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El Chalten

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El_Chaltendi Pierpaolo Lupo

L’intensità del vento sembrava essersi placata. Le nuvole nere che per tutto il pomeriggio, con movimenti vorticosi, avevano giocato con le cime delle montagne, andavano diradandosi e in una zona più elevata del cielo avevano fatto la loro comparsa soffici strato-cumuli di un bel colore cangiante tra il rosa e l’arancione.

Xavier ne aveva approfittato per sedersi sulla sedia di vimini, in veranda, e godere un po’ dei tiepidi colori del tramonto. Intanto verso est l’immensa distesa desolata diventava sempre più preda del manto scuro della notte. Solo chi sapeva quanto vasto fosse l’orizzonte poteva percepire la profondità di quel buio che avanzava.

Poco dopo, come Xavier si aspettava, era arrivata Isabela: camminava con un passo ciondolante, come di chi è stanco ma non vuol darlo a vedere oppure di chi è semplicemente soddisfatto della passeggiata compiuta e la celebra accentuando i movimenti della camminata, fino a farli sembrare passi di danza.

Appena aveva alzato gli occhi e si era accorta di Xavier, lo aveva salutato con la mano e un ampio sorriso aveva illuminato il suo viso. Quel suo solito sorriso aperto, sincero, così sereno da lasciare in Xavier l’ombra del dubbio, l’incertezza se fosse davvero così spontaneo, così bello e così vero.

Ma subito dopo si vergognava di averlo dubitato e incolpava se stesso, la propria innata diffidenza, la propria stolta incapacità di pensare che davvero una persona potesse essere così semplice e solare senza nascondere alcunché.

Isabela portava sulla spalla una tracolla che reggeva un piccolo cesto in cui sembrava aver raccolto fiori, foglie, muschi, bacche e chissà cos’altro.

“Salve” aveva detto, con un tono allegro, poi si era avvicinata alla veranda e aveva salito i due gradini fino ad accomodarsi di fronte a lui. Un “oohhh” prolungato era stato il suo commento nell’appoggiarsi di schiena al legno della staccionata.

“Allora, Xavier, che hai fatto oggi? Hai visto che bella serata?”

“Sì” aveva risposto lui, osservando distrattamente le maniche della giacca che teneva in grembo. “Proprio una bella serata… cosa ho fatto oggi? Ho fatto una passeggiata, come te, ho camminato un po’ verso le montagne, fin quasi a raggiungere il sentiero che comincia a salire verso il lago, ma a quel punto sono ritornato sui miei passi, c’erano delle nuvole nere che non promettevano nulla di buono. Domani ci riprovo, più in su ho visto un bivacco, un rifugio, chissà forse c’è su qualcuno. Poi, sulla strada del rientro ho incontrato un vecchio indiano, era seduto su una pietra, è stato molto gentile, abbiamo parlato un po’… e… be’ ora eccomi qui, mi godo questa bella serata, il silenzio, i colori del tramonto…”

“Tolhuin…” aveva detto lei, spostando per un attimo lo sguardo altrove. Mentre pronunciava quel nome Xavier l’aveva guardata e aveva notato come nel parlare le labbra di lei avessero formato per un istante un piccolo cuore e si era quasi intenerito.

“Come… scusa…”

“Tolhuin: è il nome del vecchio indiano che hai incontrato… vecchio, ah ah, è un aggettivo forse insufficiente… nessuno qui sa davvero quanti anni abbia… chissà, potrebbe anche averne più di cento!”

“Già… anche più di cento… è vero… quest’aria buona, questo clima secco… le persone sono longeve.”

“Potresti essere longevo anche tu: ti ci vedo, fra altri quarant’anni, seduto su questa veranda, pieno di rughe e con una lunga barba… a distribuire perle di saggezza ai viandanti che passano.”

“Lo prendo come un augurio” aveva sorriso Xavier, mentre un brivido freddo come la lama di un coltello gli percorreva la schiena. “Lo prendo come un augurio”.

Poi, come se fosse naturale conseguenza di quell’augurio di una lunga vita, si era voltato appena verso est, guardando con apprensione verso quel buio profondo e gelido che avanzava, quel nulla che pareva volerlo fagocitare. Era meglio tornare a guardare il viso di Isabela, quel sorriso rassicurante, quasi ipnotico. Ma rassicurante.

“Perché continui a tormentare la manica della tua giacca, Xavier?”

“Già ..la mia giacca…, oggi ho trascorso un’oretta nel cercare di rammendarla, qui sul gomito, vedi, è una bella giacca, tiene caldo e ci sono affezionato, mi spiace buttarla… e poi, qui, mi sono abituato all’idea di poter vivere col poco che si ha, il tempo non mi manca per fare piccoli lavori domestici, per cercare di abbellire questa casa: mi piace, è spartana ma è bella, ha l’essenziale.“

“Ah, un rammendo …vedo… – Isabela aveva posato il suo cesto e ghermito la giacca di Xavier – un rammendo fatto un po’ così così… perché non me l’hai detto, questo è un lavoro da donna, e poi qui francamente più che un rammendo ci metterei una bella toppa di pelle, ci penserò io domani Xavier, una toppa di pelle qui ed una identica sull’altro gomito e la tua giacca sarà come nuova”, e ridacchiò. “Piuttosto ora guarda cosa ho portato, questi fiori sicuramente daranno una nota di colore alla tua casa …che dici, posso entrare ?”

Naturale che lui aveva detto di sì: se non fosse stato per Isabela, il suo soggiorno in quei luoghi sarebbe stato di una solitudine insopportabile. E poi Isabela non era soltanto un ‘ottima compagnia ma anche una donna più che graziosa.

Pochi istanti dopo Isabela si aggirava per la casa cercando una collocazione per la sua composizione floreale, mentre Xavier era andato ad accendere il generatore per fare un po’ di luce in vista della sera imminente.

Più tardi avevano cenato insieme, al fioco lume della lampadina, mentre fuori già era buio. Avevano parlato delle loro passeggiate, dei colori della natura, dei grandi spazi, dello splendido scenario di montagne. Xavier si stupiva di quanti argomenti potessero sorgere da una giornata di ozio trascorsa semplicemente a contemplare il paesaggio.

Mentre Isabela rassettava e lavava le stoviglie, Xavier aveva acceso il fuoco nel camino.

Poi Isabela aveva sistemato sul tavolo le tessere del domino aspettando che Xavier si sedesse di fronte a lei. Amavano trascorrere qualche quarto d’ora in quel gioco semplice e rilassante. Le tessere del domino piacevano a Xavier, le trovava esteticamente molto eleganti, amava maneggiarle, sentire al tatto la consistenza del legno, percepire gli intarsi coi polpastrelli. Era stata Isabela, fin dai loro primi incontri, a introdurre, quasi come una rito, la partita a domino.

Xavier non aveva bisogno di proporre o di suggerire quando era con Isabela. Le iniziative che lei prendeva parevano sempre collimare perfettamente coi suoi desideri .

Arrivava un momento in cui cominciavano a muovere un po’ più svogliatamente le tessere, le loro mani stese sul tavolo cominciavano ad accarezzarsi ed i loro occhi ad indugiare sempre di più gli uni negli altri.

Poi Isabela sceglieva il momento, sorridendo spostava le tessere con un braccio, prendeva entrambe le mani di Xavier tra le sue e senza bisogno di parlare lo invitava ad alzarsi.

A Xavier piaceva Isabela. La osservava mentre si stava spogliando. Era meno magra di quello che sembrava da vestita, il suo corpo esile e ben fatto non presentava particolari spigolosità. I suoi seni erano piccoli. Fisicamente aveva conservato le fattezze morbide e regolari del corpo di un’adolescente benché dovesse avere senz’altro più di trent’anni. Xavier non le aveva ancora chiesto quanti anni avesse.

Anche lui si era spogliato, per un po’ si erano accarezzati stando in piedi, poi si erano messi a letto e avevano fatto all’amore.

Dopo erano rimasti ancora a lungo in silenzio.

Xavier rifletteva su come fosse totale l’abbandono di Isabela, a quanta emozione gli dava ogni volta il suo calore. Avrebbe dovuto provare struggimento, la sensazione di non darle abbastanza. Ma sentiva anche che in lei non c’era ciò che comunemente si definisce amore, c’era solo un puro istinto. Isabela non aveva mai parlato d’amore o di sentimenti e ciò lo tranquillizzava. Così come lo inquietava. Come tutto ciò che gli era dato senza un perché, il tramonto sulle montagne, il buio che si stendeva sull’ immensa pianura, i suoni portati dal vento.

Xavier era supino sul letto, le mani dietro la nuca; Isabela, prona, aveva appoggiato un braccio sul suo petto e lo guardava sorridente:

“A cosa pensi Xavier? O sei triste, o hai qualche nostalgia…”

“Nostalgia … forse. Sai, quando hai un oceano intero fra te e la tua casa è normale provare un senso di smarrimento. Penso alla città, al traffico, alle luci, alle voci concitate, tutte cose che non sopporto beninteso, ma ci penso, è inevitabile …qui è tutto così diverso, così calmo, così…irreale…”

(Pensava ai suoi amici, pensava a Nora, soprattutto… perché era andato via da lei, così lontano? Perché l’aveva abbandonata per venire fin lì? Voleva rivederla… oppure, nel frattempo, anche solo sentirla, parlarle, rassicurarla…ma lì non c’erano neanche i telefoni…)

Cosa è irreale Xavier?” gli aveva risposto Isabela. “Questo è il reale, irreale è quello che non c’è . Questa casa è reale, questo letto, tu che fai all’amore con me è reale… la vita è questa, non la confusione che vaga nella tua testa…”

Xavier, per un attimo, chissà perché aveva pensato a quel camion abbandonato visto qualche giorno prima. Un camion ormai arrugginito, abbandonato nel deserto dell’altopiano. Lo immaginava avvolto dal manto della notte, diventato forse la tana di una coppia di volpi, due volpi strette l’una all’altra per scaldarsi. Un camion arrugginito e cigolante per il vento. In mezzo al nulla. Che domande potevano porsi quelle volpi nel loro dolce far niente, nel buio della loro tana di fortuna? Perché lui e Isabela non potevano essere come le due volpi? Forse quello volevano suggerirgli le parole di Isabela?

Xavier guardava verso il soffitto e pensava : ora sposto lo sguardo, fisso Isabela e magari mi trovo davanti gli occhi di una volpe. Lei era sempre appoggiata sul suo petto, ma ora aveva chiuso gli occhi e adagiato la testa, canticchiando sommessamente una canzone o una nenia popolare che Xavier non riusciva a decifrare.

Vicino a Isabela non provava disagio, non poteva dare credito al sospetto che le nascondesse qualcosa. Pensava che con lei avrebbe potuto aprirsi, confidarle tutto ciò che lo inquietava. Ma di Nora no, di Nora non osava certo parlarle.

Ora Isabela si era sollevata dal corpo di lui e si era sdraiata a sua volta supina, come per addormentarsi .

Lui si era girato su un fianco, dandole le spalle. Nel buio quasi totale della stanza percepiva il suo respiro leggero, mentre da fuori veniva il cigolio sommesso dell’altalena, mossa dal vento. Gli piaceva quel cigolio, non lo infastidiva, anche fosse durato tutta la notte.

(Quando aveva visto quel camion abbandonato e dove? Percorrendo una strada, su una corriera, su un altro camion, o camminando col suo zaino in spalla? Allora da qualche parte c’era una strada, c’era una direzione, c’era un senso…)

“C’è un’altra cosa che non capisco Isabela.”

Lei in quel momento aveva inspirato profondamente, non gli aveva detto nulla, ma il suo respiro tornato regolare sembrava un paziente invito a continuare, come di una madre verso la timida curiosità di un bambino.

(E se c’era una strada, una direzione, allora c’era una sequenza temporale… una causa ed effetto… una concatenazione… un suo “partire e arrivare lì”?)

“C’è una cosa che non capisco. Riguarda il vecchio indiano… Tolhuin hai detto che si chiama…Oggi non era la prima volta che lo incontravo. E’ sempre seduto su un masso, non sempre nello stesso luogo, ma quando lo incontro lui è sempre seduto, come se mi aspettasse e quando gli passo vicino mi invita a fermarmi e si mette a parlare con me. Sempre con la sua grande cortesia, una persona mite ma al tempo stesso capace di incutere rispetto con il suo carisma… Ecco, dicevo, lui ogni volta mi ha parlato a lungo, ed io ricordo che dovevo essere davvero interessato a ciò che mi diceva, mi sedevo accanto a lui e mi sentivo non soltanto rapito dai suoi discorsi, ma alla fine me ne andavo con in più un grande senso di benessere e di quiete. A mia volta gli facevo delle domande e lui rispondeva . Ora… Isabela, il problema è: che cosa mi diceva? Sai, per quanto cerchi di sforzarmi non riesco a ricordarmi nulla di ciò che mi ha detto, nulla Isabela, neanche una parola, come chi è sicuro di aver fatto un sogno complesso e pieno di eventi strani ma non ne ricorda neanche un’ immagine … Di cosa parla il vecchio indiano, Isabela?”

Isabela aveva sospirato un po’, Xavier continuava a darle le spalle ma si era figurato che in quel sospiro ci fosse un mezzo sorriso, come se lei fosse divertita da una domanda che si aspettava.

Poi, seria, “ Tolhuin…” gli aveva detto, “Tolhuin parla di … uhmm…parla di alberi neri contorti” e qui si era messa quasi a scandire le parole. “Parla di acquitrini gelati, di ossa bianche che affiorano… parla di altalene che cigolano nel vento… di questo parla il vecchio…”

“E’ molto poetico… e sicuramente è in parte come dici tu, ma non ne sono convinto sai, Isabela, credo che invece mi dicesse cose molto importanti, ma molto importanti per me, benché lui non mi conosca. Io credo che lui abbia dato tante risposte alle mie domande, ma forse sono come le parole di uno stregone, sul momento sono convinto di seguirlo ma in realtà non ho ancora gli strumenti per capire davvero cosa mi suggerisce. Sì, perché sono sicuro che lui mi da’ dei suggerimenti. Ma è come… non so, buffo a dirsi, è come se, mentre parla, le parole escano davvero come qualcosa di fisico dalla sua bocca e galleggino nell’aria sopra di lui, ma alla rinfusa, mescolandosi le une con le altre. Io alzo gli occhi e guardo quelle parole e annuisco, ma in realtà non le capisco veramente… forse non dovrei farmi distrarre da questa illusione visiva che lui crea e concentrarmi solo su ciò che sento. Forse dovrei fare così.”

“Forse… Xavier, tu insisti e vedrai che un giorno riuscirai a memorizzare quello che dice il vecchio…ma ora, ad esempio, facci caso: lo senti il cigolio dell’altalena? Tu credi che non ti dica niente, ma ti parla e anche senza volerlo, anche senza che ti sforzi, capisci e interiorizzi gran parte di quello che ti dice. Anche questo semplice suono che si ripete sempre uguale, o con qualche variazione, come una litania… ti sta raccontando tante cose… tante cose piene di significati… è come te in questo momento… è la voce di mille persone, è una sequela di domande che cercano una risposta e qual è il momento migliore se non la quiete della notte? In ogni lamento di quell’altalena ho già sentito tantissime domande, e poiché l’altalena è un attrezzo per bambini molte delle cose che dice sono proprio buffe, come le domande di un bambino e mi hanno fatto sorridere…credimi Xavier, non ti sto prendendo in giro…”

“Sei una maga anche tu Isabela? Come il vecchio indiano?”

“Chissà, del resto anch’io, sai, devo avere almeno un quarto di sangue indiano.”

Poi erano rimasti in silenzio. Tra un cigolio e l’altro dell’altalena a Xavier era parso di sentire il frinire delle cicale.. ma no, gli era solo sembrato: lì non c’erano cicale. Questo pensiero lo aveva pervaso ancora un po’ di un senso di tristezza, come un ricordo lontano che non riusciva a focalizzare, ma era anche molto stanco e aveva finito con l’addormentarsi .

Al mattino, appena la luce del sole aveva cominciato ad invadere la stanza, si era girato verso Isabela, ma lei non c’era più, era già uscita, con la sua solita delicatezza, senza svegliarlo.

Era rimasto solo un profumo di fiori.

Era già successo le altre volte che aveva dormito con lui: prima dell’alba (o nel cuore della notte, chissà) lei si era dileguata senza far rumore. Dove andava? Andava a fare una delle sue misteriose passeggiate, o tornava a casa sua ? Già, a casa sua: ma dove abitava Isabela? Xavier non glie lo aveva mai chiesto.

Era rimasto ancora un po’ a letto, ripensando al sogno che aveva fatto: aveva sognato di camminare, di intraprendere una passeggiata impegnativa, un vero e proprio trekking in montagna, si sentiva nel pieno delle forze ma nonostante ciò non riusciva a coordinare i movimenti, ogni passo richiedeva un grande sforzo come se ogni volta il suo cervello dovesse spiegare alle gambe come dovevano muoversi. Di conseguenza tutto ciò avveniva con una grande lentezza, come se stesse camminando sott’acqua o sul suolo lunare, o in un luogo privo di gravità. Nel sogno provava rabbia, che diamine, perché tanta fatica per fare qualcosa di così semplice come camminare! Allora cercava disperatamente di forzare l’andatura e cercava di correre ma il risultato era ugualmente sconfortante, era come una corsa al rallentatore!

Poi si era scrollato dal torpore del dormiveglia, deciso a darsi una rinfrescata con l’acqua, mangiare qualcosa, preparare lo zaino ed uscire per una passeggiata. Si era proposto di ripetere il cammino del giorno precedente, ma di raggiungere il lago e, se il tempo lo permetteva, spingersi anche oltre, su verso le cime.

Così era partito con passo spedito, voltandosi ogni tanto indietro per vedere la sua casa, sempre più lontana, come per sincerarsi che fosse sempre lì, al suo posto. Per vincere il senso di solitudine si inventava semplici giochi mentali basati sui punti di riferimento visivi, oppure contava i passi o immaginava di parlare con Isabela o col vecchio indiano. Al di sotto, come un quieto oceano sotterraneo, c’erano presenze più o meno nitide e tra queste Nora. Per il momento lasciava che queste presenze rimanessero in una situazione di stand by, le controllava da lontano, le accarezzava appena con delicatezza, non voleva lasciarsele sfuggire ma, per il momento, nemmeno farle affiorare.

Camminava ormai da un’oretta e non aveva incontrato anima viva. Soltanto un branco di guanachi aveva fatto un’apparizione fugace, di pochi secondi. Spuntati dal nulla avevano risalito con un trapestio di zoccoli in corsa un declivio a un centinaio di metri da lui, lasciando una scia di polvere. Poi una folata di vento l’aveva dispersa. Ogni tanto la sua attenzione era attratta da voli sporadici e circolari di grandi uccelli da preda contro la luce del sole. Erano condor? – si chiese.

(Vedono lontano… pensava, forse vedono il vecchio indiano seduto che lo aspetta, forse il vecchio indiano vede con gli occhi del condor. Vedono un camion abbandonato nel deserto sferzato dal vento, vedono Isabela quando lui non può vederla nelle sue misteriose assenze, Isabela alza gli occhi al cielo, vede i condor che vedono Xavier).

Aveva raggiunto il lago finalmente, un lago blu cobalto nell’anfiteatro solenne delle cime innevate.

Non si era fermato più di tanto, aveva trovato finalmente un sentiero ben tracciato e aveva deciso di seguirlo. La presenza di un sentiero gli infondeva sicurezza, era un indizio di presenza umana.

A un certo punto, dopo che il sentiero che costeggiava il lago aveva ripreso a salire, aveva visto più in alto la figura di un uomo . Era un fatto talmente raro da quando lui era lì che ebbe un sussulto. (“da quando” lui era lì? quando sapeva ancora di mete e di strade e di tappe e di destinazioni ?)

L’uomo lo precedeva di qualche centinaio di metri, andava nella sua stessa direzione lungo il sentiero. A tratti spariva dietro una curva o una roccia o un avvallamento assecondato dal sentiero, ma poi ricompariva. Impossibile per Xavier perderlo di vista, facevano la stessa strada. Decise di affrettare il passo, di raggiungerlo, ma non era semplice perché anche quell’uomo camminava spedito.

Forzando l’andatura era comunque riuscito ad accorciare di molto le distanze e ora ne scorgeva distintamente la figura e grande fu la sorpresa quando gli parve di riconoscere in lui Florian, suo amico da tanti anni.

“Florian – pensava quasi ad alta voce – ma è davvero lui?” Cominciava ad ansimare ma nonostante ciò allungò ancora il passo, facendo una ventina di metri in salita quasi correndo. Quando rialzò gli occhi vide il volto dell’uomo di profilo, e lì ebbe la quasi totale certezza che proprio di Florian si trattasse.

Ora l’uomo aveva raggiunto un tratto pianeggiante che conduceva visibilmente verso un rifugio. Xavier sperò che si fermasse lì per una sosta, così non avrebbe più dovuto correre per raggiungerlo.

Poco dopo infatti l’uomo aveva raggiunto la costruzione in legno ed era entrato . Xavier rallentò il passo, tanto ormai non poteva più sfuggirgli, anzi ad un certo punto si fermò per valutare la situazione. Entrare subito dopo di lui… chiamarlo a gran voce… come se lo stesse inseguendo, no… differire il suo arrivo di cinque o sei minuti, questo aveva deciso di fare.

Così riprese a camminare adagio, ciondolando un po’ e guardandosi intorno, senza tuttavia perdere d’occhio l’ingresso del rifugio . Era una costruzione più piccola di quello che gli era sembrato o che si aspettava ma aveva un aspetto dignitoso e curato. Una seconda serie di finestrelle sotto il soffitto di pietra gli suggerì che doveva esserci anche un primo piano con delle stanze per dormire.

Finalmente anche lui fece il suo ingresso, certamente pervaso dall’emozione ma senza volerlo far vedere. Vide per prima cosa il gestore che, in piedi dietro il bancone, stava strofinando un bicchiere con uno straccio pulito, e si salutarono con un cenno cordiale. Poi si guardò intorno, lo colpì in un angolo in penombra la sagoma fulva di un puma impagliato. Sulla destra c’era un tavolo e lì vide il supposto Florian, ancora di spalle tuttavia. Era seduto e sembrava intento a consumare un pasto che presumibilmente aveva appena ordinato. L’oste, dopo aver guardato Xavier, sollevò il bicchiere davanti agli occhi, come per controllarne la brillantezza. Questo gesto parve buffo a Xavier, per lo meno in quel contesto decisamente rustico.

Poi, proprio mentre stava avvicinandosi all’uomo seduto, questo si era finalmente voltato verso di lui, rivelandosi essere davvero Florian, il suo amico.

“Xavier” aveva detto, con un tono di semplice constatazione, senza far trasparire emozioni.

“Florian….ti avevo riconosciuto salendo per il sentiero e ti ho seguito fin qui…come mai anche tu da queste parti?”

“Siediti Xavier, mangia qualcosa anche tu.”

Era sempre il bel volto affilato di Florian, un po’ indurito forse dalla barba scura che si era fatto crescere, dal colorito abbronzato, con qualche ruga di espressione in più. Sembrava un vero montanaro. Xavier era così stupito dell’incontro che rispose quasi con dei balbettii.

“No… ho già mangiato prima, qualcosa, lungo il cammino, forse mi prenderò da bere… forse..”

“Tutto bene Xavier? Ti vedo un po’ stanco…. o un po’ assente, decidi tu…”

“Assente? No… solo stupito… di incontrarti… proprio qui… ti vedo in forma, davvero… e tu, come mi trovi?”

“Te l’ho detto, sei sempre tu, ti ho ben riconosciuto subito, ma mi sembri strano . Tutto qui.”

“Tutto qui…già, capisco. E, dimmi, dove sei di stanza?”

“A El Chalten ovviamente, non ci sono molti altri villaggi nel raggio di chilometri…”

Xavier aveva leggermente sorriso, distogliendo per un attimo lo sguardo: “El Chalten certo, perché non ci avevo ancora pensato, siamo ad El Chalten… Lo dicevo, questi paraggi mi ricordavano qualcosa… e dimmi Florian, saresti in grado di darmi altre risposte? Perché, vedi, forse non ti ho incontrato per caso.”

“Mmmh… risposte, Xavier?” aveva detto Florian inarcando le sopracciglia e fissandolo negli occhi. “Se mi fai domande….io ti rispondo . Però scusami adesso, non per sembrare scortese ma, abbi pazienza, almeno finché non finisco la mia zuppa, finché è calda… mi capisci?”

“Certo che ti capisco Florian, non sono mica stupido… finisci in pace la tua zuppa…Cavoli? Fagioli? O cosa?”

“Dunque, direi entrambe le cose, più qualcos’altro, c’è anche della carne, montone credo, o agnello, è molto sostanziosa…Già, molto sostanziosa!”

Florian aveva ripreso a mangiare di gusto poi, forse infastidito dal sentirsi addosso lo sguardo indagatore di Xavier, aveva ripreso a parlare:

“Comunque: dico… venendo al sodo, Xavier, cosa vuoi fare? Io sto andando su in vetta, vuoi venire con me?” Florian aveva formulato l’ultima domanda quasi con un sorriso di sfida.

“Verso la vetta? Adesso? Ma hai visto che è completamente nascosta dalle nuvole? No Florian, non mi interessa, forse mi sarebbe interessato un tempo, ora non più.”

“Xavier, che diamine!” aveva esclamato Florian, allargando le braccia. “Si va su, passo dopo passo, appiglio dopo appiglio, non ti ricordi? Uff, ti facevo più coraggioso!… ah ah ah!”

Xavier aveva abbassato gli occhi e si era appoggiato con una spalla alla parete: “Coraggioso… ma cosa c’entra Florian… è una parola che non ha nessun significato per me. Ci siamo incontrati, dopo non so quanto tempo, avrei voluto semplicemente stare qui a parlare con te… a… ho un sacco di cose da chiedere, ci sono cose che vorrei capire… la vita, Florian, mi interessa la vita e tu mi parli della tua dannatissima montagna!”

“Ma cos’hai Xavier…” e intanto aveva cominciato a scuotere il capo con un ghigno canzonatorio, ma senza più guardarlo in faccia. “Prima mi hai chiesto cosa faccio io da queste parti, quando sei proprio tu a non sapere cosa ci fai! Mi sembri un fantasma, un fantasma che ha perso la memoria. Ma chi è che ti ha ridotto così? Ah, ho capito…” e qui aveva di nuovo girato lo sguardo verso di lui. “Forse la tua amica Isabela?”

“Isabela…” Xavier era visibilmente trasalito. “Come sai di lei, la conosci, e cosa sai di lei?”

“Oh… cosa so… sei tu che la conosci … bé, so che è proprio il tipo per te, ecco cosa so, la classica donna materna adatta a consolare chi spende la vita a farsi domande inutili, Xavier! Di cosa parlate tu e la tua bella, Xavier? Dei fiorellini del bosco? Della forma delle nuvole? Delle frasi portate dal vento ?”

Xavier aveva abbassato la testa, scuotendola leggermente, ma l’ultima cosa che avrebbe voluto era di mostrarsi mortificato di fronte alle stupide esternazioni dell’amico. Così si era alzato bruscamente, facendo quasi cadere la sedia ed era andato a sedersi dall’altro capo della sala, lasciando che Florian gli desse le spalle.

“Ok Florian, ok…finisci il tuo piatto e poi vai dove ti pare, tempo perso parlare con te…”

Seduto in fondo alla sala aveva per un po’ guardato la schiena dell’amico, che imperturbabilmente aveva ripreso a sorbire la sua zuppa e a bere il suo vino, poi aveva rivolto gli occhi all’unico testimone, peraltro molto discreto, della loro conversazione, l’oste, che, in piedi dietro il bancone con aria noncurante continuava a strofinare i bicchieri con una dedizione fin esagerata: che bisogno c’era – pensava Xavier stizzito – di far brillare i bicchieri come cristalli in un misero bivacco di montagna… per berci lo champagne?

“Mi porta un’acquavite, per favore?” gli aveva chiesto poi.

“Senz’altro signore… è sicuro che non vuole mangiare qualcosa?” aveva un accento strano, poteva essere un russo, o un polacco..

“Grazie… voglio solo un ‘acquavite.”

Mentre beveva aveva notato, a destra della credenza dei liquori, un telefono, un vecchio telefono a muro. Grazie a Dio, un telefono: era il primo che vedeva da quando era in quei paraggi, avrebbe voluto prendere in mano la cornetta, comporre il prefisso internazionale e poi subito il numero di Nora: sentire prima un lungo silenzio, poi un sibilo, e poi finalmente, da migliaia di chilometri di distanza, il flebile segnale di libero, una breve attesa con il cuore che batteva forte e infine il ricevitore che viene alzato, oh incredibile magia del telefono e la sua voce, la voce di Nora. Come stai Nora, sono qui, sono a El Chalten, è vero sono tanto lontano, non so neanch’io perché, ma so che torno presto Nora,è questione di giorni… Ma come poteva? Anche se Florian se ne fosse andato, c’era sempre l’oste che avrebbe ascoltato la sua conversazione. Con quel suo aspetto sornione non era il tipo che si sarebbe allontanato con una scusa qualunque per lasciarlo parlare a proprio agio. No, doveva aspettare, sarebbe ridisceso lungo il sentiero, il sentiero che lo avrebbe portato a El Chalten e lì sì, avrebbe trovato un telefono come si deve, in un luogo appartato o in una cabina, in un contesto più adatto al suo bisogno di privacy.

L’acquavite, quella ci voleva proprio, qualcosa che gli desse una scrollata, che gli permettesse di levarsi dalla testa senza rimpianti la delusione dell’incontro con Florian. Si era bevuto il bicchiere d’un fiato, era buona, era fuoco allo stato puro, ne aveva chiesta un’altra. Intanto Florian si era alzato, aveva pagato e mormorato qualcosa all’oste, poi si era messo su il giaccone e lo zaino sulle spalle e, avviandosi verso l’uscita non aveva potuto fare a meno di trovarsi ancora faccia a faccia con Xavier, il “vecchio amico” Xavier.

Che strana faccia gli aveva fatto: in piedi, già prossimo alla porta, si era fermato, aveva guardato in viso Xavier, ma non aveva più quell’espressione di sufficienza. Il suo sguardo era sempre duro, freddo, come dal momento in cui si erano incontrati, ma adesso sembrava voler far trasparire qualcosa di più complesso, qualcosa che veniva da lontano nel tempo, forse non uno sguardo di intesa, no quello era troppo, ma quanto meno di velata “complicità”. Un ‘allusione ad un passato che poteva ritornare o finire per sempre.

“Hai del tabacco con te?” gli aveva chiesto.

“No” era stata la risposta secca di Xavier. (Stronzo, tutto qui il tuo commiato? – aveva pensato. Ma poi aveva avuto come un flash di un istante – forse non mi ha chiesto se ho del tabacco, forse io ho inteso così ma la sua domanda era diversa, neri alberi contorti, forse… o il volo del condor, o Isabela…).

Poi Florian aveva aperto la porta facendo entrare per una manciata di secondi una folata di vento gelido: “Ahh Xavier, Xavier….” e se ne era andato.

Doveva essere cambiato il tempo, quella folata era davvero fredda.

L’acquavite alternava lungo la sua spina dorsale vampate di fuoco a fredde lame di coltelli.

(Aveva improvvisamente aperto le ali, divorato in volo chilometri di spazio fino alla sua casa, aveva aperto la porta, vi aveva sorpreso Isabela intenta a rammendargli la giacca, Isabela si era voltata di scatto, il suo volto era il muso di una volpe, occhi neri appuntiti come spilli…)

Aveva aspettato ancora dieci minuti, il tempo che Florian facesse un po’ di strada, poi si era alzato anche lui e si era congedato dall’oste ringraziandolo ed elogiando la sua acquavite.

Uscito dal rifugio aveva percepito subito che la temperatura si era notevolmente abbassata. Su, verso la cima, nuvole sempre più minacciose. Là in mezzo Florian, pensava. Aveva provato a cercarlo con lo sguardo per almeno cinque minuti, ma non lo si vedeva. Era ora di scendere, voleva seguire il sentiero fino in fondo, il sentiero che lo avrebbe portato al paese.

Poco dopo aveva già raggiunto il lago, se avesse svoltato a destra si sarebbe diretto verso la sua casa, seguendo il tracciato avrebbe dovuto arrivare ad El Chalten. Già: El Chalten, com’è che non gli era venuto in mente?

Era ancora scosso dall’incontro avuto con Florian, per fortuna anche quella sera avrebbe potuto trovare il conforto di Isabela e chissà, magari lungo la discesa si sarebbe imbattuto ancora una volta nel vecchio indiano. Aveva davvero tanta voglia di incontrarlo. Avrebbe voluto abbracciarlo, esternargli il suo bisogno di aiuto. Gli era anzi venuta un’idea. Per non correre nuovamente il rischio che le parole del vecchio venissero subito cancellate dalla sua mente, aveva pensato che avrebbe dovuto scrivere, prendere appunti mentre Tolhuin gli parlava. Il vecchio sicuramente glie lo avrebbe permesso o comunque nemmeno ci avrebbe fatto caso. Poteva sembrare una semplice stravaganza, non certo una mancanza di rispetto. Così si era fermato, si era tolto lo zaino e aveva cominciato a rovistare al suo interno alla ricerca di una penna e di un semplice foglio di carta. C’era un coltello, la borraccia, un cappello da pescatore, delle monete e… sì, c’era anche un foglio di carta, un unico foglietto mezzo accartocciato. Da dove veniva quel foglietto? Era scritto con una grafia nervosa e minuta, sembrava strappato da un agenda o da una moleskine. Un unico foglio strappato… e il resto del quadernetto… dov’era? Si era seduto ed aveva cominciato a guardarlo incuriosito. Sembrava facesse parte di un diario perché in alto sulla pagina c’era una data. La calligrafia era la sua, la riconosceva, anche se era il modo di scrivere che usava tanti anni prima. Era senz’altro la sua mano. Si mise a leggere, molte parti erano scarabocchiate ma tutto era perfettamente comprensibile:

15/1

Prima giornata piena trascorsa a El Chalten. Tempo splendido, quasi caldo. Fatto una bella passeggiata fino al lago. Saliti a coppie, Florian e Alice davanti, io e Nora un po’ più indietro. Chiacchierato con Nora….mi ha confidato una cosa che non mi aveva mai detto, che lei e Florian anni prima avevano avuto una mezza storia insieme.. niente di male, ho commentato, si conoscono da prima che arrivassi io…Credo che me lo abbia raccontato perché tanto ormai il nostro rapporto è ben consolidato, e anche Florian e Alice sembrano ben affiatati e felici insieme.

Arrivati al lago. Maestosa vista sulle montagne. Nora e Alice si son fermate lì, io e Florian abbiamo continuato fino ad un rifugio. Lì abbiamo mangiato un’ottima zuppa di carne e verdure. Florian lunatico come al solito… in quel paesaggio splendido, degno di ben altre conversazioni, abbiamo finito per litigare per sciocche questioni riguardanti l’itinerario della nostra vacanza… sciocche per me, non per lui… che nervoso… non capisco perché si impunta su qualsiasi cosa come fosse una questione di principio… siamo o non siamo in vacanza? Non so mai se fare il superiore e dargliela vinta o impuntarmi anch’io… Comunque niente di che, siamo scesi giù un po’ rabbuiati, mia unica preoccupazione che Nora non interpretasse nostre facce scure come derivante dalla confidenza che mi aveva fatto… quella non c’entrava per niente… nessun problema, poi si è appianato tutto, niente strascichi, niente sospetti, io e Florian di nuovo scherzato e riso insieme… speriamo questo litigio non abbia conseguenze prossimi giorni… francamente avrei…

Lì finiva la pagina.

Xavier aveva riletto la paginetta più di una volta, aveva studiato attentamente anche qualche frase cancellata, ma era cancellata con molta cura. Anche quello era nel suo stile, se qualcosa andava eliminato non ne dovevano rimanere tracce. Nemmeno nella pagina di un diario privato, che nessuno avrebbe potuto leggere all’infuori di lui. Aveva riconosciuto se stesso, la sua scrittura, emozioni che gli appartenevano; gli sfuggivano tuttavia tante altre cose, il contesto, la storia, il prima e il dopo. El Chalten.

E poi c’era il retro. Qualche riga scritta e accuratamente cancellata e poi linee, segni, frecce, strani ideogrammi, greche, ghirigori nervosi e ossessivi. Sembravano i segni lasciati da chi ha una biro e un foglio tra le mani e sta riflettendo o si sta annoiando o aspettando qualcosa. Non era allora questo la vita, annoiarsi e riflettere ed aspettare qualcosa? Meglio allora un’ esistenza senza ricordi, un fluido scorrere, rammendare una giacca, una volta e un ‘altra volta ancora, guardare tramonti sempre uguali e sempre diversi, stare seduto davanti ad Isabela a collegare inutili tessere di un domino, che importava se la notte lei fuggiva per qualche misteriosa spedizione o se il suo volto si fosse di tanto in tanto trasformato in quello di una volpe?

(E se quei ghirigori erano già la trascrizioni delle parole del vecchio indiano? Allora il vecchio raccontava la vita di Xavier, gliela spiegava, quei segni erano gli unici fonemi in grado di renderne il senso profondo…)

Si era rimesso lo zaino in spalla, il foglietto in una tasca dei pantaloni, stretto nel suo pugno, per poterlo estrarre ogni volta che avesse voluto mentre camminava e rileggerlo e rileggerlo ancora e poi ancora.

Così aveva fatto, mentre nuvole sempre più minacciose scendevano dalle montagne. Il vento cominciava a turbinare e un po’ più a valle, sotto un cielo di piombo, si delineavano le case del villaggio.

Faceva decisamente freddo nel momento in cui Xavier si inoltrava tra le prime abitazioni. Case di legno, tetti di pietra, capanni di attrezzi con coperture di lamiera che stridevano al vento. Più avanti gli sembrava di vedere un rozzo campanile ma la visibilità era sempre più scarsa.

Ad un certo punto gli era sembrato, radente alle case, di scorgere una figura di donna con l’inconfondibile incedere di Isabela. Camminava dandogli le spalle davanti a lui di circa un centinaio di metri. Per un attimo aveva pensato di non richiamare la sua attenzione, si sentiva quasi indiscreto all’idea di coglierla alle spalle, quasi l’avesse spiata e seguita. Però era sempre più angosciato e aveva un disperato bisogno di una presenza umana in quel paese che sembrava abbandonato. O tutti erano chiusi nelle loro case a causa del tempo che volgeva al peggio? Doveva piuttosto cercare una locanda che gli avrebbe fornito riparo. Magari avrebbe anche trovato un telefono. Senza neanche rendersene conto aveva cominciato a camminare a strappi, ora lentamente sbirciando tra le imposte delle case, ora guardando all’indietro, incespicando persino, ora facendo piccoli pezzi di corsa. Per pochi secondi aveva svoltato in una strada laterale poi era ritornato sul viale principale e in quell’istante aveva rivisto Isabela, era ancora distante un centinaio di metri ma non gli dava più le spalle, era rivolta verso di lui e lo aveva visto. Stava per chiamarla, quando lei improvvisamente si era girata e si era messa a correre: Isabela lo aveva scorto e stava scappando… come era possibile? Non lo aveva riconosciuto? Allora lui subito a chiamarla a gran voce; lei si era girata un attimo, ma poi di nuovo aveva ripreso a correre fino a scomparire fra le case. Isabela che fuggiva da lui era qualcosa che non poteva concepire, stava respirando affannosamente, voleva gridare, si sentiva davvero perduto. Che lei fuggisse perché lì, in quel luogo, nascondeva qualche terribile segreto? Al di là dei momenti trascorsi insieme, Isabela rimaneva per lui totalmente misteriosa.

Adesso aveva cominciato anche a nevicare e il bianco vortice accecante gli turbinava intorno. Di colpo sentì come se tutto stesse per sprofondare in un enorme baratro buio senza ritorno, sentiva come una rovina incombente.

Forse se invece che dirigersi al paese fosse ritornato a casa sua, come le altre sere, ancora una volta il vento sarebbe calato e le nubi avrebbero assunto i colori del tramonto, Isabela lo avrebbe trovato seduto sulla veranda e avrebbero trascorso ancora una tranquilla notte insieme.

Ma tutto ormai sembrava compromesso per sempre. Pensò a Florian, lassù in mezzo alla tormenta, pensò al vecchio indiano, forse anche lui aveva bisogno di aiuto, pensò anche al gestore del rifugio, lo immaginava ancora imperturbabile a strofinare bicchieri… e poi a Isabela, probabilmente anche Isabela era in pericolo. Ma di tempo per riflettere non ce n’era più. Ora era entrato in quella che sembrava una fatiscente locanda, naturalmente deserta e piena di polvere e sul bancone aveva subito notato un telefono, un vecchio telefono grigio, ah il telefono – pensava – quel cordone ombelicale di migliaia di chilometri che ancora lo legava debolmente al mondo. Tremando aveva alzato la cornetta, “con molta calma – diceva fra se – con molta calma”, non doveva commettere errori; aveva composto il prefisso internazionale, per fortuna lo ricordava bene, poi finalmente il numero di Nora che mai avrebbe dimenticato ed era rimasto in attesa, prima un lungo silenzio, una serie di scatti, impulsi che correvano chissà dove su cavi scossi dal vento, misteriosi allacciamenti nelle tenebre degli abissi, e infine il suono intermittente e un po’ stonato del segnale di libero, finché qualcuno dall’altra parte del mondo aveva alzato il ricevitore…

“Nora, sono io, sono Xavier, sono a El Chalten, Nora, ti ricordi di El Chalten? Non ho tempo di spiegarti, ma volevo dirti che sto tornando Nora, che torno presto… ma perché non parli… Nora… parlami, non mettere giù!”

La battaglia di Karl Ove Knausgård

1

[Dopo Emmanuel Carrère, Julian Barnes e Donna Tartt, quest’anno il Premio Malaparte, giunto alla XVIII edizione, è andato a Karl Ove Knausgård, autore di Min Kamp, La mia battaglia, un’opera autobiografica in sei volumi, tre dei quali sono già editi in italiano per Feltrinelli: La morte del padre (2014), Un uomo innamorato (maggio 2015) e L’isola dell’infanzia (ottobre 2015).
Quello che segue è il testo scritto da Giuseppe Merlino, membro della giuria presieduta da Raffaele La Capria, e letto in occasione della premiazione; dato che L’isola dell’infanzia usciva in Italia in quegli stessi giorni, qui di seguito si fa riferimento ai soli primi due volumi dell’opera.
Per gentile concessione dell’autore. ot]

