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Italo Calvino. Sanremo e dintorni (Il Palindromo, 2023)

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Pur senza dargli i natali, la città di Sanremo è centrale nella biografia di Italo Calvino perché vi trascorse gli anni fondamentali della sua formazione. «San Remo continua a saltar fuori nei miei libri, nei più vari scorci e prospettive» dichiarò lo scrittore in una celebre intervista. E proprio su questi scorci in cui si può riconoscere o intravedere Sanremo si articola l’itinerario proposto, poco più di quaranta tappe distribuite fra la città e l’entroterra. Mappa alla mano il lettore potrà seguire le tracce dell’opera calviniana, cercare il sentiero dei nidi di ragno e l’albero del barone rampante, ritrovare fra le strade di Sanremo le impalpabili città invisibili.
Il progetto di itinerario letterario è stato promosso dal Comune di Sanremo per celebrare il centenario della nascita dello scrittore (1923- 2023) e si è realizzato attraverso la collaborazione tra l’Università degli Studi di Genova, le scuole del territorio e l’Accademia di Belle Arti di Sanremo.
Questa guida è curata da Veronica Pesce e il progetto di itinerario è stato elaborato da Laura Guglielmi e Veronica Pesce. Il volume contiene in allegato la mappa letteraria della città con indicate le tappe della vita e dei riferimenti alle opere di Italo Calvino.

 

Prefazione al libro di Laura Guglielmi

I luoghi, le parole. Italo Calvino, Sanremo e dintorni

Italo Calvino ci ha insegnato a leggere con uno sguardo inedito il paesaggio di Sanremo e della Riviera Ligure. Ha scavato in profondità nelle pieghe del territorio e ci ha restituito pagine di straordinaria intensità. Il lavoro portato avanti dagli studenti dell’Università di Genova sotto la guida di Veronica Pesce e mia ha cercato di portare alla luce la stretta relazione tra i luoghi sanremesi e le opere dello scrittore. Calvino stesso ci autorizza a compiere questa operazione, in quel racconto paradigmatico che è la Strada di San Giovanni:

Ci vivevo in mezzo e volevo essere altrove. Di fronte alla natura restavoindifferente, riservato, a tratti ostile. E non sapevo che stavo anch’io cercando un rapporto, forse più fortunato di quello di mio padre, un rapporto che sarebbe stata la letteratura a darmi, restituendo significato a tutto, e d’un tratto ogni cosa sarebbe divenuta vera e tangibile e possedibile e perfetta, ogni cosa di quel mondo ormai perduto.

L’agronomo Mario Calvino, padre di Italo, d’estate obbligava i figli ad accompagnarlo nell’orto di proprietà a San Giovanni. Il giovane Italo avrebbe preferito fare tutt’altro. Era attratto dalla città «il resto era spazio bianco, senza significati; i segni del futuro mi aspettavo di decifrarli laggiù da quelle vie, da quelle luci notturne che non erano solo le vie e le luci della nostra piccola città appartata, ma la città uno spiraglio di tutte le città possibili».

Due strade che divergono, inconciliabili per il giovane Italo ma che, in seguito, si uniscono e trovano un’armonia narrativa. La campagna e la città sono due aspetti spesso presenti nella produzione dello scrittore e, ideando l’itinerario che troverete in questa guida letteraria, si è giocato a individuare, per me una volta di più, quali potessero essere le suggestioni visive depositate nel labirintico immaginario di Italo Calvino.

Azzarderei un’ipotesi: per Calvino non esiste una “terra madre”, ma una “terra padre”. Eva Mameli, la mamma dello scrittore, botanica di grande prestigio, era di origine sarda, mentre l’ambiente in cui si muove «lo scoiattolo della penna», come Cesare Pavese aveva soprannominato lo scrittore sanremese, è la Liguria di Ponente, che il padre conosceva a menadito e che avrebbe voluto i figli amassero quanto lui.

Passati gli anni adolescenziali, connotati da un forte contrasto con il papà Mario, che «del mondo vedeva solo le piante e ciò che aveva attinenza con le piante, e di ogni pianta diceva ad alta voce il nome, nel latino assurdo dei botanici», Calvino ormai adulto sente una intensa nostalgia per quello che non è più e mai potrà più essere. Il paesaggio di Sanremo, alla fine dell’Ottocento, uno dei più belli del nord del Mediterraneo, a partire dagli anni Cinquanta è stato devastato dalla speculazione edilizia, come racconta in uno dei suoi testi più militanti. E come scrive nel Barone rampante, gli umani «sono stati presi dalla furia della scure».

Quella vegetazione rigogliosa, quel bosco fitto di lecci, ulivi, aranceti, fichi, allori, dove Cosimo sceglie di trascorrere la sua vita, appollaiato sui rami, non esiste più. Ora è tutto «un sovrapporsi geometrico di parallelepipedi e poliedri, spigoli e lati di case, di qua e di là, tetti, finestre, muri ciechi per servitù contigue con solo i finestrini smerigliati dei gabinetti uno sopra l’altro» (La speculazione edilizia).

Se Mario Calvino non è riuscito a salvaguardare quel territorio che era stato la ragione della sua esistenza di scienziato, il figlio scrittore lo recupera e lo salva nel testo letterario. E la città, con il suo contesto geografico e naturale, diventa un variegato spazio linguistico non per questo meno vero. Tale trasposizione in parola e narrazione rivela uno dei compiti più importanti della scrittura per Italo Calvino: osservare, sondare e mappare la forma e la memoria di un territorio, riportando alla luce un mondo che non esiste più nella realtà, ma di cui si avverte ancora la presenza resistente nelle tracce disperse di una possibilità d’essere che è stata sistematicamente e brutalmente cancellata.

Nel 1999 ho portato alla New York University, in occasione delle celebrazioni che Giovanna Calvino aveva organizzato per ricordare il padre a New York, una mostra che metteva in risalto la Sanremo degli anni Trenta, attraverso foto d’epoca. Quelle immagini hanno attraversato l’Atlantico, solo perché accompagnate dai testi di Calvino. La mia ricerca iconografica non avrebbe destato alcun interesse senza la connessione con i luoghi dello scrittore.

Le descrizioni letterarie, quindi, sono ancora più necessarie delle immagini fotografiche perché rivelano la storia intima dei luoghi, lo scopo del loro esistere, e mettono in luce con chiarezza che la Storia avrebbe potuto seguire altri percorsi, che la Sanremo di oggi è solo una delle ipotesi possibili. La produzione dello scrittore, quindi, diventa anche un archivio che si stratifica e aiuta il lettore a decifrare lo spazio sociale, storico e geografico.

 

Tappa 28

via Roglio – Il sentiero dei nidi di ragno

Prima della copertura, il torrente San Francesco scorreva a valle della Pigna, parallelamente a via Porte Candelieri. Questa zona è oggi quasi irriconoscibile per l’opera di tombinatura dell’alveo del torrente. Occorre dunque un certo sforzo d’immaginazione, per rileggere questo passo del Sentiero dei nidi di ragno:

Pin va per i sentieri che girano intorno al torrente, posti scoscesi dove nessuno coltiva. Ci sono strade che lui solo conosce e gli altri ragazzi si struggerebbero di sapere: un posto, c’è, dove fanno il nido i ragni, e solo Pin lo sa ed è l’unico in tutta la vallata, forse in tutta la regione: mai nessun ragazzo ha saputo di ragni che facciano il nido, tranne Pin… […] Lì, tra l’erba, i ragni fanno delle tane, dei tunnel tappezzati d’un cemento d’erba secca; ma la cosa meravigliosa è che le tane hanno una porticina, pure di quella poltiglia secca d’erba, una porticina tonda che si può aprire e chiudere. (Il sentiero dei nidi di ragno)

Ma è vero che i ragni fanno il “nido”? Meglio parlare di “tane” o “cunicoli” che alcune specie di ragni fossori scavano nel terreno. Si tratta di ragni del genere Nemesia, che vivono all’interno di tane verticali scavate nel terreno e rivestite di tela, protette in superficie da una botola intessuta dal ragno stesso.

È notte: Pin ha scantonato fuori dal mucchio delle vecchie case, per le stradine che vanno tra orti e scoscendimenti ingombri di immondizie. Nel buio le retimetalliche che cintano i semenzai gettano una maglia d’ombre sulla terra grigiolunare […] È una scorciatoia sassosa che scende al torrente tra due pareti di terra ed erba. (Il sentiero dei nidi di ragno)

In questo posto segreto che solo lui conosce, Pin ha nascosto la pistola sottratta al soldato tedesco. Appena fuori dalla Pigna, Pin si muove fra «orti e scoscendimenti ingombri di immondizie». La descrizione non è dissimile da quella che si legge nella Strada di San Giovanni:

Al di là [del torrente San Francesco] si levava, come una quinta, – il torrente era nascosto giù in fondo, con le canne, le lavandaie, il lerciume dei rifiuti sotto il ponte del Roglio, – la riva di Porta Candelieri, dov’era uno scosceso terreno ortivo allora di nostra proprietà. (La strada di San Giovanni)

Difficile dire se Calvino abbia davvero visto qui i ragni che scavano queste tane, ma la descrizione offerta nel Sentiero, accanto a quella più riconoscibile nella Strada di San Giovanni, ci rinviano al torrente San Francesco che ancor oggi scorre, pur completamente coperto, sotto «la riva di Porta Candelieri», nell’attuale via San Francesco. Lo scenario calviniano è totalmente cancellato. Perduto alla vista il torrente, insieme con le scorciatoie scoscese, gli orti, il ponte del Roglio, fors’anche i ragni, con i loro “nidi”, ci resta soltanto (ma non pare poca cosa!) la straordinaria forza di una bellissima pagina della nostra letteratura.

Proseguire su via Roglio, rondò Volta e via Volta, svoltando poi a sinistra in via Meridiana

 

Tappa 29

via Meridiana – Villa Meridiana

Una spiegazione generale del mondo e della storia deve innanzitutto tenerconto di com’era situata casa nostra nella regione un tempo detta «punta di Francia», a mezza costa sotto la collina di San Pietro, come a frontiera tra due continenti. In giù, […] la città coi marciapiedi le vetrine i cartelloni dei cinema […] in su, bastava uscire dalla porta di cucina […] e subito si era in campagna, su per le mulattiere acciottolate, tra muri a secco e pali di vigne e il verde. (La strada di San Giovanni)

Quasi irriconoscibile rispetto alla forma che Mario Calvino a partire dal 1925 le aveva dato, facendone la sede della Stazione sperimentale di floricoltura «Orazio Raimondo», oggi Villa Meridiana si presenta soffocata dai palazzi e priva di quel parco che la rendeva unica con i suoi circa 3000 mq. di estensione e la presenza di oltre quattrocento varietà di piante tropicali.

Luogo essenziale nella biografia dell’autore, che l’abitò fino all’età di 22 anni, è l’origine prima del suo sguardo sul mondo «sempre come su un balcone, affacciato a una balaustra […] teatro il cui proscenio s’apre sul vuoto». La villa appare e riappare, senza soluzione di continuità, in tutta l’opera di Calvino, soprattutto la prima, più legata alle origini sanremesi.

È il caso del racconto Un pomeriggio,Adamo, che apre la raccolta Ultimo viene il corvo. La villa non è mai nominata, ma la riconoscibilità della figura di Libereso (cfr. tappa 36) e l’ambientazione nel giardino non lasciano dubbi: «Libereso si mise a girare tra le calle. Erano tutte sbocciate, le bianche trombe al cielo. Libereso guardava dentro ogni calla, ci frugava dentro con due dita e si nascondeva qualcosa nella mano stretta a pugno. […] Libereso schiuse le sue mani […] piene di cetonie, cetonie di tutti i colori. Le più belle erano le verdi, poi ce n’erano di rossicce e di nere, e una anche turchina» (Un pomeriggio Adamo).

Ha indubbie parentele con Villa Meridiana, pur nello slittamento diacronico, anche la villa

di Ombrosa, proprietà dei Baroni Piovasco di Rondò:

Fu il 15 di giugno del 1767 […] Eravamo nella sala da pranzo della nostra villa d’Ombrosa, le finestre inquadravano i folti rami del grande elce del parco. […] Tirava vento dal mare, ricordo, e si muovevano le foglie. Cosimo disse: Hodetto che non voglio e non voglio! e respinse il piatto di lumache. Mai s’era vista disubbidienza più grave. (Il barone rampante)

E forse ancor più della proprietà dei Piovasco di Rondò, guarda a Villa Meridiana il giardino della confinante proprietà dei Marchesi  d’Ondariva. Lo sfoggio di presenze esotiche non può che richiamare l’attività di Mario Calvino presso la stazione di floricultura da lui diretta:

Infatti, digià il padre degli attuali Marchesi, discepolo di Linneo, avevamosso tutte le vaste parentele che la famiglia contava alle Corti di Francia e d’Inghilterra, per farsi mandare le più preziose rarità botaniche delle colonie, e per anni i bastimenti avevano sbarcato a Ombrosa sacchi di semi, fasci di talee,arbusti in vaso e perfino alberi interi. (Il barone rampante)

L’epilogo è tristemente noto: prima di essere venduta dopo la morte di Eva Mameli (1979) e totalmente trasfigurata, privata di quasi tutto il giardino, la villa aveva già subito una prima decurtazione alla morte del padre (1951) con l’edificazione di un condominio nella parte più bassa del giardino. La speculazione edilizia (pur senza mai nominare Sanremo né tantomeno Villa Meridiana) racconta proprio questo primo intervento, restituendo insieme con esso il clima generale di un’epoca con tutte le sue contraddizioni (cfr. tappa 17):

La frase: – Se tutti costruiscono perché non costruiamo anche noi? – che egli aveva buttato lì un giorno conversando con Ampelio in presenza della madre, e l’esclamazione di lei, a mani alzate verso le tempie: – Per carità! Povero il nostro giardino! – erano state il seme di una ormai lunga serie di discussioni, progetti, calcoli, ricerche, trattative. Ed ora, appunto, Quinto faceva ritorno alla sua città natale per intraprendervi una speculazione edilizia. (La speculazione edilizia)

Ritornare in via Volta e proseguire ancora in direzione levante

Poesia secondo istruzioni, a cura di Guy Bennett # 4

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Quarto episodio sul progetto promosso da Guy Bennett, poeta statunitense. Si tratta di un’opera collettiva di poesia generativa che ha coinvolto 60 poeti, artisti e designer per un totale di 140 testi prodotti. Non vi è un’unica lingua di riferimento, anche se la maggioranza dei testi è stata scritta in inglese e in francese. Infine tutti i testi sono stati raccolti in un catalogo digitale con un’introduzione e un ricco apparato paratestuale. In questa nuova campionatura: sette nuovi testi di sette autori diversi (e altrettante istruzioni di riferimento). Le due campionature precedenti qui & qui. E il primo episodio  – che include: progetto + intervista al curatore + 99 istruzioni trilingue – qui.]

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Éric Pessan, Time Machine (Instruction 99)

Jorge Ortega, Tant claro como el agua (Instruction 53)

Pascale Petit, Deux poèmes incroyables (Instruction 56 + 67)

Федор Тютчев, Silentium! (Instruction 50)

Étienne Lécroart, Sans titre (Instruction 83)

Andrea Inglese, Sans titre (Instruction 55)

Sarah HaufrectUntitled (Instruction 10)

⇓   •   ⇓

TIME MACHINE

99 : Un poème qui ne sait pas quand il doit s’arrêter.

· Éric Pessan



	Protégé par une plaque de plomb
	Hubert observe fasciné les gestes du professeur

Poète, Hubert a obtenu une allocation de résidence au sein du laboratoire 
                                                                    [de recherche temporelle du professeur 

			Sans discours
			Le professeur 
			Allume sa machine

		Depuis les premières publications de la théorie du temps rétractile 
		La communauté scientifique est en émoi
		Certains proposant le nom du professeur pour le Nobel
		D’autres refaisant les calculs pour démonter son erreur

	Bourdonnement aucun signal d’alarme
	Rien ne semble se produire
	Hubert écrit un poème en direct
	Il a reçu une avance d’un magazine 
	Pour sa publication

Le professeur a programmé sa machine pour qu’elle revienne 
                                                                                     [cinq minutes dans le passé

Les détracteurs de la théorie sont allés jusqu’à imaginer
		Que la machine demeurait stable
		Tandis que l’univers entier
		Serait contraint de se rétracter de cinq minutes
		Créant une boucle 
		Un larsen temporel
		D’autres ont juste opposé leurs rires

Hubert écrit 
Succès ou échec l’expérience finira dans un poème

Protégé par une plaque de plomb
	Hubert observe fasciné les gestes du professeur

Poète, Hubert a obtenu une allocation de résidence au sein du laboratoire 
                                                                    [de recherche temporelle du professeur 

			Sans discours
			Le professeur 
			Allume sa machine

		Depuis les premières publications de la théorie du temps rétractile 
		La communauté scientifique est en émoi
		Certains proposant le nom du professeur pour le Nobel
		D’autres refaisant les calculs pour démonter son erreur

	Bourdonnement aucun signal d’alarme
	Rien ne semble se produire
	Hubert écrit un poème en direct
	Il a reçu une avance d’un magazine 
	Pour sa publication

Le professeur a programmé sa machine pour qu’elle revienne 
                                                                                          [cinq minutes dans le passé

Les détracteurs de la théorie sont allés jusqu’à imaginer
		Que la machine demeurait stable
		Tandis que l’univers entier
		Serait contraint de se rétracter de cinq minutes
		Créant une boucle 
		Un larsen temporel
		D’autres ont juste opposé leurs rires

Hubert écrit 
Succès ou échec l’expérience finira dans un poème

Protégé par une plaque de plomb
	Hubert observe fasciné les gestes du professeur

Poète, Hubert a obtenu une allocation de résidence au sein du laboratoire 
                                                                    [de recherche temporelle du professeur 

			Sans discours
			Le professeur 
			Allume sa machine

		Depuis les premières publications de la théorie du temps rétractile 
		La communauté scientifique est en émoi
		Certains proposant le nom du professeur pour le Nobel
		D’autres refaisant les calculs pour démonter son erreur

	Bourdonnement aucun signal d’alarme
	Rien ne semble se produire
	Hubert écrit un poème en direct
	Il a reçu une avance d’un magazine 
	Pour sa publication

Le professeur a programmé sa machine pour qu’elle revienne 
                                                                                          [cinq minutes dans le passé

Les détracteurs de la théorie sont allés jusqu’à imaginer
		Que la machine demeurait stable
		Tandis que l’univers entier
		Serait contraint de se rétracter de cinq minutes
		Créant une boucle 
		Un larsen temporel
		D’autres ont juste opposé leurs rires




TAN CLARO COMO EL AGUA

53: A poem understood.

· Jorge Ortega
 


El cosmos es una casa donde mora el sistema solar que es una casa donde 
mora la Tierra que es una casa donde mora un continente que es una casa 
donde mora un país que es una casa donde mora una región que es una casa 
donde mora una ciudad que es una casa donde mora un distrito que es una 
casa donde mora una colonia que es una casa donde mora una casa que es 
una casa donde anida un individuo que es una casa donde anida un cerebro 
que es una casa donde anida una memoria que es una casa donde anida el 
recuerdo de una luna de sangre que anida en la casa del cielo de una tarde 
agónica que anida en la casa de un abismo sin fondo que anida en la casa 
del brazo de Orión que anida en la casa de la Vía Láctea que anida en la 
hospitalaria y espaciosa mansión de un lugar desconocido.




DEUX POÈMES INCROYABLES

56. Dans deux pièces indépendantes, invisibles l’une de l’autre, 
deux poètes écrivent des poèmes sur des feuillets ayant les mêmes 
dimensions.
+ 67 : Un poème incroyable
(= un poème qui mélange aussi des instructions).

· Pascale Petit



les deux poètes contemporains ont écrit deux poèmes incroyables
où tout le monde a le même courage
et sourit dans la même bataille
il n’y a pas de compétition entre eux
ils ne sont pas l’un contre l’autre
ils n’ont pas de chien
tout est donné à tout le monde
les deux poètes contemporains ont écrit deux poèmes incroyables
absolument semblables.



SILENTIUM !

50: A poem quiet as a mouse pissing on cotton.

· Федор Тютчев



Молчи, скрывайся и таи
И чувства и мечты свои —
Пускай в душевной глубине
Встают и заходят оне
Безмолвно, как звезды в ночи, —
Любуйся ими — и молчи.

Как сердцу высказать себя?
Другому как понять тебя?
Поймет ли он, чем ты живешь?
Мысль изреченная есть ложь.
Взрывая, возмутишь ключи, —
Питайся ими — и молчи.

Лишь жить в себе самом умей —
Есть целый мир в душе твоей
Таинственно-волшебных дум;
Их оглушит наружный шум,
Дневные разгонят лучи, —
Внимай их пенью — и молчи!.. *



* Это стихотворение предвосхитило его наставления.


Fëdor Ivanovič Tjutčev

Traduzione di Tommaso Landolfi
(da Fëdor Tjutčev, Poesie, Adelphi Edizioni, 2011)


Taci, nasconditi ed occulta
i tuoi sogni e sentimenti;
che nel profondo dell’anima tua
sorgano e volgano a tramonto
silenti, come nella notte
gli astri: contemplali tu – e taci.

Può palesarsi il cuore mai?
Un altro potrà mai capirti?
Intenderà di che tu vivi?
Pensiero espresso è già menzogna.
Torba diviene la sommossa
fonte: tu ad essa bevi – e taci.

Sappi in te stesso vivere soltanto.
Dentro te celi tutto un mondo
d’arcani, magici pensieri,
quali il fragore esterno introna,
quali il diurno raggio sperde:
ascolta il loro canto − e taci!…




SANS TITRE

83 : Un poème qui sème le doute quant au réel et / ou aux faits en 
proclamant malicieusement un absence de consensus et / ou en insistant 
pour que le contraire soit vrai.

· Étienne Lécroart



Il paraîtrait qu’en réalité tous les poèmes de ce recueil ont été écrits par 
Guy Bennett. 
Il aurait usurpé l’identité de divers poètes à leur insu. 
Il est d’ailleurs évident pour qui sait y regarder attentivement qu’aucun 
de ces poèmes ne ressemble aux poèmes habituels de celles et ceux à qui 
ils sont attribués. 
On ne voit d’ailleurs guère l’intérêt qu’il y aurait eu de leur part à le faire.
L’argent ? La gloire ? Le plaisir ? 
Vous voulez rire.


.
SANS TITRE

55 : Un poème écrit à l’intérieur, à l’abri des conditions atmosphériques.

· Andrea Inglese
 


Ici les traces d’encre
dans ce papier
sur cette feuille
dans ce carnet
sur cette table
dans cette pièce
sur cette dalle de béton
dans ce tunnel
où le soleil n’arrive pas
ni la pluie
où le vent ne souffle pas
ni l’air
et la température est stable
le noir homogène
le silence total

ailleurs
très loin d’ici
quelqu’un sous une tempête de neige
ou sous un pluie de feu
ou sous la vague déferlante
cherche à se rappeler
les vers qu’on déchiffre
sur ces traces d’encre
dans ce papier
sur cette feuille
dans ce carnet
sur cette table
dans cette pièce
sur cette dalle de béton
dans ce tunnel
où le soleil n’arrive pas
ni la pluie
où le vent ne souffle pas
ni l’air
et la température est stable
le noir homogène
le silence total



UNTITLED

10: A poem embodying cognitive dissonance.

· Sarah Haufrect
 


In the dream from which I awaken 
My head splits itself into strangers

One will sit and feast while the other forges ahead
The treacherous moat of day will wait for us both
 
One will search the empty shelves the other filled with multitudes
Teach what little there is to know to the other who knows already

Then darkness comes of course because my darkness is an open
Window one can see right through and the other cannot escape

If one would wait a thousand years to see the other
Then they might finally never see each other again 

I hold my head and it holds me back 
Together we face the day awakened


Mots-clés__Mare

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Mare
di Paola Ivaldi

Charles Trenet, La mer -> play

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Da Sandro Penna, Poesie scelte e raccolte dall’Autore nel 1973, Mondadori 2019, pag. 10

Il mare è tutto azzurro

Il mare è tutto azzurro.
Il mare è tutto calmo.
Nel cuore è quasi un urlo
di gioia. E tutto è calmo.

___

[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. Ogni prima domenica del mese, Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]

Silenzio e bombe: quattro saggi dall’Ucraina in tempo di guerra

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di Ilya Kaminsky, Ludmila Khersonsky, Zarina Zabrisky, Elena Andreychykova

[Traduzione italiana di Pina Piccolo, dall’articolo originale in lingua inglese del 10 novembre 2022 apparso su Orion: Nature and Culture <orionmagazine.org>]

TRA POCHI MINUTI inizierà a suonare la sirena antiaerea. “Il bambino trascina i corpi dei suoi vicini”, dice Zarina. “Adulti, bambini, per tutta la mattina. Li trascina da sotto le macerie di un edificio bombardato. Gli rivolgo delle domande, ma non vuole parlare che di chiodi e del martello che gli servono per riparare la finestra. Non parla d’altro. Martello. Chiodi”.

Siamo seduti in un ristorante di via Kanatnaya a Odesa, in Ucraina. Zarina mi guarda dritto negli occhi.

“Trascinava nonne, mamme e bambini da sotto le macerie”.

Invece che correre al rifugio, Zarina mi chiede se desidero dell’altro cognac. È surreale che si continui a brindare e a cenare durante un bombardamento. Ma è proprio quello che facciamo.

“È la città stessa che ti aiuta a superare le cose”, afferma. “Cammini per strada e ti senti meglio”.

Zarina è una corrispondente di guerra. Sfiora con le dita il bordo del bicchierino di cognac e sussurra: “Ho detto alla mia famiglia che sarei andata a trovare degli amici in Europa. Continuo a inviare a casa foto di micetti”.

Il suo telefono vibra: un giornalista americano le chiede in prestito il suo giubbotto antiproiettile. Sta per andare in una zona di combattimento attivo, mi dice. Poi ordina gli antipasti.

Il giorno dopo mi ritrovo a una lettura di poesie a Odesa.

Non è esattamente una cosa che ti aspetti in una città con il coprifuoco e i sacchi di sabbia che fanno da barricata.

Le letture di poesia si svolgono tra gli allarmi delle sirene antiaeree. Servono il vino. Le ciliegie.

C’è anche Elena Andreychykova.

Qualche giorno fa Elena mi aveva organizzato una visita in macchina della città. L’Ucraina è una no-fly zone, quindi bisogna prendere un volo per la vicina Repubblica di Moldova e attraversare la frontiera con un qualche autoveicolo o a piedi.

Lei stessa ha lasciato l’Ucraina per mettere al sicuro sua madre e suo figlio, e poi è tornata.

“Nonostante tutto”, in una mail mi aveva scritto, “Odesa è così luminosa”.

Durante l’evento mi guarda e fa: “Odesa non è occupata come Kherson. Quindi andiamo insieme a leggere poesie. Si vive solo una volta”.

E così leggiamo insieme agli altri, le nostre parole scandite dalle sirene antiaeree.

A casa, ricevo una mail da Ludmila Khersonsky, fuggita dall’Ucraina qualche mese prima con il marito, il poeta Boris Khersonsky. Descrive la fuga dal paese, i primi giorni di bombardamenti. Parla di come abbia barricato le finestre coi suoi libri di poesia, in modo da evitare che le schegge di vetro schizzino per la stanza dopo l’esplosione di un razzo di artiglieria. Leggendo, mi viene in mente un verso di una delle sue poesie, scritta molti anni fa, ma sempre attuale: “Seppellito in un collo umano, un proiettile sembra un occhio, cucito dentro / un occhio che guarda indietro al proprio destino”.

Eccovi allora tre voci da una città sotto blocco navale, una città le cui strade continuano a essere sotto i bombardamenti mentre scrivo. I gatti randagi sono ovunque. Dormono in cima alle fortificazioni anticarro, tremando, mentre sfrecciano le auto militari e i taxi. È una città in cui la gente continua ad andare all’opera, alle letture di poesie, nonostante i colpi d’artiglieria; in cui uno zoo ha riaperto da poco e un numero enorme di persone fa la coda per isolati per poter entrare e salutare gli animali. Il giorno della riapertura, una mucca ha partorito davanti alla folla. Il piccolo l’hanno chiamato Javelin, come l’arma anticarro portatile.

Sono tre voci che si esprimono in una prosa fatta di silenzi, di momenti non detti, di momenti di terrore per ciò che viene fatto all’Ucraina mentre il mondo sta a guardare.

 

– Ilja Kaminsky

10 luglio 2022

 

*

GATTO SOTTO UN CIELO SENZA UCCELLI

Un saggio dall’Ucraina, di Ludmila Khersonsky

 

ECCOLO LÌ, ORA. Un suono acuto dietro la finestra. Zz-z-z -sss-ss-bang! Il gatto fa un balzo e si nasconde sotto il letto, poi sotto il divano. Il mio gatto nero si nasconde nell’ombra. Il mio corpo trema.

Rifuggo dal pensiero che tutto questo possa continuare. Voglio essere forte. E voglio anche dormire. Ma come si fa a dormire dopo UNA COSA DI QUESTO GENERE? e se non riuscissimo più dormire? Cerco di immaginare le nostre notti insonni, senza mai appoggiare la testa.

L’esplosione. La Russia ha infine deciso che siamo cosa di così basso valore che la nostra vita e il nostro sonno poco importano. Così come poco importa che abbiamo animali domestici felici e bisognerebbe evitare di spaventarli.

Più tardi scoprirò che i gatti sentono il razzo con tre o quattro minuti di anticipo rispetto alla sua effettiva comparsa. Per sapere se si sta avvicinando un razzo vi basta guardare il vostro animale domestico. I gatti iniziano a correre avanti e indietro sgomenti, sbattendo il corpo contro i muri. Ho parlato con una donna libanese che mi ha detto che il suo gatto si comportava allo stesso modo prima del bombardamento dell’artiglieria: correva per la stanza, sbattendo senza sosta il corpo su e giù per le pareti e le finestre. Questo accadeva nel 2008, ha detto. È la stessa cosa che vedo nel 2022.

Per prima cosa, ascolto il mio corpo, il rumore dei miei denti che battono. Questo chiacchiericcio, paura animale, così vergognoso. Dovrei nascondermi anch’io sotto il divano e rimanere lì, piatta come una frittella? Un gatto si nasconde sotto il divano, ma dove può nascondersi una creatura umana quando la casa non è più sicura? Quanto tempo ci metto a sparire?

Vado in sala da pranzo.

Cerco di fare il caffè. Il mio primo caffè di guerra, alle quattro del mattino, subito dopo l’esplosione.

Questi razzi, pesanti pezzi di metallo mortifero, quanto pesano? Più tardi scoprirò che possono pesare fino a quattromila chili.

Non ho familiarità con niente che pesi così tanto.

Persino la credenza, quel mobile antico che abbiamo restaurato e riparato e riportato dentro con l’aiuto di tre uomini forti, non pesa così tanto. Inoltre, nessuna persona sana di mente si sognerebbe di lanciare una credenza a mo’ di razzo…

Vado fuori. Il cielo si schiarisce, l’azzurro e il bianco del cielo bellico di primo mattino, così vicino eppure così lontano. Ogni albero del giardino è testimone di quello che facciamo. Ho bisogno di testimoni affidabili per raccontare la storia dei razzi che esplodono di primo mattino.

La guerra ti erode il respiro. Diventa duro e friabile, come un terreno danneggiato. So che più tardi farò fatica a respirare. Il mio respiro diventerà irregolare, ansimerò e aspetterò prima di espirare. È così che il respiro resiste al dolore e alla disperazione. Osservando altre persone per vedere come respirano, si può capire subito se siano sconvolte o meno. Alcune persone adottano una respirazione impercettibile, come se non ci fossero più. Le guerre non sono adatte al respiro.

Mattinata bellica: tutto è diventato grigio. Anche i crochi luminosi non sono più così luminosi. Gli stessi fiori hanno un aspetto cinereo.

Ho sempre amato accendere il fuoco nel camino, l’odore della legna che brucia e la brace che alla fine muore, la cenere. Amerò questa azione tanto quanto prima?

Non posso dire cosa apprezzerò di più, perché la vita è divisa in due parti: prima della guerra e durante la guerra. Durante la guerra ho bisogno di concittadini che camminano per le strade. Ho bisogno di parlare con i tassisti, con gli impiegati di banca e con i commessi dei negozi. Parlando con la gente ritrovo la sensazione di essere viva, il piacere di essere normale. La vita si sforza di essere sana e la gente si alza e va a lavorare. Qualcuno prepara il pane.

Ci si alza, si fa la doccia, si lavora.

Non abbiamo un seminterrato dove nasconderci in caso di bombardamento. Né abbiamo un luogo che possa proteggerci dai razzi dell’artiglieria. Naturalmente la nostra casa potrebbe essere colpita direttamente da un razzo. Le possibilità di sopravvivenza sono molto basse, ma se esplodesse nelle vicinanze? Si frantuma il vetro delle finestre, le schegge volano ovunque intorno a noi, verso di noi.

Così stamattina la mia prima attività è costruire una barricata di libri sul davanzale della finestra. Sono libri scritti da me e da mio marito, copie extra che trovo in casa e che ora servono a proteggerci se la nostra strada viene bombardata. Questa è la stanza dove ci nascondiamo dai missili.

Come preparo la mia casa alla guerra? Di cos’altro ho bisogno? Coperte, lenzuola, scialli? Il mio scialle di cachemire preferito andrà bene? Ho bisogno di coprirmi in modo elegante contro questo incubo.

Rapide occhiate alle stanze della mia casa: tante cose belle che mi circondano sembrano ormai inutili. Bambole, perline, quadri, statuette, libri sugli scaffali. Ho bisogno di un riparo. Mi avvolgo lo scialle di cachemire intorno alle spalle.

Mia madre ha vissuto la Seconda Guerra Mondiale. Lei capisce.

“Non uscire di casa”, mi dice. “Bombardano vicino casa tua?”.

“Non lo so”, rispondo.

“Va bene, allora”, dice lei, “non uscire”.

Dopo l’inizio della guerra, ospitammo a casa nostra una “sfollata”, una donna alta e silenziosa con due bambini. I bambini erano magri. Erano molto poveri. La gente divideva con loro alimenti di base. Nessuno sapeva il suo nome. La chiamavamo “la sfollata”. Le persone che non hanno una casa perdono il loro nome.

Io ho ancora un nome. Mi chiamo Ludmila. Ho la mia casa, anche se sopra di essa volano dei razzi. Un tempo mi svegliavo e parlavo con gli uccelli in volo nel cielo. Ora gli uccelli non ci sono più. C’è troppo rumore perché possano stare sul nostro tetto. Riempio un davanzale di libri per proteggere mio marito e il nostro gatto dagli spargimenti di vetro durante i bombardamenti. Ho tappezzato di libri il davanzale. Ho usato le parole per protezione e sicurezza. Penso che sarà utile.

Devo trovare una torcia. E un borsone da afferrare al volo. Deve essere di dimensioni ridotte, ma deve poter contenere tutta la mia vita — tutto ciò che amo e apprezzo e tutto ciò di cui potrei avere bisogno: foto di famiglia, libri, documenti, cibo e acqua, medicine, cellulare, caricabatterie, soldi, la mia collana, i vestiti caldi, le nostre collezioni d’arte, il mio cuscino, il mio scialle di cachemire, il mio rossetto, gli occhiali di mio marito, la mia paura, il mio dolore, la mia rabbia e la mia speranza.

 

*

CERCASI DENTI DI CAPODOGLIO

Un saggio dall’Ucraina di Zarina Zabrisky

 

 

SCRIVO QUESTO TESTO alle sei del mattino del 16 luglio. Mi sono svegliata poco dopo le 5 quando Odesa è stata colpita da un altro missile d’artiglieria. Sulla città si è alzato un fumo nero. Non conosciamo ancora i dettagli. Ieri sera le sirene hanno suonate ripetutamente. Il loro lamento mi fa sempre pensare a un drago senile e assetato di sangue che emerge da una grotta buia e umida nelle profondità dell’oceano e si leva sfolgorante nel cielo bruciando la terra con il suo alito putrido. Vuole divorarci. Ci strappa i bambini. Perde i suoi denti arrugginiti.

Decido di andare centro benessere dell’hotel Duke per dimenticare tutto, per lavare via tutto. Negli Stati Uniti gli impianti termali aperti al pubblico, le spa, sono un qualcosa di esotico e legato a etnie specifiche, mentre invece sono un punto fermo nello spazio post-sovietico, in Europa e in Asia. Andare alla spa, al bagno pubblico o all’hammam, è un rito antico in Giappone, Turchia, Germania, Ungheria, Marocco e, sicuramente, a Odesa. Ovunque mi trovi, quando sono in difficoltà, vado in una di queste strutture. Ho affogato il mio dolore in terme coreane, marocchine e, sì, russe. Scrub al sale, impacchi al miele, vapore all’eucalipto e alla menta, saune alla lavanda e al pompelmo rosa, bagni panoramici, persino una sauna alla birra in Polonia. Gli slavi credevano alla magia delle acque termali: muori e vieni immerso prima in “acqua morta” e poi in  “acqua viva” e alla fine si torna in vita, tutti lucidi e nuovi, purificati. Ho bisogno di questo bagno di resurrezione per purificarmi dalla terra nera dei cimiteri bombardati, per non sentire più il lamento del drago.

Al centro benessere dell’hotel Duke c’ero già stata. Una donna senza età, simile a una sirena, la somma sacerdotessa della spa, con addosso un bikini turchese, ti piazza sul viso una pezza infusa all’essenza di quercia canadese e poi ti sferza con rami di betulla finché non senti il veleno uscire dai pori. Voglio tornare lì, tuffarmi nella vasca d’acqua gelida al ritmo di canti ucraini che si mescolano alle voci delle donne e agli schizzi, risuonando sotto il soffitto a volta. Voglio chiacchierare con gli sconosciuti. L’ultima volta che ci sono andata, una dottoressa del pronto soccorso si lamentava di essere diventata una celebrità di Odesa dopo che un paparazzo dilettante le aveva scattato una foto mentre prendeva il sole in topless in un parco cittadino e l’aveva condivisa sui social media. Abbiamo riso e bevuto kvas, una bevanda leggermente frizzante, con infuso al miele. Un bambino si tuffava nella piscina fredda perché gli mancava il Mar Nero. Qui il mare è minato e le spiagge sono chiuse.

Mi avvio verso il centro benessere facendo una lunga deviazione e passando davanti a una fila  di negozi di abiti da sposa: candidi pizzi, perle e diamanti, torte gigantesche, bandiere ucraine azzurre e gialle che garriscono al vento all’esterno. Molte cose a Odesa sono come le torte del famoso mercato di Privoz: il teatro dell’Opera, la schiuma del mare sulla spiaggia di Langeron, l’aria stessa che d’estate ha un profumo così dolce che viene voglia di mangiarla. Odesa fa venire fame. Forse è per questo che il drago si sta scatenando. Forse desidera Odesa come tutti, la bella sposa amazzone che non appartiene a nessuno.

Odesa non ha paura del drago. Mangia, beve, balla, canta e impazzisce tra un’incursione e l’altra. Vicino a casa mia, un gruppo rock suona una canzone sull’Ucraina, e gente in tuta mimetica allestisce un chiosco per vendere la pizza, stendendo la pagnotta bianca e morbida, accendendo il fuoco, facendo fondere il formaggio dorato e ballando al ritmo della musica. Nell’isola pedonale di via Deribaskovskaya, bambine con le tradizionali camicie ricamate ucraine cavalcano esuberanti pony adorni di nastri rosa sulla criniera, il tutto al ritmo delle sirene antiaeree. Gatti pigri e cani scontrosi dominano la strada, dormendo sull’acciottolato tiepido e accanto ai negozi sfitti. Vicino al mio edificio preferito, in stile Liberty dal colore verde insalata, una band suona canzoni ebraiche di Odesa e tutta la strada balla; i bambini rincorrono bolle di sapone giganti soffiate da una bella ragazza su una sedia a rotelle e un ragazzo abbronzato prepara lo zucchero filato, mentre il drago malato e assetato di sangue non la smette mai di ululare e le sirene non si fermano.

Passo davanti all’unico casinò patriottico che abbia mai visto al mondo: “Gloria all’Ucraina!” recita l’insegna elettronica, e le lettere si trasformano subito in “Nave militare russa vai a farti f***re”, davanti a un sexy shop aperto chiamato La pagnottella. (L’insegna sul portone contiene un doppio senso su palianytsia, parola ucraina che indica una pagnotta di pane e che nessun russo riuscirà mai a pronunciare correttamente).

“Nessuno ha cancellato il sesso”, dice un uomo ubriaco alla fermata dell’autobus.

Passo accanto a uno strip club chiuso, con la scritta “Giamaica, 26 febbraio” dipinta sulla finestra oscurata. La guerra è iniziata il 24 febbraio. Dei gatti neri mi fissano dal marciapiede. Sembrano i banditi ebrei dei racconti di Isaak Babel.

Una volta Babel scrisse: “Non c’è motivo per cui una storia ben congegnata debba assomigliare alla vita reale; la vita si sforza con tutte le sue forze di assomigliare a una storia ben congegnata”. A Odesa è certamente così. All’angolo di via Derybasivska (“Ebraica”), uomini dall’aspetto rozzo con massicce catene d’oro al collo parlano proprio come i carismatici gangster descritti dallo scrittore: frasi brevi e succose, slang carcerario e battute ironiche. Un uomo dell’ufficio del sindaco porta una pistola al fianco, i suoi occhi azzurri brillano mentre mi racconta che un tempo vendeva aringhe al mercato di Privoz. Anche lui potrebbe essere uscito da una storia di Babel. In un certo senso, queste storie sono ormai troppo riconoscibili, troppo stereotipate; l’Odesa intellettuale è alla ricerca di un’atmosfera diversa, di un altro strato della città, al di là del suo sciccoso gangster da cartone animato e delle chiacchiere da cabarettista.

Un ristorante chiamato Babel è aperto e le tende bianche per gli sfollati dall’altra parte della strada hanno l’aria di stand da sagra paesana.

Mentre cammino, leggo cartelli di compravendita scritti a mano e affissi ai muri e ai lampioni agli angoli. È un’arte speciale. “Cercasi denti di capodoglio”, c’è scritto in una di queste inserzioni, e io continuo a leggere: “Tazze da tè di porcellana fabbricate nella RDT. Lampadari di cristallo. Perline. Samovar. Medaglie”. RDT è la Repubblica Democratica Tedesca. Berlino Est. Sovietica. Prima del 1990. Un poster gigante con immagine dal musical Dracula Vlad, con sopra scritto “Cercasi capelli” e “Chiaroveggente Anna”. Altra offerta: “Assumo impiegata. Età Balzac. 4-6 ore” [Ndt: “Età Balzac” si riferisce al concetto di donna matura, associato alla prima amante dello scrittore Balzac].

Mi imbatto in un minuscolo negozio con la porta tappezzata di avvisi e cartelli di compravendita scritti a mano in pennarello nero: “Attenzione: Neonati di aringa dagli occhi blu di qualità sopraffine: femmine e maschi”, “Formaggio fresco di capra etiope dalle orecchie lunghe”, “È consentito l’ingresso con cani e coccodrilli” e “È severamente vietato l’ingresso senza maschera, coniglio, orso, volpe!”. All’interno, una signora di età balzachiana con una piramide di capelli mangia un pomodoro succoso affettato su una pagina di giornale – mi chiedo se sia la Pravda (“verità”), il giornale sovietico. Tutto ricorda una vecchia bottega di alimentari di epoca sovietica: “Caviale di melanzane”, zucchero, sale, pasta e carne di maiale conservata nello strutto. C’è persino l’odore povero e spento del passato. Dal soffitto pendono strisce appiccicose giallastre, con attaccate mosche morte. Ho la stessa sensazione che mi viene in Moldavia, cioè che noi, sfortunati abitanti del post-Mordor, non potremo mai sfuggire a quella falce insanguinata, a quel martello russo. Il drago carnivoro risorge dalle ceneri per divorarci, neonati di qualità sopraffine, maschi e femmine, dagli occhi spalancati, sott’aceto nel succo della storia. “Che facciamo, allora?”, dice la signora. “Meglio ridere, donna. Siamo a Odesa”.

Penso a ciò che mi è stato detto da un amico scrittore: “Odesa deve piangere ogni tanto”. Dov’è la tristezza? Come si fa a piangere all’aperto? Continuo a camminare ma, invece del centro benessere vedo il fumo nero che copre il cielo. Sono in via Babel e due bambini sghignazzanti sono alla ricerca di pezzi di missile russo sul marciapiede, accanto alle caselle segnate in gesso del gioco della campana. Mi chiedo se ne faranno dei “segreti” – denti di drago sotto il vetro – tiro fuori il mio cellulare e mi preparo a scattare istantanee della sfuggente, assurda, triste, buffa verità di Odesa.

 

*

RITORNO AL MARE

Un saggio dall’Ucraina di Elena Andreychykova

 

GLI ESSERI UMANI SONO CREATURE STRANE. C’è l’opportunità di lasciare il proprio Paese, in cui è in corso una guerra crudele. C’è l’opportunità di andarsene e di vivere in sicurezza, di continuare a lavorare lì, di fare volontariato a distanza, di sperare da lontano che tutto questo finisca presto.

In realtà, sono partita nei primi giorni con mio figlio e mia madre, quando c’è stato un tentativo di attacco all’aeroporto di Odesa. Siamo andati in macchina a Istanbul e siamo rimasti lì per due mesi. Quando siamo partiti, non c’era tempo per pensare a come continuare a vivere. Avevo paura per mio figlio e mia madre; mi concentravo solo su come lasciare rapidamente l’Ucraina, perché alle frontiere le file erano chilometriche.

Sono tornata per una settimana a Odesa per vedere mio marito e mi sono resa conto di quanto mi sentissi straniera, lontana da casa. Sono solo di passaggio a Istanbul. Esisto e basta. Non amo il sapore del cibo, anche se prima il cibo turco mi sembrava sempre squisito. Non sento l’odore del verde che si risveglia dopo l’inverno. Mi costringo a guardarmi intorno e a distrarmi, ma i miei occhi tornano sempre al cellulare e alle notizie. Come faccio a costringermi a godermi questa città esotica quando l’unica cosa che voglio è essere a casa? C’è anche lo stesso Mar Nero, ma non fa per me. Ho bisogno del mio Mar Nero: delle mie spiagge, con la mia sabbia, su cui camminavo da bambina. I miei gabbiani gridano in modo diverso, le mie alghe hanno una maggiore concentrazione di iodio, le mie conchiglie hanno una forma diversa. Perché mai non l’ho apprezzata come la apprezzo ora?

Alla fine di aprile comunico a tutti i miei parenti il mio ritorno. Anche mio figlio, che ha undici anni, chiede di tornare a casa di sua nonna, che ha un seminterrato. “Sai, sono un ragazzo coraggioso”, dice. Anche mia madre insiste per il suo ritorno. Ha la sua argomentazione: suo figlio (mio fratello) è a casa; lei stessa non ha più paura. Ma in realtà vuole solo andare al nostro mare.

A maggio riprendiamo il cammino. Passiamo per la Turchia, la Bulgaria, la Romania. Pare che il Mar Nero sia anche questo. Lo vediamo quando facciamo le nostre soste; anche questo è piacevole e quasi sostituisce l’immagine tanto attesa della nostra costa.

Ma no.

Queste coste mi ricordano le nostre. Fanno battere il cuore un po’ più forte. Ti inducono a credere che sei vicino, che presto sarai a casa. Presto potrai avvicinarti all’acqua che per composizione salina è simile al tuo sangue. La tua potenza desossiribonucleica.

Arriviamo a Odesa il 6 maggio. La prima cosa che faccio è andare al mare.

Sono a casa.

È incredibile. Nonostante le sirene, il rumore delle esplosioni, mi sento molto contenta qui. È uno stato d’animo stupido, contraddittorio, lacerante.

Non ha senso mentire, soprattutto a se stessi. Ho paura come tutti gli altri. Sono triste come tutti gli altri. Odio, mi arrabbio, soffro e precipito nella disperazione.

Contenta non per qualcosa, ma nonostante.

Ancora di più che nell’infanzia. Anche se la mia infanzia è stata assolutamente felice.

E sicuramente più che in gioventù. Anche se ci sono anche molti episodi all’insegna della dopamina.

E qualsiasi altro giorno prima dell’inizio della guerra. Perché non sapevo come apprezzarla, la felicità.

Un mio amico mi ha detto: “Non hai di che vantarti. La tua felicità è arrivata a tempo scaduto”.

Stavo per sentirmi in colpa, ma ho cambiato idea.

Forse ha ragione. Probabilmente. Più che probabile. Ovunque c’è dolore. Tanto dolore. Dentro. Fuori. E in profondità. E trasversalmente.

Ma sono felice. Disperatamente felice. Solo per il fatto che riesco a sentire qualsiasi sentimento. E posso ammetterlo. Perché non avrò un’altra occasione. Per esempio, andare al mare. E ci vado oggi. Perché chissà cosa succederà domani?

Gli odessiti, ovviamente, sono degli ottimisti invincibili. Ogni mattina, quando vado al mare, incontro molti amici e conoscenti. Quasi tutte le spiagge sono chiuse, ma loro trovano modi per aggirare l’ostacolo. Non si può nuotare; la probabilità di incontrare una mina è più alta che quella di imbattersi in una medusa. Ma quando i cittadini di Odesa lo desiderano davvero, riescono a farlo. Una specie resiliente, che perfino adesso ride.

“Cara, se vuoi nuotare, vieni prima delle nove del mattino”, mi insegna un vecchio abbronzato. “Così presto, a quell’ora, la polizia non c’è. Ho controllato”.

La mattina dopo seguo il suo consiglio.

Non ho mai visto un’acqua così limpida nel Mar Nero. Pulita, scintillante al sole. Branchi di pesci impavidi. Dicono che anche i delfini e i piccoli squali hanno iniziato a nuotare molto vicino alla riva. È probabile che siano stupiti dalla sparizione dei bagnanti. Il mare è calmo, luminoso, sereno. Guarda con saggezza l’umanità e scuote leggermente le onde.

“Tutto passerà”, dice. “Tutto passerà, ma io resterò”.

E noi lo sentiamo.

Ogni mattina vengo qui per ricevere questa saggezza e questo potere. Tornando a casa, raccolgo le amarene del vicino. Stringo leggermente le labbra, ma poi sorrido. La sento in questo momento. Sento la vita. E in questo momento non c’è niente di più importante. Mai avrei voluto che la guerra mi insegnasse questa sorta di edonismo. Ma è già successo, non si può cambiare nulla.

Spero che la guerra finisca presto e che la mia capacità di dissolvermi in sfumature di sapori, odori e suoni rimanga con me. E avrò ancora la possibilità di nuotare lontano? E di pescare? Amo la pesca fin dall’infanzia. Immagino come catturare un secchio di ghiozzi e portarli a casa per friggerli. Assaporo questo gusto con tutta la forza di una rinnovata capacità di apprezzare la vita. Con tutta la mia potenza desossiribonucleica.

 

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Defrost: esorcismo e universalità del dolore

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di Fabio Ciancone
  

Defrost è la prima raccolta di Diletta D’Angelo, pubblicata da Interno Poesia a novembre 2022. Lo “scongelamento” che intitola il libro è la metafora del tentativo, da parte del soggetto poetico, di trovare una dimensione personale e identitaria nella quale riconoscersi, libera da condizionamenti. È la ricerca di una chiave per distaccarsi da meccanismi quotidiani di violenza, di sopraffazione, di paura. Questa ricerca si muove su due binari principali: da una parte la ricostruzione e l’esorcizzazione di un trauma, cioè aver assistito al brutale incidente della propria sorella; dall’altra il personale tentativo di allontanamento dalla dimensione familiare, clanica e per certi versi asfissiante delle proprie origini. È la paura che porta il soggetto a congelarsi, a rimanere inerme di fronte al proprio terrore; è la stessa paura che impedisce di distaccarsi dalla “colonia”, come viene chiamata nel testo, «un’aggregazione strutturata: gerarchizzata, instabile, tumultuosa»

Queste due traiettorie sono implicitamente dichiarate per mezzo della poesia proemiale e del componimento che apre la prima sezione dell’opera. La figura della sorella è messa in parallelo con quella di Phineas Gage, un uomo vissuto nella seconda metà dell’Ottocento che, a seguito di un incidente per certi versi simile al suo, aveva subito profonde mutazioni della personalità. Non è un caso, quindi, che quasi tutte le poesie dal titolo Replaced, nelle quali è tematizzato il rapporto dell’io con la sorella, siano affiancate a un componimento intitolato, per l’appunto, Phineas Gage. Peraltro, la “sostituzione” indicata dal titolo ha grande rilevanza semantica in questa dinamica: trovare se stessa, infatti, significa anche perdonarsi e farsi perdonare per la sensazione di averla rimpiazzata: «Vorrei solo dirti scusa scusa non ho saputo guardare oltre i tuoi resti/ ti ho rimpiazzato il crescere vincere perdere provare/ tolto il ridere vivere respirare guarire».

La lirica che apre la sezione Anamnesi, dal canto suo, ha al centro il richiamo metaforico alla nascita, al distacco dalla propria origine vitale e quindi, in qualche modo, a una trasformazione: «Capita che piccole falene sboccino da buchi nelle porte,/ che sopravvivano durante la fase larvale in strette gallerie scavate con la bocca». È proprio il “passare attraverso il buco”, nonché la fatica che questo sforzo comporta, l’immagine topica usata più spesso da Diletta D’Angelo per rendere l’idea dell’attraversamento, del passaggio da una dimensione a un’altra. È un distacco brutale, quasi violento («Lavava i piatti come si scortica una cotenna […]. Cercava di lavare se stessa, di farmi uscire fuori o di ammazzarmi»), ma avvertito come una profonda necessità («Vorrebbe staccarsi da ciò che è ora, da ciò che mostra di essere […]. Ha vent’anni ventidue o ventitré, non ha ancora imparato a riconoscersi»). 

La raccolta è divisa in quattro sezioni: Anamnesi, Auscultazioni, Incisioni, Anatomie. Queste scelte lessicali, è facile intuirlo, devono molto al linguaggio tecnico di ambito medico-scientifico. Lo stesso si può dire, più in generale, delle scelte linguistiche dei singoli componimenti: il freezing, ad esempio, il congelamento che dà il titolo ad alcune poesie, è un meccanismo di difesa animale che porta l’essere vivente a fingersi morto in risposta alla paura o al pericolo; così anche le flashbulb memories, lampi di memoria nitidi e improvvisi, appartengono al linguaggio psicologico; il già citato replacement, in medicina, è la rimozione e sostituzione dei tessuti danneggiati. Sovrapposizioni semantiche con l’oggetto stesso delle poesie, dunque, evidenti.

Che sia possibile, all’interno della struttura lirica, rinvenire le tracce di un vero e proprio percorso narrativo? Se ci fosse, esso sarebbe da ricercare non tanto nella presenza di una trama, quanto piuttosto nell’evoluzione che porta il soggetto poetico dall’anamnesi, ovvero dal puro ricordo, fino all’anatomia, al rapporto carnale con il corpo e con il dolore, in un cammino sensoriale che attraversa prima l’ascolto delle pulsioni corporee e poi il taglio fisico della carne. Non è un caso, probabilmente, che gli unici componimenti a essere numerati sono quelli intitolati Freezing e Flashbulb memories, come se il rapporto con la paura e il ricordo del trauma evolvessero con l’avanzare del testo. Nella sezione Incisioni, ad esempio, il ricordo dell’incidente, dapprima «fuori fuoco», si fa sempre più nitido.

Il ricorso a immagini vivide e carnali è un elemento fortemente caratterizzante della poesia di D’Angelo. Più volte viene evocata l’incisione della carne, la frattura, il taglio, non soltanto in relazione all’incidente di cui si è già parlato, ma anche, parallelamente, alla carne animale, con la descrizione cruda dei processi di macellazione. Il ferro è, di conseguenza, un materiale nominato in modo quasi ossessivo: il ferro delle panchine davanti alla propria casa, il ferro delle aste, dei chiodi e dei bulloni, i metalli che incidono la carne animale da macello. I riferimenti a elementi concreti si rincorrono a tenere insieme le diverse traiettorie della poesia, a formare in ultima analisi una raccolta allo stesso tempo straniante e unitaria. 

È bene specificare che la memoria e l’analisi interiore, quasi clinica, che danno consistenza al testo non possono essere risolte in una banale rievocazione autobiografica, ma piuttosto sono la resa assoluta di questo dolore e di questo esorcismo. Lo dimostra l’immagine del vitello in apertura al libro (figura poi ripresa con il nome di Tiresia, peraltro uno dei soli due casi di figura con un nome proprio), che simboleggia non tanto un animale specifico, quanto l’universalizzazione della condizione animale per come è trattata da D’Angelo.

La poesia, in questo contesto, si fa mezzo per dare forma alla paura, per ordinare traumi e ricordi. Nella struttura in versi assume senso e viene pacificata la relazione disforica con gli eventi. I versi lunghissimi, tendenti quasi alla narrativa, alternati a passaggi in prosa, rivelano un uso sapiente del ritmo e delle strutture della frase. È una via non solo per indagare sé stessi, ma anche per dare voce all’alterità, per scongelare il rapporto con il diverso. 

Ed effettivamente la raccolta si chiude con una nuova consapevolezza, con l’appello a un tu (che forse nasconde un io) a ricordarsi che «ci sono cicli di glaciazione, fasi interglaciali». È un percorso che, in ultima analisi, conduce a capire «[…] che la rigidità si può sciogliere in piccole gocce d’acqua, che può tornare/ (in qualche modo) alle gambe il movimento».

Appendice

Replaced

So di aver avuto ogni cosa

infinite le possibilità di sbagliare, di riprovarci

Quando tua sorella si esercitava stendeva un disegno di tasti

non produceva suoni neanche allora, non poteva ascoltarsi

Sei da sempre l’urlo mai sentito così forte sull’asfalto

il bullone piantato fra le ossa, forse per sbaglio

Freezing II

Mi hanno insegnato ad avere paura

delle cose che possono capitare:

dormire con gli elastici ai polsi; accarezzare gli animali

degli altri; storcere gli occhi; sporgersi troppo dalle finestre; ingoiare

prosciutto e uova sode; attraversale la strada davanti casa;

camminare sul marciapiede

Flashbulb memories III

Colpi di cuoio su un enorme sacco di sabbia ricordo

solo il rumore

di calci sordi presi lungo le scale di casa

tu ferma sensibile a niente, piccole mani che mollano una presa instabile

il fiume di carte da gioco che scivola nelle fessure del legno (poi perse per sempre)

 

dell’evento nessune immediate conseguenze

 

Oggi ripetiti che è tutto vero. Che nella fluidità delle cose possono incastonarsi piccole gemme di sale, che non per forza debbano sciogliersi tra le mani e insieme che possono sciogliersi immediatamente. Ricordati che ci sono cicli di glaciazione, fasi interglaciali.

Che il ferro alla bocca può portare nutrimento. Reggi, custodisci, governa, affidati. Che si nascondono in tutte le cose vergognose tare, lotte inconfessabili.

Le parole della scienza 1: la Donzella crea l’insieme

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La Compiuta Donzella

La Compiuta Donzella

di Antonio Sparzani
Una delle prime parole che compaiono nei manuali di matematica è la parola insieme. E il primo capitolo è spesso dedicato alla “teoria degli insiemi”. Io mi sono chiesto sia da dove salta fuori questa parola insieme sia poi come abbia fatto a diventare un vero sostantivo, da avverbio che era all’inizio. Per soddisfare la mia curiosità sono andato a guardare alcuni sacri testi e naturalmente ho capito che, come spesso accade, occorre scavare nel latino.
Nel latino dell’età postaugustea – la prima testimonianza che se ne ha è nelle opere del poeta P. Papinio Stazio (circa 45 – 96 d.C.) – si forma la parola insimul, talvolta insemel, col significato di “allo stesso tempo”, “tutto in una volta”. Essa sottintende vicinanza di tempo e di luogo, contiguità di esistenza. La parola si afferma e rimane, e trapassa, attraverso il latino medievale, in varie forme della lingua volgare, nel nascente italiano, fino a comparire nel Duecento, per la prima volta documentata nel primo dei deliziosi sonetti della Compiuta Donzella. Vari studiosi hanno messo in dubbio l’esistenza stessa o quanto meno l’identità di questa sfortunata donna fiorentina, primo esempio nella nostra letteratura del topos della donna infelice oppressa dai propri familiari, topos che avrà forse nella dolorosa vicenda cinquecentesca di Isabella di Morra un suo drammatico esito.

Prendetevi il tempo di leggere il sonetto di questa Donzella (si discute anche se Compiuta sia il suo nome vero, piuttosto che un fittizio appellativo) per il puro piacere, e per un filo di com-passione, di ascoltare un lamento così accorato e gentile:

A la stagion che ‘l mondo foglia e fiora
acresce gioia a tut[t]i fin’amanti:
vanno insieme a li giardini alora
che gli auscelletti fanno dolzi canti;

la franca gente tutta s’inamora,
e di servir ciascun trag[g]es’inanti,
ed ogni damigella in gioia dimora;
e me, n’abondan mar[r]imenti e pianti.

