena fino al quaranta per cento lontana da tutti eppure vicina alla fine e all’inizio della storia cut to
c’è un sole rosso che scende in estate e l’ombra scura in fondo alla valle di alta montagna all’orlo del mare ci sono due bambini in un giardino c’è l’aria di città del nordeuropa e un cielo vuoto il vento veloce ci sono giorni deserti e binari gli arpeggi elettrici nell’autoradio ci sono strade polverose cut to
c’è un marciapiede ruvido alla fine di un pomeriggio di ottobre c’è il cinema la nebbia vaga risalita lungo la fondovalle il grigio dei tetti in fondo allo spazio alla fine del mondo c’è il double-feature negli anni teneri schegge di vetro un gioco al massacro tutti i racconti di Lovecraft cut to
c’è il giradischi la camera al buio la città vista dall’alto il rumore della puntina che cade e cerca il microsolco frusciando l’attacco di batteria il sintetizzatore che disegna la colonna sonora di quelle ore di sera le note del basso che increspano appena la superficie con piccole onde la copertina dei dischi l’odore del vinile le note a calare con cui finisce Atmosphere o Christine i titoli di coda fade to black
A spezzare il silenzio è questa volta Madame Sosostris, che riprende il discorso interpellando il lettore:
Carl Gustav Jung
«Chi può dirlo, davvero, cosa ci sia, in queste storie? Forse solo ombre, forse solo i “suoni e furori” senza senso dell’idiota, che non significano nulla, come dice il suo poeta… Noi viviamo sommersi dalle parole senza nemmeno capire il senso di quello che ci diciamo, ombre a nostra volta, come quelle dei racconti».
«“La vita è un’ombra che cammina e che si pavoneggia”…», ricorda pensieroso il lettore, seguendo il filo dell’allusione di Madame, con la tazza in mano e lo sguardo perso della semioscurità. Anche la sua voce, mi viene da pensare, è quella di un’ombra, uguale alle ombre del racconto: un’ombra fra le ombre.
Sorseggia il tè, poi continua, esitante, quasi parlando fra sé:
«Quindi… ogni storia che possiamo raccontare è l’ombra di quell’ombra… uno spettro, l’ombra di un vuoto, fatto di lontananza e assenza…»
«…come lo spazio nero che fra poco riempirà nel cielo la distanza fra una stella e l’altra», sentenzia l’altro uomo, con un gesto vago in direzione della nicchia
«“Del nulla versato nel vuoto”», cita sarcastica Madame Sosostris, per rivolgersi poi a me con un cenno d’intesa: «Come vede anche il saggio ermeneuta finisce talvolta col trovarsi in qualche impaccio… così come forse i professori suoi amici spesso s’ingannano molto».
Il lettore scrolla le spalle e torna immergersi nel libro; nella penombra della stanzetta non lo vedo quasi più, confuso nella poltrona, ma lo sento borbottare per tutta risposta:
«Crede di essere più furba, lei, che non ha nemmeno il coraggio di portare il suo nome?»
«E chi lo ha, questo coraggio? Lei forse…?», lo canzona Madame, mentre il lettore poggia anche la tazza, che continuava a tenere in mano, per nascondersi meglio dietro il libro: «E poi di nomi ne ho avuto fin troppi: mi hanno chiamato Sibilla, Lenormand, Osmond, Hyde Lees, Blavatsky…».
Quindi, voltandosi di nuovo verso di me, ritorna seria:
«Tu puoi credere di essere in questi nomi, e nelle tue parole, ma quella che racconti è la tua ombra: non credere in te stesso».
Come recitando l’antifona, subito la Regina di Cuori canticchia:
«Don’t deceive with belief».
«La conoscenza arriva con la liberazione della morte…», conclude l’altro uomo, sempre guardando la finestra che non c’è: «ossia quel momento in cui puoi vedere la tua ombra sulla riva dell’al di là e riconoscere l’altra parte di te, quando puoi prendere coscienza del tuo essere anche un’ombra fra le ombre, e non il sole che immagini di essere dentro di te, ma piuttosto un “conquistatore che non ha ancora conquistato sé stesso” ed è trascinato dagli eventi…».
Da fuori risuona il latrare insistente di un cane; come un richiamo, come un allarme. «Dev’essere la luna piena che agita i cani», suggerisce la Regina di Cuori.
«I cani ci avvertono delle insidie che ci aspettano al varco», la corregge l’uomo col disco, fissando la sua finestra chiusa, quasi cercasse di avvistare attraverso di essa quelle insidie.
«Il cane è amico dell’uomo: è appunto per questo che bisogna guardarsi da lui», ammonisce beffarda Madame Sosostris.
«E perché?», si stupisce l’uomo che continua a tenere lo sguardo sul muro: «Non bisogna temere l’incontro col cadavere. Siddhartha Gautama, mentre viaggiava incontro al destino sul carro guidato da Cianna, ne trasse un fondamentale insegnamento. Come dicevo, accettare la morte significa superare la limitatezza del proprio io, l’insensatezza dei suoni e furori di cui ognuno di noi, come il folle da voi menzionato, riempie la vita. Perciò non bisogna temere di presentarsi sulla sponda d’Acheronte a incontrare le ombre, come hanno fatto anche Gilgamesh, Orfeo…».
«E Dante!», aggiunge il lettore, riscuotendosi: «Anche lui ha dovuto fare quel viaggio per riconoscersi, per ritrovarsi, sulle orme di tanti eroi antichi: Ulisse, Enea, Paolo…».
«In effetti ogni iniziazione passa attraverso l’esperienza della tomba», riconosce Madame Sosostris.
«Come il mio dolce Lucio…», cinguetta affettuosamente la Regina di Cuori.
L’uomo col disco continua con convinzione:
«E non bisogna certo temere d’incontrare la propria stessa ombra. Anzi, è necessario incontrarla, come Medardo incontra Vittorino, perché non si può lasciarla sola, ignorarla: quanto più è nascosta, tanto più diventa nera e densa».
Anche il lettore sembra animarsi:
«A Goethe di solito avveniva d’incontrarsi su un ponte, o altre volte lungo un sentiero che portava da una riva all’altra di un fiume. E Apollinaire, frequentatore di ponti a sua volta, quando era in attesa d’incontrarsi per conoscersi, vede sfilare un corteo di tutti coloro che non sono lui, e che pure lo compongono: coloro che ama, i giganti coperti di alghe, abitanti di città sommerse nelle profondità di mari che sono il sangue delle sue vene, e mille altre tribù… “tutti quelli che sopraggiungevano e non erano me / portavano a uno a uno i pezzi di me stesso / A poco a poco fui costruito come s’innalza una torre”».
William Burroughs
Senza nemmeno alzare la testa, anzi continuando con cura meticolosa nella sua occupazione, fa udire la sua voce (più distinta e forbita di quanto mi aspettassi) anche l’anziano inserviente:
«Ma in quei casi non si trattava che di una proiezione della coscienza e non del vero doppio».
L’uomo alla finestra che non c’è annuisce:
«Esatto, non era propriamente ciò che i cabalisti chiamano il “soffio delle ossa”, Habal Garmin, del quale si dice che come discese incorruttibile nella tomba, così risorgerà il giorno del giudizio universale. E invece per vederci chiaro ci è necessario proprio compiere quella discesa, ci è necessario il rigore della morte!».
«E anche noi ce ne stiamo sepolti qui sotto, “dans la nuit du tombeau”, non per non vedere, ma per dissolvere le apparenti superfici, secondo quel ben noto metodo suggerito da Blake…», mi spiega con fare complice Madame Sosostris.
«Lo stesso metodo usato dai suoi colleghi…», propone l’uomo col disco al lettore, che approva:
«Da chi vuole operare sull’insieme di corpo e anima, per usare le parole del poeta: quindi anche dai suoi».
«Già: ed è operazione, che si compie appunto nel mondo infero…», conferma l’altro.
«Oh ma che immagine sinistra…», geme a disagio la Regina di Cuori.
«“Dev’essere il diavolo”….», ridacchia il lettore.
«In fin dei conti, è questa la parte che dobbiamo accogliere, a volte, ed è anche la parte della gioia», arguisce l’uomo posando solo per un attimo su di me lo sguardo, per poi rivolgere di nuovo verso la finestra chiusa il viso.
«Non lo giudichi male, per questa stranezza», mi sussurra premurosa la Regina di Cuori: «il nostro amico è una persona per bene. Certe volte ha degli scatti, dei momenti di rabbia, ma non ha malvagità. Ed è solido il suo intelletto…».
«Come la sua casa… finché reggerà!», insinua malignamente il lettore.
«Penso che abbia saputo cavarsela meglio di altri suoi conoscenti, non crede?» controbatte Madame Sosostris: «Meglio di Roderick, col suo Scorpione obliquo e Sagittario retrogrado; meglio del signor K., con tutti i suoi problemi con la giustizia… E meglio di quel giovane cavaliere… il tenente Willi si chiamava?».
«Sì, sì, mi pare, Willi… poveretto!», le risponde subito la Regina: «Le loro case non erano molto solide, per una ragione o per l’altra, e sono andate in rovina».
«La vostra ossessione per cose materiali come gli edifici è ammirevole», brontola il lettore.
«Mai quanto la sua e quella dei suoi amici, principi della “tour abolie”…», ribatte ridendo Madame Sosostris: «Oltre a quello che ha appena menzionato, era per esempio un emulo di Hiram un altro ‛maestro Guglielmo’ ancora, quello che pose la torre al centro della sua ‘visione’; e Antonin ci ha rimesso la salute mentale, quando scese alle fondamenta del tempio di Emesa per erigere fino al cielo il fallo…».
Ma s’interrompe quando l’uomo seduto in disparte, sempre senza degnarci di un’occhiata, sbuffa, irritato. Allora il lettore le domanda incredulo:
«E che vuole giudicare da queste disavventure? Tutta la vita è una lotteria di Babilonia? O una partita a carte con l’inferno? Chi crede questo…»
«Lo credeva in un certo senso Gherman, ricordate?», prorompe divertita la Regina di cuori.
«Ah, la regina di picche lo ha tratto in inganno!», esclama Madame Sosostris.
«Ma con ragione… e il tre, il sette e l’asso: un bello scherzo, davvero», sogghigna l’altra.
«Davvero credete che ci sia solo questo caos?» sbotta il lettore: «Che non si abbia diritto di mettere ordine, o almeno di cercare un ordine? Allora – parlando di diavolo – perché non tornate a invitare il vostro vecchio padrone, Edward? Lui apprezzava il caos e un certo procedere a ruota libera…».
«Oh, quel brutto muso!» mugola la regina di cuori, versandosi costernata un’altra tazza di tè.
Madame Sosostris si affretta a rispondere, ma in modo pacato:
«Apprezzo la delicatezza che ha voluto usarmi nel non ricordare l’altro nome con cui voleva farsi chiamare. Ma lei comunque sa bene che su questo negozio non può ormai vantare alcun diritto, quindi non lo chiami nemmeno padrone. E comunque, mio caro, i suoi sforzi ai miei occhi sono sempre encomiabili: di certo ne è avvertito».
«E d’altronde anche lei non fa che fare questo», nota conciliante l’altro: «“comunicare con Marte conversare con gli spiriti”, eccetera eccetera… e soprattutto “sfidare l’inevitabile / con carte da gioco” significa tentare interpretazioni».
L’uomo che continua a guardare la nicchia precisa: «Certamente non è solo un gioco di carte. Chi gioca cela la morte interiore. Invece quello che vogliamo fare tutti noi in fondo è proprio “to explore wombs, or tombs, or dreams”»
«“I consueti passatempi e droghe”, lo concedo», dice Madame Sosostris. E poi, rivolta al lettore: «ma è la freddezza con cui lei e altri, per esempio quel suo amico italiano, pensate di poter arrivare ad avere sempre ragione che mi rende inquieta. E inquieta in generale io resto sul futuro, né penso che si possa avere calcolato tutto con esattezza… l’essere umano è un materiale oscuro, opaco. Un corpo nero: difficile calcolarne con esattezza la massa».
Mi guardo nell’antico specchio opaco: anche il mio doppio, nell’oscuro riflesso, non è che un corpo nero, un’ombra.
A quel punto interviene la Regina di Cuori, garrula: «A me non dispiace vederla così: la vita è una partita a carte e a ogni giocatore capitano carte diverse, ma chi manovra come si conviene gli atout, vince…», e accenna maliziosa all’angolo in cui sta un separé decorato con figure liberty. Mi accorgo solo allora, tanto erano immobili e silenziosi, che dietro a quello, sotto a un bizzarro lampadario rococò nel quale non brilla nessuna luce, vi sono un uomo e una donna immersi nell’ombra che si tengono per mano e si guardano negli occhi. Con la mano libera lui regge un curioso bastone da passeggio, decorato con una testa di fanciullo come pomo e due serpenti intrecciati lungo l’asta; lei tiene invece un ombrellino belle époque appoggiato sulla spalla.
«Loro, vede, non prestano neanche più attenzione ai libri, alle storie, presi come sono l’una dell’altro…», continua soddisfatta la Regina di Cuori. «André, sapete, l’ha cercata per tutta la città», aggiunge materna: «prima quando veniva qui s’interessava molto alle nostre cose…».
«Anche Nadja è una dei nostri!», taglia corto l’altra, infastidita: «Se non l’avesse conosciuta qui, non avrebbe mai potuto trovarla!».
«Eh, forse nemmeno cercarla…», sospira il lettore.
Le due donne lo guardano. Il lampadario spento continua a pendere inutilmente e come quello resta sospeso anche il discorso.
Gustav Meyrink,
«Ma tutte queste chiacchiere dove ci porteranno?» chiede spazientita la Regina di Cuori.
«Da nessuna parte, dovresti saperlo», replica bonariamente madame Sosostris: «è un libro che non comincia e non finisce questo che stiamo leggendo, un libro che cambia ogni volta che lo apriamo…»
«Non sono forse così tutti i libri?», constata il lettore senza nome.
Madame Sosostris si volge soddisfatta dalla sua parte, sorridendo:
«E non è così la tua stessa vita, lettore?».
Dall’angolo in penombra, dove pure non posso vederlo distintamente, non giunge risposta; ma sono sicuro che ha ricambiato il sorriso.
«Bisogna saper accogliere il mistero del torrente che scroscia dalle cime verso le valli», suggerisce allora l’uomo con il disco.
«E quello della nuvola che dal vuoto della valle sale alle cime», conclude l’anziano dal grembiule grigio.
Noto solo adesso che sull’ultimo bancone, il più vicino all’uomo seduto in disparte presso la nicchia, c’è un giradischi acceso. Il piatto sta girando ipnoticamente: sembra quasi invitarmi ad avvicinarmi, prendere dalle sue mani l’album di cui sembra dimentico e provare ad appoggiarvi la puntina, per sentire la voce di Bowie cantare della «warm impermanence». Ma non sono sicuro che l’apparecchio sia collegato a un amplificatore, e soprattutto non sono sicuro che gli altri gradirebbero.
«È tardi», mi avverte Madame Sosostris, come se avesse letto il mio pensiero: «è quasi sera».
«Brilla già la stella di Venere», dice l’uomo alla finestra che non c’è, sempre come se vedesse attraverso di essa.
«Questa è l’ora del giorno in cui si muore…», cantilena Madame Sosostris con aria assente: «e poi si torna a vivere in corpi composti da una muta alchimia con cenere e metano, neve e fango, nel gelo dei colori all’orizzonte….».
«È l’ora del giorno senza parole», seguita l’uomo, «e senza nome per il suo segreto. È qui che si combatte, in vista delle verità addolorate dell’alba, la battaglia contro i suoni e i fantasmi che ci abitano, per l’ascesa al trono del proprio ‘io’»
«Un vigile silenzio intenso e grigio… accettare, andare avanti, durare. Non c’è corona o manto bianco», soggiunge il lettore mentre fissa l’anziano, sempre intento a spazzare nel suo modo bizzarro: «e l’incoronazione può avvenire solo qui, sotto un sole oscuro, nell’ombra in cui il futuro dorme “come il mare nel raggio sanguigno della luna”…»
«…sotto il sole rosso del profondo, l’enigmatico sole della notte, che risplende nel punto più profondo della corrente scura di fiumi sotterranei, dove sono il nero scarabeo e il sangue dell’eroe ucciso…», fa di rimando l’altro uomo.
«Vorrei versare anche per lei una tazza di tè», mi dice premurosa la Regina di Cuori, «ma credo che il mondo là fuori la aspetti».
«Da Kether a Malkuth», sentenzia Madame Sosostris, riprendendo il suo volume. È un’altra citazione? Le sue parole mi ricordano qualcosa che è rimasto sospeso in me, ma non riesco a ricordare cosa. La sento mormorare, mentre rivolge la sua attenzione alle figure sul tavolo: «in questa carta un viaggiatore stanco: cammina, ma fino a quando non so… germe di sole piantato la sera all’equinozio e sotto la luna che schiude promesse lontane e note, sempre in sospeso e sempre mancate, nel segno di stelle ormai tramontate. Fante di spade davanti all’ignoto, poi cavaliere per una regina, sempre sospeso e al bivio di vie…»
Il vento fa sbattere la porta d’ingresso che avevo lasciato socchiusa alle mie spalle: dopo aver urtato sullo stipite, questa torna adaprirsi, come se una mano l’avesse spinta e fosse poi sparita al mio volgere lo sguardo. È un richiamo?
«Si è alzato il vento», osserva la Regina di Cuori: «mi piace questo vento che soffia all’improvviso nei giorni d’inverno, carico di promesse».
«The trumpet of a prophecy», mormora Madame Sosostris, di nuovo assorta nelle sue carte.
Il lettore immerso nell’ombra sembra anche stavolta coglierne l’allusione e recita a memoria:
«O tu / che porti sul tuo carro i semi alati / al loro cupo invernale letto / dove giaceranno freddi e sepolti / come un cadavere nella sua tomba / finché la tua azzurra sorella di primavera suonerà / la sua squillante chiarina sulla terra sognante e riempirà / di vive tinte e odori ogni collina e piano».
È un richiamo anche questo? Un invito ad andare? È ora di uscire da qui?
Vai, ammicca scanzonato John Foxx dalla prima pagina di un numero del «New Musical Express», con la giacca sulla spalla, l’asta del microfono in mano e lo sguardo rivolto in alto.
«Vai», mi dice una voce alle spalle: «ti aspetta la tua ombra».
All’uscita Venere splendeva davvero, ormai bassa sul luminescente orizzonte urbano che non lascia vedere molte altre stelle; presto sarebbe stata cancellata dal fulgore del plenilunio. Per la strada solo la corsa incessante delle automobili, come trascinate da una corrente continua. Nessun essere umano, tranne me stesso, rimasto là ad attendere la mia ombra, appoggiato alla ringhiera sul cortile, lo sguardo rivolto all’ultimo piano di un grattacielo, dove un’unica finestra era illuminata.
Fonti:
G. Apollinaire, Corteo (1913)
L. Apuleio, Le metamorfosi (II sec.)
A. Artaud, Eliogabalo (1934)
Asvagoşa, Le gesta del Buddha (II sec.)
W. Blake, Il matrimonio di cielo e inferno (1790-93) e Il libro di Giobbe (1823-26)
A. Breton, Nadja (1928), L’amour fou (1937)
W.S. Burroughs, Lettere dello yage (con A. Ginsberg, 1953-1963) e Il pasto nudo (1959)
L. Carrol, Alice nel paese delle meraviglie (1865)
P. Celan, Corona (1952)
Guy Debord, Théorie de la dérive (1956)
G. Deleuze e F. Guattari, Mille piani (1980)
T.S. Eliot, La terra desolata (1922), Quattro quartetti (1943)
N. Frye, Fearful Symmetry: A Study of William Blake (1947)
G.I. Gurdjieff, Incontri con uomini straordinari (1960)
E.T.A. Hoffmann, Gli elisir del diavolo (1815-16)
A. Jodorowsky, La via dei tarocchi (con M. Costa, 2004)
C.G. Jung, Anima e morte (1934), Liber novus/Libro rosso (1913-30) [p. 274]
F. Kafka, Il processo (1914-17)
Lao Tsu, Daodeching (IV-III sec. a.C.)
H:P. Lovecraft, La chiave d’argento (1929) e Attraverso le porte della chiave d’argento (1932)
G. Meyrinck, Il Golem (1913-1914)
G. de Nerval, Chimere (1853)
A.S. Puskin, La dama di picche (1833)
A. Schnitzler, Gioco all’alba (1927)
W. Shakespeare, Macbeth (1606)
P.B. Shelley, Ode al vento dell’ovest (1820)
P.D. Uspenskij, Il simbolismo dei Tarocchi (1913)
W.B. Yeats, La torre (1928)
Aquila, Aquila (1970)
D. Bowie, Hunky Dory (1971)
Coil, Horse Rotovator (1986)
Current 93, Thunder Perfect Mind (1992)
C. Debussy, La chute de la maison Usher (1908-17)
S. Hackett, Voyage of the Acolyte (1975)
House of Love, The House of Love (1988)
Iggy Pop, The Idiot (1977)
Joy Division, Licht und Blindheit (1980)
Led Zeppelin, IV (1971)
M. Oldfield, Tubular Bells (1973)
Psychic Tv, Force the Hand of Chance (1982)
F. Zappa, Over-nite Sensation (1973)
L. Bottaro, Redipicche («Corriere dei Piccoli», 1972)
F. Brunner, Doctor Strange («Marvel Premiere», 1973-74; «Doctor Strange: Master of the Mystic Arts», 1974)
P. Druillet, Lone Sloane (Le Mystère des Abîmes, 1966; «Pilote», 1970-72; «Metal Hurlant», 1975-80)
J. Steranko, Nick Fury Agent of S.H.I.E.L.D. («Strange Tales», 1965-69, 1972)
I primi cinque anni della pubblicazione Congiungimenti (2010-2015) raccolti in un unico volume.
Testi di Domenico Brancale, 32 disegni di Hervé Bordas. A cura di Silvia Soliani, con una nota di Vito M. Bonito. Tiratura di 200 esemplari.
Edizioni Prova d’Artista, Venezia, Galerie Bordas, 2016
ESECUZIONE 1
in te riposto il segreto… non una nudità
se non ci fosse la parola che costringe
al silenzio… in te seppellito il seme…nel
nome la carne… ora non siamo più noi
se non è l’altro che comincia a parlare…
Ho conosciuto Giuseppe Acconcia grazie a un incontro che si è svolto a Torino durante la presentazione del suo libro, Egitto Democrazia Militare pubblicato dall’eccellente editore Exorma. Conosciuto di persona perché in realtà eravamo entrati in contatto qualche tempo prima per cominciare una proficua collaborazione con Nazione Indiana in merito a quanto succedeva in Medio Oriente. Giuseppe è infatti corrispondente per il Manifesto e da anni porta avanti un discorso poco prudente in merito ai più recenti avvenimenti, rompendo l’onda delle opinioni correnti piuttosto che cavalcarle, come nella sua presa di posizione a dir poco critica nei confronti dell’autunno abbattutosi in medio oriente dopo le primavere ricche di democrazia e speranza per i popoli del Mediterraneo. Tali posizioni sono state anche attaccate, polemicamente, salvo poi rivelarsi mesi dopo, alla luce di terribili fatti come l’assassinio di Giulio Regeni in Egitto, a dir poco realiste rispetto a quanto sta accadendo in questa nostra parte del mondo.
Introdurre una raccolta di poesie con una nota sulla produzione letteraria e giornalistica del suo autore mi è sembrato giusto per due ragioni almeno. La prima è che in Italia abbiamo soprattutto in questi ultimi anni dei poeti che da anni lavorano in campo politico e sociale con estremo rigore e con eccellenti risultati dal punto di vista teorico e militante. La seconda è che non v’è affatto anomalia nel rilevare tale esperienza della poesia in ambiti che sembrano troppo prosastici e realistici per lasciare spazio alla forma poetica, perfino al credere ancora in essa come azione letteraria sul mondo. Delle poesie di Giuseppe Acconcia sono allora lieto di condividerne con voi una breve selezione tratta dal libro e soprattutto l’approfondita analisi che ne ha fatta Eleonora Rimolo.
L’unghia che entrava nella carne del mio dito
veniva curata ogni giorno con acqua e sale,
filamenti bianchi lunghi sguazzavano nella piccola
[conca blu,
la pelle bagnata era libera da un peso, il dito respirava,
ma il liquido giallo fluorescente crostoso
di un intenso odore di cicatrice perenne
ricompariva pochi minuti dopo,
fu in una di quelle notti che avvistammo
il cadavere di un uomo alto, coperto da foglie,
[sulla salita vicino casa,
sospeso sulla terra con un cappello,
nessun segno di colluttazione,
ma le ferite della pelle, come di Marina de Van,
squarciavano le sue gambe.
Poco prima era stato visto in un bar
senza gabinetto dietro alla stazione di Bologna,
buio, frequentato soprattutto da chi spazza,
[banconi pieni di pane,
sul fondo il rumore di una diligenza formata
[da carrozze sconnesse,
aperte e con due passeggeri, insospettabili:
bread, cantante dalla faccia sfigurata
[come fette di pane,
e una donna trafitta da frecce che ne attraversavano
[la carne senza ucciderla,
entrambi avevano appena assistito alla salita
di una cosca di uomini malfattori alla tavola
[alta della Mafia.
Pare che l’uomo sia entrato nel bar per pochi minuti
e per due battute azzeccate abbia ottenuto in regalo
una bottiglia di vino della Valpolicella,
[ancora intatta nelle sue tasche.
Poco prima era stato visto in un retrobottega
mentre amava una donna ninfomane
e veniva travolto dal suo ardore
con il suono di una chitarra
ed una voce impaurita e stentata a vibrare sulle corde,
immersi in un’estasi profonda
sfondarono le doghe del letto
mentre la donna moriva di febbre gialla a trent’anni.
Quella stessa sera fu visto su uno schermo
tra le vie di Ocklahoma City mentre interpretava
[Rusty James.
I ponti della città diventavano templi.
Padre e figli giocavano su un letto,
coinvolti in un’orgia sublime,
piccoli specchi riflettevano la scena.
Nel pomeriggio fu visto mentre chiedeva lavoro
a vecchi signori che lo scoraggiavano a vivere
mentre lui si sforzava di mostrare perfetto
[piglio anglosassone,
tradito da vaghi tentennamenti
e dal dubbio che nessun ufficio fosse fatto per lui.
Uno dei vecchi raccontò che quel ragazzo,
le visiteur du soir lo chiamò,
aveva il volto di chi strappa le foglie per strada,
che di per sé non vuol dire niente,
ma che lui associava a chi vuole giocare non lavorare,
a chi vuole vivere senza tempo,
persino la quotidianità precisa dei giornali era forse
[per lui un’oppressione,
a chi vorrebbe essere espansivo, ma si ferma
[per reticenza altrui,
a chi sarebbe morto solo se lo avesse deciso lui stesso.
Evidentemente il vecchio non aveva capito granché
vista la morte improvvisa dell’uomo.
Attorno a noi la folla cominciava ad arrivare
e le storie più assurde percorrevano le labbra:
una finestra lasciata aperta per trent’anni
avrebbe provocato la morte del giovane
oppure il pugnale amichevole
del fratello di infanzia avrebbe colpito alle spalle.
Da quel giorno, cresceva un bambino
nel mio petto destro. Sentivo formarsi
le prime radici dei suoi nervi duri e la pelle liscia
[del suo volto.
*
Le luci di Belgrado
Quel colore di sole
che ricorda la terra, ma
non quella coltivata,
penso piuttosto alla mai
toccata da piede di uomo,
sabbia indurita, suolo di Marte.
La luce di Belgrado
è di polvere gialla,
stesa sulle strade, lungo i tranvai,
tra negozi, baracche e alberi verdi
conformi ai suoi raggi.
La luce di Belgrado
è negli occhi segnati
di uomini e donne per strada,
sono sguardi di altro pianeta
sembrano fissi, immobili, spenti
senza riflessi o bagliori improvvisi,
sono di terra mai coltivata e
di polvere lasciata.
Le luci di Belgrado
sono ad Ada Ciganljia
la Sava incontra il Danubio,
gialla-verde-marrone,
macchiata di terra, di polvere, di luce del sole,
a lungo guardata da occhi immobili tanto da
darle un nuovo colore,
formaggio di burek o zuppa di pesce,
barconi sul fiume,
pelle gitana come jelen pivo.
*
Non inciampare nei giornali
Sono un mucchio
lì accatastati
tra riviste e giornali.
Sono centinaia di migliaia
formano grattacieli altissimi
raccontano, come si dice, notizie.
Sono carta coperta di inchiostro
distribuita nei piccoli
chioschi aperti all’alba.
Sono pieni di discorsi di nominati giornalisti
i più brillanti, i migliori dei migliori
accozzaglie di parole imprecise.
Sono comunicatori come altri
ma veramente artefatti,
per lo più capaci di parlare
di ogni argomento
senza alcuna conoscenza.