 
di Giuseppe Merlino

Quel che ora dirò dei libri di K.O. Knausgård – «La morte del Padre» e «Un uomo innamorato» – lo dirò con prudenza e con la tacita riserva che potrei smentirmi e rinnegare il discorso tenuto oggi, se i prossimi volumi della sua grande opera, intitolata «La mia battaglia», dovessero mettere in luce l’inconsistenza delle mie osservazioni.
K.O. Knausgård è norvegese, nato nel fatidico 1968, e da alcuni anni residente in Svezia. Come ha scritto egli stesso, la sua vita è stata determinata da due soli fattori: suo padre, e il fatto che egli non è mai appartenuto a nessun luogo. Una irrequietezza costante; e viene in mente che san Tommaso, elencando i sintomi dell’accidia – ovvero la malinconia dell’intellettuale –, indicava la instabilitas loci, ovvero la non appartenenza, la inquieta mobilità. Vedremo poi se questa accidia speciale riguarderà, o meno, Karl Ove Knausgård.
Dichiaro subito quale è, a mio parere, il tema dominante di questi due primi volumi.
Roland Barthes dedicò nel 1976 il suo primo corso al Collège de France al tema, immenso, del Comment vivre ensemble? (e scelse come traccia costante il monachesimo orientale, con la sua dialettica tra cenobiti ed eremiti). Il suo corso voleva rispondere alla domanda: «a che distanza devo stare dagli altri per instaurare con loro una socievolezza non alienata, e una solitudine che non sia un esilio?». La domanda di Barthes assilla anche Knausgård che ha scritto di considerare “i pasti, l’intimità e la vicinanza come dei mali necessari”. Dunque il grande tema, che tocca anche i temi più circoscritti, è la prossemica, e cioè la scienza che studia le diverse forme della distanza e della vicinanza tra gli umani, e che cerca un dosaggio di lontananza e di prossimità che non raffreddi troppi i rapporti, né li renda soffocanti.
K.O. Knausgård ha un’inclinazione, un desiderio o una necessità di solitudine che lo spinge fuori dalla casa verso una simbolica cella, ovvero una “stanza solo per lui”. La sua cella è la trascrizione spaziale dell’interiorità e non tollera intrusioni (neanche la familiarità dei camerieri dei caffé di Stoccolma!). Questi primi due libri sono insomma il resoconto di un’ansiosa e insoddisfatta ricerca di un’ars vivendi.
Il primo libro, «La morte del Padre», è dominato dapprima dal corpo indecifrabile e imprevedibile del Padre; da questo corpo – e dai suoi poteri, quasi magici, di rendersi impenetrabile, di conoscere le cose accadute al di là del suo sguardo, di comparire senza fare il minimo rumore di passi, di registrare l’invisibile – deriva l’osservazione costante e ansiosa da parte del figlio. Il Padre condivide alcune caratteristiche con Dio, l’onniveggenza e l’onnipresenza e, come lui, agita il cuore del figlio (anxietas cordis) intimorendolo. Timor Patris, come timor Dei.
Questo primo libro è dominato dal corpo morto, e ormai legnoso, del Padre; dai segni escrementizi lasciati dal suo lungo disfacimento, abbandono e tracollo fino all’agonia e alla morte. Il Padre resterà insepolto, in un deposito, per dieci anni, quindi non sarà del tutto morto, e sarà vendicativo come sapevano bene gli Antichi, per i quali il non-sepolto scatenava le Erinni. Accanto al corpo del Padre, come suo riflesso secondario, ma memorabile, c’è il corpo scarnito e non lavato della Nonna, compagna incolpevole della caduta del figlio, testimone unica e silenziosa di quell’evento innominabile.
Il secondo libro, «Un uomo innamorato», tiene insieme molte rubriche.
L’apparizione di Linda e la passione impetuosa che ne scaturì; un’apparizione feconda di felicità: una folgorazione con beatitudine; è il discorso amoroso.
La vita domestica vissuta – a intermittenza – come una tirannia gravosa, e come esercizio ascetico per il miglioramento di se stesso; è la colluttazione etica.
Il cambio di Nazione – dalla Norvegia alla Svezia – che implica un’esperienza nuova di ipermodernità, di ipercorrettezza civica e di iperintellettualizzazione della vita; è il discorso sulle ideologie e i loro decaloghi.
La consuetudine di incontri con l’amico Geir Gulliksen, brillantissima voce saggistica e critico insuperabile delle forme sociali svedesi, formatosi alla migliore cultura antiliberale; è il discorso dell’amicizia.
E il rovello della propria scrittura, dapprima paralizzata e infelice, e poi fluida e abbondante come un fiume fragoroso; è il discorso delle Muse: inaffidabili e poi munifiche.
L’opera di K.O. Knausgård è apertamente autobiografica, laddove Proust, al quale è stato più volte accostato, chiede insistentemente di non giudicare mai il suo romanzo come un’autobiografia mascherata, e si affretta a scomparire dietro un Eroe ingenuo, un accudito da un Narratore perspicace.
Knausgård dichiara il suo intento autobiografico, senza alcun cedimento all’autofiction, così diffusa oggi, e cioè, a una autobiografia semifittizia. Knausgård, autobiografo, non scrive le Confessioni, come fece sant’Agostino, perché la sua non è una lunga lettera a Dio; non scrive un autoritratto, umanistico ed erudito, come Montaigne; né scrive un Mémoire al modo seicentesco perché non si cura della propria immagine presso i posteri; né scrive un’autobiografia che lo proponga come modello esemplare a un’Europa malata di troppa civiltà come fu il meraviglioso, settecentesco e spudorato libro di Jean-Jacques Rousseau.
E che cosa è, allora, questo lungo libro di K.O. Knausgård? E’ una battagliera Ricerca sulla propria esistenza, che, procedendo, imbarca ogni genere di materiali, di mezzi e di forme; che è narrativa, digressiva, retrospettiva e saggistica. Knausgård, un vero protestante, come gli dice il suo amico Gulliksen, tiene fede al duro patto dell’autobiografo con il lettore: ti dirò tutto di me.
La sua è una Ricerca della parte di verità che si annida in alcune parole che lo riguardano molto da vicino: paternità (vissuta da figlio e da padre), coniugalità, socialità, letteratura, finzione, morale, e altre ancora. K.O. Knausgård, come Proust, è un cercatore di essenze, ma che differenza tra le essenze dell’uno e quelle dell’altro! Proust cerca le grandiose essenze del Tempo e del Bello, intraviste nel dormiveglia, fugacemente emerse dall’oblio, e infine offerte nei momenti di estasi, cortocircuiti di sensazioni e memoria. La grande dimostrazione di questa Recherche finita bene si trova nel Tempo Ritrovato dove si proclama l’avvio dell’opera che abbiamo appena finito di leggere. Avvio fragile perché incombe la Morte.
Karl Ove Knausgård, come un filosofo medievale, cerca i realia, le realtà corporee e materiali, i volti, i gesti, i climi, i paesaggi, le evidenze millenarie, le realtà indiscutibili eppure svanite ora nel predominio delle immagini e nel primato moderno dello “spirito”: non più corpi, ma solo idee sui corpi. Egli cerca rocce nel mondo che è diventato liquido.
Le duecentocinquanta pagine del primo volume dedicate alla morte del Padre sono un formidabile esempio di questa sua ricerca. Il lordume sparso in tutta la casa dove il Padre è morto gonfio di alcol e di solitudine, la putredine, il fetore, l’alterazione mentale della Nonna, tutto è raccontato in termini visivi, tattili, olfattivi, corporei, materiali: anche lo strano dolore che prova Karl Ove si materializza in lacrime irreprensibili e copiose, senza discorsi.
E materiale sarà anche il racconto della ostinata purificazione della casa, grazie ai detersivi nominati di continuo e usati in abbondanza. I detersivi puliscono e riparano lo sfacelo, ma sono anche gli agenti insidiosi della contemporaneità: spalmano sul nostro mondo un identico olezzo, gradevole e falso; uniformano e confondono.
Ho detto del genere autobiografico della grande opera di Knausgård; ora direi una parola sul genere diario (nato del resto negli ambienti del pietismo nordico), che la riguarda e che piace all’autore. Del Diario, Knausgård abolisce la regola dell’annotazione quotidiana, ma accetta pienamente l’altra: la coesistenza di episodi e descrizioni minime, irrilevanti e impercettibili, con fatti memorabili e avvenimenti gravidi di conseguenze. Il risultato è un flusso, non una composizione gerarchica. Come il diarista, egli è un osservatore tenace del quotidiano e della ripetizione; un annotatore che verbalizza il vissuto e il pensato, che è cronista e analista. Come il diarista egli pratica la digressione, ma in maniera ampia e connessa col testo, e non stenografica come richiede il diario la cui misura è la pagina. La forma diario funziona anche da pro-memoria, aiuta il ricordo che in Knausgård è fluttuante e soggetto a profonde e vaste dimenticanze. Il diario è anche un’umile prova della esistenza di chi lo scrive, e forse perciò Knausgård si obbliga a osservare l’antico precetto del nulla dies sine linea, accompagnato da un cogito che suonerebbe così: scribo ergo sum.
Molte cose ancora mi piacerebbe poter dire sull’imbarazzo sociale di Knausgård, sulla sua imbranataggine maschile; sulla strategia della compiacenza da lui scelta, ovvero l’assunzione della mitigata menzogna, il mendacium officiosum come la chiamavano i moralisti, scusandola perché favoriva le relazioni sociali; sull’orrore provato per la propria femminilizzazione di padre casalingo, mentre in lui “si agita un furibondo maschio dell’Ottocento”; sull’innocenza che gli attribuisce l’amico Gulliksen; sui quadri da lui preferiti, che sono scandagli di strati dell’esistenza: Il Baro di Caravaggio, l’ultimo autoritratto di Rembrandt e un paesaggio di nuvole di Turner; e così via.
Ma non posso dilungarmi oltre e concludo con un’ultima, rapida osservazione. Definirei, provvisoriamente, l’opera di Knausgård come l’opera di un anti-moderno. Chi è l’anti-moderno, oggi? e restringo la parola alla vita intellettuale. E’ colui che sa che un mondo, una cultura o un’arte sono finiti, ma li ama ancora e li frequenta. Come disse Barthes di se stesso, essi sono la retroguardia dell’avanguardia.
L’anti-moderno stenta a uscire dal lutto per il passato e vive, in una tonalità malinconica che lo rende lucido e libero rispetto al moderno. Gli anti-moderni sono dei moderni sagaci e disillusi. L’esempio più lampante è Baudelaire che inventa la prima idea di moderno e si distoglie da essa.
A me sembra che Knausgård racconta e vive le sue tribolazioni morali dentro questa condizione intellettuale ed emotiva, e ha scritto perciò un’opera singolare, dissidente, avvincente e lungimirante.

“Dal corpo abitato”

7

copertinacorpo

di Matteo Pelliti

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Sistema cardiocircolatorio

Era l’ansia di avere
questo sistema cardiocircolatorio
perennemente fuori norma, fuori legge,
la caldaia è il cuore malato della casa,
l’ictus, l’infarto, il blocco improvviso.

Da alcuni mesi l’acqua calda non partiva più
se non stavano accesi pure i riscaldamenti,
eravamo già in piena estate.

ROBERTA BORSANI Il labirinto e il Minotauro

5

ganse1649a

Kurzer Bericht dieses Gänse Spieles [1649]

di Roberta Borsani

da ⇨ Sul dorso di un’oca
Il simbolismo iniziatico del Grande Gioco
ed. Moretti&Vitali [2015]

    Il Labirinto attende il giocatore alla casella numero 42. Finirci dentro significa regredire di un bel salto, fatto di 9 caselle all’indietro e finendo così al numero 33. Quarantadue: se si sommano le sue unità si trova il 6, lo stesso che si ottiene sommando 3 + 3: sei, il numero del ponte. A volte – ci viene spiegato allegoricamente – occorre tornare indietro per ritrovare lo slancio e correggere il tiro inseguendo la giusta misura tra entusiasmo e sacrificio. trentatré è un numero che parla da solo. Il numero della passione e della dedizione assoluta, resa fino alla morte. Al trentatré Dante ha dedicato nella Divina Commedia (narrazione poetica di un grande viaggio iniziatico) un’attenzione particolare: è infatti il numero dei canti che compongono ogni cantica (nell’Inferno sono 34 per la presenza di un canto introduttivo) e il numero dei versi di ogni terzina (strofa di tre versi endecasillabi).
Il labirinto è un simbolo potente, la cui origine si perde nella notte dei tempi. L’età antica mise la nascita della civiltà, una nascita drammatica e oscura, nel cuore di un labirinto. Posti al centro di un inestricabile groviglio, si trovarono faccia a faccia l’uomo e il mostro. Il primo trafisse con la spada il mostro e celebrò sotto gli occhi del cielo la vittoria dell’umanità sull’istinto, dell’ordine sul caos, della tecnica sulla forza, dell’intelligenza sul sangue.
La vicenda ha origine sulle coste del Libano, dove la bella Europa, fanciulla dagli occhi grandi e lucenti, viene amata e rapita da Zeus, il quale l’avvicina assumendo l’aspetto di un giovane toro. Europa lo incontra mentre gioca sulla spiaggia con le compagne. L’aspetto mansueto e giocoso dell’animale vince la sua naturale ritrosia, tanto che gli si spinge accanto per ornargli festosamente le corna di una corona di fiori freschi. Ecco che il toro dà uno scatto, la prende rapidamente sul dorso e incurante delle sue grida si getta nelle acque del mare, nuotando fino alle coste dell’isola di Creta. Qui, riassunte le divine sembianze, Zeus sfoga la sua passione e si unisce alla vergine.
Minosse, il primo re di Creta, è il frutto di questa unione. Divenuto adulto sposa Pasifae (“la luminosa”), una donna piena di nobiltà ma poco incline alla passione amorosa, se è vero che trascura il culto di Afrodite fino a farla infuriare. la dea, suscettibile e vendicativa, la punisce ispirandole una mostruosa attrazione per un toro. Bellissimo di aspetto, fa parte di una coppia di tori che il dio del mare Poseidone ha donato a Minosse perché li destinasse ai sacrifici celebrati in suo onore (Il dio del mare è potente a Creta). Minosse però, ammirata la possanza delle bestie, decide subdolamente di destinarla alle proprie mandrie, piuttosto che “sprecarla” per un sacrificio. I tori sacri vengono sostituiti con altri esemplari, sani e prestanti finché si vuole ma certo di valore inferiore a quelli di Poseidone. Colpevoli per ragioni diverse (per freddezza apollinea Pasifae, per avidità Minosse), i due sovrani vengono puniti attraverso la inaccettabile ferinità della passione di cui cade vittima Pasifae.
Decisa a sedurre il toro di cui si è perdutamente invaghita, la regina di Creta trova nel geniale Dedalo un valido aiuto “tecnologico”: una vacca artificiale, di legno, all’interno della quale la regina si posiziona di nascosto. Il risultato dello spaventoso accoppiamento è la nascita di un individuo dall’aspetto in parte umano in parte animale: il minotauro, toro dalla cintola in su e solo per il resto uomo. Ricorda forse altri esseri mitologici, come i centauri: ma il minotauro ha una caratteristica agghiacciante: la parte animale infatti domina laddove hanno sede ragione, linguaggio e sentimenti (testa, cuore, bocca), annullandoli.
Il Minoaturo è un essere bestiale, posto sulla linea di confine che separa le due nature, umana e animale: non è pienamente responsabile dei suoi desideri e delle sue azioni come lo è un essere umano e tuttavia, a causa della sua origine in parte umana, nemmeno innocente. l’ambiguità e la confusione (ricordo del connubio orrendo), lo caratterizzano intimamente, dilatandosi a comprendere anche lo spazio in cui vive. Il labirinto irradia intorno al Minotauro quel viluppo di passioni mostruose che la civiltà respinge come inaccettabili, facendone oggetto di divieto assoluto, un tabù. Chi lo infrange cade nel baratro di una maledizione eterna, senza perdono, che le generazioni scontano via via. Il labirinto racchiude al suo interno l’essere ripugnante, di cui Pasifae e Minosse si vergognano perché ricorda loro sia la caduta al di sotto del margine minimo di civiltà commessa da Pasifae, sia la disonestà con cui il re ha cercato di beffarsi del dio.
Il labirinto è stato ideato da Dedalo, responsabile agli occhi di Minosse di quanto è accaduto: senza il suo contributo, la sua techne, forse Pasifae non avrebbe potuto soddisfare le sue voglie e il Minotauro non avrebbe mai visto la luce, rimanendo come una cupa ombra a livello delle pulsioni larvatiche che popolano i cattivi sogni. Il figlio tarato, portatore delle peggiori degenerazioni, rappresenta simbolicamente il viluppo di istinti socialmente inaccettabili, radicati in parte in una natura ancora animale, su cui però la storia ha impresso il marchio dell’uomo. Tali istinti non possono essere considerati vitali, immediati e innocenti: un barlume di consapevolezza li illumina e li rende contorti e mostruosi. La strada che corre tra l’animale e l’uomo è lunga (milioni di anni dirà la dottrina dell’evoluzione delle speci): chissà quante volte si è avvitata su se stessa, chissà quanti ghirigori e giravolte. Quanti labirinti e degenerazioni.
Il Minotauro non ha normali appetiti: non umani e neppure naturali. Sono fatti di cerimoniali psicotici, da serial killer: domandano un regolare tributo di vergini, maschi e femmine, che ogni sette anni vengono inviati dalla Grecia per essere gettati nel labirinto e dati in pasto al mostro. Il tortuoso percorso attraverso cui insegue le sue vittime prima di divorarle, fa pensare a una danza, come scrive nel 1985 Friedrich Dürrenmatt («e quando lui cominciò a danzare, cominciò a danzare la fanciulla e le immagini di entrambi danzarono anche loro (…) Danzarono, e danzarono le loro immagini, e lui non seppe di prendere la fanciulla, non poteva nemmeno sapere che l’uccideva, perché non sapeva che cos’era vita e cosa morte»). La danza ci porta all’immagine della cerimonia sacra, della rappresentazione e quindi del gioco come mimicry. La natura del gioco che l’insieme delle vicende assume, configurandosi come complesso cerimoniale con regole, ritmi suoi propri (il sacrificio avviene a intervalli regolari di tempo, il numero dei sacrificati e le loro caratteristiche non mutano) smorza il senso di realtà, spogliando le coscienze di quanto di spaventoso e irreparabile sia l’evento delittuoso. È quel che accade nei delitti seriali, almeno come ce li raccontano i giornali o gli scrittori di genere. La serialità, i cerimoniali, l’allestimento preciso delle scene in cui si consumano i delitti, fanno pensare al gioco: in quel gioco, come dentro un labirinto, una mente già compromessa si smarrisce del tutto. La realtà tramonta dietro l’orizzonte dell’angosciosa finzione in cui tutto è possibile. Il rito smette di essere ponte salvifico tra l’umano e il divino, trascinando al contrario verso il basso dove il diabolico (principio di lacerazione) tesse la nera tela di un mistero che fa impazzire gli adepti.

Teseo e il minotauro
Teseo combatte il Minotauro, assistito da Atena
[430 a.C] Museo Archeologico Nazionale di Madrid

L’eroe infido e la coppia celeste

A uccidere il Minotauro sarà un giovane ateniese, Teseo, figlio del re Egeo, giunto volontario insieme ai suoi coetanei destinati al feroce pasto. Porta con sé una spada e l’orgogliosa consapevolezza di essere l’eroe predestinato a uccidere la Bestia. Il giovane però non conosce le insidie del labirinto: la sua audacia può condurlo ad assaltare l’avversario, colpendolo in un punto vitale, ma nulla sa dei disegni tortuosi dove la forza può ben poco e solo la sottigliezza della mente salva. Potrà uscire vittorioso dal labirinto se qualcun altro gli verrà in aiuto. Qualcuno che conosce la natura ingannevole del labirinto in cui sa destreggiarsi resistendo a false tracce e inviti bugiardi. Qualcuno che ha la danza così ben intimamente fissata da poterla danzare a occhi chiusi, senza perdere l’orientamento, conoscendo il centro e l’uscita. Questa figura di danzatore primario è rappresentata da Arianna, la figlia di Minosse. Disgustata dagli appetiti sanguinari del fratello e innamorata dell’eroe, metterà in guardia quest’ultimo dai pericoli che lo attendono e gli offrirà un filo da tenere legato al polso e da svolgere lungo le infinite giravolte del cammino. Dall’esterno del labirinto lei terrà stretto l’altro capo e permetterà a Teseo, una volta ucciso il Minotauro, di trovare la via d’uscita. In questa storia salvarsi significa infatti uscire, venire all’esterno, alla luce: emergere dalla confusione di pulsioni ossessive e mostruose alla chiarezza delle forme ben delineate, collocate nel giusto ordine. Il contrario del labirinto è il cosmo la cui bellezza sta nella misura, principio di proporzione e armonia. L’uomo garantisce mediante la proporzione della sua figura e la simmetria delle parti che lo compongono il modello attraverso cui giudicare la bontà dell’esistente. L’uomo di Vitruvio giudica il Minotauro e tutte le creature fuori misura o asimmetriche come inadeguate, primitive, malriuscite.
L’unilateralità di questo punto di vista, insieme ai pericoli a essa connessi, viene denunciata simbolicamente dallo stesso mito. Arianna ha aiutato Teseo nella sua impresa e non può restare presso la casa del padre e della madre che ha tradito mettendosi contro il suo stesso sangue (Arianna la luminosa e l’oscuro Minotauro sono entrambi figli di Pasifae). Pertanto decide di partire con il giovane principe ateniese che per ottenere il suo aiuto ha finto di corrispondere al suo amore.
Teseo è bello, valoroso, ma la sua apparenza solare non lo salva dall’insincerità e dalla freddezza di un animo opportunista e calcolatore. Il suo chiarore corrisponde al disegno lineare del gesto che compie l’arciere quando punta il suo obiettivo senza vedere nient’altro intorno a sé. Pura progettualità, in opposizione alla confusione brutale in cui si dibatte il Minotauro, afferra da Arianna il filo, espressione di razionalità ma anche del legame che unisce le creature fra loro. Lo afferra ma non lo accoglie: lo considera solo uno strumento, privandolo di tutte le valenze simbolico– affettive che il filo può avere.
Infatti, giunto all’altezza dell’isola di Nasso, l’astuto ateniese fa fermare la nave e sbarca insieme alla principessa. Attende che lei si addormenti e poi la abbandona senza apparente rimorso, facendo rotta per Atene, dove un’altra vita lo attende, una vita in cui per Arianna non c’è posto.
Fortunatamente, al risveglio, la giovane ha appena il tempo di disperarsi: giunge infatti in suo aiuto Dioniso. L’imprevedibile dio beve con viva partecipazione il doloroso racconto della sua storia infiammandosi di nobile passione. Subito le chiede di divenire sua sposa e la introduce nelle alte sfere degli immortali, donandole in pegno di amore eterno la corona gemmata che porta sul suo capo biondo di dio. Il gioiello, lanciato in aria, va a formare la corona astrale boreale. Le nozze vengono celebrate alla presenza dei numerosi personaggi che viaggiano al seguito di Dioniso recando in mano i magici tirsi. Infine la coppia svanisce su un carro d’oro trainato da sei pantere.
Spicca il contrasto tra Teseo, eroe solare dai risvolti così meschini, e Dioniso, dotato di grande empatia e impulsivamente generoso, capace di giurare un amore eterno. Tra le molte versioni del mito, alcune raccontano che sia stato Dioniso a ordinare a Teseo di abbandonare Arianna. La sostanza non cambia: quello che conta infatti non è la natura psicologica o morale dei personaggi, ma le ragioni per cui la coppia Teseo-Arianna non funziona e quella Dioniso- Arianna invece sì.
È evidente che Teseo tratteggia le caratteristiche di un maschile immaturo e incompleto: realizza il compito di uccidere la bestialità che ambiguamente sopravvive nell’uomo, uccidendo anche tutto ciò che di empatico e non riducibile alla razionalità finalizzata al successo, vive nell’uomo: emozioni, solidarietà umana, pietà. Chi ha ucciso il Minotauro ha brillato di un eroismo marziale inadeguato agli alti compiti del regno. Non può regnare chi non sa accompagnarsi a una sposa come Arianna, colei che con il suo filo fa nascere (facendo uscire dal un mondo tutto intestino e sotterraneo). Spumosa incarnazione della dea madre.
Nel labirinto ci si può perdere per sempre e perire, ma per chi ne conosca i segreti uscire è possibile. L’uscita però non è meno pericolosa dell’entrata: ne sa qualcosa Dedalo, ideatore del labirinto e perciò condannato da Minosse a rimanere prigioniero all’interno della costruzione con il figlio Icaro, affinché non riveli a nessuno la via di fuga. È per scampare all’orrenda prigionia che escogita lo stratagemma delle ali di cera, a causa del quale Icaro perisce miseramente cadendo in mare. Infatti, preso da eccessivo entusiasmo, si avvicina troppo al sole, i cui raggi scaldano e infine sciolgono la cera. Anche Icaro, come Teseo, viene punito da un principio luminoso e solare che per essere “maneggiato” va mescolato con giuste parti d’ombra.
Teseo è bruciato dalla sua ragione astuta e finalizzata all’utile, capace di frodi e raggiri (versione astratta del labirinto): incontrerà la sua punizione perdendo il padre, che prima di partire, incerto del risultato dell’impresa, gli aveva chiesto, in caso di successo, di tornare ad Atene con vele mutate e di colore bianco. Nella fretta di abbandonare Arianna, Teseo dimentica di cambiare le vele e torna in patria con quelle nere utilizzate all’andata, quando la nave portava il triste carico di giovani da sacrificio. Scorgendole il padre Egeo si getta disperato in mare: Dedalo perde il figlio e Teseo il padre. Entrambe queste tragedie hanno a che fare con l’astuzia umana che sfida l’ordine naturale delle cose: Dedalo permette a Pasifae di unirsi con un toro costruendo la macchina a forma di vacca, Teseo raffredda le corde del cuore e abbandona colei che lo ha tratto in salvo e lo ha fatto nascere come eroe – eroe non di una semplice avventura, ma fondatore di civiltà. È infatti propria della civiltà la repressione della brutalità e del commercio di sangue implicito nei sacrifici umani.
La figura di Teseo sbiadisce nelle foschie del tradimento. Non è su uomini semplicemente agili e ambiziosi che può fondarsi una civiltà. Per farlo ci vuole profondità, quella che Dioniso ha in abbondanza. Nel mito Dioniso raffigura un maschile positivo, “alternativo”: solare e lunare insieme. È lui lo sposo ideale di Arianna, bella genitrice di eroi ed evocatrice di destini, rappresentati simbolicamente dal filo che, come Cloto, essa genera dallo stame della vita. Lo stame è la parte fertile maschile del fiore: come Dioniso ha in sé il femminile, così Arianna porta con sé la forza generativa del maschile. Entrambi costituiscono una coppia particolarmente riuscita, fatta dell’unione di elementi complementari e ciascuno abbastanza completo e maturo da non creare un rapporto simbiotico.
Chi ha conquistato l’equilibrio interiore e la libertà dello spirito, integrando tutte le energie fisiche e psichiche, maschili e femminili, centripete e centrifughe, può superare il rischio mortale del labirinto e scoprire, nell’atto del fare dono di sé, l’accordo profondo tra avere ed essere.

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Guscio dello spirito

Uno dei luoghi più importanti della Cristianità, centro d’attrazione attraverso i secoli per migliaia di cristiani e inestimabile tesoro per gli storici dell’architettura religiosa, è la cattedrale di Chartres. Sul suo pavimento fu collocato un labirinto, composto da un percorso ondulante, fatto di giravolte che si snodano attraverso centri concentrici. Seguendolo non ci si perde, ma si ritorna al centro, al punto in cui partenza e ritorno, alfa e omega coincidono – Dal centro si può quindi ripercorrere il cammino e ritrovare l’uscita.
Nessun immagine di disordine quindi, solo complessità. «Attraversandone le giravolte… si scopre che non si tratta di un labirinto, nel senso che offre una confusione di scelte, ma piuttosto un tracciato ondulante attraverso cerchi concentrici, che porta inevitabilmente a casa».
Il Medioevo ha una naturale avversione per il disordine, che non combatte con la misura e la proporzione nel modo della cultura e dell’arte classica, ma con la gerarchia, fatta di livelli diversi, ciascuno correlato agli altri, anello di congiunzione fra gradi distinti. Del resto anche il labirinto cretese ha un suo ordine: è unicursale, presentando un unico percorso che, svolgendosi attraverso sette spire, porta al centro e poi di qui, ripercorrendolo all’indietro, nuovamente all’entrata.
Sul labirinto della cattedrale di Chartres i bambini giocavano, come i bambini di ogni tempo hanno giocato e saltellato su tracciati del “mondo”, a forma d’albero o a spirale. Disturbavano forse il momento serioso delle omelie, tanto che nel 1799, quando ormai il senso potente della rappresentazione simbolica era andato perduto, sostituito anche in ambito religioso da una visione più razionale della realtà e da una morale utilitaristica, il labirinto fu rimosso dal pavimento.
I percorsi labirintici tracciati sui pavimenti delle cattedrali medievali erano considerati validi sostituti dei pellegrinaggi nei luoghi santi, per questo venivano chiamati anche “Chemins à Jérusalem”: il devoto doveva percorrerli in ginocchio, pregando, con un rosario attorno al collo.
Il labirinto viene così a costruire una sorta di guscio all’interno del quale si nasconde l’essenza del sacro, che va protetta dalla superficialità e dalla faciloneria di chi pretende di ridurre anche il dialogo con Dio al frasario convenzionale dei manuali di catechismo.
Luogo di smarrimento, come i boschi delle fiabe in cui bambini e fanciulle si aggirano cercando il sentiero verso casa o un lumicino, il labirinto rappresenta una esperienza indispensabile per chi voglia maturare la pazienza, l’umiltà, la prudenza: virtù necessarie in ogni apprendistato, anche in quello dello spirito. Il mistico può saltare le tappe perché tutto in lui arde e vola verso l’alto come la punta estrema della fiamma. Chi invece varca per la prima volta le porte del mistero che circonda il divino deve muoversi con circospezione, sviluppando una nuova sensibilità: una esclamazione affrettata, un gesto troppo brusco, una parola di troppo potrebbero dissolvere la nube su cui posa il dio e annullare il viaggio. Il labirinto può parere una inutile perdita di tempo a chi pensa al fine come a una conquista e cerca passaggi e scorciatoie per arrivare più presto. Ma all’uomo di spirito il labirinto insegna le giuste movenze, tra introversione ed estroversione, riproducendo il percorso di ogni nascita: quello che il nascituro prossimo alla luce compie, strisciando nello stretto canale uterino, tra fibre che si contraggono e si rilasciano (contrazione ed estensione), polmoni che inspirano ed espirano, avanzando e – in misura minore – tornando, combattendo palmo a palmo contro la paura e la tentazione della rinuncia (il risucchio).
Il cervello umano, rinchiuso come una preziosa reliquia nella scatola cranica, presenta una struttura un po’ labirintica, determinata ad esempio dalle circonvoluzioni cerebrali, protuberanze di forma ondulata delimitate da solchi. la corteccia cerebrale appare come tutta accartocciata, con l’aspetto dei gherigli di una noce, contrassegnati da sporgenze e irregolarità, molto simili ai due lobi del cervello. A sua volta questo prezioso frutto, che in passato forniva la giusta riserva di serotonina, vitamina E e B6 e di grassi omega 3 (tutti ingredienti indispensabili al nutrimento del cervello) alle popolazioni contadine, ricorda nell’aspetto variamente segnato da rientranze e rilievi ondulati, il labirinto. Con il suo guscio la noce richiama inoltre il tabernacolo in cui si nasconde il corpo di Dio divenuto pane, nutrimento e salvezza dell’anima (e la noce è stata appunto definita il “cibo del cervello”, organo del corpo in cui ha sede la mente). Il senso è sempre quello di uno spazio sacro ben raccolto e protetto, in cui il profano non deve guardare. Il guscio rappresenta per analogia gli ostacoli da superare, la difficoltà del cammino, evocando le virtù dell’umiltà e della pazienza, indispensabili a chi voglia tornare a casa (il centro) e nutrirsi del pane di Dio. Pane per tutti gli uomini di buon volontà.

CHARLES PERRAULT Le Labyrinthe de Versailles [1677]
Incisioni di Jacques Bailly [Crédit: Petit Palais/Roger-Viollet]

MARIN MARAIS [1656-1728] Le Labyrinthe [Jordi Savall]


Il Labirinto di Versailles

Negli ultimi decenni dell’epoca rinascimentale si diffonde in Europa una particolare architettura labirintica, di natura vegetale: il labirinto di siepi. Fu costruito nel 1677 nella reggia di Versailles durante il regno di luigi XIV, il “Re Sole”, fautore dell’assolutismo monarchico. Lo corredavano trentanove fontane, arricchite di particolari scultorei in metallo dipinto raffiguranti gli animali della favole di Esopo, dalle cui bocche sgorgavano getti d’acqua e fontane, a rappresentare la forza vivida della parola con un effetto, stando alle testimonianze, di straordinaria efficacia. Gli animali, tratti dalle più note favole di Esopo, scelte dal re in persona, parevano vivi. Una placca portava inciso un riassunto in versi della particolare favola cui la scultura era dedicata.
Ideatore di questa originale versione del labirinto era stato lo scrittore di fiabe Charles Perrault, il quale aveva suggerito al re di utilizzarlo per l’educazione del delfino, il primogenito di 7 anni, il quale, pare, imparò a leggere decifrando i segni incisi sulle placche di bronzo.
Perrault lasciò ai posteri una minuziosa descrizione del giardino (sostituito nel 1778 per ordine di Luigi XVI con un più pratico giardino all’inglese) nel libro Le Labyrinte de Versailles, illustrato da magnifiche incisioni. Sappiamo così che l’organizzazione dello spazio era davvero insolita: non c’era un punto centrale verso cui dirigersi, le siepi erano alte addirittura 5 metri: smarrirsi per i cortigiani non era affatto impossibile. Tuttavia, a chi sapeva decifrare il significato allegorico degli animali e imparava a ponderare scelte e soluzioni, il labirinto rivelava i suoi segreti e si lasciava esplorare. Segreti, non più misteri. Intimità di anime annoiate e complicate, tortuosità psicologiche e morali cui occorreva insegnare lo spavento del disordine, la paura di non farcela a ritrovare la strada del ritorno, il pericolo insito nel fascino dell’illusione. E tutto questo perché l’uomo di corte andasse a rifugiarsi nelle braccia del re: principio unico, lui, di ordine e misura, garanzia di certezza e realtà. Il labirinto è la riproduzione artistica della selva, in cui il cortigiano di Versailles non corre certamente il rischio di perdersi, irretito com’è nel gioco di luci della reggia: un caleidoscopio di eleganza, stupore ed emozioni, ideato dal sovrano. Un labirinto in cui gentiluomini e dame smarriscono il sentimento della propria irripetibilità passeggiando in su e in giù, senza andare in alcun posto, conducendo una vita fatta della trama di cui sono fatti i sogni. Il regista luigi XIV intanto pensa allo Stato, disegna le strade, costruisce i ponti, predispone carrozze su cui possano viaggiare gli uomini d’affari e i forzieri pieni di monete ricavate dalle imposte, i soldati e le casse di polvere da sparo, gli ordini del re e le merci.
Scintillante di meraviglie, affollato di cuori palpitanti d’emozione e di esclamazioni allarmate e poetiche, con le sue fontane alimentate ad arte dall’acqua della Senna, e i suoi animali parlanti, il labirinto di Versailles ha perso legami con il sacro. È toccato anche a lui di diventare instrumentum regni. l’iniziazione a esso connessa è pertanto perduta e si è trasformata in insegnamento moralistico. Lo scopo non è più il centro (che infatti non c’è più): non Dio e neppure il Bene. Semmai l’adattamento sociale, frutto dell’obbedienza, scambiato per il bene dal senso comune. Restano tuttavia le testimonianze di un’opera artisticamente ammirevole, che ha ispirato anche il noto musicista dell’epoca, Marin Marais, il quale al bel labirinto ha dedicato una sapiente composizione, in grado di riprodurre attraverso le note lo stupore, lo smarrimento e il sollievo finale del visitatore.

Anteprima Sud. 23 novembre 1980

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L’Ottanta

di Giusi Marchetta

L’ultima volta che sono tornata a Caserta, è venuto pure lui per conoscere mamma. È stato bravo: ha bevuto il caffè e ha detto che era buono, si è tenuto il gatto addosso e ha fatto finta di niente quando lei mi ha fatto notare che gli restano pochi capelli. Alla fine della visita è sceso in cortile a fumare e a lasciarci un po’ da sole per dirci le cose che davanti a lui non avremmo detto.

Più tardi l’ho trovato sulla panchina di fronte a fissare il palazzo.

– E quella?

È una crepa sottile, un lungo ghirigoro che rompe la monotonia rossa della facciata.

– L’Ottanta – dico e basta. Sono trentacinque anni che sento questa risposta e non c’è mai stato bisogno di aggiungere altro. Fa sì con la testa. Ha capito.

Pensa al terremoto, ai morti sepolti sotto le proprie case. Lo pensa perché non sa niente di Carmela e non sa che tutto è crollato per colpa sua.

Abitava nel nostro palazzo, al piano di sotto, con la madre e un padre che quando Carmela era molto piccola avevamo visto salire su un’ambulanza e che non era più tornato. Sapevamo che era vivo perché la moglie andava a trovarlo in clinica una volta a settimana, lasciando la figlia a chiunque si offrisse di tenerla, ma di che malattia si trattasse a noi bambini non era dato saperlo. Del resto ci sembrava normale e perfino giusto. Molti di noi già avevano già capito che il mondo degli adulti era molto simile al teatro della parrocchia: dietro le quinte Calabrò era il salumiere che se capitava bestemmiava con trasporto; quando usciva sul palco con la tonaca di don Bosco gli cambiava pure la voce.

In compenso conoscevamo molto bene lo spazio tra le panchine del cortile e il campo giochi, quel morso di terra invaso dalle erbacce dove i ragazzi buttavano le cartelle per fare le porte e giocare a pallone. Passavamo interi pomeriggi sedute sui marciapiedi grigi tra le palazzine: inventavamo storie o vendevamo paccottiglia ai passanti. Qualcuna portava le sue bambole, a qualcun’altra non era permesso e dovevamo darci appuntamento sotto il suo balcone a un’ora precisa per darle la possibilità di mostrarci da lontano l’ultimo acquisto. Qualche volta non andavamo per non darle soddisfazione. Eravamo tranquille, buone, educate tranne quando smettevamo di esserlo. Sempre meglio dei maschi, comunque.

I miei genitori si erano sposati a diciott’anni e io ero arrivata poco dopo, troppo poco agli occhi di chiunque. Li avevano perdonati, però, perché erano innamorati e bellissimi con occhi nocciola e capelli neri e folti come criniere. Col passare degli anni i vicini perdevano il lavoro, avevano figli da allattare o mantenere, cominciavano a tenersi la barba o la pancia, si sformavano in viso e sui fianchi. I miei no.

Mio padre andava al lavoro fischiando. Gli piaceva l’edicola e l’odore dei giornali appena stampati. Quando passavo a trovarlo mi dava la settimana enigmistica da portare subito a casa; era appena arrivata, non ce l’aveva ancora nessuno, diceva e mi faceva pure l’occhiolino, ma io lo sapevo che anche quello era per lei. L’amavamo moltissimo tutti e due, ma era naturale, un sentimento dovuto: nessuna donna delle palazzine era come Caterina.

All’uscita di scuola, le altre madri mi fermavano per chiedermi sorridendo della bella ragazza che mi aspettava al cancello. Era mia sorella grande? La raggiungevo di corsa, ci allontanavamo insieme, mi sentivo il loro sguardo sulla schiena che ci seguiva, serio.

Carmela, invece, la odiava. Aveva solo un anno più di me, ma già sapeva mescolare la perfidia ai gesti quotidiani in piccole dosi per renderli abbastanza amari da sopportare senza che sconfinassero in un’aperta ostilità. Quando Caterina passava per le scale, rimaneva seduta con il libro tra le mani, come se fosse stato impossibile interrompersi per farsi da parte. Se la incontravamo dal fruttivendolo, cercava di incrociare il mio sguardo poi increspava le labbra, baciando il nulla. Accanto a me Caterina scherzava con Michele per farsi mettere più odori nella busta.

C’era in quell’ostilità e in quelle smorfie un’accusa non detta e che neanche capivo. Qualcosa che aveva a che fare coi tacchi di Caterina o l’attenzione che il mondo le riservava.

Ricordo anche pomeriggi di pace, certo, quando giocavamo in cortile unendo i nostri pochi giocattoli. Allora mi sembrava quasi che fossimo amiche. Altre volte mia madre attraversava in fretta il cortile inseguendo qualche incombenza; Carmela aspettava che si allontanasse, poi prendeva la sua unica Barbie, le allargava le gambe, la faceva ondeggiare in una camminata oscena.

– Chi sono? – chiedeva. Le altre ridevano.

 Stavamo in due classi diverse, ma pure la scuola mi doveva tradire.

La maestra Anna ci aveva insegnato La canzone del Piave: la conoscevamo tutti a memoria. Carmela si ritrovava una voce bellissima perciò la usava spesso, nei corridoi, in cortile o per le scale, cantando ovunque del Piave o così mi sembrava, finché non ho capito che il motivo era quello ma non le parole.

Michele mormorava calmo e placido al passaggio

di Caterina il 24 maggio

Era stupido. Era irritante. Ed era autunno quindi non c’entrava niente.

Eppure non lo raccontavo a casa perché di Carmela avevo paura. Non paura che mi picchiasse come capitava qualche volta con i ragazzi del rione quando pensavano che avessi due lire. Avevo paura per Caterina. A volte la sognavo che piangeva e mi chiedeva che voleva quella da lei.

Smisi di scendere in cortile. Bastava che mi vedesse sul balcone, però, che subito attaccava con la melodia senza parole e io sapevo che lo faceva perché tanto le parole ce le avrei messe io.

Poi, una sera.

Papà era a Macerata perché il nonno era caduto da una scala. Caterina aveva un che da fare, così, per non lasciarmi sola, mi ha spedito a casa di Carmela. Sua madre ci ha detto di finire i compiti e di fare le brave. Non è mai stato un problema per me.

Mentre cercavo di concentrarmi, lei ha ricominciato. Non mi è più capitato di sentirmi formicolare le mani così tanto, di afferrare qualcuno con la stessa forza. Con Carmela è stato facile: aveva ancora il grembiule addosso e il colletto sporgeva. Le ho sbattuto la testa sul pavimento e lei mi ha stretto i polsi. Ci siamo fissate per un po’, rancorose, ansimanti.

– Tua mamma è una zoccola.

– E chi lo dice?

Sua madre lo diceva.

Siamo salite per le scale di nascosto. Un po’ di sangue le macchiava il mento perché nella lotta s’era morsa un labbro. Non mi dispiaceva. Ci siamo sedute sulla rampa che andava al piano di sopra, dietro al muro, abbiamo aspettato. Dopo poco si è aperta la nostra porta di casa e Michele è uscito come se niente fosse. Gli sono andata dietro sul pianerottolo ma lui non se n’è accorto. Non riuscivo a muovermi e non ci sono riuscita neppure quando la porta si è aperta e Caterina è comparsa e ha fatto un piccolo salto all’indietro. Ci siamo guardate.

Allora ho sentito Carmela, la sua voce trionfante.

– Hai visto?

Poi tutto ha cominciato a crollare.

 Se mi chiedono dell’Ottanta dico che non ricordo ed è vero: ero piccola, non ricordo. So solo che per me è stata una domanda a dare il via a tutto.

Hai visto che la tua famiglia va in pezzi?

Ho visto.

Decido adesso, su questa panchina, che a lui dirò di quando la mia paura più grande si è realizzata e ha crepato il palazzo. Gli dirò anche che non capivo allora, ma che adesso, passati i quaranta capisco.

E gli racconterò di mia madre che ci ha tenute strette me e Carmela e ci ha salvato la vita. Gli racconterò quella notte passata in macchina noi due sole, delle scosse del mondo fuori e di quelle senza fine nel mio petto, della mano di lei sulla mia testa, di quando ha detto dormi e tutto ha smesso di crollare e io mi sono addormentata mentre Caterina vegliava sulla nostra casa e la teneva in piedi finché papà non fosse tornato.

marchetta-servino

di fantasmi e stasi. transizioni.

4

di Gianluca Garrapa

[cinque testi inediti]

su questa mano stretta attorno all’aria della mattina. non c’è la compatita morte di chi avete ucciso. i morti uccidono i vivi e poi li chiamano suicidi. sboccia nella loro mente come un vaso di ceramica la cattiveria alimentata dalla cultura dei libri. e non sanno altro che vincere e leccare i piedi al cielo di turno che li renda meno anonimi. non ho amici che nei profili stranieri degli esseri venuti da lontano. che sanno l’indifferenza, che sanno l’estraneità della loro incomunicabile sofferenza. non ci credo al sapere che ha armato torturatori e arma carnefici. beata ignoranza della prima infanzia quando ogni macchia rosa è un respiro che odora. maledetta la nostra perbene competizione. noi che beliamo la nostra compiacenza a chi non ci dice mai la verità, noi che siamo amici di tutti e di nessuno. noi che non abbiamo capito nulla della solitudine dei gatti sepolti nelle nuvole della morbosità.

*

un paesucolo di ardesia rossa che fuma occasionalmente. punte bianche di sigarette sull’autostrada remota accese dai motori della civiltà veloce. scenari vegeto-terrestri immobili ondulati fino alla fine del mondo minerale. grosse masse di nuvole vestite da fata turchina. il tempo è un bugiardo organismo appeso ai tendini della corsa. ascensori brulicanti di tappeti persiani affacciati sulle valli del museo leonardiano. basse rondini e ombre fumose di cartoon in un paesucolo di ardesia rossa che fuma cogitabondo.

*

di quei microstati nello spazio dei cambiamenti mondiali, evidenziati dalla striscia triste di una casupola fluorescente, nella voluminosa spuma grembo-acida del prato, lungamente gongolante al cinguettio lusinghiero di un neon, che ne feriva l’uscio, adocchiando, appena dietro il porta- ombrelli, alcune misere gocce di pioggia pomeridiana, dai cieli plumbei di aerei e morte, sulle sofisticate macchine di prevaricazione cieca e abbindolata ai letali demoni galattici del petrolio, lacrime piovane della stessa sostanza cromatica e anonima, trasparente, effimera oltre il dovuto, tipica di quei microstati nello spazio dei cambiamenti mondiali.

*

sui treni elencando il 1944. le giornate bustrofediche e plenarie di sole nebuloso e finanziamenti illeciti. i vassoi nell’argento schittato di panna e cioccolato e crema elettronica. le sedie imbalsamate di odio razziale e rivestite di sabbia tenue, che a guardarla restava sotto le unghie. molti rumori dalla stanza di un’abitazione lontana mille miglia dalle carrozze stipate di anidride e sudore bianco e, dai corridoi sventrati di voci, silenzi ancora più frastornanti, sui treni elencando il 1944.

*

gli alberi hanno sangue incorporato che gli occhi umani non vedono perché non è rosso. gli occhi umani hanno esercizi di stile per distinguere l’umano dall’umano. l’uomo dalla donna, la donna dalla donna, l’uomo dall’uomo e la pasta dal riso. i vasi, d’altro canto, non possono che contenere fiori contenendo un imbuto che contiene anche i fiori da loro contenuti, e l’occhio che li sfiora, scivolando sul diagramma inconscio degli odori (sempre che il possessore dell’occhio abbia sufficienti capacità sinestetiche, introspettive e taumaturgiche), si chiude, di luppolo e senso di responsabilità mediocre, vigliacco davanti alla morte, martire del vuoto che lo crocifigge, marito di una felicità puramente chimica, moglie di una saggezza che è solo nei libri, amante dell’irrealtà del reale tanto da credere, fermamente, che gli alberi hanno sangue incorporato che i suoi occhi, privi di clorofilla, non vedono perché non è rosso.