Ca lo mio padre m’ha messa ‘n er[r]ore,
e tenemi sovente in forte doglia
donar mi vole a mia forza segnore,

ed io di ciò non ho disio né voglia,
e ‘n gran tormento vivo a tutte l’ore;
però non mi ralegra fior né foglia.

(testo in Poeti del Duecento, a c. di Gianfranco Contini, vol. I, t. I, Ricciardi, Milano-Napoli 1995, p. 434)

Certo ancor oggi ciò che lamenta la Donzella non è sparito dalle pratiche di homines poco sapientes di varie nazionalità.
È poi d’obbligo ricordare un passo ben più famoso, ma ove il significato è del tutto analogo, quello del quinto canto dell’Inferno dantesco, quando Dante chiede a Virgilio di poter parlare con quei due, s’intende Paolo e Francesca, che se ne vanno per la bufera infernal che mai non resta, sì, ma sempre, si noti, saldamente abbracciati (un esempio di contrappasso non completamente spiacevole):

I’ cominciai: “Poeta, volontieri
parlerei a quei due che ‘nsieme vanno,
e paion sì al vento esser leggieri”.

(Dante, Inferno, canto V, vv. 73-75)
Queste prime accezioni del termine sembrano dunque del tutto naturali: si vuol indicare una forte vicinanza. Quando un termine incontra successo nella lingua, questa tende a estenderlo e a trascinarlo ad altri usi e ad altre funzioni. Vi è un certo momento nella storia linguistica d’Italia nel quale l’avverbio, talvolta locuzione prepositiva `insieme a’, `insieme con’ viene promosso a sostantivo. Si comincia a poter dire “l’insieme di” o “l’insieme dei”. Mentre il primo uso attestato di questo tipo risale al nostro Cinquecento, mi pare più interessante citare qui un passo della celebre Storia della Letteratura Italiana di Francesco De Sanctis (Morra Irpina 1817 – 1883); l’autore sta parlando del Decamerone, e argomenta in modo assai suggestivo sulla capacità di Boccaccio di adeguare la struttura del suo periodare alla complessità dei fatti raccontati:

“Perché il fatto non è come l’idea, uno e semplice, ma come il corpo, è un multiplo, un insieme di circostanze e di accessori. Questo insieme è il periodo, il quale nella sua evoluzione è ciò che in pittura si chiama un quadro. Aggruppare le circostanze, subordinarle, coordinarle intorno ad un centro, ombreggiare, lumeggiare, è arte somma nel Boccaccio.”

(Francesco De Sanctis, Storia della letteratura italiana, 2 voll., Salani, Firenze 1965; I° ed. Morano editori in Napoli, 1870-71, vol. I, p. 397.)

Il sostantivo insieme appare dunque nella lingua naturale con la funzione di indicare un raggruppamento di oggetti, concreti o astratti, animati o inanimati, accomunati da una qualche caratteristica, da una qualche loro proprietà; in musica si usa il corrispondente francese ensemble per indicare un gruppo, solitamente più contenuto di un’orchestra, di artisti che suonano sistematicamente insieme. Come sempre succede, la scienza, che pure è costretta a servirsi del linguaggio naturale, pesca in questo grande magazzino termini che la aiutino a esprimere e a precisare i suoi concetti. E tale scelta può ben dipendere dalla lingua che si considera. Per quest’idea, che stiamo cominciando a mettere a fuoco, l’inglese usa la parola set, che proviene da una metafora completamente diversa che non lo `stare insieme’ e il tedesco usa Menge che ha a che fare con l’idea di mescolanza. Il russo množestvo fa riferimento all’idea di moltitudine. Le lingue romanze (con l’eccezione del romeno che utilizza il termine di origine slava molţime) si affidano invece all’idea comune espressa dall’italiano insieme, dal francese ensemble, dal castigliano e dall’identico portoghese conjunto, e dal catalano conjunt.
Naturalmente il punto di vista della matematica è il più neutrale possibile. Si parla di insieme non appena è individuata una certa famiglia di oggetti che hanno qualcosa in comune. Il che significa: un insieme può venire individuato da una determinata proprietà, oppure anche in un modo più debole: posso ostensivamente indicare alcuni oggetti e dire “l’insieme di questi oggetti”, o posso semplicemente elencarli, senza indicare una specifica proprietà comune, salvo, autoreferenzialmente, quella di essere stati da me indicati o elencati.

Il capitolo iniziale della moderna matematica si occupa proprio delle regole che si devono rispettare per poter parlare di un insieme e del come gli insiemi possono essere usati e combinati tra loro: è la cosiddetta teoria degli insiemi. Questa, che è oggi parzialmente insegnata fin dalla scuola media, con l’infelice nome di `insiemistica’, ha incontrato nella sua storia novecentesca, accanto a un notevolissimo sviluppo, impreviste difficoltà. Per quanto possa ingenuamente apparire priva di rischi logici, la nozione stessa di insieme si è invece rivelata particolarmente delicata e quindi rigogliosa fonte di paradossi e antinomie.
Tutte difficoltà connesse ad esempio alla frase “consideriamo l’insieme di tutti gli insiemi”: sarà un insieme? Apparterrà a se stesso? Mah. Su quel che segue qui mi guardo bene dal soffermarmi.

L’educazione come liberazione. Per una critica del macchinismo pedagogico

2

di Giovanni Carosotti

La “Scuola del macchinismo” di Davide Viero (Mimesis, Milano, 2020, euro 14) è un libro necessario per diversi ordini di motivi: da una parte perché rilancia modalità di riflessione interne alla professione docente sempre più lontane dalla percezione della categoria; e in ogni caso indispensabili per restituire consapevolezza sul senso di un agire, quello didattico, mortificato dall’imposizione di approcci tecnocratici e mortificanti, di cui è responsabile proprio il “macchinismo” del titolo, una deriva, al limite dell’impostura intellettuale, della recente ricerca pedagogica, egemone ormai in buona parte delle facoltà di scienze della formazione. Lo studio di Viero induce allora a ripensare profondamente il senso stesso della disciplina pedagogica, umiliata da un’impostazione deterministica e positivistica, che spaccia il proprio approccio dogmatico ai problemi della conoscenza come fosse una procedura scientifica in qualche modo verificata, e quindi non evitabile. L’importante studio di Gert Biesta, tradotto in Italia all’inizio del 2022 (Riscoprire l’insegnamento), ha avuto, tra gli altri, anche il merito di mostrare le potenzialità di un pensiero pedagogico coincidente in modo profondo con la riflessione filosofica, nella migliore tradizione della cultura occidentale. Nel caso di Biesta, il riferimento principale era al pensiero di Levinas, nella sua apertura alla dimensione dell’alterità come spazio del novum, senza il quale non ha senso l’esperienza stessa della trasmissione del sapere; ridotta invece, nella versione pedagogistica, a una dimensione narcisistica, a puro rispecchiamento del proprio sé, alla valorizzazione delle proprie doti di partenza, alla conferma ossessiva del proprio ambiente d’esistenza, fortemente competitivo, inteso come l’unico possibile e anche desiderabile. Lo studio di Viero va ancora più in profondità in questa direzione; è un libro concreto, che parla di scuola, a partire dall’esperienza professionale quotidiana dell’Autore (senza cadere però in uno sterile riferimento personalistico, come è accaduto in altri casi); ma che, nello stesso tempo, fonda l’acuta analisi che viene proposta su profondi riferimenti di carattere filosofico e letterario. Per ribadire come, senza una visione del mondo declinata secondo i criteri dell’interpretazione e della trasformazione, che si opponga alla legittimazione dell’esistente, non può scaturire una teoria dell’educazione efficace, capace di acquistare valore nella dimensione pluralistica del confronto culturale. Alla pedagogia, in effetti, non si può attribuire alcuna rilevanza in assenza di un profondo legame con la disciplina filosofica; e l’anti filosoficità (ma direi anche anti scientificità) del pedagogismo egemone dei nostri tempi è sintomo della dimensione servile (alla logica neoliberale) nonché antiutopica (rendere impossibile una critica dell’esistente) a cui è prona ormai anche buona parte dell’intellighenzia universitaria. Una pura logica tecnocratica finalizzata a un disvalore: un’utilità pratica di cui non si indagano le ragioni né le ricadute sul piano etico e della concreta vita degli individui; né i processi di alienazione che essa in qualche modo produce.

I riferimenti di Viero sono numerosi e plurali; i due principali sono però quelli, rispettivamente, a Luigi Pirandello e a Ernst Bloch. Già nel commentare su questo portale lo studio di Biestia, avevamo suggerito la possibilità di ampliare il riferimento filosofico da Lévinas a Bloch, dalla dimensione dell’alterità a quella, coincidente ma più ampia, dell’utopia. Il macchinismo, scrive Viero, «diventa problematico una volta che viene persa la trascendenza, e con essa la dialettica mezzi-fini subisce una riconfigurazione, con il mezzo che diventa fine, prospettando quella che Anders chiama “inversione prometeica”.» Il macchinismo, poi, «si traveste assumendo, nella scuola, la forma dei metodi, delle tecniche e delle procedure, nuove macchine molto più silenziose ma non meno alienanti». Pirandello diventa, da questo punto di vista, un interprete irrinunciabile di tale antropologia negativa, «che sfocia in esiti individualisti e nichilisti». I testi maggiormente citati sono il saggio L’umorismo e la critica alla cinematografia contenuta nei Quaderni di Serafino Gubbio operatore. La riduzione dell’umanità a pura protesi di una razionalità esclusivamente meccanica («Che cosa siete voi? Una mano che gira una manovella») che toglie all’uomo la dimensione di superfluità, gli azzera l’energia vitale costringendolo entro orizzonti di senso prestabiliti; ovvero, come viene scritto ne Il fu Mattia Pascal, il «triste privilegio: quello di sentirci vivere» viene riempito «con una realtà fuori di noi.» Non è difficile proiettare quanto qui espresso nella degenerazione che la scuola pubblica italiana ha conosciuto in questi decenni a seguito della radicale azione riformatrice: una soggettività, quella dello studente, che deve essere piegata alla logica deterministica imposta dalla ragione neoliberale, che non prevede l’esercizio di un’intelligenza capace di immaginare l’alterità (Levinas, Biesta) o il novum (Bloch), ma destinata ad aderire incondizionatamente all’esistenza. Decisivo è, in questo senso, il noto, nonché sciagurato, costrutto di competenza («[…] può essere vista come il tentativo […] di separare l’intenzione dell’azione dalla stessa azione, portando l’attenzione solo sul risultato concreto e tangibile di quest’ultima, trascurando ogni teleologia e chiudendo il senso del fare nel tautologico e pedissequo “si fa perché si deve fare”.» In altre parole, solo determinate procedure, che il docente non ha la preparazione per determinare da sé, possono raggiungere i risultati attesi, coincidenti non con determinati livelli di emancipazione culturale, ma con capacità pratico-attive spendibili in contesti lavorativi. Non solo, Viero mette in evidenza anche la malafede ideologica di quest’impostazione pedagogistica, che pretende addirittura di valorizzare il pensiero critico, mentre invece è responsabile di una condizione d’ignoranza sempre più diffusa: «una scuola che fornisce finanche strumenti adattivi spacciati per spirito d’iniziativa come l’”inventarsi” un lavoro attraverso uno spirito imprenditoriale (animale) che maschera di iniziativa soggettiva l’adattamento alle condizioni date, in spregio all’art.1 della Costituzione, che sottende il lavoro come forma di espressione di sé.» Un quadro desolante, claustrofobico, proprio perché rinchiuso in un recinto dominato dall’alienazione,  dall’uniformità e dall’adesione conformistica a un modello di società fondato sulla gerarchia, la selezione, l’esclusione. Nel capitolo intitolato “alienazione”, tutto ciò viene ampiamente descritto.

É a questo punto che il testo propone la positività di un’aspirazione messianica, di uno sguardo alla trascendenza, all’immaginazione di un ordine diverso che solo può cercare di mettere in discussione la “gabbia d’acciaio” che l’ordine neoliberale vorrebbe imporre. Questo spiega il riferimento, in particolare nella parte conclusiva dello studio, al pensiero di Ernst Bloch, declinato nelle sue potenzialità pedagogiche. Giova ricordare che  Bloch teorizza un “trascendere senza trascendenza” e, nella sua aspirazione escatologica, rimane fedelmente ancorato a una prospettiva materialistico-dialettica, scevra però da quell’impostazione positivistica che aveva ridotto tale tradizione di pensiero a un banale schema metafisico.  L’autentica attività pedagogica, quella coerente con i valori costituzionali e destinata a favorire la formazione di una soggettività autonoma dal punto di vista della capacità critica, proprio impedendo che il sapere trasmesso si fossilizzi nell’ambito ristretto dell’esperienza soggettiva dell’alunno, per aprirsi invece all’alterità, coincide in effetti con ciò che Bloch scrive ne Il Principio-speranza: «far agire un tipo di sapere che non è più riferito in maniera essenziale a ciò che è già divenuto, ma alla tendenza di ciò che sorge; in tal modo esso per la prima volta offre il futuro alla presa teorico-pratica», laddove si evince come non si tratti affatto di un sapere astratto, ma di una valorizzazione della tensione teoria-prassi, indispensabile per immaginare processi di trasformazione. Laddove invece  nella scuola riformata l’ossessione sulla pratica, sulla laborialità, in assenza di assunti teorici, spinge esclusivamente ad attività etero-dirette, a “comodi pre-pensati”, a un operatività indotta dove il soggetto cessa di essere protagonista. Nella prospettiva volta alla trascendenza, scrive Viero, «l’educativo cambia statuto epistemologico e da scienza passa al campo, aperto, dell’arte.» Un’azione di resistenza contro «la ratifica del mondano e all’azione educativa come opera di adattamento». Un testo che riprende una considerazione pedagogica decisiva, relativa alla critica del gusto, piuttosto trascurata: la regressione del bagaglio di conoscenza delle nuove generazioni è strettamente collegata alla diminuita attitudine ad accostarsi all’esperienza estetica (in termini di concentrazione, durata temporale, profondità ermeneutica), responsabile dell’incapacità di saper trascendere i propri orizzonte d’esistenza. Come scrive Pirandello -citato da Viero- nel saggio Arte e scienza: «perché il fatto estetico avvenga, bisogna che si abbia non l’espressione, la forma astratta, meccanica, oggettiva dell’intuizione, ma la soggettivazione di essa; […] bisogna, in altri  termini, che l’intuizione non sia l’espressione formata oggettivamente, ma la forma concreta, libera e soggettiva di una impressione». Il saggio si chiude dunque con questa celebrazione del ruolo didatticamente prioritario, in quanto decisivo per un potenziamento della capacità gnoseologiche, dell’arte, alternando in modo suggestivo citazioni pirandelliane e blochiane.

Un testo, quindi, che rappresenta una boccata d’aria fresca a confronto con la prosa deprimente e intellettualmente oppressiva del pedagogismo corrente, e importante nel suo ribadire come un discorso educativo non possa prescindere da una fondazione autenticamente filosofica; nonché il valore della dimensione estetica come esperienza conoscitiva emancipatrice. Una riflessione che dovrebbe essere fatta propria dalla categoria docente, per acquisire una capacità di resistenza culturale che vada oltre l’opposizione ai singoli provvedimenti, spesso interpretati in modo decontestualizzato. Per poter adeguatamente reagire, ribadendo la propria statura intellettuale, a mortificanti corsi di formazione cui saranno obbligatoriamente sottoposti nei prossimi anni; corsi privi di qualsiasi impostazione dialettica, e finalizzati a imporre procedure standardizzate d’insegnamento e, per ciò stesso, inclini a una relazione umana di tipo autoritario.

Maestri contro: Franco Brioschi, Guido Guglielmi, Ferruccio Rossi-Landi

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Un seminario a cura di Paolo Giovannetti, Andrea Inglese e Laura Neri

Milano, 10 febbraio 2023,

Aula Crociera Alta – Studi Umanistici, Università Statale di Milano, via Festa del Perdono 7.

Mattino: ore 9.30 – 13.15.

Interventi di: Laura Neri, Stefania Sini, Lorenzo Cardilli (su Franco Brioschi); Cecilia Bello, Stefano Colangelo, Massimiliano Manganelli, Chiara Portesine (su Guido Guglielmi); Andrea Inglese, Simona Menicocci, Ezio Partesana, Francesco Maria Terzago (su Ferruccio Rossi-Landi).

Pomeriggio: ore 15-18.

Dibattito aperto, anche a partire dai materiali distribuiti dai relatori nel corso della mattinata. Discussant: Giorgio Mascitelli.

Un incontro poco accademico su tre intellettuali, forse inattuali, certo non sufficientemente ricordati nella cultura italiana d’oggi. Un complesso di questioni letterarie e ideologiche che ribadisce pochi temi ricorrenti. L’incontro è rivolto anche e soprattutto agli studenti di UNIMI, che sono calorosamente invitati a intervenire nel dibattito.

Fondamenti della letterarietà

Uso e riuso dell’opera letteraria

Pragmatica del linguaggio

Letteratura come prassi sociale

Istituzioni letterarie

Ideologia e letteratura / Letteratura come ideologia

Ruolo del lettore letterario

Storicità dell’opera letteraria

Realismo e anti-realismo

[Critica dell’]Avanguardia

Mercato e letteratura

Poesia secondo istruzioni, a cura di Guy Bennett #3

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[Pubblicherò in cinque episodi su NI del materiale legato a un progetto promosso da Guy Bennett, poeta statunitense. Si tratta di un’opera collettiva di poesia generativa che ha coinvolto 60 poeti, artisti e designer per un totale di 140 testi prodotti. Non vi è un’unica lingua di riferimento, anche se la maggioranza dei testi è stata scritta in inglese e in francese. Infine tutti i testi sono stati raccolti in un catalogo digitale con un’introduzione e un ricco apparato paratestuale. Questo terzo episodio presenta una nuova campionatura: sette nuovi testi di sette autori diversi (e altrettante istruzioni di riferimento). La campionatura precedente qui. E il primo episodio  – che include: progetto + intervista al curatore + 99 istruzioni trilingue – qui.]

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Jacques Jouet, Sans titre (Instruction 72)

Krystle May Statler, A Fifth Grader Cries Outside The Elementary School Around The Corner (Instruction 51)

Michèle Audin, Sans titre (Instruction 39)

Eli Sanchez, Untitled (Instruction 97)

Guy Bennett, Seiichi Niikuni’s “RIVER / SAND-BANK” revisited, 2022 (Instruction 54)

Eduardo Berti, “El gaucho Martín Fierro” (1872) (Instruction 49)

Daniel Cabanis, Balbutiements (Instruction 46)

⇓   •   ⇓

SANS TITRE

72 : Un poème de vers superposés les uns sur les autres.

  • Jacques Jouet

 

A FIFTH GRADER CRIES OUTSIDE THE ELEMENTARY SCHOOL AROUND THE CORNER

51: A poem overheard.

  • Krystle May Statler

 

I’m going to fucking kill him

he was talking about my mom

no one hits me and gets away with it!

 

NO ONE hits me and gets away with it

I’m going to fucking kill HIM!

He was talking about MY mom!

 

He was talking about MY MOM!

No one hits ME and gets away with IT!

I’m going to FUCKING. KILL. HIM!!

 

SANS TITRE

27 : Un poème dans lequel aucun mot ne paraît deux fois.

  • Michèle Audin

 

Une fois

deux fois

trois fois

 

UNTITLED

97: A poem that makes you happy you’re not a poem.

Eli Sanchez

 

“Life of a Haiku.

Keep five, seven, five, always.

I could not, could you?”

 

If only they knew,

The laws each poem obeys,

They would feel sad too.

 

Limericks aren’t new.

All of them sound like cliches!

Stuck to rules like glue.

 

Some may feel taboo.

Elegies may cause malaise.

Bad taste, through and through.

 

Sestinas are blue.

Fixed in place, everything stays.

The unlucky few.

 

Your words, you will rue,

And my structure, you will praise,

You know this is true.

Besides, I’m a villanelle, so what’s all the hullabaloo?

 

SEIICHI NIIKUNI’S “RIVER / SAND-BANK” REVISITED, 2022

54: A poem deeply distressed by the enormity of the climate emergency.

  • Guy Bennett

You may revisit the original here 

 

“EL GAUCHO MARTÍN FIERRO” (1872)

José Hernández (Argentina)

49 : Un poème qui est tout ouïe.

  • Eduardo Berti

 

À qui mais pont go à canne tard

Halle qu’on passe dès la vie où est là

Halle ombre quai l’eau déese vais là

Où n’as paix n’as extra ordi n’as riz ah

Comme eau elle avait saule y t’as riz ah

Qu’on elle canne tard c’est qu’on souhait là

 

Pie d’eau à Lausanne taux d’elle si elle eau

Quai ajout d’haine mie peine ça mienne tôt;

Laisse pie d’eau haine Est thé mot mêne tôt

Quai veau y ah canne tard mise taux riz ah,

Mais raie fresque là mais mot riz ah

Y à Clare ennemi antenne dit mienne tôt.*

 

BALBUTIEMENTS

46 : La traduction homophonique d’un poème visuel.

  • Daniel Cabanis

*

José Hernández

El Gaucho Martín Fierro

I

Aquí me pongo a cantar
al compás de la vigüela,
que el hombre que lo desvela
una pena estrordinaria,
como la ave solitaria
con el cantar se consuela.

Pido a los santos del cielo
que ayuden mi pensamiento:
les pido en este momento
que voy a cantar mi historia
me refresquen la memoria
y aclaren mi entendimiento.

OSTRAKON – Alessandro Ghignoli

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Estratti dal libro Ostrakon di Alessandro Ghignoli, Anterem Edizioni, 2022

                                     la follia è una dialettica ordinata VII



                                    consegnarsi agli strati dei colori inermi
                                             alla trasparenza dei passi
                                                    dal contrario
                                             alla trasparenza dei passi
                                    consegnarsi agli strati dei colori inermi
                                             nella distinzione delle cose 
                                                 lontananze del fondo
                                             nella distinzione delle cose
                                    consegnarsi agli strati dei colori inermi

***

                                     la follia è una dialettica ordinata II



                                             nudo il corpo il nudo corpo
                                               vissuto incarnato corpo
                                                   nudo corpo nudo
                                               vissuto incarnato corpo
                                             nudo il corpo il nudo corpo
                                                  nudo nel dopo nudo
                                                   carnefice corpo
                                                 nudo nel dopo nudo
                                             nudo il corpo il nudo corpo

***

ogni verso è grido di perdono
ogni verso è grido di perdono
poi continuano a morire
e le lingue allontanarsi da me
ogni verso allontanarsi
ogni grido di perdono
poi dopo sempre 
la stessa preghiera
l’odore del dolore
il grido di ogni verso

***

[…] ho chiesto a me ho chiesto ho chiesto a me ho chiesto se tutto fosse tutto nella notte tutta se ero me se tutto era vuoto le ore nella notte le misure interrotte se vere le cure ho chiesto le prove della notte il limite a me ho chiesto se fosse ancora tutto se tutto era misura era o fosse o forse non era in questa frontiera ma nella fine dei fatti in questa fiera ho chiesto a me se ancora i confini della lingua se ancora erano o furono da trapassare a me ho chiesto se le paternali parole della gorgia mi dissero il giusto e l’errato il come o l’adesso foriero o ancora il dove la dose di scritto e di parlato ho chiesto a me nell’inferno interno me se adesso e ancora e dietro il vetro di un riflesso è successo spesso che ho chiesto a me se fosse tutto se […]

esergo
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 


se anche se anche nel 							                                        un ancora un passato
un continuo alcuno sono in                                                                                                    queste crepe 
in                                 queste                                      rese                                         sono le intese

La vie en bleu ( France): laboratorio di scritture

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@Sergio Trapani

Frutto della collaborazione tra l’Università di Bologna e l’Associazione Emilia-Romagna di Parigi, grazie al contributo dell’Assemblea legislativa – Consulta degli emiliano-romagnoli nel mondo, l’atelier tenutosi alla librairie italienne Tour de Babel è stato ideato e organizzato da Giulia Molinarolo (sua l’introduzione al dossier) per consentire la fruizione comunitaria di uno spazio libero, dialogico e formativo nel quale raccontarsi. Qui di seguito l’ouverture firmata da Wu Ming 2 che lo ha animato.Vi proponiamo a seguire gli incipit dei diversi racconti offrendo la possibilità a chi lo volesse di leggerli per intero nel pdf che è possibile scaricare qui. Le foto che accompagnano gli articoli fanno parte del progetto Parigots, di Sergio Trapani.

Patrizia Molteni & effeffe Rivista Focus-in 

@Sergio Trapani

Storia di un sabotaggio

di

Wu Ming 2

I nove racconti che seguono sono il prodotto di un laboratorio di scrittura che ho cercato fin da subito di sabotare. Un obiettivo che suonerà schizofrenico dal momento che ho anche accettato di prendermene cura. Lettori e lettrici giudicheranno quale proposito mi sia riuscito meglio e se esista davvero una contraddizione fra i due.
Scopo dichiarato del laboratorio era la stesura di testi narrativi, autobiografici, basati sull’esperienza migratoria di chi avrebbe partecipato, ovvero persone d’origine (o d’adozione) emiliano-romagnola residenti in Francia, per studio o per lavoro, per molti anni o per pochi mesi.
Il mio scopo inconfessabile, invece, era quello di evitare il racconto di sé. Non perché provi una particolare antipatia per il memoir o l’autofiction, a parte le loro derive più ombelicali. Il punto è che sono generi in cui mi muovo con imbarazzo e scarse competenze: prova ne siano queste poche righe.
Si dirà che allora avrei fatto meglio a lasciar perdere. Un vegetariano non vorrebbe mai condurre uno stage sul ragù alla bolognese. Ma mentre le alternative senza carne della famosa salsa petroniana sono considerate veri e propri vandalismi, la letteratura consente di rappresentare il proprio vissuto con tante tecniche e linguaggi diversi, travestendo e stemperando quello che Gadda considerava il più lurido dei pronomi, un vero e proprio «pidocchio del pensiero».
Ora, dal momento che otto racconti su nove sono scritti in prima persona, sarebbe facile dedurre che l’ego, nel caso di specie, non è stato né travestito né stemperato, con buona pace dei miei inutili intenti.
Ma andiamo con ordine.
Abbiamo dedicato le prime due giornate del nostro laboratorio a una raccolta di aneddoti, storie ed episodi tratti dall’esperienza migratoria di ciascuno. Un modo per “partire da sé”, come ci hanno insegnato i movimenti delle donne, sforzandosi così di arrivare a un “noi”. Prendere le mosse dalla propria quotidianità per raccontare chi siamo oltre gli stereotipi e le etichette che vorrebbero definire cosa siamo (emigranti, cervelli in fuga, italiani all’estero, generazione Erasmus…)
Qualunque narrazione, anche la più istintiva, si distingue dalla pura cronaca perché, come scriveva già Aristotele, «mira all’universale pur ponendo nomi propri», ovvero racconta una vicenda particolare non per comunicare quel che è accaduto, ma in virtù del suo significato, cioè di quanto potrebbe accadere ancora.
I brevi testi raccolti ci sono quindi serviti per seminare il terreno del confronto, coltivare la condivisione e raccoglierne i frutti, sotto forma di una nuvola di parole, un inventario di ingredienti e principi attivi nella chimica della migrazione.
Il passo successivo doveva consistere nello sceglierne alcuni per declinarli di nuovo in un racconto, anche di fantasia, non per forza riferito a vicende reali e vissute in prima persona.
Chi può stabilire se questa consegna – il mio piccolo sabot infilato nell’ingranaggio dell’autobiografia – è stata più o meno rispettata da chi ha partecipato al laboratorio?
Non mi dilungherò sull’importanza di distinguere l’autrice, la voce narrante e la protagonista di una novella, anche quando il testo è scritto in modo da identificarle con la stessa persona. A prescindere dalle finezze accademiche, mi chiedo fino a che punto sia possibile determinare, ad esempio, se Elisa C. sia davvero scesa nelle catacombe di Parigi, e dove stia il confine, in Buio nella città della luce, tra l’esperienza vissuta e la finzione. E mi chiedo, soprattutto, perché lo si dovrebbe stabilire, dal momento che il racconto sarebbe vero anche se fosse finto, appurato che il suo oggetto non sono le comunità dei cataphiles, ma i riti di passaggio che l’emigrante ricerca per trasformarsi in una del posto. Lo stesso si può dire per il conflitto (culturale, ideologico e forse anche di classe) che anima l’intreccio di Appuntamento a Saint Raphaël, a prescindere dalla reale identità di Benjamin e dei suoi genitori, così come lo scontro e l’eccesso di culture – per riprendere un titolo di Marco Aime – sono al centro di Parigi – Xanax solo andata, un sarcastico manuale di istruzioni per affrontare la ville lumière con pochi soldi in tasca, alla maniera del George Orwell di Down and out in Paris and London. Volendo, si potrebbe usare il righello dell’analisi critica per misurare la distanza che separa Arcangela Dicesare dalla narratrice omodiegetica di Casa, ma anche in questo caso – a meno di non essere biografi dell’autrice – si spenderà meglio il proprio tempo riflettendo sul tema suggerito dal titolo del racconto: un concetto, peraltro, che non è centrale solo per chi abbandona la propria dimora abituale, o la terra d’origine. E d’altra parte, non è un desiderio specifico del migrante nemmeno quello di poter vedere in anticipo, come in un trailer cinematografico, i futuri possibili generati dalle proprie scelte, come si augura la protagonista di La metropolitana. Partendo da sé, in quanto individui trapiantati in terra straniera, si finisce non soltanto per moltiplicare quel sé e ottenere un noi, ma anche per suggerire che quel noi può diventare tutti e tutte. Questo non significa che tutti e tutte conosciamo i pro e i contro del lavoro stagionale in un vigneto della Borgogna (Raccolto), né che abbiamo sperimentato il viaggio di Federico, dalla “benamata provincia” alla capitale di Francia (Faccio un salto a Parigi, tanto poi torno…), ma certo ci coinvolge la forza archetipica di simili avventure, come di quelle, non meno evocative, di chi scopre una nuova amicizia (I tramonti a Parigi hanno un che di speciale) o accetta di diventare adulta grazie a una visione di morte e rinascita, in uno dei cimiteri più famosi d’Europa (Père-Lachaise).
Quando l’io gira lo specchio e lo punta sul mondo, il mondo (vi si) riflette.
Mi racconto, dunque siamo.
E il sabotaggio non è più necessario.

Incipit

@Sergio Trapani

 

Elisa C., Buio nella città della luce

C’era questo brutto film del 2007 intitolato Catacombs – Il mondo dei morti. Quando lo vidi era appena uscito, avevo diciannove anni e mi ero trasferita da poco a Bologna. Avevo iniziato una nuova fase della vita, basta adolescenza, era tempo di passare all’età adulta. In quel brutto film c’era Pink, sì, la cantante, e una spaurita Shannyn Sossamon che sterminava tutti i suoi amici nelle catacombe di Parigi. Un film assurdo, esagerato e così distante da quello che stavo vivendo che me ne dimenticai in fretta, ormai lanciata nella mia nuova vita. Il tempo passò, mi abituai alla nuova città, mi formai e misi a fuoco i miei obbiettivi. Dieci anni dopo decisi che Bologna mi stava stretta e mi trasferii a Parigi.(…)

Eugenia Leonardi, Appuntamento a Saint Raphaël

Caro Benjamin, spero che tu non me ne voglia, perché questa storia merita di essere raccontata. Spero che possa farti sorridere, anche se forse sarà un sorriso amaro.

Luglio 2020, Parigi, Gare de Lyon, sei del mattino. Io e Benjamin aspettavamo. Il TGV arrivò in orario, destinazione Saint Raphaël. Era il momento di conoscere i suoi genitori. Ero agitata, avevo già incontrato Bérénice e Pierre. Quella volta mi avevano fatto una buona impressione, ma purtroppo ero reduce da un colpo di sole, con annesse allucinazioni e febbre alta. Nonostante le mie sensazioni fossero state positive, mi restava un tocco di angoscia. Sul treno rimuginavo: mi esprimerò decentemente? Spero di non fare troppi errori e di non incepparmi durante le conversazioni. Ho dimenticato tutto il francese che ho imparato in due anni. Panico. Di solito faccio sempre una buona impressione, sembro innocua, gentile, ben educata. Nulla da temere per un genitore. (…)

Lisandra Coridon, Parigi – Xanax solo andata

Quando sento un italiano dirmi “come fai a vivere a Parigi, che non hanno il bidet?”, penso subito “ah, beata ingenuità, fosse il bidet il problema”. Sul serio, voi pensate che il disagio più grosso sia non potersi lavare il culo e questo la dice lunga sulle vostre priorità e su come affrontate la vita in Italia. Ma a parte il bidet, nemmeno io avevo idea dei problemi che avrei dovuto affrontare in un paese tutto sommato simile al nostro. Per cominciare, non mi abituerò mai ai prezzi delle case e alla loro dimensione. Vivo in uno sgabuzzino che pago quanto i 110 metri quadri che avevo a Bologna, una delle città più care d’Italia. A Parigi il minimo abitabile per legge sono 9 metri quadri e se volete provare la stessa ebbrezza che proviamo noi, prendetevi un fornellino da campo, un materasso, un mini-frigo e chiudetevi a vivere nel cesso di casa vostra. (…)

Arcangela Dicesare, Casa

A Parigi sono finita per scherzo del destino. Una pagina della vita aperta a caso. Abito in una palazzina che non sembrerebbe molto ricca, ma so che il signore del piano di sopra ha un Matisse appeso al muro, un Matisse vero. In più, si capisce che il condominio brulichi di persone con un buono stipendio dalla presenza dell’ascensore. Il difficile rapporto che i parigini hanno con gli ascensori è per me incomprensibile, sembra che s’impuntino contro il progresso tecnologico, una scelta di vita radicale per perseguire i sani e onesti principi di altri tempi. Dal canto mio, continuo a non capire e mi rifiuto – un rifiuto politico – di salire anche un solo scalino pur abitando al secondo piano. (…)

Linda Marabini, La metropolitana

Chissà perché mi viene così difficile prendere decisioni. Sempre, anche quelle più banali. Ogni volta che mi trovo davanti a un bivio il cervello si blocca, anzi no, più che altro corre tanto veloce che inciampa e cade. Allora stilo una lista infinita di “se” e di “ma” e a quel punto è la fine. Come posso sapere che si tratta della scelta giusta? Sarebbe più semplice la vita se prima delle grandi decisioni si potesse guardare un piccolo trailer dei futuri possibili in modo da capire in che direzione andare. Un giorno mi trovavo in metro, un quadernino davanti e una lista dei pro e dei contro da riempire. Il titolo in stampatello era “MASTER A PARIGI”, una prospettiva magica e terrificante al tempo stesso. (…)

M., Raccolto

Caro lettore e cara lettrice, nell’estate del 2017 le folate di vento rinfrescavano il caldo torrido di Roma. Ero iscritto all’Accademia di Belle Arti nella capitale e ormai preparavo il rientro estivo nella provincia di Ravenna. La sera frequentavo spesso il quartiere universitario San Lorenzo dove conobbi Luca, studente della Sapienza che mi parlò di un suo viaggio in Francia. Mi disse di essere partito per una settimana di lavoro e, grazie a varie scartoffie, alcune mail all’Inps e al Centro dell’impiego, di aver ottenuto una disoccupazione di ben tremila euro. Agli occhi di un povero studente fuori sede come me era una miniera d’oro. (…)

Federico Zambelli, Faccio un salto a Parigi, tanto poi torno…

– Mamma, papà, c’è una cosa importante che devo dirvi…

Tutto ebbe inizio così, il 13 luglio del 2013.

Quel giorno Federico ebbe la sua ultima cena di classe. La quinta superiore era ormai al termine. Di lì a poco, il 19 giugno, avrebbe sostenuto la prima prova dell’esame di maturità. Tutto procedeva in modo tranquillo se non fosse che Federico, mesi prima, navigando tra le pagine web delle università, aveva deciso di compilare il modulo di iscrizione a un’università francese. Ma non una qualsiasi: la Sorbona, la seconda università più antica e rinomata nel mondo. (…)

Maria Francesca Bottari, I tramonti a Parigi hanno un che di speciale

È giovedì, sono le 17 e sono seduta da Starbucks in cerca di ispirazione. Lo so che a Parigi sembrerà assurdo scegliere una costosa catena americana invece di un elegante e tipico caffè, ma provate voi a studiare su quei piccoli tavoli rotondi, tutti appiccicati e traballanti, col brusio dei turisti e un giovane violinista intento a suonare La vie en rose. Insomma, tutto molto bello, ma concentrarsi è fuori discussione.

A Parigi non potrò mai dimenticare il momento in cui… in cui cosa? Quando sono arrivata, è stato bellissimo… no, non funziona. Magari è stato molto interessante… e poi? (…)

Caterina Baldini, Père-Lachaise

Il sole si intrufolava tra coltri di nuvole troppo spesse che ne impedivano il passaggio. In un tentativo estremo di sconfiggere quell’atmosfera plumbea alcuni raggi si facevano strada nel cielo di Parigi. Aprivano uno stretto passaggio dal quale si poteva intravedere la lotta perpetua tra luce e ombra, l’inizio di una nuova cosmogonia. Fissavo lo spettacolo dalla finestra di casa mia nel quinto arrondissement e pensavo a come organizzare la giornata. Ero arrivata a Parigi da poco e ancora mi stavo ambientando. Vivevo in uno studio di quattordici metri quadri, bagno e cucina inclusi. Era febbraio e le piastre della cucina, l’unica fonte di calore in cui potevo sperare, non funzionavano.(…)

 

 

 

in memoria – per Cristina Annino per dopo

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di Nadia Agustoni
 

in memoria*

a C.A. per dopo

migliaia di inverni per la memoria della caccia
e mai scoprimmo chi era cacciatore chi cacciato:
con abiti di festa addobbammo le siepi
la cruna dell’ago.
rimane il volo di poiane
l’aritmetica delle domeniche
quel bruciare freddo di febbraio.

(vedi Cristina, se il dolore sa tutto di noi
cosa chiamiamo fine? — deposto lo schioppo, l’aria,
su questo pezzo di pianura
tutto è un libro).

ii

è un minuto l’universo sulla città dei vivi
ma cresce a ogni uomo la terra
l’osso si fa parola
non si abbassa la grandezza
della morte.

iii

anche nei miei occhi c’è il mare e castelli di sabbia e verità abbattute.

 
* Per Cristina Annino le cui ceneri sono state disperse nel Tirreno.

Questi testi sono stati pubblicati sul numero 2 di Avamposto rivista serie I novembre 2022
 

L’estate di Sophie: “Aftersun” di Charlotte Wells

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di Daniele Ruini

Time present and time past
Are both perhaps present in time future,
And time future contained in time past.
If all time is eternally present
All time is unredeemable.
(T.S. Eliot, Burnt Norton, Four Quartets)

 

Forse non c’è bisogno di scomodare T.S. Eliot per parlare del primo lungometraggio di Charlotte Wells, Aftersun, disponibile da gennaio sulla piattaforma MUBI e uscito in alcune sale italiane. È stata tuttavia la stessa regista scozzese a citare un passaggio del primo dei Quattro quartetti in calce a una nota pubblicata sul sito della casa di produzione A24 che ha distribuito il film negli Stati Uniti. La meditazione di Eliot sul tempo ben si accorda infatti con la riflessione sulla permanenza del passato nel presente rappresentata in Aftersun: il film si interroga su che cosa significa rivivere (e rivedere) la propria infanzia, a maggior ragione quando si tratta di rielaborare un evento doloroso come il distacco dalla figura genitoriale.

Accolto positivamente alla Semaine de la critique di Cannes 2022, Aftersun è un piccolo gioiello: un’opera malinconica e intensa, capace di trasmettere in maniera indelebile le emozioni attraverso le quali passa il rapporto tra una bambina e il suo giovane padre durante una vacanza estiva. Alla fine degli anni ’90 il trentenne Calum (Paul Mescal), separato e con una situazione economica instabile, porta la figlia undicenne Sophie (Frankie Corio) a trascorrere una vacanza in un modesto resort turco frequentato da famiglie britanniche. Le loro giornate trascorrono tra piscina, immersioni, biliardo e improbabili spettacoli musicali; ma è proprio dietro la banale quotidianità che risiede il nucleo profondo della storia qui raccontata, ovvero tutte le luci e le ombre di una relazione tra una bambina che inizia ad essere attratta dal mondo degli adolescenti e un giovane uomo molto protettivo verso la figlia (come evocato dal doposole del titolo che gli vediamo più volte spalmare sulla faccia della piccola) ma che chiaramente fatica a sopportare il peso della genitorialità.

Come in alcuni film di Eric Rohmer, anche in Aftersun il tempo sospeso dell’estate funziona come spazio in grado di condensare tutta un’esistenza; al posto del continuo bavardage dei personaggi rohmeriani troviamo però qui molti silenzi, soprattutto quelli di Calum, oppresso da un senso di fallimento e da bilanci esistenziali insoddisfacenti. In alcuni momenti il film sembra addirittura evocare la possibile sparizione nel mare di questo giovane papà: un modo per suggerire ciò che –da quanto si intuisce– accadrà presto, ovvero che le strade di Calum e di Sophie saranno destinate a separarsi per sempre. A disagio in mezzo agli altri e attratto dalle profondità marine, Calum cerca di placare i propri tormenti attingendo alla sapienza orientale: la pratica del Tai Chi, per la quale è preso in giro dalla figlia, così come la lettura di libri sulla meditazione sono i suoi mezzi per cercare una pace interiore che gli sfugge. Non a caso rimane incantato dagli intarsi di un costoso tappeto turco che finirà per acquistare.

Allo smarrimento di Calum corrisponde il disincanto ironico della figlia, anche lei tuttavia non immune da note di malinconia. Questo sentimento è, nel caso di Sophie, amplificato dal duplice sguardo di cui è portatrice: man mano che il film procede capiamo infatti che la storia è filtrata dal punto di vista di una Sophie trentenne che, visionando i filmati girati con una telecamera portatile durante quella vacanza, ritorna a quell’estate di vent’anni prima. Se i maggiori momenti di vuoto di Calum accadevano in assenza della figlia (o quando lei dormiva), riguardando le scenette –per lo più buffe– riprese all’epoca Sophie cerca probabilmente di cogliere quei segni di malessere del padre di cui allora non poteva accorgersi. E possiamo immaginare che è ora a sé stessa che sta rivolgendo la domanda con cui il film si apre: «Quando avevi 11 anni, cosa pensavi che avresti fatto ora?».

Mettendo in scena l’elaborazione di una perdita (del padre ma anche della propria infanzia), Aftersun indaga cosa c’è di vero nei nostri ricordi e in che modo il passato continua a vivere in noi alimentando ed influenzando la percezione che abbiamo di noi stessi e degli altri. A tale riguardo è interessante che nella camera da letto di Sophie adulta si ritrovi quello stesso tappeto turco comprato dal padre; è un dettaglio significativo: sia perché, come gli era stato detto dal negoziante, ogni tappeto racchiude una storia diversa; sia perché tale acquisto era stato evidentemente un gesto avventato da parte di Calum, al quale la figlia aveva rinfacciato di prometterle sempre cose che non poteva permettersi. La trama di questo tappeto diventa allora metafora di un legame che risale il corso del tempo, se è vero, per citare ancora Eliot, che «solo attraverso il tempo si conquista il tempo» (Only through time time is conquered).

Grazie ai suoi magnifici attori e a una regia ispirata, l’opera prima di Charlotte Wells lascia il segno; e mostrando spessissimo i personaggi nell’atto a guardare (talvolta non visti), sembra invitare gli spettatori a fare altrettanto e a entrare pienamente dentro il film: ed è un invito che si accetta con grande piacere.

Metro quadrato

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di Giulio Spagnol

 

   Se c’è una cosa che amo fare di notte, da quando lo spazio ha cominciato a restringersi, è infilare la faccia tra i seni di Justine. Ficcarmi in quello spazio come un aereo abbattuto nel suo hangar e tremare davanti a quello che mi aspetta. Le stringhe e le cravatte, l’alito Marlboro Gold del mio capo, i muscoli tesi del levriero accucciato sotto la sua scrivania. Il ragazzino che suona il violino in metropolitana indossa un paio di scarpe a strappo equipaggiate con luci e suoni, il cartello che ha appeso al collo è scritto male, c’è scritto ho fame vi prego aiudademi. Le riunioni su Zoom, lo smegma burocratico che si accumula in ogni intercapedine cerebrale, il filo interdentale mentolato espandibile, l’ematoma di unto sulle pareti del microonde in ufficio. Tutti piccoli inciampi quotidiani che – va detto – mi sono cercato, che rientrano nella clausola stipulata con la provvidenza, in difesa della vita che sto costruendo con Justine, e che quindi sono disposto a tollerare. O almeno lo ero. Bene. Che senso ha tutto questo, se adesso riesco a malapena a sfiorarle le labbra?

Il primo attacco fu mentre mi lavavo i denti, prima di andare al lavoro. Justine era già uscita. Alzavo il braccio dal lavandino e niente: arrivato più o meno all’altezza della spalla sbattevo contro una superficie curva e liscia. Provai a picchiettarci sopra: non registrai il tipico «toc» da nocche VS finestra; questo era più ovattato, più il rumore che fa una moneta quando cade sopra un tappeto. Seguii la superficie con il palmo della mano: mi curvava sopra le spalle e cominciava a restringersi all’altezza del mento e sopra la testa diventava così stretta da lasciare giusto lo spazio per infilarci un pugno; superata la testa la curvatura si chiudeva, scendendo verso terra. Scalciai e picchiettai in tutte le direzioni, mi accucciai e misurai il diametro della circonferenza a terra: più o meno quattro Adidas e mezza – io porto il quarantaquattro. Tentai di trapassarmi il palmo della mano con un dito, quando sogni puoi farlo. L’indice si piegò sulla linea della vita, a parte quello, niente. Mi rannicchiai i posizione fetale, la testa piegata sullo sterno, le ginocchia raccolte tra le mani: l’unica posizione concessami, oltre allo stare in piedi, così mi verrà un mal di schiena in tre, due, uno. Dopo dieci minuti buoni di picchettamenti, lasciai perdere. Senza volerlo mi addormentai – sognai uno spazio di Hilbert, una prateria ortogonale bianca e verde, piastrellata da cellette Excel. Mi svegliò la vibrazione del cellulare sul tavolino da caffè, era Justine. Voleva sapere dove diavolo mi fossi cacciato. Lei sta a sole cinque fermate dal mio ufficio. Siccome la sera lavoriamo sempre fino a tardi, cerchiamo di vederci in pausa pranzo. Senza neanche accorgermene, mi alzai e risposi. Come lo spazio si era ristretto, così mi aveva rilasciato. Il telefono del lavoro non ebbi neanche il coraggio di controllarlo, sicuro che si fosse fuso dal numero di mail e messaggi, o che mi sarebbe esploso in mano, mutilandomi.

E dire che le cose non andavano male per niente. In ufficio, il mese scorso, è arrivato il risultato delle mie analisi sull’amigdala di tre macachi (mi hanno assunto per questo). Ho fatto una elegante presentazione PowerPoint: asterischi, modelli lineari, distribuzioni a campana. Tutto in carattere Garamond giustificato al centro: un vezzo, questo, che mi porto dietro dagli anni del dottorato. A quanto pare, il canale ionico che ho messo a punto per la nuova crema brevettata del Nocciolone bum-bum ha un sito di legame in più per l’acetilcolina rispetto al precedente. Questa piccola alterazione della subunità proteica, del tutto irrilevante da un punto di vista strutturale, conferisce una caratteristica atipica ai nostri prodotti: li rende irresistibili. E “con nostri prodotti” intendo tutti. Dai Malandrini Latini, ai Cioccopeccati-Capitali, dai Noccioloni Ghiandolari, agli Sbrodoloni al Maraschino. E con “irresistibili” non dico per modo di dire. No. Non nel senso mamma che buoni non riesco a smettere che dicono i bambini rosa nelle pubblicità. N-o. “Irresistibili” nell’accezione letterale del termine. Mi ricordo di aver fatto una pausa per far sedimentare la neve in quelle teste a palla di vetro del board. Segue un brusio elettrico. Sento i loro neuroni metabolizzare le informazioni, sincronizzati su frequenze altissime; nella boscaglia cerebrale, le arterie pompano sangue ossigenato e glucosio: un brusio neurale, rumore grigio, un alveare che si prepara alla guerra con un’arnia vicina. Poi cala il silenzio. Il mio capo è il primo a parlare. Sbiascica qualcosa del tipo «fammi capire, ci stai dicendo che…» Proprio così, lo interrompo, sto proprio dicendo così. I nostri nocciolati sono sul punto di diventare universali come il tabagismo, compulsivi come la masturbazione e lo shopping. Stanno per essere ovunque e per sempre. Finché ci saranno mandibole, finché ci saranno i consumi e le economie di scala. Capillari come le nevrosi, le fantasticherie romantiche, i video su TikTok e il senso di colpa. Sì. Ingollane uno e sei spacciato. Kaputt. Trafitto da una scarica elettrica. Non potrai far altro che sbafarti la scatola in piedi, inchiodato al suolo, o in posizione fetale, rannicchiato sul tappetto mentre ti lecchi via la crema dalle unghie. Divorerai una confezione dopo l’altra. Sviterai tutti i barattoli nella dispensa. Infilerai una tuta spugnosa e ti precipiterai alla Lidl a comprarne sei scatole; te ne scorpaccerai una nel parcheggio con il motore acceso. E così via, andrai avanti così, in teoria per sempre, in pratica finché la tua ragazza o tua moglie non ti prenderà a sberle. Allora (forse) ti fermerai per un giorno o due. Per poi ricominciare. E se vivi da solo? Be’, se vivi da solo, allora tanti auguri: ti fermerai quando ti verrà la gastrite, o una colite ulcerosa. Tutte le bocche davanti a me si spalancano abbastanza da poterci nidificare dentro. La mia rivelazione impatta il board sotto forma di onda e di particella. Trafigge le menti e le spazza via. Gli amministratori delegati cominciano a radiare un alone dorato. Il presidente per poco non si strozza; il sigaro gli cade in una tazza con stampato sopra una battuta sul weekend. Il mio capo fluttua fuori dalla stanza – il sorriso è postcoitale. Solo un avvocatuccio in un angolo, mezzo ammuffito e con gli occhi tuorlacei, rimane impassibile; bisbiglia in un orecchio a qualcuno che, forse, sarebbe il caso di mettere un bollino di avvertimento, tipo quelli sui pacchetti di sigarette o sui farmaci dopanti, sul nandrolone. Viene sommerso di fischi: gli dicono di stare zitto; gli danno del pollo agglutinato, pasta scotta, vecchio coglione. Le agenzie di neuromarketing sono così; non un posto per chi ha le coronarie di vetro o una coscienza paffuta. Vengo trascinato fuori di peso, sommerso da pacche sulle spalle, fatto girare sulla sedia e avvolto nella carta igienica. Il giorno dopo mi arriva una mail: mi comunica un discreto aumento.

 

 

                                                                                       

 

Per festeggiare, ho portato Justine al ristorante. Justine sfiletta lo sgombro come un cardiochirurgo: con i denti della forchetta estrae una lisca alla volta e la impila al bordo del piatto. Non approva il mio lavoro: troppo caotico, sostiene; sempre sulla scorza del blackout nervoso. Bombardato da remainders, calendari elettronici, brief, concept, strategy, payoff, head, sub-head, visuals, key-visual, videochiamate e pause caffè, sigarette, scrolling e masturbazione al gabinetto: impulsi audiovisivi senza massa né attrito che attraversano la corteccia al piccolo trotto, in cerchio e per ore. Sa pure che è per lei che ho accettato tutto questo, anche se no lo ammetterà mai.

Per lei non è così. Da quando ci siamo trasferiti, tiene un corso di panificazione Vajrayāna al carcere di Bollate-Boringhieri, alle porte di Milano. Un’azienda privata – che da poco si occupa anche di concentramento e detenzione –, un carcere nuovo. Con sedili dei water termoregolabili e sbarre anti-rosicchiamento in lega di carbonio e antibiotici. Lì, ogni mattina dalle 11 alle 13 e ogni pomeriggio dalle 15 alle 17, Justine insegna a patibolari in pigiama azzurro panificazione e meditazione analitica: pratiche a rapida retribuzione karmica. Lì, vicino alla lavanderia, in uno stanzone lungo e stretto come una bara, su tavoloni in legno illuminati da stretti tubi contenenti gas neon a bassa pressione e piegati a forma di infinito, insegna a cospargere ben bene il legno con la farina, a trattare l’impasto con delicatezza, a coccolarlo, come se fosse un cucciolotto, come se dovessero ricomporre tutti i crani che hanno fracassato con delle pinzette di cristallo. Mentre impastano, lei passa tra i banchi, dà buffetti a mascelle squadrate, incoraggia, sistema grembiuli e cuffiette. Soprattutto, insegna le posizioni e i gesti fondamentali. Con delicatezza, sfiora le dita tatuate dei patibolari e le intreccia nei gesti di protezione, della luce o del dono. Bisbiglia nei loro lobi mantra di guarigione; l’impasto lieviterà più facilmente, la ruota del dharma e della redenzione verrà messa in moto. Con voce materna, sussurra che devono trovare il coraggio di perdonarsi, che in sanscrito il concetto di senso di colpa non esiste nemmeno. Esistono solo aggregati materiali: aggregati di carne, di carbonio e di microplastiche, organici e inorganici, che sbattono e si aggrovigliano e si respingono uno con l’altro senza che noi ci possiamo fare un bel niente; di neuroni che radiano attività elettrica a frequenze medio-alte, più che altro alpha e gamma, che a loro volta radiano pensiero, fenomeni, immagini, odori, puzze, menta piperita, roba immateriale. Come lo fanno? Non si sa. Questa poltiglia elettrica, questo fumo azzurrognolo, siamo noi: coscienza. Dopo tre anni da traduttrice diplomatica e un master in psicoterapia rigenerativa Tantra Yoga, Justine, la mia ragazza, la persona per cui mi butterei su una pira per seguirla nell’altro mondo, è giunta alla conclusione che la nostra coscienza assomiglia vagamente al fumo di una Merit bianca slim. Davanti a una dose così condensata di realtà, i suoi carcerati di solito scoppiano a piangere. I suoi centauri, scippatori, assassini, strozzini, trafficanti, malfattori, matricidi, satiri, stupratori e tagliagole si sciolgono in vagiti e singhiozzi. È il momento tanto attesto. Justine lo chiama la “faglia nel ghiacciaio”, il segno che la terapia sta funzionando. È il momento di insistere. Da bravo vigile del fuoco, si prende un bestione tra le braccia e lo culla come un gattino alluvionato. Lui le lacrima sul petto: delicati cristalli di sale le si formano sul colletto della polo. Tutti gli altri carcerati smettono di impastare e scoppiano in un applauso sincopato. È un bel momento per tutti.

Io, comunque, a queste cose non ci credo granché, anche se – lo ammetto –, da quando ha mollato la carriera diplomatica, ha cambiato faccia. La pelle intorno alle labbra e sotto agli occhi si è fatta più luminosa, ha perso peso. Quando torna a casa e le tuffo le labbra tra i capelli, questi sanno di lievito madre e sapone di Marsiglia. La mattina mangia tre biscotti integrali e medita su un tappetino verde a forma di banconota da cento euro, arrotolata e in fiamme. È per distaccarsi meglio, dice. Io le dico che prima o poi si annoierà. Lei risponde che l’unico modo che ha trovato per essere felice è di ridurre il mondo a una pratica; non importa quale, basta che, mentre lo fai, fai solo quello. Imbrigliare il brusio di fondo in una matassa, filarlo, ridurlo a una fibra trasparente da legarsi al dito. Leggere un libro, friggere un uovo, praticare una fellatio: tutto per lei ha lo stesso peso e lo affronta con la stessa serietà. La felicità su questa terra? Se sfiletti uno sgombro, sfiletti uno sgombro. Tutto qui.

Il cameriere viene a rifornirci di panini al latte. Ha lo sguardo bovino, da zombie, da chi abusa di Vicodin; nel taschino della livrea riconosco una nostra barretta di Mentolone Salivone sgranocchiata a metà e tutta sbavata. Justine sfiletta. Lei sfiletta e io parlo. Lei spolpa e io inveisco. Lei disossa e io cerco di chiarire alcuni punti. La crema tartufata sui miei tagliolini è diventata una pellicola elastica e gommosa. Inveisco per punti. Tipo: questa epidemia di glucosio, questa nube zuccherata che sta per svuotarsi la vescica su di noi: sarà una catastrofe. Rigirerà ben bene il coltello nelle piaghe sociali. Come la mettiamo con l’adipe, i trapianti, l’obesità infantile, il deficit di attenzione, la sanità pubblica bullizzata dalle assicurazioni, il diabete mellito? E le carie ai molari? I maggiori esportatori di barbabietola da zucchero sono Brasile, Bolivia, Thailandia. Sarà ancora lecito chiamarlo “progresso”, se gli unici a beneficarne saranno gli igienisti dentali e i produttori di insulina? Insomma, e concludo, la vedo nera, piena di complicazioni, magagne. Mi sento in parte responsabile. Certo. Justine inarca un sopracciglio, con spirito garbato da archeologo osserva una lisca in controluce.

Scappo alla toilette; ho bisogno di acqua, aria, una sigaretta: tutte e tre le cose, possibilmente insieme; anche una andrebbe bene. Evito la scena Martin Scorsese, quella del gangster con il collettone a cui affiorano i primi rimorsi, quello che si prende a schiaffetti virili davanti allo specchio. Faccio per chiudermi in bagno, svitare il rilevatore e fumarmi una sigaretta, quando – sdeng! – sbatto il naso contro la cupola. Questa volta è più spaziosa: più o meno la circonferenza di un tubo in plastica espansa di un parco acquatico. Tasto la superficie: è fredda e liscia come una flûte di Champagne. Da qualche parte ho letto di una specie di mini-polipetto. Di quelli che vivono sul pavimento oceanico, a decine di chilometri di profondità. Quelli coi nomi che finiscono quasi tutti in -gaster, con gli occhietti gelidi morti e cattivi. Insomma, pare che uno di questi aborti gelatinosi vaghi per gli infiniti volumi oceanici disponendo solo di un minuscolo cervello, un pugnetto di gangli. E pare che, non appena trovi una roccia a cui ancorarsi, come prima cosa la digerisca, regredendo di fatto a vegetale. Tutto questo, ora, chiuso in questa gabbia, mi fa capire che presto impazzirò. Il nostro cervello, in fondo, si è sviluppato solo per farci muovere. Makes sense. Respiro a fatica, l’aria nella cupola è viziata, sotto-ossigenata. Se alla carenza di ossigeno si aggiunge un arricchimento di gas inerti (azoto, argon, elio), l’uomo passa dallo stato di inefficienza a quello di semi-incoscienza, poi allo svenimento e quindi alla morte. È stato bello, adiós. Goccioline di condensa mi piovono sul naso. Mi rannicchio sulle piastrelle del bagno, nel metro quadrato che mi è concesso. Sento che presto il cuore esploderà come una stella di neutroni. Buddha e Justine dicono che, per controllare la mente, prima devi controllare il corpo. Facile, se hai il sedere sotto un banano, o su un tappetino da yoga in microfibra di acacia. Sento un attacco di panico grande così affacciarsi alla valvola dell’esofago. Per seguirla ho rinunciato alla tenure track alla Columbia. Non è per niente banale. Provateci voi a dire “no” al Dean di neurophysiology della Columbia. Un fuscello di uomo, fistoloso e glabro, dal cranio fibulare e un completo color fuliggine. Provateci voi a mandare giù un Katz’s Pastrami Sandwich da 25.95$, schiarirvi la gola e dire «grazie Eitan, ma credo che l’accademia non faccia per me». A un premio Nobel dell’Upper West, uno con una targhetta d’oro imbullonata in una lastra di marmo alla Rockefeller Foundation. Justine era intern alle Nazioni Unite, passava le giornate al Palazzo di vetro, in un cubicolo di compensato con la moquette rosso vinaccia e l’aria condizionata. Seguiva il delegato francese in tutti i suoi meeting, prendeva appunti in Tailleur Hermès, su blocchi gialli in A4; appunti che nessuno avrebbe mai letto, che il giorno dopo sarebbero stati archiviati in un armadio a muro, o dimenticati su qualche scrivania, o gettati in un sacco nero da una messicana di Flatbush emersa dall’R Train, con una catenina d’oro e la voce di un predicatore nelle cuffiette di plastica. Io, nel frattempo, squartavo topi al dipartimento di neurofisiologia dell’NYU, a tre blocchi da lei. Li scalottavo e infilavo nel loro cervellino fili sottilissimi di argento e di tungsteno, elettrodi; li imbullonavo vivi a un tavolo ammortizzato ad aria compressa; li bombardavo di luci e di suoni; registravo impulsi elettrici, frequenze, campi magnetici, flussi ionici; programmavo i codici e analizzavo terabyte di dati neurali. Per nottate intere, nutrendomi solo di bagel, di cream cheese e salmone, di pollo e riso giallo halal a cinque dollari, solo al computer, rap italiano nelle cuffie – Club Dogo, Joe Cassano, vecchia scuola per malinconici stronzi, roba così. Il mio capo, un immigrato giordano tarchiato, peso welter, medaglia d’argento alle olimpiadi panarabiche, prodigio dell’optogenetica, diceva che avevo un buon intuito, che avrei potuto fare grandi scoperte. «Big stuff», diceva; roba tipo i geni che regolano l’autismo o una nuova classe di interneuroni. Forse, chissà. Finivo sempre tardi. Justine non faceva che aspettarmi: sotto l’orologio a Grand Central, al Sophie’s Cuban Cuisine davanti all’ospedale, alla lavanderia a gettoni la domenica mattina, mentre dormivo rannicchiato e vestito su un materasso sbattuto per terra nel mio monolocale. Prima di conoscerla, non sentivo l’esigenza di un letto vero e proprio: mi sembrava una perdita di tempo e comunque ero quasi sempre in laboratorio, a casa ci tornavo solo per dormire. La prima sera che venne a dormire da me, morivo dall’imbarazzo. Cominciai ad agitarmi già sul Queensboro Bridge, a dondolarmi sul sedile del taxi. Pensai a tutti gli insettini della notte che sarebbero usciti da ogni angolo strisciando le antenne; che si sarebbero arrampicati sul materasso ammuffito, con le lenzuola ingiallite, spermose; ai grumi di polvere vomitati un po’ dappertutto; alle piastrelle della vasca incrostate di capelli e pellicine; alle mutandine afflosciate accanto al ventilatore; stingere i suoi seni arrossati, sfiniti, nell’odore del gas e delle patate marce in frigo, un amplesso atteso e insperato, tra i calzini spaiati gettati sulla sedia, nella luce vitrea, fino al mattino. Lei non fece una piega. Come quando una sera le rovesciai due margarita ghiacciati nella borsa, uno dopo l’altro; come quando, sotto la doccia, le feci venire un infarto con lo stereo e la Goa Trance; come quando una notte, dopo appena due mesi, le venni dentro senza dire niente. È che a un certo punto il cervello di uno dei due fa click e di colpo lo sai. Come la fede, come una figura geometrica: sai che farai di tutto per far funzionare la cosa; lo senti, come gli elefanti che sanno dove andare a morire. Che tutto il sangue e il plasma reclutabili saranno trasfusi in questa storia, in questo nuovo apparato circolatorio: groviglio di arterie, ibrido, mostro di Frankenstein alimentato da due cuori. Sai che ci dilapiderai sopra ogni particella di ATP, ogni neurotrasmettitore che hai in corpo, pregando che anche l’altro faccia la sua parte e ti incontri a metà strada, o almeno a una mezz’oretta dall’arrivo. A me è successo un sabato notte, vicino a casa, davanti a un camioncino di fajitas sulla 43rd St e 34th Ave – combinazione, questa, che mandava sempre in tilt i tassisti – all’uscita della metro di Steinway, Astoria, Queens, New York, America del Nord, mentre Justine, con la bocca piena di cubetti di pollo, mi allungava un tubo di senape color senape.

La porta si apre e io mi sento sollevare per un braccio: è il cameriere dallo sguardo tonnato, entrato per salvarmi, o per farsi una riga, o per sgranocchiare di nascosto un’altra barretta di Gommosetti Adenoidali, fa lo stesso. L’importante è che infrange la cupola. A dire il vero ci cammina proprio attraverso e mi tira su. «Tutto bene, signore? È scivolato sulle piastrelle?». Bofonchio un ringraziamento e torno al tavolo. I collant elettrostatici di Justine mi sfiorano la caviglia in un sibilo elettrico. Mi chiede se va tutto bene e io le rispondo di sì. Mi guardo intorno. Il brusio nel ristorante è ovattato. Quel tipo di lusso architettato per darti l’illusione che la morte possa essere efficacemente mandata a farsi fottere; un’eleganza troppo ovattata per pensare che il nulla sia davvero un’ipotesi credibile, qualcosa per cui valga la pena di preoccuparsi. Il centrotavola è luminoso. La tovaglia è candida, di un bianco fosforescente, eterno. La pila di lische sul piatto di Justine è a forma di totem.

 

 

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Dall’attacco al ristorante ne seguono altri, notturni. Di colpo mi sveglio e a malapena riesco a muovere la testa o le dita. Passo le ore a roteare le pupille in senso orario, a dare una forma alla libreria, ai vestiti sulla sedia, al cassettone: volumi scuri e scontornati che si scompongono su uno sfondo limbo. Proiettate sulla parete in fondo al cranio, scorrono in post-produzione le immagini della corteccia visiva. Immagini ad alta definizione; montate in ordine semi-random: prigioni, bare, scatolette di tonno minuscole, pareti unte viscide e ripide. Sintagmi minimi. Roba tipo: piccolo, fragile, destinato a morire, solo.

Sento i seni di Justine alzarsi regolarmente nel letto di fianco. Da qualche settimana non dormiamo più insieme. Dice che non capisce cosa sta succedendo, che non parlo, che se non può fidarsi di me allor… Insomma, le solite cose. Penso al giorno in cui gli attacchi svaniranno. Al giorno in cui li sentirò di nuovo, tiepidi, sfiorarmi la guancia.

 

 

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Se non fosse successo di nuovo, avrei stretto ti denti. Avrei continuato così: trincerato nel mio mutismo, nei “sono bloccato nel traffico, cominciate pure senza di me”. Se la settimana scorsa non mi fossero venuti cinque attacchi in cinque giorni consecutivi sarei stato zitto. Se ieri non mi fossi immobilizzato proprio in mezzo alla porta a vetri della Coop creando una viscosa girandola di insulti, di signore in pelliccia, di buste della spesa gialle in plastica, strabordanti di dolci e dolcetti, di Goccioloni Mascalzoni e Alì Babà, sarei andato avanti così; se le guardie giurate dopo svariati “mi scusi, signore” non mi avessero caricato di peso e scaricato dolcemente – come una madre che ti mette a letto – sul marciapiede, nella fessura tra una Polo e una Panda, mi sarei ostinato a non dire nulla. Se Justine non si fosse precipitata, se non mi avesse caricato su un taxi e inondato di lacrime e di insulti, se quella sera non fosse andata a dormire da un’amica, me lo sarei tenuto per me. Steso sul marciapiede, tra le cartacce dorate, mentre il cappotto si imbeveva di rivoli salivari, le nuvole caliginose si squarciarono. Pensai logicamente che tutto fosse illogico. La rigorosa conseguenza fu una targa d’ottone in via Serrano, anzi no, scusate, in via Plinio. Un medico che mi auscultò la schiena e il torace mi fece fare aaaaahh e ooohhhh, mi picchettò tutto come uno xilofono e fece un gioco di parole scontato sul mio nome. Mi mise a sedere e mi chiese «allora senta, mi dice lei cosa c’è che non va?». Gli spiegai che in quel preciso istante mi sentivo bene, e che prima avrei dovuto aspettare un attacco. Che purtroppo erano alquanto imprevedibili. Provai a mimargli il problema rannicchiandomi sul lettino. Come per venirmi incontro, il medico cominciò a pizzicare l’aria intorno a me con fare divertito. «Dunque, vediamo… le fa male qui? Oppure quassù?». Gli dissi che non c’era niente da ridere. Per tutta risposta mi girò su un fianco e, strisciando uno stecco sulla pianta del piede, evocò i miei riflessi cutanei plantari; cercava risposte anomale: segni di Babinski, lesioni al tratto corticospinale.

 

 

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Oggi Justine se ne è andata. Così, all’improvviso e senza dire granché. È appena salita in camera, ha svuotato metà dell’armadio e sventrato i cassetti. Io ero seduto sul bordo del letto e mi infilavo i calzini. Mi stavo giusto chiedendo se fosse il caso di chiamare la sua amica per avere notizie. Ha accumulato calze, mutandine, gonne, leggings da aerobica e maglioni in due piramidi cangianti. Ha infilato il tutto in tre sacchi neri della spazzatura. Il materassino da yoga e le campane tibetane, che non ci stavano, sono stati presi e poco spiritualmente lanciati giù dalle scale. Le campane sui gradini hanno fatto deng deneg deeeeng trtrtrtrtrtrrrrr. Ha anche pronunciato parole che adesso non mi ricordo bene. Niente di nuovo, comunque: c’entrava con l’incomunicabilità, la delusione, la paura dell’abbandono. Non mi ha mai guardato negli occhi. Avrei voluto correrle dietro, precipitarmi giù dalle scale e afferrarla per i fianchi come Bogart, o per i capelli, come nei nostri amplessi, o inciampare e inglobarla nel mio turbine ruzzolatorio, come Paperino; effettuare una morbida planata da ultraleggero e atterrare sul tappeto e sulle sue labbra. Ma non riuscivo a muovermi. La cappa, stavolta, aveva assunto la forma esatta del mio corpo e vi aderiva sopra come a un Cristo velato. Non riuscii nemmeno a muovere le labbra per dire “aspetta!”. Avrei voluto inseguirla per le strade, correrle dietro in uno di quei pomeriggi grandiosi e cupi, tipici di Milano: banchi di nebbia che vanno e vengono tra le strade e i tetti della città sciogliendosi in fili di bava, fragranti come l’odore di cucina, che prendono in bocca i comignoli in una morbida fellatio a cielo aperto. Nelle varie stazioni della metro, dei bus e dei treni, un esercito di zombie in tessuti tecnici si trascina per la città con il passo pesante dei carcerati, rosicchia torroni, barrette e bon-bon; si litiga chiavi di zucchero e nuvole di cioccolato; si accapiglia per vermi elastici, caramelle-uovo, alla banana e al melone, ingoia pugni di orsetti gommosi, rotelle di liquirizia e spaghetti frizzanti. Sui palazzi sono apparse scritte e graffiti color rosso amarena: IL POPOLO DELLA BIOSINTESI NON PUÒ ESSERE SCONFITTO. Una folla di sonnambuli che ciondola per le strade e le piazze. Che entra ed esce dai negozi e dai bar, abbacinata dal sonno e dal glucosio. Che fa lo slalom tra il grigio dei piccioni e il bianco latte degli sputi sui marciapiedi. Che si muove in centro tra sacchi dell’immondizia impilati come torri medievali, lungo stradine secondarie che sfociano in arterie intasate di traffico, muovendosi in branco, a flussi compatti o alternati. Il tutto sovrastato dall’ immensa nube gassosa. Quella nebbia. Quella nebbia che si infila in tutti gli interstizi, in tutti i buchi più neri, negli sfinteri dei camini e nelle fessure dei tombini. Che è molto di più. Molto di più che una flatulenza industriale. Ma un organismo pulsante; una lingua che non ne ha mai abbastanza; un sogno febbricitante, che non fa altro che leccare, salivare, e spandersi sulla pelle della città – forse l’ultima avvisaglia della sera che incombe. O un mandala che sboccia nella mente e per me, a letto, nel mio involucro di domopak. Significa riposo. Riposo e consolazione.

 

( n.b.: modificato su richiesta dell’autore il 9/9/23)

Lezioni di assenza

2

[L’età dell’impazienza (Mimesis 2022) raccoglie per la prima volta in volume per il lettore italiano, a cura di Massimo Rizzante, parte del lavoro saggistico e giornalistico del grande scrittore cubano Alejo Carpentier. Presentiamo qui un suo saggio, e un brano dell’introduzione di Rizzante.]

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di Alejo Carpentier

Il diciannove maggio scorso, a mezzanotte, un immenso transatlantico olandese levava l’ancora da Rotterdam per fare rotta su New York… Faceva freddo. Le luci delle birrerie del porto pulsavano nella notte, provocando tristi iridescenze sulla superficie increspata dalle onde. Una sirena arrochita lanciava un segnale di addio sopra i cupi tetti della città – un segnale che andava a morire al di là dei sobborghi, sui canali d’acqua stagnante e i campi di tulipani.

Un cubano viaggiava a bordo della nave.

Nel bar deserto, davanti a un solitario scotch and soda, il passeggero assaporava l’istante solenne in cui si decide di cambiare vita… Una decisione il cui oggetto simbolico, in questo caso, era un’elica che girava a vuoto. Che cosa si lasciava alle spalle? Molti anni di lavoro. Una casa piena di ricordi nel più bel quartiere di Parigi. Amici. Affetti. I piaceri dell’arte. Abitudini. Libri in cantiere. Una cantata, scritta in collaborazione con il più grande compositore francese vivente, Darius Milhaud, di cui non avrebbe potuto assistere alla prima…

Le ragioni di tale diserzione?… Bisognava forse cercare pressioni di ordine esterno?… No. In quel momento la minaccia della guerra non era all’orizzonte. A Parigi le cose andavano bene. Si guadagnava facilmente. La capitale era sempre molto seducente. La vita era bella… E allora perché?…

Conoscete quella malattia incurabile che si chiama “noia di un continente”?…

Il cubano, tutto solo nel bar deserto del transatlantico, ne soffriva.

Quel cubano, ero io.

*

Jean Cocteau ha detto una volta che l’esibizione dell’intelligenza allo stato puro lo annoiava. E continuava domandandosi se in futuro le grandi opere sarebbero state quelle che avrebbero rivelato “un’intensità del cuore”.

Ovvero: un immenso potenziale di sentimenti, bontà, generosità…

O ancora meglio: una totale inclinazione all’entusiasmo proiettata sulle cose e gli uomini dal fondo del nostro essere.

Essere capaci di amare, senza alterare il nostro amore per il senso critico.

L’europeo è senz’altro l’uomo che per eredità e formazione è il più intelligente del mondo. Ma questa intelligenza, attraverso il continuo affinamento del senso critico – facoltà di controllo – ha alla fine neutralizzato le sue capacità emotive e ha distrutto in lui ogni slancio affettivo.

Stravinskij trascorre un anno a comporre una partitura geniale. Armand Salacrou crea il suo monumentale Savonarola. Picasso espone una sintesi degli ultimi cinque anni dei suoi lavori. Un film di Renoir prende vita sullo schermo. E sapete qual è la reazione del pubblico? Beh, mostra il sorrisetto scettico dei personaggi di Marcel Proust. “È tutto molto bello, ma…”. “Niente male, ma…”. Sempre “ma”: garanzia suprema dell’uomo intelligente, che non si lascia ingannare dai trucchetti del genio.

Il problema è che questo “ma” lo si ritrova anche nei sentimenti. Così come scoppiare a ridere è considerato dagli inglesi una mancanza di educazione, allo stesso modo per la maggioranza degli europei il fatto di amare sinceramente qualcuno significa non conoscere le buone maniere… Le grandi passioni non possono far parte delle società civilizzate. Gli amanti di buon lignaggio si danno del voi. Sacha Guitry tiene raffinate conferenze per mettere sotto accusa quella barbarie che va sotto il nome di gelosia. L’amore è un’ottima cosa, un passatempo gradevole – il migliore che si sia inventato fino ad oggi –, ma a condizione che non sconvolga la nostra vita quotidiana, facendoci cambiare abitudini o mettendo a rischio i nostri interessi. Ogni individuo se si trova in uno stato di “cristallizzazione stendhaliana” è considerato con sospetto dalla borghesia europea, come fosse un malato contagioso, poiché, a causa di questa “cristalliz- zazione”, può essere a volte messo di fronte al fatto compiuto… Infatti, di tanto in tanto, succede che l’istinto riesca a prendersi una rivincita sulla civiltà.

A forza di speculare sull’intelligenza, la maggioranza degli europei è stata colpita da impotenza sentimentale. Per gli europei le parole “amico”, “amante”, “donna” non hanno il senso assoluto che noi attribuiamo loro. L’amicizia è una pianta che il più del- le volte si coltiva per ragioni di convenienza reciproca… L’amore cessa di essere interessante se esige un minimo di sacrificio o di forza morale e fisica. E soprattutto non ci si deve dare mai completamente né a parole né per iscritto!… Conservare la propria indipendenza! Non rinunciare a nulla!…

Uno dei miei amici, che ha vissuto a lungo in Europa, mi ha spiegato perché preferisce Cuba con questa frase piena di buon senso: “Laggiù non si vive con i monumenti né con le opere d’arte. Si vive con le persone”.

E io vi confesso che oggi, lasciando il porto di Rotterdam, ne ho abbastanza degli europei.

*

Non vi azzardate mai a confidare qualcosa a un amico europeo. Non raccontategli le vostre preoccupazioni e non cercate il suo sostegno in un momento di abbattimento. Non otterrete che una mano sulla spalla e una vaga formula di solidarietà: “Mio povero amico…”.

A un certo punto della mia vita collaboravo a un programma radiofonico con un uomo che stimavo e per cui provavo affetto. Sentimenti, credo, reciproci… Un mattino, dopo una telefonata, l’ho visto impallidire. Con voce tremante mi ha pregato di sostituirlo e di terminare il lavoro. Di fronte al suo riserbo, non avevo osato porgli nessuna domanda. Ma nel pomeriggio, ritornato in ufficio, mi ha rivelato il contenuto della chiamata: “Mi hanno annunciato che mia madre era morta a causa di una crisi cardiaca”. Mi sono stupito che fosse di nuovo in ufficio. Ed ecco la risposta che mi ha dato, una risposta inconcepibile nel mio paese: “La società per cui lavoro non ha niente a che vedere con la mia vita privata!… Bisogna pur preparare il programma di questa sera!”. Che uomo! – mi direte. Mentre io direi: che mancanza di umanità! Ciò che è più grave è che a quell’uomo non si può rimproverare la sua insensibilità. Questa è il prodotto della vita dura e difficile che in Europa comporta il desiderio di conservare il proprio posto di lavoro e di guadagnare a tutti i costi. Almeno a Parigi, infatti, non esiste una via di mezzo tra vittoria e sconfitta. O si conduce una vita da miserabili o una vita piena di soddisfazioni… Se siete un perdente o qualcuno di inutile, avrete molto tempo. Nessuno, infatti, vi chiamerà. Ma se siete un vincente e avete un posto di responsabilità, le vostre attività vi proibiranno di godervi la vita. Non vi lasceranno in pace un solo momento. E dato che dovrà essere disponibile a date e a ore fisse, questo uomo fortunato – che, facendo parte di quella Parigi in cui si è ricchi e vincitori, è caduto nel diabolico ingranaggio – finisce per diventare schiavo dei suoi doveri. Non ha più tempo di amare, di distrarsi, di mangiare… Durante i miei ultimi quattro anni in Europa ho avuto giornate di lavoro che cominciavano alle nove del mattino e terminavano tra le dieci della sera e le due del mattino seguente!… Per tutto riposo sette ore di sonno e due pasti rapidi di circa venti minuti…

E tutto questo a Parigi, città dove le donne sono affascinanti, la cucina eccellente, i teatri meravigliosi, dove ci sono grandi stagioni liriche e nightclub di qualità! Che ironia della sorte!…

Che ci volete fare! Nei nostri paesi si gode ancora di un’esistenza a “misura d’uomo”, dal ritmo umano… Ci sono certamente meno opere d’arte per le strade, meno dipinti famosi nelle gallerie… Ma almeno abbiamo il tempo di riflettere, di leggere, di riempire le inevitabili lacune intellettuali tipiche di una civiltà nuova.

*

Alla Banca di Londra si osserva una curiosa tradizione. Ogni sera il custode del palazzo deve invitare a cena un granatiere della Guardia Reale accompagnato da un amico. Il pasto è composto da pollo arrosto e una bottiglia di champagne… Questa usanza dura da centinaia di anni, in ricordo dell’intervento eroico dei granatieri in difesa dei fondi statali.

Trovo che l’uomo europeo abbia ragione a conservare tradizioni di questa natura. Quel che trovo meno sano è che si lasci tiranneggiare ogni giorno da abitudini e istituzioni che non gli rendono nulla e che mettono direttamente in pericolo la sua in- dipendenza e il suo benessere.

Loge, nella mitologia nordica, è il nome del dio del fuoco. Loge in francese appartiene al vocabolario del teatro… Ma questa parola, in francese, ha anche un altro significato: è il nome che si dà di solito a un piccolo appartamento che odora di cucina e che si trova a destra o a sinistra dell’entrata di ogni palazzo di Parigi. La persona che vi abita è un essere scorbutico, malpagato, sempre dipendente dalle mance, che si chiama “Madame la concierge”, la signora portinaia. L’utilità della portinaia è estremamente difficile da valutare. Del resto, non si trova in tutte le città dell’universo. Teoricamente dovrebbe curarsi del palazzo, fare le pulizie, prendere la posta, dare informazioni ai visitatori, consegnare le bollette e l’affitto e avvisare per tempo che l’ascensore – oh gli ascensori antidiluviani di Parigi! – non funziona “a causa di lavori di manutenzione”.

In realtà, in novantotto casi su cento, il suo ruolo è tutt’altro. Furiosa perché è stata costretta ad alzarsi in piena notte per aprirvi il portone, furiosa perché le mance del mese non erano di suo gradimento, la portinaia diventa a poco a poco vostra nemica instaurando nel palazzo un regime di terrore. Ogni vostro gesto è spiato, analizzato e spiattellato a tutto il quartiere. La posta comincia ad arrivare in ritardo. Ai vostri fornitori si danno false informazioni, etc., etc. Il geniale Max Jacob ha scritto interi romanzi sui diktat delle portinaie di Parigi, raccontandoci con umorismo la storia di quel buon uomo che “si appropinquava alla grandezza morale” grazie alle sofferenze che gli infliggeva la sua portinaia. Il cantautore Tre-ki ha composto più di cento canzoni sull’argomento. Theodore Dreisler ha trattato il tema in una celebre conversazione pubblicata nell’“Intransigeant”. E conosco un celebre accademico di Francia che non osa rientrare a casa dopo la mezzanotte per timore delle rimostranze della sua portinaia.

Attenzione, comunque, a contrariare le portinaie parigine! Sono una vera potenza. Un’istituzione. Sono miliardi e miliardi… E, inoltre, godono di un privilegio perfettamente immorale concesso loro da un decreto del diabolico Fouché, ministro della Polizia sotto Napoleone: sono tutte informatrici della polizia. Il che vuol dire che ogni abitante di Parigi ha un gendarme in casa.

E questo continua e continuerà per sempre nella città, spiritualmente parlando, più civilizzata del mondo! Le tradizioni! Le tradizioni!… Le tradizioni che, a lungo andare, distruggono i nervi degli uomini che come noi sono nati in paesi veramente liberi.

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Non sono mai stato d’accordo con lo spirito della “Revista mundial”, né con le cronache di Gómez Carrillo… I collaboratori di Rubén Darío amavano troppo ciecamente l’Europa. La amavano al punto da rinnegare l’America. Tutta la loro esistenza era retta dall’angosciante preoccupazione di vivere il più possibile nel vecchio continente e temevano il ritorno in patria come una vera maledizione.

Per gli uomini della nostra America conoscere l’Europa è una cosa indispensabile, come conoscerne le idee e i costumi. Nessuno lo mette in discussione… Ma è anche vero che paesi con una profonda tradizione filosofica come la Germania, che cadono improvvisamente sotto il giogo di uno Streicher, finiscono per farci dubitare del vero valore della loro intelligenza… Se possono insegnarci molto, anche noi possiamo insegnare loro moltissime cose, soprattutto dal punto di vista dei valori umani.

La principale virtù di un lungo soggiorno in Europa dovrebbe essere quella di insegnarci a lavorare più efficacemente a favore del nostro paese. Il nostro celebre vinello può trasformarsi, grazie al nostro strenuo lavoro, in un eccellente vino alsaziano… Perché, alla fine, sono sempre più convinto che ormai solo in America si trovi quell’“intensità del cuore”, quella facoltà di entusiasmarsi che Jean Cocteau cercava nella grande opera d’arte dell’avvenire.

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Ecco perché saluto con gioia l’inizio del 1940… Questa volta la notte di San Silvestro mi troverà in patria, immerso nel paesaggio della mia infanzia, stanco di viaggiare… E senza il minimo desiderio di abbandonare il mio paese!

“Carteles”, La Habana, 1940

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La modernità di Alejo Carpentier

di Massimo Rizzante

Non è certo una novità. Almeno per i lettori che ancora frequentano quella terra incognita che è il nostro passato prossimo e remoto: la biografia di un autore non ha importanza, è l’opera che conta.

Lo affermava anche Alejo Carpentier (1904-1980), scrittore e saggista cubano, nelle sue Confesiones sencillas de un escritor barroco (1964). Tutti gli scrittori degni di questo nome, antichi e moderni, classicisti e barocchi, lo hanno sempre saputo.

Poi, improvvisamente, dagli anni ottanta del secolo scorso, la biografia dell’autore ha cominciato a diventare più importante della sua opera.

Che cos’è successo? Uno strano virus biofiliaco si è insinuato anche nelle menti più raffinate, tanto che, ad esempio, i diari, le lettere, perfino i disegni di Kafka, uno scrittore dalla vita assolutamente anonima, sono diventati più autorevoli dei suoi romanzi e dei suoi racconti. Per non parlare di autori come Hemingway, la cui vicenda biografica è stata a volte più romanzesca di quella dei suoi personaggi. In questo caso l’opera è stata sistematicamente sostituita dalla volontà biofiliaca – una sorta di gossip accademico – di conoscere l’uomo che si nasconde dietro l’artista.

Le cose non sono andate diversamente se l’autore aveva subito in gioventù il fascino di qualche regime politico, o se si era trovato invischiato in quella che tutti gli adepti della religione del progresso chiamano fieramente la parte sbagliata della Storia: le opere di Borges, Orwell, Malaparte, Cioran, Bellow, Kundera (la lista sarebbe lunga) invece di essere interpretate attraverso la lente estetica sono state spesso giudicate da un tribunale ideologico.

Come se il presente, in virtù del suo essere presente, avesse sempre ragione! Come se gli uomini venuti dopo fossero sempre più intelligenti di quelli venuti prima! Per caso qualcuno oggi conosce un uomo o una donna più intelligente di Platone? Un amico, un giorno, verso la fine degli anni novanta del secolo scorso, epoca in cui il tribunale emetteva dalle pagine dei giornali ogni mese una condanna a scrittori e pensatori del XX secolo (credo che in quel momento fosse il turno di Heidegger), mi disse che tutta quella gente aveva sbagliato mestiere: avrebbero dovuto fare gli aguzzini o scavare fosse nei cimiteri pubblici.

Carpentier, avendo appoggiato fino alla fine la rivoluzione cubana ed essendosi “macchiato” di una certa cecità rispetto a quello che, soprattutto nel corso degli anni settanta del secolo scorso, il suo amico Fidel Castro aveva cominciato a infliggere a scrittori e intellettuali che si opponevano ai suoi diktat, ha subito un po’ la stessa sorte: è stato da una parte fin troppo esaltato e dall’altra ostracizzato. Risultato: una valanga di pomposi studi accademici da parte degli specialisti latinoamericani e un silenzio da congiurati o una metodica ignoranza da parte degli scrittori e dei critici europei.

L’opera ha a che fare con la vita di chi la crea, certo. Ma da qui a leggere l’opera dopo aver compulsato i referti clinici, i registri della polizia segreta e le tendenze sessuali dell’autore… Negli ultimi tempi, poi, gli stessi scrittori sembrano essere stati contagiati dal virus che qualche decennio fa aveva infettato i loro lettori. Che quest’ultimi, con il passare del tempo, glielo abbiano trasmesso? Sta di fatto che succede che si ammalino gravemente e che mostrino il decorso della loro malattia in una serie di video; o che si innamorino e postino in rete le foto della loro nuova fiamma; o ancora che incappino in una depressione e scrivano nel loro blog allarmanti richieste di aiuto. Lo fanno per dovere di cronaca? Perché se non si mettono in mostra temono di non esistere? O forse l’esibizione dei loro peccati e delle loro debolezze fa parte di una strategia di mercato? I lettori biofiliaci hanno infatti, secondo le case editrici e i pubblicitari, il sacrosanto diritto di conoscere fin nei minimi dettagli la vita dei loro idoli. Si tratta di narcisismo all’ennesima potenza? O semplicemente la vergogna, il pudore e la discrezione non fanno più parte della scala dei sentimenti umani? […]

*

Qualcuno ha detto, giustamente, che la produzione saggistica e giornalistica di Carpentier è quasi tanto importante quanto quella romanzesca. E, inoltre, copre tutte le arti e tutte le letterature. Carpentier poteva scrivere di qualsiasi letteratura europea come se si trattasse della sua, ma senza mai dimenticare – e in ciò è stato più unico che raro – che per comprenderla in profondità bisognava compararla con le letterature degli altri continenti, in particolare di quello americano. Conoscitore di tutte le avanguardie e di tutti i modernismi del XX secolo, fu l’unico scrittore latinoamericano a vivere da vicino “la rivoluzione surrealista” e il primo a far conoscere sin dagli anni trenta del secolo scorso agli intellettuali parigini, come al solito riluttanti ad avventurarsi oltre i propri confini, “i punti cardinali” del romanzo latinoamericano senza il quale la storia del romanzo del XX e del XXI secolo sarebbe incomprensibile. In ogni suo saggio, come in ogni suo articolo, si respira qualcosa che si è quasi totalmente perduto: un vero cosmopolitismo, attento alla Storia, alle singole civiltà, alle identità culturali e ai décalage cronologici tra i diversi paesi. E qualcosa di ancora più perduto in questa nostra seconda Modernità – che nessuno ormai, dopo quarant’anni di equilibrismi filosofici e fulminanti carriere universitarie in suo nome, chiama più post-modernità – in cui al terrore e alla poesia del XX secolo sono subentrate nel XXI l’anestesia dei sensi e l’assenza di ribellione: una capacità di amare l’opera altrui senza alterare il proprio amore per il senso critico.

Mentre traducevo gli articoli, i saggi, le cronache e le interviste di Carpentier (una goccia nel mare della sua enorme produzione!) mi chiedevo se i temi, gli autori, le idee che vi sfilavano e perfino il modo in cui erano esposti facevano parte del mio mondo, o se invece erano stati seppelliti sotto un chilometro di “post-verità”, come oggi dicono quelli che la sanno lunga. Cioè, in pratica, di false verità. Di verità a cui si aggiunge il prefisso “post” perché non si è in grado di afferrare l’irruzione di una nuova realtà attraverso la creazione di un nuovo vocabolo o peggio, perché si desidera semplicemente intorbidare le menti. Che cosa avrebbe detto Carpentier di tutti i nostri “post”, “neo”, “trans” che dall’epoca della sua morte affibbiamo a qualsiasi parola? “Transavanguardia”, “post-umanità”, “post-letterario”, “post-comunismo”, “post-fascismo”, “neo-liberismo”, “neo-umanesimo”, “transculturalità” e così di seguito, ad libitum, fino alla fine della Storia… Ecco, lui, così attento a tutte le tappe storiche dell’umanità (dal Neolitico, in cui ancora vivevano molte tribù dell’America Latina negli anni quaranta e cinquanta del secolo scorso, fino ai continui sconquassi e massacri degli anni sessanta e settanta provocati da qualche dittatore), tanto da farne costantemente il punto di partenza e materia narrativa di tutti i suoi romanzi, da Il regno di questo mondo (1948) fino a L’arpa e l’ombra (1979) passando per Il secolo dei lumi (1962) e Concerto barocco (1974), avrebbe forse affermato che i nostri poveri suffissi posti davanti ad una moltitudine di parole note rivelano sì la necessità di qualcosa di nuovo, ma una necessità non supportata purtroppo da un vero coraggio di inoltrarsi nell’ignoto. Avrebbe affermato che, se non troviamo le parole per dire porzioni di realtà che ci sembrano nuove, ciò significa solo due cose: che non abbiamo rischiato abbastanza la pelle o che quelle porzioni di realtà sono state già scoperte e che stiamo solo rifacendo il verso a chi ci ha preceduto. Credo che, agli occhi di Carpentier, questo spreco di “post” e “neo” avrebbe rivelato anche un’altra cosa: la nostra resa, questa sì “post-storica”, a concepire come valore la continuità della Storia. Avrebbe rivelato la nostra totale perdita di fiducia nel passato come nel futuro e di conseguenza nella possibilità di ritrovare nell’uomo del XXI secolo caratteristiche e costanti dell’uomo non solo del XX secolo, ma di tutti i secoli precedenti.

*

Per Carpentier, grande conoscitore delle religioni e delle culture afrocubane e precolombiane e delle cosmogonie del suo continente, l’uomo è un essere storico in guerra contro il tempo, la cui aspirazione all’eternità, ovvero a un tempo atemporale in cui si troverebbero sincronizzati tutti i tempi storici, è asintotica, infinita. Anche per Carpentier polemos è il padre del mondo e l’uomo – come del resto i suoi alter ego immaginari, i personaggi romanzeschi – non può che accettare con “spirito prometeico” l’agone:

Si è detto che i miei personaggi mostrano di solito un atteggiamento pessimista perché non sembrano mai completamente soddisfatti di quello che hanno realizzato. Ma l’uomo completamente soddisfatto di quello che ha raggiunto e che non cerca più in là, si immobilizza. In altre parole, smette di vivere pienamente. La grandezza dell’uomo risiede nel suo “non riposare sugli allori”, per usare un’espressione popolare. Ogni giorno, una volta sveglio, deve entrare nella vita con spirito prometeico, dicendosi: “Fino a oggi non ho fatto nulla”, per quanti siano stati fino a quel momento i suoi apparenti successi…

Sorge la domanda: dove si manifestano questi istanti di sincronizzazione più o meno perfetta di tutti i tempi storici? Risposta di Carpentier: nelle pratiche magiche, nei riti religiosi, nella musica, nell’arte e, in tempi più recenti, nel romanzo e nel racconto, che l’autore ha sempre concepito in forma di microromanzo.

Non è un caso che la sua raccolta di racconti, pubblicata nel 1958 e poi di nuovo nel 1971, prenda questo titolo: Guerra del tempo. Al suo interno c’è un racconto, intitolato Simile alla notte, che mi è sempre sembrato contenere l’essenza non solo dell’estetica dell’autore, ma anche della sua concezione dell’uomo in relazione alla Storia e al tempo. Diviso in quattro brevi capitoli, il racconto narra di come, in una sola notte, un personaggio attraversi secoli e secoli di Storia: è allo stesso tempo un soldato greco che attende di salpare per Troia; un soldato spagnolo del XVI secolo in procinto di andare a conquistare il Nuovo Mondo; un soldato francese del XVII secolo che sta per raggiungere un esercito di colonizzatori nell’America del Nord; un soldato del XII secolo che, vittima di una malattia, non riuscirà ad aggregarsi ai suoi compagni in partenza per la quarta Crociata; un soldato che attende di partecipare alla Prima guerra mondiale; un soldato dell’esercito anglo-americano che si prepara allo sbarco in Normandia. Carpentier riunisce, in una sola notte, molte generazioni umane. Alcuni dettagli permettono di distinguere le diverse epoche. Tuttavia, tali dettagli non sono presenti per rendere realistica la narrazione, ma per mettere maggiormente in evidenza la stessa situazione che si ripete in ogni epoca. L’ambiente può ben cambiare, ma la situazione del soldato alla vigilia della sua partenza per la guerra è sempre la stessa: la paura, la speranza, il congedo dalla famiglia, l’ultimo saluto all’amata, il richiamo della vita, il destino di morte sono gli stessi. […]

Tutti noi siamo individui unici e irripetibili nella misura in cui siamo in grado di sopportare l’enorme peso della ripetizione. La seconda, la terza, la centesima volta in cui ci troviamo a letto con la stessa donna le nostre sensazioni non sono più così forti come quelle che abbiamo provato la prima volta. E così quando ci ritroviamo per l’ennesima volta davanti alla stessa porta di casa, allo stesso binario alla stazione, alla stessa strada da prendere. Dipende dalla nostra forza unica e irripetibile se non soccombiamo alla forza uniformante della ripetizione. Tuttavia siamo consapevoli che, senza la forza della ripetizione che ci opprime, non saremmo in grado di metterci a lottare contro il tempo allo scopo di vivere più intensamente, cioè liberi, apparentemente liberi, liberi per pochi istanti, dalla ripetizione. Perché, in realtà, dalla ripetizione non ci si può liberare. Una volta cambiata professione, donna o paese, la ripetizione, data la sua natura, dopo un po’, torna a farsi viva. Tuttavia questa impossibilità, per quanto sembri negare la nostra individualità e il nostro desiderio di cambiare, ci offre come contropartita una delle possibilità esistenziali più gratificanti: quella di entrare in dialogo con i nostri progenitori e con i nostri discendenti. Qualsiasi cosa accada, sia accaduta o accadrà, nella ripetizione di un gesto, di una parola, di un pensiero, perfino di un sogno, possiamo sentirci improvvisamente contemporanei a tutti gli altri uomini del passato e del futuro: è questa la solo forma di eternità concessa all’uomo storico in lotta contro il tempo. Con una postilla: che la ripetizione, vissuta con incanto e in modo solenne finché l’individuo ne conserva l’origine occulta e misteriosa (come spiegare altrimenti il valore della ripetizione nel rito, nelle religioni, nella musica, nella poesia, nella magia?) può mostrare il suo volto deforme e parodico, qualora l’individuo prenda atto che la Storia si è convertita in una ripetizione di avvenimenti privi di ogni legame con una fonte originaria, prelogica, prerazionale. […]

La grande sfida narrativa di Carpentier perciò non è quella di controllare la successione degli avvenimenti, ma di rivoltarsi contro la ferrea legge del tempo che passa: “L’angoscia – ha affermato – di fronte allo svolgimento del tempo e le modalità di questo svolgimento mi accompagnano da sempre”. Egli desidera rappresentare un personaggio andando al di là della costruzione psicologica. Perché? Perché pensa che la concentrazione di navi nell’Iliade, al momento dell’assedio di Troia, assomiglia, con le dovute proporzioni, a quella che ha avuto luogo prima dello sbarco in Normandia durante la Seconda guerra mondiale. Perché crede che un dialogo tra un calzolaio e una cliente facoltosa che desidera comprare un paio di stivaletti avvenuto in epoca ellenistica “è esattamente lo stesso” che avverrebbe oggi, nel XXI secolo. Desidera illuminare il presente attraverso il passato e illuminare il futuro avanzando à rebours verso le potenzialità inespresse del passato e del presente […]

*

Tuttavia Carpentier non sarebbe Carpentier, ovvero il padre fondatore del romanzo latinoamericano del XX secolo – romanzo barocco, epico, storico (“La Storia della nostra America pesa molto sul presente dell’uomo latinoamericano; pesa molto di più del passato europeo sull’uomo europeo”), realista e allo stesso tempo meraviglioso (“La realtà del nostro continente è naturalmente meravigliosa”), se non avesse, attraverso le sue opere romanzesche, soprattutto a partire dal viaggio ad Haiti del 1943 e dalla risalita del fiume Orinoco del 1950 che gli avrebbero rivelato la sua missione “americanista”, reclamato, rivendicato e imposto la presenza della natura, dei miti, delle religioni, delle culture dell’America Latina all’interno dei confini del tempo e della Storia, fino a quel momento patrimonio esclusivo del romanzo europeo. Per quanto oggi, perfino le generazioni più giovani di scrittori latinoamericani tendano a trascurarlo, non dimentichiamo il grande gesto inaugurale di Carpentier: è stato attraverso le sue opere romanzesche, soprattutto quelle degli anni quaranta e cinquanta, che l’universalismo europeo ha dovuto riconoscere per la prima volta l’identità americana con la sua natura, le sue razze, le sue religioni, i suoi miti, le sue culture; che l’Europa ha dovuto accettare, seppure spesso a malincuore, che il romanzo, la musica, le arti dell’America Latina non erano appendici esotiche ma parti integranti del suo corpo storico e culturale; che, infine, la parabola discendente del Vecchio Mondo, iniziato con la Prima guerra mondiale, aveva qualche possibilità di interrompersi solo se l’Europa si fosse resa conto delle profonde contaminazioni reciproche che dal 1492 avevano segnato le culture delle due sponde dell’Atlantico.

Non sono nello stato d’animo di chiedermi se dall’anno della morte di Carpentier il declino del Vecchio Mondo abbia subito qualche intoppo o abbia al contrario continuato a declinare. Ciò che invece mi chiedo è: la cultura europea nel corso di questi ultimi quarant’anni ha ascoltato, letto, meditato sull’opera di Carpentier? Ha davvero riconosciuto come suo patrimonio spirituale il tempo e la Storia dell’America Latina? Dopo Borges, Bioy Casares, Arlt, Marechal, Reyes, Rulfo, Paz, Alejandra Pizarnik, Nicanor Parra, García Márquez, Sabato, Mutis, Monterroso, Monsiváis Elizondo, Macedonio Fernández, Fuentes, Vargas Llosa, Cortázar, Onetti, dopo Saer, Pitol, Arenas, Lamborghini, Puig, Wilcock, Piglia, dopo Villoro, Daniel Sada, César Aira, Fresán, Volpi, Palou, Rey Rosa, Alan Pauls, gli scrittori europei, e in particolare quegli italiani, hanno fatto i conti con le scoperte del romanzo latinoamericano? Hanno compreso che cosa ha significato e significa per la storia del romanzo del XX e del XXI secolo?

Un giorno, negli anni novanta del secolo scorso, dopo aver letto Notturno cileno di Roberto Bolaño, ho scritto che oggi un autentico scrittore europeo dovrebbe per forza di cose sentirsi latinoamericano. Bolaño, infatti, diceva di essere sia l’uno che l’altro, avendo appreso in egual misura da Rabelais che da Borges. Non so se Bolanõ concepisse, come faceva Carpentier, l’America Latina come una proiezione utopica e rigeneratrice dell’immaginario europeo, o piuttosto come una sorta di manicomio, ricettacolo di tutte le follie, le crudeltà e i sogni deliranti che l’Europa riesce a esorcizzare arrogandosi il ruolo di paladina dei diritti umani. Ma, restando nel limbo, non si conosce l’inferno. Il fatto è che se la “vocazione europea” dell’America Latina è presente da Carpentier a Bolaño, l’appello latinoamericano è rimasto, a mio avviso, pressoché lettera morta in Europa e nel nostro paese. Il culto di Bolaño non basta. Un autore, avrebbe detto Carpentier, non è sufficiente a creare uno “stile romanzesco”, così come non basta a farlo conoscere. A meno che l’America Latina per il lettore e per lo scrittore europei e italiani non sia quella Kitsch, magico-realista, sciropposa, telecomandata dalle agenzie pubblicitarie, tappezzata da tramonti tropicali, sentimenti assoluti e simpatiche canaglie che si incontra nei best-sellers di Isabella Allende, Luis Sepúlveda e Ángeles Mastretta […]

Il corpo è tutto

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di Valerio Paolo Mosco

 

Olivia Laing, Everybody, Il Saggiatore, 2022,
Traduzione di Alessandra Castellazzi

 

Olivia Laing, come per altro Annie Ernaux, ha ritagliato su di sé un genere letterario. Esso si compone di una serie di biografie di persone particolari, essenzialmente biografie di artisti, di cantanti, di intellettuali e letterati che la Laing descrive per frammenti. Notevole la sua capacità di entrare nella vita degli altri, un entrare alla ricerca di quello che potremmo definire il loro nocciolo duro, il loro dramma interiore. Appena colto questo dramma la Laing passa ad un’altra personalità e lo fa per analogie con una certa spigliatezza. Un procedimento questo utilizzato anche da Emanuele Carrere, ma la Laing in più aggiunge una sagacia femminile ed una delicatezza per nulla sdolcinata. Se in Carrere sentiamo in sottofondo nella narrazione l’arguzia dello sceneggiatore, nella Laing gli effetti sono stemprati. La narrazione scorre senza sobbalzi e ci sentiamo come sospinti su un nastro trasportatore da cui ci voltiamo e scorgiamo l’autrice che è come se si celasse nella vita degli altri. La sua è come una autobiografia di tutti, o meglio di tutti quelli che come lei hanno sofferto la solitudine, l’inadeguatezza e il disagio e di ciò ne avessero fatto forma: forma d’arte, letteratura, impegno. In Città sola, un libro da non perdere, la Laing racconta di sé attraverso la solitudine degli artisti newyorchesi come Hopper, Warhol, Basquiat e altri. Attraverso loro appare New York, la magnifica città di quella concitata solitudine che prima era di Parigi.

Il suo ultimo libro Everybody, edito con cura ancora una volta da Il Saggiatore, la Laing ci racconta del corpo come strumento di protesta. Il corpo esposto, messo in mostra ad effetto, che trasmette ciò che l’intelletto non ha il la forza di trasmettere. In definitiva il corpo come espressione di verità. Attenzione, non la verità come la intendiamo comunemente, come testimonianza oggettiva, ma verità nel senso che i greci davano al termine, verità come aletheia, ovvero lo svelamento, coincidente con il togliersi di dosso gli infingimenti e le menzogne che noi stessi ci raccontiamo e raccontiamo. Scrive nelle prime pagine la Laing:

“Ma l’elemento del corpo che più mi interessava era l’esperienza di viverci dentro, di abitare un veicolo catastroficamente fragile, preda inaffidabile di piacere e di dolore, odio e desiderio”.

Il corpo ci disvela dunque, ci rende umani in quanto testimonia la nostra vulnerabilità e con essa l’eroismo di coloro i quali non hanno rinnegato la vulnerabilità ma ne hanno fatto uno strumento di espressione artistica o strumento di resistenza nei confronti del potere che come tale da sempre rinnega l’anelito alla libertà insito nel nostro corpo.

Il personaggio centrale del libro è uno degli uomini più eccentrici del secolo scorso, Wilhelm Reich che nasce come promettente allievo di Freud ma poi se ne distanzia e tra le tante folli invenzioni, come quella di una macchina per sparare alle nuvole per far piovere, costruisce la “scatola orgonica” in cui poter catturare la forza vitale dell’universo e rinascere. Dalla scatola orgonica nella narrazione è come se uscissero le vite di Ana Mendieta, di Susan Sontag, di Andrea Dworkin, di Bayard Rastin, del Marchese de Sade, di Agnes Martin, Philip Guston, Malcom X, Elias Canetti, Nina Simone e altri ancora. Attraverso di loro entriamo nelle radici della cultura del corpo, di cui quella gender e queer è una propaggine, e ci entriamo di soppiatto, senza sobbalzi ideologici.

La Laing mantiene sempre un tono dubitativo, non si infervora e sembra detestare qualunque forma di radicalizzazione, tra l’altro sa muoversi a proprio agio tra la cultura alta e quella pop. Cerca di comprendere, di ascoltare, per condividere con noi che leggiamo l’unico fondamento plausibile della letteratura, la non violenza, sebbene proprio nell’ultima pagina afferma, con realismo, che “la violenza è un fatto”. È un fatto che il corpo subisce ma da cui si può liberare a patto che ciò che è privato diventi pubblico e infine politico. In Italia la lunga storia del Partito Radicale dimostra che, almeno in parte, ciò non è impossibile.

 

Poesia secondo istruzioni, a cura di Guy Bennett #2

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[Pubblicherò in cinque episodi su NI del materiale legato a un progetto promosso da Guy Bennett, poeta statunitense. Si tratta di un’opera collettiva di poesia generativa che ha coinvolto 60 poeti, artisti e designer per un totale di 140 testi prodotti. Non vi è un’unica lingua di riferimento, anche se la maggioranza dei testi è stata scritta in inglese e in francese. Dopo aver ricevuto tutti i testi, Bennett ha inviato a intervalli regolari di tempo dieci “samplers” a tutti i partecipanti, contenenti ognuno 10 poesie. Infine tutti i testi sono stati raccolti in un catalogo digitale con un’introduzione e un ricco apparato paratestuale. A partire da questo secondo episodio presenterò una campionatura di sette testi per episodio composti da altrettanti autori/autrici, che hanno seguito una delle 99 istruzioni elaborate da Bennett. Il primo episodio  -che include: progetto + intervista al curatore + 99 istruzioni trilingue – qui.

 

Sean Pessin, Untitled (Instruction 34)

Joachim Sené, Acclamatoire (Instruction 1)

Ian Monk, Untitled (Instruction 25)

Judah Abendsonne, Nachmittags Vogelschweigen (Instruction 48)

François Le Lionnais, Dix minutes de vacances (Instruction 17)

Deborah Meadows, Untitled (Instruction 37)

Lewis Carroll, Facts (Instruction 31)

⇓   •   ⇓

UNTITLED

34: A poem imagined but never written down.

  • Sean Pessin

 

In a poem never written down,

There is a metaphor for dreams themselves

And with meters that measure the same

by any regional tongue, no matter how it’s licked.

With sirens in every one of the poem’s syllables,

every period is a cannon volley.

Containing a word that rhymes with orange,

There is nothing trite about its wartime observations.

This poem makes you lonely for loneliness.

Your veins retract with your chortle when someone gets to that part.

In every other poem, there is a reference to this one,

Unless there isn’t, but the lack is audible.

No one has to issue an apology for reading its loveliness

Into loudspeakers at funerals, matriculations, or bachelorette parties.

You memorized this poem once, actually. It’s been rattling around

Since the first metaphor that caught you off guard.

There is only one apology for this poem never written down,

And it is that you are still not writing it down.

*

UNTITLED

34: A poem imagined but never written down.

  • Sean Pessin

 

The poem never written down happens in what is elided by

Takeout order emails sent over a private server

And their incomplete subject lines.

Though it is also possible that the poem is waiting in perfection

As a spam bot sent it straight to your junk mail;

A survey suggests, just as you open up,

“Security alert

“Improve your heart health

“Limited-time only

“You’re invited to a special screening

“Don’t miss out on our

“Collaborative and collective act of resistance

“Protect yourself from scammers

“Get a load of these

“Annual filing notifications

“Love is all you need

“Action required

“A new payment method was

“The best compliment

“Your statement is ready

 

ACCLAMATOIRE

1 : Un poème en une seule unité (lettre/mot/vers/strophe).

  • Joachim Séné

ou poème générique & collectif, dédié à toutes celles & ceux que je chéris, que jadmire, que je porte en moi, depuis les grands & grandes de lHistoire de la Littérature & de lArt, jusquaux ami.e.s avec qui je brocarde & jacasse à tout sujet, à la famille qui maccompagne & me soutient, à toute personne que je peux croiser ne serait-ce quun instant, un seul, & partager, la plus petite unité de temps & dhumanité qui puisse être (un signe de tête, un bonjour de loin, un coup de klaxon agacé, une dispute au sujet du dernier Prix Goncourt), à toutes & tous, ce poème : Acclamatoire.

 

Ô !

 

UNTITLED

25: A 100-line poem in which the words “peony,” “nightingale” and “firefly” appear only once.

  • Ian Monk

 

The words peony, nightingale and firefly

will appear only once in this poem

despite its focus on several promising themes

such as the varieties of herbaceous perennials

which include this flower among others

for example mint and potatoes

surprisingly combining in this way

the uselessness of beauty and dinner

or else ferns and grasses forming

the lawn you sit in front of having

a well-earned drink before your

meat and potatoes, carrots and peas

covered by succulent home-made gravy

followed perhaps by apple pie and cream

all washed down by a rather tannin-

steeped bottle of Côtes du Rhone red

first and then white with the dessert

before being rounded off by a cup

of the most excellent Italian espresso

and why not while we’re at it

a generous shot of a good grappa

though eschewing the once inevitable

cigar which you find quite frankly

baffling and have never known

how to smoke finding the urge

to inhale practically impossible to resist

and so failing to see the point of it all

compared quite simply to a cigarette

anyway where were we oh yes

finishing dinner and staring once more

out of the window this time across

the now barely visible lawn glistening

slightly in the moon- and starlight

it’s just the sort of evening which

seems to invite the writing of an ode

or some such romantic form

the kind of thing poets like Keats

wrote during Autumn or when

gazing at the patterns sculpted

on a Grecian urn or else at times

of indolence just like this slightly

alcoholised moment on a spring evening

which incites a vague feeling of

melancholy despite all the clichés

concerning this particular season

of the year especially in the city

of Paris where this season is put

on a distinctly undeserved pedestal

let’s go for the psyche then especially

in the absence of any birdsong for

example which, if there were any,

would be drowned out by the constant

hum of the cars as well as

the clanging of the passing trams

and so what is my psyche or

in other words the totality of my

conscious and unconscious mind

doing right now? nothing much

apparently although that inner

voice of course never shuts up

for a single second spouting as

it does any amount of bullshit

when it doesn’t have anything

concrete to bite on so to speak

or to fall onto to put it another way

that voice which starts up according

to research around the age of six

and then never stops until you

croak (and maybe not even then

who knows? well, we all will

find out some day sooner or later)

while younger kids and animals

spend large amounts of time

thinking quite literally about nothing

just like any random insect crawling

across the floor that ant there

for instance, or outside, adding

to the moon- and starlight

but above all urban glow, the slight

glimmer of some beast or other

lightning bugs maybe, after all

you’re no entomologist far from it

but one thing you do know is that

these lighting effects are not there

to look pretty nature has no objective

use for such a thing as aesthetics

but instead are what is called

an “honest warning signal” like

the bright red colour of the granular

poison frog to warn predators

that the beast in question is either

venomous or quite simply disgusting

even for the hardiest of palates possessed

by all those ravenous creatures out there

and so the evening dims into night,

time for languishing before the non-ending

of a cancelled series on TV maybe

or else the actual end of something

so confusing that it lost you long ago

as thoroughly as it did its protagonists

 

 

Nachmittags Vogelschweigen

48: A poem in which the speaker doesnt speak.

  • Judah Abendsonne

 

 

Dix minutes DE VACANCES

17 : Un poème qui cherche à donner limpression de la couleur jaune.

  • François Le Lionnais

 

Vers le milieu des vacances je pense au jaune

 

L’instant où le jaune apparut dans l’univers

La quantité totale de jaune contenue dans l’espace

(Cas particulier : à l’intérieur de mon corps)

Le jaune et certains nombres remarquables

Le jaune et les bronzes Chang

Le jaune et quelques boulons dépareillés

Le jaune et le problème de l’existence du néant

Le jaune et l’attaque des pions perdants

Le jaune au-dessous du Zéro absolu

Le jaune : internationalisme ou cosmopolitisme ?

Le jaune et le renouvellement du roman policier

Le jaune et les sensations viscérales

Le jaune et elle

Le jaune du point de vue de Sirius

Le jaune d’un point de vue plus humain

Le jaune dans du jaune.

 

 

Un peu de repos

 

Et je me penche sur une autre question.*

 

* Ce poème anticipa son instruction.

 

 

 

UNTITLED

37: Plans for a poem.

  • Deborah Meadows

 

Out of hibernation, rabbit brush (common name: Chamisa) now formed a yellow-lined road against blue sky at this altitude, our altitude. It marks opening of the school year, but not all are ready to let go of summer, descend from mountains. Were this in the haiku tradition, all would know the reference to season, that the rabbit brush bloom and opening of the school year coincide. So, it could be reduced to:

 

Rabbit brush: yellow

road against blue altitude;

summer’s end, descend.

 

 

FACTS (from Useful and Instructive Poetry)

31: A poem-telescope.

  • Lewis Carroll

 

WERE I to take an iron gun,

And fire it off towards the sun;

I grant ’twould reach its mark at last,

But not till many years had passed.

 

But should that bullet change its force,

And to the planets take its course,

’Twould never reach the nearest star,

Because it is so very far.*

 

 

* This poem was written in anticipation of its instruction

 

Spaesamenti [Un simbolista a Berlino]

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da ⇨ Berlino – Sinfonia di una grande città 1927 di ⇨ Walter Ruttmann


dalle musiche di ⇨ Edmund Meisel per il film

di ⇨ Anna Tellini

Berlino. Città pallida. Città di lividi cementi. Città d’inverni ghiacciati. Nelle notti di paura, c’è una visione che la tormenta: il viso bianco di Rosa Luxemburg che fiorisce, tragica ninfea, nei ghiacciai del Landwehrlkanal. Eternamente braccata, l’ombra di Liebknecht fugge dietro i neri cespugli del Tiergarten dove brillano feroci gli occhi dei suoi assassini…

Y. Goll Sodoma e Berlino Milano 1975, p.75

Non voglio affatto fare l’originale – temo che non mi crederai, questo suona vistosamente paradossale -: mi sono innamorato di Berlino. Berlino è malinconica, uniforme e priva di couleur local. Questo è il suo “volto”; e per questo la amo.

I. Erenburg, Berlin, in Belyj ugol’, Leningrad 1928, p. 120

Sotto la vecchia forma decorosa di Berlino ho cominciato a fiutare il caos selvaggio della reale decomposizione e della morte; e nell’odore della putrefazione io respiravo con affanno; struggimento, e una disperazione – non personale, non mia – si impossessò di me; Berlino è penetrata dentro alla mia anima, appiccicandosi a me come una piovra; da essa sono fuggito…

A. Belyj Odna iz obitelej carstva tenej (1925)
Prideaux Press, Letchworth-Herts-England, 1971, p. 73

    Strana città, la Berlino a cavallo del 1920. Profondamente scissa tra la farragine di ipotesi rivoluzionarie cui mancherà il fatto risolutore, all’apparenza imminente – inevitabile anzi – e poi ritardato senza scadenza, e la condanna all’inazione cui un sistema erede, e non distruttore, dell’età guglielmina, la destinava.

    Strana città, Berlino. Le utopie e le attese palingenetiche, la coazione della prassi politica alla marginalità, la dispersione nebulosa degli emigrati russi. “Lunapark di cartapesta e di stucco, […], guerrafondaio fallito” (Y. Goll), coi suoi “gesti astratto-patetici” l’Espressionismo, che del mondo sogna una rigenerazione mistica, e non politica, e con ciò stesso, “eretico”, sì, ma in definitiva rassicurante, “pone la sua candidatura per una onorevole approvazione borghese” … E se il dadaismo, coi suoi progetti di radicale eversione del quotidiano, gli fa da stridulo contraltare, paiono condannati entrambi a esercitarsi sui mondi possibili, alieni come sono dal fare i conti col ritorno all’età della carta: “ La Germania, rea di troppo orgoglio, […],dall’età dell’acciaio non regredì, come pensavano alcuni, all’età della pietra, ma a quella della carta… apprendisti stregoni lavoravano alla zecca di Berlino: i mille fogli divennero centomila, poi milioni, poi miliardi, poi bilioni…” .

    Astiosi progetti di rivincita dei “bianchi” («Berlino. / L’emigrazione si rianima. / Le bande bianche si rallegrano: / combatteranno meglio contro gli affamati./ Se ne vanno / per Berlino, / arricciandosi i baffetti, / e si vantano: / “Sono un patriota! / Un vero russo”» accanto a manovre, scarsamente dissimulate, di segno politico opposto.


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da ⇨ Berlino – Sinfonia di una grande città 1927 di ⇨ Walter Ruttmann

   Strana città: “E’ difficile descrivere Berlino. Non l’afferri. / I russi a Berlino vivono, com’è noto, attorno allo zoo” .

“Gli emigrati russi in Germania si possono dividere in tre gruppi. Il primo è quello che ha una più larga rappresentanza nel sanatorio: speculatori e commercianti. Sono quelli che rispetto più di tutti. Da parte loro hanno smesso già da tempo di considerarsi russi…. Il secondo gruppo è formato dagli emigranti politici, rappresentanti di partiti di cui in Russia nessuno si ricorda più da un pezzo. Costoro non possono più tornare in Russia: vorrebbero tornarvi e non possono. Vivono di letteratura e pubblicano i loro scritti sugli innumerevoli periodici in lingua russa… Divertentissima invece l’altra varietà di emigrati, quella degli intellettuali, i classici intellettuali russi. Questi ultimi soffrono di una nostalgia morbosa per la patria, hanno un astio altrettanto morboso, che arriva alla ripugnanza, per i tedeschi, per tutto quanto è tedesco, dalla lingua alla cucina. Non vivono che di ricordi della patria. Ma non ci tornano. Perchè? Non lo sanno neppure loro. Non hanno colpe politiche di alcun genere, non fanno paura a nessuno (a chi dovrebbero far paura?). Non hanno altra colpa che la codardia: sono venuti via per paura dei bolscevichi. Possono tornare in Russia quando vogliono, sicuro: nessuno li toccherebbe. Ma non ritornano. Non si sa perchè. Antica, memorabile codardia dell’intelligencija. Parlare è facile, ma prova un po’ a muoverti. Qui in Germania, per male che vada, sono sazi e vestiti, mentre laggiù dovrebbero ricominciare daccapo…”

L.Lunc Viaggio su un lettuccio d’ospedale
ne La rivolta delle cose Bari 1968, pp. 370-372

 
    Lunc dimentica una quarta presenza russa, in Germania e in particolare a Berlino: quella dei “messaggeri in Occidente” delle ultime acquisizioni artistiche sovietiche, dei propagatori, tramite questo discorso mediato, di un’idea politica tutt’altro che asettica nel suo tentativo di consolidare l’identificazione tra comunismo e avanguardia e, mediante questa, rafforzare la posizione dell’avanguardia intellettuale all’interno dell’URSS stessa. Si pensi, ad esempio, agli interventi di Majakovskij nel 1922, al caffè “Leon” o alla “Casa delle arti” di Berlino, esemplata su quella di Pietrogrado, o a Lisickij che, nello stesso anno, e sempre a Berlino, pubblicando con Erenburg la rivista “Vešč’”, mira alla creazione di un’internazionale costruttivista….

    Ma di altri discorsi, niente affatto mediati – come ad esempio resta a dimostrare l’attività di Ioffe, plenipotenziario della rappresentanza sovietica a Berlino dopo la firma della pace di Brest-Litovsk –  ci si occupava da tempo per dissodare il territorio tedesco, per unanime consenso dell’opinione bolscevica destinato al ruolo di guida, insieme all’URSS, della rivoluzione proletaria; ciò mentre anche la Germania, vinta, umiliata, privata delle sue province ad est e a ovest, spezzettata dai corridoi, affamata, guardava con interesse all’Unione Sovietica, solidale con i tedeschi nella lotta contro il trattato di Versailles….

    Strana città, la Berlino del 1920-23. La Berlino della disfatta, del grande caos, virtualmente in sfacelo. La Berlino dei grandi progetti, della coscienza rivoluzionaria acquisita, luogo ideale per un’esperienza di osmosi tra due avanguardie, due politiche.

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Non posso vivere a Berlino. / Per il modo di vita, per tutte le abitudini io sono legato alla Russia d’oggi. So lavorare solo per essa. / E’ sbagliato che io viva a Berlino. / La rivoluzione mi ha rigenerato, senza di essa mi manca l’aria. Qui si può soffocare./ E’ amara come la polvere di carburo, l’angoscia berlinese… /

V. Šklovskij Zoo o lettere non d’amore Torino 1966, p. 98.

 
    Nel 1922 Belyj è a Berlino, una Berlino “grigio-bruna” tessuta di “penombre bruno-grigio e sinistre”; più che città, un “incubo organizzato” .

Andrej Belyj e Asya Turgeneva

      Vi è giunto – nel suo recentissimo passato c’è un’attività senza chiusure e senza risparmio, una risposta non reticente alle richieste del “mandato sociale” della rivoluzione –  nel 1921, nella speranza di riunirsi con la moglie e di riavvicinarsi a Rudolf Steiner, dopo la propria esperienza tra gli antroposofi a Dornach, e il successivo ritorno in Russia durante la prima guerra mondiale. Ma Steiner rifiutò di riceverlo e Asja di riunirsi a lui, e Belyj cercò uno sfogo nell’alcool e nel foxtrot, eciononostante lavorò moltissimo, scrivendo numerosissimi libri, rielaborando opere precedenti – tra queste il suo capolavoro, Pietroburgo, in una quinta redazione, molto accorciata – nonché dirigendo il mensile letterario “Epopeja”, che pubblicò materiale di altissimo livello: versi della Cvetaeva e Chodasevič, prosa di Remizov e A. Tolstoj e, soprattutto, le sue Memorie su Blok. Ormai sulla strada di diventare uno scrittore dell’emigrazione, tanto da pensare, nell’autunno del ’23, di trasferirsi da Berlino a Praga, se possibile ancora più emigrantskaja, risolve infine positivamente il suo approccio alla nuova vita sovietica:

    Ho lasciato Mosca nell’ottobre del 1921; il periodo più difficile era ormai passato; ho trascorso due anni in Germania; sono tornato…
Si impongono alla mente dei paralleli: con Mosca degli anni passati, e con Berlino; […] dopo Mosca sconquassata e profonda di terreni abbandonati, un aspetto civile, gradevole e spensierato; i primi giorni veniva voglia di entusiasmarsi dell’ordine, della pulizia e della spensieratezza della vita, di trascorrere le serate in un caffè e al suono di una “jazz band” contemplare stupidamente il passaggio delle coppie danzanti al ritmo del boston, del foxtrot e del tango. La prospera Berlino mi pareva l’esatto contrario della non prosperità moscovita di persone e strade…
Ma dal primo mese compresi: tutto questo non è così; il vecchio modo di vita è capovolto, distrutto, ma non alla nostra maniera; si era conservato come esteriorità, ma era distrutto nel tedesco… la sicurezza del tedesco di oggi non è in lui, ma nella foggia dell’abito di cui si riveste; […]l’aspetto della città è anch’esso una foggia; sotto c’è il panico… Ma alla speranza nella Rote Armee l’uomo d’affari berlinese di oggi, che attraversa la Leipzigerstrassecon la borsa e un sigaro in bocca, unisce sogni insensati di revanche, purtroppo non esauriti: non sa neppure lui cosa vuole; non è giunto con sofferenza a nuovi pensieri creativi, non ha perso tutto per acquisire tutto in un altro modo, come il russo che passeggiava per i marciapiedi saccheggiati di Mosca, quasi in stracci […] ma con la speranza che contempla la vita che lievita. La rivoluzione qui si è compiuta. A Berlino c’è stata forse?
[…] “verboten”, ecco quel che è sospeso sull’anima di Berlino: “verboten” riguarda la nuova creazione della vita e del mondo della coscienza […] e la rivoluzione non ha scosso l’uomo d’affari berlinese; egli l’ha accettata, come un comodo rimescolamento di posizioni, per tattica, non con l’anima; ecco perché ora sta lentamente andando in rovina; ecco perché con lui sta rovinando Berlino… Pareva che l’aspetto decoroso della città fosse la manifestazione esteriore di un tetano, che sfocia nella morte senza tragedia e nella decomposizione senza un atto eroico.
[…] spesso sembrava che le vie di Berlino, piene di gente, fossero le vie del Tartaro: là una vita di ombre; qui lo splendore dell’elettricità è la fosforescenza della decomposizione […] un tremito permanente appena percettibile ha costretto per mesi l’uomo di Berlino a sussultare tormentosamente nell’attesa del colpo decisivo […] a deperire per anni senza febbre e delirio in una clorosi, che però alla fine conduce alla tomba: e questa tomba di Berlino è il timore di uno sconvolgimento della coscienza, della quotidianità, delle forme di vita; sì, il filisteo di Mosca è piombato nel fondo; questo fondo si è rivelato il trampolino di un balzo verso forme di coscienza, di costumi e di vita che si stanno raggiungendo, edificando; mentre quello di Berlino in modo organizzato, per mesi, rispettando tutte le forme esteriori, si è adagiato sul fondo… ho capito: sedere al caffè, infatuarsi del foxtrot, ubriacarsi violentemente di Dostoevskij, “Natascha” e di acquavite è un modo di uscire da sé e dalla norma: gli altri berlinesi si inoculano una demenza triviale, da quattro soldi, per non guardare la demenza avanzante della tempesta rivoluzionaria. Sotto la vecchia forma decorosa di Berlino ho cominciato a fiutare il caos selvaggio della reale decomposizione e della morte ; e nell’odore della putrefazione io respiravo con affanno; struggimento e una disperazione – non personale, non mia – si impossessò di me; Berlino è penetrata dentro alla mia anima, appiccicandosi a me come una piovra; da essa sono fuggito…
Sicurezza e presenza di un solido terreno, ecco la prima impressione di Mosca; questo terreno a Berlino non c’è affatto: regna l’insicurezza… La mia prima impressione di Mosca è l’impressione di una fonte di vita; e il primo sorso di questa vita è la gioia di sentirsi non in una città malinconica, estranea, in rovina, ma in una fervida confusione, creativa, un po’ assurda e variegata, sentendo che essa è un laboratorio fertile di future forme, forse ancora mai viste al mondo,

A. Belyj Odna iz obitelej carstva tenej (1925)
Prideaux Press Letchworth-Herts-England, 1971, p. 73


 
    C’era anche, a Berlino, col suo pullulare di iniziative, di case editrici e riviste russe,  un lembo di “terra di nessuno” (I. Erenburg) su cui erano in molti a vantare diritto di cittadinanza: il mensile critico-bibliografico “Novaja Russkaja Kniga”, nelle intenzioni del direttore Jaščenko “un ponte tra la stampa russa e quella dell’emigrazione” destinato a “servire l’unione, l’avvicinamento e la ricostruzione della letteratura russa…”. Terra di nessuno: Erenburg vi magnifica le sorti del costruttivismo; Pil’njak traccia, eterodosso, uno statuto di dignità della letteratura del mužik; Majakovskij vi stila con scarna concretezza la sua autobiografia di militante; mentre Esenin proclama, impudente: “non ho mai fatto parte del Partito Comunista, perché mi sento molto più a sinistra…. I migliori ammiratori della nostra poesia sono le prostitute e i banditi… I comunisti non ci amano per un malinteso…”; e Belyj vi trascrive la prima conferenza pubblica tenuta, il 14 dicembre 1921, presso la “Casa delle arti” : un discorso, quello di Kul’tura v sovremennoj Rossii , di crisi e di ricerca, sospettoso dell’ideologia, propenso all’antitesi e alla contraddizione, perplesso.

    Soggetto di una percezione obliqua e dolente, estranea agli esiti di una civilizzazione ottimista, razionalista, epidermica, la mente ingombra di tensioni mistico-apocalittiche, Belyj nega una rigida classificabilità del reale, insieme alla sua solidità: niente di tangibile intorno, solo idee. Eppure il suo discorso si inscrive in coordinate più che concrete, la guerra civile e il tifo, le fucilazioni, il freddo…ma anche questo è avvertito piuttosto come un’assenza, come una sottrazione, un vuoto (“manca una norma”; “all’uomo medio è stato strappato…”; “abbattute le forme”; “il soggetto della forma è scomparso”; “la linea degli esperimenti politici è un ramo sterile…”). E viceversa: a nascere sono “concetti, impulsi, sentimenti, emozioni estetiche e morali”, e intorno non c’è corposità di oggetti, ma solo un “caos primordiale”, un “elemento fluido” in attesa di solidificazione, di fissazione – sintomatico, nel testo, l’esasperato ricorso alla parola “forma” -, una congerie di accessori ancora da inventariare; l’unica realtà è la ricerca, la latitanza di risposte pronte, la “rifusione delle coscienze”.


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da ⇨ Berlino – Sinfonia di una grande città 1927 di ⇨ Walter Ruttmann


dalle musiche di ⇨ Edmund Meisel per il film

    Belyj si accinge a quest’inventario con gli strumenti di cui dispone: un repertorio inquietante di categorie improbabili, un fideistico ricorso all’alchimia delle parole, che non gli evita certo il vischio della ripetizione e dell’affanno, dell’esercitazione ossessiva su radici ed etimi arbitrari, dell’insistenza. E, stretto tra i “costruttori della vita dall’alto” e la fuga nelle astrazioni, “con le lenti annebbiate del simbolismo” (A. M. Ripellino) abborda ogni cosa per vie traverse, simula risposte, mima le costruzioni del raziocinio, commercia con l’Eternità e l’Autocoscienza e la Morte, qui al maiuscolo ovviamente, entità più che astratte, ormai del tutto metafisiche.

    Ne scaturisce una sorta di riflessione, tutta fratture e sospensioni, intorno a temi cui il “peso dell’epoca” ha conferito urgenza e attualità: sulla nascita di una cultura nuova – in termini qui quanto mai distanti dalle rigide teorizzazioni dei poeti proletari, che pure Belyj richiama, ma solo per ribaltarne lo stereotipo di radicalismo e di semplificazione organizzata; sul ruolo dell’intelligencija – l’individuo cui la rivoluzione ha «tolto la “biografia”, la sensazione di un significato personale» e di contro la folla, politicamente rivalorizzata, nuova committenza; sulla legittimità di una edificazione premeditata, schemi/calcolo/programmazione, dell’esistenza – e la risposta è già tutta nell’avversione per le nuove sigle, per le parole-termini, non semplici “combinazioni di suoni… [ma] termini di lavoro” (Trockij); sulla proponibilità del dubbio e della ri-considerazione: del “nuovo slittamento”.

    In ultimo, un dato: il ritorno di Belyj a Mosca, alla fine del 1923.

  E lì la sua prima impressione: “sicurezza e presenza di un solido terreno […] un laboratorio di future forme, forse mai viste al mondo…” .

Andrej Belyj e Asya Turgeneva nel 1915

La cultura nella Russia contemporanea

di Andrej Belyj

   La vita culturale della Russia di oggi rappresenta una miscela eterogenea di contraddizioni e di estremi: la bellezza si intreccia al brutto, le utopie della mente a realizzazioni più che concrete nel campo dell’arte, l’affanno per un tozzo di pane, un vestito, per un pezzo di legna col pensiero dell’Eternità e della Morte; morte e resurrezione, rovina e nascita di una nuova cultura, tutto è in urto stridente, manca una norma.
   Sperimentando senza oscillare una sequela di quadri della vita russa, patendone dentro di te, stando lì lì per morire e risorgendo in uno stesso giorno, ripeti a te stesso: “La nuova Russia è nata: la prova del fuoco è superata”.
   
La sensazione della nascita di idee, impulsi, sentimenti, emozioni estetiche e morali privi ancora di forma definita, accompagna ovunque e dà la forza di portare giorno per giorno fardelli insostenibili.
    Nella vita della Russia di oggi all’uomo medio è stato sottratto tutto ciò su cui poggiava prima la vita: la fede nella stabilità dell’esistenza, dei capisaldi della morale e dell’ordinamento dello stato; ogni movimento pressoché subcosciente (premevi il campanello – si schiudeva una porta; allungavi la mano per un cerino – eccolo sotto le tue dita)  , esige adesso uno stato cosciente sottraendo, parrebbe, l’energia per qualunque attività (se vuoi che si apra una porta, batti fino a non poterne più; hai bisogno di cerini – corri per tutto il Nevskij); abbattute le forme; e la gente ha preso a vivere nell’informe; costretta  a dare di nuovo un nome alle cose, a re-inventarle. Ma in questo caos Primigenio, che ha iniziato a formicolare sotto la campana di vetro del regime statale universale, si agita ora qua e là una vivida creazione individuale. Il buon senso si è capovolto; per chi non aveva alcun senso vitale se non quello comune, il “buonsenso” appunto, dal 1918 è giunta la fine della Russia, della vita in genere, della vita dell’”io” vivo, individuale, che aveva coscienza di sé solo in quanto “soggetto”, conformante la realtà che è dinanzi; ma questa è crollata, e cos’è mai l’”io”? Il “soggetto” della forma? Ma si è visto che non c’era una forma; e neppure un “soggetto” della forma; doveva scomparire – ed è scomparso.
    La scomparsa del borghesuccio, del “soggetto del buon senso”, è stata da noi vissuta nel 1918-19 come un quadro di demoralizzazione di molte coscienze, incapaci di sollevarsi al di sopra del caos dell’informe, come di imparare a costruire la vita sui principi di un elemento fluido; e, da questo soffocate, sono andate a fondo; e là, sul fondo, hanno preso a vivere nelle forme preumane di ogni sorta di demoralizzazione. C’erano molti quadri di rovina; ma il sale del buonsenso non ha insaporito l’elemento della vita. E quelli sollevatisi al di sopra della vita? Alcuni sono emigrati nella sfera astratta dei principi senza vita, nei ricordi del passato; e là, nel paese dei ricordi, staccati dal difficile processo di rifusione della coscienza, continuano a ripetere di anno in anno: “Ah, che ne è venuto fuori! Lo vedete dunque, ho ragione io!”. Su un piatto della bilancia c’è la coscienza di Ivan Ivanyč, sull’altro milioni di coscienze vive di russi che ricercano tormentosamente i criteri della realtà e non hanno ancora risposte pronte; e la bilancia pende dalla parte di Ivan Ivanyč: “Ah, lo vedete, avevo ragione!”. E’ vero: ma la ragione di un tempo lo ha condotto… ad emigrare dal paese della vita viva, anche se fatta di tormenti; ora egli ha ragione “nel paese dei ricordi”: cioè a dire i concetti astratti di Ivan Ivanyč, concetti che egli, dopo averlo fatto con quelli altrui, non si è degnato di rivedere nella propria testa. Egli si è innalzato verso la propria testa; e lì ora, incorporeo, galleggia per le acque del diluvio; la sua testa è ostruita; e la colomba col ramoscello d’olivo non potrà volare fino a lui: si schianterà contro l’apparato della testa: “Ma come sarebbe? Che può nascere di buono in Russia, quando l’ho portata via nella mia testa? Che Russia è mai quella? Un posto vuoto?…”.
   Altri di quelli che “si sono innalzati” al di sopra del caos primordiale, lo hanno fatto diversamente: innalzandosi in una costruzione utopistica di nuove forme di vita che ignora la crescita della vita dal basso; questi ultimi, “lavoratori responsabili” dei vari Glavprofobr e Čusosnabarm (!!!) sviluppano un’enorme produzione cartacea di schemi, in conformità dei quali ogni tre mesi riorganizzano radicalmente interi sistemi di enti e ricoprono con l’asfalto del livellamento statale il verde che germoglia dal basso. Vivono non nel XX, ma nel CXX secolo;e considerano ogni ramoscello d’olivo della nuova creazione culturale dal punto di vista degli asfaltatori: “Un ramo verde? In base a quale decreto? Ricoprire di asfalto!”.
   Ma il verde della nuova cultura è forte. Non sta né con chi è andato a fondo, né con chi è fuggito nel paese dei ricordi, né con i costruttori della vita dall’alto che, pur fantasticandoci su, sono incapaci di creare l’omuncolo (quel che ne vien fuori son solo dei rozzi modelli di “omuncoli”, cui, fortunatamente, son costretti a rinunciare gli stessi costruttori della vita). In tutti, poi, privi come sono di una propria, autentica coscienza, non ci sono che svariate forme di inerzia; c’è l’inerzia della quiete ( essa si accompagna a chi è immigrato nella propria testa, presumendo molto nella propria intelligenza); e c’è l’inerzia del moto parallelo, uniforme: essa distoglie con irruenza da ogni atto organizzativo; i rappresentanti dell’inerzia rivoluzionaria non si distinguono affatto dai reazionari, inerti per quiete; gli uni e gli altri “hanno diritto di opzione”su utopie, automaticamente trebbiate dalla loro coscienza decrepita. Negli uni e negli altri non v’è stata nell’anima un’autentica collisione di vita e di morte; gli uni e gli altri non sono stati sul punto di morire concretamente; né hanno dato germogli.
   Ramo sterile della vita russa del 1918-21 è rimasta la linea degli esperimenti politici di ogni genere (da quelli di estrema destra a quelli di estrema sinistra). Nessuna iniziativa politica, di agitazione degli ultimi anni ha portato a qualcosa: ma sotto i colpi tremendi degli svariati esperimenti proprio nello strato vivo delle coscienze – che non è andato a picco e non si è rifugiato nelle astrazioni – si è forgiata l’ultima determinazione virile: arrestare il vano martellamento delle definizioni e delle parole pronte nella propria testa (cadette, es-er, marxiste), e restare con la realtà dinanzi, descriverne le forme fluide e a nulla comparabili, stabilire un contatto col materiale accumulato della coscienza e penetrarlo a modo proprio.
   A questo son giunte le intelligenze più indipendenti (di ogni livello di cultura e di istruzione, di tutte le classi, età, professioni, aspirazioni). Quale la conclusione? Si son udite voci affermare che la situazione della varietà di parole d’ordine, concezioni del mondo, gusti, leggi, non era quale la disegnavano le loro riviste – cadette, es-er, mensceviche e bolsceviche – del vecchio periodo prebellico e prerivoluzionario.
   A questo son giunte le intelligenze più indipendenti (di ogni livello di cultura e di istruzione, di tutte le classi, età, professioni, aspirazioni). Quale la conclusione? Si son udite voci affermare che la situazione della varietà di parole d’ordine, concezioni del mondo, gusti, leggi, non era quale la disegnavano le loro riviste – cadette, es-er, mensceviche e bolsceviche – del vecchio periodo prebellico e prerivoluzionario.
   Dapprima queste dichiarazioni individuali suonavano come uno scandalo inaudito nel campo in cui echeggiavano; uscirono allo scoperto i “rinnegati” disinteressati di tutti i campi, e si incontrarono in modo nuovo.
   Epoca dell’esperienza individualistica di ri-considerazione di tutte le vecchie parole d’ordine (ri- e contro-rivoluzionarie) furono gli anni 1918-19; essa avveniva sotto il fuoco della guerra civile, quando uomini dello stesso sangue si distruggevano l’un l’altro al fronte, si maledicevano e tormentavano sul fronte interno; tutti fissava in volto la morte: per freddo, per fame, per tifo; e la gente, che viveva a una temperatura inferiore a zero gradi, costretta a spaccare la legna e a smontare palizzate di nascosto, la gente, sfinita dalle lunghe code, la sera si trascinava per le strade buie di Mosca, di Pietrogrado per riscaldarsi un po’ con gli interessi spirituali (di calore materiale non ce n’era); una quantità di circoli, studi, corsi privati esisteva contro ogni verosimiglianza; ad interrogarsi sull’Eternità e la Morte erano ora uomini che si trovavano a tu per tu con esse; e va da sé che domande e risposte non erano quali le desideravano gli emigranti dalla vita (volati via oltre il confine della coscienza dei “Čusosnabarm”); in queste domande e risposte altre per la prima volta si palesò quell’autentico slittamento della coscienza, di cui non si può riferire a molti né all’estero, né all’interno del paese, giacché è stato attinto dopo molte sofferenze, con tutta la complessità delle contraddizioni che coesistono in una stessa coscienza e smascherano il defunto stesso, per tradizione detto “comune”, nell’aspirazione a un senso concreto della vita.
   Solo chi ha detto a se stesso «Stirb und werde» [sic] ha acquisito questa nuova facoltà: descrivere ciò che è, e non ciò che bisogna attendersi a priori [sic] dal punto di vista di una parola d’ordine pronta.
   Quella del 1920 è stata una primavera d’un tratto tempestosa, ricca di nuove possibilità: erano gli uomini “indipendenti” di una rivoluzione nuova, spirituale, che si chiamavano l’un l’altro, privi di nome per il momento; era Ivanuška Duračëk [“lo sciocco”, figura del folclore russo] che si rivelava infine più intelligente dei fratelli.
   Ogni cultura è un insieme di multiformi acquisizioni conoscitive: è conoscenza di qualcosa in rapporto a qualcosa; è coscienza, dove il «co» non indica affatto un legame meccanico, ma l’insieme di un organismo, vale a dire un certo «auto, se stesso».Cultura delle culture è l’auto-coscienza, dove «auto» o Selbst [sic] nella traduzione in sanscrito è Atman [sic], o respiro di vita; Spirito di vita; l’auto-co-scienza dell’uomo, uomo come principio spirituale, è la cultura delle culture, dove cultura è co-scienza, cioè insieme di conoscenze; tali sono tutte le varietà di scienze, arti, sistemi di pensiero e di libera determinazione; quel che nel XIX secolo chiamavamo cultura non aveva alcun rapporto con essa; erano analisi dei frutti della creazione umana (le forme dell’esistenza, del pensiero, della produzione) attraverso il prisma di una di queste forme, in cui l’insieme della cultura appariva sempre in proiezione unilaterale. La cultura non è nell’essere, ma nel divenire, non nella forma, ma nel processo creativo di costituzione della varietà di forme. La crisi di tutta la cultura è stata da noi percepita come l’infrangersi di una forma, presa al di fuori del legame delle forme, come l’uscire dalla conoscenza unilaterale nella co-scienza; la sensazione di inscienza, di buio nella situazione critica della guerra, della rivoluzione e del sovvertimento delle basi della vita era la prova lampante, era l’istanza di trovare il centro non nella proiezione della forma (nella conoscenza), ma nell’insieme della sfera delle forme, nella «co-scienza»; ma questa co-scienza è possibile solo nell’accezione del «co» come «auto»: nell’auto-co-scienza, nel principio spirituale, nell’espansione cosmica dell’«io» circoscritto. Così l’uscita dai confini era sentita come buio; il buio è il buio del caos; e dalla nostra capacità di dire «Fiat lux» [sic] in verità dipende il passaggio dalla conoscenza alla co-scienza o alla in-scienza.
Solo in simili paradossali parole posso descrivere quella confusa verità – avvertita da una serie di uomini del nuovo slittamento – sull’«io», sulla «coscienza» e sulla percezione spirituale del mondodilatata dalla nuova autocoscienza; e su questa nuova verità della cultura nata (ancora non conformata) intonarono versi i poeti; le righe frementi dei prosatori non furono da meno; e sempre di questo si cominciò a parlare in conversazioni pubbliche, in conferenze, quasi organizzando comizi sui problemi dell’Eternità, della Morte, dell’Autocoscienza, in uditori due anni prima attenti solo alle parole d’ordine dei partiti politici; parlare su una cattedra delle cose recenti, delle tue cose, di quel che hai patito tra pareti fredde, invernali, nella solitudine, nell’oscurità, circondato dal tifo, dalle fucilazioni e dai pidocchi, parlare di quanto c’è di più indistinto, di non descrivibile nella forma è stato in verità un fenomeno sociale inaspettato; i criteri sono stati ribaltati: l’indistinto è divenuto distinto; quel che ieri era distinto, svanito, inesplicabile, inutile, estraneo.
E cose del pari indistinte si son rivelati la politica, e il giornalismo di ieri. Sotto questo aspetto è interessante analizzare alcuni particolari nell’esistenza dei sistemi ideologici, che sono ormai in disfacimento.
   […] Non dimenticherò mai un fatto sorprendente: nella primavera del 1919 nella «Società degli Amici della Parola Russa» tenni una conferenza sul tema «il gesto ritmico». Professori, docenti e dotti membri della Società, manifestando attenzione per le mie ricerche, riconobbero che si trattava per loro di problemi nuovi e complessi; questo mentre, per tutta la stagione 1918-19, mi trovavo a lavorare nell’ambito di questi problemi con un gruppo di poeti «proletari», addentrandoci con approfondimento infinitamente maggiore nei dettagli dei temi. I poeti proletari approfondirono le teorie della parola e i problemi di filosofia del linguaggio, per passare quindi all’ambito dei problemi di filosofia generale. I loro gusti artistici? Chi propendeva per Puškin,; chi per Tjutčev; chi per Rabindranath Tagore; molti per Blok. Anziché la mancanza di individualismo, un critico (ex operaio) predicava: solo nel massimo di individualismo e di dinamismo potrà rafforzarsi la poesia dei proletari. E si dibatteva se la poesia dei poeti proletari potesse essere «poesia proletaria». Invece del «noi» collettivo, i poeti di estrazione proletaria parlavano ormai sempre più spesso della sensazione concreta di un «io» cosmico (il nuovo «io»), distruttore dell’antinomia tra il singolo «io» e la somma di questi «io» (o «noi»). Furono sollevati i problemi dell’autocoscienza e della coscienza cosmica.
   Il mio legame col circolo dei poeti proletari fu fatto segno di ogni sorta di sospetti, calunnie, derisioni: alcuni non vi vedevano che «un servizio reso al potere», altri la propaganda infida di uno «spec borghese», corruttore dell’elemento della cultura proletaria; una cosa soltanto non hanno visto: l’amore di un poeta per dei poeti appunto, e l’atto collettivo di sondare, tentoni, le forme di una poesia extraclassista, eterna, che in modo nuovo si avvicina a noi. Invece degli inflessibili distruttori di valori – desiderati dagli uni e odiati a priori [sic] dagli altri -, ha visto la luce una scuola di poeti nuova, originale, che germina ancora, con delicatezza, il verde delle forme, oh, quanto più seria della falange di poeti da caffè!
   […] Un altro esempio che trasgredisce le costruzioni aprioristiche dei rivoluzionari inerti e degli inerti reazionari: l’autentica composizione di un uditorio nuovo, democratico, dove affluiscono a frotte gli ex rappresentanti delle «masse», che hanno smesso di essere tali. Secondo alcuni, che nel 1918-19 avevano eretto intorno ai loro studi barricate di astrazioni, in questi uditori di massa doveva regnare una sorta di comizio permanente: dovevano risuonarvi solo grida piene di odio: «morte ai borghesi!»; queste idee hanno continuato ad esistere anche quando negli auditori pieni le ex masse, fattesi somma di individui, discutevano turbate i problemi dell’Eternità e della Morte. Una volta qui, a Berlino, mi hanno chiesto se c’è clamore in Russia intorno a un fenomeno di tanta rilevanza come la Corrispondenza da un angolo all’altro , di V. Ivanov e M. O. Geršenzon. Non ho avuto l’animo di disilludere l’interrogante con la risposta «no, perchè da tutti gli angoli della Russia è in atto una riflessione a molte voci sui temi di questa Corrispondenza, prima ancora della Corrispondenza». Lo stesso accadeva nel 1920-21 negli auditori di Mosca ( nel «Museo Politecnico», nel «Palazzo delle Arti», in svariati studi), dove finalmente erano approdati molti di coloro che ancor di recente erano barricati dalle proprie astrazioni; di essi, alcuni confessavano: l’uditorio è cambiato. È divenuto più pronto, più fine e ricettivo. Nei cuori si scrivono dei tomi: simili alla Corrispondenza, superiori ad essa, sono già scritti nella coscienza della nuova cultura russa veniente (la mancanza di carta nonindica ancora mancanza di cultura del pensiero); una nuova cultura, un pensiero nuovo, libero esiste già a dispetto di ogni «stridore di denti»; ed è strano parlare della Corrispondenza da un angolo all’altro, quando continua il vocio di centinaia e migliaia di coscienze che, affollatesi da tutti gli angoli, dichiarano col fatto stesso della loro esistenza: c’è una cultura in Russia, una cultura che ha visto dinanzi a sé il volto della bara e della morte, che non si è lasciata intimorire né dalle bare della contemporaneità, né da quelle a lei approntate da lontano.
   È la cultura dell’Eternità che sta scendendo sulla Russia.

Kul’tura v sovremennoj Rossii
Conferenza pubblica, 14 dicembre 1921
presso la “Casa delle arti”
in “Novaja Russkaja Kniga”, 1922/1

 

 


Francis Scott Fitzgerald il sognatore

2

di Stefania Brivido

 

Quando si sente parlare di “Generazione Perduta” e di letteratura americana, la figura di Francis Scott Fitzgerald giunge lampante nei pensieri di un lettore. Lo scrittore originario del Minnesota è famoso per avere scritto sui “ruggenti anni Venti” e in particolare sulla cosiddetta età del jazz. Il luogo di cui Fitzgerald scrive è un’America nuova fondata su Wall Street, immersa in balli sfrenati a suon di jazz, fiumi di champagne, vacanze in Riviera, ville ed hotel di lusso, uno sfarzo febbrile che si traduce in quella che verrebbe definita la joie de vivre. Forse molti saranno a conoscenza del fatto che quasi tutti i romanzi di Fitzgerald rappresentano la trasfigurazione della sua burrascosa vita sentimentale con la moglie Zelda. I protagonisti creati dallo scrittore sono dei veri e propri sognatori. Quanto di Francis Scott Fitzgerald c’è in Jay Gatsby o in Dick Diver? Moltissimo, forse tutto. Ecco che entra in gioco il filo sottile tra realtà e finzione, tra la vita vera e il romanzo, tra la veglia e il sonno, ovvero il sogno di un sogno. Un sognatore vive la propria vita possedendo delle aspirazioni, dei desideri e cercando di realizzare se stesso, ma i personaggi di Fitzgerald, per quanto siano sognatori, finiscono per autodistruggersi: Jay Gatsby, da Il grande Gatsby, troverà la morte illudendosi di ritrovare l’amore che aveva provato un tempo con una messinscena magistrale; Dick Diver, da Tenera è la notte, troverà la solitudine, e Anthony Patch, da Belli e dannati, troverà la dolorosa realtà davanti allo svanire dei sogni. Persino la felicità è transitoria e Fitzgerald lo sa benissimo. Nei Racconti dell’età del jazz, lo scrittore decide di mostrare l’altra faccia della medaglia: la povertà e la miseria, figlie della Grande Depressione e del primo dopoguerra, il lato illegale della ricchezza che sfocia in corruzione e l’illusione della giovinezza eterna. La crisi esistenziale che vive il matrimonio di Dick Diver e sua moglie Nicole in Tenera è la notte è lo specchio della Grande crisi avvenuta negli Stati Uniti nel 1929. Dunque, è facile comprendere quanto sia labile il confine tra la vita vera e la realtà fittizia del romanzo per Fitzgerald, che – con la sua prosa mai monotona, ma elegante, ricca di dialoghi estremamente intelligenti e spesso provvisti di una meticolosa analisi psicologica – decide di assegnare le proprie passioni ed ambizioni a personaggi memorabili, degni di rappresentare quella che è l’accezione di Lost Generation: un termine coniato dalla scrittrice Gertrude Stein per definire quella generazione di giovani sopravvissuti alla Prima Guerra Mondiale, che si trova a fronteggiare la vecchia aristocrazia agraria e il nuovo ceto emergente industriale e imprenditoriale. Una generazione che prova un senso profondo di smarrimento e che affronta la vita con un’immaturità sentimentale. Stava nascendo la società di massa e il consumismo capitalista come oggi noi lo conosciamo e Fitzgerald, Hemingway, Faulkner, Dos Passos, Anderson, Steinbeck ed Eliot sono i degni rappresentanti di questa nuova età. Del resto c’è una frase molto importante ne Il Grande Gatsby, la frase finale del romanzo, nella quale è possibile ravvisarvi una sorta di epitaffio per tale generazione: “così remiamo, barche controcorrente, risospinti senza sosta  passato“.
Ma la citazione fa anche riferimento al ruolo del personaggio Gatsby, il ruolo di chi perde nella vita e non riesce a rialzarsi. In fondo, che cos’è che rende questi perdenti così degni di essere ammirati? Il fatto che è tipico dei perdenti essere sognatori. L’azione stessa del sognare, del desiderare, dell’aspirare a qualcosa o a qualcuno li fa sentire vivi, potenti e immortali anche soltanto per un breve istante.
Matthew J. Bruccoli, studioso di letteratura americana, afferma che Fitzgerald possedesse la cosiddetta “strenght of weakness“, cioè la forza della debolezza ed è l’apprezzamento più grande che lo scrittore del Minnesota possa meritare. In Maschiette e filosofi, egli glorifica un’America vitale, fedele ai miracoli e all’arte, romantica e anticonformista nella quale le maschiette celebrano se stesse con la vanità, l’eccesso, la ritrosia e l’anticonformismo. Come afferma Ardita, la protagonista del primo racconto:
Avere coraggio per me significava aprirmi un varco tra quella nebbia grigia e insulsa che scende sulla vita […] , non solo passare sopra alle persone e alle circostanze, ma passare sopra alla desolazione dell’esistenza“.
Le maschiette descritte dall’autore sono personaggi emblematici che anticipano quelli successivi nei suoi romanzi come Daisy Buchanan o Nicole Warren e sono donne caratterizzate dal culto di una bellezza scintillante e della mercificazione, specchio della jazz age e del Welfare State. Fitzgerald dice in Tenera è la notte che:
La bella Nicole […] è il prodotto di una macchina i cui congegni sono le ferrovie transcontinentali, le cinghie di trasmissione …“.
La vita di Fitzgerald è stata costellata da continue cadute come l’alcolismo, la schizofrenia di Zelda e la competizione artistica crescente fra i due, i fallimenti con le sceneggiature a Hollywood, i lutti e la perdita di preziose amicizie. Perciò, la letteratura rappresentava l’unico mezzo per esorcizzare questa desolazione di un’esistenza di squallida apparenza, per condurlo alla gloria terrena da sognatore quale era.

Da “Choses tues” #2

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Di Paul Valéry

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Traduzione di Jacopo Masi

[Testi tratti dalle sezioni V e VI di Choses tues, Gallimard, 1932. Una prima selezione di testi tradotti è stata presentata qui.]

 

Parte V

 

La nozione di “grande poeta” ha generato più poetucoli di quanto non fosse ragionevole attendersi dalle combinazioni del caso.

*

L’odio più forte e più necessario è diretto a coloro che sono ciò che noi vorremmo essere: ed è tanto più aspro quanto più tale stato è inseparabile dalla persona stessa. È un furto possedere la fortuna o il titolo che un altro vorrebbe; è un assassinio possedere il fisico, o l’intelletto, o i talenti che corrispondono all’ideale di qualcuno. Gli si rivela a colpo d’occhio che tale ideale non è chimerico e che il posto è già occupato.

Ma quell’invidioso dimentica il vero grande vantaggio di non avere ciò che si desidera, cioè il considerarlo da un punto di vista vietato a chi lo possiede e il dovere educarsi a sminuirlo per vivere! Mentre il possessore lo sminuisce in quanto ce l’ha…. Ogni ideale è attaccato dai due fronti. Il sistema: Sono troppo acerbi e il sistema: sono marci, cospirano contro di esso.

*

I nostri veri nemici sono silenziosi.

*

Un uomo che ci attacca, non è che un uomo che si sgrava.

Immaginate dunque la faccia di un uomo che sul suo foglio cerca e trova un bell’insulto contro di voi. Lo cancella e ne trova uno ancora migliore…

– Tenete sempre affissa questa immagine al muro del vostro animo.

*

Legge meccanica degli insulti.

Per un testimone sufficientemente distante, l’insulto non si fissa al punto cui è indirizzato: ogni sputo descrive una curva chiusa.

*

Nascondi il tuo dio.

Non si devono attaccare gli altri, ma i loro dei. Si devono colpire gli dei del nemico. Ma prima bisogna quindi scoprirli. I loro veri dei, gli uomini li nascondono con cura.

*

Meglio perdonare gli insulti – che dimenticarli –. Ma il perdono non è mai reale. Niente può annullare il dolore attuale. Chi perdona in questo stato, finge di essere ciò che ancora non è. È una nobile commedia.

*

L’incontro.

Che tiro della sorte sarebbe, per due uomini in fuga l’uno dall’altro, ignari della rotondità della terra, ritrovarsi faccia a faccia agli antipodi del punto di partenza!

Ciò può capitarci con i nostri peggior nemici.

Esistono alcune curvature nella fibra del tempo della vita che conducono dall’impossibile al reale e dall’inconcepibile al compiuto.

 

Parte VI

 

Sguardi.

Degli sguardi che si incontrano fanno nascere strani rapporti.

Nessuno potrebbe pensare liberamente se i suoi occhi non potessero staccarsi da altri occhi che li seguono.

Non appena gli sguardi si allacciano, non si è più davvero due, e diventa difficile restare soli.

*

Sugli sguardi che “si scambiano”.

Questo scambio, il termine è appropriato, realizza in un tempo brevissimo una trasposizione, una metatesi, un chiasmo di due “destini”, di due punti di vista. In esso si compie una sorta di reciproca limitazione simultanea. Tu prendi la mia immagine, la mia apparenza, io prendo la tua. Tu non sei me, poiché tu mi vedi e io non mi vedo. Ciò che mi manca è questo me che tu vedi. E quello che manca a te, è il te che io vedo.

E per quanto avanziamo nella conoscenza l’uno dell’altro, tanto ci rifletteremo quanto saremo altri. E tutto il resto rimarrà identico, e forse… comune!

E più i nostri sguardi si separeranno, più ci perderemo di vista, più saremo indiscernibili.

Io ti vedo, per non essere te, non essendo Te.

Questo tipo di analisi può applicarsi tra sé e se stessi.

*

Sorrisi.

Due persone si incontrano. Sorrisi come eccitati di vedersi, e mantenuti per un po’ di tempo. Si riposano per lasciar passare una o due frasi serie. Rinascono, si distaccano; e, separati l’uno dall’altro, si distendono, si dissolvono…

*

Tra noi.

Le relazioni umane si fondano su cifre. Decifrare, è guastare[1]. La cifra ha il vantaggio di dire senza dire, e di mantenere in sospeso, reversibile, l’opinione reciproca. Ci preserva dal portare giudizi decisivi e definitivi che non sono mai veri tranne che nell’istante.

*

Tutto ciò che si dice di noi è falso; ma non più falso di quello che noi ne pensiamo. – Ma di un falso diverso.

*

Intimi.

Non si diventa davvero intimi che tra persone con lo stesso grado di discrezione. Il resto, carattere, cultura e gusti, importa poco.

L’intimità vera poggia sul senso condiviso di pudenda e tacenda.

È la ragione per cui essa permette un’incredibile libertà; tutto il resto può essere detto.

Ma ci sono false intimità.

Poche amicizie complete. Raramente si è totalmente amici. È il motivo per cui capita di avere molti amici e di tipi molto diversi.

“Ha tanti amici quante persone in lui.”

Non è il più intimo quello che preferisce. È probabile che ci riveliamo di più (o crediamo di rivelarci) a colui che più amiamo? Per il favorito ci si fa più belli.

Se un rapporto tra due persone si guastare, è perché stavano un po’ troppo bene assieme. I rapporti superficiali sono sempre buoni. Ma l’intimità rende percettibile ogni minima variazione. Non bisogna dimenticare che essa consiste in una indiscrezione concessa, offerta o sollecitata, i cui limiti sono incerti, che produce un’impressione niente meno che costante ed esige un’attenzione minuziosa per essere esercitata senza danni e senza segrete conseguenze molto pericolose per l’amicizia.

*

C’è, nelle relazioni che tra persone delicate si fanno intime, questa straordinaria miscela di paura di non essere capiti e terrore di essere capiti.

– Bisogna che mi capiate senza che il vostro sguardo mi rimandi l’idea di un uomo che si è spiegato. Non dimenticate che mi vedo nel vostro atteggiamento, e non voglio vedervi nulla di insopportabile.

Che il vostro silenzio sia uno specchio senza macchia, ecc.

*

I veri segreti di un individuo gli sono più segreti di quanto non lo siano agli altri.

*

Il segreto di un uomo d’ingegno è meno segreto del segreto di uno stolto.

*

Quod verbum in pectus Jugurthœ altius quem quisquam ratus erat descendit.

Salluste.[2]

 

Non si può mai sapere in che punto e fino a quale nodo dei nervi, qualcuno è toccato da una parola, – intendo: insignificante.

Toccato, – vale a dire: cambiato. Una parola fa maturare bruscamente un bambino. Ecc.

[1] Valéry mi pare giochi sul doppio senso di “se brouiller”, verbo che indica sia l’atto di rompere un legame (“se brouiller avec quelqu’un”) sia l’offuscamento, la confusione, la perdita di nettezza, di limpidità nella percezione, effetto paradossale del tentativo di “decifrazione”. Tentando di conservare una certa duplicità semantica, nella traduzione italiana si è optato per un “guastare”. Il verbo ritorna nel passaggio “Intimi” (“Intimes”), questa volta nel senso univoco di “litigare”: per coerenza e per non perdere il richiamo, si è mantenuta la stessa traduzione, adattando la costruzione [N.d.T.].

[2] Sallustio, Bellum Iugurthinum: “La quale parola penetrò nel petto di Giugurta più in profondità di quanto chiunque avesse pensato” [N.d.T.].

*

V

 

La notion de « grand poète » a engendré plus de petits poètes qu’il n’en était raisonnablement à attendre des combinaisons du sort.

 

*

 

La plus forte et la plus nécessaire haine va à ceux qui sont ce que nous voudrions être : et d’autant plus âpre que cet état est plus attaché à la personne même. C’est un vol que de posséder la fortune ou le titre qu’un autre voudrait ; c’est un assassinat que de posséder le physique, ou l’intellect, ou les dons qui sont l’idéal de quelqu’un. On lui fait voir par un seul coup d’œil que cet idéal n’est pas chimérique et que la place est prise.

Mais ce jaloux oublie le grand et véritable avantage de ne pas avoir ce qu’on désire, qui est de le considérer d’un point interdit à qui le possède et de devoir s’instruire à le déprécier pour vivre ! Tandis que le possesseur le déprécie en tant qu’il l’a… Tout idéal est attaqué par les deux faces. Le système : Ils sont trop verts et le système : ils sont pourris, conspirent contre lui.

 

*

 

Nos vrais ennemis sont silencieux.

 

*

 

Un homme qui nous attaque, ce n’est qu’un homme qui se soulage.

Imaginez donc la face d’un homme qui cherche et trouve sur son papier une belle injure contre vous. Il rature et trouve mieux encore…

– Placez toujours cette image au mur de votre esprit.

 

*

 

Loi mécanique des injures.

Pour un témoin suffisamment éloigné, l’injure ne se fixe pas au point où elle est adressée : chaque crachat décrit une courbe fermée.

 

*

 

Cache ton dieu.

Il ne faut point attaquer les autres, mais leurs dieux. Il faut frapper les dieux de l’ennemi. Mais d’abord il faut donc les découvrir. Leurs véritables dieux, les hommes les cachent avec soin.

 

*

 

Mieux vaut pardonner aux injures – que de les oublier –. Mais le pardon n’est jamais réel. Rien ne peut annuler la douleur actuelle. Qui pardonne dans cet état feint d’être ce qu’il n’est pas encore. C’est une noble comédie.

 

*

 

La rencontre.

Quel coup de hasard pour deux hommes qui se seraient fuis, ignorants de la rondeur de la Terre, quand ils se trouveraient nez à nez aux antipodes du lieu !

Ceci nous peut arriver avec nos plus grands ennemis.

Il y a certaines courbures dans la fibre du temps de la vie qui conduisent insensiblement de l’impossible au réel et de l’inconcevable à l’accompli.

 

 

VI

 

Regards.

Des regards qui se rencontrent font naître d’étranges rapports.

Personne ne pourrait penser librement si ses yeux ne pouvaient quitter d’autres qui les suivraient.

Dès que les regards se prennent, l’on n’est plus tout à fait deux, et il y a de la difficulté à demeurer seul.

 

*

 

Des regards qui « s’échangent ».

Cet échange, le mot est bon, réalise dans un temps très petit, une transposition, une métathèse, un chiasma de deux « destinées », de deux points de vue. Il se fait par là une sorte de réciproque limitation simultanée. Tu prends mon image, mon apparence, je prends la tienne. Tu n’es pas moi, puisque tu me vois et que je ne me vois pas. Ce qui me manque c’est ce moi que tu vois. Et à toi, ce qui manque, c’est toi que je vois.

Et si avant que nous allions dans la connaissance l’un de l’autre, autant nous nous réfléchirons, autant nous serons autres. Et tout le reste sera identique, et peut-être… commun !

Et plus nos regards se quitteront, plus nous nous perdrons de vue, plus nous serons indiscernables.

Je te vois, pour n’être pas toi, n’étant pas Toi.

Cette espèce d’analyse peut s’appliquer de soi à soi-même.

 

*

 

Sourires.

Deux personnes se rencontrent. Sourires comme excités de se voir, et conservés quelque temps. Ils se reposent pour laisser passer une ou deux phrases sérieuses. Ils renaissent, se détachent ; et, séparés l’un de l’autre, se déplissent, se dissolvent…

 

*

 

Entre nous.

Les relations humaines sont fondées sur chiffres. Déchiffrer, c’est se brouiller. Ce chiffre a l’avantage de dire sans dire, et de garder suspendue, réversible, l’opinion réciproque. Il nous préserve de porter des jugements décisifs et définitifs qui ne sont jamais vrais que dans l’instant.

 

*

 

Tous ce que l’on dit de nous est faux ; mais pas plus faux que ce que nous en pensons. – Mais d’un autre faux.

 

*

 

Intimes.

On ne devient vraiment intimes qu’entre gens du même degré de discrétion. Le reste, caractère, culture et goûts importe peu.

L’intimité véritable repose sur le sens mutuel des pudenda et tacenda.

C’est par quoi elle permet une incroyable liberté ; tout le reste peut être dit.

Mais il y a de fausses intimités.

Peu d’amitiés complètes. On est bien rarement amis pour la totalité. C’est pourquoi il arrive d’avoir plusieurs amis et d’espèces très différentes.

« Il a autant d’amis que de personnes en lui. »

Ce n’est pas le plus intime qu’il préfère. Est-il probable que l’on se dévoile le plus (ou que l’on croie se dévoiler) à celui que l’on aime le mieux ? On se fait plus beau pour le préféré.

Si deux personnes se brouillent, c’est qu’elles étaient un peu trop bien ensemble. Les rapports superficiels sont toujours bons. Mais l’intimité rend les moindres variations très sensibles. Il ne faut pas oublier qu’elle consiste dans une indiscrétion permise, offerte ou sollicitée, dont les limites sont incertaines, dont l’impression qu’elle produit n’est rien de moins que constante, et qui exige une exquise attention pour s’exercer sans dommage et sans conséquences secrètes très dangereuses pour l’amitié.

 

*

 

Il y a, dans les relations qui se font intimes entre gens délicats, ce mélange extraordinaire de la crainte de n’être pas compris avec la terreur d’être compris.

– Il faut me comprendre, sans m’offrir dans votre regard l’idée d’un homme qui s’est expliqué. N’oubliez pas que je me vois dans votre attitude, et je n’y veux rien voir d’insupportable.

Votre silence soit un miroir sans défauts, etc.

 

*

 

Les véritables secrets d’un être lui sont plus secrets qu’ils ne le sont à autrui.

 

*

 

Le secret d’un homme d’esprit est moins secret que le secret d’un sot.

 

*

 

Quod verbum in pectus Jugurthœ altius quem quisquam ratus erat descendit.

Salluste.

 

On ne sait jamais en quel point, et jusqu’à quel nœud de ses nerfs, quelqu’un est atteint par un mot, – j’entends : insignifiant.

Atteint, – c’est-à-dire : changé. Un mot mûrit brusquement un enfant. Etc.

Più schifo di prima

4

di Marco Corvaia

Se la tenera luce dellʼalba le facesse visita ogni mattina, rendendo affabili tutte le superfici, e la sua pelle, e lʼaria, quasi non le dispiacerebbe abitare in questo seminterrato, sotto sua madre, che chiama solo Vania; quei colori ammalianti le infondono una sensazione di benessere che la accompagna a lungo. Invece capita di rado, e oggi non è uno dei giorni fortunati. Mangia uno zabaione davanti alle uova che accudisce, illuminata dalla lampada che ha trovato tra la spazzatura, nel soggiorno consumato dallʼumidità.

Quelle stanno bene. Dormono, orfane e indifferenti, negli alloggi dellʼincubatrice, che ha una temperatura stabile, confortante. Aggiunge dellʼacqua nella vaschetta e ammira la loro intatta perfezione. Manca poco alla schiusa. La rottura dei gusci però la disturba, preferirebbe si aprissero come dei fiori che sbocciano, per poi tornare alla forma originaria. Accertarsi che contenessero embrioni e rubarle non è stato facile. Terminata la colazione, gli scatta una foto con il cellulare.

Non si era mai occupata di qualcosa di vivo in modo esclusivo, non ha nemmeno una pianta. Lʼunico essere vivente che è stato in casa sua è un topo. Lʼha catturato con la colla, spappolato a martellate e messo in bellavista, finché non si è putrefatto, come avvertimento per i suoi simili.

Spazzola i capelli, che le nascondono viso e collo, ma non abbastanza, e si veste pesante, anche se fuori non fa freddo. Saluta i surrogati da maternità ed esce.

 

Dalla fermata dellʼautobus vede la finestra della camera da letto di Vania. Come sempre a questʼora lì è tutto spento, lei si sveglia quando le pare. Non deve pagare lʼaffitto, e lʼassegno di invalidità, sommato a qualche lavoretto di sartoria, le basta. Lo riceve da quando un tizio lʼha buttata giù dalle scale, per farle capire che la loro relazione era finita. Caviglia e rotula le si sono sbriciolate, ma non lʼha denunciato. Da allora è zoppa e non frequenta più uomini.

Deve aspettare cinque minuti. Le viene in mente la volta in cui ha chiesto a Vania: «Come si legge lʼorologio con le lancette?». Aveva sei anni; le ha detto che non lo sapeva.

Qualsiasi domanda le facesse, la risposta era sempre la stessa: «Non lo so». E con uno sdegno che le atrofizzava lʼintenzione di insistere. Da bambina credeva che Vania fosse la donna più ignorante del mondo, non conosceva niente. Crescendo ha capito che semplicemente non voleva parlarle, per guardarla il meno possibile. Ha dovuto imparare tutto da sé, suo padre è sparito prima che fosse in grado di conservarne dei ricordi.

Una cosa però glielʼha insegnata: i periodi buoni sono unʼillusione. Lo ripete spesso, appena i problemi si assentano per un poʼ. Ne è convinta anche lei.

Prende posto in fondo, come ai tempi della scuola. Non si è mai pentita dʼessersi ritirata dopo le medie. Di studiare non le importava, e fare da bersaglio era snervante; veniva offesa e derisa da tutti, ogni giorno, perfino dai bidelli. Non se nʼè mai lamentata, non avevano torto, i suoi occhi sono troppo distanti e allʼingiù, la mandibola è troppo stretta, il mento non cʼè, il naso è piatto, gli zigomi sono incavati, i denti stanno nella bocca a casaccio e al posto delle orecchie ha dei residui di cartilagine senza senso. Ma la reiterazione è una tortura. Se non avesse i dotti lacrimali tanto ristretti, quando la esasperavano avrebbe pianto.

Lʼudito invece le funziona benissimo. Sente tutto quello che dicono i presenti. Qualcuno si lagna degli immigrati, qualcun altro dellʼinflazione, dei ragazzini sono in ansia per il compito in classe. Un tipo scheletrico suggerisce a uno con la gobba di non voltarsi, altrimenti rischierebbe di vomitare, quello non gli dà retta e vedendola sussulta; poi commentano con disgusto la sua bruttezza. Lei sogghigna, la mancanza di solidarietà dei difettosi la reputa una patetica rivalsa.

Origliare la tranquillizza, rende meno logorante la solitudine; è la sua abitudine sociale. Di recente un argomento ha contagiato tutti, il fatto di cronaca del momento: un bambino ha accecato il prete che voleva violentarlo, pugnalandolo nelle orbite con un crocifisso. Dicono che è un eroe, che merita una medaglia, che chissà quanti altri ne ha salvati così. E che è stato Gesù Cristo ad armare la sua mano, perché lo ama. Quando lʼha saputo, ha pensato a quel sacerdote orbo, che nega le accuse. Lo conosce, le ha fatto il catechismo, e in quei due anni non lʼha sfiorata neppure per sbaglio. Neanche un pedofilo mi ha voluta scopare, ha considerato, manco uno grasso e stupido.

Intanto marciapiedi e alberi scorrono, lʼautobus si svuota, le case si abbassano, si distanziano, diventano villette, e superato il campo di granturco, dove il territorio sembra spianato da una pialla colossale, che lʼha privato di qualsiasi punto di riferimento, tocca a lei scendere. Il resto della strada lo percorre a piedi.

 

Allʼingresso dellʼazienda, che molti definiscono lager nazista, le fanno subito notare che anche stavolta non è arrivata in motorino, come se non lo sapesse. È guasto e fino al prossimo stipendio non potrà ripararlo.

Nel magazzino, spacciato per spogliatoio dei dipendenti, si piazza sopra un sacco di plastica vuoto che fa da tappetino, toglie gli abiti in eccesso e li appende a un chiodo conficcato nel muro scrostato. Poi indossa guanti da giardinaggio, mascherina monouso e stivali di gomma.

Carica il mangime su una carriola e si avvia verso un capannone, incrociando qualche collega, con cui si scambiano lievi cenni del capo. Tranne un ex carcerato che ha trovato dio e che con questo impiego vuole continuare a espiare i propri peccati, sono tutti stranieri, e non durano granché. Loro le rivolgono la parola, se ne hanno il tempo, ma solo se ha il volto coperto.

Apre la porta di lamiera, accende i neon e si spinge dentro. Il fetore di ammoniaca è talmente intenso, e il convulso chiocciare di migliaia di galline ovaiole è così assordante, che il primo giorno lʼhanno fatta svenire. Ormai ne è assuefatta, procede tra le gabbie con disinvoltura, ignorando zampe spaccate sulle grate, becchi spezzati, creste mozzate e qualsiasi malformazione. Se ne frega anche di quelle morte, eliminarle è una mansione saltuaria, deve solo nutrirle, assicurarsi che abbiano da bere e raccogliere le uova.

Dopo il terzo capannone è il turno dei polli broiler. In questo cʼè buio, tira fuori una torcia per vederci qualcosa. Miasmi e baccano sono ancora peggiori, parecchi sono malati e di cadaveri ce ne sono di più; avanzando nella calca scalcia gli animali che le intralciano il passaggio. Fuori tossisce marrone, la polvere sembra averle bucato la protezione, intasandole la gola. E ne deve affrontare altri tre. Nellʼottavo, il suo preferito, andrà di pomeriggio.

Addenta il panino con la frittata, seduta su una pila di bancali, con le suole incrostate di merda e piume. Durante quella breve pausa pranzo, quando non piove, sta allʼaperto; nel magazzino spacciato per mensa ci sono soltanto delle sedie sgangherate, e il tanfo di muffa sovrasta quello del cibo. Ci starebbe anche quando diluvia, se ci fosse un punto dove ripararsi; le reazioni di ribrezzo le stroncano lʼappetito, nessuno sopporta vederla masticare.

In disparte evita ulteriori chiacchiere sul bambino e sul prete. Non capisce perché se ne parli tanto. Con il primo colpo si è difeso, con il secondo lʼha punito; è stato bravo, caso chiuso. Forse è solo più facile discutere di qualcosa che non ci riguarda, riflette, soprattutto se fa clamore, piuttosto che parlare di sé, e la gente non sa starsene zitta.

«Ehi, amica, mi dai un sorso di birra?» sente domandarsi da dietro.

«È limonata» risponde, risollevando la mascherina.

Un ragazzo le è girato intorno e adesso le sta davanti, con lʼespressione di chi non ha capito, mentre fissa la sua bottiglietta dal contenuto giallognolo. È nuovo, forse marocchino, non lʼha mai visto.

«Non è birra, io non ne bevo. Sono astemia» specifica.

«Ma sei di queste parti?»

Lei annuisce, appallottolando lʼincarto del panino.

«Cioè sei veneta e astemia? Non è possibile, qui vi ubriacate tutti».

«Io no».

«Non ci credo» dice, e si fa una risata. «Devi essere unʼaliena» aggiunge.

«Mi hanno chiamata anche così» ed espone la sua deformità, stroncando il divertimento.

Dopo lo sgomento e delle goffe scuse, il ragazzo si dilegua. Lei si rimette a lavoro.

E sgorbio, mostro, incubo, seppia, scorfano, senzʼanima, spaventacristiani, faccia sciolta, aborto fallito, bestia informe, immondizia umana, Super Sloth, film horror, maschera di Halloween, creatura dellʼinferno, errore della natura, fenomeno da baraccone. Le hanno dato così tanti soprannomi che non li ricorda tutti. Alcuni però lʼhanno fatta sorridere per lʼoriginalità.

Pulisce i viali attorno ai capannoni e ai magazzini, scarica da un camion dellʼattrezzatura per gli uffici, in gruppo, e riempie due furgoni di uova, fingendo di non sentire il marocchino che blatera del suo aspetto. Il sudore le infradicia la maglietta, percepisce tutto il peso del cielo trevigiano su di sé. Chiede al responsabile il permesso di andare in bagno.

Piscia in equilibrio precario, fra batteri e funghi patogeni, con i pantaloni alle ginocchia. Si sciacqua le mani con acqua non potabile, esaminando la ragnatela che sostituisce il solito fastidio dei bagni pubblici; di specchi non ce ne sono, come a casa sua.

Inizia a sentirsi smontata dalla stanchezza e a corto di fiato, le fanno male braccia e schiena, ma appena entra nellʼottavo capannone rinasce. Il sessaggio dei pulcini è stato quasi ultimato. Li sente pigolare, tutti insieme, frenetici e impauriti. Qualcuno sta già spostando le femmine nel pollaio. A lei spettano i maschi, e ne è felice.

Impila le cassette con quegli scarti di produzione su un carrello e li porta nella sala accanto. Il grande macchinario che chiama tritacarne è in funzione. È un imbuto di denti metallici che ruotano a una velocità esorbitante, sminuzzando tutto quello che ingurgita. Rastrella i piccoli a manate e ce li scaraventa dentro, assaporando ogni suono della triturazione, una cassetta dopo lʼaltra, finché sono tutte vuote. Ne adora il ritmo, ogni rumore prodotto, la trasformazione organica; quando nessuno la vede si ferma, chiude gli occhi e si gode quella sinfonia.

Sa che in altri allevamenti intensivi è tutto automatizzato, oppure il loro smaltimento avviene in modalità differenti; è una fortuna che sia stata assunta in questo, è la principale ragione per cui ci lavora. Torna di là, fa un altro carico e ricomincia.

In alcuni paesi europei questa pratica non esiste più, e ha letto che tra qualche anno verrà abolita anche in Italia, ma non vuole farsi rovinare la parte migliore della giornata da certi pensieri negativi. Dipendesse da lei, la estenderebbe ai neonati maschi, per avere delle chances in più con le ragazze. Non crede sia davvero crudele, è una morte più rapida di altre, ma meno convenzionale. