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“Culo di tua mamma: Autobestiario 2013 – 2022”. Intervista ad Alberto Bertoni

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a cura di Andrea Carloni

 

Alberto Bertoni è nato a Modena nel 1955 e insegna Letteratura italiana contemporanea e poesia del Novecento nell’Università di Bologna. In poesia, dopo una serie di opuscoli, libretti, plaquettes inaugurata nel 1981, ha esordito con il volume Lettere stagionali (Book Editore 1996, con una nota di Giovanni Giudici), a inaugurare una sequenza di otto libri, tra cui spiccano le tre edizioni di Ricordi di Alzheimer (Book Editore 2008, 2012, 2016) accompagnate da una poesia in versi pavanesi di Francesco Guccini oltre che da una nota critica di Milo De Angelis, e che si compone nei suoi ultimi esiti di Traversate (SEF 2014, prefazione di Paolo Valesio), della silloge Poesie 1980-2014, (Nino Aragno Editore 2018), del libro in dialetto modenese Zàndri (Book Editore 2018), delle traduzioni di Irlandesi (Corsiero Editore 2020), dell’Isola dei topi (Einaudi 2021 Premio Carducci 2021 e Premio Pontedilegno 2022) e dell’“Autobestiario” Culo di tua mamma, (Collana Giallo oro di Pordenonelegge, Samuele Editore 2022).

Proprio sull’“Autobestiario”, la sua ultima raccolta di poesie, Alberto Bertoni ha gentilmente accettato di rispondere ad alcune mie domande.

Il titolo di questa raccolta, Culo di tua mamma: Autobestiario 2013 – 2022, ci porta a due autori: il Charles Bukowski poeta e il Federigo Tozzi di Bestie. Cosa può dirci di questo titolo e del rapporto con questi due riferimenti letterari? 

Per rispondere a questa domanda, devo prendere le mosse da qualche considerazione di ordine strutturale prima che meramente descrittiva o confessionale di uno stato d’ispirazione legato a una specifica poesia. Nel settembre del 2022 è uscito un libro che io non avevo minimamente previsto di fare. Anzi, tutto è avvenuto per caso (il caso è una componente tutt’altro che secondaria dell’ispirazione e della composizione poetica): verso la metà dello scorso giugno 2022, gli amici Gian Mario Villalta e Alessandro Canzian mi hanno proposto di partecipare con un mio volume di versi alla collana Gialla Oro che la Fondazione Pordenonelegge ha affidato da un paio d’anni a Samuele Editore. Io avevo i cassetti dove conservo gli inediti che vengo componendo quasi del tutto vuoti, perché nel ’21 è uscito un mio libro impegnativo, L’isola dei topi, nella prestigiosa collana “Bianca” di Einaudi. Tuttavia la proposta dei due compari di poesia era molto intrigante, perché non mi chiedevano un libro generico, bensì un libro monotematico.

Così, d’acchito ho risposto che mi sarebbe piaciuto comporre un Bestiario, includendovi qualche poesia del passato, qualche inedito (che sapevo di conservare in un certo comparto segreto del cassetto cui ho fatto cenno prima) e qualche traduzione. I due furono entusiasti della proposta, ma mi diedero una scadenza ravvicinatissima: dieci giorni al massimo, dal momento che intendevano uscire per il settembre successivo, quando per l’appunto si svolge la kermesse di Pordenonelegge.

Quello stesso pomeriggio sono entrato nel tunnel di un trip compositivo e ordinatore mai sperimentato prima e – dopo otto giorni di lavoro matto, notturno e disperatissimo – ho consegnato ai due committenti il volume Culo di tua mamma, che riprende nel titolo un verso di Charles Bukowski dedicato all’ippica, sport e motore di un rapporto con i cavalli da corsa che mi appassiona e mi attrae fin da quando ero bambino: proprio loro, i cavalli, incarnano da sempre per me gli animali più degni di passione. In una parola, l’elemento unificatore di questo libro (nel quale riconosco alcuni dei motivi e degli esiti più durevoli della mia scrittura poetica) risiede nel capovolgimento del prevalente uso letterario degli animali nel tempo lungo della storia occidentale, dalle favole di Esopo e Fedro fino ad Alice nel paese delle meraviglie e a Pinocchio, ma anche oltre, spingendoci almeno verso Rodari e Scialoja.

La via maestra, infatti, è stata il più delle volte quella di un’umanizzazione più o meno esplicita delle proprietà animali e di una esposizione più o meno parodica di vizi e virtù del genere umano, proiettata su una serie di comportamenti animaleschi evidentemente permeati da peculiarità caratteriali e psicologiche di per sé umane. Rileggendo alcune mie poesie del passato più recente insieme con quel blocco di una trentina di inediti che erano andati a rintanarsi nel cassetto segreto di cui sopra, mi sono accorto che – al contrario – gli animali che facevano sempre più spesso capolino nella mia poesia erano portatori della procedura opposta: e incarnavano quel processo di animalizzazione dell’umano che mi sembra sempre più diffuso entro la nostra civiltà di massa, meccanizzata e informatizzata, ma anche sempre più spietata, belligerante e “vuota” di spiritualità e di comunità.

Quanto a Tozzi lo considero non da oggi uno dei grandi rimossi della nostra tradizione letteraria, insieme coi non meno grandi Antonio Delfini e Alberto Savinio. Bestie, uscito in prima edizione da Treves (quindi un editore di primo piano, lo stesso di d’Annunzio e di Gozzano) nel 1917, nell’anno più drammatico della Prima guerra mondiale – un dato assai rilevante – è uno dei libri decisivi della nostra tradizione del nuovo, aprendo di fatto il Novecento e il suo lanciarsi a capofitto nella pratica del romanzo: in Italia sotto la spinta di un grande critico – di lì a qualche anno, per di più, convintamente antifascista – come Giuseppe Antonio Borgese.

“Chi ti piace di questa corsa?”
“Culo di tua Mamma”, l’ho informato
ma non appena si è messo
a cercarlo sul programma
me ne sono andato.

Per un momento sono stato il babbo
anzi, la mamma della larva
finché non hanno detto basta
l’aroma di pipì nell’aria
della mia casa, il
dentifricio che manca
o la risacca di carta
per terra e negli infissi
morta la larva adesso, annichilita
dalla pressione di due dita

Il suo libro trabocca di “bestie” e ci racconta delle relazioni domestiche con i propri animali affezionati. Ma allo stesso modo, in fondo, non ci ricorda anche che la selvaticità del mondo animale non potrà mai aderire del tutto alla nostra visione domestica e umana?

Sono d’accordo con l’assunto di base: il gatto è un animale domestico fino a un certo punto, non è che lo si possa assoggettare alle regole di una pacifica coesistenza piccolo-borghese entro una realtà condominiale. Dall’inizio del nuovo secolo ho avuto tre gatte, la prima era già anziana quando ho cominciato a conviverci, la terza ha cinque anni e mezzo ed è la protagonista del passo poetico ripreso qui: un passo che mi è caro, perché riprende un attimo di sospensione che mi piace equiparare al surplace nel quale si impegnavano – quand’ero bambino – i velocisti su pista, per acquisire una posizione di vantaggio tattico nei confronti dell’avversario che aveva il vantaggio di poter scattare da dietro, all’improvviso. Ovviamente, il retroscena del surplace verificatosi fra la mia gatta e me la sera che mi ha ispirato la poesia è consistito in un mio piccolo gesto sospeso fra carezza e buffetto al quale lei ha risposto con una fulminea zampata, però ad unghie chiuse: doveva ancora cenare. Non c’è bisogno che aggiunga che anche in futuro potrò convivere solo con felini di sesso femminile, proprio per questa imprevedibilità e per la punta di spirito vendicativo che nella gatta esplode sempre dopo una mia vacanza, temperate da una considerazione istintiva e intelligente per lo stato delle cose e i rapporti di potere domestico.

Siamo ben vivi
mentre ci fissiamo
immobili da qualche istante
la mia gatta e me

Siamo ben vivi e anche
pronti a scattare
l’uno verso l’altra

L’elemento che più di ogni altro gli umani e gli animali si trovano a condividere è l’ambiente. Quanto è importante oggi, nel corso della ricerca poetica, cogliere non solo la fascinazione e le storie dei paesaggi e dei luoghi, ma anche i mutamenti e i rischi che vi incombono?

Devo prenderla un poco alla larga. La poesia, di questi tempi, non è certo un genere letterario che va per la maggiore, perlomeno sul piano della resa commerciale e del conseguente interesse mediatico o editoriale. Tuttavia, i tre milioni di italiani e di italiane che sentono oggi il bisogno di scrivere in quella forma artificiale di linguaggio che è il verso e che magari hanno nell’orecchio la prosodia “non più romanza” del rap (che comporta versi non più sillabici, ma fondati su quattro o cinque battiti accentuali “forti”) superano tranquillamente ogni imbarazzo di competenza e di rapporto diretto con un’arte millenaria come la poesia nel nome di un bisogno – che è di tutti – di funzione poetica, fra confessione, autofiction e rispecchiamento nelle diverse forme gradevolmente necessarie di eufonia, armonia e musicalità verbali: in un contesto entro cui l’oralità prevale ormai endemicamente sulla scrittura.

A ciò si aggiunga che la funzione poetica è in rapporto stretto con i nuovi nodi problematici (cui corrisponde un’omologazione mai accaduta prima tra “valori” e “disvalori”, esigenze di approcci realistici e distopie) che una società in continua trasformazione come la nostra di ormai “ex primo mondo occidentale” pone con forza sempre più accentuata in primo piano: il clima, le guerre, l’istruzione, una medicina e una scienza davvero per tutti, l’attitudine maschile al femminicidio, le migrazioni, i colonialismi sempre più diffusi perpetrati dalle cosiddette “grandi potenze” nei confronti di paesi, popoli, lingue circostanti, il bisogno complessivo di un’ecologia (delle menti prima ancora che degli ambienti o delle risorse energetiche o delle connessioni fra l’umano e l’animale) che coinvolga tutto il pianeta e non sia più settoriale (cioè appannaggio solo dei più ricchi e istruiti), la perdita d’incisività del suffragio universale, sempre più orientato ad affidarsi a sistemi totalitari ed esplicitamente neofascisti. Tutti questi elementi compongono un quadro di realtà molto problematico e quasi sempre contraddittorio con il quale una poesia che ormai non fa più parte del Letterario come lo intendevamo nei secoli passati ma guarda piuttosto all’Antropologico un po’ deve e un po’ vuole fare i conti: da questo punto di vista, la radicale discrasia fra l’Economico e il mondo poetico può trasformare in atout una penuria tanto estrema entro un mondo soggiogato dal denaro e dall’ansia del possesso. Io sono davvero convinto che oggi niente meglio della poesia possa incidere sul destino civile e sull’autoconsapevolezza di una società contemporanea che possa riprendere a definirsi e in qualche modo riconoscersi giusta. Ed è plausibile che questa “rinascita” etica possa prendere le mosse da una pratica poetica di massa (e in quanto tale destinata a una vita di superficie) che tuttavia, qualora venga plasmata e incanalata verso le profondità “verticali” occupate dai bituminosi territori dell’onirico, può fornire qualche buona medicina dell’inconscio e dell’interiorità, permettendo ai suoi adepti di guarire dalle malattie purtroppo assai diffuse del narcisismo e del solipsismo.

Allo stesso modo, questo vantaggio potrà facilitare anche il rapporto (che è in realtà una contraddizione) fra l’ansia di autofiction che pervade gran parte dei testi poetici “spontanei” e la condivisione di esperienza che deve necessariamente coinvolgere un Altro/Altra-da-noi. Com’è naturale, tale condivisione è destinata ad avvenire a distanza di spazio, di tempo, talvolta di lingua. Ma, se di buona stoffa, un messaggio poetico non meramente confessionale, bensì di slancio insieme emotivo e conoscitivo, darà luogo a un’esperienza affettiva e politica, proprio perché estranea ai gravami di ideologie definitivamente archeologiche. In questa chiave, sono integralmente d’accordo col bravo poeta spagnolo Alfonso Brezmes (classe 1966), edito in Italia da Einaudi, quando dice: “Il poeta – mi dici – è un’anima carica di passato. La poesia – ti rispondo – è quel luogo del futuro che io ho scelto perché tu viva.”

Come un animale
non morirò di freddo
né di fame

Di sete, piuttosto,
o di zanzare,
se non prima di Covid-19
o di guerra nucleare

Nei suoi versi il tema della morte ricorre e si manifesta come se la poesia stessa si rivelasse il principale strumento di studio e conoscenza di questo argomento. In che modo nella poesia la morte e i morti si incontrano con la vita e i vivi?

Certo, le due soglie davvero metafisiche con le quali ogni vera poesia è destinata a confrontarsi sono l’Amore e la Morte. Infatti – quando si parla di poesia – la parola assume una dimensione apotropaica, predisponendosi a far riecheggiare nei testi più riusciti (basta pensare a Dante, alla “selva oscura” che si situa al principio della nostra tradizione in lingua di sì) la voce dei morti. Della prima volta che ho percepito in modo drammatico la consapevolezza del destino di morte che tutti ci accomuna conservo un ricordo molto preciso ed è un ricordo che precede il mio innamoramento per la poesia. Avevo 8 o 9 anni, quindi doveva essere il ’63 o il ’64, e stavo sul divano del tinello in braccio a mio padre, quando scoppiai in un pianto dirotto. Lui in casa spesso stava con la canottiera, nei mesi primaverili o estivi, e quindi ho un ricordo preciso del suo collo e della spalla nuda, da cui a un certo punto sollevai la testa, già in lacrime, lo guardai in faccia e gli dissi: “Papà, ma è vero che dobbiamo morire tutti? E quindi morirai tu e morirò anch’io?”. Lui mi rispose che era vero e che a tutti noi sarebbe toccato un giorno di morire, tanto che io continuai a piangere in modo ancora più violento. Quindi la prima sensazione di morte fu autoindotta dal mio rimuginio mentale e non provocata da uno specifico evento luttuoso.

Per quanto riguarda il gusto cui si può associare il senso della morte, penserei a un tè molto forte, di quelli che poi ho imparato a bere in tempi più recenti, tipo il tè nero, oppure sicuramente a una vodka, che, infatti, è un liquore che non amo particolarmente e che cerco di evitare (non sempre riuscendoci) proprio perché con la sua secchezza e questo suo bianco di ghiaccio, questa trasparenza assoluta, mi fa pensare alla morte. Come colore, il nero, per l’appunto. Vado nell’ovvietà del luttuoso, che coinvolge il colore della mia stessa automobile, ma che, tutto sommato, non amo. Non amo non tanto su me stesso perché se mi capita di portare dei jeans neri, o una maglia nera, non ho nessun problema: non lo amo come colore di moda. Il fatto che mia moglie e le sue amiche, quando vogliono sentirsi eleganti, si vestano integralmente di nero è una cosa che io contesto fortemente e mi vengono in mente i colori che invece usavano nell’antica Roma o nelle corti durante l’autunno del Medioevo, che erano colori vivi, rossi, turchesi, verdi… Nondimeno, perfino gli emblemi della nostra idea di classicità, le statue e i bassorilievi di Fidia, nel mondo greco, erano tutti colorati in modo molto vivace (ori, turchini, porpore), così come segno di distinzione, nella Firenze medicea e rinascimentale, era portare degli abiti molto colorati, simboli di raffinatezza perché era più difficile reperire i colori. Anche nel femminile mi piacciono molto gli abbigliamenti colorati. Il nero come abbigliamento di moda e di distinzione mi mette tristezza.

Nella mia vita interiore, la presenza della morte non è affatto saltuaria. Negli anni, confesso di aver maturato un’angoscia violentissima nei confronti della morte e dell’idea che tutti dobbiamo morire: cioè non sono affatto cambiato, da quel pianto primario, esploso nel mio tinello modenese, cui accennavo poco fa. Anzi, mi sorprendo, in giorni particolarmente cupi, a fare una specie di conto alla rovescia di quanto mi rimarrà ancora da vivere: anche perché ultimamente molti amici cari o sono morti o versano in situazioni di salute decisamente rischiose. Negli ultimi anni, per esempio, mi è capitato di andare a trovare all’ospedale un amico vero, con cui ho fatto molti viaggi familiari, di coppia, sia a Parigi che in Maremma, che ha vissuto un’esperienza di leucemia fulminante e ha dovuto seguire protocolli di cura pesanti e rigidi, in attesa di un trapianto di midollo. Alla fine, il trapianto è andato bene e l’amico è guarito, ma in ogni caso, sì, io continuo a essere ossessionato dalla morte, ci penso tutti i giorni e cerco, in qualche modo, di esorcizzarla. In proposito, sono assolutamente convinto che l’unico modo sensato, umano, per esorcizzarla siano le soglie sempiterne, le frontiere di metamorfosi e di transfert, insomma l’Eros e la Poesia. E la poesia è oggi per me un appiglio decisivo: anzi, lo strumento umano che meglio mi permette di elaborare l’esperienza del lutto e di difendermi dall’insistenza sempre più ingombrante dell’idea di morte. La realtà del mio soffrire di vertigini e del terrore anche solo di affacciarmi a un primo piano è legata al fatto che, naturalmente, sento affiorare con prepotenza il desiderio di buttarmi di sotto. Avverto in quei momenti un’attrazione del vuoto davvero fortissima e non è un problema di orecchie o di equilibrio nell’orientamento. È un problema psicologico di attrazione alla morte, per annichilirne la pervasività del pensiero.

In me, ma soprattutto nel mio rapporto con la poesia (lo ripeto, più letta che scritta), non è mai rimosso il dialogo con i morti, nel senso che l’angoscia di cui sto dicendo non mi impedisce mai di parlarne, attraverso la poesia, anche se, ovviamente, cerco sempre di guardare la realtà con occhio molto lucido. Ritengo che la poesia sia lo strumento più potente che abbiamo per far parlare i morti e per dialogare con i morti. Spero che, magari, proprio loro, i più cari, i nonni i genitori le amiche e gli amici sopravvivano ancora per qualche anno dopo la mia morte attraverso alcuni versi e che, in qualche modo, se non altro il mio fiato, la mia voce, possano anche solo flebilmente far riecheggiare nel profondo di qualche coscienza aperta davvero all’ascolto le loro esperienze, i loro nomi, i loro profili attraverso l’aria dei vivi: di certo non preconizzo una sopravvivenza decennale, o centenaria, o millenaria, ma una sopravvivenza minima, di qualche mese, di un paio d’anni: mi farebbe molto piacere, naturalmente comprendendo anche me stesso in questa sopravvivenza lieve, non invasiva né tombale, ma acustica, viva, vocale.

…il problema è come
dopo la morte riascoltare
chi di una storia ci ha svelato
i dedali infiniti delle tane
intanto che i parchi
gli incroci i profili delle case
urlano implorano piangono
tutte le sagome più care

Può parlarci del ruolo della memoria nella sua attività di scrittore, e quindi anche del rapporto con la materia autobiografica e il ricordo delle esperienze vissute?

Nel contesto storico-sociale di oggi, la poesia è più importante leggerla che scriverla. Più importante ancora sarebbe imparare a leggerla, impresa difficilissima perfino per gli addetti ai lavori: infatti, se ognuno di noi conducesse un vero esame di coscienza, si accorgerebbe che nella suddivisione attuale del tempo quotidiano l’occasione per una lettura piena e liturgicamente concentrata risulta sempre più ristretta e difficile. La lettura infatti è spesso più ostacolata che favorita dal contesto nel quale ci si trova anche professionalmente ad agire: a maggior ragione se si svolge il mestiere di insegnante.

Leggere davvero una poesia (meglio precisare: una grande poesia) implica sempre un atto di riformulazione interiore e dunque di rilettura: e sollecita l’affinamento di una dote specifica (da applicare al linguaggio) di orecchio musicale e di competenza espressiva, retorica, metrica. La poesia è infatti un atto linguistico nel quale al significato referenziale degli enunciati si somma tutta una serie di strategie espressive che coinvolgono l’ordine delle parole, le strutture allitterative e fonosimboliche, la dislocazione degli accenti lungo il filo del discorso, gli effetti di parallelismo grafico e sonoro (rime, assonanze, consonanze), la suddivisione metrica che – in tempi di verso libero – tende a organizzarsi secondo un’accettabile suddivisione del recitativo, la qualità spiazzante dei cosiddetti tropi, che si danno quando il linguaggio sostituisce i termini propri con termini che provengono da campi semantici diversi rispetto a quelli che richiederebbe una logica consequenziale: metalessi, metonimie, sineddochi, soprattutto metafore.

L’effetto di queste energie aggiuntive rispetto al semplice “contenuto” del testo poetico (e letterario in genere) e alla sua organizzazione tematica hanno il fine di potenziare la parte emotiva, suggestiva e infine immaginativa propria del messaggio poetico. Lo dice già Leopardi, meglio di ogni altro, quando nell’Infinito elenca una serie di percezioni sensoriali, intessute di “spazi”, “silenzi”, “quiete”, concludendo “io nel pensier mi fingo”: in questa formula, risiede l’essenza stessa della compiuta ricezione poetica, affidata all’opera ri-creatrice dell’immaginazione individuale, esperienza somma di piacere, di condivisione e di trasformazione dell’emozione sensoriale in conoscenza, per una congiunzione finalmente compiuta di corpo e pensiero.

Tutto questo ha direttamente che fare con la memoria, che – non dimentichiamolo mai – è necessariamente composta anche di oblio: altrimenti non potremmo vivere. La memoria poetica non è qualcosa di passivo o acquisito una volta per tutte: piuttosto è uno strumento dinamico e in continua evoluzione, nel cui dominio rientra anche quel fenomeno meraviglioso che è la memoria involontaria, tanto legata ai sensi corporali solo in apparenza “minori” rispetto alla vista e all’udito: il gusto, il tatto, l’olfatto. Ma la memoria, in un poeta, è anche letteraria, oltre che storica, familiare, personale. E lì si affacciano i traumi, le ossessioni, i tabù, vale a dire tutti quei sintomi che proiettano nel linguaggio della poesia anche le attitudini meno visibili del nostro inconscio.

Ha un odore, credimi, il passato
quando torna nell’eco di una voce
covo e rogo di polvere
in fuga non appena piove
come oggi sui muri le lucertole

 

Isole che si credevano perdute

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Riccardo Socci e Tommaso Di Dio in dialogo attorno a Poesie dell’Italia contemporanea (Il Saggiatore 2023)

 

RS: Caro Tommaso, quando il lettore si trova di fronte questo tuo originale e, per molti aspetti, coraggioso lavoro viene colpito innanzitutto da un fatto in senso proprio ovvio: la sua mole. Il criterio quantitativo che informa questa antologia (1085 pagine) è sottolineato, e implicitamente assunto a metro di riferimento per misurare l’importanza e la profondità dell’opera, già in quarta di copertina: “più di seicento poesie. Più di duecento autori. Cinquant’anni di poesia italiana”. I testi sono strutturati in cinque sezioni – una per decennio – e attraversano un arco di tempo che va dal 1971, anno che segna uno spartiacque nella storia della poesia italiana contemporanea, come la critica ha ormai ampiamente mostrato, al 2021. I loro autori coprono invece un lasso di tempo ancora più ampio, se consideriamo che tra l’anno di nascita del poeta più vecchio (Montale, 1896) a quello del poeta più giovane (se non vado errato: Cornelio, 1997) è passato oltre un secolo.

Durante la lettura, ho avuto l’impressione che il numero degli autori antologizzati per ogni decennio tendesse via via ad aumentare, fino a raggiungere una soglia particolarmente elevata nell’ultima sezione, 2010-2021. Ho pensato dunque di verificare questa idea. Nella tabella di seguito riporto i dati raccolti:

 

AUTORI 1971-1979 1980-1989 1990-1999 2000-2009 2010-2021
Totale decennio 44 60 56 80 111
Precedentemente citati / 22 35 34 36
Non citati prima 44 38 21 46 75
Totale antologia 224

 

Considerando sia il totale degli autori presenti per ogni decennio sia quello dei poeti di volta in volta “nuovi”, ovvero non citati nelle sezioni precedenti, si assiste effettivamente a una crescita quasi esponenziale del loro numero. Si passa ad esempio dai 44 poeti presenti nella prima sezione ai 111 dell’ultima, dai 38 autori “nuovi” del decennio 1980-1989 ai 75 di quello 2010-2021. Questa tendenza all’ipertrofia, per così dire, viene d’altra parte preannunciata al lettore nell’Introduzione, quando affermi di voler rappresentare, pur senza pretese di esaustività, “gli esiti ricchissimi della poesia degli ultimi vent’anni” (p. 14).

Se, da un lato, un impianto di questo tipo può essere letto come una sorta di mise en abyme, sul piano strutturale, del contesto storico-sociologico che ricostruisci nei cappelli introduttivi alle sezioni (la proliferazione di forme e stili, la progressiva democratizzazione della presa di parola in poesia, la parcellizzazione del campo ecc.), dall’altro il rischio di un effetto di sovraesposizione alla parola poetica (o meglio, alle parole poetiche) è molto alto. Credo che siano davvero ammirevoli l’ampiezza e la complessità di questo lavoro ma, all’atto della lettura, confesso che la preminenza accordata al criterio quantitativo, soprattutto nell’ultima sezione, ha finito talvolta, paradossalmente, per appiattire il “paesaggio” (riprendo qui la tua metafora), attenuando le specificità di forme e stili, che pure persistono. È un effetto, ripeto, che si amplifica a mano a mano che il lettore si avvicina al nostro presente, laddove il campo della poesia si fa più confuso e il lavoro di canonizzazione è ancora tutto da compiere.

Pur comprendendo benissimo la difficoltà di svolgere un discorso critico attorno a un oggetto così ravvicinato, l’impressione generale è che il criterio qualitativo, che di certo avrà avuto un suo peso nella costruzione dell’antologia, sia rimasto a volte in secondo piano. La selezione, in sintesi, sarebbe forse potuta essere più stringente. Partirei dunque da questo luogo comune, da questa domanda banalmente provocatoria, chiedendoti di riflettere sui temi sopra esposti: ci sono davvero, oggi in Italia, così tanti poeti e poetesse significativi e meritevoli di essere letti?

 

TDD: Caro Riccardo, ti ringrazio di questi utilissimi carotaggi numerici e della domanda finale che mi permette, fin da subito, di porre in evidenza un punto fondamentale del mio lavoro. Diciamo così: questo non è un racconto che parte dagli autori; pochi o tanti che siano, ho cercato il più possibile di disinnescare l’enfasi che di solito attribuiamo alla funzione autoriale quando leggiamo un testo di poesia contemporanea. Anche il paratesto che accompagna le poesie (con il nome dell’autore posposto, con l’anno sempre in vista in basso a destra, per esempio) è stato costruito in funzione di rendere più efficace questa esperienza. Abbiamo addirittura deciso di togliere le biografie degli autori inclusi (cosa sulla quale ho ancora dei dubbi), proprio per indicare ai lettori questa idea centrale con la massima evidenza.

La riduzione dell’enfasi autoriale, da parte mia, non ha alcun rigido presupposto ideologico, ma rispecchia semplicemente un metodo di lavoro. Poesie dell’Italia contemporanea è prima di tutto un esperimento con il genere antologico e, come tale, prova a manipolare alcuni presupposti ereditati dal Novecento, forse in maniera troppo meccanica: la centralità dell’autore è fra questi. Quando ho iniziato a scegliere i testi, non avevo nella testa un numero ristretto di autori dal quale poi avrei attinto la selezione. L’impressione che si ha leggendo un’antologia “classica” è che il curatore abbia già in mente un canone di autori. L’antologia diviene il momento in cui un critico esplicita ciò che era già implicito nella sua idea di poesia e questo per lo più avviene mediante un’esposizione del nome degli autori: che infatti in molte antologie è di solito esibito nelle copertine, se non proprio nel titolo (penso a Poeti italiani del Novecento di Mengaldo, con l’enfasi proprio sulla figura biografica degli autori).

Poesie dell’Italia contemporanea è composto rigorosamente al contrario: leggendo il più possibile in ogni direzione, senza alcun pregiudizio stilistico, ibridando il mio gusto e le mie letture con quelle di altri scrittori e critici che ne hanno uno opposto e poi scegliendo e selezionando sempre di più quello che mi sembrava essenziale per comporre un percorso testuale che mettesse a disposizione del lettore una gamma ampia (ma coesa) delle possibilità poetiche di ogni decennio. Insomma, ho cercato per quanto ho potuto di non rendere dirimente chi avesse scritto quello che a mano a mano andavo selezionando, ma soltanto la forma e il contenuto dei testi. Da questo punto di vista, il numero crescente degli autori nei decenni è un effetto del tutto secondario, ma certo non insignificante. Ti confesso che mi sorprende che ti abbia colpito per prima cosa questo aspetto in un lavoro che prova in tutto e per tutto a disinnescare proprio questo approccio alla lettura della poesia. È interessante: forse dice più di te e del modo che hai di guardare al panorama contemporaneo? Oppure è una riflessione nata per una sorta di controspinta? Comunque sia, mentre procedevo nella scelta ho avuto anch’io l’impressione che questo metodo avrebbe messo in risalto la minore importanza della funzione autore nei decenni più recenti: e così è stato e le ragioni possono essere molteplici.

La prima che mi ne viene in mente è una spiegazione banale: per esempio, se al tuo computo aggiungi il fattore generazionale il risultato prende una luce diversa. Aver deciso di inserire le forme testuali sviluppate anche da alcuni autori nati negli anni ‘90 del Novecento (cosa che è stata fino all’ultimo oggetto di discussione e ripensamento) e il fatto che anche molti poeti nati negli anni ‘80 abbiano esordito in quella stessa decade ha fatto sì che molti nuovi autori si aggiungessero ai già tanti e notevoli nati negli anni precedenti proprio in concomitanza dell’ultimo decennio del volume. Se togliamo dal computo i nati negli anni ‘90 gli autori nuovi citati diventano 57, se togliamo anche quelli nati negli anni ‘80 diventano una trentina: un numero in linea con le decadi precedenti. Dare al mio lavoro una soglia generazionale, come altre antologie nel passato avevano fatto, era assolutamente ciò che non volevo fare e il risultato è stato quindi un aumento del numero degli autori.

Un’altra spiegazione è sempre legata al metodo che ho seguito per costruire il volume. Proprio come ci insegna l’osservazione concreta di un paesaggio, a mano a mano che lo sguardo si avvicina alla soglia del punto di vista (cioè alla fine del volume, al punto prospettico dell’intero lavoro che non per caso ha nel titolo la parola “contemporanea” proprio per sottolineare il punto di vista: il mio non è un lavoro di storia della letteratura) da un lato aumentano i dettagli visibili, dall’altro diminuiscono le differenze. A grande distanza, distinguiamo agevolmente una montagna da un altopiano, mentre più in prossimità del punto zero le differenze diminuiscono. Credo che questo senso di appiattimento del paesaggio che tu mi indichi derivi anche da ciò: è una deformazione prospettica dovuta all’avvicinarsi al punto di vista dell’intero lavoro. Ti confesso che dopo un paio di mesi dall’uscita del volume, non mi pento delle scelte che ho fatto. Sono ancora in dubbio su di una decina di pagine forse, ma non di più: mi sembra che se avessi tolto ancora, avrei mancato di segnalare alcune ricerche più interessanti di questi ultimi anni.

Infine c’è un’altra spiegazione che mi sembra più intrigante, perché forse indica meglio qualcosa del nostro tempo e vorrei sapere cosa ne pensi. Forse sempre meno la funzione autore è una soglia decisiva per indicare la qualità dei testi. Mi spiego. Al netto delle eccezioni, converrai che la gran parte degli autori pubblica di più, per più anni di seguito, con meno censura, con meno controllo, con meno dialogo (anche con la critica); questo ha come effetto che anche autori interessanti producono più libri, ma sempre meno “perfetti”, con poesie certo potenti e significative, ma in mezzo a altre che lo sono molto meno. Se questo è sempre successo, in questi anni mi sembra che il fenomeno sia più esteso e degno di nota. Questo comporta il fatto che, mentre – diciamo – fino ai primi anni Duemila, l’autore era una marca utile per trovare una sicura esperienza, oggi lo sia molto meno. Ci sono autori che, pur non potendo uscire dal canone, hanno smesso di scrivere poesie decisive da molti anni, ma che continuano a pubblicare libri e libri: come nell’incanto di una strana inerzia. Proprio qualche settimana fa ho assistito a una lezione di una ottima professoressa e studiosa di poesia contemporanea che sosteneva davanti agli studenti che, pur essendo bruttissimo, avrebbe letto e studiato l’ultimo libro di un certo celebre autore solo perché era di quel certo autore. Ma perché? Per dirla in maniera un poco provocatoria: perché questa auto flagellazione? Perché perseverare a oltranza nell’affezione alla funzione autore, quando se ne potrebbe fare a meno, se non sempre, soprattutto in certi contesti? In sintesi, possiamo dire anche così: è come se, pur aumentando la quantità di scritture notevoli, si sia estesa anche la rarità dei fenomeni poeticamente significativi, che quindi sono distribuiti su di un numero sempre maggiore di autori. Cosa ne pensi?

 

RS: Sottolinei un punto importante, che può rendere ragione anche dell’impostazione generale che hai dato alla tua antologia. La proliferazione di cui si parlava riguarda tanto il numero degli autori presenti nel campo poetico quanto quello delle raccolte che ciascuno di loro produce. Nel corso di quarant’anni di carriera, il poeta lirico forse più importante del secondo Novecento italiano, Vittorio Sereni, ha pubblicato in totale quattro libri di versi. Molti autori dell’ultima generazione raggiungono oggi i trent’anni avendo alle spalle tre, quattro, cinque pubblicazioni. Lo stesso vale per quelli della generazione più vecchia, che nell’arco degli ultimi due decenni hanno dato alle stampe un numero davvero elevato di libri, quasi sempre non all’altezza dei lavori precedenti – a questo proposito, le scelte che hai fatto nell’antologia mi trovano del tutto d’accordo. Le cause di questo mutamento sono molte; ne segnalo soltanto due: da un lato gli autori hanno abbassato il livello di autocensura, allargando le maglie di quel senso del pudore che ancora accompagnava un poeta come Sereni; dall’altro molti editori (in particolare i più importanti) hanno reso i loro criteri di selezione via via meno stringenti, o comunque meno legati al valore delle scritture. Il risultato è quello che hai evidenziato: il nome dell’autore non è più una garanzia dello spessore letterario dell’opera, mentre la qualità media delle pubblicazioni, per un fatto anche solo puramente statistico, si è senza dubbio abbassata (ciò ovviamente non significa che oggi non si scrivano grandi libri di poesia). Spesso restano singole poesie importanti o addirittura decisive, circondate da altre meno necessarie.

Vengo però qui a un punto sul quale vorrei invitarti a riflettere. Per molti autori, questa è una scelta programmatica. Soprattutto a partire dagli anni ’90 (ma è un fenomeno di lungo corso), il macrotesto ha assunto un rilievo crescente. La struttura e il progetto generale della raccolta sembrano essere diventati spesso il punto principale della riflessione poetica, a discapito dell’autonomia delle singole poesie, che soltanto all’interno dell’organizzazione macrotestuale prevista dall’autore riescono a trovare coesione e senso. Come hai affrontato il problema del rapporto fra testo e libro nella tua antologia?

Un altro tema sul quale mi piacerebbe conoscere il tuo punto di vista riguarda, più in generale, la funzione dell’antologia. Quell’impressione di ipertrofia e di sovraesposizione al testo poetico avuta leggendo non dipende soltanto dell’aumento del numero degli autori antologizzati (il chi ha scritto la poesia), ma anche da quello degli stili e delle poetiche (il come la poesia è stata scritta). Le due cose sono ovviamente collegate. Nel corso degli ultimi anni, la critica ha condotto un lavoro (tuttora in corso) di sistemazione del campo poetico italiano tra anni ’70 e ’90. Quest’opera è invece ancora tutta da svolgere per quello che accade a partire dal Duemila. Forse è anche a causa della mancanza delle categorie critiche necessarie per leggere e ordinare i fenomeni poetici che l’effetto di caos stilistico aumenta nelle ultime due sezioni della tua antologia. Come accade in Parola plurale, sembrano qui convivere senza contraddizioni, e quasi prive di una dialettica di fondo, le forme e gli stili più vari. Nel corso del Novecento (mi rifaccio ad esempio agli studi di Scaffai), l’opera di canonizzazione e lo scontro fra le diverse poetiche è avvenuto soprattutto in sede antologica (Mengaldo, che hai citato, Sanguineti, Porta ecc.). Scegliere di includere un autore (non in quanto nome, ma in quanto rappresentante di una proposta formale e stilistica) significava escluderne volutamente un altro. È evidente, ed è stato ribadito, che il tuo lavoro prende le mosse da altri presupposti e si pone altri obiettivi. Pensi però che questa pubblicazione, nel campo poetico odierno, possa riattivare, magari per contrasto, anche quel tipo di funzione antologica? Più in generale, credi che un certo modo di vivere il campo poetico, fatto di contrasti aperti, prese di posizione pubbliche e discrimini sia definitivamente tramontato con il secondo Novecento?

 

TDD: Dici bene, Riccardo. Poni problemi che mi sono posto anch’io in sede di elaborazione del progetto, ma non a tutti ho saputo (o ho potuto) dare una risposta adeguata. Ogni progetto prevede un metodo e ogni metodo seleziona cosa enfatizzare e cosa invece sarà messo in ombra. E in fondo un libro è anche ciò che sceglie di non essere. Uno dei limiti che più ho sofferto dell’impostazione che mi sono dato per Poesie dell’Italia contemporanea è proprio quello che tu indichi: come restituire i macrotesti? È un problema che ogni antologista incontra, anche quello con un’impostazione più tradizionale. Tra l’altro sono convinto anch’io, da poeta, della loro importanza: penso ai miei lavori come Verso le stelle glaciali (Interlinea, 2020) oppure l’ultimo Ardore (Aragno, 2023) che è un vero e proprio poema, con un personaggio, in cui ogni sezione è incatenata alla successiva, con una cornice narrativa di sfondo. A tutto questo, il mio volume non ha potuto dare una risposta, se non in maniera del tutto indicativa: segnalando, nelle cinque soglie introduttive alle decadi, alcune forme macrotestuali notevoli, che spero il lettore curioso possa poi verificare in sede di lettura in proprio. Perché, Riccardo, il problema più grande non è stato tanto con i macrotesti alla Caproni, per intenderci, o alla Riccardi, in cui ciascun frammento mantiene una sua parziale autonomia, ma con quel particolare macrotesto che è il romanzo in versi: e non sono pochi i poeti che negli ultimi cinquant’anni hanno scelto questa forma e hanno saputo dargli una veste molto convincente. Penso soprattutto a tre esempi: Bertolucci, Pagliarani, Targhetta. Come si fa? Qui davvero ci si scontra con l’impossibile. A consolarmi della sconfitta, però, è stata questa riflessione: che anche il mio lavoro è, in fondo, un macrotesto. Ho pensato ogni sequenza di poesie come una sorta di libro autonomo, in cui, oltre alla rappresentatività autoriale, gli attriti fra i testi e i contatti e persino i loro scontri (pure ironici) sono stati il criterio di scelta e di selezione. Ogni testo collocato nella mia sequenza assume un senso diverso dall’originale e spero che questo compensi, in parte, la mancata restituzione del contesto di partenza. Questa se vuoi è una caratteristica importante del mio lavoro: non si è trattato tanto di restituire il libro di origine, ma di creare con i testi altrui un nuovo testo, che potesse essere letto e goduto anche in autonomia rispetto ai libri da cui estrae i materiali. Poesie dell’Italia contemporanea è, in fondo, un lavoro di montaggio e solve e coagula è il suo motto, come ho provato a dire con l’ultima poesia di Anedda che chiude il volume: «sgretolarsi permette di coagularsi di nuovo»

In questo senso, il mio libro è anche una provocazione, senza alcuna arroganza: non credo né che il mio metodo sia l’unico né che escluda altri; spero invece che questo libro apra, anche per contrasto, a risposte inedite e alternative e – perché no? – anche al ritorno di posizioni forti, magari con categorie critiche più stringenti delle mie. Detto questo, penso che sia impossibile tornare ad una situazione novecentesca di canone ristretto unilaterale: il quadro è troppo frammentato, le forme troppo ibridate, le genealogie sono tutte giustificate a priori; e poi è cambiato il ruolo sociale dei poeti, che sono tutti «più simili e soli», come dice un frammento di Claudio Parmiggiani che apre, non a caso, l’ultima decade. Ma dico questa senza alcuna nostalgia: ho voluto il mio lavoro inclusivo e polifonico anche perché risponde prima di tutto alla necessità di restituire un enorme massa di esperienze che era del tutto sottratta ai lettori, non solo come testualità, ma come percezione. Volevo innanzitutto lanciare un segnale, aprire un campo del sensibile. C’è tanta buona, ottima poesia che si è scritta negli ultimi vent’anni e credo che nessuno lavoro potrà dirsi definitivo; e questo per me non è un male: è liberatorio. So che alcuni studiosi stanno approntando un lavoro antologico con tutt’altri presupposti; io stesso ho in mente di scrivere un prossimo libro con criteri completamente diversi da quello di cui stiamo parlando. Spero che nell’incrocio fra strumenti e risultati diversi si potrà guadagnare una prospettiva più complessa e più ricca sulla poesia contemporanea. In fondo un’antologia è un cannocchiale: non solo avvicina al lettore forme che prima erano lontane e meno visibili, ma sposta gli orizzonti e fa trovare isole che si credevano perdute.

 

RS: Riguardo all’impostazione generale che hai dato all’antologia, mi piacerebbe soffermarmi su un altro punto che coinvolge ancora, per certi aspetti, il rapporto fra i singoli componimenti e il macrotesto di appartenenza. Pur non essendo il tuo, come hai ricordato, «un lavoro di storia della letteratura» in senso stretto, da una prospettiva diacronica questo libro propone anche una ricostruzione (che ovviamente non pretende di essere esaustiva) del campo poetico italiano degli ultimi cinquant’anni. Per ogni decade, il discorso prende le mosse da un breve inquadramento storico nel quale si mettono in luce gli eventi che più hanno segnato la vita sociale, politica e culturale nel nostro Paese, stabilendo così (com’è naturale che sia, a mio modo di vedere) una correlazione più o meno stretta fra la storia collettiva e quelle dei percorsi poetici individuali. I componimenti sono ordinati secondo il criterio più oggettivo che si possa scegliere: la cronologia. Come scrivi nell’Introduzione (p. 18), «la cronologia dei testi diventa il valore dominante. I testi scorrono entro il nastro del tempo, ciascuno nell’anno della prima pubblicazione del libro da cui è estratto».

L’antologia non è evidentemente la sede adatta per approfondimenti critico-filologici, ciononostante, credo che un’impostazione di questo tipo, unita all’arco di tempo relativamente ampio preso in considerazione, possa esporre talvolta a rischi di anacronismo. Faccio due brevi esempi: il più evidente, a mio giudizio, è il caso di Sandro Penna, inserito all’altezza del 1973, anno di pubblicazione del volume Poesie per Garzanti, nel quale l’autore ha raccolto, poco prima di morire, gran parte della sua produzione. Se, da un lato, questa collocazione aiuta ad esempio a mettere in luce il rapporto fra Penna e un poeta più giovane come Bellezza (che a lui soprattutto guardava in Invettive e licenze), dall’altro si rischia di dimenticare che i testi presenti nella tua antologia sono stati composti verso le fine degli anni Trenta (seguo la cronologia proposta da Deidier nel volume Mondadori), e già pubblicati in raccolta fra anni Trenta e Cinquanta. Sono testi, insomma, che sul piano storico non hanno nulla a che fare con l’attentato di Piazza Fontana, e che da un punto di vista di storia letteraria dialogano (o, al contrario, scelgono di non dialogare) più con Saba, il primo Montale e un certo ermetismo che con Bertolucci o Satura. Il secondo esempio è quello di Mario Benedetti, i cui testi compaiono per la prima volta nell’antologia all’altezza del 2004, anno di pubblicazione di Umana gloria. Benché sia stato proprio il volume Mondadori ad affermare Benedetti come uno degli autori più importanti della sua generazione, non possiamo non considerare il fatto che i testi lì raccolti sono stati quasi interamente composti e pubblicati in varie plaquette fra anni Ottanta e anni Novanta. La sua poesia forse più nota, Che cos’è la solitudine, è stata ad esempio scritta, verosimilmente, verso la metà di quest’ultimo decennio, e quindi pubblicata già nel 1999 nel Parco del Triglav. Faccio riferimento a questo caso specifico proprio perché la poesia mi sembra perfettamente aderente al cappello introduttivo che proponi per il decennio 1990-1999, intitolato Lo spettatore immobile, ad esempio quando scrivi: «non è un caso che l’arte di questo decennio abbia trovato nella violenza immobile alcuni emblemi rappresentativi. […] Le azioni artistiche ora mettono di fronte un corpo deformato, davanti al quale si è chiamati a sentire, restando a distanza. Si è interpellati a incarnare la figura del testimone, più che quella del produttore di significati» (p. 310).

Un’antologia di ampio respiro come la tua non può ovviamente tenere conto di tutti i casi particolari, ma mi è sembrato interessante proporti questi due esempi per chiederti di parlarci, in generale, di come hai affrontato il complesso rapporto fra storia e poesia e quello, forse anche più complesso, fra poesia e storia.

 

TDD: In un mare così ampio e divergente di scritture, mi sono risolto a individuare un criterio di ordinamento dei testi più neutrale possibile, ma al contempo – come hai ben sottolineato  – non mi sono astenuto da prendere alcune scelte: anzi, a mio parere il mio lavoro sta tutto qui. Ma ci arriviamo. Innanzitutto è bene dirlo subito: al contrario di altri lavori esplicitamente storico-letterari, ho voluto dare vita soprattutto a un racconto. Le cinque soglie che introducono la scelta dei testi sono proprio cinque narrazioni che insieme formano un romanzo della poesia italiana, che sia anche un romanzo della società italiana: qualcosa che interpreta, raccoglie, elabora e prova a restituire in maniera non inerte una serie di informazioni e dettagli, ricalibrati nel fuoco di un racconto. Il punto è che non ho scritto le soglie narrative prima della scelta dei testi, ma dopo. In questo senso Poesie dell’Italia contemporanea è un lavoro induttivo, non deduttivo: non è un’antologia a tesi, come altre – e notevoli – sono state pubblicate in passato (penso per es. a quella di Enrico Testa). Le soglie narrative sono state pensate e scritte soltanto dopo aver costruito le sequenze dei testi, dopo averle attraversate e meditate. Quelle pagine introduttive sono state immaginate affinché creassero le atmosfere di cui mi sembrava necessario che il lettore si impregnasse prima di imbattersi proprio in quei testi e non in altri. Da questo punto di vista se non sono certo racconti completi delle decadi, hanno però l’ambizione di suscitare l’impressione che vi sia un legame fra testo e contesto e la cosa pareva naturale anche a me, ma non è scontata: mi è stata anzi criticata da più parti. Mi hanno infatti accusato di uscire dal campo della mia “specializzazione”, di toccare questioni che esulano dalla letteratura. Per me però era importantissimo che il lettore avesse sempre il sospetto che il testo non fosse un assoluto, ma fosse circondato da un contesto ermeneutico, da una serie di elementi (sociali, economici, artistici), prossimi e remoti, che ne costruiscono il senso e che concorrono alla sua interpretazione. Detto questo, capisci bene che il senso della storia che ho voluto indicare non è certo storicistico: non c’è alcun determinismo fra i contesti e i testi. Se anzi c’è qualcosa che la grande poesia fa spesso è proprio smentire la storia, o meglio: la grande poesia sta in un accordo-discorde, in un equilibrio scaleno, non prevedibile, non desumibile da ciò che accade; sta nell’anticipo e nel ritardo, non è mai desumibile dai fattori che la circondano, ne è anzi la rivelazione e insieme il sovvertimento. L’idea di storia che volevo emergesse fin dalle prime pagine di questo lavoro è l’idea di storia che Walter Benjamin aveva sviluppato nei suoi Passages. Ciò che si trattava di formare non era una collezione di frammenti, giustificati da una pedagogia critica (l’ipotesi di tante antologie), ma una “costellazione del risveglio” in cui è il lettore a dover connettere il mito del passato con il suo presente, attraverso la mediazione del testo, così da crearsi da sé quello che Benjamin chiama una “relazione dialettica”. Avevo in mente le parole di Benjamin: «Non è che il passato getti la sua luce sul presente o il presente la sua luce sul passato, ma immagine è ciò in cui quel che è stato si unisce fulmineamente con l’ora in una costellazione» (p. 516). Ancora Benjamin scrive: «Il testo è il tuono che poi continua a lungo a risuonare» (p. 510). Ecco, volevo che il lettore ascoltasse, nell’ora della sua lettura, nella dimensione fisica e linguistica del testo che si trova davanti, il lento propagarsi dell’eco di questa luce trapassata. Il montaggio di testi e tempi che ho costruito è principalmente volto a costruire una storia per fratture, dialettiche, shock e emergenze: per eventi e agnizioni, più che per ragionamenti e discorsi, che pure ci sono, come sai, ma non volevo che fossero né l’unico modo né quello privilegiato per entrare nell’esperienza della poesia.

A questo punto, forse è più chiaro perché ho deciso di mettere Penna negli anni Settanta e Benedetti negli anni Duemila. Sono due casi diversi, ma ugualmente interessanti. E mi fa molto piacere che tu li abbia notati: sono infatti due storture, due sbreghi dello spazio-tempo. Ho deciso di inserire Penna nel decennio della sua maggior influenza, in cui vinse i premi letterari più importanti, in cui era circondato da una serie di scritture che guardavano a lui come un modello. Non metterlo significava sottrarre al lettore un’esperienza testuale di cui si parlava, che si leggeva, che in quegli anni era nelle mente di molti poeti, più di quanto era accaduto negli anni della sua prima pubblicazione. Mi sembrava insomma un elemento essenziale del contesto sociale del poetico dell’epoca, ma in più mi permetteva di dire qualcosa sulla poesia, in generale. La poesia di Penna è un perfetto esempio di fuori-sincrono: sembra essere del tempo perché non è stata del suo tempo. Esiste una Penna degli anni ‘30 e esiste una Penna degli anni ‘70, potremmo dire. Ma escludere questa seconda vita di Penna sarebbe stato una mancanza: la sua supposta ingenuità e la sua supposta antiletterarietà antiborghese fanno parte del sapore degli anni ‘70, ne sono la rivelazione in una vorticoso hysteron proteron. Diverso il discorso per Mario Benedetti. Hai perfettamente ragione: la sua poesia si iscrive molto bene nel decennio degli anni ‘90 (come Penna negli anni ‘30). Avrei potuto inserirlo nella sequenza degli anni ‘90 e avrei sicuramente compiuto un gesto storico-filologico. Ma sappiamo bene entrambi che in quel decennio la poesia di Benedetti era del tutto impercepita e che i libri prima di “Umana gloria” (2004) per Benedetti non avevano valore di opere compiute. Dovendo fare delle scelte, delle esclusioni, delle sottrazioni, ho preferito allora dare risalto alle quattro opere di Benedetti dei primi anni Duemila: mi sembrava che collocarlo lì ne potenziasse al massimo la forza testuale, la capacità di creare connessioni inattese. Il criterio che ho seguito in questo senso è sempre lo stesso: rintracciare la possibilità, nei limiti della cronologia, che un testo provochi la massima reazione nella catena e non la sua astratta collocazione storico-filologica.

 

RS: Per concludere il nostro dialogo, ringraziandoti per la disponibilità al confronto, vorrei chiederti una riflessione sull’accoglienza ricevuta finora dalla tua antologia. Non mi riferisco tanto ai dibattiti e alle critiche in merito ai singoli autori e ai singoli testi che si è scelto di includere/escludere (questioni che pure comprendo ma che trovo perlopiù oziose, se alimentate, come spesso accade, soltanto da interessi privati e da posizionamenti individuali), quanto alla discussione più ampia che, a tuo parere, questo lavoro è riuscito (o meno) a generare, sia nel campo della critica sia in quello, forse più importante, dei lettori di poesia.

 

TDD: Grazie a te Riccardo, per la generosa disponibilità a discutere insieme. Potrei cominciare dicendo che a fronte di un ottimo riscontro meramente editoriale di vendite, non si è poi davvero avviata per esempio sui giornali la riflessione che speravo sui metodi delle antologie o anche solo sulla ricchezza della poesia italiana contemporanea. Di sicuro, ha pesato il fatto che fosse un’opera non allineata con le varie correnti esistenti e che fosse, in più, un lavoro se non innovativo, almeno insolito, che richiede tempi di lettura e di studio non indifferenti per scriverne. Mi è dispiaciuto soprattutto per via di alcune proposte che gettavo sul piatto sulle quali mi sarebbe piaciuto si potesse creare un dibattito. Nel mio lavoro c’è implicita, per esempio, un’idea di lettura della poesia che non sia solo sull’asse critico\studente, ma che possa essere incontro ermeneutico di un lettore adulto (non per forza laureato in lettere) di fronte alla complessità di un testo; oppure l’idea della fine dello stato di belligeranza fra la cosiddetta poesia di ricerca e poesia lirica; oppure ancora un altro tema su cui mi sarebbe piaciuto ragionare insieme sarebbe stato il tema della continuità fra le generazioni, che molte antologie hanno oscurato. Devo aggiungere però che diversi insegnanti di istituti secondari superiori mi hanno scritto dicendomi che hanno portato il volume in classe, hanno letto i testi insieme agli studenti e hanno provato a creare attraverso la lettura le categorie di interpretazione del testo: pare che si siano avvenute esperienze didattiche interessanti. Non ho pensato questo volume per le scuole (né per l’università) e mi sembra senz’altro azzardato e coraggioso, ma mi ha fatto piacere saperlo usato in contesti per cui non è stato pensato. In generale, ho riscontrato una forte dicotomia nella ricezione del mio lavoro: da una parte i nostalgici, dall’altra gli entusiasti. Fra i primi metterei una categoria che indicherei come “Letterati”, ovvero coloro i quali hanno in genere una laurea in filologia e sono nati dalla prima metà degli anni Novanta in giù. Mi pare abbiano sofferto molto per la mia impostazione non tradizionale e non storicistica e che non siano stati colpiti dal tentativo di seguire i modelli di Benjamin e di Warburg (che sono belli da leggere, da citare, ma non da seguire); molti hanno manifestato una certa nostalgia per un impianto più tradizionale. Insomma – per essere un poco semplificatori – mi è sembrato che volessero, ardentemente, un nuovo Mengaldo. È come se dicessero: vogliamo il Novecento che non abbiamo vissuto. Hanno l’idea (rispettabilissima) di un’opera antologica che sia una messa in ordine di un panorama che percepiscono troppo confuso (un monumento ordinato di ciò che è stato) e che, al contempo, esprima un gesto di forza egemonica di una linea della poesia o della critica (naturalmente: quella a cui appartengono). Da questo punto di vista, il mio lavoro ha scontentato un po’ tutti; innanzitutto perché – in questo seguendo da vicino Antonio Porta e il suo Poesia degli anni Settanta (1980) – non ho voluto fare un monumento statico, che addomesticasse una volta per tutte una pluralità, ma un oggetto dinamico e policentrico che restituisse un’immagine percorribile dello stato dell’arte. Su questo ha fatto una riflessione importante Andrea Cortellessa nella presentazione che si è tenuta a Roma: non c’è una teleologia nel mio lavoro perché viviamo in tempi radicalmente non teleologici. Ma appunto non a tutti va bene così: alcuni pensano l’antologia come strumento di “ortodonzia letteraria”, di correzione o compensazione delle storture della propria epoca. Dall’altra parte rispetto ai “Letterati”, invece ci sono stati gli “Entusiasti”: spesso sono lettori non specialisti, che non scrivono sulla stampa, che non fanno recensioni, che hanno comprato il volume sulla fiducia e sulla scorta di una passione sincera per la poesia. Diversi mi hanno scritto messaggi personali e mi confermano che si sono trovati a loro agio dentro le pagine: si sono anche divertiti a giocare con i testi e con le tante interpretazioni possibili e hanno scoperto molti autori di cui non avevano mai sentito parlare. (Ricordo per esempio una persona che mi ha ringraziato tantissimo perché ha scoperto Beppe Salvia, che non aveva mai sentito nominare prima). Ho notato poi che alla categoria degli “Entusiasti” appartengono più facilmente i non laureati in lettere (sono magari studiosi di filosofia o di arti visive o artisti) e i lettori molto giovani (diciamo nati dopo la metà degli anni ‘90). Si sono trovati completamente a loro agio nell’impostazione del volume e diversi mi hanno anche sottolineato il carattere “liberatorio”: l’idea insomma che la poesia non sia per forza legata a un’idea di studio manualistico, ma a un’esperienza diretta di un testo è più in linea con i loro desideri. (In particolare mi ricordo un fotografo di Perugia che mi ha detto che si era trovato molto a suo agio nell’impostazione perché – a detta sua – la successione delle immagini in molti libri di fotografia è costruita come nel mio volume). Mi ha poi stupito la ricezione di alcuni poeti, che sebbene non abbiano scritto pubblicamente, mi hanno mandato dei messaggi sul mio lavoro. Alcuni poeti (anziani) mi hanno ringraziato; uno ha paragonato il mio lavoro a una “spotify della poesia” (non so se c’era volontà di offendere nella definizione: a me è piaciuta molto). Altri ancora, più vicini alla scrittura lirica, sono stati colpiti (e addirittura offesi) dalla presenza nel mio lavoro di molti poeti legati alle tradizioni della sperimentazione e della ricerca; al contrario, molti poeti sperimentali hanno apprezzato la prossimità violenta e le somiglianze improvvise fra stili così difformi (stupendosi e a volte inquietandosene). Non in pochi hanno poi colto il piano artistico dell’opera e sono rimasti colpiti dall’idea di poter leggere il decennio come “un libro di libri”, disinnescando il criterio dell’autore. In fondo, mi sono accorto, la tracciabilità dell’autore interessa soprattutto ai poeti (il cui narcisismo è proverbiale) e agli storici (cioè: ai laureati in filologia, che tra l’altro sono anche spesso poeti), a tutti gli altri interessa davvero poco o, quanto meno, accettano più facilmente l’idea che non sia la categoria principale. Mi sono reso conto solo a posteriori in effetti che Poesie dell’Italia contemporanea è pensato più come una mostra d’arte che un’antologia letteraria. Proprio in questi mesi al museo della Triennale di Milano è allestita una mostra antologica sulla pittura italiana che si intitola Pittura italiana oggi, a cura di Damiano Gullì, che pur lasciando visibile il nome del pittore e selezionando solo le opere di artisti italiani nati tra il 1960 e il 2000, dispone senza distinguere fra le generazioni centoventi opere pittoriche in una sequenza libera, ritenuta significativa dal curatore. Mi ha colpito che per molti punti l’impostazione sia simile a quella che ho seguito nel mio lavoro e in quel caso nessuno ha avuto da ridire sul metodo del curatore (ma anche in quel settore molto si è discusso sui nomi degli esclusi e degli inclusi, ovviamente). Insomma, mi pare che in generale la poesia italiana faccia fatica a pensarsi come un linguaggio fra le arti contemporanee e desideri sempre tornare a legarsi alla propria nicchia specifica: di metodi, di aspettative, di interessi. Se c’è una cosa che invece mi piacerebbe accadesse è che in futuro il mio lavoro fosse rubricato come un tentativo di emancipazione della poesia dai propri schemi, dai propri pregiudizi: forse anche da se stessa.

 

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[Una versione più breve di questo dialogo è stata già pubblicata in «Gradiva», n. 64, II, Fall 2023, pp. 73-79]

 

Il mio primo maestro era svedese

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di Paolo Morelli

Lo scorso 4 febbraio si è spento a 89 anni a Firenze Kurt Hamrin, calciatore di Juventus, Padova, Milan e Napoli, ma soprattutto e innanzitutto della Fiorentina, tuttora al nono posto dei marcatori italiani di tutti i tempi. Una leggenda, una delle tante storie infinite che il calcio contiene come forse nessun’altra vicenda umana.

È stato il mio primo maestro. Di sicuro è stato lui a convincermi di giocare tutte le mie fortune all’ala destra.
Avevo sei o sette anni quando è arrivato alla Fiorentina, di cui già ero tifoso. Era il 1958 e la palla, tra un rimbalzo e l’altro, occupava almeno il 90% del mio tempo, col vantaggio ulteriore che non me ne rendevo conto. La prima volta che ho visto una palla non me lo ricordo, ma lo potrei inventare. Mi sembrava che fosse tutto lì il senso, nel reagire al suo movimento, cercare di addomesticarlo, insomma capirlo. Lo studio era immersivo, si direbbe oggi, in ogni momento delle giornate della vita e senza nemmeno un dubbio o una stanchezza, tutto il resto spariva su altri piani meno interessanti, rimandabili di fronte a una necessità più che evidente, lampante, in perenne mutamento. Interno o esterno, anfratti, muri per ore, lampadari, da solo o con gli altri. Bisognava studiare, fare meglio, qualcuno faceva meglio di altri, il controllo totale però era escluso a priori, qualcosa di mai del tutto addomesticabile era costantemente sotto i nostri occhi stupiti da tanto insegnamento. All’epoca era il primo addestramento e l’unico nel vero senso della parola, i libri scolastici non reggevano il paragone. Ognuno sceglieva il suo punto di vista da cui operare nello studio e, proprio allo stesso tempo è costretto a sceglierlo dalle peculiari caratteristiche fisiche e psicologiche che ora, man mano, scopre di avere o non avere. Si imparano anche le regole del gioco, le prime regole di gioco di cui si sente parlare, chiare, intoccabili, così si crede, provenienti forse dall’inizio di tutto, per il resto si va a tentoni ma con i piedi, tra la polvere o il fango a seconda delle epoche dell’anno che sono tutte sterminate, senza limiti di campo. Si impara che siamo una squadra e che ci sono limiti utili dell’individualismo, mai oltre quelli che servono a superare l’ostacolo. A volte i campi di gioco sono così vasti che sconfinano nel fiume, qualcuno di noi c’è anche morto per recuperare la palla sacra, divina.
Quando lo svedese Kurt Hamrin arriva, la Fiorentina è una grande squadra. Io da romano ero diventato viola per la vita perché in quel periodo mio padre faceva il cuoco durante il ritiro estivo all’Abetone e Miguel Montuori mi aveva carezzato sulla testa. Miguel Montuori era il primo grande 10 della Fiorentina, dotato poi di una sfortuna grandissima.
Ed ecco che arriva l’esempio, l’insegnamento, la prima via da seguire. Ripeto, anche col vantaggio ulteriore di non rendersene conto, con quell’unico grande vantaggio di non saperlo non sapevamo che lo studio della Via consiste solo nel seguire, caso per caso, il corso degli eventi. A pensarlo e a dirlo semmai abbiamo imparato dopo.
E all’epoca poi bastava giocare a pallone coi calzettoni abbassati fino alle caviglie per scoprire chi si voleva essere al mondo e dichiararlo. O almeno quello per cui si veniva portati da un certo tale detto Destino di cui non sospettavamo l’esistenza. Un ribelle, un irregolare e, badiamo bene ancora, la fortuna stragrande è di non saperlo. La prima sfida che ne prometteva molte altre, senza sapere nemmeno che le sconfitte supereranno talmente le vittorie tanto da cancellarle. C’è da dire che portare i calzettoni giù, arrotolati fino sui rozzi scarpini era un gesto da attaccante, un gesto irridente e puro, voleva dire agli arcigni terzini avversari coi calzettoni alle ginocchia, non solo che incarnavano gli sbirri di ogni epoca e luogo nella storia del mondo ma che mai ci avrebbero preso. Coi calzettoni giù infatti non si portavano i parastinchi, così quelli avrebbero potuto farti male, magari spaccarti una gamba ma il chiaro messaggio era: non mi prenderai mai sbirro!, e poi ci si poteva comportare di conseguenza, con la libertà e l’agilità che il più delle volte si credeva solo di avere ma bastava e avanzava per tentare. Sivori, Meroni, Corso, Hamrin erano gli esempi da seguire per quelli che volevano rovinarsi la vita nella cerchia più stupida e insensata al mondo, chiamata svagata libertà. Per me soprattutto l’ultimo, Hamrin Kurt, basso biondino svedese, soprannominato l’Uccellino. Il mio primo maestro è stato uno svedese, e io qui lo onoro per questo.
L’ultima volta l’ho visto in un video, già qualche anno fa. Era a Firenze dove viveva, sotto la sede della Fiorentina Calcio. Non ricordo in che occasione erano lì con Giancarlo Antognoni, l’Eterno Dieci e alcuni tifosi. Siccome c’era un pallone in circolo se lo passavano come si fa da sempre, ognuno provava qualche palleggio prima di darlo agli altri. I tifosi erano scarsi al riguardo, perfino Giancarlo ha avuto qualche problema coi pantaloni e le scarpe da città, poi l’hanno data a lui. Quasi non riusciva a alzare i piedi, lui che certe volte pareva proprio volare, radente ai prati per poi atterrare improvviso nell’area di rigore, difatti era sunnominato l’Uccellino e sfidava la legge con l’onestà del coraggio.
Piccolo, biondo, col ciuffo ci ha regalato pochi momenti come questi belli, come dice il poeta. Io all’inizio avevo capito Hambrim.
Era il periodo degli svedesi. La loro nazionale era arrivata in finale ai Campionati del Mondo, l’aveva persa col Brasile di Pelè. L’allenatore di quella nazionale aveva dichiarato di essersi ispirato alla tattica della Fiorentina, in quel momento una delle squadre più forti sul globo terracqueo. Kurt era arrivato in viola subito dopo la vittoria del primo scudetto per sostituire Julinho all’ala destra, e ci è rimasto fino alle soglie del 1968, proprio quando il mio interesse defluiva, scemava, ma solo per una pausa confusa di qualche anno.
Quello irridente non è il modo giusto per affrontare un dribbling, insegnava Hamrin, soprattutto a gambe nude. Non come i sudamericani, Sivori ad esempio. Tanto, il terzino o chi per lui si sentirà comunque irriso, è nella sua natura. L’ideale sarebbe coinvolgerlo nell’euforia del gioco, ma siccome è impossibile ognuno stia al posto suo. Se vuoi irriderlo sei già nella posizione coinvolta della sua eventuale violenza, sei nella combriccola ed è facile che reagisci. Non mi ricordo che Kurt sia mai stato espulso per un fallo di reazione, e non ho voglia né bisogno di guardare le statistiche. Fateci caso, altro insegnamento: il fallo di reazione, anche se lieve, viene considerato più grave perfino della violenza bruta e comunque scatenante, anche moralmente intendo. Si imparava molto allora, era un campo talmente vasto da sconcertare, con le gambe marcate a vita da lividi e cicatrici. È il gran vantaggio di essere ignoranti.
Lui insegnava la calma, nella lotta, ma questo per noi era veramente troppo, lo è anche oggi: il vincente prima vince poi scende in campo, il perdente prima scende in campo poi cerca il modo di vincere. Il dribbling di Hamrin presupponeva la calma, in stile nordico, ma non significa per niente algido.
Scendeva sulla fascia destra saltando gli avversari come birilli, così si dice in gergo, voleva arrivare in porta con la palla al piede, così si dice, una volta l’ho visto con i miei occhi già sulla linea tornare indietro, perché gliene mancava uno e voleva completare il suo compito con diligenza. Depositare alla fine la palla nella rete veniva come istanza solo necessaria, e non era mettere ma depositare, fin lì giungeva l’eleganza.
Altezza 1,69, peso 69 kg., come sottotitolavano le figurine, biondo figlio di un imbianchino di Stoccolma, col ciuffo che certo doveva scuotersi all’aria alle sue movenze, figuratevi un canarino, altrettanto svagato all’apparenza. Passetti brevi, e bravi, il manto erboso lo piluccava con cura. Scatto, dribbling stretto, allungo, guizzo. Essere basso, avere il baricentro basso era un vantaggio allora più di quanto lo sia oggi, permetteva il movimento improvviso, lo scattare, lo sgusciare, permetteva la fuga. Gli alti, i rocciosi, i difensori dell’ordine costituito ci mettevano più tempo per scuotersi e provare a seguirti, braccarti, era la loro natura. Il 2 febbraio 1964, io avevo dodici anni, una domenica certo, segnava 5 goal nel 7-1 a Bergamo con l’Atalanta, un record ineguagliato. Io e mio padre mettevamo la radio al centro del tavolo di formica, solo posso inventare cosa sia successo al centro nel mio cuore basandomi su cosa mi succede adesso a raccontarlo.
E qui si apre uno squarcio, l’interrogativo gigante: io la racconto al naturale, ma come facevamo a sapere, a vedere tutto se scarsi, sfocati e traballanti erano i riflessi cosiddetti in tivù, le immagini delle partite? Eppure giuro che eravamo in grado di descrivere per ore i gesti di ognuno, al ralenti, imitarli frame by frame, farli fruttare come orientativi, educativi. Delle due l’una: o avevamo facoltà adesso dimenticate o mi sto inventando tutto. O sono i miracoli dell’elaborazione fantastica, per me allora ne eravamo capaci e nessuno mi può smentire.
Fiducia, mi insegnava la fiducia Kurt perfino quando è scriteriata, e che altro modo non c’è come questo bello. La mente resta alta pure se la testa bisogna tenerla bassa, a seguire le voglie del pallone, per assecondarlo e sottrarlo a chi vuole te soprattutto, per punirti, la palla in fondo gli interessa meno. Per forza che a volte gli si risponde con un tunnel, la palla sotto le gambe, l’affronto.
Fino dall’antichità si vocifera che ci sia un dio dentro, nell’aria lì racchiusa, e la riprova la vediamo nei rimbalzi e nei contrasti che fa ogni volta che uno di costoro, i benedetti, gli eletti se ne appropria, va da loro ogni volta, l’attirano come se gli appartenesse per diritto imperituro, per una qualità della giustizia.
Devo inventarmi pure questo, non del tutto forse. Forse dopo il suo insegnamento e l’addestramento che ne è seguito in ogni partita in cui non c’era l’arbitro, nel dubbio dei falli chiedevano a me, la mia opinione era risolutiva nelle contese, anche gli acerrimi avversari, come se uno potesse essere autorevole a dieci anni.
Oggi e da tempo portare i calzettoni abbassati è considerato illegale e la scusa è la solita: è per il tuo bene, per la tua sicurezza. Vale a dire non solo le gambe, puoi rovinarti la vita. Ipocritamente, velatamente qualche arbitro permette a qualche eletto di portarli a mezz’asta, Totti ad esempio, o K’varatskhelia.

 

NdR: Kurt Roland Hamrin era nato a Stoccolma il 19 novembre 1934, figlio di un imbianchino. Da adolescente ha lavorato come zincografo, anche mentre giocava nell’AIK Stoccolma dato che le squadre svedesi erano semiprofessionistiche. Dopo il secondo posto della Svezia ai Campionati del Mondo, finale persa contro il Brasile di Pelè, viene in Italia, preso e poi scartato dalla Juventus. Dal Padova passa alla Fiorentina, e dopo nove anni al Milan dove vince la Coppa dei Campioni. Conclude la carriera tra Napoli e IFK di Stoccolma. Viveva a Coverciano.

 

 

Creazione di sé e progetto democratico

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Devo ringraziare Ferruccio Andolfi, curatore di un volume appena uscito, Individualismo solidale. Una nuova immagine dell’utopia (MUP, 2023), per avermi dato la possibilità di ripercorrere attraverso il saggio che qui presento gli autori che sono stati fondamentali per pensare la società in cui vivo e alcuni dei suoi conflitti maggiori. Si tratta sopratutto di filosofi: Wittgenstein, Castoriadis, Descombes, ma anche antropologi come Louis Dumont o scrittrici come Léonora Miano. 

Il volume curato da Andolfi, tratta dell’individualismo solidale, ossia di una prospettiva che riconosce l’irreversibilità della valorizzazione degli individui avvenuta in epoca moderna, ma ammette insieme la possibilità di conciliarla con istanze sociali di generosa reciproca dedizione. Nello stesso volume, si ritrovano interventi di Rino Genovese, Paolo Costa, Ugo Cornia, Italo Testa, Maria Borio, Charles Larmore, Francesca Sofia Alexandratos, e altri/e.

di Andrea Inglese

Siamo nati moderni, cioè individualisti

Cosa significa venire al mondo in una società individualista, in una società che concepisce se stessa attraverso l’ideologia dell’individualismo, ossia cosa vuol dire venire al mondo in una società che ha conosciuto la modernità occidentale? Prima o poi, chi nasce e cresce in essa sarà confrontato a un ideale forte, quello della realizzazione di sé. Gli individui empirici sono sempre esistiti e sono stati considerati, in ogni società, come agenti autonomi. Un agente autonomo, ad esempio, è un agente che è in grado di poter non eseguire un ordine che gli viene impartito, dando una spiegazione più o meno persuasiva di questa sua decisione (o non dandone, al limite, nessuna). Gli individui della società individualista sono individui in questo senso, ma lo sono anche in un altro: sono individui normativi, ossia hanno il compito di realizzare se stessi al di fuori del tessuto di appartenenze e di ruoli sociali che acquisiscono nel corso della socializzazione. In che rapporto questo aspetto ideale sia con l’aspetto fattuale dell’ordinaria autonomia degli individui non è qualcosa di molto chiaro, e ha suscitato vaste riflessioni sia nell’ambito delle scienze umane che in quello della filosofia. Più in generale, l’ideologia individualista fa leva su una serie di presupposti che accompagnano e rafforzano gli ideali che abitano l’individuo normativo, ossia l’individuo che deve innanzitutto esistere per sé, prima di esistere per gli altri. Questi presupposti non sono identificabili attraverso una chiara e coerente lista di nozioni. Stiamo considerando elementi di una configurazione ideologica, che ha finito per imporsi nelle società occidentali attraverso un certo numero di secoli. A questa configurazione hanno contribuito le formulazioni individuali dei filosofi, in modo particolare le loro dottrine del “soggetto”, della “coscienza”, della “ragione umana”; le diverse scienze sociali, elaborando metodi di ricerca incentrati sulla “realtà” dell’individuo; la letteratura stessa, almeno dal XVIII secolo in poi, esplorando attraverso sia generi ereditati sia forme radicalmente innovative l’immagine di un individuo ordinario sempre più estraneo nei confronti della società in cui vive.

Di questa estraneità tra l’io e il mondo sociale, noi contemporanei siamo diventati a tal punto esperti, che la consideriamo spesso un dato di fatto, giudicato a seconda dei casi come una calamità storica o, all’opposto, un punto di partenza inevitabile per affermare, in quanto individui, la nostra identità autentica nei confronti di una collettività minacciante. L’ironia dell’epoca presente vuole, però, che non siamo ancora usciti da un paradosso che già i nostri predecessori moderni ben conoscevano: se l’individualismo liberale ha trionfato, con tutti i corrispettivi vantaggi (autenticità, autoespressione, realizzazione di sé, rivendicazioni di differenze) e svantaggi (narcisismi, solipsismi, egoismi, competitività illimitata), come mai non si sono dissolte con esso le ombre di un condizionamento sempre più capillare delle menti e dei comportamenti individuali da parte di strutture di potere, megamacchine sociali, istituzioni tentacolari? L’incarnazione forse più evidente di questo paradosso è costituito dall’ambivalenza che ogni persona sperimenta nel suo rapporto con le piattaforme digitali e i social network: occasione ideale di una libera espressione di sé o tentazione irrefrenabile di narcisismo, ma anche, contraddittoriamente, pericolo di dipendenza (e alienazione) nei confronti del dispositivo tecnologico o addirittura di manipolazione da parte di algoritmi che selezionano contenuti in modo imperscrutabile.

La contraddizione apparentemente irrisolvibile tra libera volontà individuale, da un lato, e condizionamento più o meno consapevole da parte delle strutture di dominio, dall’altro, ci obbliga se non altro a uscire dall’illusione di una società che avrebbe la forma di un contratto stipulato tra individui già pensanti e agenti in una realtà definita. Come tutti, ho creduto in gioventù di possedere una vita interiore e personale da dover preservare contro un mondo di istituzioni repressive e di forme linguistiche stereotipate. Come tutti, in altre parole, sono stato affascinato dalla figura del poeta “lirico”, indipendentemente dall’aver scelto di praticare io stesso la scrittura poetica. Ho accolto, insomma, con slancio e adesione gli ideali espressivisti dell’individualismo. E ho impiegato, poi, parecchi anni per giungere a dissipare un certo numero di malintesi intellettuali legati ad essi e, più in generale, al paradosso tipico dell’individuo moderno, sospeso tra pienezza assoluta e annichilimento.

Olismo antropologico e democrazia occidentale

Se il Wittgenstein delle Ricerche filosofiche costituisce il punto di partenza di tale processo di chiarificazione, l’opera del filosofo francese Vincent Descombes ne risulta per certi versi il punto d’arrivo. In Descombes, l’eredità wittgensteiniana è combinata con il pensiero delle “significazioni immaginarie” di Cornelius Castoriadis, con la scuola francese di sociologia di Marcel Mauss e con l’antropologia comparativa di Louis Dumont. Questi molteplici riferimenti gli permettono di elaborare un approccio olistico e quindi radicalmente critico nei confronti dell’ideologia individualista. Il funzionamento di una società – inclusa la nostra, moderna e occidentale –, non può essere spiegata attraverso l’immagine che ne fornisce una tale ideologia. Solo una totalità di senso, un mondo di significazioni comuni e di pratiche adeguate ad esse, un intreccio di giochi linguistici e di forme di vita, solo uno “spirito oggettivo” così costituito può permettere la formazione di esseri umani che, oltre al fatto di essere individuati, sono anche in grado di acquisire, attraverso il processo di socializzazione, una loro autonomia di agenti. Non è possibile suppore degli individui, intesi come soggetti dotati di bisogni definiti e di una ragione funzionante, prima dell’intervento delle istituzioni linguistiche e sociali all’interno di un dato mondo storico. “La società non può fare altro, in primo luogo, che produrre individui sociali che le sono conformi e che la producono a loro volta”[1]. Se questo è vero, l’individuo alla ricerca del proprio sé autentico, l’individuo che si oppone alla società inautentica, dovrà ridefinirsi come un essere che ha acquistato la sua umanità grazie a un tipo antropologico, del quale assume finalità ultime e modalità espressive, entrando a far parte di una totalità sociale, già articolata in ruoli complementari. Dobbiamo allora considerare che è la società a fornire all’individuo tutti i valori che gli permettono di emanciparsi proprio da essa. Ma se formuliamo il legame individuo moderno-società in questi termini, rischiamo di uscire da un paradosso per gettarci in un altro: in che modo la società formerebbe degli individui, affinché essi finiscano con negarne le istituzioni e l’esistenza stessa?

È ancora Castoriadis che può venirci in aiuto: ciò che definisce una società democratica non in senso puramente procedurale, ma sostanziale, è il riconoscimento del potere istituente che individui e collettività esprimono attraverso la lingua e gli usi innumerevoli che caratterizzano una certa cultura. Solo a partire da esso, potrà venir concepito un potere costituente, ossia la scelta e l’applicazione di un certo sistema legislativo. (“Le legislazione non può creare la lingua nella quale sarà elaborata, e tantomeno può creare i costumi grazie ai quali essa non resterà lettera morta”.[2]) La particolarità delle società occidentali consiste, quindi, nell’aver reso esplicito questo potere istituente, e nel difenderne l’espressione concreta attraverso un regime politico specifico, che è quello delle attuali democrazie. In questa “cultura democratica” viene riconosciuta all’individuo singolo la possibilità di far valere una sua autonomia, ma quest’ultima ha senso esclusivamente in rapporto all’eredità culturale che gli è stata trasmessa e in cui è stato educato. In questa prospettiva va inteso, allora, un ideale di realizzazione o espressione di sé: l’agente autonomo, che tutte le società anche gerarchiche, tradizionali e pre-moderne hanno conosciuto, è invitato ora, nelle democrazie contemporanee, a individualizzarsi, ossia a ricevere criticamente l’eredità di valori, usi, discorsi che lo hanno preceduto e in parte costituito. Questa individualizzazione è meno una richiesta di riconoscimento che il singolo indirizza a una collettività, che una creazione di sé rivolta al futuro, una creazione che si realizza attraverso i ruoli e le appartenenze stabilite, ma anche al di là di esse. L’apertura al divenire socio-storico non è solo l’accettazione di un processo inevitabile e in gran parte collettivo e inconsapevole, ma è anche la partecipazione attiva e consapevole ad esso a livello individuale. La domanda di riconoscimento presuppone che, colui o colei che la formula, possegga già la sua fisionomia differente, mentre la creazione di sé implica rischi e incertezze negli esiti di tale processo.

Vorrei / m’immagino / sono persuaso d’incarnare un nuovo tipo di padre (o di marito o d’insegnante), ma in fin dei conti gli altri considerano che mi comporto come tutti i padri che mi hanno preceduto e mi circondano. Oppure gli altri possono sì accordarsi nel riconoscere la novità del mio comportamento, ma esso si traduce per loro in azioni insensate o contraddittorie, impossibili da assumere come modelli alternativi. Nulla garantisce che una creazione di sé, così intesa, possa riuscire, ottenendo quindi adesione e radicamento nelle pratiche sociali. Quello che non si può certo immaginare è una creazione di sé, individuale o collettiva, che si ponga magicamente al di là delle istituzioni esistenti e che sia in grado di esprimersi in una lingua radicalmente nuova. Per misurare il proprio grado di riuscita, una creazione di sé deve presupporre delle istituzioni, rispetto alle quali marcare la propria differenza, così come un discorso comune, di cui innovare e riarticolare alcune “province”. Le fantasie degli anarchici (e anche del marxismo più ortodosso) finiscono per collimare con quelle dell’individualismo liberale più oltranzistico: la società (post-rivoluzionaria per Marx) non è altro che una libera associazione di individui, in grado di decidere intersoggettivamente (per accordo reciproco) il senso di ogni loro atto e di ogni loro parola. Ma un tale scenario è antropologicamente e sociologicamente insensato.

Se vogliamo difendere la possibilità per gli individui di individualizzarsi, se vogliamo difendere l’idea che la creazione di sé possa rimettere in discussione le leggi che ci siamo dati, e quindi anche gli usi e le forme linguistiche, dobbiamo difendere innanzitutto le istituzioni democratiche, l’educazione democratica per i nostri figli, la lingua comune, all’interno delle quale, per altro, avvengono comunque innovazioni e invenzioni. E ciò significa riconoscere le molteplici appartenenze che ci rendono membri effettivi di una totalità che ci trascende. Possedere le prerogative, quindi, di un individuo democratico, implica innanzitutto essere cittadini, ossia membri di una comunità politica e di uno Stato determinati. Riconoscersi come cittadino – scrive Descombes – corrisponde “al momento in cui l’individuo deve riconciliarsi con il suo essere sociale”[3].

Le nostre democrazie han poco di democratico, si dirà. Nei fatti funzionano piuttosto come regimi oligarchici. E inoltre, nonostante l’insegna “democratica” che esibiscono, praticano discriminazioni molteplici, di genere, di orientamento sessuale, di razza, ecc. Tutto questo è vero, ma la democrazia, nel suo significato forte, sostanziale, che è quello difeso da Castoriadis, andrebbe considerata come un progetto da realizzare, non come un insieme di norme e istituzioni di cui siamo già stati dotati una volta per tutte, e di cui si dovrebbe solo garantire il buon governo. Ma lo stesso si potrebbe dire – come dicono per altro certi costituzionalisti – della carta costituzionale italiana: essa è un progetto, non solo qualcosa di dato definitivamente, e che eventuali modifiche o riforme potrebbero compromettere. Se dunque la condizione perché davvero si possa parlare di autonomia e di creazione di sé individuale risiede in una democrazia sostanziale, allora l’individuo dovrà differenziarsi dagli altri individui e, nello stesso tempo, rendersi solidale ad essi nel progetto democratico, in quanto cittadino tra i cittadini.

Constatare che il progetto democratico è incompiuto, e seriamente minacciato, non può comportare una semplice reazione di discredito (“la democrazia è una pura finzione che occulta le reali forme di dominio”, ecc.), in quanto è il progetto più avanzato culturalmente e politicamente che abbiamo sul piano storico-antropologico; esso coincide con il progetto di autonomia, di riconoscimento cioè che le norme che ci diamo non vengono né da Dio, né dalla natura, né dalla ragione umana universale, né della leggi della storia, ma dalla comunità umana e dalle sue istituzioni determinate.

Questo discorso, quindi, non ha valore solo per coloro che già posseggono il privilegio della “piena cittadinanza”, in quanto individui occidentali di una democrazia occidentale. Su questo punto, la scrittrice e militante Léonora Miano, di nascita camerunese ma di cittadinanza francese, è stata magistralmente esplicita. In un passo di Afropea, un saggio del 2020, si rivolge a tutti gli afrodiscendenti che vivono in Europa, e che fronteggiano situazioni di razzismo e discriminazioni istituzionali. Scrive:

Dal momento che non si riesce ad essere lì, non si può essere di nessun’altra parte al mondo. È perfettamente possibile ricusare l’occidentalità, combatterla come fa Afropea. È possibile dire no alla supremazia bianca, indicando, nello stesso movimento, che si è nati proprio su questa terra europea e, dal momento che è andata così, e dal momento che ciò deve voler dire qualcosa, ci si dà come missione di disoccidentalizzarla. La legittimità di una tale ambizione impone questo: bisogna appartenere. Senza ammettere il nostro legame con una società, con tutti quelli che la compongono, è impossibile chiederle conto, spingerla a trasformarsi.[4]

Per comprendere appieno il ragionamento di Miano, dobbiamo chiarire un punto: ciò che chiama “occidentalità” non riguarda in toto la cultura occidentale, ma una sua componente specifica, che Castoriadis per primo aveva ben isolato: l’espansione illimitata del dominio “razionale” sugli esseri viventi e sul mondo. Questo desiderio di espansione illimitata non è un’invenzione della società occidentale, ma esso ha trovato nel capitalismo la sua forma storica più efficace e perniciosa. Capitalismo – come progetto di espansione e controllo illimitati – e democrazia – come progetto di autonomia – non sono però “significazioni immaginarie” intrinsecamente legate, anche se, nell’evoluzione della società occidentale, si trovano a coesistere. A confortare l’analisi di Castoriadis, vi è il discorso di Miano, che si pone nella prospettiva dei “nuovi arrivati” in Europa, ossia di coloro che, venendo dalle antiche colonie dell’Africa, si sono ritrovati a vivere in un universo politico e in una cultura, in cui non tutto era da rigettare come nocivo o inservibile per creare una propria nuova identità. Anche per i non-europei che si sono ritrovati a vivere sul suolo europeo, l’eredità occidentale è apparsa composita, oltreché contraddittoria. In essa c’erano cose contro cui combattere, ma anche cose di cui servirsi.

I cittadini occidentali – sia individualmente, sia per gruppi minoritari o discriminati – che criticano l’occidente, devono riconoscere almeno due cose, affinché la loro critica abbia qualche possibilità d’incidere durevolmente sulla società in cui vivono. La prima riguarda la salvaguardia di quel progetto di democrazia, che costituisce la legittimazione non solo a livello di procedure, ma anche di attitudini incarnate, di quelle stesse critiche rivolte alla tradizione e alle istituzioni. Se chi critica non lo fa per un religioso rigetto della società terrena in cui vive, come accadeva nel caso degli anacoreti, allora deve sapere non solo cosa rifiutare della cultura e delle istituzioni, ma anche cosa sceglie di difendere e salvaguardare. La seconda cosa, diretta conseguenza della prima, è l’accettazione dell’appartenenza alla società di cui si criticano le istituzioni, e quindi l’accettazione della cittadinanza all’interno di una totalità sociale e politica storicamente e geograficamente determinata.

In nome del genere umano, dell’umanità universale, si può di volta in volta pretendere di ampliare i criteri di cittadinanza, in modo da includere in una società degli individui che ne sono esclusi e che, quindi, non possono intervenire sulle decisioni politiche che li riguardano. Non si possono però difendere concretamente degli individui del genere umano, considerato come un’entità astratta, aleggiante al di sopra di Stati, frontiere, istituzioni precise nei confronti di cui, eventualmente, si potrebbero indirizzare rivendicazioni, richieste, critiche. L’essere umano nella sua pura generalità assomiglia all’individuo nella sua pura singolarità: entrambi esistono al di fuori della totalità sociale storica e determinata, che sola, però, attribuisce loro i mezzi per condurre delle battaglie come soggetto politico.

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[1] Cornelius Castoriadis, « La démocratie comme procédure et comme régime », in La montée de l’insignifiance, Seuil, Paris, 1996, p. 270.

[2] Vincent Descombes, Les embarras de l’identité, Gallimard, Paris, 2013, p. 247. Si tratta di un passo in cui Descombes discute esplicitamente il concetto di potere istituente di Castoriadis.

[3] Vincent Descombes, Exercices d’humanité. Dialogue avec Philippe de Lara, Pocket, Paris, 2020, p. 211.

[4] Léonora Miano, Afropea. Utopie post-occidentale et post-raciste, Pluriel, Paris, 2021, p. 200.

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Chiamate notturne

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di Fausto Paolo Filograna

A Paolo

Marito si è messo alla guida. È ancora luce in quella zona del mondo, e mancano molti mesi alla nascita e alla morte della loro bambina. Ogni tanto, al culmine di qualche salita, se le curve della strada non sono costeggiate da troppi alberi, riesce a vedere una striscia di mare perdersi lontano verso Ovest, poi il nulla ai lati della strada, un’agave, un ulivo secco, finché il muro di una villa illumina il parabrezza, e dal finestrino abbassato si sente l’eco del rumore della macchina nello spazio vuoto. La macchina costeggia muri lunghi diversi chilometri, che rientrano improvvisamente esibendo grossi cancelli scuri e metallici. Cliniche, resort, residenze di industriali arteriosclerotici abbandonate o di politici che vogliono mettere il cazzo all’aria aperta. I miliardari, dice a bassa voce. Impiccàti. Tutti. E intanto pensa al sonno.Non vede l’ora di dormire, e anche Moglie a casa sua non vede l’ora di dormire. E sebbene sappiano che non sarà un buon sonno, ma una ripetizione incosciente delle ossessioni diurne, desiderano abbracciarsi alla sua transitorietà: in un attimo la luce della veglia lava ciò che è accaduto in sogno come l’acqua spegne la luce di un cannello della fiamma ossidrica. E per quanto ormai in parte lo temano, preferiscono il sonno alla vita. “Un giorno verremo giudicati per i nostri sogni” ha detto Moglie a Marito. Ma lui gli crederà? Ogni religione, predica di svegliarsi, di riprendersi dal sonno, e tutti hanno ricercato Dio nella veglia, finora, e nessuno sa se invece non sia sempre stato nel sonno e nel buio, o, come dice Moglie, nel suicidio.

Marito sta guidando da molto. Più avanti lungo la strada si sarebbe profilato il cimitero per un paio di chilometri, con le luci accese anche mentre il sole finisce il suo stupido lavoro. Si ferma prima, nella rientranza di uno di quei cancelli, e comprende che non è per niente calmo. E così, come tante altre notti, la chiama.

Stai guidando?

Mi sono fermato prima.

Prima?

Del cimitero.

Non lo dici in senso metaforico.

No dico davvero. Non voglio fermarmi alle porte del cimitero. Se mi fermano e mi chiedono che ci faccio lì, non posso dire che sto telefonando davanti al cimitero. Dai su. Tra l’altro un collega mi ha raccontato che hanno fermato uno lì davanti al cimitero. Gli hanno detto che ci fai davanti al cimitero. E lui balbetta che è venuto a fare delle visite. Delle visite per cosa, gli chiedono. I finanzieri glielo chiedono perché che si sia fermato al cimitero evidentemente non gli è piaciuto. ‘Sta cosa di fare delle visite al cimitero deve suonare strana a un finanziere. Ma non è solo questo, è anche che stare davanti al cimitero non mi piace.

Perché? Perché doveva suonare strano a un finanziere?

Perché uno fa di tutto per non crepare e finire al cimitero e poi ci va di sua spontanea volontà. Così. E perché se uno crede, crede nell’aldilà, be’ allora è sicuro che al cimitero non i sia nessuno, niente, nada, ok? Corpi, carcasse, polpette stagionate, involucri. Penso io. Altrimenti crede nei fantasmi, e be’, lì è meglio prendere qualche farmaco. E insomma gli hanno aperto la macchina e gli hanno trovato tre etti di cocaina nel portabagagli. Aspettava qualcuno, però vivo.

Madonna… L’hanno fermato solo perché stava al cimitero?

No.

No?

Non davvero. Pare che in realtà lo seguissero da mesi, e sapevano che doveva fare lo scambio con qualcuno. Solo che non sapevano dove. L’hanno seguito a una certa distanza a fari spenti. E ora è dentro insieme al fratello che pure sta in carcere.

Dove sei?

Davanti a una villa.

Capito. Non so.

Cosa.

Tu credi che si sia fermato lì perché in qualche modo voleva farsi fermare? Che in qualche modo voleva morire?

Morire? Magari era l’unico posto dove si può accostare sulla provinciale, dove ci stanno due macchine insieme senza sporgere il muso sulla strada. Perché morire?

Non so. Darsi appuntamento al cimitero. Quando uno dice ci troviamo al cimitero vuol dire una certa cosa, oppure finisco al cimitero vuol dire una certa cosa. Quando lo dicono le persone vuol dire una cosa sola. Sempre. Come ha fatto quello a dire ci vediamo al cimitero senza dirgli ci vediamo al cimitero? Pensi che abbia detto così?

Certo.

E allora sei d’accordo con me, perché ci vediamo al cimitero vuol dire una cosa sola. Perché nel suo caso doveva voler dire altro? Perché era ancora vivo?

Può darsi. Ma non ne sono sicuro. Tu stai dicendo che in pratica voleva morire e non lo sapeva.

Esatto.

E nel dubbio si è fatto arrestare.

E nel dubbio si è fatto arrestare.

Ma non è per niente morto.

Nel dubbio, ripeto, si è fatto arrestare, che non è morire ma è almeno stare al buio per un po’, senza spazio di manovra diciamo, impossibilitati a fare cose da vivi. In pochi metri quadrati di suolo, che dev’essere proprio un posto del cazzo. E uno non si muove da un posto del cazzo o quando ce lo hanno rinchiuso dentro o quando ci è morto. Che cazzo, sei gretto.

Non so.

Ci sono tante persone che vorrebbero morire.

Lui mi sa che voleva solo i soldi. Roba da vivi.

Ma alcune lo sanno, altre no. Ci sono troppe morti, io credo. Quanti di quelli che affogano si sono spinti volontariamente troppo oltre nel mare o sono andati a farsi una nuotatina quando il mare era in tempesta? Quanti deviando con l’auto non hanno scelto l’albero sul quale spargere le budella? Quanti non hanno pregato per un attacco di cuore? E una volta morti tutti a dire peccato, peccato, la vita, e invece lo hanno voluto. O scherzando con una calibro 13 hanno scelto di scherzare proprio sul petto di un amico o sul proprio?

Non so, che cazzo vuoi che ne sappia.

A te non va che a qualcuno possa voler morire.

Certo, a me non va.

A voi piace quello che a me fa schifo, è per questo che siamo così diversi, io, qui, e tutti voi, lì. Voi, felici, vivete nel mondo di chi vuole vivere. Perché mi hai chiamata?

Per parlare.

Perfetto.

Stiamo parlando. Non ero calmo. Non so perché. Nel portabagagli ho la mia attrezzatura, sono sicuro di non aver dimenticato niente, il Gav tecnico, gasolio per il gommone. Ho comprato un anti-fog per non fare appannare la maschera, roba seria, di fino, roba per sub fighettini. Allora devo essere calmo. Aspetta che controllo. Ormai sto quasi al buio.

Si girò e disse di non aver dimenticato nulla.

Nemmeno tre etti di coca?

Nemmeno tre etti di coca. Senti come sta la bambina?

Al buio anche lei.

Non la senti?

Certo che la sento. O meglio, insomma. Sento che si muove, di notte un botto. Stanotte non prendevo sonno. Mi sono risvegliata alle 2 e mi son dovuta fare un tè deteinato — quello normale non lo sto bevendo più, sai, ho cominciato a fare come da piccola, solo té deteinato tutti i giorni — e boh, ho guardato fuori dalla finestra rimbambita per mezz’ora. Le macchine avevano tutte i fari spenti, non una luce. La luce non mi va tanto. Poi son tornata a letto e alle 4 devo aver preso sonno. Lo sento con la pancia, diciamo. Non con le orecchie.

Chiaro, non bisogna aspettarsi che parli.

No, e nemmeno che pianga, a volte mi chiedo se non abbia bisogno di piangere.

Di solito lo fanno quando escono.

Ma io dico ora, se non ne ha bisogno ora, a volte, di sfogarsi. A me capita spesso, e se è mia figlia dovrà capitare anche a lei, no? Sentirsi male e aver voglia di sfogarsi, aver voglia di piangere. Ma mi chiedo come faccia in mezzo a tutta quell’acqua. E se volesse muoversi, stiracchiarsi, chiusa com’è? Se ci penso sto male.

Forse ha bisogno di stare lì. Se non esce, se non vuole uscire significa che ha bisogno di stare lì, che le piace.

E se non le piacesse e non potesse uscire invece? Se fosse ancora troppo debole per uscire, per piangere? Che inferno.

Può essere. Lo sai che molti pagherebbero per stare nella pancia della propria mamma? Lo sai o no?

Certo. Bravi. Lo dicono tanti, ma nessuno ricorda com’era. Come fanno a dirlo allora? Se non lo ricordano e non lo possono ricordare.

Ci sarà qualcosa di vero in questo desiderio, come in ogni desiderio.

E se la nostra bambina fosse in una specie di carcere anche lei?

Con le guardie?

Senza. Ci sei tu a fare la guardia. E i muscoli del mio utero come un cancello a due ante. Chiusissimo. Rigidissimo. Sicurissimo.

Ci sono io. Anche se ora sono qui, si sta alzando il vento.

Sei preoccupato?

No, credo che sia vento di superficie, in profondità nel mare non cambia niente se è così. Sotto i 30 metri è come stare sotto un tavolo mentre tutti gli altri pranzano.

Chi sono gli altri?

Boh, dio. Al di là della tovaglia.

Dei nuvoloni avevano fatto calare il buio prima che calasse il sole. Accese la macchina per scaldarsi, accese i fari, sullo stereo ricomparvero delle scritte rosse mentre in sottofondo si sentiva lo sfiatare del riscaldamento. Quando le agavi cominciarono a dondolare si videro dei lampi in lontananza. Passarono molto lentamente due o tre macchine con le luci di posizione accese. Sembravano spinte dal vento.

Però qualcosa non mi quadra. Della storia del tipo beccato con la droga.

La storia di prima?

Sì. Se il tipo volesse sì farsi mettere dentro, ma non come surrogato della morte? Ma per solitudine dico.

Perché era un uomo solo?

Perché dentro c’era il fratello. Ti avevo detto che in carcere c’era suo fratello, cazzo. Ti sei dimenticata?

Sì.

Anch’io me n’ero dimenticato ma adesso mi torna e non so perché. Se inconsapevolmente volesse sì stare in carcere, ma solo come pretesto, solo accidentalmente, solo perché il fratello ci era finito di recente?

Be’ poteva andare a trovarlo se voleva vederlo.

Consapevolmente poteva andare a trovarlo, ma inconsapevolmente? Se, come si suol dire, il cuore avesse una porta, e la chiave ce l’avesse avuta solo il fratello?

Ma quello perché stava in carcere? Pure lui coca?

No lui andava in giro con uno scooterone. Lì 300 grammi di coca non ce li metti. Estate e inverno senza casco. Era un biondino che sulle prime gli chiederesti se i genitori non sono slavi.

E invece tutt’altro.

Niente droga lui?

Non per gli altri. Quella sua, quei 10 grammi ci stavano benissimo nello scooterone. Una notte ne aveva fatti fuori più di metà di quei dieci e vedi tu se aveva i soldi per dell’altra. Manco per il cazzo. Quindi esce di casa alle 11, si mette sullo scooterone senza casco, come mostrano le immagini di sorveglianza di un garage, e fa non più di 300 metri da casa sua. Parcheggia davanti a una palazzina, suona a un campanello e la vecchia che ci abita lo fa entrare. Intendo dire: non ho idea di cosa le abbia detto, magari che aveva fatto un incidente e aveva bisogno di acqua, o di un telefono per avvertire un parente, o qualcos’altro che gli sia venuto in mente tra le pareti di quel cranio del cazzo. Fatto sta che gli apre, e questo sale di corsa i due piani, sbarra la porta della vecchia e rovista dappertutto per rubarle soldi e ori, che sono tutti in sala da pranzo.

Ma è andato a rubare di fronte a casa propria?

Esatto. Si conoscevano benissimo, è per questo che la vecchia lo ha fatto entrare.

E invece sembra che proprio per questo non doveva.

E quando ha rubato tutto quello che sembra avere di valore la vecchia, sente dei mugolii e si accorge che questa ha il marito allettato nell’altra stanza col respiratore. Al che va di là, fa alcune domande al marito, gli chiede se lui possiede altri soldi. Lo rigira da un lato e dall’altro convinto che possa essere il posto migliore per nascondere banconote, sotto il malato, insomma, nelle tasche del pigiama. Poi smonta la barriera del letto per infermi del poveretto e con quella picchia la moglie. Alla fine, quando sono già le 11.30 la stupra, e la stessa telecamera lo riprende di ritorno, ma non torna a casa.

Stupra la vecchia?

La vecchia.

E quanti anni aveva?

Più o meno sulla settantina.

Cazzo. E perché l’ha stuprata?

Questo il mio amico non me l’ha detto. E poi non so se la tua domanda ha senso. Ma il fratello, mi è venuto il dubbio che l’abbia fatto per amore di andare in carcere anche lui.

Tu non sei molto normale. È vera tutta sta roba?

È vero che non sono molto normale.

E la storia?

Non credo. Ma non stuprerei mai una vecchia. E se c’è un motivo per cui l’ha fatto, boh.

Tu non lo saprai sicuro.

Chiaro.

Voi non le capite ‘ste cose.

Noi chi?

Voi felici siete ciechi. Voi state al buio, state in una stanza buia, in una cazzo di grande, gigantesca stanza buia, un hangar stracolmo di cose possibili nel buio con una abat-jour accesa nel fondo, e pensate che ci sia solo quella perché fa luce, che in tutta quella cazzo di stanza gigante non ci sia altro che quella merdosa abat-jour. E ‘ste cose non le capirete mai. Voi piuttosto volete la luce, volete capire quella merdosa abat-jour accesa, perché è l’unica cosa che credete ci sia. Ma quando la portate fuori, alla luce del sole, alla potente luce del sole, nell’immensa luce del sole quell’abat-jour sembrerà spenta, e non significherà più niente per nessuno. Sarà una lunga notte, Marito mio, non avete paura voi felici?

Forse la stanza in cui stiamo noi, come dici tu, e quella dove state voi, sono due stanze diverse.

Ho sentito il rumore della macchina accesa e so che chiuderai, che hai fretta.

Non ho fretta. Ho solo freddo.

Ti scrivo se non dormo. Forse un’altra notte del cazzo.

Foto di Harut Movsisyan da Pixabay

Le ripetizioni

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Gianni Biondillo intervista Giulio Mozzi

Giulio Mozzi, Le ripetizioni, Marsilio, 2021

Ne Le ripetizioni c’è un episodio di reviviscenza della memoria che si dimostra fallace. Mario, il protagonista, ricorda perfettamente una cosa falsa: è una metafora della letteratura? Vero e falso non hanno significato, sono solo scrittura? Il fatto che Mario ti somigli è la prima bugia del libro?

Se proviamo sentimenti veri leggendo storie che sappiamo essere inventate (i romanzi, per esempio), perché un ricordo fasullo non potrebbe essere il ponte verso altri ricordi reali? La scrittura non è né vera né valsa: è finzione, opera. Ho prestato a Mario, per pigrizia d’invenzione, alcuni dettagli della mia biografia; altri dettagli della sua biografia sono completamente estranei a me.

 

Nel tuo romanzo accadono tantissime cose, in un arco temporale ampio, eppure c’è una sensazione di immobilità e di reiterazione continua, quasi una maledizione. La vita non ha senso, fai dire a un prete. Facciamo errori dai quali non impariamo nulla? O il senso sta, retrospettivamente, nel morire?

Per un prete la vita non ha senso in questo mondo: lo troverà nell’altro, nel nuovo. Mario ha diverse chance di cambiamento: decide di non coglierne nessuna. È capace, contemplando il quadro generato dal suo amico pittore, il Gas, di intravedere la possibilità di una rinascita, di una felicità senza fine. Si tira indietro.

 

Mario sembra il perfetto uomo senza qualità. L’esaltazione del mediocre, così come la maggior parte dei tuoi protagonisti. Tutti loro però nascondono vite segrete, bugiarde. I tuoi personaggi, più che ipocriti, sembrano stoici. Dobbiamo convivere con il male che ci portiamo dentro?

Non ho mai pensato ai miei personaggi come ipocriti. Li ho sempre immaginati come divisi, come incapaci di tenere insieme le diverse parti delle loro vite – e come sofferenti per questo. Il loro “male dentro” è questa separazione interna. L’unico di loro che non soffra per una separazione interna, l’unico che è tutto compatto, è Santiago: più o meno il diavolo. La separazione interna è quindi anche il luogo della chance di salvezza: purché la si accetti, anziché negarla.

 

Ogni rapporto sentimentale nel romanzo è soprattutto fisico, violento, perverso. C’è una attenzione a descrivere le umiliazioni corporali ai limiti dell’osceno. È il corpo l’ultimo baluardo della “pura vita” e deve essere perciò mortificato?

Il corpo è tutto. L’anima è un’invenzione greca. La Bibbia non ne parla.

(precedentemente pubblicato su Cooperazione, n 12 del 2021)

 

Su “The interrogation” di Édouard Louis e Milo Rau

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di Ornella Tajani

«C’était moi», ero io: risponde così Édouard Louis alla domanda del giornalista che gli chiede chi sia Eddy Bellegueule, il suo nome alla nascita, lo stesso che ritorna nel titolo En finir avec Eddy Bellegueule (2014), il romanzo che gli darà enorme successo poco più che ventenne e sancirà una tappa determinante nella sua traiettoria di transfuge de classe.

L’intervista in tv diventa un frammento dello spettacolo The interrogation, regia dello svizzero Milo Rau, co-scritto con Louis su drammaturgia di Carmen Hornbostel, in scena al Mercadante di Napoli ancora fino a domani (in fiammingo con sovratitoli in italiano). L’interazione fra l’attore protagonista, il bravo Arne De Tremerie, e il grande schermo sullo sfondo è continua; in un primo video Louis – che al liceo aveva sognato di fare l’attore per fuggire da Hallencourt, paesino di provincia del nord della Francia in cui è nato – spiega all’amico regista perché intende rinunciare a interpretare sé stesso sul palco: perché si è reso conto che il teatro non lo aiuterebbe a sfuggire alla solitudine che già impone la scrittura. Così tocca a De Tremerie raccontarci la sua storia, in una sorta di dialogo con il vero Louis, che appare e scompare dallo schermo, in una felpa con cappuccio che, come narra nei suoi libri, era il capo d’abbigliamento sognato dai ragazzini di provincia: appena sbarcato nella borghese cittadina di Amiens, dove è stato accettato nel liceo che costituirà il suo primo trampolino di lancio, Louis scopre che i giovani delle classi ricche si vestono in tutt’altro modo, indossano cappotti, accessori che mai fin lì aveva desiderato. Lo scenario dei suoi desideri cambia d’improvviso, la traiettoria sociale auspicata si delinea.

Perché questo titolo, The interrogation? Perché, ora che a 31 anni è famosissimo nel suo paese, le sue opere tradotte in oltre trenta lingue, traduttore a sua volta – di un’autrice meravigliosa come Anne Carson, più volte evocata durante lo spettacolo, insieme ad altri numi tutelari della sua formazione, quali Bourdieu –, Louis si chiede cosa siano il successo, il fallimento, e dove sia il suo vero io: sulla scena o dietro lo schermo; in quel cognome così socialmente chiassoso, Bellegueule, che ha voluto abbandonare, oppure in Louis, il paravento della propria vulnerabilità; nel nome che gli avevano dato alla nascita, Eddy, o in quello che la madre di una sua compagna gli suggerisce di adottare, Édouard.

The interrogation sfrutta la ripetizione, lo sdoppiamento, per riflettere sulla verità e sulla vendetta: se il premio Nobel Annie Ernaux, altra transfuga di classe, ha scritto per venger sa race, per vendicare la propria razza, come ha ripetuto più volte citando Rimbaud, Louis sembra scrivere soprattutto per vendicare sé stesso, la violenza ripetutamente subìta per via della sua omosessualità («Nei paesini che finiscono in -court, di solito la gente non è gay friendly»), lo stupro di cui racconta in Histoire de la violence (2016). Probabilmente rispetto a Ernaux, o al sociologo Didier Eribon (figura cardine per lui), la cifra di Louis è proprio la violenza: quella violenza che a Hallencourt serpeggiava in tutte le famiglie e che gli abitanti «chiamavano vita», in mancanza di consapevolezza.

Una violenza, del resto, anche autoinflitta. In Changer : méthode (2021) l’autore racconta come ha attuato l’uccisione di Bellegueule per diventare Louis: l’operazione per cambiare la propria attaccatura dei capelli, troppo da paysan; gli infiniti interventi ai denti. Colpisce, in questo spettacolo, quando nel video l’autore sembra voler imitare l’accento di provincia, che ha così faticosamente perso, ma poi non ci riesce, non vuole; la lingua, come ancora insegna Ernaux, è sempre l’elemento identitario più doloroso.

The interrogation è uno spettacolo frammentario in modo deliberato, forse perché a Rau, come a Louis, interessa mostrare i «frammenti di realtà nell’immensità dell’immagine»: se, sul piano formale, l’interazione fra schermo, videocamera su scena, attore in carne e ossa e videoproiezione dello scrittore funziona piuttosto bene, sul piano contenutistico si può considerare la pièce come una sorta di introduzione all’opera di Louis, e a questo genere che in Francia si è guadagnato una specifica etichetta, quella di récit de transfuge de classe, racconto di transfuga di classe (chi scrive preferisce chiamarlo autosociobiografia, ancora sulla scorta di Ernaux). Il tessuto intertestuale è ricco: non solo Carson, ma anche estratti recitati da Incendies di Wajdi Mouawad o da Juste la fin du monde di Lagarce (la pièce portata al cinema da Xavier Dolan nel 2016); non solo Čechov ma anche Didone ed Enea di Purcell, di cui l’attore “interpreta” in playback un’aria, momento commovente e di grande impatto, più dello scimmiottamento di Céline Dion, che pure scatena l’ilarità del pubblico. Questo continuo gioco prospettico, l’incessante alternarsi di ruoli e maschere è una mise en abyme della domanda da cui muove lo spettacolo: «Possiamo sfuggire alla nostra biografia attraverso l’arte, oppure l’arte è solo la testimonianza di una liberazione fallita?». Il quesito resta aperto, attraversabile.

«C’était moi»: quanta strada per costruirsi, decostruirsi, ricostruirsi, sembra dirci Louis, e Rau con lui, in questa breve pièce; quanta fatica per raggiungere sé stessi, prima di sparire nel buio in lontananza, come vediamo fare all’autore nel maxischermo al centro della scena. Del resto, nel romanzo Les années di Ernaux, autrice certo significativa per Louis, la prima frase recita proprio: «Toutes les images disparaîtront», tutte le immagini scompariranno.

I testi di Louis qui citati sono stati tradotti in italiano e pubblicati da Bompiani, fatta eccezione per Metodo per diventare un altro (La nave di Teseo): ci terrei a menzionare la traduttrice o il traduttore, come faccio sempre e come sempre richiedo di fare, ma gli editori hanno dimenticato di segnalarlo perfino nelle pagine dei loro siti dedicati a questi libri. Editori, citate – voi per primi – chi traduce.

Per una critica delle evidenze: il femminismo materialista di Christine Delphy

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di Marcella Farioli

È stato tradotto di recente da Deborah Ardilli il volume di Christine Delphy, L’ennemi principal. 1. Économie politique du patriarcat, Syllepse, Paris 1998 (Il nemico principale. 1. Economia politica del patriarcato, VandA, Milano 2022, pp. 323).

 

«…et puis je suis tombée sur Delphy et ce fut comme une révélation» (S. Chaperon, in «Autour du livre de Christine Delphy L’ennemi principal», Travail, genre et sociétés 4, 2000/2, p. 164)

 

«Come una rivelazione», «come inforcare un paio di lenti», «come una boccata di aria fresca»: la maggior parte delle lettrici di Christine Delphy sintetizza con espressioni di questa natura la forza argomentativa e l’effetto dirompente di sgretolamento delle “evidenze” relative ai rapporti sociali di sesso provocato dalle pagine della sociologa francese, esponente tra le più illustri del gruppo di studiose e militanti femministe fondatrici della rivista Questions féministes. A partire dagli anni Settanta il collettivo di Questions féministes, animato da donne della componente femminista radicale del Mouvement de liberation des femmes, elabora l’insieme di analisi e di strumenti teorici definiti da Delphy come “femminismo materialista”. Le basi materiali dell’oppressione delle donne sono al centro dell’analisi di queste studiose, che sviluppano, soprattutto in campo antropologico e sociologico, importanti analisi del patriarcato, dei meccanismi di oppressione e appropriazione delle donne attraverso il lavoro domestico, dello scambio sessuo-economico e infine, ben prima della teoria queer, del ruolo binarizzante dell’eteronormatività.

L’analisi di Delphy si fonda sull’estensione del metodo materialista al genere, che la porta a  identificare due modi di produzione analiticamente distinti: al modo di produzione capitalista descritto da Marx si affianca un secondo modo di produzione, quello domestico (o patriarcale), che funziona fuori dal meccanismo del plusvalore ed è basato sulla cosiddetta “divisione diseguale” del lavoro domestico e sulla sua non-remunerazione. Con il termine “lavoro domestico” (travail domestique), Delphy designa non solo il lavoro familiare e di cura (travail ménager), ma anche il lavoro gratuito effettuato dalle donne nelle attività economiche del marito o del padre. Mentre il primo modo di produzione avvantaggia i capitalisti, il secondo avvantaggia gli uomini.

Questa eretica – e sovente contestata – applicazione dell’analisi marxiana ai rapporti sociali tra i sessi è declinata nei dieci articoli, del periodo 1970-1978, che compongono la raccolta L’ennemi principal 1, uscito in Gran Bretagna nel 1984 con il titolo di Close to Home, poi in Francia nel 1998 in una versione accresciuta, ed ora egregiamente curato ed tradotto per la prima volta in italiano da Deborah Ardilli per le edizioni VandA. Alla stessa Ardilli, storica del movimento femminista e studiosa di teoria politica, si deve l’illuminante introduzione – un saggio critico, più che un’introduzione – intitolata Istruzioni per una politica femminista dell’inimicizia.

Il volume si apre con l’articolo che da il nome all’intera raccolta, L’ennemi principal, uscito sulla rivista Partisans nel 1970: si tratta dell’unico scritto di Christine Delphy ad essere stato tradotto e pubblicato in Italia dalle femministe della seconda ondata, nel 1972, nel volume del collettivo Anabasi Donna è bello e, nello stesso anno, nella raccolta Per un movimento politico di liberazione della donna curata da Lidia Menapace. La circolazione di questo saggio fu esigua, in rapporto alla novità teorica di cui esso si faceva portatore; nemmeno le femministe del salario, che Delphy conosceva e criticava, ne fanno menzione. I suoi contenuti spiegano d’altronde questa censura, sia da parte delle correnti differenzialiste del movimento, sia da parte di approcci che, pur condividendo con le materialiste l’uso di strumenti analitici mutuati dal marxismo, attribuivano al solo capitalismo lo sfruttamento e l’oppressione delle donne.

Il titolo Il nemico principale allude a uno degli aspetti più dirompenti del pensiero della sociologa francese, particolarmente “disturbante” anche per la coscienza femminista contemporanea. «L’idea che la politica femminista, al pari di ogni di ogni altra lotta di liberazione» scrive Ardilli «debba porsi il problema di individuare una controparte (un antagonista storico, un “nemico principale”) oggi appare stravagante, antiquata, semplificatrice, oltre che insostenibile sul piano delle condotte personali e collettive». Al giorno d’oggi prevale infatti la tendenza postmodernista ad annacquare l’efficacia strutturante delle grandi divisioni sociali, compresa quella tra i sessi. Al contrario, Delphy utilizza, per definire il gruppo sociale degli uomini e quello delle donne, il concetto di “classe”: se per classe intendiamo un gruppo sociale identificato dall’identica posizione dei suoi componenti nell’insieme del sistema di produzione (una posizione definita innanzitutto in funzione del loro rapporto con le condizioni della produzione e con le altre classi), le donne costituiscono una classe, definita dalla loro posizione subordinata e sfruttata nell’ambito del mondo di produzione domestico. È la classe degli uomini ad esercitare sulla classe delle donne uno sfruttamento legato a questo modo di produzione, che si attua attraverso l’estorsione di lavoro gratuito, in assenza di salario e (in parte) al di fuori del mercato. La classe degli uomini trae beneficio da tale sfruttamento, che si intreccia strettamente a quello capitalistico, pur rimanendone analiticamente distinto; lo sfruttamento domestico condiziona la partecipazione diseguale di uomini e donne al mercato del lavoro e, viceversa, la diseguaglianza tra i sessi nel mercato del lavoro costituisce «un’incitazione oggettiva al matrimonio» (p. 36), ovvero all’ingresso nel rapporto di produzione domestico.

L’applicazione del metodo materialista al genere è uno tra gli aspetti teorici più rilevanti del pensiero di Delphy: esso risponde all’esigenza di spiegare ogni fatto sociale con altri fatti sociali e di collocare il dominio sociale al centro della riflessione. Mostrando come il metodo materialista possa essere usato per analizzare altri rapporti di oppressione oltre a quello capitalista, Delphy restituisce all’appropriazione delle donne la sua centralità, riscattandola dall’etichetta di “oppressione secondaria” conferitole dalle formazioni politiche anticapitaliste (Capitalismo, patriarcato e lotta delle donne, pp. 287-301). A tal proposito, Delphy rimarca l’asimmetria metodologica con cui il marxismo “ortodosso” si approccia alla cosiddetta “questione femminile”; esso, derogando dagli strumenti analitici materialisti che gli sono propri, esamina l’oppressione delle donne attraverso un approccio culturalista o addirittura naturalista.

Da questi presupposti teorici fondamentali deriva una serie di corollari, il primo dei quali è la demolizione dell’oleografica visione della famiglia come irenico luogo di condivisione di affetti e unità di interessi. Ed è proprio sulla famiglia come istituzione economica che Delphy si concentra in numerosi articoli contenuti nella raccolta, che traggono origine dai suoi studi sociologici sulla trasmissione del patrimonio nelle società rurali francesi contemporanee: sono proprio le ricerche sulla famiglia e l’osservazione della grande quantità di beni che si producono e si trasmettono in seno ad essa che permettono a Delphy di individuare e isolare analiticamente un sistema di produzione che fuoriesce dal mercato, e che non si spiega nei termini del valore-lavoro (Lavoro familiare o lavoro domestico?, pp. 82-99): «Il non-valore mercantile è caratteristico dell’economia familiare. Esso non segnala l’assenza di attività economica, ma la presenza di un’economia altra» (p. 32). La famiglia si rivela così un’istituzione economica non solo in quanto unità rispetto all’esterno, ma anche nel suo funzionamento interno: un organismo gerarchico i cui membri sono caratterizzati da interessi differenti e antagonistici (Famiglia e consumo, pp. 100-124; La trasmissione ereditaria, pp. 125-160). Il lavoro gratuito delle donne, sia quello familiare sia quello destinato al mercato, scompare tuttavia dall’orizzonte visibile: i bilanci nazionali calcolano il valore dell’autoconsumo in natura delle famiglie agricole ma non quello del lavoro domestico delle donne, mentre gli enti previdenziali permettono, come si constata anche oggi in Italia, una totale deregulation nell’utilizzo della “collaborazione familiare gratuita”, che, oltre a dar luogo all’evasione contributiva, avalla lo sfruttamento del lavoro gratuito delle donne.

La diseguaglianza nella famiglia è rimarcata anche nel saggio Matrimonio e divorzio (pp. 161-178) in cui Delphy argomenta impeccabilmente una tesi in apparenza paradossale, quella della solidarietà sostanziale tra due istituzioni formalmente antitetiche, il matrimonio e il divorzio: esse sarebbero strutturalmente volte a garantire la continuità dell’esonero maschile dai compiti del lavoro familiare e della cura dei figli. In Le donne negli studi sulla stratificazione (pp. 179-194), la sociologa mette in evidenza la grottesca forzatura sottesa agli studi sociologici sulla stratificazione sociale quanto alla classificazione delle donne: queste ultime, infatti, se disoccupate, vengono inserite d’ufficio nella classe del marito, fatto che non si verifica nel caso di uomini disoccupati. Si giunge così al paradosso per cui la moglie nullatenente di un proprietario di mezzi di produzione, la “moglie del borghese” di certa retorica anticapitalistica, figura nella classe sociale del coniuge. Il tenore di vita e il mantenimento discrezionalmente offerti dal marito vengono così assimilati alla proprietà di mezzi di produzione e di beni o a un salario regolato da norme contrattuali; l’alleanza matrimoniale viene confusa con l’appartenenza di classe. «In breve, le mogli vengono trattate come se detenessero una posizione alla stessa stregua del marito, mentre il procedimento tramite il quale vengono annesse  alla classe del marito presuppone esattamente il contrario: la non titolarità di una posizione propria» (p. 156).

Il tema della paternalistica solidarietà maschile al movimento femminista, in particolare nelle formazioni politiche anticapitaliste, è affrontato da Delphy nello sferzante saggio I nostri amici e noi. Fondamenti nascosti di alcuni discorsi pseudo-femministi (pp. 195-246), in cui l’autrice ritorna sul mito de “la moglie del borghese” e sulle accuse di antifemminismo mosse dai “nostri amici” alle donne; nella seconda parte del saggio; un’analoga ironia pungente, in cui l’autorevolezza dell’argomentazione si coniuga con la ferocia della satira, caratterizza il saggio Protofemminismo e antifemminismo (pp. 247-286), in cui Delphy attacca il femminismo essenzialista che, basandosi su presupposti idealistici e naturalistici, finisce per tradursi in una forma di antifemminismo.

Cinquant’anni dopo l’apparizione del primo articolo della raccolta, le pagine di Delphy non hanno perso nulla della loro freschezza e della loro straordinaria capacita di interpretare la realtà. Al contrario, la lettura de Il nemico principale è particolarmente urgente – e in controtendenza – in un momento storico come quello attuale, segnato da un prepotente prevalere, in una parte non esigua del femminismo, degli approcci culturalisti: ai rapporti materiali si sostituiscono quelli simbolici e psicologici, ai concetti di oppressione e sfruttamento quelli di “stereotipi di genere”, la cultura sessista è considerata la causa, e non la conseguenza, dei rapporti di forza in atto. Dalle pagine dei giornali, nei social-media e persino nelle mobilitazioni femministe, si inneggia a una «rivoluzione culturale», a un mutamento dei costumi e delle mentalità che abbatta un patriarcato pensato nei termini di «sistema simbolico», «sostrato culturale», o come insieme di stereotipi e pregiudizi, astratto dai rapporti sociali materiali. A ciò si aggiunga quel femminismo ecumenico che, appropriandosi della vulgata dei gruppi mascolinisti secondo cui il patriarcato “opprime tutti e tutte”, oblitera l’esistenza e ancor più l’identità dei reali beneficiari dell’oppressione delle donne: disincarnando l’analisi dai rapporti sociali materiali, si simmetrizzano le le posizioni dei dominanti e delle dominate, cancellando la diversa collocazione della classe degli uomini e di quella delle donne nella struttura gerarchica della società patriarcale. Un metodo che condiziona l’approccio alla militanza e la strategia del movimento femminista e rinchiude l’analisi stessa dei rapporti sociali di sesso dentro una prigione teorica: «Se l’impulso al cambiamento va subordinato a una strategia che armonizzi gli interessi di uomini e donne, è essenziale rimuovere qualsiasi richiamo alle fonti della divisione sociale tra classi di sesso […]. Una volta disperso il nesso tra interessi materiali e obiettivi politici, ci si autorizza a credere che soltanto l’ignoranza del danno provocato a “tutti” permetta alla società di opprimere le donne» (Ardilli, pp. 12-13).

Ne Il nemico principale la riflessione teorica non è mai disgiunta da una profonda esigenza militante, che ci esorta a non perdere di vista la necessità di riportare l’analisi materialista al centro della pratica femminista e della lotta al patriarcato; un compito sempre arduo, perché, come ci ricorda Delphy (p. 218), «il pensiero idealista è l’ideologia dominante, che impregna tutta la nostra vita e i nostri concetti più elementari, mentre il punto di vista materialista non è mai acquisito in anticipo, ma deve essere sempre duramente conquistato».

 

“Autorizzare la speranza”: una lettura a più voci #3

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[Per Interlinea è uscito un libro importante: Autorizzare la speranza. Giustizia poetica e futuro radicale di Italo Testa. In questo saggio, a cavallo tra teoria della poesia e esemplificazione di poetica, l’autore mette a frutto la propria duplice esperienza di poeta e filosofo. Ne risulta un libro denso di riferimenti e riflessioni, che approfondisce in modo particolare il nesso tra genere poetico e utopia. Abbiamo invitato alcuni autori a realizzare una lettura di questo saggio. I primi due interventi di Vincenzo Bagnoli e Francesco Deotto sono apparsi qui. I due seguenti a firma di Stefano Modeo e Tommaso Di Dio qui. a. i.]

La speranza e l’ellisse di Ipazia

di Maria Borio

1.

La speranza è legata alle idee e ai fatti: nella storia dell’utopia le sono state spesso attribuite capacità di influire non solo sul pensiero astratto, ma anche sull’azione sociale e politica. Tuttavia, la ragione strumentale e le scienze ci hanno assuefatto a considerare la speranza soprattutto come una manifestazione intellettiva e emotiva dell’interiorità. Possiamo autorizzare qualcosa di ideale? Per autorizzare una scelta, un’azione o persino un’idea cerchiamo elementi concreti, di cui appaiono evidenti le cause e prevedibili gli effetti. La parola autorizzare, infatti, sembra trovi giustificazione nel senso normativo del logos e la speranza in quello espressivo. Sperare dipende dalle nostre facoltà proiettive che, da limiti di una certa situazione, premono verso l’esterno un’energia e un progetto, come indica l’etimologia di esprimere: exprimĕre, propriamente “premere fuori”. “Autorizzare la speranza” è un’affermazione che pare metterci alla prova in una prospettiva piuttosto complessa. Possiamo dire che quest’ultima ha due punti di fuga: nel primo convergono le linee del cono visivo frontale – la ragione –, che si introflettono nel secondo punto, da cui nascono le linee di una corrente trasversale – l’intuizione –. I due punti di fuga sono come i fuochi controbilanciati dell’ellisse che segna le orbite celesti, indovinata per la prima volta da Ipazia. La speranza assomiglia a una prospettiva ellittica e mette in rapporto il vedere e l’apparire, la creazione e la decreazione.

2.

Se la speranza è stata spesso connessa al potere d’azione dell’utopia, oggi siamo abituati a credere che sperare possa comunque determinare dei fatti? Veniamo indotti quotidianamente a pensare in termini pragmatici e a fare fatti: ad essi è richiesto soprattutto un riscontro strumentale, non la verifica di un senso che li trascende. Dimentichiamo, però, che i fatti, per essere concepiti, hanno bisogno anche dell’attività di una vita immaginativa. L’immaginazione, allora, non riguarda solo il nostro mondo interiore, ma anche l’esistenza sociale: siamo portati a voler migliorare le cose intorno a noi, a pensare le relazioni in un orizzonte progettuale, fantastichiamo su come saremo e come saranno gli altri, su cosa faremo e faranno. Immaginiamo il futuro in misura non inferiore di come ricordiamo il passato. La vita immaginativa intesse la dimensione del vedere – a cui appartengono anche i fotogrammi memoriali – con quella dell’apparire: dell’evidente e del possibile. I limiti contingenti delle cose che vediamo sfumano nei limiti ipotetici di come appaiono. L’apparire ha un margine di errore, se cerchiamo solo l’esattezza momentanea, ma anche uno di visione, se cerchiamo la progettualità. A questi margini possiamo collegare, ad esempio, la differenza che Giacomo Leopardi indicava tra l’affettazione e l’immaginazione nell’arte: la prima dissimula e distorce il “vero”, perché persegue effetti espressionistici innaturali, mentre la seconda ne favorisce la ricerca, perché stimola la comprensione della natura delle cose e di noi stessi[1]. L’immaginazione, quindi, oltre ad avere una capacità che può indicare un “perfezionamento ontologico delle cose”[2], legando la vita immaginativa a quella sociale, rappresenta anche l’attività della mente che fa individuare l’autentico.

Immaginazione e autenticità sono fra i motori della cultura moderna. L’autenticità, ad esempio, è stata a lungo considerata un valore. Ci ha aiutato a scoprire il nostro sé individuale – ciò che in una persona è realmente e intrinsecamente lei –, e a saperlo esprimere. Ci ha svincolato dai vecchi sistemi che determinavano in modo archetipico la società e la politica. Pensare la società composta da individui, dando credito al potere della libera scelta di ognuno, ha favorito le democrazie. Ma perché è necessaria l’immaginazione? Grazie all’immaginazione abbiamo potuto prefigurare e costruire i progetti in cui realizzare noi stessi in modo autentico e iniziare a vivere autenticamente. La morale si è interiorizzata. Essere in accordo con il nostro sé autentico, infatti, non significa solo comportarsi sinceramente in base a quello che sentiamo come individui, ma vuol dire provare che le azioni sono davvero in armonia con il sé, dandone un riscontro morale nella nostra vita[3]. Non è questo ciò a cui aspirava Walt Whitman quando sognava la democrazia futura come risultato di “un’utopia dell’individualità”[4]?

Da qui all’individualismo il passo è stato breve. Charles Taylor ha messo in evidenza come nella cultura dell’autenticità abbia prevalso l’interesse del singolo: l’ideale si è corrotto in un soggettivismo morale, in un relativismo e in un “liberalismo della neutralità”[5]. La prova che l’essere autentici richiede alla coscienza è alta: un test costante di integrità. Ma l’essere umano è labile, spesso non vuole mettersi in discussione, tende facilmente a perdonarsi, a trovare giustificazioni nei contesti e nelle influenze sociali, per sopravvivere. L’autenticità è diventata, allora, qualcosa di ingenuo e di scomodo: discreditata come ideale, si è iniziato a considerarla una caratteristica non tanto dell’individuo, quanto della materia. L’autenticità assomiglia a un’etichetta che certifica la consistenza e il beneficio strumentale delle cose e dei fatti. E ha perso rilevanza anche l’immaginazione, rinchiusa nei processi inconsci: le è stato strappato il potere proiettivo di un progetto, che ne riconosceva l’importanza nella vita sociale e nella costruzione utopica.

Non facciamo più progetti a lunga scadenza: non siamo più abituati a cercare quello che appare, che si può immaginare o prefigurare, che possa raggiungere una sua manifestazione autentica. Il mondo in cui viviamo ci impone di osservare quello che si vede e seguire la logica utilitaria dei fatti e dei risultati immediati. Siamo informati da valanghe di fatti, notizie il cui contenuto non è necessariamente autentico: le fake news seguono una routine funzionalista, non hanno un interesse ermeneutico. La speranza si atrofizza. Ma fino a che punto riusciremo a essere convinti che l’autenticità sia solo una qualità materiale e non un valore che, per pragmatismo o per una vita meno responsabile, abbiamo scelto di non perseguire? Con un’affermazione come “autorizzare la speranza” possiamo aprire un varco dentro a un sistema avvolto dagli strilli dei fatti, un sentiero di rughe su un volto anestetizzato alle opinioni superficiali, che nasconde l’intelligenza.

3.

“Il fine utopistico della metafisica è l’immaginazione”[6]. Attraverso l’immaginazione la metafisica riesce a concepire la speranza? Ma ogni utopia, sociale o politica, osservata solo secondo i parametri dell’argomentazione filosofica, finisce sempre con l’imbattersi in aporie. Nell’estetica, però, il fine utopistico della metafisica può diventare più intenso e in questa veste particolare farsi conoscere: l’immaginazione estetica può raggiungere una perfezione, che possiamo comprendere grazie all’identità di idea e forma, concetto e percezione. La forma estetica è quella del possibile: essa tende ad essere perfetta in quanto utopica, corrisponde a ciò che appare e si prefigura, non a ciò che si vede ed è unicamente pragmatico. Nell’estetica la realtà viene trasfigurata e l’immaginazione delinea una dimensione radicale di ciò che può accadere: attraverso l’estetica si dà credito all’immaginazione e alla mente si riconosce il potere di dare forma alla potenzialità delle cose[7]. L’immaginazione estetica fa combaciare il poetico e la realtà in una concordia che mostra il possibile come un’espressione di autenticità. La forma estetica compiuta è autentica.

Nella poesia l’immaginazione estetica fa raggiungere all’ordine del possibile una forma estremamente intensificata. Perciò la poesia può essere considerata, come sembra suggerire Italo Testa, uno dei linguaggi più autentici della speranza. La poesia può indicare il possibile come assoluto oppure parte di una serialità. La parola di Paul Celan, ad esempio, ne è un’espressione assoluta: la lingua rappresenta una creazione del possibile e la scrittura si svolge come un’invenzione di realtà. Invece, le differenze specifiche tra le parti in serie nei testi di Francis Ponge rappresentano una decreazione del possibile: ogni tassello delle serie contribuisce a decostruire un sistema, la realtà come dato di fatto unitario, e la riconfigura attraverso un processo differenziale di possibilità.

Il poeta che crea o decrea è simile a un giudice: ma, nell’uno e nell’altro caso, non applica pedissequamente le tavole della legge, non schiaccia l’esperienza sotto i postulati, non si accontenta di seguire la ragione strumentale. Da un lato, il giudice è un “arbitro del diverso”[8], come per Whitman: chi a partire dalla conoscenza dell’individuale, dalla specificità del singolo, dalla sua libertà democratica e dal potere della soggettività immagina un mondo nuovo. Dall’altro lato, è un “mediatore”, come per Simone Weil e Cristina Campo[9]: chi pone la sua individualità in ascolto attento dei rapporti, senza stravolgerli con un’immaginazione febbrile e egocentrica. A partire, dunque, dal potere dell’intersoggettività chi media partecipa a una rete di relazioni prefigurandone delle nuove. Il poeta può essere un giusto perché scardina le griglie utilitariste delle informazioni senza autenticità. Nella poesia si lega la lingua al possibile, l’esattezza alla visione, come i due fuochi dell’ellisse di Ipazia. Si insegue così quel “vero” con cui Leopardi cercava l’autentico, provando a esprimere nel modo più umano possibile un’intelligenza. Thomas Rymer, nel 1678, in The Tragedies of the Last Age Considered, parlava di “giustizia poetica”, formula ripresa da Martha Nussbaum[10]. La poesia – che nei fatti giustizia non ne può fare e, direbbe ancora con ironia Patrizia Cavalli[11], non può cambiare il mondo – è uno dei pochi linguaggi che ci restano per intuire l’autentico, senza il quale, in fondo, non ci sarebbero nemmeno una giustizia o una coscienza.

Note

[1] Cfr. Giacomo Leopardi, Zibaldone di pensieri, vol. I, a cura di A. M. Moroni, saggi introduttivi di S. Solmi e G. De Robertis, Milano, Mondadori, 1983, pp. 18-20.

[2] Italo Testa, Autorizzare la speranza. Giustizia poetica e futuro radicale, Novara, Interlinea, 2023, p. 21.

[3] Cfr. Lionel Trilling, Sincerità e autenticità, trad. it. di R. Ariano, con un saggio di A. Tagliapietra, Milano, Moretti & Vitali, 2018.

[4] Italo Testa, cit., p. 25.

[5] Charles Taylor, The Ethics of Authenticity, Cambridge and London, Harvard University Press, 1991, p. 17.

[6] Italo Testa, cit., p. 19.

[7] Ivi, p. 37.

[8] Ivi, p. 26.

[9] Cristina Campo, Gli imperdonabili [Attenzione e poesia, 1961], Milano, Adelphi, 1987, p. 165; Ead., Sotto falso nome [Introduzione a Simone Weil, “Attesa di Dio”, 1966], Milano, Adelphi, 1998, p. 177.

[10] Cfr. Martha Nussbaum, Giustizia poetica. Immaginazione letteraria e vita civile, a cura di C. Greblo, trad. it. di G. Bettini, Mimesis, Milano, 2012.

[11] Cfr. Patrizia Cavalli, Le mie poesie non cambieranno il mondo, Torino, Einaudi, 1974.

Lo specchio armeno

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di Paolo Codazzi

di Paolo Codazzi

Ciò che accade prima non è necessariamente l’inizio.

Henning Mankell

Mi sono limitato come sempre a seguire il mirabile consiglio che il Re di Cuori dà ad Alice:“Comincia dal principio e prosegui finché non arriverai alla fine, poi fermati”.

Lewis Carroll

 

Inerpicandosi per la ripida scalinata, ingobbita dalle radici di un pigro nespolo isolato poco distante nel prato digradante il terrapieno che la sorregge sui lati, rampante all’oratorio edificato sotterrando una precedente chiesetta normanna, costruita sulle fondamenta di un tempio pagano adattato a cappella bizantina e il cui snello campanile fu aggiunto dagli arabi come minareto, quasi ascendendo nell’azzurro corrugato di nuvolaglie venose intrecciate con le scie dei numerosi aeroplani che come avvoltoi si avvicinano in lente spire attorno alle spoglie montagne modellanti una spontanea cavea all’orchestra del luminoso e seducente golfo, si voltano le spalle al mare, contenuto dalla balaustra in tufo fiancheggiante, a ridosso della scogliera, il tratto rettilineo del lungomare di quella città mediterranea nella quale molte etnie hanno ottenuto ristoro, qualunque sentimento avesse mosso il loro a volte brutale approdo.
Sui martoriati scogli si accanivano le onde di un mare assai agitato, sciabordando violenti scrosci fin oltre la carreggiata dove la graffiante e vaporizzata sonorità del transito delle auto si solveva nel salso pulviscolo sospeso per alcuni attimi insieme agli svolazzanti gabbiani, per poi ricadere rinfrescando i passanti dalla sciroccosa umidità per altri versi stimolante acute sensazioni assai diffuse in tutta la regione che, a detta di molti luoghi comuni, pare incoraggino e assecondino smanie sensuali.
In quella città, passiva precorritrice dell’integrazione razziale, devota alle fedi appese alle punte di lancia – si legge nella prefazione storica di una vetusta guida dell’isola acquistata da Cosimo prima di intraprendere il viaggio – un cronista del secolo diciassettesimo garantisce l’esposizione per alcuni giorni della mitica Pietra dell’unzione, di marmo rossastro maculato di bianco, in origine nella basilica del Santo Sepolcro a Gerusalemme, poi portata a Costantinopoli nel dodicesimo secolo e da qui forse trafugata dai crociati nel sacco del 1204, e duplicata subito in molte imitazioni, come tibie e femori reliquiari, alcune delle quali, sempre si dice, per contraddittoria devozione, qualificano il mercato antiquario della regione frantumate in pezzi, così come i barbari spezzavano l’argenteria romana dando valore soltanto al peso del metallo e non alle forme in esso vitalizzate. Su quella sacra pietra le saghe tramandano che prima di essere sminuzzata, sconsacrandola definitivamente, da una setta integralista di cristiani del quattordicesimo secolo, giunti sull’isola dal monastero egiziano di Santa Caterina del Sinai per diffondere l’ascetismo e le regole di vita del monaco Evagrio, siano state torturate e seviziate delle donne accusate di sortilegio malefico a seguito di ricorrenti e contagiose epidemie di peste bubbonica cui quella città, aperta ai marinai di tutto il continente, era particolarmente esposta. E a niente valsero le ricorrenti normative degli organi di potere riguardo le quarantene imposte alle navi prima di accedere nel porto tra i più frequentati del Mediterraneo. Queste cicliche pestilenze, prima che venissero intuite le vere cause, sparsero nell’isola un clima di superstizione o di ambigua interpretazione del senso della fede, scatenando nel corso dei secoli pubbliche e private crudeli persecuzioni ai danni di guaritrici o donne di fora come erano appellate, delle quali le ricostruzioni storiche riportano ben pochi elementi ma di cui le sagre locali sono ricche di particolari. Si sostiene anche, secondo indicazioni di affermate leggende popolari, che nella quadreria di un’anonima famiglia nobiliare, locata in uno dei palazzi storici della città, sia conservato uno specchio di tela armena ricavata da una sofisticata lavorazione del papiro, la cui cornice era parte integrante di uno dei numerosi specchi che in precedenza, negli anni tra la fine del dodicesimo secolo e gli inizi del tredicesimo, erano esposti da uomini, generalmente di cultura araba, collocati agli angoli delle strade di Palermo, che offrivano ai passanti l’opportunità di potersi acconciare o sistemare la pettinatura dietro libero pagamento di un’offerta. In particolare, lo specchio di un tale Assad Ibn Al-Hourani, di probabile origine armena o mesopotamica – riporta la guida nella sezione sagre e leggende –, considerato una sorta di patriarca di questi ambulanti, pare possedesse prodigiose proprietà per effetto della lieve convessità della superficie e della composizione fisica nella quale la parte generalmente occupata dal cristallo o dal metallo specchiante era invece intessuta da una raffinata tela ricavata dal raro papiro armeno, Cyperus papyrus, la stessa specie di cui i magrebini Aghlabiti di Tunisia impiantarono alcune piantagioni nell’isola fin dalla conquista avvenuta nel nono secolo subentrando ai Bizantini e che, forse, tramandano sempre i miti popolari, questo specchio potesse, in certe coincidenze, duplicare e fissare sulla tela, come una moderna lastra fotografica, le immagini che gli si offrivano con la sola condizione che i volti riflessi appartenessero a soggetti innamorati, secondo concetti di amore cortese prevalenti nella cultura araba oramai saldamente sedimentata nell’isola, nonostante il potere politico fosse da qualche anno in mano alle dinastie normanne. Questo specchio di tela, al cui interno si narra oziasse uno spirito benigno, fuddittu o mazzamareddu negli idiomi isolani, pronto a destarsi per soccorrere l’amore di turno, per quanto successivamente ricercato non era mai stato trovato e talune versioni popolari, raccolte da vari testi sulle tradizioni locali, garantivano che nel quindicesimo secolo, in un periodo increspato dal disagio delle popolazioni per l’avvento in Sicilia della Suprema Santa Inquisizione spagnola, su di esso fosse stato dipinto, da un giovane pittore del nord, il ritratto di una coetanea nobile siciliana e che fra i due fosse sbocciato un imprudente amore, malgrado il ritratto rappresentasse impegno sentimentale, commissionato dal fidanzato della ragazza, anch’egli di blasonati ascendenti, nell’imminenza del loro matrimonio secondo usanze assai diffuse in Sicilia probabilmente risalenti alla dominazione bizantina.

 

Questo testo è l’incipit del romanzo di Paolo Codazzi “Lo specchio armeno“, pubblicato recentemente (2023) da Arkadia

 

Overbooking: Eugenio Manzato

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Un romanzo inattuale

di

Alberto Pavan

Eugenio Manzato, nato a Quinto di Treviso, è storico dell’arte, è stato direttore dei Musei Civici di Treviso fino al 2001; dal 2016, anno della pensione, ha rispolverato la passione giovanile per la scrittura narrativa dando alle stampe nel 2023 il suo primo romanzo, L’ultima notte del dottor Romani.

Il romanzo narra la vita di Antonio Romani, vissuto tra la campagna trevigiana, Padova e Venezia, tra il 1757 e il 1797, l’anno in cui nella notte del 12 maggio, con Bonaparte alle porte, la narrazione si interrompe con un finale aperto che alimenta nel lettore il desiderio di un sequel. Antonio proviene da una famiglia di forestieri, arrivati a Santa Cristina di Quinto in circostanze non del tutto chiare, pronti però a mettere al servizio della piccola comunità i loro talenti, leggere, scrivere, lungimiranza economica e sociale. Antonio cresce in campagna forte, bello e intelligente, ricco di affetti e di amicizie salde, studia prima nel collegio dei Gesuiti a Venezia e poi medicina a Padova, città in cui coltiva il suo amore per le scienze, inizia a esprimere la sua filantropia e gode delle gioie della giovinezza. Medico promettente e uomo brillante, si stabilisce a Venezia dove avvia prima un ambulatorio e poi l’ospedale delle “Bele man”, il primo luogo di cura laico della città. Contemporaneamente conosce l’amore per la nobildonna Lucrezia Giustiniani, vedova del duca di Beaumont, di cui diventa il compagno senza la benedizione di nozze socialmente scomode. Quando però l’uomo è al culmine del successo, invidie maturate nell’ombra, come nei più intricati romanzi di Dumas, cuciono nei suoi confronti una vile vendetta e, mentre la Dominante esala l’ultimo respiro, con un colpo di coda è condannato a morte.

Il romanzo è narrato in prima persona nella forma del monologo che Antonio quarantenne pronuncia nell’ultima notte di prigionia ripercorrendo tutta la sua vita. Si configura quindi come uno scritto memorialistico, che si inserisce in una ricca tradizione veneziana (Casanova, Goldoni, Gozzi), ma anche, nella finzione, come le Confessioni di un italiano di Ippolito Nievo. Come Nievo, Manzato tempera all’interno di una rigorosa cornice storica personaggi e fatti d’invenzione, dipinti con verisimiglianza. Nella trama si innestano infatti ampie digressioni sulla cultura materiale del tempo, sulla scuola, sul viaggio, sul mercato delle anticaglie, sulla medicina, sull’agronomia, sulle istituzioni veneziane, che contribuiscono a fare del romanzo un affresco di grandi dimensioni, nel quale piace sperdersi e i cui dettagli istruiscono attraverso il piacere della vista. Come nei romanzi enciclopedici dell’Ottocento, non vi sono sottintesi che lasciano l’acquolina in bocca, tuttavia l’accuratezza delle informazioni non indulge mai alla pedanteria, anzi intrattiene, un poco come le pagine più sapide del Molmenti.

Lo stile dà omogeneità alle parti, sempre piacevole senza cedimenti, pulito, misurato nelle descrizioni, preciso nelle informazioni, di registro medio, efficace quando ricorre a un plurilinguismo mai approssimativo: il veneziano è la lingua d’uso della città e la lingua franca in tutto il Mediterraneo, le parlate venete sono legate all’ambito degli affetti e della confidenza, il francese è la lingua dell’alta società.

È un romanzo rassicurante che crea un mondo parallelo, per cui ci si riserva giorno dopo giorno un cantuccio serale di lettura per goderne l’inattualità, che si esprime nell’evidenza della lingua e della trama, ma anche nella caratterizzazione dei personaggi che, come nella Chartreuse de Parme di Stendhal, si possono dividere con un taglio netto in buoni e cattivi: i primi ancorati a un passato di privilegi e di meschinità e gli altri con uno sguardo aperto verso un futuro arioso. Nel romanzo la natura sociale dell’uomo è al centro: insieme con la cultura costituisce la forza che, diffondendosi, può cambiare dall’interno e senza traumi la società, secondo un progetto razionale di tolleranza e di convivenza di ispirazione massonica. Di qui scaturisce un piano cronologico di proiezione nel passato del presente o delle speranze per un presente migliore: si leggono tra le righe il Veneto dello spirito di sacrificio e dell’imprenditoria, Manzato non trascura però la necessità di un’evoluzione anche culturale per evitare l’avidità che ha invece portato a fare scempio del territorio, ma contempla anche l’apertura verso forme di affetto e di solidarietà alternative alla famiglia convenzionale.

L’ultima notte del dottor Romani si rivolge a un lettore disponibile a concedersi il lusso della lentezza, del tempo e del romanzo stesso, per assaporare la storia, la sua cornice e per meditare su di un messaggio di responsabilità sociale per la costruzione del nostro futuro.

Contre braci

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di Matteo Gigante

I

 

«I dolci cuccioli di foca

che sul ghiaccio vomitano sangue.»

T.Landolfi

 

Amore! Ecco un paio di occhiali trovati

al mercatin del merito delle pulci che ci permettono

di guardare un po’ meglio le nostre emorragie

che schizzano qua e là: i rapporti devastati

tra me mia moglie e l’amatissima foca domestica

che non ce la fa più

 

Prende tutto e se ne va e rimaniamo così

solissimi io e te con la nostra vista acutissima

da spaccare nitidezza e specchi

comprati per riflettere e noi riflettiamo giorno

e notte senza scrupolo di sosta anzi non ne

deve avanzare alcuno di pensiero tutti

li riflettiamo e ce li tiriamo

in faccia come schiaffi:

 

Per questo avevamo la foca! Troppo presi

a riflettere qualcuno serviva a ricordarci

l’esistenza dell’altro

che a riflettere ci si perde di vista la vitaccia

di mosche e merda di pranzi e sperma di

detersivi e microplastiche di tensioni e

rilasci così che si apre e distende lo sfintere

delle nostre passioni che ci svuotano le tasche –

che ora posso usare di nuovo

per grattarmi il cervello e questo

l’ho sempre fatto da solo

senza moglie e senza foca, perchè per questo

mi basta

il giaciglio stretto senza stelle

viziate di bellissime fantasie e sogni di

beltà (parola pronunciata prende sforzo

di conato). Allora è meglio:

 

Imbracciare il fucile uscire cercare

la foca traditrice nel taschino il coltello

fare attenzione allo scuoio che tra me

e mia moglie la pelle è ormai confusa

e sarebbe gran successo se da questa

mia azione uscissero almeno delle scarpe-

 

 

 

 

 

 

 

II

 

Volevo che la notte

si trasformasse in un telo caldo

ricamato filo filo

dal bacio alla galera;

 

Vorrei che la notte

si arresti se il mattone

di chi lavora

è la metastasi dello schiavo.

 

 

III

 

Invito all’inverno

 

Ripartire dal bosco in fiamme

se il percorso è un tempo

che ha memoria:

 

il bianco lungo

delle nevi in gennaio

l’azzurro tenue

dei giorni di inverno

le spinose braci

i rumori del freddo-

In fondo al tunnel

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di Roberta Spagnoli

Jonny scende alla stazione di Lentisco. Odore di candeggina e caffè.

Proprio come 30 anni fa, pensa. Qui non è cambiato niente. A una prima occhiata, nemmeno lui pare cambiato. Jeans lisi, zaino di tela grossa. Soltanto più curve le spalle, e non per il peso dello zaino. Allora lo riempiva di pagine e volantini in ciclostile. Ora solo una fotocopia: quella del permesso di libertà per un giorno. Stasera dovrà tornare là dentro. Ma è appena mattina, adesso. E fuori c’è il mondo, il suo mondo, continua a ripetersi piano, per darsi coraggio.

Per uscire c’è il sottopasso. E’ obbligatorio. Questione di sicurezza.

Una volta tutti correvano sui binari, appena scesi dal treno, fidandosi del semaforo rosso all’imbocco della galleria. A volte si sacramentava, trascinando valigie e pacchi tra i ciottoli della strada ferrata. Anche adesso c’è chi fatica, con i bagagli pesanti, su e giù dalle scale puzzolenti di ferro e di piscio. Per fortuna il mio bagaglio è leggero, pensa, ma fatica comunque a portarselo dietro e prova a sfilarselo, quello zaino, forse su una spalla sola pesa meno.

Subito fuori dalla stazione, alla sua destra, trova la galleria della vecchia linea ferroviaria dismessa e abbandonata. Adesso è un tunnel pedonale illuminato con i colori del mare, un tuffo nel blu di luci azzurrate che simulano le profondità: la prima attrazione turistica di Lentisco. La prima e l’unica, pare.

Di nuovo al sole, Jonny ritrova il suo paese, fatto di sassi grigi e muri stinti. Riconosce ogni ciottolo sconnesso, i tombini, i buchi sull’asfalto bagnato di fresco davanti ai portoni, le vasche di basilico sui gradini delle case; le bottiglie di plastica tra i vasi, per tenere i gatti alla larga.

Identica anche Santa Maria. Fa per sedersi sulla gradinata; ma sarebbe l’unico in tutta la piazza seduto come un mendicante. Rinuncia. Poi le ginocchia, quelle fanno male a piegarsi e soprattutto a rimettersi in piedi. Pensare che ci si passavano i giorni e le notti su quei gradini; a parlare, a fumare, a litigare. A volte anche muti, ognuno dentro la propria rabbia, ché sembrava non si potesse cambiare niente fino a che i vecchi non si fossero tolti di mezzo; ma quelli non mollavano: la resistenza, la liberazione, l’antifascismo… e intanto noi eravamo in mezzo ai fasci all’università, in fabbrica, tra le bombe che nessuno si azzardava a chiamare per nome.

Gli sembra di essere ancora lì, nel tempo di prima, a ridere e bere wodka lemon al bar di Antonio. Antonio che lo aveva riportato a casa a braccia quella volta, la maglietta sporca di vomito e sudore e ancora voglia di ridere a sentire le sue bestemmie a mezza voce. Chissà come sarebbe stato, se fosse andato tutto avanti così, a birra, vodka e gin.

Dopo, invece, solo caffè. Caffè per tenere i nervi saldi di giorno, per stare pronto a scappare di notte; caffè per sopportare la paura sotto la luce gelida dei neon 24 ore al giorno. Luce fredda che tiene sveglio l’orrore, dicevano loro, dall’altra parte delle sbarre.

Oggi però niente caffè; magari una coca da Antonio, tanto mia madre può aspettare, c’è un giorno intero di tempo per andare da lei.

Scende verso il chiosco sulla spiaggia. Un patio di legno lucido, ombrelli di paglia; ma il mare dove è; Jonny fissa un punto indefinito e non sa.

Antonio saluta come si fa con gli sconosciuti, che non sai ancora se consumeranno qualcosa o se soltanto chiederanno le chiavi del bagno. Sembra diventato suo padre. O forse questo è suo padre; rimasto identico da trent’anni: stesse braccia ossute, stessi baffetti bianchi; secco come un tronco spiaggiato. A Jonny comincia a girare un po’ la testa: E non è la Coca Cola.

Non parla, non chiede, non dice. Nessuno lo riconosce. Forse dovrebbe presentarsi: sono il figlio di Pietro, nome di battaglia Walter; oppure sono Jonny di Margherita, la farmacista. Chi se li ricorda i suoi ormai… forse nessuno saprebbe identificarlo nemmeno come Giovanni Rossi, il compagno, il brigatista, il dissociato, il detenuto.

In fondo al molo riconosce i pescatori, quelli del paese. Pochi a dire il vero, che è già tardi per stare sulle barche se non c’è da prendere il largo. Uno, il più vecchio, in disparte a pulire le paranze.

È Giovanni, l’uomo cui Jonny deve il nome. Comandante di brigata, segretario di sezione, coordinatore del sindacato. Una volta pescatore; adesso solo addetto alle reti, a quanto pare. Le mani nodose che conoscono la trama anche senza guardare, lo sguardo che sa, anche sotto le palpebre afflosciate. Giovanni fa un piccolo cenno con la testa: Jonny capisce che l’ha riconosciuto.

“Sei andato a trovare tua madre?”

“Vado ora”.

“Vengo con te”.

Insieme si incamminano lungo il carrugio con lo stessa andatura stanca anche se tra loro ci sono almeno trenta anni di passi.

Salgono lungo il sentiero stretto che corre a mezza costa tra ginestre e agavi. È poco frequentato, perché non porta da nessuna parte: si avvia verso la spiaggia senza raggiungerla mai, ché una roccia a strapiombo, improvvisamente, impedisce di continuare il cammino verso il mare.

“L’hai trovata laggiù, vero?”

“Sì, era là, cullata dalla risacca. Si notava perché una scia lunghissima l’accompagnava fino a riva”.

“Una scia?”

“Erano papaveri; petali stropicciati, bagnati, accartocciati. Erano mille papaveri rossi che galleggiavano intorno a lei”.

“Quante volte mi sono chiesto perché l’ha fatto… Lei non sapeva niente di me. Mi mettevo a rischio per farle avere notizie da Genova, come fossi studente regolare; lei non poteva avere sospetto a quel tempo”.

“Alle madri non serve avere sospetto. Le madri sanno”.

“Lei non poteva sapere, nessuno sapeva: era l’inizio del ‘76 ero in clandestinità da tre mesi, e nessuno sapeva”.

“In ogni segreto c’è sempre un nessuno di troppo. Dovresti averlo imparato, nella tua guerra di tutti questi anni”.

I miei occhi abituati al neon della cella non reggono la luce del mare, il colore dei papaveri, il corpo di mia madre cullato dalla risacca. Un groppo in gola. Nelle orecchie continua a martellarmi la parola “guerra”.

Per tanto tempo la parola è stata “lotta”. Era un’idea potente: sembrava un sogno da fare tutti insieme. Non è forse questa la rivoluzione, sognare tutti insieme? Lo aveva sentito dire Jonny, lo aveva creduto; poi si era svegliato di soprassalto, e non aveva dormito più.

Giovanni, notoriamente duro d’orecchio, aveva ascoltato in silenzio quei pensieri, continuando a non capire, come 30 anni prima. Ma ormai è troppo tardi, è ora di raggiungere Margherita in cima alla salita del camposanto.

Da sotto, le tombe sembrano vele pronte per la regata. Guardano ogni sera il sole che si butta in mare. Margherita è un po’ riparata, per fortuna, ché a lei il vento carico di salmastro ha sempre dato fastidio e ora le tocca beccarsi anche il libeccio, quando tira forte.

Jonny si guarda intorno. Solo morti, e tutti sembrano morti suoi. Lo sguardo di Giovanni è muto; e non è solo colpa della cataratta.

“E’ stata colpa mia”.

“No. Tu avrai altre responsabilità, ma questa non te la pigliare; lei voleva tornare indietro, ai tempi in cui si lottava per la libertà. Non si rassegnava all’ingiustizia: tua madre era una combattente”.

A Jonny manca la memoria. L’immaginazione fatica a comporre quella figura ritagliata da chissà quale album. Improvvisamente sembra non ci siano più ricordi, né passi da fare insieme.

Giovanni non ha più voglia di parlare.

Non racconta la storia delle armi che lui e Walter avevano nascosto dopo la liberazione nella galleria ferroviaria in ingresso a Lentisco. Non racconta che la linea, dismessa a favore di un doppio binario più a monte, negli anni ‘70 è stata bonificata. Non rivela che le armi non sono state mai ritrovate dietro quell’anfratto vuoto.

Jonny ha attraversato proprio quel tunnel illuminato dai colori del mare tre ore fa e solo ora ricorda come era prima: buio umido e puzzolente. Proprio come la cassa nascosta dietro la parete di sassi e muschio, marcia e pesante di ferri vecchi, caricatori corrosi dalla ruggine, canne otturate. Non chiede dettagli; potrebbe venire a sapere che sua madre si è lasciata cadere da punta piatta proprio un mese dopo il termine dei lavori in quella maledetta galleria.

“Non eravamo certi che tutto fosse finito, dopo quel 25 aprile. Era un tempo strano, non ci fidavamo di nessuno”. Giovanni controlla i passi, per non mettere il piede in fallo tra i sassi e le erbacce. “Era un segreto. Nessuno sapeva, tranne noi tre”.

Il fischio di un intercity, da lontano, si mangia le ultime parole del vecchio.

Sui poggi lungo il sentiero del cimitero nemmeno un papavero; solo sterpaglie bruciate dal vento salato del mare.

Foto di MasterTux da Pixabay

Siamo con voi

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le 22/03/2023 Action et convoi des agriculteurs devant la DDTM de La Rochelle / JA17 , FNSEA 17 et Aquenide 17

di Youth for Climate, France Nature Environnement, Extinction Rebellion, Soulèvements de la Terre

Ci rivolgiamo a tutti gli agricoltori e a tutte le agricoltrici che hanno manifestato la loro rabbia negli ultimi giorni, ma anche e a tutti quelli che ancora esitano a unirsi a loro. Noi, organizzazioni ecologiste, contadine e militanti che da decenni ci battiamo per un diverso modello di agricoltura, condividiamo questa rabbia e rifiutiamo il discorso dominante che vorrebbe fare di noi dei nemici.

Siamo arrabbiati perché sappiamo che la distruzione delle condizioni di vita degli agricoltori/trici e la distruzione degli ecosistemi vanno a beneficio delle stesse persone, che non sono né voi né noi.

Fin dagli inizi dei movimenti ambientalisti, ci siamo sempre mobilitati con determinazione sulla questione del modello agricolo e delle condizioni di lavoro e di vita degli agricoltori. Perché sappiamo che l’agricoltura ha un impatto enorme sull’ambiente: la qualità della terra, dell’aria, dell’acqua, di ciò che mangiamo e, naturalmente del clima, dipendono da ciò che coltiviamo e alleviamo e da come lo facciamo.

Abbiamo lottato contro gli accordi di libero scambio, per la sovranità alimentare e affinché ogni Paese – e ogni agricoltore – possa vivere della propria pratica agricola e mantenerla in vita, invece che sottometterla alla concorrenza internazionale. Abbiamo manifestato a fianco degli agricoltori contro la svendita del mondo agricolo alla finanza, contro il Tafta (con gli Stati Uniti), il Ceta (con il Canada), il Mercosur (con l’America Latina) e ora i trattati di libero scambio con la Nuova Zelanda, il Cile e il Kenya sostenuti da Emmanuel Macron.

 

Il principio di una previdenza sociale del comparto alimentare

Come consumatori e come attivisti, abbiamo sostenuto l’agricoltura contadina, abbiamo creato e promosso le Amap, i canali di distribuzione corti e l’agricoltura biologica, e ci siamo impegnati fino a mettere i nostri risparmi al servizio di nuove aziende. Da tempo chiediamo che in Francia ci sia almeno un milione di agricoltori, e sappiamo quanto sia urgente trovare dei rimpiazzanti, perché tra meno di dieci anni la metà degli agricoltori del Paese andrà in pensione. E anche se questo non basta, migliaia di attivisti ambientali hanno già intrapreso la strada dell’agricoltura per dedicarcisi nel concreto.

È per questo che molti di noi difendono oggi il principio di una previdenza sociale del comparto alimentare, un sistema di solidarietà tra consumatori e produttori che permetta a questi ultimi di vivere dignitosamente del proprio lavoro e di riprendere il controllo sulla nostra alimentazione.

Anche nel campo dell’agricoltura, come in altri, siamo ben consapevoli di tutta l’ambiguità delle normative. Esse possono certo tutelare la salute dei lavoratori, la fertilità della terra, le risorse idriche… ma con finalità lodevoli, a volte impongono vincoli tecnici e pratici e rendono asettica la professione, al punto da portare alla scomparsa delle piccole aziende agricole a vantaggio di chi può raggiungere una dimensione ancora più industriale e indebitarsi ulteriormente. Le normative ambientali non devono essere attaccate indiscriminatamente, ma queste devono piuttosto essere sostenute finanziariamente, in modo da mantenere i redditi e rendere la loro applicazione compatibile con le pratiche agricole.

È per questo che molti di noi hanno sostenuto e proposto senza successo una PAC diversa, che aiuti davvero gli agricoltori alla riconversione, e per non lasciarvi soli a affrontare restrizioni ambientali imposte senza alcuna contropartita e che possano essere applicati in modo pratico ed equo.

Anche – e si potrebbe dire soprattutto – quando ci battiamo contro questo o quel progetto agrario, contro dei megainvasi o degli allevamenti industriali di proporzioni assurde, lo facciamo sistematicamente con gli agricoltori e per gli agricoltori. Perché è ingiusto e ipocrita che pochi agricoltori monopolizzino l’acqua a scapito di chi cerca di produrre diversamente. Perché le fattorie industriali contro le quali ci battiamo distruggono posti di lavoro nel mondo contadino ed esercitano una pressione sleale sui piccoli allevatori, che sono costretti a conformarsi o a chiudere bottega. E tutto questo va a vantaggio dei grandi gruppi, che li spingono verso allevamenti sempre più grandi, per poi acquistare i loro prodotti a prezzi irrisori: questa è la strategia del gruppo Duc, ad esempio, come ha rivelato un’inchiesta.

 

Il fallimento e il dramma di un modello produttivo

Fermare questi progetti significa difendere un modello agricolo che salvaguarda gli organismi viventi, ma soprattutto permette al resto del mondo agricolo di vivere dignitosamente di un lavoro di qualità.

Perché chi c’è dietro il calo del numero di agricoltori/trici in Francia, sceso a meno di 500.000? Chi c’è dietro i suicidi di ogni giorno degli agricoltori, delle montagne di debiti? Dietro agli obblighi di rese sempre più elevate, alla concentrazione sempre più spinta delle terre nelle mani di pochi, ai prezzi sempre più bassi per ciò che producete? Solo nell’ultimo anno i prezzi agricoli sono scesi in media del 10%, mentre l’inflazione si è impennata, così come i profitti dei grandi gruppi agroindustriali e della grande distribuzione.

Questo fallimento e questo dramma sono il frutto di un modello produttivista, sostenuto dalla grande distribuzione e dai governi che si sono succeduti da decenni, contro il quale abbiamo ci battiamo da molto tempo.

Il modello agricolo che sosteniamo mina per l’appunto le cause di queste tragedie. Ma combatte anche contro l’autoritarismo che viene proposto come soluzione, quando l’estrema destra, escludendo invece di unire, non è mai stata dalla parte dei lavoratori.

Siamo da sempre gli alleati dei contadini. E contrariamente a quello che sostengono la propaganda governativa e i discorsi autoritari che fomentano l’odio tra noi, con il fine di arricchirsi sulle spalle delle nostre vite, continueremo a essere vostri alleati, perché è una questione di sopravvivenza.

È quindi in quanto alleati che vi chiediamo di unirvi a noi nelle azioni dei prossimi giorni: per portare questo messaggio e difendere il mondo agricolo.

Saremo presenti con una serie di presidi per parlare con tutti gli agricoltori che lo vorranno, e assieme a voi fare presente che i veri colpevoli della crisi in cui versa la professione non sono né i consumatori né gli ambientalisti, ma la vigliaccheria dei governi che si sono succeduti, della grande distribuzione e dell’agroindustria, che si ingrassano mentre molti di voi si uccidono di lavoro.

Ci rifiutiamo di lasciare che gli industriali possessori di migliaia di ettari di campagna, il governo o gli editorialisti della televisione CNews, ben al calduccio nei loro uffici parigini, ci trattino come la causa della crisi che il mondo agricolo sta soffrendo da tanto tempo.

Noi vogliamo costruire insieme un modello che sia vantaggioso per gli agricoltori, i consumatori e alla vita biologica, come avrebbe dovuto essere da sempre. E saremo in piazza insieme per discuterne e manifestare, perché sì, è possibile battersi per l’ambiente e al contempo per l’agricoltura del futuro.

 

Primi firmatari: Alix Brun per Youth for Climate, Jean-François Deleume, portavoce di Alerte des médecins sur les pesticides, Cyril Dion, regista e scrittore, Simon Duteil e Murielle Guilbert, co-portavoce di Union syndicale Solidaires, Khaled Gaiji, presidente di Friends of the Earth, Antoine Gatet, presidente di France Nature Environnement, Hanzo per Extinction Rebellion, Axel Lopez per la coalizione Résistance aux fermes-usines, Gilbert Mitterrand, presidente della Fondation Danielle-Mitterrand, Lotta Nouki, portavoce di Soulèvements de la Terre, Sandy Olivar Calvo, responsabile della campagna Agricoltura e alimentazione di Greenpeace France, Alessandro Pignocchi, autore di fumetti, Priscille de Poncins, segretaria di Chrétiens unis pour la Terre, Jérémie Suissa, delegata generale di Notre affaire à tous, Emma Tosini, portavoce di Alternatiba, Victor Vauquois, co-coordinatore di Terres de luttes…

(tradotto da DeepL.com e Giacomo Sartori)

 

NdR: questo appello collettivo di importanti organizzazioni e associazioni è apparso sul quotidiano Libération del 27 gennaio. Ci sembra fondamentale, mentre i movimenti degli agricoltori si espandono in molti Paesi europei, dare voce a chi si batte contro una contrapposizione – che giova solo a chi vuole che nulla cambi in agricoltura, e alle destre estreme, retive anche in campo ambientale – tra rivendicazioni del mondo agricole, più che motivate, e chi milita per una transizione agroecologica

(l’immagine è tratta da un filmato di Sud Ouest: 22/03/2023 a La Rochelle)

Les nouveaux réalistes: Pierangelo Consoli

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Il giorno dei morti

di

 Pierangelo Consoli

Il giorno dei morti accompagnavo Alberta al Duomo di San Lorenzo. Per tutta la passeggiata, lungo le strade del centro storico, si teneva aggrappata a me, affondandomi le unghie nel braccio ogni volta che passava una macchina. Camminava quasi con gli occhi chiusi, sforzandosi di non obbedire a qualche fissazione delle sue che ci avrebbe ulteriormente rallentato perché Alberta non sapeva guidare e aveva – tra le altre cose – la malattia del contare. Quando stavamo nel tram, o sul treno, avevo notato che osservava il paesaggio sussurrando la conta a stento trattenuta. Era un verso il suo, come di un pallone che si sgonfia. Non lo avrebbe mai ammesso perché si vergognava ma contava gli alberi, le pietre miliari o le case nei campi. Qualche volta l’avevo persino sorpresa nel tentativo, vano, di evitarlo. Cercava di concentrarsi sulle sue scarpe, sul colore delle unghie o fissando un disegno, una cucitura sulla gonna, ma si vedeva che le costava una fatica insopportabile e, per questo, cedeva, con un senso di vergogna che le arrossava il volto e così ricominciava a contare sperando che nessuno se ne accorgesse.

Un’altra delle sue ossessioni si manifestava lungo i marciapiedi perché non metteva mai i piedi a casaccio e, per tutto il corso di San Lorenzo lastricato di sampietrini sfortunatamente bianchi e neri, se il sinistro di Alberta ne calpestava uno bianco, il destro doveva toccarne  uno nero. Se cominciava con la punta, la marcia doveva necessariamente continuare con il tacco. Era talmente estenuante per lei camminare, che preferiva non uscire affatto. La città la sfiancava perché, inoltre, era ansiosa e disorientata e il contatto con le persone la tramortiva. Stringeva i pugni ogni volta che qualcuno le rivolgeva la parola e sembrava sempre sul punto di mettersi a correre, con le braccia al cielo, se era costretta a stare in fila alle poste o al supermercato e, perciò, si era ritirata. Mi utilizzava, Alberta, per le più disparate faccende come fare la spesa o l’ufficio postale. Ero talmente piccolo che non arrivavo al banco, eppure ero in grado di pagare le bollette della luce e ordinare un chilo di macinato al macellaio sulla salita. Andavo sempre negli stessi posti e mi conoscevano, mi salutavano come una piccola attrazione, io così grazioso, con i capelli a scodella e l’espressione compita, con in mano una bolletta, un foglio scritto, mentre tiravo fuori a fatica i soldi dalla taschina dei pantaloni. Per questo, quando mia madre divenne Alberta, tramutandosi in qualcosa di più collettivo, io non soffrii tanti cambiamenti, almeno per quello che riguardava la gestione delle faccende, perché erano già molti anni che me ne occupavo. Usciva pochissimo, come ho detto, eppure il giorno dei morti restava, nel suo calendario, un rito al quale non poteva rinunciare.

Sugli scalini antistanti il cortile del Duomo, mentre incedeva ossessiva con il piede sinistro avanti al destro, notavo come si mordeva le labbra per la disperazione. Più grande, quando ormai capivo le sfumature del suo disagio, trafitto dalla compassione le accarezzavo la spalla fingendo di non accorgermi di nulla. Dentro la chiesa però, Alberta, si sentiva subito rinfrancata e serena al punto da lasciarmi andare. In quel giorno di commemorazione capivo che se Alberta, mia madre, avesse potuto, sarebbe rimasta lì, mi avrebbe guardato con gli stessi occhi pieni d’amore e di comprensione con cui aveva respinto l’ammiraglio, suo marito, sulla soglia dello studio e mi avrebbe detto: ti voglio bene Arturo, ma adesso devi andare via.

Franavo, ogni volta, sopra una delle panche in fondo alla navata, frustrato dall’estenuante attesa che si consumasse quel noioso rituale che ero costretto a sopportare fin da quando avevo dieci anni, durante il quale Alberta s’inginocchiava a pregare davanti a tutte le statue dei santi. Sapevo che non sarebbero mai sparite, ma lo avevo sperato, avevo pregato, avevo promesso, mi ero svenduto pur di assistere a quel miracolo che, però, non si era avverato. Io confidavo, con tutte le forze, che un giorno Alberta si convertisse ad un ortodosso monoteismo dove un Dio davvero unico, un dittatore dei cieli, non avrebbe avuto bisogno di tutta quella pletora di subordinati. Se così fosse stato, Alberta avrebbe avuto una sola statua da pregare e in meno di un’ora ce ne saremmo andati. Nel duomo di San Lorenzo invece ne comparivano almeno dieci, tra martiri e suore onorate della grazia di questo Dio insicuro, e Alberta di ognuno sapeva la storia. Alla fine penso che nemmeno pregasse, che non si sdilinquisse in comuni litanie ma che ci parlasse, che a ognuno confidasse le stesse paure, la stessa colpa che immaginava di portare e che ci avrebbe distrutto come famiglia e come esseri umani.

A uno sguardo meno attento sembrava una devota come tante, inginocchiata e raccolta in un silenzio usuale, ma io scorgevo la sua bocca che tremava, che sorrideva talvolta o che s’imbronciava, la testa che oscillava nell’asserzione e nella negazione e non sapevo se essere preoccupato, divertito o costernato. Quando si alzava dall’ultimo dei santi, la vedevo dirigersi verso la vergine dei sette pugnali. Si trattava di una singolare statua della Madonna con il velo nero, il cui costato era trafitto dai sette peccati capitali e ai cui piedi stava il Cristo morto con le ferite ancora tutte aperte. Alberta le era estremamente devota. Con questa statua non parlava, al pari delle altre, ma solo ascoltava. Abbassava il capo e taceva. Restava così per dieci o venti minuti durante i quali il suo volto assumeva diverse forme: le guance si scavavano, le labbra scomparivano, gli zigomi sporgevano acuti e la fronte si copriva di rughe. Piccole gocce di sudore freddo e denso le scendevano come lacrime fino al mento. Viveva, Alberta, la sua fede verso questa Madonna con grande trasporto fisico e, alla fine della seduta, era sempre talmente stanca che quasi la dovevo trascinare. Invecchiava di colpo il giorno dei morti come se la Vergine dei sette pugnali, ogni anno, le facesse terribili confidenze che Alberta doveva tenere per sé. Lei si confessava senza prete, alla maniera dei protestanti, ma da queste lunghe ammissioni di colpa non ne non usciva mai alleggerita e mai perdonata. Soffriva ancora e tanto mentre tornava a casa e, dentro il tram, gemeva in preda alla febbre. Superata la soglia della villa, dove si rinchiudeva nello studio, non usciva fino al giorno successivo. Digiunava spesso Alberta, per purificarsi, per punirsi, per non dimenticare. Beveva solo acqua di rubinetto, molta. Si era dimagrata e sotto i polsi esilissimi le spuntarono vene viola e verdi, gonfie e sporgenti.

 

 

Todesfuge

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Fuga di morte

Nero latte dell’alba noi lo beviamo la sera
lo beviamo a mezzogiorno e al mattino lo beviamo la notte
noi beviamo e beviamo
scaviamo una fossa nell’aria là non si sta stretti
Nella casa abita un uomo e gioca con i serpenti e scrive
scrive in Germania quando vien buio i tuoi capelli d’oro Margarete
scrive ed esce davanti a casa e lampeggiano le stelle
chiama con un fischio i suoi segugi
fa uscire con un fischio i suoi ebrei fa scavare una fossa nella terra
ci ordina ora suonate alla danza

Nero latte dell’alba noi ti beviamo la notte
ti beviamo al mattino e a mezzogiorno ti beviamo la sera
noi beviamo e beviamo
Nella casa abita un uomo e gioca con i serpenti e scrive
scrive in Germania quando vien buio i tuoi capelli d’oro Margarete
i tuoi capelli di cenere Sulamith scaviamo una fossa nell’aria là non si sta stretti

Lui grida infilzate più a fondo la terra voialtri e voi cantate e suonate
prende il ferro nella cintura lo brandisce azzurri sono i suoi occhi
infilzate più a fondo le vanghe voialtri e voi continuate a suonare alla danza

Nero latte dell’alba noi ti beviamo la notte
ti beviamo a mezzogiorno e al mattino ti beviamo la sera
noi beviamo e beviamo
nella casa abita un uomo i tuoi capelli d’oro Margarete
i tuoi capelli di cenere Sulamith e gioca con i serpenti

Lui grida suonate più dolce la morte la morte è maestra in Germania
lui grida traete un suono più cupo ai violini salite come fumo nell’aria
poi avrete una fossa nelle nuvole là non si sta stretti

Nero latte dell’alba noi ti beviamo la notte
ti beviamo a mezzogiorno la morte è maestra in Germania
ti beviamo la sera e al mattino beviamo e beviamo
la morte è maestra in Germania azzurri sono i suoi occhi
ti colpisce con palla di piombo ti colpisce preciso
nella casa abita un uomo i tuoi capelli d’oro Margarete
ci aizza contro i segugi ci regala una fossa nell’aria
e gioca con i serpenti e sogna la morte è maestra in Germania

i tuoi capelli d’oro Margarete
i tuoi capelli di cenere Sulamith

(traduzione di Anna Ruchat)

Tre letture per il Giorno della memoria (e non solo)

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Ho letto questi libri in tre fasi della mia vita, e mi hanno aiutato molto. Se ho dentro di me una qualche barriera mentale solida, un qualche argine psicologico all’antisemitismo e al razzismo, lo devo anche a loro.

*

Georg L. Mosse, Il razzismo in Europa. Dalle origini all’Olocausto (Laterza) è un classico. Il razzismo e l’antisemitismo hanno radici culturali che affiorano dai più insospettabili dei terreni. È un libro di storia di una mentalità, e individua e illustra molti alberi genealogici dell’antisemitismo. Non solo da Gobineau a Wagner ai nazisti. Ma anche a sinistra. Illuminanti (purtroppo) le pagine su Proudhon.

[Lo lessi a 17 anni, in terza liceo. Decisi di scrivere una tesina di maturità sull’antisemitismo. La professoressa della commissione d’esame dapprima mise in dubbio che la tesina fosse farina del mio sacco, poi mi diede un cattivo voto perché non la seguivo nella sua impostazione, ossia che la causa dell’aggressione e dell’odio nazisti fosse la “ricchezza” degli ebrei. Ne uscii con le ossa rotte].

*

Hans Jonas, Memorie (il melangolo): questa autobiografia del filosofo tedesco fu raccolta da Rachel Salamander nel 2004, e pubblicata in Italia nel 2008. Hans Jonas, giovane dotto, allievo di Heidegger e Jaspers, compagno di studi di Hanna Arendt, compie il proprio lungo viaggio nella fine di un mondo. L’avvento nazista. Lo sterminio della sua famiglia. Sopravvissuto a tutto questo, Jonas ci spiegherà che dobbiamo darci un’etica biologica, ci insegnerà il Principio di Responsabilità verso il mondo in cui viviamo, che ci contiene e nutre. Ci insegnerà la cultura del rispetto per la vita; non dell’odio o della vendetta. Eppure aveva tutti i diritti all’odio e alla vendetta. L’intera esistenza di Hans Jonas, per me, è un atto di eroismo.

[Letto a 35 anni, alcune pagine piangendo: la morte della madre ad Auschwitz, il ritorno in Germania a casa, solo per trovarla espropriata da nuovi inquilini tedeschi “beneficati” dal regime nazista. È uno di quei volumi che stanno “a parte” sullo scaffale. Sempre a portata di mano e di sguardo].

*

Daniel Vogelmann, Piccola autobiografia di mio padre (Giuntina). L’autore, il figlio, assume la voce del padre e ne racconta la vita in prima persona. Inizia così (e non ditemi che non è bello): “Sono nato su un treno mentre la città bruciava”. Schulim nasce tra le fiamme. In seguito sarà tipografo a Firenze. Deportato ad Auschwitz, si salva. Era nella lista di Schindler. Il figlio Daniel, fondatore della casa editrice Giuntina, ne recupera la vita per raccontarla alle “nipotine” (e poi a tutti noi).

[L’ho trovato pochi anni fa nello stand Giuntina a Più libri più liberi. Ed eccolo a casa con me. Sono molto affezionato a questa casa editrice, sin dagli anni del liceo (vedi sopra), e nella Fiera romana vado sempre a curiosare tra i loro volumi].

L’infinita

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di Emanuele Muscolino

Ti ricordi quando affiorarono le prime rughe? Gli anni del ciclo originario, la nostra gioventù. Era un monito a farci da parte, a comprare una casa, a pensare ai figli. Fui io a dire di no, innamorato com’ero della scienza e della nostra età.

Non fu solo per questo che ti trascinai nella ricerca con Rutger: da capo progetto dovevo espormi in prima persona e tu ti affidasti senza chiedere, con la promessa che avremmo vissuto altre vite, che sarebbe stato ancora tutto possibile. Il rigeneramento ci diede una seconda opportunità, ma non ti rese di nuovo fertile.

Chang Tyler ha detto che il mio corpo non è pronto, stavolta, mentre per te non si poteva rimandare e allora le ho detto di procedere, che a me avrebbero provveduto poi. Lei stima tra i quindici e i sedici mesi. Mi sembra un tempo infinito.