Un’intervista campata in aria,
un fatto nuovo,
un collegamento magistrale
entra in scena il comunicatore
per distorcere quella piccola storia.
Chi come me voleva raccontare,
era affascinato dalle notizie,
metodo infallibile per entusiasmarsi
a qualsiasi cosa,
ma adesso non può far finta di niente.
Non è stato difficile,
è bastato guardare le facce dei chiamati giornalisti,
nessuna serenità, nessuna verità,
ingabbiati loro stessi in cumuli
di parole inutili ed inventate,
ripetute all’infinito, intuizioni errate,
racconti distorti, fatti senza fondamenti
che acquistano ogni giorno potere essenziale.
Guardateli i contabili della scrittura
affaticarsi nei resoconti, nei prospetti, negli schemi,
negli stati patrimoniali,
nelle strutture linguistiche efficaci di comunicazione.
Non farti incantare dall’aria oscura,
dalle cartine ingiallite, dal volto del guru indonesiano
della libreria Odradek, dai vecchi mobili
[di una cantina, da redazioni postpseudocomuniste,
neppure quelle sono eccezioni,
è la velocità che rovina, la tecnica
[che ha colpito definitivamente,
senza alcun segnale di ripresa possibile.
Non pensare che gli esteri siano meglio,
se distingui l’uniformità del discorso politico
[bipolare del tuo paese,
allontanandoti da questioni politiche
tendenti monotonamente verso un infinito
[limite destro,
perché dovresti descrivere altri paesi
solo parlando dei loro altrettanto oligarchici
[affari politici?
Non pensare che i critici siano meglio,
se hai ben chiaro il vuoto della lettura
tra le righe o tra le immagini
senza vedere le righe e le immagini,
come puoi occuparti di raccontare trame o giudicare?
Non pensare che le cronache locali siano migliori,
gli affannati cronisti del mercato bovario
o dei funerali assassini che
facce toste devono avere per fare domande?
Non voglio denigrarvi,
ma non è necessario sapere le cose che raccontate,
anzi, quasi sempre, le poche verità necessarie
[sono altrove,
non serve recarsi a quel chiosco
né accendere lo schermo,
consiglio di mille professori.
Non perdiamo altre forze,
per favore, scavalchiamo quei mucchi di giornali.
Nota di lettura
di
Eleonora Rimolo
Per ricostruire il volto caleidoscopico di Liberi tutti vorrei partire da alcuni versi polemici rivolti da Giuseppe Acconcia nei confronti dei giornalisti, suoi colleghi, definiti i contabili della scrittura˗quasi questi fossero degli attenti burocrati interessati a tutto tranne che alla scrittura, che è l’opposto della burocrazia e della contabilità˗ e nei confronti dei critici letterari. I critici che giudicano e raccontano, (o meglio pretenderebbero di farlo) il vuoto della lettura tra le righe di un testo poetico. Mi sento per tale ragione chiamata in causa, dovendo intervenire criticamente sulle poesie dell’autore. Sappiamo, tuttavia, che la poesia parla soprattutto con i silenzi: le sue pause sono fondamentali, il ritmo non è scandito da ardite narrazioni da ordinare logicamente ma da sussurrate intuizioni inspiegabili, indomabili, afferenti ad una dimensione parallela a quella del naturale vivere comune, ma non udibile, non visibile.
Il mio proposito, dunque, non sarà quello di giudicare e/o raccontare i versi di Giuseppe Acconcia ma di ripercorrere, sulle tracce poetiche dell’autore, i suoi chiari e semplici (cerca di essere chiaro e semplice) sentieri del vuoto tra un verso e l’altro, considerando, come punti cardinali della sua opera, che la poesia è silenzio e menzogna (le bugie della poesia) e il poeta è un ragazzo alla sua lotta costante contro la dittatura della nascita, come se il nascere, leopardianamente, fosse per l’uomo la prima vera, incontestabile ed incontrovertibile imposizione nefasta della Natura maligna.
Considero, fin dalla prima lettura integrale di Liberi tutti, questo titolo, e di conseguenza globalmente questa raccolta, un grido di anarchica istigazione al Desiderio, dove per Desiderio intendo, alla maniera di Lacan, un’esperienza indistruttibile di apertura verso l’alterità che rigetta ogni solipsismo della psiche. Il Desiderio invoca dunque l’Altro, che è radice ultima dell’esperienza del nostro inconscio. E Giuseppe Acconcia cerca disperatamente l’Altro in diversi modi e sotto diverse forme. Cercherò, dunque, di esaminare quelle più persistenti, più rilevanti.
Il poeta riferisce apertamente, fin dalla sua primapoesia, di essere un apolide, poiché non riesce a trovare la propria collocazione nel mondo: mentre gli altri si affannano in mille inutili occupazioni (alcuni ragazzi entravano nella metropolitana puntuale […] altri vivevano in comune, segregati tra le montagne […] alcuni si affannavano alla ricerca/di un lavoro qualsiasi […] altri si immergevano in un lavoro lento,/perenne, immutabile, felicità […]alcuni trentenni si agitavano/e sospiravano nell’attesa del bambino […] altri, più vecchi, raggiungevano cerchi/per passare il loro tempo coccolati […]) il poeta è pronto a rimanere solo, come è giusto che sia per coltivare il silenzio precedentementeinvocato. Nonostante ciò, però, per quanto si ci sforzi di rimanere soli e in silenzio, qualche rumore giunge ancora alle orecchie come elemento disturbante che denuncia una realtà sbilanciata, inadeguata: anche se solo, in assenza di ogni rumore,/sento sempre il sibilo assordante di un acufene.
Giuseppe Acconcia considera la scrittura un accessorio del mondo, e le sue parole sono fatte della stessa materia del suo lardo (come se il mio lardo/fosse fatto di parole): la poesia ha dunque un peso, una corporeità, una materialità che non si può ignorare, poiché non galleggia nella leggera vaghezza di un mondo ultraterreno, ma si àncora alla terra e mette le sue radici via via nel corpo di chi la compone. La corporeità è un elemento essenziale della sua poesia, ed è il primo nucleo tematico: ne è un lampante esempio il grido d’invocazione della poesiaAggrappati al tuo corpo!. Sentire la propria corporeità è necessario per preservare la sopravvivenza, per gettarsi nel mondo e nello stesso tempo restare ancorati alle proprie radici, che si rivelano, però,prima o poi, sempre fragili e fittizie, perché si sta come su un balcone abitato senza parapetto, precari e illusi dell’invincibilità del nostro corpo mortale. Ma a cosa serve questa massa grassa di parole? E a cosa non serve?Sicuramente serve ad invocare ascolto: Ora parlami per favore è, ad esempio, una preghiera perentoria, poiché tutti i rapporti sociali e familiari sembrano, per la peculiare struttura interna del poeta, essere logorati da insopportabili tensioni interne (la tensione/del nucleo familiare/è incontrollabile). Di certo però la poesia non serve come sfoggio di un’erudizione che Giuseppe Acconcia non ha e non vuole avere: mi mancano troppe letture per essere pronto,/troppi film, troppo teatro./I libri sono lì,/sono pronto per leggerli. Perché è inutile affannarsi/dietro vivi che in un batter d’occhio/sono morti? Probabilmente il sospetto della finitudine, che man mano con l’esperienza del tempo assume sempre più i contorni netti della certezza, genera nel poeta un’angoscia che annichilisce, annientando ogni slancio vitale.Certo è che l’esigenza dello scrivere prescinde per Giuseppe Acconcia dalla dimostrazione e dallo sfoggio sterile di una conoscenza presunta, tutta nozionistica e teorica, perché spesso, quando ci si impegna troppo ad apparire, si ci dimentica di essere, e gli elementi che si pensa di conoscere in realtà non vengono interiorizzati e compresi appieno, ma solo accumulati ossessivamente e sterilmente. In questo splendido discorso metapoetico, Giuseppe Acconcia profetizza che prima o poi arriverà un uomo a cui basterà un rigo (Arriverà un uomo a cui basterà un rigo. Quello non farò fatica a leggerlo.), un rigo per spiegare ogni cosa. E se fosse già accaduto? Penso immediatamentead un unico, breve, apparentemente banale verso di Edoardo Sanguineti:E, lo vedi: è la vita. Niente da aggiungereal di fuori di quel che la vita ci mostra a chi è in grado di vedere e di accettare quel che è, nella sua infinita miseria e nel suo profondo mistero.
Giuseppe Acconcia rivela in più punti della raccolta di essere un genuino poeta flâneur, il viandante che attraversa le città, cogliendone gli aspetti più torbidi, più lerci, più interessanti, e osserva con lo spirito critico acuto che lo contraddistingue per deformazione professionale, gli accadimenti e i personaggi che animano le città che visita. Così in Gente 06Roma è animata in modo inquietante da una festa dove le folle confluiscono nelle piazze più grandifinché non arriva l’alba che spegne tutto. Le ambientazioni ricordano con prepotenza mnestica il tumulto delle città colossali descritte dal poeta flâneur per eccellenza, Dino Campana.
Atmosfere cupe su sfondo cittadino sono presenti anche in Quanto è alto Nero Wolfe, dove i ponti diventano templi in una città quasi trasfigurata da un delitto, un vero e proprio inferno cittadino˗sempre citando Campana˗.Un analogo inferno cittadino è anche descritto neGli assassini di Limerick, poesia ricca di presenze demoniache e colpevoli, mentre in Non ti perdereil poeta raccomanda al lettore di non perdere la via alla festa di Locri, o per i vicoli di Toledo, perché la città è, e lo dico di nuovo attraverso un verso di Dino Campana, una perfida Babele e se ci si perde poi si rischia di non sapere più se si ci è persi nel posto giusto o in quello sbagliato (Quali sono i due persi/e quali i due nel posto giusto?/chi può mai dirlo).
E ancora descrizioni cittadine le troviamo in Le luci di Belgrado, in La metropolitana di Mosca e in Le sponde del fiume, in cui il poeta sdoppia le città del mondo e le dispone su due diverse sponde: in una regna l’anarchia e nell’altra una democrazia, che poi si rivelerà una democrazia fantoccio.Queste due sponde sono dunque opposte e non complementari; sono due possibilità che contemplano in sostanza il contrario di ciò che il loro nome dichiara, che rivelano il gioco del rovescio implicito nell’esistenza umana, e anche, e soprattutto, nella Storia.
La città è protagonista anche della poesia senza titolo (Dicono…), insieme alla donna, personaggio cardine dei versi di Giuseppe Acconcia.Troviamo in questa sede un dialogo fittizio tra un Io e un Loro: esso svela un parallelo tra la città e la donna, non di certo estraneo alla storia della lirica˗basti pensare a Trieste e una donna di Umberto Saba, ad esempio, raccolta poetica in cui la città e la donna sono associate e amate per quello che hanno di proprio e d’inconfondibile˗. Tuttavia, per Giuseppe Acconcia, la città, da buon apolide quale ha dichiarato di essere, e di conseguenza da buon migrante, non può essere una sola: lui è affamato di visioni, di terre nuove, di volti diversi, tutti da possedere, da penetrare con il cuore, con l’anima, con tutti e quattro i sensi. Vagare da una città all’altra, nutrirsi di questo poliamore che si chiama cosmopolitismo, non può essere paragonata come esperienza all’esclusività che l’amore erotico per una donna porta con sé: quando si ama –in modo sano˗ una donna si vuole attingere a quella sola fonte. Ma per la città è diverso: è necessario scoparle tutte.
D’altra parte la donna è una presenza forte nella poesia di Giuseppe Acconcia ed è bene osservare che la sua descrizione procede sempre per vie spiazzanti, connotandosi di negatività, di minaccia occulta. I volti delle donne del poeta sono sfigurati, sfumati, intrisi di morte, febbre gialla, grasso nerastro, esoteriche abilità profetiche, mostruosità di varia natura, autoritarismi. La poesia più esplicativa di tutto questo discorso è Gli assassini di Limerick: volto di donna orribile,/baffi e sorrisi di denti nerastri,/morta o mai nata, assassina/incallita.
La città, la donna, la materia. A questa triade argomentativa associo un’ultima, grande presenza della poesia di Giuseppe Acconcia, che insieme riassume, ingloba e completa le precedenti: il mostruoso. Molti sono i personaggi e le situazioni mostruose che il poeta inserisce nei suoi versi, e il mostro si fa presenza del Perturbante in letteratura di freudiana memoria. L’inconscio del poeta rielabora gli accadimenti, e alla spietata ricerca di una logica che non c’è, partorisce mostruosità deformi con le quali categorizza il reale.
Il mostro più terrificante di tutti, il padre di tutte le altre mostruosità, è sicuramente il micrantropo, ossia il piccolo uomo, che dà titolo e voce ad una significativa poesia della silloge. Il micrantropo è un uomo piccolo, non naturalmente in senso fisico, ma in senso del tutto traslato: è colui che non si interessa di niente, non è capace di prendere una posizione, parla con le parole di altri, dipende con le idee dalla massa, o da chi lo sovrasta; è insomma quello che Lacan definisceun uomo senza inconscio: ossia un soggettoin grado solamente di rispondere ciecamente alle sue pulsioni alimentando così un desiderio egoico che non si apre all’Altro ma ripiega solo su se stesso. PerGiuseppe Acconcia questo non può che essere un mostro, il mostro dei mostri, quello che li racchiude tutti e di tutti gli altri è creatore: dei mostri deformi (ti hanno visto/circondato da mostri deformi), deI mostri della notte, e dei mostri descritti ne La spiaggia delle deformità (due nani dalle teste quadrate […] la vecchia violastra […] cinque donne sfigurate in volto […] donne pelate con/occhi e labbra ricurve […] bambini malfermi/legati agli ombrelloni/da fili di orrore). La descrizione di questa spiaggia terrifica, in particolare, ricorda un racconto di Hoffman, ed è quindi un esempio limite di quello che il Perturbante riesce ad evocare in un’opera letteraria attraverso l’attività inconscia del poeta. È un delirio onirico, una suggestione che tenta di dare una collocazione circoscritta a tutto ciò che del reale è avvertito come incongruo. Elementi onirici perturbanti emergono con prepotenza anche nella lirica Il sogno del cieco, in cui la reversibilità inquietante della Storia e della realtà viene denunciata da questi esaedri che si confondono in triangoli/fluorescenti e intermittenti, e lo sforzo interpretativo (esplicito negli ultimi versi) si risolve da parte del poeta in un nulla di fatto, in un’oscurità totale, in un’intempestanocte(richiamata anche neI mostri della notte, in apertura:in principio l’oscurità trasformava ogni cosa […] in un lampo la notte. Assenza di senso e spiazzanti presente inferiche(corvi, gufi, civette, megere, lupi) sono presagi terribili della legge del rovescio, che tutte le cose del mondo sono costrette ad osservare per natura, con i loro volti molteplici, multi prospettici.