Tra la esse e la zeta. Una riflessione sul dettaglio

3

 

di Giulia Scuro

Sono in metro, un uomo si siede accanto a me con aria corrucciata, ma ha la busta regalo di una pasticceria, tiro un sospiro di sollievo. Vedo una coppia di ragazzi camminare a passo spedito, seguo senza volerlo le loro schiene, le nuche, tesa come un falco al succedersi dei passi, poi loro entrano in un negozio di abbigliamento e io ritorno ai miei pensieri. Riconosco in me una Miss Marple in erba, ma un’erbaccia incolta, qualche zolla di prato in un terreno pieno di pozzanghere e buche. Mi rendo conto di avere inconsapevolmente sviluppato una segreta attenzione ai dettagli che adopero puntualmente sui passanti, coloro con cui condivido quello spazio pubblico che reca con sé l’esposizione – sociale o asociale – alle circostanze. Perché anche spostarsi da un luogo privato all’altro non può prescindere dall’attraversarlo, fosse anche per un minimo tragitto.
È sempre necessario riappropriarsi del mondo, anche se nella maggior parte dei casi si cerca di dimenticarlo. Come quando si considera sciocco informarsi su un’eclissi di luna, in quanto evento che non ha rapporti di causa o effetto con la nostra vita, e ci si dimentica che è l’unica occasione che ha un uomo comune per vedere l’ombra del mondo stesso in cui vive, di cui si ricorda solo quando deve cedere il passo alle sue incombenze – siano esse naturali come gli eventi atmosferici, oppure innaturali e irragionevoli, irrazionali o razionali azioni dell’uomo. E allora alla stazione faccio la differenza tra l’uomo che mangia un panino con gusto e quello che gira da solo, indossando una giacca inadeguata al freddo che fa, magari portando con sé poco più di una piccola busta di plastica stropicciata.
Esercito un piccolo e personale, seppur fitto filtraggio della specificità dell’estraneo: ha un passeggino, una rivista, del cibo, ascolta la musica con le cuffie, ha un cappotto vistoso, chiacchiera con qualcuno, o non ha nulla a difenderlo dal tempo o dallo spazio? Mi dico che, se ha uno degli oggetti che ho individuato, non si farà saltare in aria, non può essere un terrorista. Io, che non posso capire cosa spinga un uomo a indossare un gilet esplosivo, posso solo illudermi di distinguerlo dal mio simile terrorizzato, e presumibilmente non terrorizzante. A rifletterci ora, realizzo di riconoscermi in colui che, d’istanza, tende a difendersi abitualmente dalle ingerenze esterne, aggiudico fiducia immediata a coloro in cui percepisco il medesimo barcamenarsi nella vita con una bussola simile alla mia. Comprendo il suo senso del mondo grazie al condiviso bisogno di non privarsi mai di una fetta di privato – che sia una musica o una lettura scelta, ma anche un videogioco – in un pubblico spazio indeterminabile, comune e indeterminato.
La cultura occidentale è costruita in larga misura su un assunto fondamentale: superare la paura della morte. Cosa può esserle allora più incomprensibile di un kamikaze? Già il termine presenta grafemi che nell’alfabeto latino preludono a una presenza esotica, poco nota, come l’abbandonata k e l’inconsueta z: sonorizzazione estrema di una più consona s. S come sicuro, sospensione, stato. Tre parole che hanno in comune l’ambizione opposta al vuoto e l’illusione di un mancato servilismo mai annunciato, più facilmente perseguito con sonniferi o altri stimoli – sesso, stordimento, stipendio.
Penso da giorni alla storia dei fratelli Abdeslam. Quello che mi preme è che per la prima volta vengo a sapere i retroscena di una missione di questo genere, a prescindere dalle notizie più o meno affidabili di chi collabora alle indagini, o al loro presunto litigio nell’appartamento in cui abitavano a Bruxelles, la sera prima dell’attentato di Parigi, in cui pare che uno dei due avesse urlato di non avere più intenzione di andare in un luogo se non avesse ricevuto la somma pattuita, mentre l’altro fermamente respingeva le sue lagnanze. Quello che è certo è che il maggiore, 31 anni, si è fatto esplodere al Comptoir Voltaire, un bar con pochi avventori nel quale non ha causato morti perché una parte del suo armamentario era disinnescata; lui stesso non è morto sul colpo. Ibrahim è sceso in un bar qualsiasi, a pochi passi da una piazza gigantesca e spesso desolata, in cui i clienti, pochi, inizialmente non hanno neanche immaginato si trattasse di un attacco kamikaze, pensavano piuttosto a una fuoriuscita di gas; uno di loro ha anche tentato di effettuargli un massaggio cardiaco, e solo dopo averlo liberato della maglia che indossava ha svelato i fili e i bulloni della parte inesplosa del suo corsetto.
Tutto ciò sembra vanificare la mia arbitraria e tutta umana identificazione dei dettagli, e però scopro che il fratello minore, 26 anni, non è voluto saltare in aria, e allora ricomincio a tessere il mio cifrario. Non se ne conoscono le ragioni ma il fatto che sia ancora latitante nonché braccato dall’Is stesso, oltre che dalla polizia, porta presumibilmente a pensare che abbia avuto paura. Che, al contrario di altri – il cui compito è forse più specifico e legato all’organizzazione internazionale degli attacchi, per cui esplodere è solo una misura di sicurezza che impedisce loro di finire nelle mani del nemico -, Salah fosse tenuto a farsi bomba umana. Salah, che ha scampato più di una volta controlli e posti di blocco, e si aggira ora camuffato chissà dove, non ha voluto saltare in aria, continuo a ripeterlo; dopo l’attentato ha chiamato degli amici e si è fatto venire a prendere dal Belgio, dove si è nascosto, con la cintura esplosiva ancora indosso.
L’Is gli dà la caccia perché lo considera un traditore che potrebbe collaborare con i servizi segreti europei. Ma tutto resta confuso. Salah ha ucciso a sangue freddo decine di persone che si intrattenevano in un solito weekend parigino, ha sorriso passeggiando per strada alle telecamere di un’emittente televisiva poste allo stesso incrocio che sarebbe divenuto scenario di morte dopo poche ore. E adesso l’Is vuole la sua testa, piuttosto che glorificarlo e metterlo in salvo, perché non si è fatto saltare in aria? Forse il punto è che la paura non è ammissibile, né lo è la scelta di una sorda S di salvezza rispetto a una più sonora Z.
Barthes ha scritto che la S e la Z sono l’una il riflesso dell’altra, e quest’ultima introduce in Sarrasine, romanzo breve di Balzac, il rovesciamento dell’ordine morale, la deviazione. In questo caso, la Z rappresenta a sua volta un ordine morale, e rigoroso, per quanto folle e omicida: Salah deve essere punito proprio per la sua evasione dal contratto, per il suo slittamento da una lettera all’altra, che lo ha portato a scivolare in una zona grigia che nessun alfabeto contempla.
Chi è figlio della cultura occidentale ha ogni strumento per indagare le evoluzioni della brama di vivere, mentre fatica di più nel capire il superamento dell’istinto di sopravvivenza nell’ottica di una salvezza metafisica. Cosa c’è oltre l’atto mancato di Salah? Il suo venir meno al dovere, il suo essere ancora vivo rivela lo spazio di un inconscio che non è privato né pubblico, che banalizza ogni interpretazione. Forse soggiace all’assurdo connaturato alla guerra, in cui sonori cannoni e sordi cadaveri si specchiano tra loro attoniti.

come sei bella Parigi

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di Giacomo Sartori

come sei grigia Parigi

al Bataclan hanno mitragliato

e mitragliato inermi rockettari

più ligi che dissacranti

in un silenzio di apnea

gli smartphone incalzavano

a bagno nel sangue

(le tattuate star californiane

se l’erano data a gambe)

A morire ci vuole una vita

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di Sara Nissoli

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Nasco il dieci luglio millenovecentottantaquattro. Piove. Sono le otto e mezza del mattino. C’è anche mio padre. Mi conta le dita delle mani e dei piedi. Ci sono tutte, scoppia in un pianto accanito per qualche secondo, poi smette come nulla fosse. Mia madre ha una camicia da notte chiara, gli dice di andare, ma poi di ritornare. Mio padre scende le scale fino all’ingresso dell’ospedale, va al bar, chiede un caffè e due gettoni del telefono. Berrà un caffè solo per chiedere anche i gettoni del telefono, perché gli sembra che distribuire gettoni non sia il lavoro di un barista, ha paura di infastidirlo. Io ho solo un paio d’ore di vita e già eredito quell’imbarazzo per le piccole cose fuori posto, quell’ansia totalizzante per cui tutto debba andare come stabilito.

Townscape

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Lasse 0-2

 

di Daniele Ventre

0.

Il venditore di giornali afferma qualche cosa di reciso
sulle testate esposte lungo il vetro opaco.
In tre parlano di sé fra sé e se stessi lungo il vetro opaco.
Non è che ci abbiano pensato a ripulirlo dalle incrostazioni.
Qualcuno va di corsa dall’edicolante e non afferma
qualche cosa di reciso. Tutto quanto gli si fa leggero.
Non è suo compito cercare di risolvere il gomitolo.
In questi pochi passi corre per cammini brevi.

1.

Il tipo sulla gauche anche vorrebbe non parlare
alla sua piccola brigata degli amici e alla tribù in suburbio
per i tabù in subbuglio, ai suoi compagni delle biglie e delle bocce
-e il tipo sulla droite eh lui non è che sia così diverso: infatti è peggio-
nemmeno poi vorrebbe intavolare tutti quei discorsi a tutti quanti:
perché lo sai che tutti quanti sono andati dove non si sa
e sono assenti d’un’assenza che si taglia a fette col coltello
da nebbia di prosciutto denso cittadino, da periferia lombarda,
da lombalgia, lombaggine. Sarebbe divertente frequentare
il pub dei giovinastri e raccontare qualche cosa ai ragazzetti
-ma sono pochi quelli che ti ascoltano perché la maggior parte infine crede
di intenderne abbastanza. Ma abbastanza poi non basta per davvero.
Magari gli sarebbe anche piaciuto fare da attrazione
per i curiosi, al tipo sulla gauche –e però il tipo sulla droite,
ove ci sia, non è che faccia troppa differenza nel suburbio, infatti è peggio:
non è che faccia troppa differenza nel subbuglio –fare da attrazione
per i curiosi come quando un incidente sulla strada suburrana
lascia qualche traccia sull’asfalto –forse gesso o sangue.
Infine si riduce con il suo completo grigio senza petto
e senza tetto a raccontarla giusta alla sua piccola brigata
sulla strada di paese (e non soltanto di paese) –alla tribù, alla ghenga:
agli unici a cui forse di domenica potresti raccontarla
parlare senza dire nulla –leggere le solite notizie
sul vetro opaco e sgraffignarle al venditore di giornali
e non pagare il quotidiano scomodo da leggere.
E ricordarsi coi compagni di quartiere e di parrocchia
che certo avranno fatto tante cose insieme spesso
e tante cose che però non dicono d’averle fatte
da intenderne abbastanza. Il succo del messaggio
che il tipo sulla gauche e il tipo sulla droite infine intendono
trasmettere ai ragazzi, ai giovinastri d’oratorio e di parrocchia
è correre con libertà perché non c’è da perdere
e soprattutto non ce n’è da guadagnare. Si guadagna certo
l’indifferenza generale –perché poi il regime democratico
ha aperto questa via di dire tutto nell’indifferenza generale
nell’ignoranza del particolare –l’approssimazione
e la prossimità sovrane –e non si graffia segno
per distinguersi fra gli altri: tutto resta poi nell’indistinto
per disintossicarsi. Tanto il tipo sulla droite e il tipo sulla gauche
e il tipo sulla riva e il tipo sulla cima sono qui per ignorarli
e leggere notizie sempre uguali sul giornale opaco:
il tipo sulla droite e sulla gauche in fondo sono tutti e due
sulla riva –insieme aspettano un cadavere che passi
per intonare il funerale all’esistenza d’alcunché che sia qualcosa
e leggerne pacati il necrologio sulla pagina finale.

2.

In paese –qui fra gente di provincia –di provincia periferica
dell’impero sul tramonto –vi racconto quello che è successo:
voglio dirlo molto breve. Fino a qualche annetto fa il comune
ci pagava lo spettacolo: pagava musicanti la domenica.
Musicanti storici: la banda dei cantanti del paese –rockettari qualche volta:
il mestiere si tramanda ai figli d’arte –sia che fossero legittimi
o bastardi –soprattutto senza gloria: qualche volta mercenari,
ma più spesso, merce rara. Ne parlavano i giornali nelle edicole:
manifesti sulla chiesa, all’oratorio, sulle mura del comune e della casa
del popolo – davvero, c’era un popolo e una casa: ancora
non c’era stato il terremoto e la speculazione con le piazze vuote
e solitarie di domenica e il risanamento che ha sanato la salute
-ne ha fatto malattie. Poi ne parlavano perfino nelle scuole
elementari e medie e superiori -le scuole alte, dicono
i vecchi del paese –gli unici rimasti. Poi c’è stato il terremoto
le piazze vuote, la speculazione coi negozi chiusi
perché l’affitto esagerato –esagerate le bollette –spesso
limitato il traffico per zone e multe –c’era da far cassa
per gli impiegati del comune diventati immuni. C’erano peraltro
le trasmittenti e i baracchini dei radioamatori solitari
e gli amori solitari delle dediche alla radio. Si cercava,
diciamolo che si cercava -datemi per buona questa favola
che tutti si cercava –ognuno a ricercare il suo tesoro,
qualcuno disegnando scarabocchi, qualcun altro andando
di paesino in paesino –lo si è visto già in paese qui da noi:
e la ricerca andava avanti, ma non si capiva poi che cosa
si ricercasse con assiduità al paese dei balocchi,
fra imprese di pitocchi e facili ritocchi di bilancio
-ma ai musicanti come sempre non toccava il becco di una baiocco:
nel paese dei baiocchi trafugati gli asini imperavano
sull’umida provincia dell’impero sul tramonto. Il paesaggio intanto
sul tramonto ci sembrava fluido, nebuloso, paritario,
caotico, agonistico, agonale fra l’agone e l’agonia:
e venne il tempo dei rappresentanti dei prodotti Papillon
che ti svegliavano col clacson del furgone frigorifero
per vendere gelati e surgelati il pomeriggio in pieno luglio:
li stramaledicevi allegramente per la loro perversione
di mantenerti sveglio a tutti costi –Ma che cosa cerchi infine?
-Dormire. Lo ripetevamo spesso noi clienti stanchi.
Nessuno ci ascoltava, ma non era furbo come Ulisse.
Alcuni cominciarono a montare tende in piazza
per il loro concertino o misero palchetti e sgabellini
e ci salivano a parlare in villa comunale fra panchine
e fontane –il nostro speaker’s corner di paese. Qualche volta
venivano sporadici turisti –si doveva abborracciare un po’ per loro
sommarie indicazioni da cartina –di tabacco, tornasole o luna-park
che si cercasse. Qualcun altro si rinchiuse in casa
abbandonato al gaming senza posa –da morente digitale
-e qualcun altro ancora si portava il baracchino in piazza
improvvisandosi amatore della radio o di chi sa che altro,
se rispondessero gli alieni o gli astronauti in orbita –le stelle
velate dai lampioni e dalla nebbia nel frattempo rimanevano in silenzio
sulla grande piazza vuota.

Irruzione della poesia Piaroa nella mia vita quotidiana

21

Piaroa

di Davide Orecchio

Pochi giorni fa mi è capitato uno strano incontro. Così improvviso. Così inaspettato. Avevo una camicia senza il bottone sul polsino sinistro, e una giacca di velluto nero pure senza il primo bottone, il superiore dei tre.

Era la mattina di un sabato quando ho pensato che mi toccava il rammendo. Sono andato nel ripostiglio, ho aperto l’armadio, ho preso la scatola dei bottoni e degli aghi e l’ho portata in soggiorno. Ho iniziato a cercare un filo azzurro che andasse bene per la camicia.

Tra i gomitoli e gli scarti d’orlo e le spille è affiorato un libro minuscolo (un quadernuccio, un pulcino) orfano della copertina, quindi del titolo, così piccolo da poter stare nel palmo di una mano non grande come la mia che però cercava il filo azzurro, quindi neanche s’era accorta del libro e lo scansava.

Trovato il filo azzurro, ho cucito il bottone sul polsino della camicia. Poi ho cercato un filo nero, e un bottone più grande per la giacca di velluto. A quel punto, col rovistare di nuovo nella scatola, mi sono accorto del quadernuccio, l’ho visto, ho pensato:

Che ci fa questo libretto nella scatola, come c’è finito, da quanti anni è qui dentro?

PIaroa

Quindi l’ho aperto e ho trovato:

Poesie degli indios Piaroa
a cura di Giorgio Costanzo
Seconda edizione. Vanni Scheiwiller, 1959.

 

Che strano incontro. Così improvviso. Così inaspettato. Avevo una camicia priva sul polsino sinistro di un bottone, e una giacca di velluto nero pure vedova del bottone superiore dei tre. Cercavo bottoni. Ma ho trovato un libro antico di poesie da un mondo lontano.

[Più tardi, su internet, prendo riferimenti e notizie; ma adesso ero sorpreso da…] Il libro di poesie aveva l’introduzione del curatore [un noto antropologo del secolo scorso] che spiegava tra l’altro:

«La tribù degli indios Piaroa vive in una selvaggia terra ancor oggi per lo più inesplorata, tra la Guiana esterna e l’alto Orinoco. Ambiente tropicale: foreste fitte putride, savane pallide, blocchi di granito nero lucidi e tondeggianti come schiene d’elefanti, fiumi limpidi».

«I Piaroa sono piccoli ma ben costruiti, hanno gli occhi a mandorla e molto dolci, i capelli neri lisci, la pelle fortemente abbronzata».

«I Piaroa non uccidono e non fanno la guerra; nessuna reminiscenza guerresca affiora nelle loro leggende. Essi non lottano, non rubano, non mentiscono, non litigano. Nell’organismo sociale da essi composto non si notano né disuguaglianze né privilegi. Non esistono tribunali né giudici: l’autogoverno e la legge della coscienza (operante fino a determinare il suicidio) sono la sola legge Piaroa».

«Questo civismo, questa gentilezza di comportamento non riescono tuttavia a nascondere il profondo egocentrismo dei Piaroa. Il Piaroa è solo in se stesso e i suoi raffinati schemi di convivenza rappresentano forse il grado ultimo dell’isolamento individuale attuato nella consapevolezza degli altri».

«Coerenti all’indirizzo individualistico della loro società, i Piaroa scelgono, come tema della loro arte, il mondo individuale; le loro poesie sono soprattutto volte alla rivelazione di personalità determinate e dei fenomeni interni ad esse».

«Le poesie che seguono sono state da me raccolte durante la spedizione guiano-amazzonica del 1956 con la collaborazione di un paziente interprete. […] La lingua che i Piaroa usano è quella di sempre; e sembra che le parole e le frasi vi si susseguano con l’ordine del linguaggio corrente distaccandosene per l’accennate cadenze e per il contenuto lirico».

 

***

Danzo con te Merìca:
 la tua mano
 è come il tenero frutto
 della palma;
 il tuo piede
 è come il seme del cotone
 leggero e silenzioso;
 il tuo fiato
 ha il gusto dell'ananas,
 ma la tua bocca non ha spine
 Vieni con me
 nella selva,
 vieni con Menaue.
 Vieni con me sulle pietre calde del fiume:
 io vedo la luna nei tuoi occhi,
 nel tuo seno è il miele.
 La mia vita sarà dolce.

 

***

 

Ho cucito il bottone senza ferirmi

e la camicia ora è pronta ma devo lavarla

e quando la indosserò non credo lo farò assieme alla giacca.

Non ho trovato il filo nero.

Non ho trovato il bottone giusto.

Per la giacca. Ma cosa importa?

piaroa

 

Conta che la giacca possa chiudersi

e quest’inverno la userò forse a Villa Pamphili,

camminando tra gli amabili resti di statue,

su qualche sentiero, nel centro di un giorno verde

e in giorni futuri, prossimi,

quando sarò vecchio,

la indosserò ancora chiusa nei tre bottoni

e nelle asole senza ritenzione

della mia morte, in pace, sedato.

***

Com’è bella la danza dei ragazzi!
 Io, vecchio,
 danzo nell’amaca:
 i miei piedi sono freddi.
Lontano nella selva,
 presso la grande Pietra Nera,
 solo la tigre li scalderà
 col suo fiato.
 Quando sarò morto
 voglio danzare con piedi di bimbo
 davanti alla luna
quando la pioggia farà lucenti
 le pietre.

***

***

 

«I Piaroa sono circa tremila e si estinguono rapidamente».

Giorgio Costanzo 1957.

«Si stima che la popolazione raggiunga 15.267 persone».
Wikipedia 2015.

Qualcosa è andato bene?

Un peu d’Humanité

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france
Testimonianza raccolta da Alexandre Fache
e pubblicata da l’Humanité mardi 17 novembre
traduzione di effeffe

Stéphane T. , 49 anni, fa parte delle decine di spettatori presi in ostaggio dai terroristi per servirsene come scudo umano e comunicare con le forze di polizia. Racconta lo shock dell’attacco, il comportamento dei terroristi e l’assalto finale. E la difficoltà di rendersi conto di essere al cuore della tragedia. Il telo di soccorso è ancora lì, all’ingresso del suo appartamento, su un piccolo sgabello. Finirà in uno scatolone, insieme agli abiti indossati in quel terribile 13 novembre, che sarebbe dovuta essere una serata di festa per un appassionato di musica. Stéphane T. , 49 anni, informatico, racconta l’attacco al Bataclan e la presa di ostaggi da parte dei terroristi prima dell’assalto finale.

Un soir au Bataclan

Era la prima volta che vedevo gli Eagles of Death Metal in concerto. Ho una rubrica su una webzine rock, Rock n ‘Concert, e avevo ricevuto un altro invito per andare al Festival des Inrocks che si teneva a La Cigale. Ma con il fotografo della rivista, abbiamo scelto il Bataclan … L’atmosfera era magnifica, il cantante davvero carismatico, divertente. Ero sulla balconata di sopra, di fronte al palco, quando ho iniziato a sentire rumori, un po’ sordi dal basso. Ovviamente non ho capito subito cosa stesse succedendo. Davanti a me, qualcuno ha detto: “Penso che siano petardi, sento odore di polvere”. Ma non erano petardi …

L’attaque

In quel momento, vedo il chitarrista della band che smette di suonare e corre via in fretta dietro le quinte. La gente corre lungo i lati, le grida aumentano. Comincio con il nascondermi, e poi mi dico, no, bisogna andarsene via. Prendo la mia roba e mi dirigo verso la parte posteriore del palco, dove le porte conducono alle scale che raggiungono il piano terra (su un foglio, ha iniziato a disegnare la piantina del Bataclan – ndr). Mi dico che passando di lì mi potrò salvare. Ma poi penso che se vado giù, corro il rischio di trovarmeli di faccia, e beccarmi una pallottola. Ritorno sulla balconata, ce sono altri quattro o cinque ad aver fatto in questo modo. Ed è lì vedo i terroristi per la prima volta: tutti e due con kalashnikov. Saranno saliti dal retro del palco. Al piano di sotto, avranno sparato per buoni quattro o cinque minuti, ricaricando le armi più volte. Sopra, sparano alcune raffiche, ma di minore intensità. Si tratta di singoli spari. Per finire le persone a terra, per colpire coloro che cercavano di fuggire? Io non lo so. Noi tentiamo di metterci al riparo tra i sedili, ma possono vederci. Alcuni, più nascosti, strisciano verso una possibile via d’uscita. Vengono verso di noi dicendo: “Non vi ammazziamo, seguiteci.” Ci raggruppano dapprima sul lato sinistro sul fondo della balconata. Avanzando, i terroristi prendono con sé altre persone, e ci si ritrova in undici o dodici. Mi sembra di sentire un terzo assalitore, ma non so dove si trovi esattamente. Certamente è quello che è stato poi colpito da un poliziotto nella sala facendogli esplodere la cintura. È in quell’istante che ci intimano di andare in un corridoio, che si affaccia sul vicolo di Saint-Pierre Amelot. È in questa piccola strada che è stato girato il video che mostra persone che lasciano il Bataclan, dalle due uscite laterali. Il corridoio è chiuso da una porta che conduce alla balconata, e in fondo c’è una scala, che scende fin dietro alle quinte.

Dans le couloir

Ed è proprio qui che passeremo due ore e mezza con i due terroristi. Ci radunano, ci sediamo per terra. Ci fanno un primo discorso dicendo: “Potete ringraziare il presidente Hollande, perché è grazie a lui che state subendo tutto questo. Noi ci siamo lasciati dietro donne e bambini in Siria, sotto le bombe. Facciamo parte dello Stato Islamico e siamo qui per vendicare le nostre famiglie e le persone care per l’intervento francese in Siria. ”

Il tutto in francese, con appena un leggero accento nordafricano ma nulla di più.

I due terroristi si posizionano su entrambi i lati. Tre ostaggi sono messi di fronte alla porta dell’uscita, e gli altri, me compreso, con la faccia incollata alle finestre che danno sulla stradina. Da una di queste, i terroristi sparano alcune raffiche d’arma automatica, verso il boulevard. Forse indirizzate alla la polizia che comincia a piazzarsi intorno al Bataclan. “Mettetevi davanti alle finestre e fateci sapere se vedete gli sbirri e i cecchini nel palazzo di fronte. ”

Sono rimasto due ore in questa posizione, di fronte a una delle finestre. Era strano perché di fronte, vedevo l’interno di un appartamento con un televisore acceso. Le intensità di luce variavano e la cosa mi faceva paura, era assai inquietante. A un certo punto, abbiamo visto due poliziotti sopraggiungere nella stradina a destra, con giubbotti antiproiettile e armi in pugno. Hanno guardato dalla nostra parte, poi hanno fatto dei cenni con la testa, un po’ come per farci delle domande. Non ci siamo mossi, in verità e se ne sono andati via.

Gli assalitori ci stavano usando per far passare dei messaggi alla polizia. “Ditegli che abbiamo degli ostaggi, siamo disposti a trattare, vogliamo un walkie-talkie. Io non so davvero come avessero in mente di recuperarlo, ma … Tra gli ostaggi, c’erano due donne, forse tre. Hanno tentato di capire se vi fossero delle coppie. Ed era il caso: una donna che era contro la porta e il marito accanto a me di fronte a una finestra. Ci hanno detto: “In questo modo, inviamo uno dei due a portare un messaggio agli sbirri, e se non torna indietro, gli ammazziamo l’altro. ”

Così hanno identificato anche due cugini. Uno di loro è stato mandato a dire alla polizia: “Sono armati, hanno cinture esplosive, bisogna che indietreggiate”. Gli hanno detto: “se non sei di ritorno tra due minuti, facciamo fuori tuo cugino.”

Lo abbiamo sentito dare il messaggio, non doveva essere lontano. Però né noi né i terroristi avevamo alcun contatto visivo con quello che stava accadendo in sala.

Les deux terroristes

A noi, parlavano in francese. Ma quando si parlavano tra di loro, e non volevano che li si capisse, parlavano in arabo. Li ho sentiti molto determinati, anche un po’ euforici. A un certo punto uno di loro, dopo aver sparato con il kalashnikov verso la strada, ha detto: “Ssìii, ne ho steso uno, che era al telefono!”

Erano molto soddisfatti di quello che stavano facendo. In un primo momento, quando eravamo tutti piazzati in corridoio, hanno chiesto agli ostaggi vicino alla porta di descrivere ciò che sentivano dalla sala. “Beh si sentono persone che gemono ed è tutto.” Alcuni chiedevano aiuto. Non che li facesse ridere, ma poco ci mancava. E ci hanno ridetto la stessa cosa: “Ben vi sta, come per le donne e i bambini in Siria.”
Mi sono industriato a non incrociare mai il loro sguardo. Ma da quello che ho visto, erano vestiti di nero come un uomo qualunque. A memoria, uno dei due aveva una barba di tre giorni. Piuttosto giovane, tra i 25 ei 35 anni. Visibilmente, uno dei due aveva un ascendente sull’altro, doveva essere il capo. Sono rimasto un po’ sorpreso, li ho trovati in verità piuttosto disorganizzati. Hanno improvvisato molto, per esempio. Come quando sono entrati in contatto con la polizia. È stato un vero e proprio sketch di un quarto d’ora quando si è trattato di passare alla polizia un numero di telefono su cui sarebbe stato possibile chiamarli. Uno degli ostaggi ha annotato il suo numero su un pezzo di carta, uno dei terroristi o un altro ostaggio ha urlato il numero attraverso la porta. Questa cosa ha avuto un lato tragicomico, perché il poliziotto che ha risposto e tentava di prendere nota del numero aveva un accento del sud molto pronunciato, non riusciva a sentire bene: “06? “e poi,” non ho sentito …? ”

Le signe d’un commanditaire ?

A intervalli regolari, ci chiedevano di gridare dalla finestra: “Hanno degli ostaggi, hanno le cinture esplosive, si faranno esplodere, indietro, spostatevi indietro! Non vogliono vedere nessun poliziotto nelle vicinanze ”

A un certo punto, hanno avuto uno scambio – stranamente- in francese e uno di loro ha detto: “Chiamiamo…tizio?” Non mi ricordo del nome che hanno fatto. L’altro ha risposto: “No, non lo chiamiamo.”

Ho pensato che potesse essere il mandante, o quanto meno colui che stava coordinando il tutto.
In seguito, ci sono state quattro o cinque telefonate. Hanno chiesto agli ostaggi di chiamare la BFM (tra i più noti canali televisivi dedicati all’informazione, ndt). Senza successo. “Chiama iTele.”

Non ha funzionato neanche questa volta. Sono andati avanti con altro. C’era un che di dilettantesco. Per quanto siano sempre apparsi determinati – erano lì per uccidere, questo è chiaro – tanto ora, per come si è svolta la presa di ostaggi, procedevano a tentoni. In ogni caso, per loro, l’esito era chiaro: erano lì per farsi saltare in aria. Ma ho avuto l’impressione che non sapessero troppo con certezza quando. Da parte mia, pensavo davvero che fosse giunta la mia ultima ora. Non vedevo come potesse finire altrimenti. Sia nel caso in cui i terroristi si fossero fatti esplodere con noi accanto, o perché avrebbero ucciso tutti a fucilate. In quel momento, non ho nemmeno preso in considerazione la possibilità di un assalto da parte della polizia….

« T’as un briquet ? Crame ce fric ! »

Uno di loro ha detto:” Ce l’abbiamo fatta. Vieni, prepariamoci a restare qui ”

L’altro: “Nessun problema, io sono pronto a rimanere un giorno, due giorni, una settimana.”

E improvvisamente, si son presi il tempo di fare delle cose impensabili. A un certo punto, cacciano delle banconote da 50 e chiedono un ostaggio: “Hai un accendino? Dai, bruciali!”

C’è stato anche un momento di grande tensione, credo con uno dei due cugini. Non so esattamente cosa sia successo, ma uno degli aggressori ha detto, “girati su un fianco”, ha puntato il fucile contro di lui e ha sparato. Lo ha mancato di proposito? Non lo so, ma mi ricordo che ha ricaricato il suo Kalashnikov subito dopo.

Da parte mia, cercavo davvero di avere un basso profilo, per essere il più trasparente possibile. La qual cosa non è stata affatto facile visto che, come faccio prima di ogni concerto, avevo postato una foto del biglietto d’ingresso su Facebook. Tutti i miei contatti sapevano dunque che ero al Bataclan. E così hanno iniziato a chiamarmi, il mio telefono squillava, sono riuscito a metterlo in silenzioso, senza fare movimenti bruschi. Ma continuava a vibrare. La mia famiglia, i miei amici, provavano a chiamarmi.

L’assaut

Verso mezzanotte e mezza, non stava succedendo più nulla. Ed è in quell’istante che un colpo fa un buco sulla porta del corridoio. La cosa ha creato un po’ di panico. L’assalitore che era lì è andato verso il fondo. Gli ostaggi hanno gridato, “Fermatevi non sparate, siamo proprio dietro la porta! Faranno saltare in aria tutto!”

C’è stato un crescendo di rumori. Avevano capito che i poliziotti stavano cercando di penetrare nel corridoio. Ci hanno riuniti intorno a sé, si sono posizionati verso le scale, poi hanno sparato in direzione della porta. Quelli della BRI (Brigades de Recherche et d’Intervention) sono entrati con il loro enorme scudo, quello che abbiamo poi visto, con tutti i fori dei proiettili. Le luci si sono spente, granate assordanti sono state lanciate dai poliziotti. Una prima è esplosa ai miei piedi, io cado, poi ce n’è una seconda. Ed è qui che vedo uno dei due assalitori a un metro da me, in piedi in cima alle scale che scende verso le quinte, una mano sul Kalashnikov, e l’altra su un detonatore. Ma non l’aziona in quel momento, e non capisco perché. Se così fosse stato, ora non sarei qui a parlarne. Si continua a sparare dappertutto. I poliziotti avanzano. Sono a terra, assordato dalle granate, poi vedo uno dei robocop della Brigade. Alzo le mani. Con gli altri, ci trascinano verso l’uscita. Cerco di prendere una ragazza distesa a terra, mi è stato detto, “No, no, dai, dai muoviti, muoviti!”

Ci ritroviamo sulla balconata. Lì, il tipo della BRI mi tira la camicia per verificare che non ho esplosivo, che non sono uno dei terroristi. Ci hanno fatto uscire dicendoci: “Non guardate giù” . Ovviamente, quando ti dicono così, poi è difficile non guardare. E qui vedo una pila di corpi, corpi morti uno sopra l’altro, con sangue ovunque. È stato terribile. Allo stesso tempo, non mi ha sorpreso, perché durante le due ore precedenti, avevo sentito i gemiti, grida di aiuto …

La sortie

Scendiamo per le scale sul retro, agenti di polizia sono piazzati dappertutto. Fuori, i poliziotti ci fanno camminare lungo i muri – per timore che ci siano cecchini- e ci portano in un piccolo cortile interno, in rue Oberkampf. Lì ho ritrovato un ragazzo che era accanto a me davanti alle finestre, a cui ho prestato la giacca, i due cugini, uno dei quali aveva avuto il biglietto del concerto come regalo di compleanno. In quel preciso momento, sono in un totale stato d’incredulità. Mi chiedo: “È tutto vero? ”

È una sensazione che ho avuto anche durante la presa di ostaggi nel corridoio. Mi sono detto: “Adesso basta, è il momento d’interrompere questo film, ci siamo divertiti, ma adesso, davvero basta ”

Però no, non è possibile fermare questa cosa e ci sono davvero due tipi con i kalashnikov che sono lì per fare saltare in aria ogni cosa. Fuori, ovviamente mi sento risollevato. D’altronde, questo è il primo messaggio dei poliziotti: “Sei al sicuro, non avete più nulla da temere. ” E noi ci crediamo, perché la mobilitazione è enorme …

Nel cortile della rue Oberkampf, i poliziotti controllano le identità, interrogano tutti e dividono i sopravvissuti. È stato solo allora, verso l’una di notte che ho potuto tranquillizzare la mia famiglia, dirgli che ero in vita. Alcuni, come me, vengono mandati in una sorta di quartier generale, allestito in un bar accanto. Mi rendo conto che c’è anche il chitarrista della band. Di nuovo interrogatori e trasferimento in autobus al 36, quai des Orfèvres. C’è la protezione civile che ci dà i teli di soccorso. Ci perquisiscono di nuovo. Di nuovo ci dividono prima di poter fare una dichiarazione. Racconto la mia storia a un agente di polizia, che annota sul suo computer. Fa fatica con la stampante… e mi chiede se voglio sporgere denuncia … al che ho detto: “Sì, visto che mi trovo qui …” Mi chiedono soprattutto se sono in grado di descrivere gli aggressori. Io racconto la storia quattro o cinque volte, a diversi agenti di polizia. Mi ringraziano, sono piuttosto simpatici. Alle sei, è finita. Mi chiedono se vado da solo o se qualcuno può venire a prendermi. Ma non ho più il telefonino. Così decido di rientrare in metro. Sono le sei del mattino ho sulla schiena la camicia strappata e un telo di soccorso, e me ne vado per le strade di Parigi, dirigendomi a Chatelet, è un po ‘surreale. Nella metropolitana, mi guardano d’un aria strana. Un vecchio, di colore mi chiede se va bene. Ho risposto: “Sì, più o meno.”

L’après

La notte seguente, con la fatica e i calmanti che mi hanno prescritto i dottori all’ Hotel Dieu, ho dormito abbastanza bene. È tutto meno vero da allora. Ho come l’impressione di vivere una sorta di dissociazione con gli eventi. Più li racconto più ho l’impressione di non essere io ad aver vissuto tutto questo. Come se si trattasse del copione di un film, su cui fossi finito, ma non negli eventi. La psicologa che ho visto domenica mi ha spiegato che si trattava di un fenomeno del tutto convenzionale.

L’altra questione che si pone è “perché io, sono sopravvissuto, e non gli altri?” Ti senti un po’ colpevole. Come un usurpatore, anche, di essere oggetto di così tanta premura da parte dei parenti, amici, semplici conoscenti, colleghi. Io avrei voglia di dire: non ho fatto niente di speciale. Faccio perfino fatica a considerarmi come una vittima, in confronto alle persone che sono gravemente ferite o morte. La psicologa ha risposto che bisognava gestire anche le ferite invisibili. Ma si vive uno sfasamento abbastanza significativo.

Sabato sono riuscito a trattenermi dal guardare i telegiornali. Ma da Domenica sono in loop sui canali d’informazione continua. Guardo se ci sono informazioni sugli altri ostaggi, lo svolgimento dei fatti, le vittime, i messaggi su Facebook …

Vedo tutti questi messaggi che dicono di continuare a vivere, uscire, andare ai concerti. Questo è un problema vero per me. I concerti, che è il mio piacere personale, il mio giardino segreto. Potrò andare avanti come se nulla fosse successo, non lo so. Ho i biglietti per un concerto martedì sera, che sarà stato annullato, immagino: the Diktators, al Trabendo. L’ultima volta avevo attraversato tutta la Francia per vederli a Bordeaux. Se fosse per me, forse ci andrei. Ma non sono sicuro di poterlo imporre ai miei cari. Inevitabilmente, la vita sarà diversa ora. Ci sarà un prima e un dopo il 13 novembre.

Biopolitica, orsù!

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di Vito M. Bonito

[Vincitore del Premio Elio Pagliarani 2015
Estratti da una silloge inedita]

 

Biopolitica, orsù!
(how can you mend a broken heart)

Il poeta è un parassita sacro
Michel Houellebecq

o miei pupazzetti
nell’ordine sacro
vi giro e rigiro
ora tu ora là
nessuno lo sa

maraviglia non faccia
il vortice in ch’io
scompaio ed appaio

da sì tanto rumore sdegnata
da sì acuto terrore
che di me sia svelata
la mia di me
parte oscurata

150 anni di Alice: Sul fiume

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150 anni fa veniva pubblicato Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll. Ho chiesto a scrittori, studiosi, appassionati di pensare un loro contributo personale per celebrare questo capolavoro del linguaggio e dell’immaginazione. I post si susseguiranno a cadenza irregolare fino all’autunno e saranno contraddistinti dal tag: 150 anni di Alice, presente anche nel titolo. I post già pubblicati si possono trovare QUI(NDF)

di Francesca Bertazzoni

autumnreflection (1)Ogni tanto la osservo quando non se ne accorge, quando intreccia una collana di margherite, o quando dorme, come ora. Non c’è nulla che mi dia più piacere di quest’angolo di fiume nei pomeriggi d’estate. Alice ha appoggiato la testa sulle mie ginocchia e si è addormentata profondamente, di un sonno compatto, e la fronte si fa a poco a poco madida, nel calore avvolgente.

Porta i capelli sciolti sulle spalle, un manto vivo e lieve che ho disposto con cura sulle mie gambe, che scivola fin sull’erba. Ma quando è stata l’ultima volta che anch’io ho portato i capelli sciolti? Ricordo soltanto che un giorno mia madre ha preso la spazzola e i miei capelli crepitavano al suo passaggio; e con gesti solenni li ha intrecciati e poi ha avvolto le trecce su se stesse e le ha fissate con forcine. Rapita nel mezzo di un gioco, senza preavviso: che l’infanzia finisca così? Il mio volto cambiò all’improvviso; non sono più stata la stessa, dopo quel momento. E guardo i capelli di Alice con rimpianto e indulgenza. Lei sogna, vive nel presente, nell’attimo.

Per me invece è cominciata l’attesa, e per meglio tollerarla sogno anch’io, ad occhi aperti: consapevole almeno in parte del mondo dietro i miei occhi, tutto sommato non sono certa di desiderare che qualcuno vi penetri. Indugio sulla soglia, incerta tra la bellezza nota di quel che potrei lasciare a breve e l’incantevole ignoto. Vengo qui con Alice per piacere e per dovere (sono la sorella maggiore!), ma anche per paura, per smarrirmi nelle piccole gioie che ben conosco. Osservo il bordo delle foglie e a volte immagino di poter spiccare il volo da quel margine sottile, come un insetto; ricamo senza fretta un’iniziale su una federa, impiego minuti deliziosi a scegliere il colore più adatto per il petalo di una primula che prenderà vita sul foglio di carta. Mi osservo da fuori e mi vedo irresistibile, ruscellante delizia, penso con fierezza e turbamento che qualsiasi uomo cederebbe alla visione di me, con quest’abito fresco, spumoso di trine, mentre ricamo e il sole tra le foglie si muove sulle mie mani…

…Alice mi fa rinsavire e un poco vergognare. Lei non fa nulla per ansia del giudizio altrui, gioca col gatto per puro divertimento, ride senza affettazione, racconta tutto ciò che le passa per la testa senza temere di non essere apprezzata, con una grazia che le invidio, e mi chiedo se io stessa mai l’ho posseduta, quella grazia felice. Sembravo lei, ero lei, soltanto ieri? O quanto tempo fa?

La osservo con avidità, in questi momenti, per fissare questo istante di autentico possesso di sé, questa goccia di miele che per me è già caduta. Ogni tanto ha delle assurde fantasie, mi racconta sogni inverosimili nei quali mi addentro, cercando la strada in un labirinto privo di logica, del quale mi pare di intuire il cuore d’oro. Non ci arriverò mai a quel cuore, non ci arriverò più: ormai sono incapace di tanto abbandono. Dovrei concedermi nuovamente, farmi rapire come lei, ma l’arte del controllo, che esercito ormai con maestria, a sua volta mi possiede totalmente. La fuga delle cose è stordente, felice e per lei è lieto assistervi.

E’ una felicità che non riesco più a sentire ma non posso fare a meno di rimpiangere. Perciò attendo il risveglio della mia piccola sorella con una certa impazienza: cosa mi racconterà questa volta? Serberò nel cuore le sue minute confidenze e quando lei tornerà in casa a prendere il suo tè io resterò qui, a osservare le canne lungo il fiume e l’orizzonte, a modulare il mio respiro perché somigli ancora al suo mentre corre nell’erba, a spostare ancora di qualche istante la fine dell’attesa.

Notizie dalla Descrizione del mondo ° 19/11/2015

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Descrizione del mondo presenta gli ultimi contributi della mostra collettiva di Torino. In copertina una foto di Alessandro Broggi (location, 2008), quattro nuovi contributi al sito, La voix sans traces di Barbara Philipp, This is how a poem should look like di Ddk, Dire il colore esatto di Matteo Pelliti e Photographic Machine di Mattia Paganelli.

Varianze

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di Maurizio Giudice

Il foglio che non ho saputo scrivere è stato usato
per appuntare verdure e numeri di telefono.

 

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Così che il silenzio non basta,
bisogna raccontarlo, indicarvelo
col dito – un rumore
ininterrotto,
fermarsi: ecco.

 

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CRISI

Un secchio è capovolto.

 

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Le dita non trovano la strada, sono trasparenti
le costole, il ventre. Le dita non trovano più la strada
che le tue gambe, come un orologio,
segnavano così bene.

 

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Camminiamo vicino ai muri.
Calcoliamo il perimetro degli oggetti,
lontano dall’abitarli.

 

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Spenta l’ultima lampadina, restiamo
con le dita attaccate alla notte.

 

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Abbiamo attraversato vent’anni,
ma non sono serviti a renderci familiari.

Che il dolore non fosse una moneta di scambio
non ci è mai venuto in mente.

 

 

 

 

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I testi di Maurizio Giudice sono tratti da Varianze (Ladolfi 2015).
Le immagini sono di Luca Poncetta (2011, inchiostro su carta).

 

Jihad 2.0: un’offensiva del Têt?

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di Daniele Ventre

Sul macello terroristico di Parigi e sulle connesse minacce jihadiste molte parole per forza di cose si spenderanno. A tutti i livelli di esposizione mediatica, personaggi pubblici, opinionisti e bloggers e comune sentire si muoveranno, come già per Charlie Hebdo, sui ben noti binari di circostanza: il grido di dolore, il giorno dopo e la quotidianità devastata, i proclami da sciacallo dei politicanti razzisti, i contro-proclami equanimi degli intellettuali tolleranti, lo sguardo ambiguo e sospettoso sul migrante (specie se magrebino o mediorientale), il sacrosanto umorismo tragico dei vignettisti e quant’altro una società sotto attacco inevitabilmente esprime nell’adattarsi al tempo del massacro.

In un simile contesto, di fronte a un bollettino di guerra di centoventinove vittime, si è molto riluttanti a portare legna alla selva dei molteplici interventi più o meno profondi, più o meno raffinati, più o meno accalorati che si avvicendano in queste ore; in simili circostanze ogni urgenza comunicativa passa in secondo piano. L’unica forma di esternazione che al momento appare in qualche modo legittima è tentare, con tutti i limiti del caso e con la massima sinteticità possibile, un’analisi della strategia che gli attentati fanno intravedere. Ogni altra considerazione culturale o ideologica verrà tirata in ballo al mero scopo di evidenziare la funzione degli aspetti culturali nel contesto della strategia della tensione globale, con tutto il costo in termini di political correctness che una visione obbiettiva del problema imporrà.

  1. Tattica e strategia degli attentati.

In termini militari, la realizzazione della gragnuola di attentati di Parigi ha portato alle estreme conseguenze l’impostazione strategica degli attacchi che l’hanno preceduta dall’11 settembre 2001 in poi e segue uno schema e dei presupposti tanto semplici da valutare a cose fatte quanto efficaci e imprevedibili negli effetti, come ciascuno può banalmente constatare. Anzitutto, gli uomini che verranno impegnati nell’azione di guerra, sono condotti in prossimità dell’obbiettivo senza che il nemico se ne accorga, alla spicciolata, allo scopo di conseguire il massimo effetto psicologico derivante da un attacco a sorpresa; in secondo luogo i bersagli selezionati sono obbiettivi che col senno di poi si rivelano concretamente esposti o sensibili (lo stadio –dove pure era presente Hollande– o la folla di giovani in un quartiere culturalmente misto in via di gentrificazione), e tuttavia, nonostante tutti gli indizi di preallarme a medio e breve termine che si erano presentati, la scala di priorità degli organi di controllo e di difesa non considerava tali obbiettivi così nevralgici da ritenere opportuni interventi straordinari di presidio e prevenzione di eventuali attacchi; infine, per quanto possano essere preparati in teoria sull’effetto motivazionale dell’ideologia del kamikaze, i comandi delle strutture di controllo e difesa del territorio restano spesso psicologicamente spiazzati, in quanto hanno a che fare con una forza ostile con la quale non ha senso intraprendere trattative, essendo impossibile intavolare trattative con chi non presupponga di valutare le proprie azioni in termini di rapporto costi-benefici.

Si aggiungerà un ulteriore duplice corollario: nel caso specifico, le contromisure di intelligence preventiva si sono rivelate inefficaci perché spesso i jihadisti si servono di mezzi di comunicazione e di concertazione online non ortodossi e al momento difficili da afferrare (piattaforma online della playstation inclusa, per quanto possa sembrare grottesco); inoltre, rispetto alla struttura disseminata delle cellule terroriste, la catena di comando gerarchizzata e la struttura organizzativa di un sistema di difesa istituzionale mostrano un certo handicap sia in termini di prevenzione degli attacchi, sia in termini di reattività. Queste due circostanze strutturali permettono nell’immediato di massimizzare gli effetti delle procedure strategiche e dei presupposti che abbiamo appena delineato. Fatte le dovute proporzioni e salvando le differenze, sembra almeno in parte di assistere a un sorta di offensiva del Têt in versione jihadista.

  1. Terrore, bombardamenti, profughi e petrolio -condizioni geopolitiche di contorno e potenziali sviluppi.

Sul piano geopolitico, le condizioni di contorno del conflitto con lo Stato Islamico non lasciano presagire quella soluzione rapida del problema che talora i comandi militari occidentali auspicano e prefigurano. I territori che lo Stato Islamico controlla sono ricchi di petrolio, contrabbandato con Stati che non sono troppo inclini al controllo di tali flussi di traffico, o sono addirittura conniventi, il che fornisce all’IS un gettito quasi illimitato di risorse finanziarie (ulteriori proventi vengono all’IS in misura minore anche dal commercio di quelle antichità che i jihadisti distruggono in parte a beneficio dei media, per poi fare commercio di tutto il resto che non finisce sotto le telecamere); inoltre, i bombardamenti della coalizione tendono a non colpire le installazioni petrolifere, così che la struttura economica portante dell’Is resta per lo più integra. Nello scenario che si configura, la connessione fra il dato dell’esistenza di uno Stato terrorista che ha a disposizione un duraturo gettito di introiti per finanziare la sua guerra del terrore e l’ipotesi di un’offensiva del Têt in versione terroristica, implica nel medio termine un’escalation degli attentati e la possibilità che in futuro più raffiche di attentati possano colpire a ondate di recrudescenza irregolari nel tempo più luoghi in più città europee in contemporanea, con l’effetto che tutti possono immaginare.

In uno scenario simile, mentre i governi minacciano vendetta e i mercanti d’armi e petrolio fanno i loro affari, le popolazioni civili, quale che sia la loro identità culturale di partenza, sono semplicemente oggetto di manipolazione, sia diretta, nel momento in cui sono forzate ad accrescere le masse di profughi e migranti fra cui il jihadismo può infiltrare i suoi miliziani, sia indiretta, nel momento in cui se ne plasma la mentalità in senso razzista, xenofobo o integralista. Per quanto attiene all’occidente, le esternazioni che imperversano nell’opinione pubblica sembrano al momento contribuire in un modo o nell’altro allo stato di cose. Le sparate alla Belpietro potenziano l’effetto alone socio-psicologico dell’azione dei jihadisti; peraltro l’affermazione banale per cui il musulmano comune non è un jihadista, e la riflessione generica della filologia sull’islam tollerante non colgono un aspetto tragico del problema. Al migrante, come al cittadino comune residente in loco, l’egalité, la liberté e la fraternité suonano come uno slogan vuoto: l’Europa dei mercati finanziari, delle politiche di austerità e della corruzione diffusa non ha proprio niente da offrire, al contrario dei proclami di una religione aggressiva portatrice di un messaggio salvifico e di concrete speranze di riscatto politico. Tolleranza e convivenza civile sono ormai prodotti ideologici diretti a un target esclusivo di consumatori elitari acculturati. Ma sappiamo tutti che né i migranti che potrebbero cedere al settarismo jihadista, né l’uomo della strada europeo che presta orecchio al razzismo, sono categorie che appartengono all’élite.

  1. Jihadismo e Unione Europea: effetto domino?

Gli effetti sul medio termine che gli attentati potrebbero avere sull’Unione Europea come compagine sono evidenti. Non è solo la partecipazione attiva di Parigi ai bombardamenti in Siria e l’azione in altri teatri di guerra ad aver innescato per ben due volte la recrudescenza di attentati jihadisti in Francia, per quanto questo possa presentarsi come il motivo più pressante di rappresaglia per un gruppo terroristico contro la popolazione civile di uno Stato repressore. La Francia è il Paese fondatore dell’UE con uno dei partiti populisti e xenofobi più forti e più inclini a perseguire fino in fondo la strada dell’abbandono dell’Unione, a fronte di un leader socialista che si è rivelato decisamente non all’altezza delle aspettative. Se l’onda emotiva montasse come i capi del jihadismo sperano che monti, il momento della definitiva radicalizzazione del conflitto etnico-religioso e la sperata sollevazione di almeno una minima parte della popolazione francese di religione musulmana contro la xenofobia dominante potrebbe determinarsi con la scadenza del mandato di Hollande. Per di più, se una Francia governata dal Front National dovesse infine abbandonare l’Unione, il conseguente processo di disintegrazione europea si misurerebbe solo sui tempi tecnici dei calendari politici dei singoli Stati. Così il definitivo avvento ufficiale di un’Europa divisa di democrature illiberali, dominate dall’egoismo sociale e dalla sanzione dell’ineguaglianza dei diritti, sarebbe questione di meno di un decennio, senza che ovviamente il grande riscatto politico e religioso della casa di Allah, auspicato a parole dai jihadisti, divenga molto più reale di quanto non sia oggi. Da questo scenario di guerra lo stesso mondo islamico uscirà ancora più oppresso, ancora più stigmatizzato agli occhi dell’opinione pubblica mondiale, e ancora più dilaniato e lacerato da odi e tensioni reciproche, se consideriamo il fatto che l’Europa occidentale è e continuerà a essere solo uno dei teatri della guerra di sterminio che l’IS ha dichiarato, dal medio oriente all’Africa orientale, a qualunque cosa si muova al di fuori dell’oscurantismo integralista di cui si fa portavoce.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il trappolone

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di Helena Janeczek

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C’è un arma usata a Parigi che si sta rivelando micidiale come un gas tossico: il passaporto che portava con sé uno degli attentatori, il primo e l’unico documento d’identità a essere stato ritrovato dagli inquirenti.
Benché un ufficiale dell’intelligence americana avesse tempestivamente espresso l’ipotesi d’un falso e anche la polizia francese abbia parlato di un documento contraffatto probabilmente acquistato in Turchia, l’altro ieri il nome di tal Ahmad Almohammad è stato diffuso in maniera ufficiale.

All Tomorrow’s Parties

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di Anatole Fuksas

Gia dalle prime ore susseguenti si poteva intuire la natura degli attentati del 15 novembre a Parigi, si poteva immaginare chi fossero davvero gli attentatori, perché da subito era chiaro chi fossero le vittime.  Già leggendo Pierre Janaszak, 35 ans, animatore radio e TV che era al Bataclan vari pensieri venivano alla mente: «Ils étaient trois je pense et ils tiraient juste dans le tas. Ils étaient armés avec de gros fusils, j’imagine que c’est des kalachnikov, ça faisait un boucan d’enfer. Ils n’arrêtaient pas de tirer. Il y avait du sang partout, des cadavres partout. On entend hurler, tout le monde essaie de fuir, les gens se piétinaient, c’était l’enfer.» Soprattutto, se a questa testimonianza si ricollegava la tempestiva rivendicazione, in particolare nel passaggio che spiega come: «Huit frères portant des ceintures d’explosifs et des fusils d’assaut ont pris pour cible des endroits choisis minutieusement à l’avance au cœur de la capitale française».

Sembrava subito strano che l’attacco ai crociati non si fosse tramutato in un assalto a qualche simbolo cristiano o a qualche bersaglio istituzionale. Appariva soprattutto significativo che gli attentatori avessero assaltato un tempio parigino del rock, che avessero deciso di smitragliare alla cieca giovani usciti per sentire musica e ritrovatisi ammucchiati al suolo a fingersi morti per sopravvivere. Ancor più significativo appariva subito il fatto che avessero preso d’assalto luoghi tipici quel mondo urbano emancipato dai cosiddetti valori tradizionali, a due passi da Charlie Hebdo, dalla rue Oberkampf, Belleville, Ménilmontant, il Canal Saint-Martin, dove s’incontra di tutto, ma veramente di tutto, meno che il francese medio.

Veniva subito da domandarsi che razza di scontro di civiltà sia mai questo, da pensare se, piuttosto, non si potesse riconoscere il caratteristico odio di classe dei subalterni gramsciani, il Lumpenproletariat del 18 brumaio o dei ceti medi declassati dalla crisi della Germania post-Weimar, dei poliziotti celebrati da Pasolini dopo Valle Giulia, di quelli che massacravano giovani inermi alla Diaz a Genova. E così via. All’idea dello scontro tra Islam e Occidente subito si sovrapponeva l’immagine di una più profonda guerra mondiale, vittime della quale apparivano chiaramente i ceti urbani emancipati dai valori tradizionali, quegli edonisti dediti alla lussuria del rock, al piacere di uscire la sera, di esprimere liberamente le proprie opinioni. Un po’ il seguito di Charlie Hebdo, ma meno simbolico, più feroce e concreto. Il precipitato violento della classica frustrazione, malcelata dietro vaniloqui mal coraneggianti, non dissimile da quella di Brevik nei confronti di coetanei più fighi di lui.

D’altra parte, non è casuale che la prima vittima di questi orrendi individui sia il ceto medio siriano, ridotto alla fuga, profugo in giro per tutta europa. E nemmeno è casuale che le Pen, Salvini e tutti gli xenofobi occidentali abbiano come bersaglio polemico proprio quei ceti urbani emancipati dai valori tradizionali addosso ai quali sparano questi altri orrendi individui. Veniva da subito difficile sopportare i richiami ideologici allo scontro di civiltà tra Islam e Occidente, riecheggiato da campane che lavorano per polarizzare l’opinione pubblica in questa direzione, nascondendo la realtà della posta in gioco. Che è e rimane la libertà di essere e vivere seguendo il proprio desiderio, la propria libertà di essere come si vuole. A Parigi come a Damasco.

Il quadro appare oggi più chiaro e Libération ha evidentemente adottato posizioni molto chiare al riguardo, titolando “Génération Bataclan” e spiegando che la vittima degli attentati è la “jeunesse qui trinque”. Come spiega lo storico specialista di Medio Oriente Jean Luizard in un’intervista a Mediapart: «Dans les quartiers attaqués, on peut voir des jeunes, cigarette et verre à la main, sociabiliser avec ceux qui vont à la mosquée du quartier. C’est cela que l’EI veut briser, en poussant la société française au repli identitaire, […] que chacun considère l’autre non plus en fonction de ce qu’il pense ou de ce qu’il est, mais en fonction de son appartenance communautaire». La commovente testimonianza di Erwan le Gal apparsa sulla sua pagina Facebook illustra chiaramente la natura degli obiettivi, in particolare del Carillon: «ce petit bar de quartier en bas de la maison, dans le 10e arrondissement, à l’intersection des rues bichat et alibert. la famille d’amokrane (papi amo pour les intimes), émigre de kabylie après-guerre».

Dal racconto di Erwan, che veramente prende allo stomaco, emerge chiaramente che «autrement dit, le carillon c’était d’abord un lieu qui incarnait pour ces fanatiques tout ce qu’ils exècrent : une certaine idée de la vie». Questa idea della vita che gli attentatori hanno voluto colpire è «celle qui consiste à prendre le temps de boire un café en terrasse, de lire, de rire, de partager une bouteille de vin avec des amis avec qui on ne partage pas forcément les mêmes orientations (religieuses, sexuelles, politiques), de fumer, d’écouter de la musique». Dunque, a differenza di quanto si sente strombazzare in giro, non sono sotto attacco i valori occidentali. Non è sotto attacco la famiglia tradizionale. Non è sotto attacco il comune benpensante francese o europeo, magari cristiano, forse proprio cattolico. Non sono sotto attacco le sue chiese, il suo lavoro, le sue giornate in fila nel traffico. Non è sotto attacco la sua televisione perennemente accesa sul nulla, la sua casa spettrale, non è sotto attacco il suo vuoto interiore, la sua incapacità di ridere.

Sotto attacco c’è un’idea di libertà che abbraccia il mondo intero e si realizza in luoghi speciali come il Carillon, dove indipendentemente da chi tu sia, da dove tu provenga, da cosa tu faccia o non faccia, dal tuo orientamento sessuale, politico o calcistico, c’è una sedia sfondata e un bicchiere per te, una bottiglia da stappare, una sbronza rumorosa e il piacere di stare insieme. Questo è il bersaglio che questi assassini si sono dati ed è qui che sono andati a smitragliare persone inermi e pacifiche, solo colpevoli del fatto di non condividere la loro miope visione identitaria della vita, la loro incapacità di essere qualcosa che hai deciso da solo. Questi assassini sono francesi, occidentali anche loro da quattro generazioni, animati dalla stessa rabbia che fomenta i loro simili di tutto il mondo, figure che tutti quanti in una qualche misura abbiamo incrociato, nel nostro percorso di vita parallelo, che col loro non s’incontra mai, nemmeno all’infinito. E che la sorte ce ne scampi, dalla banalità del normale, del comme il faut, dei decerebrati che oggi inneggiano alla guerra di religione, all’odio raziale, alle frontiere da chiudere, ai rifugiati da rimpatriare.

È con loro che siamo in guerra, da sempre, indipendentemente dal loro sesso, dalla loro razza, dalla loro religione. Perché da una parte ci sono le persone che esercitano la loro libertà, che ne chiedono di più, che se non la trovano se la prendono, dall’altra le stragrandi maggioranze incapaci di farlo che vivono prigioniere dei valori tradizionali, schiumano rabbia per la propria incapacità e se la prendono con chi è invece capace. Questa è l’unica guerra che c’è. La razza, la religione, la nazionalità sono etichette di comodo e circostanza, stupidagini che solleticano la profonda crisi identitaria dei ceti medi, capaci di sentirsi protagonisti della propria vita solo quando si agita un idolo, si sventola una bandiera, si addita un nemico. Per costoro non si può nemmeno arrivare a provare pena, solo profondo disinteresse per la noia che esprimono. La noia di vite tutte uguali, trincerate dietro simulacri di normalità agitati con violenza appena possibile.

Sono tutti uguali. E noi siamo diversi, soprattutto da loro, ma anche tra di noi. Perché ci piace così. Ci piace essere e sentirci diversi, perché è proprio la diversità di ogni individuo che rende speciale la sua vita, unica, irripetibile, diversa, appunto, da tutte le altre. Come quella delle vittime di questi orrendi attentati, che sentiamo vicine come se le conoscessimo, non perché fossero uguali a noi, ma proprio perché non lo erano, proprio perché condividiamo il piacere di essere ognuno come cazzo ci pare. E proprio per questo beviamo alla loro, e alla nostra, con le lacrime agli occhi, questo sì, ma senza paura. Perché abbiamo ragione noi. E questa guerra la vinceremo.

Questo pezzo è apparso il 16 novembre qui: http://divertimentideldesiderio.tumblr.com/post/133335194739/all-tomorrow-parties

Paris is burning. Stato d’emergenza e tentazioni sinistre

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Latufdi Jamila Mascat

A dispetto del titolo questo post è stato scritto a freddo e con umore raggelato. Non dice niente rispetto alla cronaca degli ultimi attentati che non sia già stato detto, in modi più o meno fortunati e più e meno condivisibili, altrove. Per intenderci: non ero, per mia fortuna, a tre tavoli dalle fucilate in rue de Charonne venerdì sera, né a due civici dal Petit Cambodge, non sono una habituée del Carillon, frequento raramente il 10ème e l’11ème da stupida fanatica del 18ème che sono e a un grado di separazione (ma solo uno, perché tra gli amici di Facebook non mancano i R.I.P.) tutte le persone che conosco sono salve. Per caso ho appreso quasi subito la notizia delle fusillades in radio (si parlava all’inizio solo di sparatorie e non di vittime, si capiva davvero poco) e la mia prima sciocca riflessione, mentre leggevo sul divano uno scritto soporifero è stata “vedi, alla fine Althusser, la disoccupazione e la neonata ti guastano la movida del venerdì sera, ma almeno ti risparmiano i proiettili” (ora me ne vergogno). Aggiungo che non ho fatto pellegrinaggi né perlustrazioni sui luoghi dei delitti in questi giorni. Sabato mattina verso le 11 sono uscita di casa, ho tentato “la prova del bar” per vedere che aria tirava e divorato frastornata un croissant in mezzo a gente ipnotizzata davanti alla TV che annunciava nei titoli a scorrimento la prevedibile rivendicazione degli attentati da parte di Daech, mentre un opinionista politico non meglio identificabile suggeriva prospettive inedite per una nuova stagione di lotta al terrorismo made in France evocando la metafora della disinfestazione delle cucine dagli scarafaggi (forse liberamente ispirata al bilancio sanitario di Marine Le Pen sull’immigration bactérienne di qualche giorno prima). Sabato ho camminato per le strade del mio quartiere, il 18esimo basso, Barbès, dove nulla somigliava allo scenario da guerra atomica che m’aspettavo: il negotium del marciapiede, tra pannocchie, sesso, telefonia mobile, sigarette, oro e stupefacenti, e poi le panetterie e le macellerie, i bar e i fruttivendoli, tutto all’apparenza – che magari inganna – era lì come niente fosse, come se per alcuni, affaccendati in altri affari e in altri affanni, la vita semplicemente continua alla meno peggio nel solito tran tran, senza resa e senza eroismo.

Ma se solo il giorno prima qualcuno mi avesse detto che a Parigi stava per succedere qualcosa di simile a quello che è successo venerdì, l’avrei accusato di paranoia e della peggior specie, islamofoba e razzista. Oggi purtroppo prevalgono la sensazione e il timore che non finiremo facilmente di stupirci. Non mi riferisco allo shock, la commozione, lo sdegno, le manifestazioni di solidarietà, i kamikaze, le dichiarazioni di Hollande sulla Francia impitoyable contro l’ISIS, né al profluvio del tricolore sui social network– che purtroppo (non smetterò di ripeterlo abbastanza) richiama più mattanze che rivoluzioni gloriose. Non mi riferisco ai Not in Our Name dei musulmani ‘per bene’ chiamati a smarcarsi dai fatti, né ai 115mila uomini in armi dispiegati in tutta la Francia, all’orrore di uomini e donne inermi, e nemmeno alla République che fa capolino come al solito o alle voci – le solite – di quanti non accettano di poterla tirare in ballo ogni volta che l’aria si fa pesante, come fosse l’innocuo deodorante per ambienti che non è.

E’ gia politica

Questo puzzle, che si è tristemente assemblato nel dopo Charlie, ricompare in una configurazione di poco mutata ora che di nuovo Je suis Paris e Pray for Paris. Lo stupore a cui accennavo, perciò, non deriva dalla somma di questi elementi, piuttosto dal bersaglio: qualunque, indeterminato, indistinto. Sono affiorati progressivamente i nomi e i volti delle vittime come cadaveri sull’acqua: Matthieu, Luis Felipe, Djamila, Valeria, Nohemi, Mohamed, Patricia, Halima e più di altri cento. Retrospettivamente né Charlie Hebdo né il supermercato Hyper-Cacher meritano di essere considerati per nessun motivo obiettivi giustificati, ma dieci mesi fa, costretti a misurarci con la logica dei simboli ignobilmente eletti a capri espiatori, potevamo ricostruire (e mai comprendere) le ragioni aberranti di quegli attacchi, pur senza farcene una ragione. Mentre le informazioni ancora scarseggiano e il web è cosparso di bufale, mentre le poche notizie che sono state appurate finora – il comunicato di Isis che rivendica “l’attacco benedetto” e l’identificazione parziale degli attentatori tra Parigi e Bruxelles passando per la Siria – bastano per che il coro infaticabile delle destre xenofobe d’Europa alzi il volume per intontirci di ritornelli insulsi, stavolta facciamo ancora più fatica a non considerare una follia quello che abbiamo tuttavia il dovere di politicizzare e non patologizzare. Stessi kalashnikov, stesso presunto Dio, stesso terrore, con molti morti in più rispetto a gennaio. Ma le vittime casuali – giovani e meno giovani, di decine di nazionalità, a cena fuori, a spasso vicino allo stadio, a bere, a un concerto metal – forse non sono un caso. Ed è ottimista chi pensa di poter fare di questo accidente infausto un semplice incidente, pura psicosi, roba da matti. E’ piuttosto la politica dell’Isis che piaccia o no, e il risultato (altrettanto politico) è la percezione diffusa, spaventosa e asfissiante che attacchi di questo genere siano sempre possibili perché imprevedibili e fuori controllo – non sto calcolando l’indice delle probabilità né additando il fiasco multiplo dell’intelligence francese in questo 2015 annus horribilis, ma penso alla restituzione di vulnerabilità assoluta che quest’ultima carneficina ha generato diffusamente. Il risultato di questo risultato è il rischio che di fronte alle schegge apparentemente impazzite del terrorismo, si finisca per impazzire tutti e ritrovarci senza bussola a ingoiare i deliri securitari di cui si nutrono in questi giorni il discorso del governo e le chiacchiere dell’opposizione.

Hollande ha dichiarato di voler prolungare, ammodernare e “consolidare” lo stato di emergenza (in vigore da sabato a mezzanotte), passando per un ritocco della Costituzione. Quando il Parlamento avrà votato a favore della proposta che verrà presentata mercoledì dal Consiglio dei ministri, sarà possibile estendere il perimetro e la durata di questo intramontabile residuato bellico del 1955 (bellico perché risale ai tempi della guerra d’Algeria) che l’ultima volta, non a caso, era stato resuscitato 10 anni fa, nel 2005 in risposta alla rivolta delle banlieues.

Ovviamente in Francia non mancano gli “strumenti” per la” lotta al terrorismo”. A luglio è entrata in vigore la loi relative au renseignement dopo il via libera del Consiglio costituzionale che il presidente aveva interpellato per sedare le polemiche sorte su più fronti contro questo provvedimento dal sapore vagamente liberticida.

Perfino il New York Times nell’editoriale del 1 aprile scorso, intitolato « The French Surveillance State », lanciava l’allarme sulle ricadute potenziali di una legge che conferisce all’esecutivo il potere straordinario di scavalcare i giudici nella gestione dei protocolli di sorveglianza. E per questo invitava il parlamento francese a difendere i diritti democratici dei cittadini contro le conseguenze di una politica di controllo e spionaggio “ingiustificamente espansiva e invasiva” che tra le altre cose prevede restrizioni sensibili alla libertà di stampa.

Lo Stato d’emergenza perciò acquista una dimensione squisitamente performativa, e non per questo meno reale o meno pericolosa: voglio dire che significa perfino qualcosa in più dei mille dispositivi tecnici che sappiamo  – i controlli delle frontiere, l’istituzione di zone di sicurezza, la possibilità di imporre il coprifuoco e i domiciliari, la semplificazione amministrativa delle procedure che consentono perquisizioni (più di 160 circa nella notte di domenica, 128 nella notte di lunedì), fermi e arresti, il divieto di riunioni in luoghi pubblici che, tra le altre cose, ci proibisce di commemorare le vittime, rispondere agli attentati e protestare contro i bombardamenti in Siria e l’état d’urgence). Significa, come ha spiegato Laurence Blisson, segretaria generale del Sindacato della magistratura, predisporre “una cornice sistematica in cui le decisioni non hanno più bisogno di essere giustificate singolarmente”, ovvero creare anticipatamente “una giustificazione assoluta”. A cosa? Alle parole, davvero poco rassicuranti di Manuel Valls in onda su RTL, per esempio: “Il faut, je l’ai rappelé depuis des mois (…) expulser tous les étrangers qui tiennent des propos insupportables, radicalisés contre nos valeurs, contre la République. Il faut fermer les mosquées, les associations, qui aujourd’hui s’en prennent aux valeurs de la République…c’est un combat de valeurs, c’est un combat de civilisations”.

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In un intervento più a caldo di questo Julien Salingue ricorda che la stima delle vittime in Siria da marzo del 2011 è di 250mila – ovvero 4500 morti al mese – per dire che lì “da 4 anni e mezzo è il 13 novembre ogni giorno”. Il conto delle vittime non vuole essere un pretesto per banalizzare l’accaduto e concluderne fatalmente che la ruota gira. Chi ha detto “oggi a Parigi e ieri a Beirut” (dove sono morte 43 persone assassinate nel quartiere sciita di Burj al-Barajneh), domandandosi per quale motivo ci siano vite visibilmente più degne di lutto e cordoglio di altre, benché perite a poche ore di distanza e per mano degli stessi mandanti, ha additato un fenomeno reale. Un deterrente alla percezione della prossimità autentica che sussiste tra i due episodi è naturalmente la distanza geografica. La quale tuttavia finisce per cristallizarsi in un’improbabile e non dichiarata ‘teoria dei due mondi’ che vorrebbe alcuni popoli più abituati a ingoiare sangue rispetto ad altri che al sangue preferiscono il bordeaux. Questa slittamento – dalla distanza al divario – si tramuta colpevolmente in distrazione e assenteismo e poi precipita nel compianto selettivo. Per quanto non sia affatto scontato emulare l’empatia da cento e lode di Che Guevara – “sentire nel più profondo di voi stessi ogni ingiustizia  commessa contro chiunque in qualsiasi parte del mondo”, la spirale delle stragi ravvicinate da Aden ad Ankara, da Baghdad a Boko Haram, da Beirut a Parigi a Raqqa, esige che la nostra solidarietà si elevi all’altezza smisurata delle tragedie che ci circondano per consentirci di resistere alla morsa di barbarie speculari e asimmetriche.

La paura c’è, è tanta e pure giustificata. Dice bene chi dice che dobbiamo combatterla, ma è quasi impossibile non pensare all’elefante, soprattutto quando assume sembianze decisamente mostruose. Ora, forse, non parlo a tutti, come scriveva Fortini – “Parlo a chi ha una certa idea del mondo e della vita e un certo lavoro in esso e una certa lotta in esso e in sé” – ma mi auguro lo stesso di parlare a molti: a chi condivide risolutamente la necessità di contrastare le aberrazioni che piovono da destra e dalle cime della Repubblica a ritmo ininterrotto – Hollande: «Il faut une véritable coalition pour l’Irak et la Syrie, mais aussi l’Afrique»;  Le Pen : « Il est indispensable que la France retrouve la maîtrise de ses frontières nationales définitivement »; B. Cazeneuve (ministro dell’Interno): «Celui qui s’en prend à la République, la République le rattrapera. Elle sera implacable avec lui et avec ses complices»; Laurent Wauquiez (segretario del partito Les Républicains, ex-UMP, presieduto da Sarkozy) : «Je demande que toutes les personnes fichées (alias “fichées S”, cioè schedate e sorvergliate in quanto ritenute, a diversi livelli di gravità, pericolose per la “sicurezza dello Stato”, si va dagli hooligans ai militanti politici ai sospettati di terrorismo e si stima che attualmente le fiches siano tra le 4 e le 11mila) soient placées dans des centres d’internement antiterroristes spécifiquement dédiés ».

Detto questo, un’ovvietà che merita di essere guardata in faccia e da vicino, senza scivolare nel pantano dell’islamofobia, è che il jihadismo esiste, miete vittime ma anche consensi, non smetterà di stupirci con effetti speciali, e effettua perfino servizi a domicilio. In modalità deterritorializzata e riterritorializzata, l’Isis cresce come un’organizzazione di cui stentiamo a comprendere le forme, nonostante gli sforzi (dubbi) degli specialisti nell’elaborare sofisticate mappature dei profili socio-psicologici dei “soldati del califfato” e minuziose analisi delle modalità di reclutamento virtuale. Per venirne a capo, scavalcando i ritratti sensazionalistici dei Jihadi John da copertina, dobbiamo filtrare la propaganda dell’odio, abitare la confusione e ragionare su dati incredibilmente incerti. Si legge un po’ ovunque che i jihadisti sono minorenni e maggiorenni tra i 15 e i 30 anni, uomini e donne, convertiti e non, di estrazione popolare e di classe media, cittadini, banlieusards e provinciaux, provenienti da famiglie numerose ma non solo, educati alla religione ma anche no, stranieri e naturalizzati, depressi ed entusiasti; desiderosi di radicalità (del resto lo sono in molti a quell’età, e per fortuna) incontrano la radicalisation, termine comparso nel lessico di cronaca francese da più di qualche anno e che rimbalza sui giornali per etichettare proto- pseudo- e potenziali jihadisti cartografati dalle forze dell’ordine.

Un’altra ovvietà che forse vale la pena sottolineare è che se un kamikaze non è mai solo un kamikaze, ma  una rete di supporto, sostegno, difesa, protezione e addestramento, e se un kamikaze, per quanto assurdo possa sembrare ad alcuni, è per molti versi un militante, l’Isis, di nuovo, non è follia, ma politica, oscena forse, e però pur sempre politica. Respinta l’ipotesi clinica, quindi, resta da demolire quella militare, rilanciata ieri dal discorso marziale di Hollande a Versailles– «La France est en guerre [..]. D’ici là, [..] intensifiera ses frappes contre Daech. [..] Le porte-avions Charles de Gaulle appareillera jeudi, pour se rendre en Méditerranée orientale, ce qui triplera nos capacités d’action ».

Dopo 14 anni di intensa e ininterrotta lotta al terrorismo con notevole dispiegamento di droni, armi e contingenti umani da parte del fronte occidentale, dopo aver cambiato i connotati ad almeno tre stati della regione (Afghanistan, Iraq, Siria) senza contare lo sfacelo della Libia e le sorti di stati carcassa come lo Yemen, e dopo aver favorito la mutazione genetica di Al Qaeda nell’Isis, sorge ragionevolmente il dubbio che qualcosa non sia andato per il verso giusto. Non solo il terrorismo prospera in Medio Oriente, ma è riuscito perfino a insinuarsi nel perimetro della vigile Europa costretta a fronteggiare oggi le premesse di una sciagurata e incivile “guerra di civiltà” che vede contrapposte le armi del terrore e quelle della xenofobia. Scarseggiano invece le armi della critica a volte anche nell’arsenale della sinistra che in Francia è doppia:  si colloca a sinistra del Partito socialista (non è così difficile) e si chiama gauche de la gauche o ancora alla sinistra di quest’ultima e cioè all’extrême gauche.

Cosa possa significare per queste due anime della sinistra fare i conti con il fenomeno del jihadismo, è una questione non da poco. Contestualizzare l’emergenza e l’espansione di Isis all’interno delle trasformazioni politiche e geopolitiche che interessano il mondo arabo-musulmano, pesantemente martoriato dagli interventi dell’imperialismo europeo e statunitense, non autorizza a ignorarne la portata europea.

E se risulta “facile” – almeno per l’extrême gauche – opporsi alla prosecuzione delle operazioni in Siria – che verrà sottoposta al voto dell’Assemblée nationale il prossimo 25 novembre – e ribadire che la strada da intraprendere non è certamente il neo-bushismo rivisitato e letale auspicato dal Finacial Times – ovvero la riaccensione in grande stile della macchina da guerra internazionale mai sopita, è meno scontato stabilire se e come una sinergia delle due sinistre (e quel che rappresentano) possa fabbricare una risposta politica a ciò che è successo, che sia non solo giusta ma efficace. Come possa in altre parole interagire con il senso comune e richiamarlo al buon senso, remare contro l’islamofobia diffusa (anche tra le proprie fila), respingere le manovre autoritarie del governo, evitare le scorciatoie di principio, dribblare il cinismo, farsi grande ma non ecumenica né tantomeno repubblicana, impegnarsi a contendere il terreno del terrore negli spazi sensibili, tenere alto il morale e sopratutto permettersi il lusso e il coraggio di pensare che tutto ciò sia praticabile.

Preferire di no

1047/1- Grve et manif ˆ l'intŽrieur de l'usine de Renault-Billancourt en Mai 1968 ©gerald Bloncourt
1047/1- Grve et manif ˆ l’intŽrieur de l’usine de Renault-Billancourt en Mai 1968
©gerald Bloncourt

Questa è una foto in cui mi sono imbattuta con una certa meraviglia qualche anno fa al Musée national de l’immigration (all’epoca Cité Nationale de l’Histoire de l’immigration), un sito espositivo nato e cresciuto dentro una serie di congiunture politiche più che infauste. Nel 2001 Lionel Jospin, allora primo ministro, aveva immaginato di consacrare il Palais de la Porte Dorée, che prima ospitava il Musée des Arts africains et océaniens, a un centro nazionale della storia e delle culture dell’immigrazione (l’idea originaria pare fosse di Mitterand). Silurato al primo turno delle elezioni presidenziali dalla vittoria di Le Pen padre, nel 2002, Jospin lasciò l’opera in eredità al nuovo presidente Chirac. Nel 2007, quando il museo fu finalmente allestito, il primo ministro Sarkozy si guardò bene dall’inaugurarlo essendosi da poco lanciato nella corsa all’Eliseo con una campagna elettorale che ostentava scarsia empatia nei confronti del tema dell’immigrazione. Abbandonato al suo destino, il museo aprì al pubblico senza alcuna cerimonia, e finì per essere inuagurato solo sette anni dopo, nel 2014, da Hollande, un po’ per caso, senz’arte né parte. La storia di questo progetto e la sua realizzazione – tra strumentalizzazioni propagandistiche, rigetto e tiepide accoglienze – è una metafora letterale del rapporto che il paese ha intrattenuto e continua a intrattenere con quella componente imprescindibile e costituiva del suo passato e del suo presente che è la popolazione francese di origine straniera. Le foto esposte (come questa e anche le due successive), nonostante le didascalie, erano riuscite a sedare il fastidio e la repulsione che provavo per quel luogo.

Sopra è il maggio 1968 e siamo a Renault Billancourt dove lavorano 21mila operai, di cui un terzo di origine straniera; si sciopera. Non è certo un’immagine del genere che può rendere conto della complessità e della durezza della questione razziale all’interno del movimento operaio francese. E ripescare questa foto, come anche quelle che seguono, non significa rifugiarsi nel mito né eleggere anacronisticamente quel modo a modello, a distanza di decenni.

643/5-3  Liquidation de la Siderurgie en Lorraine-  Vallee de Longwy -21 et 22/2/1979- immigrŽs syndicat grve ©Gerald Bloncourt
643/5-3 Liquidation de la Siderurgie en Lorraine- Vallee de Longwy -21 et 22/2/1979- immigrŽs syndicat grve
©Gerald Bloncourt

 

Manifestation des travailleurs algériens. Paris, 17 octobre 1961.
Manifestation des travailleurs algériens. Paris, 17 octobre 1961.

PoissyStabiliminento PSA- Peugeot-Citroën a Talbot-Poissy, atelier B3. 1984. Sciopero


Le uso piuttosto come un’allegoria: tutte ricordano, se ce ne fosse bisogno, che la storia dell’immigrazione in Francia non è stata solo una storia di emarginazione, ma anche una storia di lotte e di protagonismo. Evocano confusamente l’idea che c’è un lavoro imprevedibile da immaginare e da compiere per provare a tessere legami spuri, occasionali e non scontati, che contrastino l’apartheid del pensiero, della prassi e del quotidiano tra pezzi della società francese che potrebbero ambire a riconquistare terreni di comunanza.

Si tratta di misurarsi con spazi geografici, sociali e ideologici che molte delle organizzazioni della gauche tout court hanno lungamente disertato, in cui negli anni hanno perso credibilità dando prova spesso di razzismo, insolenza, cecità, sordità, vigliaccheria. Si tratta perciò di capire come riguadagnare sul campo il diritto di parola e il diritto di confliggere, e questo, nello specifico, proprio in relazione alla recrudescenza del terrorismo.

Il ragionamento che sto facendo sottintende la presunzione – ridiscutibile e rinegoziabile – che una strada del genere possa e debba essere percorsa. Sto provando a perorare una causa. C’è qualcosa di stantio quasi putrefatto nell’espressione ‘perorare una causa’, mi chiedo se sia colpa della causa o della perorazione e credo che alla fine sia colpa di entrambe. La causa nel 2015 soffre da ansia di prestazione perché non è mai l’unica, e per poter essere sposata deve sapersi dimostrare all’altezza di essere capace di interagire con altre cause. La perorazione ricorda la pastorale, suscita noia e pruriti, e anche lei a suo modo, induce il sospetto di follia quando somiglia troppo da vicino alla vocazione monomaniacale, all’ idea fissa. Ancora una volta opterei per chiamare semplicemente politica un’attività umile e ostinata che deve categoricamente e incessantemente porsi il problema di scovare alternative quando pare che non ce ne siano e impegnarsi a costruire nessi impensati.

In questo senso c’è bisogno di reinventare forme inaudite di prossimità tra mondi del dissenso che tendono a ignorarsi. Nei luoghi fisici – nelle scuole, sul lavoro e nei quartiers populaires – ma anche nelle parole d’ordine e nelle scelte di campo, come in questo momento. Non so se il momento è propizio, ma è un momento decisivo. Se quel che si prepara (il se è retorico) è un giro di vite accelerato sulla sicurezza e le libertà, è bene trovare le parole per dire che nella restrizione delle libertà di tutti, quelle di alcuni saranno minacciate più di altri; che il via libera alla caccia ai terroristi consisterà anche in un via libera agli abusi razzisti da parte delle forze dell’ordine; che migranti e rifugiati ne pagheranno le spese, insieme a chi intende stare dalla loro parte, e che di tutto questo, cioè dello stato d’emergenza e dei suoi derivati, non c’è bisogno. Quando, come nel dopo Charlie, la République incarnata da una sinistra che recita la parte della destra chiede al resto della gauche di stare dalla sua parte (con le sue bandiere e le sue bombe, con il suo esercito e il suo stato d’eccezione) in nome dell’Union nationale, sarebbe meglio preferire di no (come faceva Bartleby) e spiegare pazientemente (come suggeriva Lenin) le ragioni di una scelta impopolare (“people quite often do NOT know what they want, or do not want what they know, or they simply want the wrong thing”, nota Žižek, e non ha tutti i torti). Altrimenti non si vede come questa gauche possa candidarsi ad avversare e contrastare sul suo terreno la partita del jihad –  che per molti, secondo Olivier Roy, è la sola “causa disponibile sul mercato” – con un certo margine di credibilità ed efficacia. Per arrogarsi il diritto e dovere di contesa, per conquistare il diritto e il dovere di perorare altre cause, c’è bisogno di imparare ad assumere quel fenomeno che capiamo ancora poco e chiamiamo jihadismo non come un corpo alieno, come l’altro che è in noi, bensì paradossalmente come cosa nostra, figlia e non infiltrata, come una res tragicamente e orribilmente publica (da non confondere con la Repubblica).

Essendo il dentro un fuori infinito #7

1

di Mariasole Ariot

“La diffusa credenza che kangaroo significasse “non capisco”, risposta nella lingua aborigena a una domanda posta in inglese, è soltanto una leggenda

macropodidae

Roberto grande piede è un canguro. Macropodidae. La testa inclinata a est, la sacca marsupiale per i nuovi ospiti, i passi falcati, lenti se necessario, un salto dalla finestra quando è troppo. In ordine sparso appaiono tre rivelazioni notturne, le bussa al campo della mia porta, il tempo è caldo :

figliare tre parti

figliare tre parti plurigemellari

non figliare

Roberto dalla spina di pesce sul collo dice il Requiem di Mozart – prego, sissignore, un requiem per la testa, datemi una spina e una valvola di sfogo, Roberto non piange mai, Roberto ride se marcato a forza, Roberto sbatte le porte, vive tre volte da ventisei anni. E’ fuggito per tornare a casa – ma dov’è la casa, madre, dove un luogo che faccia copertura, dove un tetto, dove i muri?
Dove. A secco, i muri alti limitano ingressi ed uscite ma non bordano. Roberto dice : participio passato del verbo sentire, o forse imperfetto. Ora non sento più niente.
Diagnosi : domande infantili. Roberto ha la testa inclinata distonicamente, un’offesa dei farmaci, la sua controffensiva è la risata. Atterra il cranio verso il tavolo, cadono pezzi di cibo, azzanna il cucchiaio, Roberto è perduto è dice andremo, parleremo al futuro, scriverò a mio fratello.
Caro G.,
la casa di mamma è grande ma può ospitarmi. Ora che non c’è più una madre, io non sarò più figlio. Perché è morta? Posso essere un uomo come sei tu, uomo, essere umano senza essere, posso mangiare un gelato al bar all’angolo? Ho comprato gli spartiti di Mozart: suonavo il minuetto e sono sempre stato una frana. Qui una donna parla coi gatti, i gatti le rispondono. Dice dicano il vero del silenzio, la voce della muraglia, dice siano collegati coi computer del colle e la cucina : conoscono il menù dei pasti in anticipo.
Toglieranno le cabine telefoniche, l’ho letto sul giornale, G. Brutte notizie. Come si usano i nuovi dispositivi, G.?
Perdonami. Ho un cuore che non sente più, due gambe morte che continuano a saltare. Chiamami quando puoi, vieni a trovarmi. Posso chiedere una visita? Posso essere uomo se sono un bambino? Posso fare la patente se esco? Posso dire al parroco di andare a farsi fottere? E’ un peccato, lo so. Fratello che passi e senza requiem, parlami di macchinari a luci rosse. Qui tutto è cieco. Vengo da quindici milioni di anni fa.
Posso fare una domanda? Posso ancora una domanda?

ascolto

Roberto ha un sogno incastrato nell’occhio cisposo, s’intravede sfregandolo con la spugnetta verde, grattando fino all’osso. Un liquido trasparente attraversa la sua mano e urla e non si crede e credono se non crede, e non piange, Roberto non piange mai.

Al Castello si avvicina di nascosto, prende l’ascia dalla parte opposta, cade una mano come cadono foglie. E’ autunno e mancano marsupi per i figli, i farmaci uccidono il verbo che collega sinapsi a sinapsi, pensare, timpano a timpano, udire, tutto si trasforma in visione. Roberto ha due monconi per dispiacere, per aver chiesto un tramezzino di troppo, per aver domandato, per aver posto. Per aver chiesto un posto.
Ossigenarsi fino al midollo è una catastrofe : cadere da un pozzo e continuare la caduta, diventare la caduta per errore, balordo di polvere.

Madre, la mia testa è una zona marsupiale, un nido di piccole creature mai nate, si aggrappano alle mammelle, alle costole, spingono per avere un respiro, affondano sulle budella, suggono. Ho una testa piena zeppa di cadaverini in divenire, una scarsa funzionalità della placenta.

discinesia

Roberto inclina la testa a est, dice la terapia del movimento, dice la rabbia, dice la nebbia, dice le foglie che inciampano i bambini, dici la sabbia, dice le corse sui crampi, dice la testa, dice la rabbia, dice le grondaie piene di sangue, dice non dire, dice l’infante, dice il marsupio, dice luoghi d’origine e non origine, dice la nebbia, dice la rabbia, dice la nicchia ecologica mai avuta, dice il Mesozoico, dice le migrazioni, dice la testa inclinata ad ovest, dice la difficoltà del dire, il rallentato, Roberto l’uomo dai piedi giganti, l’uomo dei due tempi, Roberto che mastica coi denti innaffiati di involuzione, Roberto che ride, Roberto che non muove, Roberto che chiede : posso ancora una domanda?
Diagnosi : reparto infantile. Non c’è patente di guida, madre, non c’è una storia, ci sono le cadute, le centocinquanta cadute, centocinquanta cicale che fremono il giorno, disturbano il presente, Roberto che dice l’assenza, Roberto che cade, Roberto che è sempre caduto. Marsupiale, distonico, macropodidae.