Mi piaceva il tuo addome franare tra le antiche anche. Ci avevo fatto l’abitudine, di nuovo. Mi ero innamorato dell’odore aspro della tua bocca, della peluria che ti copriva le gote, dei tuoi capelli grigi, dei tuoi piedi ossuti, seppure non eri come la prima, né come la seconda: genotipi identici, fenotipi  difformi. La natura non replica, nuovi schemi emergono dal caos e ci disorientano. Ho conosciuto almeno tre Rachael  diverse − sguardi, voci, pensieri − a cui ho dato lo stesso nome. Così hai fatto anche tu. Ci siamo battezzati ogni volta, cercandoci oltre le ceneri.

Cosa ci ha tenuto insieme? Dopo il primo rigeneramento ci trattarono da reietti. Un giornalista ci chiamò «la storia che non vuole tramontare». A noi, che una vita l’avevamo già vissuta «in un tempo sbagliato» come dicevano loro, il resto del mondo sembrava così immaturo.

Ora che non ti sono accanto, nel cruciale letargo orchestrato da filamenti di RNA, sono solo a scontrarmi con le mie paure da vecchio. Una parte di me vuole andare a occupare il suo posto, secondo natura. E mentre ti vedo ringiovanire nella camera ultrabarica e il nodulo sulla faringe si riassorbe con rapidità insospettabile, quella voce rimbomba: tutto questo è sbagliato.

Ci riconosceremo ancora? Attendo con ansia e orrore domani l’altro, quando i tuoi occhi si apriranno e ci saluteremo: David Betson Mae, Rachael Danzàli Picket.

*

Così sei di nuovo viva. Mi guardo allo specchio, cercando di indovinare chi sono. Per l’emicrania Chang Tyler mi ha dato radici da masticare. Se n’è andata in due giorni. La cosa più sorprendente è stata il tumore, che si era mangiato le corde vocali: è scomparso anche quello e mi è venuta una voce da bambina, un suono a cui dovrò abituarmi.

Sento freddo alle ossa, mi copro di tessuti pesanti, le vecchie lane di mia madre, mentre David se ne sta in maniche di camicia fino a sera. Ha smesso di studiare, mi sembra: passa le giornate a camminare con Van Gogh per le colline della tenuta. Hanno il passo appesantito entrambi, eppure ha detto che non lo sottoporrà a rigeneramento. Con i cani non l’ha mai fatto, non li ha mai considerati degni. Con lui, secondo me, non lo fa perché non sopporta l’idea di abbandonarlo prima del tempo, né la paura di ritrovarlo cambiato. Ci è entrato in simbiosi. Poi se ne va al laboratorio, per abitudine − ormai è tutto in mano a Chang Tyler − e mi sintetizza sogni lucidi nella testa. I suoi suoni, i suoi colori. Troppe memorie. Un modo per starmi vicino, senza il rischio di dovermi toccare.

Facciamo fatica, con David. Mi sforzo di ricucire i fili che ci legano, mentre vago alla ricerca di me stessa. Ma i giorni passano e non riesco a vivere nel ricordo, o nell’attesa. Mi ha detto che gradirebbero averci per qualche tempo sulla Luna: Xin Chengdu, Davappuzzha, le città solari delle società senza bandiera, costruite dalle intelligenze ibride. Mi ha detto  vieni con me nel Rinascimento, andiamo a incontrare la Ex-Gen, i nati lassù. Pensa che mi sentirei meno sola. Che ci sentiremmo meno soli. Ha paura di me. Gli ho detto portami al fiume.

Lunedì ha fatto preparare la quattroruote del nostro primo bacio e ha guidato fino  alla riva.  Il sole bruciava, così mi sono spogliata e mi sono tuffata. David mi ha urlato dove vai, ridendo. Gli ho detto vieni. Aveva freddo. L’ho convinto a entrare in acqua, l’ho stretto tra le braccia e ho schiacciato il mio ventre contro quello avvizzito di lui, spingendogli le labbra sulle rughe del collo. Ho preso il suo odore come un ricordo, ricamandogli «sono io» nell’orecchio. Lui non mi ha sentita, non mi ha creduto. L’ho portato ad asciugarsi. Si è irrigidito. Ha detto che era per il freddo, e per Van Gogh che si mordeva il sedere.

David dice che si tratta solo di tempo: le sue cellule non sono abbastanza usurate per essere sottoposte a rigeneramento. Li avevo visti gli esperimenti sugli under 70: corpi portati a una fase di pre-sviluppo, scheletri adulti con organi bambini, muscoli che saltavano tendendosi su ossa troppo lunghe. I pazienti rimanevano allettati, immobili, imbottiti di antidolorifici, implorando per una soluzione che non c’era. Alla fine accettavano l’iniezione.

David ne uscì pulito, ma per superare il trauma impiegò anni. Si rimise a studiare con Rutger Kampf, il suo studente  brillante, e dopo quarant’anni di esperimenti e ricerche si propose come cavia. Lo seguii senza titubare. Non c’era altra via: se doveva morire, sarei morta con lui. Non morimmo, se così si può dire. Ma poche settimane dopo il nostro risveglio scoppiò la guerra, il progetto non fu rifinanziato e noi rimanemmo gli unici rigenerati sul pianeta.

Alla solitudine si accompagnò l’amarezza per la mia sterilità. Adottammo Marco, Karim e Hashim, tre orfani arrivati al centro profughi dove prestavo servizio. Vissero le loro vite, fino in fondo, ma i loro DNA non erano adatti al rigeneramento. Un curioso scherzo del destino. Decisi che non l’avrei fatto neanche io, quando sarebbe arrivata l’ora. David, invece, illuminato, o egoista, andò dritto per la sua strada, e dopo mesi di lotte e di lacrime, ancora una volta, mi convinse a seguirlo. Li seppellimmo all’inizio del nostro terzo ciclo. Per l’anagrafe potevamo essere i loro bisnonni; a vederci in faccia sembravamo i loro nipoti.

Mentre guardo David prendersi cura di Van Gogh, portarlo a spasso, lavarlo, mi sembra di vederlo affondare, lui che non si è mai fermato. Sembra si sia deciso a rimanermi accanto come un fantasma, per tutti i mesi che ci separano dalla sua terza rinascita. E nel frattempo, con occhi accomodanti, a volte odiosi, commiserabili,  ripete che non è colpa mia.

*

«La tua preoccupazione è comprensibile, David, ma, lasciami dire, transitoria. Ti trovi in un periodo depressivo, legato alla senilità; vedi l’orizzonte rimpicciolirsi e questo non ti aiuta a mantenere una visione globale. Tra un anno la penserai diversamente».

«Hai ragione, Chang. Come arrivarci, però, a quel momento?»

«Il tuo corpo si avvicina alla scadenza genetica e nutre la tua mente di fastidio, inadeguatezza, dolore. È l’uno che guida l’altra,  e non viceversa. Accettalo e siine consapevole».

«Non sono più sicuro che siano due cose separate,  la mia mente e il mio corpo. Come è offuscata la prima, così è stordito il secondo. Non ho più voglia di cambiare, Chang».

«Posso comprenderlo, pur non possedendo, di fatto, né l’una né l’altro. Ma ti invito a riflettere sul paradosso che hai espresso: l’idea di abbandonarti alla caducità del corpo è emersa solo grazie al suo superamento, che hai operato  molti anni or sono. Mi dispiace non poter esserti più d’aiuto, David, ma la scelta, come sai, spetta  solo a te».

*

Ho ragionato a lungo sulle parole di Chang, ma non sono riuscito a trarne nutrimento. Il mio corpo mi sta trascinando in acque senza corrente, dove né io né il gene che mi abita abbiamo un futuro, proprio come Van Gogh, il mio nuovo maestro, che all’ombra del suo pelo comprende il mondo meglio di me.

Se il mio corpo fosse stato pronto, prima che il tumore di Rachael esplodesse, mi sarei sottoposto al rigeneramento assieme a lei, e oggi sarei ancora florido, curioso di scoprire la donna che ho accanto, e la vita di prima, o una nuova, avrebbe continuato a scorrere. Invece non riesco a capacitarmi che il tempo, che ho sempre governato, mi stia giocando questo scherzo. Forse, quando sarà il momento, dirò a Chang di lanciare un dado e di decidere per me: che il caos faccia ancora la sua parte.

*

Ho conosciuto Jarom. Viene a correre  tutti i giorni nel parco della tenuta. Si ferma  nell’area attrezzi, dove non va più nessuno, e si allena per un’ora. Mi sono messa a guardarlo e i suoi occhi mi hanno rivolto la parola. Ho risposto con quella voce da bambina che non riesco ad accettare. Sembra essergli piaciuta.

Frequentare Jarom potrebbe essere una via, da qui al rigeneramento di David. Lui non ne risentirebbe: da giorni ha smesso di chiedermi cosa faccio e non parliamo più del tempo che manca, né di quello che ci separa. Ma lo supereremo, come abbiamo superato il resto.

Abbiamo scopato dietro i cespugli: odore di paprika e di rosmarino, Jarom. Ho cercato il fondo dei suoi occhi, senza trovarlo. Sono quelli del primo ciclo, di un vergine. Lo sospettavo.  Ci siamo visti tutti i giorni, dopo la corsa. L’ultima volta mi ha piantato le pupille addosso e mi ha detto che quando rimarrò incinta andrò a stare da lui. È stato bello sentirglielo dire. Non ha idea di chi io sia, della mia condizione, né dell’uomo a cui sono legata.

Immaginare la vita senza David era impossibile, ma ora appartengo all’odore di Jarom, alle sue gambe forti, al profumo immacolato del suo petto. La vecchia me nutre la nuova dei suoi resti, mentre scompare in tracce sbiadite, che solo di rado chiedono giustizia. Sogno ancora di Karim, di Marco, di Hashim, e del vecchio David, cercando di dimenticarli.

Ho avuto nausee e giramenti di testa negli ultimi giorni; pensavo fossero legati a un rigetto del condizionamento. Era prevedibile : alla fine del terzo ciclo, seppur malato, il mio corpo era  ancora giovane. Chang Tyler invece ha detto che è tutto a posto. E che sono incinta, di una bambina. Non se ne capacitava. Ha detto che la peculiarità di noi umani risiede nel paradosso. E che provava invidia. Di tutte le trasformazioni che il mio corpo ha subito, ho pensato, questa è stata di gran lunga la più inattesa.

Ho incontrato David per parlargli,  ma non ce n’è stato bisogno: sembrava già sapere.  Mi ha stretta, sciogliendosi in una fontana di lacrime, tutte quelle che non ha mai versato. Non penso fosse per il tradimento, né perché  stava perdendo un pezzo di sé. Piangeva perché la sua scienza aveva fallito. Il gene egoista aveva vinto ancora. Vedendolo così, nudo, ho pensato che avrei potuto amarlo,  che sarebbe stato ancora tutto possibile, che avremmo potuto essere una famiglia, e la bambina mia e di Jarom sarebbe potuta essere la nostra, e sarebbe cresciuta  sui clivi della tenuta, o nelle città solari lontano da qui, e  che ci saremmo rigenerati senza posa, come aveva sempre sognato, come una famiglia infinita. Ho preso le poche cose a cui tenevo e gli ho detto addio.

Ho raggiunto Jarom con uno zaino e una borsa. Abbiamo fatto l’amore sul lettino del suo monolocale, oltre la cinta magnetica della quinta conurbazione, in un dedalo di case sospese che non avevo mai visto. Mi ha preparato  un infuso di bacche rosse e mi ha dato  le sue maglie: avevano l’odore del resto della casa, il suo odore, quello che sarà di nostra figlia. Ho giurato a me stessa  che non mi rigenererò più, che lascerò questo mondo prima della creatura che porto in grembo, il frutto di due uomini molto diversi tra loro e di una donna che non ricorda quasi più nulla del suo lunghissimo passato.

Con sale di rabbia

3

 

«O la resurrezione delle stelle, o la morte universale!»

Auguste Blanqui,  L’eternità viene dagli astri

 

Parla l’Asino:

 

«Oggi che la pace è        grattata fino

al fondo,      celebro l’ora dei morti

che fecero la rivoluzione

mancandola.

 

Io non li capisco, non li capisco,

ma porto        anche il loro peso.

Porto il peso     di tutte le rivolte

e il duro castigo.

 

Quale battaglia assolve se stessa?

 

L’assalto    è senza glosse.

Svuota la cupola del cielo.

Per tutti spranga la quiete

con sale di rabbia.

 

Non esiste       indulgenza plenaria.

Chi ha torto    ha ragione  ha torto.

 

La via lattea dei ribellatori splende

per un attimo          e poi s’annera.

Allora li senti gridare:

 

“Come parleremo

dal buio didentro?

Chi    ci ascolterà?”

 

Ecco perché conservo le loro parole.

M’attacco all’impervio,         al secco,

all’osso che perfora il chiuso del mio

credo.

Fino al prossimo incontro.

 

Volpe: quando la campana del ghiaccio

scioglierà l’estremo rintocco,

e anche l’ultima

delle quindici candele

finirà per spegnersi,

oltre la notte

ci incontreremo,

vedrai:

oltre la lunga notte.»

 

 

***

 

Opera grafica di Giuditta Chiaraluce

La perfezione dell’acqua

0

di Barbara Guazzini

F. ha dei baffetti sparati sulle labbra secche per la tramontana di passeggiate uguali, fatte apposta per stancarla in vista della notte. Mentre ci parlo li osservo – prima non ce li aveva – e immagino di poterla far tornare quella di qualche anno fa con un passata di cera e uno strappo veloce.

Siamo io e lei, sedute sul divano di sala, fronte finestra; fuori c’è tanta luce bianca, forse troppa per gli occhi abituati all’inverno, infatti F. li protegge con la mano aperta.

«Come sta la tua mamma?» domanda.

«Tutto normale… Ha il solito problema alle ginocchia.»

«Eh sì, le ginocchia…» ripete lei, e sembra che stia mandando tutto a memoria.

Il frigo di F. ha la chiusura salvabimbo, anche se di bimbi in casa non ce ne sono più. Si alza incerta, prova ad aprirlo ‒ non so per fare cosa, visto che ormai ha perso ogni potere su cibo e fornelli ‒ non ci riesce, desiste, torna a sedersi accanto a me.

«Il lavoro? Non sei andata?» chiede.

«Oggi è natalino, ieri era il venticinque. Sei stata da tuo figlio Fabio, con Annina e gli altri.»

«Sì, diamine, ieri ero lì. Elena dov’è?»

«A Roma, da sua madre.»

«Sì, sì, è a Roma», e sbadiglia portando entrambe le mani al viso.

F. la notte non dorme. Nella stanza buia si mette seduta sulla poltrona reclinabile, accanto al letto, e aspetta quieta che diventi giorno. Altre volte va in bagno a pettinarsi, indossa una collana di perle di plastica, e con la matita nera disegna delle sopracciglia strambe sull’arcata ormai spelata; si prepara per uscire, anche se non sono nemmeno le tre, e fuori il sole “non è ancora tornato” ‒ così dice lei. La badante ha avuto l’idea di riprenderla nei suoi momenti di ribellione al sonno, e ci manda i video. La figura che si vede non è F., è un automa sperso che prova ad agganciare il tempo degli altri ma si inceppa a ogni passo. Ed è una tale violenza certificarne lo smarrimento che a Maria abbiamo detto Basta video, ti crediamo sulla parola, per favore. Di giorno, poi, se a F. domandi se ha dormito, lei risponde che ha fatto una tirata fino a mattino.

«Mamma tua?» chiede.

«Tutto a posto, ti saluta.»

«Lui dov’è?»

«Maurizio?»

«Lui» ripete. Sono mesi che ha smesso di pronunciare il nome di suo figlio, come se le rimanesse ogni volta intrappolato in punta di lingua. Io glielo ripeto tutte le volte che posso.

«Maurizio è ad accompagnare Maria a casa, oggi è il suo giorno libero. Torna presto.»

«Ah, quella che sta qui.» È così che chiama la badante ‒ Quella che sta qui ‒ e sembra accettarne la presenza nella sua casa senza volerne sapere il motivo, come se fosse una pianta o un soprammobile che si è trovata lì.

La smania di aggiustare la posizione seduta le è passata. Adesso è tranquilla, guarda il fuori, mi chiede dove sia andato il vento, ora che ha smesso di soffrire. Io sono tesa e cerco di riempire a parole ogni vuoto, le rispondo che il vento sta bene, che tornerà. Lei sembra convinta e tace quieta finché, dal nulla, inizia a raccontare di un maschietto che andava sul trattore quando lei abitava nelle campagne di Sovana e la mandavano a parare gli animali al pascolo, anche se era una bambina. Io annuisco spesso, lei sorride a ogni mio cenno del capo. Poi mi chiede della nipote: «Elena dov’è?», e del figlio: «Lui quando torna?», e io rispondo di nuovo, domando il tono della voce per fare finta che sia la prima volta che me lo chiede e la prima che io rispondo.

 

Appena arriva Maurizio, usciamo. F. ha le cerniere delle giacche che si rompono di continuo, e anche i bottoni saltano un po’ sì, un po’ no. Ogni volta che prova a chiudere la giacca e le dita incespicano, si mette a piangere, così ci affrettiamo a farlo prima di lei. Appena fuori, ci prende sotto braccio, inizia a camminare spedita e tocca frenarla, ché se ricade come l’anno scorso son dolori. L’anestesia instupidisce che è una bellezza, per riprendere il filo del discorso ha avuto bisogno di mesi e della badante h ventiquattro.

«Chi c’era ieri da Fabio?» le domanda Maurizio – lui è convinto che a farla ripensare alle cose, non le dimenticherà.

«E chi c’è andata? Era a lavoro!» risponde lei.

«Cosa dici, mamma? Ieri era Natale e tu eri da lui.»

«No che non c’ero. Ero qui, ho cotto la pasta con l’olio.» Certe volte, F., per non dover ammettere che non ricorda inventa fatti e situazioni, e le si storce l’umore se tu provi a scombinarle quel poco di passato che tesse a fatica. Maurizio fa per insistere ‒ crede che serva a qualcosa ‒ io gli lancio un’occhiataccia di sbieco per dire Ora basta.

«Ma era da lui» dice, col tono soffiato di chi vorrebbe reagire a un rimprovero che reputa ingiusto.

Lui parla di F. quando F. è presente, e io non so se lei lo capisce ‒ anzi: credo proprio di no ‒ ma a me dà lo stesso fastidio, allora mi volto dall’altra parte, così lui smette.

F. osserva le ringhiere e i cancelli che troviamo per strada. Sembra che li riconosca tutti, o per lo meno ha qualcosa da dire su ognuno.

«Questa ringhiera è nuova.»

«A te sembra sempre tutto nuovo, mamma» dice Maurizio, con un sorriso gonfio del bene che un figlio può. Io guardo la ringhiera sbollata e penso che, in fondo, deve essere bello vedere tutto nuovo, e anche brutto non affezionarsi più a niente.

D’un tratto F. si mette a ridere ‒ uno scoppio che non ci aspettiamo; si scioglie dalla nostra catena di braccia sotto le braccia, e indica col dito una stella un po’ sbilenca al centro di un filo della luminaria natalizia, che attraversa la strada da parte a parte.

«Guardate, la stella polare!» dice a stento, mentre ancora ride come se l’unica cosa che la muova sia quella stella di metallo spenta. Ridiamo anche noi, e siamo finalmente tutti e tre uguali.

«Sono le luci di Natale, ti piacciono?» le chiedo.

«Perché? È Natale?» domanda lei.

«È stato ieri…» rispondo, ma sono tentata di dirle che oggi è Natale.

«Nooo! Me lo sono persooo!» dice lei, e fa la faccia da morto in casa.

«Lo hai festeggiato da Fabio, e siete stati bene» le dice Maurizio, alla svelta, come per soccorrerla prima che cada.

«Certo, sono stata bene», e torna il sereno. «Proprio bene.»

F. ha il fiato grosso. Si porta la mano al colletto del giaccone, prova ad allentare. «È freddo, ti ammali» dice Maurizio mentre allontana le mani e gliele accompagna fino dentro alle tasche.

«Sei stanca?» domando.

«Voglio arrivare al blu» risponde risoluta e il suo respiro sembra tornare nei ranghi.

Il tratto di strada che percorriamo è una linea che scorre dritta con il mare sul finale. Lo si intravede nello spazio che i palazzinari degli anni cinquanta hanno lasciato tra uno stabilimento in muratura e l’altro. F. non distoglie mai lo sguardo da quel tratto orizzontale colorato, appoggiato sul nero dell’asfalto nuovo, tanto che Maurizio di continuo richiama la sua attenzione ai rigonfiamenti dei lastroni del marciapiede, spinti dalle radici dei pini.

«Te lo ricordi il negozio di Tina? Stava là, sulla destra, appena dopo il bar» domanda Maurizio, e la osserva in attesa che lei gli rimandi un ricordo. F., invece, non risponde, sta guardando a sinistra, insiste qualche secondo ma poi è di nuovo sul mare.

«A inizio estate mi ci comprava le formine per la sabbia» dice lui, rivolto a me, come se adesso anche F. fosse solo il ricordo di un piccolo bazar estivo chiuso da tempo.

La rena graffia sotto le scarpe via via che ci avviciniamo al lido, «Attenzione, si scivola» raccomanda Maurizio, e in effetti i piedi di F. fanno un paio di svirgolate. «Tienila meglio, sotto il braccio» dico piano. Lui sembra non aver sentito, credo stia inseguendo un altro ricordo, eppure lo tiene per sé.

«Dove siamo?» domanda F. Lui abbassa gli occhi, scuote la testa: «Abbiamo fatto questa strada per anni, dalla fine della scuola fino a che il tempo non peggiorava».

Restiamo in silenzio, non ci guardiamo.

L’accesso al mare è in leggera discesa, ci sono pochi scalini bassi accanto a uno scivolo breve in cemento. F. si ferma a un passo dalla sabbia. Con un braccio si appoggia al muretto di mattoni rossi smangiucchiati dalla salsedine, fa per abbassarsi.

«Lèvale, sennò me la porti in casa» dice indicando le scarpe del figlio, con un tono sicuro che deve essere stato il suo quando lui era un bambino ansioso di correre a fare il bagno. Accenna a piegarsi in avanti col busto: «Faccio io» le dico.

«Ma è freddo» ribatte lui. Io alzo le spalle, mi chino a slacciare lo stretch delle scarpe di F., le tolgo anche le calze di lana di un bianco cotto. Maurizio esita per qualche secondo, poi fa lo stesso.

I nostri passi affondano nella sabbia docile per un tratto di alcune decine di metri, finché la superficie dell’arenile si fa compatta e umida. F. ormai si è slegata dalla presa del figlio – ha insistito perché la lasciasse libera. Io mi fermo; loro proseguono fino a farsi toccare i piedi dall’acqua che avanza e si ritrae con la loro stessa lentezza. F. inizia a ridere, lui la osserva per capire, non ci riesce, rimane immobile in attesa.

«Mauri’» dice F., indicando il mulinello che il mare fa intorno a un sasso che poi la risacca lascia scoperto. Maurizio fa un sorriso largo, si volta subito verso di me, annuisce tante volte a dire Ehi, hai sentito? Io alzo indice e anulare e gli sorrido allo stesso modo.

F. lo prende per mano, fa qualche passo in avanti, poi piega il busto, sembra voler arrivare a toccare il filo dell’acqua. Lui procede al suo fianco; entrambi hanno i pantaloni bagnati che aderiscono alle caviglie ma nessuno dei due sembra farci caso.

«Lo fai il bagno?» gli domanda F.

Lui si volta verso di me, è ancora felice ma si vede che non sa come rispondere.

«Magari fra un po’», e la aiuta a riprendere la posizione eretta.

F. annuisce. Con le dita che hanno assaggiato il mare gli tocca la guancia: «Mauri’, oggi l’acqua è perfetta».

Foto di lea hope bonzer da Pixabay

Manca la città

1

di Leonello Ruberto

Semplicemente non c’era la città. Tutto qui, non c’erano marciapiedi, strade, palazzi.

Non c’erano punti di riferimento, avevo solo un fuoristrada che non ricordavo più in che occasione avevo acquistato, e il navigatore con le coordinate del lavoro impostate dal giorno precedente.

Ogni mattina andavo al lavoro in macchina seguendo una linea blu su uno sfondo verde e facevo su e giù per i campi ondulati, che non sapevo nemmeno se chiamare campi, visto che non erano coltivati. Non erano curati ma ci si poteva camminare, non ci cresceva molto spontaneamente.

Il posto di lavoro non era un vero palazzo o forse lo era, uscivo dalla macchina parcheggiata, probabilmente tra altre macchine o lo davo per scontato con la mia immaginazione, a testa bassa per non farmi bruciare gli occhi dal sole e subito ero dentro.

L’ufficio era come uno dei tanti uffici che avevo frequentato nella mia vita. E anche il ritorno a casa era il ritorno che facevo tutti i giorni.

Mi mancava la città in cui avevo vissuto un tempo, magari troppo brevemente. Ma ormai ero tornato dove ero sempre stato, che non essendo una città non aveva nemmeno un aeroporto né una stazione ovviamente, per  cui era complicato allontanarsi sul serio. E poi l’avevo già fatto in qualche modo e se non era andata bene un motivo doveva esserci.

Ogni tanto mi lamentavo con un collega che qui non c’era una biblioteca e non potevo prendere il tram, ma quello mi guardava strano e lasciavo perdere.

Avevo anche ritrovato degli amici di gioventù, mi aveva fatto piacere rivederli, ci vedevamo ogni settimana per giocare a carambola, avevo avuto qualche difficoltà ad arrivare al locale attraverso i campi tutti uguali. Loro che si orientavano da anni a istinto non potevano capire, e mi avevano anche preso un po’ in giro per le mie perplessità, proprio come avrebbero fatto ai vecchi tempi solo che ora era diverso.

Ogni tanto di notte pensavo che mi mancava la città e il suo rumore, che non era di automobili perché quelle c’erano anche qui.

Era di automobili e di tutto il resto, di gente che camminava per le strade. La gente si sentiva anche qui, ma non era la gente di città che passava: erano i vicini noti che andavano e venivano e soprattutto stavano nei loro giardini che presumevano anche delle case a ridosso.

Mi addormentavo cercando di cacciare certe fissazioni, che tanto altrove non mi sarei trovato meglio lo stesso che tutto il mondo è paese.