Il poeta questi volti vorrebbe conoscerli tutti, sia perché la conoscenza è l’unica cosa che riesce ad eliminare totalmente ogni residuo di paura e di sospetto, sia per una congenita spinta al sapere, per quella curiositasimplicita e quasi ovvia che muove la professione di Giuseppe Acconcia. Ho fame di nuovo, invoca il poeta, e la sua fame di vivere aderisce a quella Legge del Desiderio che non è iperattivismo/mania di avventura,/ossessione esotica, erotomania, ma semplicemente capire il mondo, studiarlo/[…] scoprendo cose nascoste senza pensare/di traversare l’oceano in un giorno. Tutte attività che richiedono tempo, riflessione, ripiegamento su se stessi, attitudine alla lentezza, alla pazienza, alla consapevolezza e all’ammissione dei limiti umani. Ma da un uomo senza inconscio come quello da cui siamo circondati, da un micrantropo insomma, non ci si può attendere tutto questo. D’altrondese non esiste l’uomo vero/a che serve la psicologia?: se, dunque, non c’è attività inconscia, come potrebbero intervenire sul vuoto la psicologia o la psicoterapia? È con questi versi che Giuseppe Acconcia chiude la sua raccolta: prosegue poi, nell’ultima poesia, affermando con estrema limpidezza e incontrovertibilità che ci vuole autocoscienza. Perché, e qui viene citatoHegel,la ragione è la certezza di essere ogni realtà, ma il micrantropo non ha Ragione, e nemmeno potrebbe rendersi conto, cosa che invece sistematicamente tenta di fare il poeta con i suoi versi, che ogni realtà è materia plasmabile, malleabile, camaleontica, possibile.
Eppure la stanchezza è in agguato, e la solitudine ne aggrava i sintomi: i dolori che sento in tutto il corpo/mi ricordano che ho corso per mille chilometri/in una stanza silenziosa senza muovermi di un passo. È quello che, con altre parole, o meglio, con quello che potremmo definire tranquillamente come un solo verso, quell’unico rigoauspicato dal poeta in precedenza, Pessoa afferma inflessibile: Non si è mai vissuto tanto come quando si è pensato molto. E Giuseppe Acconcia è certamente uno che ha vissuto tanto. E noi con lui, leggendone i versi. Cosa rimane quando il suo libricino si richiude? Anche questa risposta è da ricercare nel testo: posizionati circa nella metà del testo leggiamo, infatti, lapidarie, queste poche parole: dopo aver letto/tutto, sentivo freddo.
In un monastero dell’Italia centrale, Renacavata, realmente esistente, si celebra questa piccola epopea personale situata in un tempo che però sembra del tutto metastorico. In realtà, leggendo, ci accorgiamo da alcuni particolari di trovarci ai nostri tempi, ma la vicenda potrebbe svolgersi nel Medioevo come pure nell’Ottocento: il protagonista, un ventenne senza nome che potrebbe essere ognuno di noi, vive il suo anno di noviziato in questo convento, in un esilio volontario dal mondo che non sappiamo se sfocerà nel perfezionamento del percorso fino ai voti, oppure sarà solo un episodio di un tratto di vita. In questo convento, fondato nel 1531 da Matteo da Bascio, riformatore cappuccino staccatosi dal tronco principale dei minoriti osservanti francescani, vivono la loro vita frati vecchi, che sembrano fatti di legno come gli stalli del refettorio, e frati giovani, ospiti per l’anno di noviziato, frati primaverili, fatti di nuova linfa vitale e accoccolati nel convento come in un ventre materno pronto ad accoglierli.
Il protagonista è fuggito da una vita insana, terribile e senza senso, da un lavoro in fabbrica che gli chiedeva l’esistenza in cambio di una perdita di memoria e di sé che lo perdesse ad ogni speranza. Si rifugia in questo che chiama il “Giardino”, prefigurazione dell’Eden come egli stesso con i suoi compagni sono prefigurazione della “glossolalia finale”, periodo nel quale ognuno parlerà nella sua lingua autentica e sarà capito, così come a sua volta intenderà quella degli altri. Un anticipo escatologico dunque, questo gruppo di ragazzi che vivono di dubbi e di meraviglie, di fede e capacità di vedere oltre, con un “Fervore”, appunto, come dice il titolo di questo libro di Emanule Tonon (Mondadori, 2016), che dovrà bastare loro tutta la vita, che dovrà essere come un’acqua da mettere da parte per la traversata del deserto che sarà la vita vera fuori del convento, arida e piena solo dell’infinita vanità del tutto.
Nel Giardino tutto è rivissuto in una dimensione estatica, che trasfigura ogni cosa o evento che accada, rendendo tutto poesia e fede assoluta, in un anelito ad impossessarsi di dio prima che Egli sparisca dalla loro vita, di assaporarne la presenza prima di perderlo, quando saranno usciti dal tepore di quel noviziato vissuto come un assoluto, un’occasione che mai più avranno di addomesticare il sacro, il loro Dio.
La via di Damasco del protagonista è stata una gita al santuario di Castelmonte, alla Madonna nera, dove un culto quasi misterico, catacombale, lo colpisce e lo chiama verso qualcosa che non sia più la sua fredda vita incatenata. Scopre una religiosità furiosa – come furiosa era la santità di Francesco, che aborriva la pompa mondana e la sapienza dei dotti per arrivare diritto fino a Dio senza mediazione. Trova nel convento i vecchi frati legnosi, arcaici, ignari della loro stessa santità, burberi ed innocenti, sporchi e sprezzanti di ogni concessione al mondo. Sono gli ultimi santi, disperati per questo, ma felici di avere Dio stretto a loro. Anche i giovani novizi vogliono farsi fontanelle di Grazia, sgorgare in un oceano d’amore, ossessionati di non lasciare da solo Cristo nel Getsemani, invocando una Parusia attesa, vivendo il calendario liturgico come tappe del tempo per arrivare ad essa.
Vivono una vita quotidiana fatta di preghiere mattutine, immersi ancora nel sonno non finito, in notti passate a combattere con un pensiero del peccato da cui sono attratti e respinti, umore tra gli umori primaverili della terra che lavorano in silenzio, rugiada tra le rugiade mattutine. Sono figli di contadini, che sono pagani per istinto, proni alla terra, ma loro vogliono vestire i panni di un’altra povertà. Cantano e pregano, tesi verso l’alto per non entrare troppo nell’abisso dell’anima, in cui la notte cela ogni incubo. Vivono ogni cosa con innocente gravità, nella nostalgia del Paradiso perduto, della Gerusalemme celeste: il Carnevale, con le sue vestizioni in cui ci si traveste per gioco compagni femminili, diventa l’occasione per creare l’essere androgino, l’unità dei sessi primigenia; le vipere, a cui dedicano una specie di culto bambino, che al pari degli angeli vegliano benevole su di loro, per morderli ai calcagni mentre giocano a pallone, per donare loro così in anticipo una scorciatoia per il cielo, vipere amiche perché in questo modo risparmierebbero loro il perdersi nella vita esterna, in balia del Signore di questo mondo.
Sono fraticelli ortolani, lavorano la terra inchinandosi ad essa, come poi nel coro si inchinano a Lui nel canto e nella preghiera. Le due Sante – con il nome di Teresa, d’Avila e di Lisieux, sono lette e meditate dal novizio protagonista nel silenzio della sua cella, frequentate in ore impensate, alle 5 del mattino così come la sera rubando tempo al sonno, e così questi giovani vivono una specie di continua trance, un dormiveglia in cui il loro bisogno adolescenziale di riposo vira verso un delirio continuo di allerta mistica, di ardente abbandono al Tutto, di essere solo un pensiero di Dio senza necessità di una coscienza di sé, in un delirante ardore di preghiera.
Francesco, lo “stregone medioevale” e certamente non ancora il Santo con le stimmate, funzionale alla Chiesa regnante, aleggia su tutto, presenza ed esempio, desiderio di tutti loro in un unico sogno collettivo che copre il convento come una coltre onirica. Quel convento, nascosto nel segreto dei boschi, come Francesco nelle grotte, dovrà essere abbandonato dopo l’anno di noviziato, il “ragazzo vestito di sacco” deve uscire dal “Giardino”, uscire dalla porta della sua cella che è Porta Santa, dalla culla segreta, dal suo Sabato del tempo e dal suo universo dove c’è tutto ed ogni cosa, e andare verso lo svelamento, verso il mondo. Oppure decidere di restare. Continuare a lavorare la terra con la stessa devozione che hanno verso Dio, sfinendosi di fatica perché tutto deve farsi pane. Non lasciare che la vita disperda il loro goffo, innocente fervore. Restare protagonisti della narrazione cosmica, immemore e necessaria affinché essa si racconti. Essere l’epifania inconsapevole, nel tempo, di ciò che è fuori del tempo. Essere trottole nelle mani di un Dio bambino. Tracciare, come piccole lumache, un segno di bava nel Giardino sicuro, accordati alla voce di Dio. Farsi vita allo stadio puro, iniziale, che crea il mondo e gli dà forma. Rimanere nel saio come in una nuova pelle. Essere carità e profezia fatte carne, fuoco sacro che arde senza bruciare, come il roveto ardente di Mosè. Restare nel ritmo divino, impresso al mondo all’inizio dei tempi: “Così fu sera, e poi fu mattina”.
Questa stupenda “storia di un’anima” scritta come un diario per concessione di Padre Gianni al protagonista, è un commovente ed intenso percorso mistico degno degli scritti di Teresa di Lisieux. La prosa di Tonon, visionaria e poetica, è in pieno accordo con il contenuto, che diventa esso stesso preghiera. Uno scritto raro nel panorama nel panorama letterario, è una vera “dossologia” narrativa che porta alla meditazione e ci dona una storia “laterale”, insolita, ma necessaria per ripensare ciò che siamo stati come comunità e, forse, non sappiamo più essere.
Essere stato morso da un ragno velenoso ribalta la mia prospettiva. L’evento, per essere tollerato, chiede di venire ricacciato nel territorio dell’immaginazione, di diventare uno di quei ricordi che non si sa bene se sono reali o sognati. Quel mignolo blandamente mutilato può ben diventare nella memoria il risultato di una piccola operazione o di un incidente domestico, e separarsi così dal ragno, dai ragni, che possono così a loro volta avviarsi a diventare qualcos’altro.
Può capitare di rientrare in c
asa dopo una furiosa litigata con la propria ragazza e trovarne uno sulla parete dell’ingresso, minacciosa acuminata raggiera di zampe sul bianco, e rifarsela con lui, schiacciandolo con una scopa sulla quale si è messo un panno.
Può capitare di andare in campeggio e ricevere la visita di un ragno in tenda, a suggello di una bella litigata in quei due metri cubi.
Può capitare di rientrare dopo le vacanze, più stressati di prima poiché i giorni liberi sono serviti solo ad accumulare impegni da evadere, il tempo della vita che pare essersi improvvisamente accelerato, e la terra insensata che è il nostro futuro, ci appare nella forma di un ragno dalle zampe sottili intrappolato nella vasca da bagno, e allora ci vendichiamo con l’acqua, apriamo la doccia e lo spazziamo via, lo facciamo risucchiare da un gorgo e ancora spruzziamo acqua, apriamo anche il rubinetto e immaginiamo la corsa rotolante inarrestabile di quel ragno travolto, attraverso tubi e snodi e mondi sotterranei.
✴
Ma può capitare di avere ora una diversa ragazza, che vive in terre fredde e lontane dove di ragni se ne vedono pochi, e un giorno che ne vediamo uno, è un ragnetto solitario, piccolo, sul soffitto. Mi chiedo se possa mai cadere giù, se possa capitare di ritrovarselo sul letto, ma lui è sempre ben visibile su quell’intonaco bianco, tra pareti e imposte e mobili bianchi, colpito da luce bianca anche alle una di notte. I traffici di quel ragno – ma cosa fa? Perché oggi si è spostato laggiù? Perché ora va in là? Secondo te dorme di giorno o di notte? – e la sua caccia a prede invisibili, diventano per noi, stesi o abbracciati a giornate su quell’amplissimo letto bianco, un intrattenimento prima inevitabile, poi addirittura gradito. Il ragno prende le funzioni di un gatto: quel ragno nordico, dalla strana morfologia, le due zampe davanti più lunghe di tutte le altre, l’addome filante, il colore nero, di smalto, si fa domestico e dà sostanza alla nostra relazione, ne rimarca l’esistenza. Il nostro ragno. Io te e il ragno. Sono rimasto a casa col ragno. Dov’è il ragno? Ah, là nell’angolo.
Questo finché lei una mattina se lo trova in mezzo ai trucchi e lo schiaccia con un pezzo di carta igienica. Quando me lo comunica io me la prendo moltissimo, lei mi dice ma dai, chissà quanti ne avrai uccisi di ragni in vita tua. Magari ne hai pure torturati, insiste. Dico che non c’entra niente. Lei dice che finché stava sul soffitto era ok, ma quello non era il suo posto. La sua freddezza mi sgomenta. Purtroppo, aggiunge vedendo che non mi sono calmato, non è che puoi dargli uno scapaccione come a un cane, l’unica punizione possibile per un ragno è la morte. Le chiedo dove sia il corpo, lei mi guarda strano, poi indica il water.
Questa storia risale a otto anni fa. Ho trentatré anni e non ho fatto scelte giuste allora. Quando ci penso, sento che in quel periodo ero lontano dal mio modo di essere e di pensare, dalla mia personalità, dai valori con cui sono cresciuto e da tutto quello che avevo vissuto in tutta la mia vita. Voglio raccontare come e quando sono approdato a quelle idee che, mi pareva, restituissero, a me e al mio popolo, l’orgoglio di appartenere alla sacra e giusta religione musulmana. Ero arrivato a pensare che chi non seguisse questa linea di pensiero era come se non esistesse e non meritasse di esistere. Nel 2005 mi sono trovato in un carcere del mio paese, la Tunisia, condannato a dieci anni di reclusione. Forse sette me li meritavo, ma credo gli altri tre mi sono stati dati ingiustamente.
Allora c’era tanta ingiustizia e per i giudici era indifferente attribuirti anche reati non commessi. Soprattutto se appartenevi alla classe lavoratrice che spesso non riusciva a guadagnarsi il pane quotidiano. Ma non era la povertà o l’indigenza che rendevano la nostra vita un inferno, anche se le difficoltà erano ingenti: noi ringraziavamo sempre Dio per il poco che avevamo e nutrivamo speranza nel futuro.
Erano inaccettabili, invece, la prepotenza, l’ingiustizia e lo sfruttamento di chi usava il potere con cattiveria: per questo la nostra vita era un inferno.
Così mi sono trovato nello strano mondo del carcere. Non era la prima volta per me, ma stavolta ho conosciuto a fondo quanto fosse spaventoso e duro. Dovevamo subire le prepotenze dei carcerieri. I loro bastoni colpivano tutti: piccoli, grandi, deboli e forti. Potevi solo rivolgerti a Dio. Così cominciò la mia trasformazione. Mi ero stancato delle ingiustizie subite da me e dagli altri. Avevo nausea delle torture, corporee e psicologiche. Erano insopportabili. Rattristava il cuore il solo fatto di vederle e sentire le lamentele dei torturati. Figurati quando tutto lo subivi tu sul tuo corpo. Dentro quel carcere ho trovato persone che mi davano ascolto. Le vedevo rivolgersi a Dio con preghiere giornaliere. In loro ho trovato una via di fuga dai miei misfatti e ho cominciato pian piano ad avvicinarmi e mischiarmi con loro anche se la cosa presentava molte difficoltà, visto i controlli rigidi dei nostri carcerieri. Loro stessi erano molto diffidenti. Comunque pian piano ero riuscito a scalfire la loro diffidenza e a guadagnare un po’ di fiducia. Insistevo a volermi avvicinare a loro perché mi dicevo che se non fossero stati nel giusto e le loro idee non fossero state corrette non ci sarebbe tutto questo interesse nei loro confronti. E se fossero stati insignificanti allora perché tutta questa paura di loro? Tutte queste considerazioni hanno fatto sì che la mia curiosità crescesse progressivamente spingendomi ad avvicinarmi a loro e alle loro idee ogni giorno di più. Il mio avvicinarmi a Dio era per loro come un visto per essere ammesso nella loro ristretta cerchia. Sentivo che Dio non era contento di me e ho trovato l’occasione per pregarlo, per leggere di più il Corano, fare il digiuno e tutto quello che avrebbe accontentato di me il mio Dio. Tutto questo mi faceva dimenticare le condizioni e il posto in cui mi trovavo. La mia posizione dentro la loro cerchia si rafforzava sempre di più. Cresceva anche il nostro comune odio verso i carcerieri e verso i motivi che ci avevano portato lì, ma soprattutto verso quel governo maledetto e i suoi complici nella tortura della gente. Odiavamo anche quelli che mancavano ai loro doveri verso Dio.
La mia mentalità cambiò radicalmente. Addirittura ero convinto che solo questi miei nuovi “fratelli” erano nel giusto. Mai mi veniva il minimo dubbio sulla giustezza e veridicità della loro/nostra causa. Mi avevano inculcato l’idea che tutti quelli che deviavano della legge di Dio e dalla sua sharia meritavano la morte per decapitazione. Sono arrivato al punto che quando ricevevo visite dai miei famigliari facevo loro richieste strane e bizzarre dette da me, vista la vita che facevo prima: insistevo che cambiassero il loro modo di vestirsi e sono arrivato al punto di ordinare a mio padre di lasciare il suo lavoro di venditore di sigarette in un chiosco perché, gli dicevo, le sigarette fanno male alla salute e tutto quello che fa male è peccato. Addirittura ho cominciato a considerare mio fratello come un nemico da combattere a uccidere solo perché faceva il poliziotto. Ero diventato come una bomba umana pronta a esplodere in qualsiasi posto e momento e ho cominciato a pensare e a considerare che, se la mia morte fosse avvenuta in un altro modo, sarebbe stata una morte da codardi. Mi hanno fatto il lavaggio del cervello e mi hanno inculcato l’idea che l’Islam fosse questo. Sono arrivato al punto di attendere la mia uscita dal carcere solo per poter raggiungere i fratelli nella terra del jihad.
Nel 2011, grazie alla rivoluzione dei gelsomini in Tunisia per rovesciare il governo sono uscito dal carcere avendo avuto uno sconto di pena. Mi sono ritrovato con nuovi amici, nuovi principii, idee radicali e nuove relazioni. I miei famigliari hanno notato questo mio radicale cambiamento. Mio padre e mia madre, musulmani praticanti che non mancavano mai a nessun dovere religioso, non erano d’accordo, anzi, erano terrorizzati da questo mio cambiamento e hanno subito informato il maggiore dei miei zii, imam nella moschea del quartiere. Lo zio guardava male questo mio modo di pensare, era totalmente contrario e diffidava di quelli che predicavano l’odio e manipolavano i giovani. Mi disse: «Questi non hanno niente a che fare con l’Islam. Sono solo terroristi, e questo loro modo di pensare sta sfregiando l’immagine dell’Islam, per colpa di questi terroristi ignoranti del vero significato dell’Islam. Figlio mio, l’Islam non è questo, l’Islam e pace e amore. Il vero musulmano è colui che non fa del male agli altri né con i fatti né con le parole. E il vero jihad deve essere jihad dell’anima. Cioè dobbiamo combattere gli istinti cattivi e maligni che ci sono dentro di noi. Dobbiamo poter dire di no al male e ai peccati che facciamo prima di guardare quelli degli altri. E il jihad non è uccidere e versare il sangue degli innocenti. Tutti i profeti e i messaggeri di Dio sono arrivati per fermare le ondate di sangue, omicidi, ingiustizie e odio. Dio ce li ha mandati per portarci messaggi di pace. Non a caso Dio volle che il nome di questa religione fosse Islam, cioè prostrazione alla volontà di Dio. E Dio non ha mai voluto che si versasse il sangue di innocenti. Nello stesso tempo la radice della parola Islam è Salam cioè Pace. In verità non è la differenza di religione che ci ha divisi nel tempo come popoli, ma sempre gli estremismi di ogni religione. E credo che hanno usato le religioni come scusa per legittimare le loro guerre e ingiustizie che facevano per i propri fini e interessi. L’unico colpevole reale di questo odio e queste guerre è l’estremismo. Con l’avidità e la superbia. Non dimenticare figliolo mio che noi tutti siamo creature dello stesso Dio anche se cambia il suo nome come cambiano i nomi delle religioni. Perciò figliolo non fare ciò di cui ignori le conseguenze e non passare da fratello e amico a carnefice e nemico che non vede l’ora di far scorrere il sangue, di uccidere innocenti e dividere famiglie. Le ingiustizie non si devono mai combattere con le ingiustizie.
Figlio mio non è questo il messaggio che Dio ci mandò con i suoi profeti? Dio è bene, Dio è pace, Dio ha proibito a se stesso l’ingiustizia, Dio è giusto e ama la giustizia. Dio è amore».
Le parole di mio zio furono come l’acqua ghiacciata che ebbe l’effetto di spegnere il fuoco dell’odio che avevo nel cuore. Ringrazierò sempre il buon Dio per avermi aperto gli occhi con il discorso di mio zio in tempo prima che facessi qualcosa di irreparabile. Questa chiacchierata con mio zio avvenne dopo i miei accordi con alcuni dei “fratelli” – così si presentavano i terroristi – per partire e combattere nelle terre del jihad. Mi avevano munito di un po’ di soldi e qualche informazione su dove e chi avrei dovuto contattare una volta arrivato in Libia. Credevano fossi pronto, e in un certo senso lo ero, se non fosse stato per le parole di mio zio. Dovevo solo esercitarmi a usare le armi da fuoco perché in carcere mi ero allenato fisicamente tanto e avevo rinforzato il mio fisico e i miei muscoli. Ringrazierò sempre mio zio di avermi aperto gli occhi…
Per non mettere in pericolo me e la mia famiglia non ho fatto capire niente ai “fratelli” del mio ripensamento e intanto venni a sapere da altri che c’era la possibilità di scappare in Europa clandestinamente rischiando la vita in un viaggio pericoloso via mare (harkha). Decisi di partire per mare pur di scappare da quell’inferno e crearmi un futuro lontano da tutto quell’odio e quella violenza. Nel contempo volevo salvare la mia vita visto che i “fratelli” sono molto severi nel punire chi si tira indietro e chi li tradisce. Fanno così per persuadere tutti quelli che tentennano a ubbidire ai loro ordini.
Come vediamo ci sono tante cose e tante condizioni che possono fare crescere questo tipo di terrorismo. Tanti giovani si ritrovano a essere terroristi, pedine pronte a uccidere, ma la cosa più grave è che sono convinti di quello che fanno perché loro danno ascolto a questi individui, che non posso neanche chiamare persone. Loro sono molto bravi a usare la religione come mezzo per lavare il cervello a chi non conosce veramente cosa sia l’Islam e prende per buono tutto quello che questi individui riescono a spacciare per dettami della religione, ma il loro scopo principale non è altro che usare i giovani che li ascoltano come bombe pronte a esplodere al loro comando. Ma odio semina odio, terrore semina terrore e ingiustizia semina ingiustizia. I posti scelti da questi assassini per i loro attentati e seminare il terrore, sono luoghi dove vive la gente comune e le loro vittime sono persone innocenti: donne, bambini, giovani e vecchi. Quello che fanno questi individui è un peccato verso la libertà, la vita, le religioni e Dio che in tutti i suoi libri sacri ci ha ordinato di evitare l’ingiustizia. Quello che fanno è un crimine contro l’umanità. E dicono che lo fanno nel nome di Allah, di Dio. No! No! No! Dio è più grande di voi, dei vostri crimini e del vostro terrorismo.
Amici miei non dovete in nessun modo ascoltare le prediche di questi assassini sia direttamente che tramite la rete. Vi diranno che è nel nome di Dio. No! No! No! Dio è innocente dei loro crimini. Non fatevi ingannare, amici. Come vedete dalla mia storia, ho rischiato di essere un terrorista.
NdR Questo è il memoriale nel quale un giovane detenuto arabo nel carcere di Trento racconta la propria esperienza di radicalizzazione jihadista in un carcere del suo paese, dove era rinchiuso per delitti di ordine comune. Il ragazzo, ora trasferito in un altro carcere, non parlava l’italiano, quindi il racconto è stato tradotto da un altro detenuto, la cui testimonianza è riportata qui sotto. I due testi sono stati pubblicati, grazie a una persona che fa dei corsi nella struttura penitenziaria in questione, sul quotidiano Trentino, rispettivamente il 31.03.2016 e il 18.04.2016.
La testimonianza che ho raccolto per il TRENTINO è frutto di una lunga chiacchierata con un compaesano del mio stesso quartiere, Jebel-jeloud, nella periferia di Tunisi. È una zona molto povera dove la gente vive alla giornata con lavori malpagati. Da lì molte persone sono migrate in Europa già da anni. Io stesso sono venuto nel 1997 per aiutare economicamente la famiglia.
Visto che manco dalla Tunisia da così tanto tempo e non ho vissuto le recenti vicende, questo mio paesano mi ha raccontato la primavera araba e i cambiamenti che stavano succedendo in Tunisia. Non vi nascondo che ero rapito dal suo racconto. Avrei desiderato esserci anch’io per dare una mano a migliorare il mio paese anche se è strano come funziona l’informazione. Mi ricordo che in Italia si sapeva di più di quello che succedeva in Tunisia dopo la morte del venditore ambulante Mohamed Bouazizi. Telefonavo ai miei per chiedere informazioni, ma loro in città non sapevano nulla. Ne sapevo di più io.
Poi un giorno abbiamo visto alla tv un programma sul terrorismo e sull’ISIS. Non ricordo bene, ma penso che il programma fosse “Terra” di Canale 5. Parlavano dei cosiddetti foreign fighters e hanno detto che la percentuale più alta era quella dei tunisini. Non vi nascondo che cadevo dalle nuvole per quanto ero allibito. Il mio amico, invece, mi ha confermato che era tutto vero, e che c’erano e ci sono ancora tanti reclutatori abili nel manovrare i giovani e i più disperati, e spesso le loro vittime sono ragazzi pieni di rabbia e disperazione, e che non conoscono bene la nostra religione, perché se la conoscessero non cadrebbero mai nella trappola di questi fanatici.
Fatto sta che quella notte il mio amico mi raccontò tutta la sua storia. Dopo esserci coricati nelle nostre brande e spenta la luce ho fatto molta fatica ad addormentarmi. Ho pensato tanto a questa storia e a quanti ragazzi non fortunati come lui sono caduti nella trappola di questi manipolatori che hanno creato molto dolore. In quei giorni ho avuto modo di parlare con altri miei paesani e ho notato che tutti erano contro questi macellai ma soprattutto contro questa linea di pensiero che ha rovinato l’immagine dell’Islam e dei musulmani. Noi non siamo così, e tutto quello che c’è nel Corano è contro questa barbarie.
In quei giorni il mio amico ha maturato l’idea di scrivere la sua storia. Frequentava anche il laboratorio di giornalino in carcere e aveva bisogno di qualcuno che la traducesse. Nel frattempo però lo avevano cambiato di sezione e mi ha chiesto questo piacere parlandomi dalle finestre fra un piano e l’altro. Ci siamo visti per caso nell’area della scuola e mi ha dato i fogli scritti in arabo. Allora ho cominciato a tradurla. Mi sentivo in sintonia con quello che dice il Corano dove insegna che bisogna salvare le persone e se ne salvi una salvi tutta l’umanità. È un dovere per un buon musulmano. Spero che questa testimonianza possa aprire gli occhi alle persone e aiutarle a schierarsi contro la violenza. Da noi c’è un insegnamento importante: bisogna cercare di fare, se non si riesce a fare, bisogna dire e se non si riesce neanche a dire, basta anche pensare con l’anima.
Adesso non posso più parlare con il mio amico perché è stato trasferito in altro carcere. Ma se potessi gli direi che lo ammiro per il coraggio della sua scelta e perché ha saputo dire di no e tirarsi indietro in tempo. Gli sono grato anche perché ha raccontato questa storia.
Non ho timori a firmare questo testo perché penso che non bisogna avere paura. Anche perché so che tanti musulmani la pensano come me.
Farhat Selmi
Casa Circondariale di Trento, 6 aprile 2016
( pubblico un brano dell’ultimo romanzo di Mariano Bargellini Giocare a mangiarsi, ed. Effigie, Milano, 2015, G.M.)
In questo, trilla il telefono. Mi incantavano da bambino coi loro voli nuziali spettacolosi e tardi come d’alianti in miniatura dipinti in azzurro nero e rosso, ma anche simili a idrovolanti, certi insetti aerei incollati per il ventre e sovrapposti l’uno all’altro, con doppia ala diafana e la custodia rigida e opaca, sopra, di chitina metallizzata: inseparabile coppia, sposi in viaggio di nozze. Così ci siamo mossi, Olimpia e la cavalletta, suo partner da incubo, da fantasia erotica non per donnette, di una arditezza sconosciuta. Verso il telefono, infatti, che continua a trillare, si incammina Olimpia impacciata dal suo amatore, pesticciando, non volando, ingabbiata in due paia di braccia che la cingono da dietro. Braccia di ròbot, di scheletro galante, con le tibie irte di aculei come denti d’una spazzola robusta. Così s’incammina, verso il telefono che trilla, quella donna intendente di un Bello disumano e indenne dalla stupida fobia degl’insetti.
Era la mosca. Avrà capito che cosa stava succedendo? Furbo com’è, non lo escluderei. Olimpia qualche sospetto l’ha alimentato e una mezza confessione gliel’ha cantata, a suo marito, al mio editore. Apposta? Per mancanza di controllo? – Oh no! Oh sì! ‒, gli grida nel microfono, d’un subito. Contraddicendosi, l’ha esclamato. E sopratutto, l’ha esclamato a sproposito. – Ma sì, caro, mi ha pinzata sul collo. Ma te l’ho detto chi: la Locusta Hieroglyphus. Adesso la rimetto nell’insettario ‒. Invece m’ha trainato, piano piano, in guardaroba, di bel nuovo. Lì allo specchio abbiamo l’opportunità e l’agio, amanti stupefatti, di compiacerci di un viluppo amoroso laocoonteo finora mai tentato, nemmeno si suppone vagheggiato in fantasie erotiche bizzarre, da donne e animali galanti. La maschera di giada verde, tra cavallina e d’ariete, che mi occulta nei dominii del videogioco, e talora, quasi per un mini-spot, fuori dal monitor perfino, nella tivù verità della vita, adesso la vedevo, forse mia maschera definitiva, come in un fotomontaggio, spuntare dietro a Olimpia nuda e soprastarle, chinata su una sua spalla; e dal congegno della bocca in movimento colare sul seno della donna un rivoletto di saliva colore del letame, saliva d’una salterella, dei succhi tabaccosi. In realtà è rigida la mia testa, inchiavardata nel corsaletto. Non sono mica una mantide, capace di girarla e inclinarla, e di seguire con il moto del capo, misera preda, ogni tuo spostamento. E non per tanto io la chinavo su una spalla di Olimpia, come ho scritto, benché bloccata, la mia maschera cefalica: mi riusciva, la galanteria, grazie all’attitudine pensosa della mia testa, che per motivi aerodinamici sta reclinata, s’appoggia meditabonda al petto, ognora.
La donna e la cavalletta si copulavano, di lì a poco, in varie posizioni e ripetutamente, spostandosi qua e là per la casa. In principio all’impiedi, dipoi more locustarum (alla pecorina, tale quale), sui tappeti, sui divani, e sui letti, per finire. Di una immobilità ieratica, questo suo partner mostruoso, nessuna convulsione epilettoide e sbattimenti indecorosi (Locusta Hieroglyphus, sì, davvero!), però i gemiti di Olimpia testimoniavano (ad abundantiam, di là da ogni dubbio) che noi non si faceva per finta, il nostro non era sesso simulato. Io la squassavo, faccia astratta e meditativa, la mia abituale espressione, con una maschera di giada verde, immoto, in silenzio. Io me la lavoravo, coscienzioso, con una sorta di stantuffo autonomo e instancabile. Con un tremendo ovopositore! M’era spuntato a sorpresa, nell’atto di abbracciare Olimpia da dietro, l’ignoto accessorio, dal fondo di uno châssis perfetto, completo già in ogni suo dettaglio, lì tra i cerci, lì tra le corna deretane. Ma dunque sono una femmina? Era ozioso e futile interrogarsi sul sesso delle cavallette. Accontentiamoci, mi dissi, che questo ovopositore funga da organo sessuale, e di un partner maschio, nella colluttazione amorosa con una femmina di Homo sapiens. Essendo adibito, naturalmente, a trivellare la Madre Terra e a cacciarvi dentro un’ooteca, ero preoccupato, piuttosto, di non ingravidarla di uova, le nostre, di cavalletta, e inzepparla di larve. Ubbie, fantasie. Sta’ tranquillo, mi dissi.
Quasi piombato in un cespo d’erba, tra fili intricati e bagnati, che mi invischiano collosi (scagliatovi, dalla mia molla catapulta balestra, forse per un mio calcolo e di mia volontà?; al diavolo!, scagliatovi da lui, dal mio burattinaio alla console, toccando un tasto o manovrandomi col mouse, cliccando su chissà che icona; al diavolo!, scagliatovi dal deus ex machina del videogame, dal mio digitatore mai morto!; al diavolo!, che crepi, che crepi!), risalgo faticosamente da un vischioso e viscido buco. Io mi districo, tirate all’indietro le antenne, madide anche loro, nonché appiccaticce, e m’incammino su per il ventre di Olimpia. Mi fermo sopra il suo ombelico. La cavalletta è tornata alle sue dimensioni naturali.
La dimensione dell’estraneità, dell’uomo ἄπολις, clericus vagans e particella errante ed errata del corpo sociale, è una figura ormai tradizionale dello spazio letterario d’occidente. Accade tuttavia di imbattersi in opere che interpretano questa antica dimensione in modo peculiare, non scontato: particelle ancora più rare nella materia oscura della scrittura senza patria. Nel secolo scorso ne fu esempio, nella Mitteleuropa, un Arno Schmidt, in Italia, in un ambito di ricezione più ristretto, un Emilio Villa; in questo primo scorcio del secolo folle è fra noi più di tanti Mariano Bàino, con la sua provocatoria parola di appartato e sorridente decostruttore, a incarnare di nuovo con serietà, senza pose usurate da melodramma intellettuale, e a dare testimonianza, in modo personalissimo, di questa forma di poesia estrema.
Nel panorama assai frastagliato, da poligrafo, autore di prose e di versi, fra lingua regionale e italiano, dell’opera di Mariano Bàino, assume un ruolo peculiare l’ultimolibro, in(nessuna)patagonia, ed. ad est dell’equatore (2014). Si tratta di un testo che si libra al di fuori degli usuali confini che attraversano il vasto continente della prosa, distinguendo la narrativa dalla saggistica e il romanzo introspettivo dal racconto di viaggio e di esplorazione. In tal senso quest’opera di Bàino, con la sua non collocabilità, contiene già nelle sue premesse e nelle sue condizioni al contorno il suo centramento tematico paradosso in un non-luogo: un non-luogo che non è più utopia, essendo l’utopia ormai fuori contesto, “marxismo ormonale” senza giustificazioni storiche e ideologiche, per usare un’espressione dell’autore.
L’incipit del viaggio paradosso di Bàino in Patagonia è quanto di meno avventuroso si possa immaginare, dato che il romanzo si apre con una curiosa associazione di idee, la cui ouverture è non altro che la descrizione di una sedentarissima Corb Chaise lecorbusieriana foderata in pelle -forse pelle di vacca argentina, patagonica-, con la sua “vocazione di sedia a dondolo” e le sue “linee d’aeroplano”: un mezzo di trasporto per un viaggio mentale, la cislonga di pelle di bovino della Patagonia, forse inabissatosi in un ghiacciaio e ivi cristallizzatosi in fossile immaginativo male interpretato, come fu male interpretato il falso brontosauro (in realtà milodonte) di Bruce Chatwin, l’autore de Le vie dei canti e di In Patagonia, libro anch’esso anomalo, che per l’opera di Bàino assume il ruolo di ominoso metatesto.
Sin dal suo aire fra coordinate non locali e interpretazioni slittate e distorte, questo viaggio si connota soprattutto come un esilio: “L’esule volontario, anche quando in esilio virtuale (momentaneamente virtuale), ha pur sempre la patria in cuore… solo che neanche puoi tenertelo ad onore un simile esilio”, dallo Stato di dittatura mediatica, o di post-democrazia o di democratura: l’autore delinea da subito una fuga “via dall’unico paese che ha tre destre: liberale; clericofascista e populista; di sinistra”. L'”estraneità idiopatica” alla patria si fa così sin dall’inizio un connotato antropologico strutturale, tanto che l’esilio si configura nell’immediato, per lo scrittore, una dimensione esistenziale ineliminabile. L’Ich Erzäler di Bàino si costituisce così come una sorta di anarca poetico, geografico e culturale; la connotazione della sua opera è un non luogo nella tassonomia letteraria; il suo punto di partenza è un non luogo nell’area delle condizioni sociali e politiche possibili, stante che l’abitatore dello spazio politico di una democratura non è formalmente un suddito, ma non è nemmeno libero, e dunque è reso inopinatamente responsabile di scelte che non gli appartengono e che non può operativamente attuare (e perciò si porta addosso il carico delle colpe essendo di fatto innocente); il suo viaggio virtuale è un esilio, la cui destinazione, la Patagonia, è un altro non luogo, uno spazio geografico alieno, al limite dell’ecumene -e viene fatto di pensare a qualcosa di simile all’immagine del Saskatchewan, ipotetica destinazione e punto di fuga per tedeschi non asserviti, quale appare evocato da Arno Schmidt nel suo Aus den Leben eines Fauns. In tal senso questa (nessuna) Patagonia di Bàino parrebbe a tutta prima configurarsi come l’esemplare estremo della tipologia del non luogo-rifugio non utopico che l’uomo ipermoderno, ideologicamente decurtato, si riduce a concepire.
Cassati tutti gli altri viaggi, tramiti ordinari di estraniamento di massa verso superluoghi consacrati dalle infinite vie e motivazioni del turismo, e dunque sempre monetizzabili, riducibili a ragioni di controllo, dominio e profitto, la Patagonia diviene al principio l’unico non riducibile orizzonte di fuga. Si tratta, per l’autore, di chiudere (anzi di “kiudere”) con il proprio luogo di nascita e di non appartenenza: “Kiudo, come scrivono alcuni su Facebook quando non vogliono più chattare… Con questa itaglia, kiudo. “Io noto in Italia una sorta di ebetudine”, scriveva Croce a Laterza durante il fascismo. Ebete itaglia. La brutta addormentata nel bosco… Kiudo. Bisogno di spezzare l’aria. Sono un dispatriato…” L’evidente citazione di Emilio Villa, continuamente richiamato col ricorso a invenzioni linguistiche che a Villa sarebbero congeniali e alluso in quel deprecativo nome geografico deforme, itaglia (chiosato da Bàino in “l’umana compagnia italica o italiota. Stirpe che si fa guidare da imbecilli che hanno fama di essere machiavellici”), fornisce un’ulteriore chiave di lettura alle coordinate di partenza del viaggio e del libro: o meglio, alle sue coordinate di “spartenza”, di allontanamento, separazione e separatezza, ma anche di falsa partenza, partenza sbagliata, in cui l’uomo in esilio di Bàino è gettato. E per suprema, dissacrante ironia, nella sua partenza sbagliata e nella sua separatezza, l’io narrante è accompagnato, verso sud, verso la montagna bruna di nessun purgatorio, da una orazion picciola rovesciata: “considerate la vostra scemenza/ fatti voi foste a viver come bruti/ non per seguir virtute e conoscenza”, parole di un Ulisse à rebours che rinnega ogni possibile compagno e ogni possibile ritorno: un Anti-ulisse in spartenza per un esilio-non-viaggio senza ritorno da un non luogo verso un non luogo, che fa il paio con l’Edipo indifferente, senza sfinge, anti-edipico, appartato a mangiare un gelato in mezzo ai Tebani-italioti apatici, dell’ultimo componimento villiano de Le mura di Tebe; un Anti-ulisse che nell’evoluzione dell’opera di Bàino continua, ed estremizza, la formula dell’Anti-Crusoe alla base dell’inermità e dell’inabilità che domina la dimensione antropologica de L’uomo avanzato.
Nel percorso del suo esilio, più o meno virtuale, Mariano Bàino è scortato da memorie di viaggio di ogni tipo còlte col rampino dalla tradizione storico-letteraria -con la premessa anomala di due citazioni diametralmente antitetiche: il Lévi-Strauss che sbotta “detesto i viaggi e gli esploratori”, e il Busi che scrive, dal canto suo: “Detesto i diari di bordo e la letteratura di viaggio”. In tal modo, rispetto alla materia narrata, il narratore interno si pone in un curioso distacco, delocalizzandosi anche rispetto al suo contenuto, e guardandolo in tralice, come una specie di Ariosto prosastico che non potendo, per forza di cose, più credere al mito della scoperta, in un pianeta cognitivamente collassato in un punto, ironizza su sé stesso e sul suo stesso dispatrio. All’occhio distaccato dell’autore gli snapshot di viaggio e di esplorazione delle età trascorse ritornano tuttavia ossessivi: così le memorie di Pigafetta, con il loro “visto con gli occhi” del viaggiatore, darrighiano corrispettivo del “visto con gli occhi della mente” del narratore; l’aura da finis terrae, fin del mundo, che circonda Capo Horn, con il suo bollettino di naufragi; i sogni geografici di Don Bosco sulla Patagonia; le testimonianze di padre Alberto Maria de Agostini, alias don Patagonia; le Scalate sulle Ande di Clemente Onelli. Un ruolo particolare hanno poi le memorie delle donne occidentali che si trovarono ad abitare per la prima volta la Patagonia: così è per l’altezzosa Lady Florence Dixie di Across Patagonia, per la María Brunswig de Bamberg di Allà en la Patagonia, in cui si arriva a formalizzare l’immagine dell’ostilità liminare della regione che “non è un paese per donne”; così è per Elena Greenhill, la Inglesa Bandolera uccisa a tradimento, donna a capo di una schiera di banditi di prateria eppure dedita, in contrasto con la correzione ipermachista della sua esperienza di donna sulla frontiera del nulla, ad occupazioni insospettabilmente e assurdamente casalinghe -per esempio, quella di tessitrice di panni per i suoi figli, in una sorta di inconscio ruolo di filatrice/moira archetipale
L’estraneità di questa Patagonia che è teatro di questa molteplice antropizzazione paradossale, finisce per coincidere e collassare in una sorta di elusiva familiarità (a un tratto l’io narrante-viandante si trova anche di fronte una sede del locale partito demòcrata-cristiano, quasi si trovasse in una sorta di strapaese politico all’estremo limite meridionale del mondo), così che anche all’estremo dello spazio geografico in cui il paesaggio patagone è collocato, si riconosce, inopinatamente, la zavattiniana qualsiasità che fa di ogni punto della terra un luogo come un altro, rappresentazione antropologico-topologica di un sorprendente isomorfismo, di una quotidianità sempre banale, così che la spartenza-esilio dell’autore finisce, da ultimo e di principio, per chiudersi su sé stessa, in una struttura ad anello, vanificando il dissenso che l’esilio porta con sé, eppure accentuandone, nel contempo, l’inesorabile necessità: “Sento gli avversi numi, la sorte di Scazzetta, il negativo del karma. E in nessuna Patagonia potrò ridare all’Italia l’istituzione dell’esilio. L’Italia, del resto, ha perduto forse istituzioni anche più basilari. Per carità, espatriazione perpetua. In nessuna Patagonia troverò una notte che non sia scurissima, senza luna né stelle. In nessuna Patagonia potrò dimenticare queste infelici condizioni. Grave exiglio. Tristia. Anima pellegrina. Però, disitalianizzarsi.”
E all’autore resta soltanto, per disitalianizzarsi nel profondo, la possibilità di abitare questa distanza dall’ebete padritaglia, questa non località, esprimendola in una lingua che oscilla fra la limpidezza della cronaca di viaggio, l’andamento diaristico, e le ircocerviche neoformazioni di una parola estrema, debordante, aliena.
In conclusione: il mondo è grande e terribile e complicato, e noi stiamo diventando di una saggezza che diventerà proverbiale.
Lettera a Giulia Schucht
del 18 Maggio 1931
di Orsola Puecher
“Vivo, sono partigiano.” scrive Antonio Gramsci l’11 febbraio 1917, quasi cent’anni fa, e in questo imprescindible sillogismo, in questo cogito ergo sum fra vivere, essere vivo e partecipare, parteggiare nella vita della πολις, in questa esistenza politica, in questa politica esistenziale, sta in nuce il primo seme della futura Resistenza. Nel proto partigiano Gramsci, una condanna a morte lunga undici anni, fra confino e carcere, ai quali resistette con le sole armi della parola e del pensiero scrivendo i 32 ⇨ Quaderni del Carcere, e il composito patrimonio delle ⇨ Lettere dal carcere, c’è lo stesso coraggio, la stessa forza morale di quegli uomini e donne che scelsero, che non furono ⇨ indifferenti, che si opposero alla fatalità della storia e davanti alla morte reagirono con lo stesso spirito vitale.
[le uniche rare immagini filmate di Antonio Gramsci
al IV Congresso dell’Internazionale Comunista
Pietrogrado e Mosca 5 novembre – 5 dicembre 1922 ]
[…] Circa l’incontro di Gramsci con Lenin a cui accenni, e di cui desidereresti qualche particolare, non posso dirti molte cose. Gramsci si riferì spesso a quell’incontro nel corso delle lunghe conversazioni che io ebbi con lui durante la mia permanenza a Mosca, tra la fine dell’ottobre e la metà del dicembre 1922; ma sempre accennandovi in rapporto alle questioni politiche di cui in quel momento particolarmente ci occupavamo. Non ricordo, ad esempio, se mi disse la data precisa di quell’incontro, o altri particolari circa il luogo e il modo, che dovettero essere poco diversi da quelli dell’incontro con Lenin che nei primi giorni del novembre potemmo avere Bordiga ed io.
[…] Lenin era malato; i medici non permettevano che avesse lunghe conversazioni politiche.
[…] Io ero arrivata a Mosca con qualche anticipo rispetto alla data di inizio del congresso: il IV congresso dell’I.C. di cui ero delegata. A Mosca avevo ritrovato Gramsci, che dal maggio di quell’anno rappresentava il P.C.I. nell’Esecutivo dell’I.C. […] Pensavo di dare qualche aiuto a Gramsci, che ritrovavo in non buone condizioni di salute. Era stato gravemente malato, e ricoverato in una casa di cura dall’inizio dell’ottobre.
[…] Durante quelle nostre conversazioni Gramsci mi disse di aver espresso a Lenin il suo profondo dissenso con Bordiga, non soltanto sul problema dei rapporti con il Partito Socialista, ma sul giudizio del fascismo, della situazione italiana, delle sue prospettive, e sulla politica del Partito, settaria, chiusa, e in definitiva inerte e inadeguata alle esigenze del momento.
[…] “Lenin, mi diceva Gramsci, conosce le cose nostre assai più di quanto supponiamo”
[…] Lenin volle conoscere direttamente il pensiero di Bordiga sui nuovi avvenimenti italiani.
[…] Ma ad interrompere quei discorsi tra me e Gramsci, giunse a Mosca la notizia della cosiddetta “marcia su Roma” e del governo instaurato in Italia da Mussolini; e arrivò a Mosca Bordiga portando di quei fatti la diretta testimonianza. […] Su di essi si manifestò la insuperabile diversità di pensiero politico esistente fra Gramsci e Bordiga: Bordiga sottovalutava le conseguenze dell’avvento fascista al potere; prevedeva per il nuovo governo la possibilità di una convergenza socialdemocratica; e si limitava a riaffermare la schematica e indifferenziata contrapposizione: Stato Borghese-Stato Proletario.
Lenin volle conoscere direttamente il pensiero di Bordiga sui nuovi avvenimenti italiani. […]Lenin ascoltò con evidente meraviglia le sue opinioni, rigide ed astratte; a cui indirettamente rispose poi nel suo discorso al Congresso, accennando agli insegnamenti che i comunisti italiani avrebbero dovuto trarre dalla propria esperienza in regime fascista.
[…] Forse, da quella conversazione avuta con Gramsci e dalla seguente con Bordiga, può essere derivata – in Lenin e nell’Internazionale – la decisione, presa dopo breve tempo che Gramsci, non rientrasse in Italia, ma si riavvicinasse al Partito, trasferendosi a Vienna, con un proprio ufficio, e là riprendesse la pubblicazione della rivista “L’Ordine Nuovo”, e quel lavoro verso i compagni che – sviluppato poi successivamente nell’azione politica in Italia – portò al superamento nel Partito del bordighismo, alla formazione di un nuovo gruppo dirigente; alla direzione politica di Gramsci, fino al suo arresto.
in La storia di una famiglia rivoluzionaria
APPENDICE / LETTERE
di Antonio Gramsci jr. pag 194-197
Editori Riuniti [2014]
L’8 novembre del 1926 il deputato comunista Antonio Gramsci, allora trentacinquenne, viene arrestato dalla polizia fascista.
Il Tribunale Speciale sentenzia “Per vent’anni dobbiamo impedire a questo cervello di funzionare.”
[Lettera alla madre del 25 aprile 1927]
La mia vita scorre sempre uguale. Leggo, mangio, dormo e penso. Non posso fare altro. Tu però non devi pensare a tutto ciò che pensi e specialmente non devi farti illusioni. Non perché io non sia arcisicuro di rivederti e di farti conoscere i miei bambini (riceverai la fotografia di Delio, come ti ho annunziato; ma Carlo non te ne aveva consegnata una nel 1925? quando Carlo venne a Roma? e Chicchinu Mameli ti aveva dato uno scudo di argento che avevo mandato a Mea perché si facesse fare un cucchiaino? e una tabacchiera di legno speciale per te? — mi sono sempre dimenticato di domandarti queste cose), ma perché sono anche arcisicuro che sarò condannato e chissà a quanti anni. Tu devi capire che in ciò non c’entra per nulla né la mia rettitudine, né la mia coscienza, né la mia innocenza o colpevolezza. È un fatto che si chiama politica, appunto perché tutte queste bellissime cose non c’entrano per nulla. Tu sai come si fa coi bambini che fanno la pipí nel letto, è vero? Si minaccia di bruciarli con la stoppa accesa in cima al forcone. Ebbene: immagina che in Italia ci sia un bambino molto grosso che minaccia continuamente di fare la pipí nel letto di questa grande genitrice di biade e di eroi; io e qualche altro siamo la stoppa (o il cencio) accesa che si mostra per minacciare l’impertinente e impedirgli di insudiciare le candide lenzuola. Poiché le cose sono cosí, non bisogna né allarmarsi, né illudersi; bisogna solo attendere con grande pazienza e sopportazione.
E Gramsci dai suoi scritti esce ancora vivo, lucido, ironico, tenero, disperato e insieme pieno di speranza per il futuro, con quell’intento pedagogico che dai primi anni della sua militanza non lo abbandonò mai, con cui cerca di educare attraverso favole, ricordi d’infanzia, raccomandazioni e consigli di lettura i figli lontani, in Russia con la moglie Giulia Schucht, Delio che poté vedere per solo pochi mesi e Giuliano, che non vide mai. Dal suo doppio carcere cerca tenacemente attraverso le lettere alla moglie e ai figli, alla madre, ai fratelli, alla cognata Tatiana, unici fili di contatto possibile, di tenere insieme i suoi affetti recisi.
[Lettera alla cognata Tatiana del 19 maggio 1930]
Io sono sottoposto a vari regimi carcerari: c’è il regime carcerario costituito dalle quattro mura, dalla grata, dalla bocca di lupo, ecc. ecc.; – era già stato da me preventivato e come probabilità subordinata, perché la probabilità primaria dal 1921 al novembre 1926, non era il carcere, ma il perdere la vita. Quello che da me non era stato preventivato era l’altro carcere, che si è aggiunto al primo ed è costituito dall’essere tagliato fuori non solo dalla vita sociale, ma anche dalla vita famigliare ecc. ecc.
Nel ricordo lontano della sua vita di bambino nelle campagne aspre della Sardegna, il sogno della famiglia perduta rivive nella laboriosa famiglia di ricci, mamma, papà e tre riccetti che collabora alla raccolta delle mele una sera d’autunno, quando era già buio, ma splendeva luminosa la luna…
Caro Delio,
mi è piaciuto il tuo angoletto vivente coi fringuelli e i pesciolini. Se i fringuelli scappano dalla gabbietta, non bisogna afferrarli per le ali o per le gambe, che sono delicate e possono rompersi o slogarsi; occorre prenderli a pugno pieno per tutto il corpo, senza stringere. Io da ragazzo ho allevato molti uccelli e anche altri animali: falchi, barbagianni, cuculi, gazze, cornacchie, cardellini, canarini, fringuelli, allodole ecc. ecc.; ho allevato una serpicina, una donnola, dei ricci, delle tartarughe. Ecco dunque come ho visto i ricci fare la raccolta delle mele. Una sera d’autunno, quando era già buio, ma splendeva luminosa la luna, sono andato con un altro ragazzo, mio amico, in un campo pieno di alberi da frutta, specialmente di meli. Ci siamo nascosti in un cespuglio, contro vento. Ecco, a un tratto, sbucano i ricci, cinque: due piú grossi e tre piccolini. In fila indiana si sono avviati verso i meli, hanno girellato tra l’erba e poi si sono messi al lavoro: aiutandosi coi musetti e con le gambette, facevano ruzzolare le mele, che il vento aveva staccato dagli alberi, e le raccoglievano insieme in uno spiazzetto, ben bene vicine una all’altra. Ma le mele giacenti per terra si vede che non bastavano; il riccio piú grande, col muso per aria, si guardò attorno, scelse un albero molto curvo e si arrampicò, seguito da sua moglie. Si posarono su un ramo carico e incominciarono a dondolarsi, ritmicamente: i loro movimenti si comunicarono al ramo, che oscillò sempre piú spesso, con scosse brusche, e molte altre mele caddero per terra. Radunate anche queste vicino alle altre, tutti i ricci, grandi e piccoli, si arrotolarono con gli aculei irti, e si sdraiarono sui frutti, che rimanevano infilzati: c’era chi aveva poche mele infilzate (i riccetti), ma il padre e la madre erano riusciti a infilzare sette o otto mele per ciascuno. Mentre stavano ritornando alla loro tana, noi uscimmo dal nascondiglio, prendemmo i ricci in un sacchetto e ce li portammo a casa. Io ebbi il padre e due riccetti e li tenni molti mesi, liberi, nel cortile; essi davano la caccia a tutti gli animaletti, blatte, maggiolini ecc., e mangiavano frutta e foglie d’insalata. Le foglie fresche piacevano loro molto e cosí li potei addomesticare un poco; non si appallottolavano piú quando vedevano la gente. Avevano però molta paura dei cani. Io mi divertivo a portare nel cortile delle bisce vive per vedere come i ricci le cacciavano. Appena il riccio si accorgeva della biscia, saltava lesto lesto sulle quattro gambette e caricava con molto coraggio. La biscia sollevava la testa, con la lingua fuori e fischiava; il riccio dava un leggero squittio, teneva la biscia con le gambette davanti, le mordeva la nuca e poi se la mangiava a pezzo a pezzo. Questi ricci un giorno sparirono: certo qualcuno se li era presi per mangiarli. Ti scriverò un’altra volta sul ballo delle lepri, dell’uccello tessitore e dell’orso, e su altri animali ti voglio raccontare altre cose che ho visto e sentito da ragazzo: la storia del polledrino, della volpe e del cavallo che aveva la coda solo nei giorni di festa ecc. ecc. Mi pare che tu conosca la storia di Kim, le novelle della jungla e specialmente quella della foca bianca e di RikkiTikkiTawi?
Ti bacio.
ANTONIO
I bambini sono le prime vittime dei regimi dittatoriali, che tendono a plasmare le loro menti. Per non farli diventare piccoli automi plagiati, devono essere educati all’eguaglianza e alla libertà, devono imparare l’indipendenza di giudizio, a separare bene e male e ad avere principi morali saldi. Le favole rappresentano una percezione del mondo e come allegorie della realtà, servono a Gramsci per spiegare ai suoi bambini lontani la vita come se fosse un gioco. Il topo e la montagna è nella tradizione delle fiabe a catena che derivano spesso da filastrocche destinate a essere cantate, con una serie di elementi che si accumulano, finché la catena non si scioglie, risolvendosi e ripetendo il percorso in senso inverso. Il ciclo della speculazione capitalistica sarà contrastato dal topo, che concepisce un futuro, ancora attuale e disatteso “vero e proprio piano di lavoro, organico e adatto a un paese rovinato dal disboscamento.”
Carissima Giulia,
puoi domandare a Delio, da parte mia, quale dei racconti di Puskin ami di piú. Io veramente ne conosco solo due: Il galletto d’oro e Il pescatore.
Vorrei ora raccontare a Delio una novella del mio paese che mi pare interessante.
Te la riassumo e tu gliela svolgerai, a lui e a Giuliano.
Un bambino dorme. C’è un bricco di latte pronto per il suo risveglio. Un topo si beve il latte. Il bambino, non avendo latte, strilla, e la mamma che non serve a nulla corre dalla capra per avere del latte. La capra gli darà il latte se avrà l’erba da mangiare. Il topo va dalla campagna per l’erba e la campagna arida vuole l’acqua. Il topo va dalla fontana. La fontana è stata rovinata dalla guerra e l’acqua si disperde: vuole il maestro muratore; questo vuole le pietre. Il topo va dalla montagna e avviene un sublime dialogo tra il topo e la montagna che è stata disboscata dagli speculatori e mostra dappertutto le sue ossa senza terra. Il topo racconta tutta la storia e promette che il bambino cresciuto ripianterà i pini, querce, castagni ecc. Cosí la montagna dà le pietre ecc. e il bimbo ha tanto latte che si lava anche col latte. Cresce, pianta gli alberi, tutto muta; spariscono le ossa della montagna sotto il nuovo humus, la precipitazione atmosferica ridiventa regolare perché gli alberi trattengono i vapori e impediscono ai torrenti di devastare la pianura. Insomma il topo concepisce un vero e proprio piano di lavoro, organico e adatto a un paese rovinato dal disboscamento.
Carissima Giulia, devi proprio raccontare questa novella e poi comunicarmi l’impressione dei bimbi.
Ti abbraccio teneramente.
ANTONIO
Giulia Schucht – Julca – a Mosca con i figli Delio nato nel 1924 e Giuliano nato nel 1926
David Ojstrach in ⇨ Légende Op. 17
di ⇨ Henryk Wieniawski [1835-1880]
[ suonato da Giulia Schucht nel 1918 al Concerto di Capodanno
a Mosca, a Lefortovo, nell’edificio dell’ex scuola di Alekseev ]
Il celebre scrittore sovietico Aleksander Serafimovicˇ diede una descrizione molto vivace delle impressioni ricavate dall’esecuzione di Giulia sul quotidiano Izvestija del 6 gennaio:
«[…] All’estremità del palcoscenico si avvicina timida una ragazza, con un vestito bianco e nero, un violino in mano e un dolce viso di fanciulla che chiede alla vita: “Che cosa sei? Che cosa nascondi?” Stringe il violino e lentamente, piegando in maniera strana e leggera il braccio avvolto in una manica trasparente, solleva l’archetto, mentre io abbasso lo sguardo. Eh, ha fatto male a scegliere la Légende… Si deve tenere conto del pubblico, non capiranno: comincerà lo strofinar di nasi, la tosse… Ha sbagliato… me ne stavo accigliato e con gli occhi bassi, e in quel secondo dalla scena si svolge lentamente verso quel mare umano un filo argentino e melodioso, ininterrotto, simile a tratti a una voce umana, ora è appena percettibile, sul punto di spegnersi, ora si raddensa in un lamento di petto emesso da un contralto basso, si svolge e spegne tutti i suoni, dominando.
E io levo lo sguardo…
Avete mai visto il mare quando è di vetro?
Vi rimangono sospese le nubi dimenticate, e vi si riflettono le montagne, e la riva, e il volo lontano di un gabbiano bianco.
Avete mai sentito ottomila persone che trattengono il fiato?
Ecco cosa dice il canto di questa ragazza dai capelli corvini, cosa dice da sotto il lungo, infinito archetto.
Cosa?
Dice che esistono gioia e amarezza, ed esiste un passato, e un futuro ignoto, velato di filamenti turchini…
La ragazza ha portato la sua mirabile arte, la sua opera; l’hanno accolta con cura e ora hanno ringraziato.
E io ho guardato felice i volti eccitati.».
in La storia di una famiglia rivoluzionaria
MIA NONNA GIULIA
di Antonio Gramsci jr. pag 62-63
Editori Riuniti [2014]
JulcaGramsci conobbe Giulia Schucht [1894-1980] insieme alla sorella Eugenia nel 1922, durante il ricovero nella casa di cura di Serebrjanyj Bor, Bosco d’Argento, vicino a Mosca. Dopo un breve legame con Eugenia, ricoverata per una paralisi alle gambe, rimane folgorato da Giulia. La famiglia Schucht di origini tedesche, con forte tradizione antizarista è amica di vecchia data di Lenin. Sono tornati in Russia allo scoppio della Rivoluzione, dopo lunghe peregrinazioni in esilio, tra Svizzera, Francia e Italia, dove Giulia studia violino all’Accademia di Santa Cecilia di Roma e dove si fermerà la terza sorella Tatiana, laureata in Scienze Naturali, che sarà accanto a Gramsci nei lunghi anni di prigionia e di malattia. Le difficoltà in cui si dibatte il paese pesano anche sugli Schucht, che vivono in estreme ristrettezze economiche.
Dopo la nascita del primo figlio Delio, in un unico momento sereno, Giulia e Antonio vivranno alcuni mesi a Roma, ma l’aggravarsi della situazione italiana induce il ritorno a Mosca. Giulia aspetta il secondo figlio, Giuliano. Antonio non lo conoscerà mai, ne mai più dopo l’arresto rivedrà Giulia. Il rapporto epistolare proseguirà fra alti e bassi. Antonio lamenta spesso i lunghi periodi di silenzio di Giulia, ma ignora che dopo il ritorno a Mosca la sua salute, già fragile, si è incrinata, soffre di epilessia e di continui esaurimenti nervosi, di cui non vuole far sapere nulla al marito, già in una situazione così difficile.
18 aprile 1927
Mia carissima Julca,
riprendo a scriverti, dopo tanto tempo. Ho ricevuto solo pochi giorni fa due tue lettere: una del 14 febbraio e l’altra del 1° marzo e ho pensato tanto tanto a te; ho proprio fatto un inventario di tutti i miei ricordi e sai quale immagine m’è rimasta piú impressa? Una delle prime, di tanto tempo fa. Ricordi quando sei ripartita dal bosco di argento, dopo il tuo mese di vacanze? Io ti ho accompagnato fino all’orlo della strada maestra e sono rimasto a lungo a vederti allontanare. Ci eravamo appena conosciuti, ma io ti avevo fatto già parecchi dispetti e ti avevo fatto anche piangere; ti avevo canzonato col comizio dei gufi e avevo avuto l’elettricità dei gatti quando tu suonavi Beethoven. Cosí ti vedo sempre mentre ti allontani a passi brevi, col violino in una mano e nell’altra la tua borsa da viaggio cosí pittoresca. Qual è adesso il mio stato d’animo? Ti scriverò piú a lungo le prossime volte (domanderò di scrivere una doppia lettera) e cercherò di descriverti gli aspetti positivi della mia vita di questi mesi (gli aspetti negativi ormai sono dimenticati); vita interessantissima, come puoi immaginare, per gli uomini che ho avvicinato e le scene alle quali ho assistito. Il mio stato d’animo generale è improntato alla piú grande tranquillità. Come posso riassumerlo? Ricordi il viaggio di Nansen al Polo ? E ricordi come si svolse? Poiché non ne sono molto persuaso, te lo ricorderò io. Nansen, avendo studiato le correnti mari ne ed aeree dell’Oceano Artico ed avendo osservato che sulle spiaggie della Groenlandia si ritrovavano alberi e detriti che dovevano essere di origine asiatica, pensò di poter giungere o al Polo o almeno vicino al Polo, facendo trasportare la sua nave dai ghiacci. Cosí si lasciò imprigionare dai ghiacci e per 3 anni e ½ la sua nave si mosse solo in quanto si spostavano, lentissimamente, i ghiacci. Il mio stato d’animo può paragonarsi a quello dei marinai di Nansen durante questo viaggio fantastico, che mi ha sempre colpito per la sua ideazione, veramente epica.
Ho reso l’idea? (come direbbero i miei amici siciliani di Ustica). Non potrei renderla in modo piú breve e sintetico. Dunque non preoccuparti per questo lato della mia esistenza. Invece, se vuoi che io ti ricordi sempre con tenerezza (scherzo, sai!), scrivimi a lungo e descrivimi la tua vita e quella dei bambini. Tutto mi interessa, anche le minuzie. E mandami delle fotografie, ogni tanto. Cosí seguirò anche con gli occhi, lo sviluppo dei bambini. E scrivimi anche di te, molto. Vedi, qualche volta, il signor Bianco? E vedi quel curioso tipo di africanista che una volta mi promise un fritto di rognoni di rinoceronte? Chissà se si ricorda ancora di me; se lo vedi parlagli di questo fritto e scrivimi le sue risposte; mi divertirò un mondo. Sai che non faccio altro: pensare al passato e riandare tutte le scene e gli episodi piú buffi; ciò mi aiuta a passare il tempo, qualche volta proprio rido di cuore, senza neanche accorgermene. Cara, Tania mi annunzia altre tue lettere; come le attendo!
Saluta tutti i tuoi.
Ti voglio molto bene.
ANTONIO
Tania è proprio una bravissima ragazza. Perciò io le ho dato parecchi tormenti.
La nave rimarrà incagliata fra i ghiacchi. In seguito a una campagna antifascista internazionale di protesta Gramsci, che non si piegò mai a chiedere la grazia, nel ’35 avrà la libertà condizionale per motivi di salute, sarà trasferito in clinica prima a Formia e poi a Roma. Otterrà la piena libertà il 21 aprile del 1937, ma il corpo sfibrato dalla malattia, la tubercolosi ossea che lo affliggeva fin da bambino, aggravata dalle privazioni della detenzione, cederà solo pochi giorni dopo, il 27 aprile.
Abbiamo imparato grazie alla televisione cos’è un “cold case”. Detto in inglese lo fa apparire come una cosa tecnica, persino indolore. Tradotto si mostra in tutto il suo cinismo: “caso freddo”. Fa venire i brividi. C’è una presa di distanza che sembra quasi indifferenza. Chiamarli “casi irrisolti” ci mette di fronte alla nostra inadeguatezza. Significa ammettere di non aver saputo svolgere le indagini, confermare quanto il mondo sia più complesso di un giallo, dove l’assassino trova sempre la sua punizione e il bene trionfa sempre sul male. Un caso irrisolto ci mette di fronte al fatto che il mondo è uno gnommero, come diceva Gadda. Un gomitolo indistricabile, spesso crudele, spesso insensato.
Non è raro che mi venga chiesto di scrivere o di parlare di casi di cronaca nera. Che sia una rapina, un assassinio d’impulso, una rapimento, un crimine efferato, uno stupro. C’è un curioso pensiero da parte di chi mi interpella. Tu che scrivi gialli di certo saprai entrare nella mente del criminale. Tu che fai svolgere le indagini al tuo personaggio seriale, saprai di certo capire chi è il vero responsabile, quello che la polizia non riesce a trovare. Tu sai. Tu puoi dirci come è andata a finire. Come fosse un romanzo.
Io resto sempre attonito di fronte a queste richieste. Io non so. Io non so nulla. E non mi permetto di ipotizzare alcunché. Ci sono persone che seguono i casi, da mesi, anni; professionisti, inquirenti, che ci stanno sbattendo la testa, con quale arroganza, io, che la giornata la passo davanti a un computer, posso permettermi di dire la mia?
Non fidatevi degli scrittori che pontificano in radio, degli esperti che traggono soluzioni d’accatto in televisione. Non fidatevi dei decantatori di plastici. Ne sanno meno, molto meno, di chi su quei crimini ci lavorano, colmi di frustrazioni per l’insondabilità, il mistero del crimine.
Ho sempre rifiutato gli inviti delle sirene della stampa. Forse sbagliando, perché, inutile nasconderlo, apparire di continuo in televisione, presentarsi come esperto di menti criminali e affini, di certo gioverebbe alle vendite dei miei romanzi. Ma io non riesco ad essere insincero con i miei lettori. Io nella mente di un criminale, uno vero, non ci so e non ci voglio entrare. Mi bastano i miei incubi personali, quelli privati. Mi bastano i miei romanzi.
Nei casi di cronaca, non dimentichiamolo, i morti sono veri. Bisogna averne rispetto. Ho sempre trovato morbosa questa attenzione mediatica, l’ho sempre trovata oscena. Qualcosa che, etimologicamente, deve stare fuori dalla scena, non deve essere rappresentata, perché manca di umanità nei confronti non solo delle vittime ma anche dei superstiti. Gli amici, i parenti. Decidere di mettere in piazza le proprie idee, dall’alto di non so quale autorità, cercare come una sciarada soluzioni alternative a quelle degli inquirenti, ipotizzare legami fra sospettati, accusare esplicitamente qualcuno di un crimine, fuori da un regolare processo, mi sembra oltre che immorale, pornografico.
Poi quando si tratta di “cold case” siamo addirittura alla sublimazione del cialtronismo mediatico. Figuriamoci se ci ricordiamo qualcosa di questi casi, alcuni vecchi di decenni, presi come siamo dai nostri problemi quotidiani. Eppure continuiamo a parlarne, a scriverne, a discuterne. Mi chiedo, allora: è solo morbosità la nostra? Siamo completamente assuefatti da questa idea di guardare dal buco della serratura, al sicuro delle nostre casa? Siamo solo questo? Cinici imbrutiti alla ricerca di traumi virtuali, di emozioni forti che la realtà quotidiana non sa più darci?
Vederla solo in questo modo non fa di me, alla fine, un intellettuale snob, che disprezza le basse passioni (o, come altri hanno detto meglio di me, le “passioni tristi”) del popolino?
Perché se è vero che noi non sappiamo nulla di queste tragiche morti, e se è vero che bisogna averne rispetto, non si può negare che l’insistenza da parte dei parenti di molte di queste vittime a voler riaprire i casi ha dell’eroico e del tragico. Me lo ha fatto capire mia madre. Donna del popolo, con una semplice quinta elementare nel cassetto, sempre davanti al televisore di casa. La persona che meno immagino a sbirciare da alcun buco della serratura, la meno morbosa che conosca. Non è scoprire chi è l’assassino, come in una partita di scacchi, quello che a lei interessa. È la pietà nei confronti dei vivi. Scoprire come sono andati i tragici eventi, ovvio, non ci restituisce la vittima. Ma quanto meno ci permette di seppellirla simbolicamente. Ci aiuta a organizzare un piccolo spazio d’ordine nel caos dell’esistenza. Un po’ come ci diceva Foscolo: i sepolcri servono ai vivi, prima ancora che ai morti. Queste vittime innocenti sono, mediaticamente, a noi vicine. Sono nostri figli, nostre sorelle. Non vogliamo sapere soltanto come sono morte – in fondo lo sappiamo già – ma perché, nel nome di quale follia, le stiamo piangendo. Alla ricerca del risarcimento di un conto che, purtroppo, non torna mai.
(pubblicato su Grazia, numero 15 del 6 aprile 2016)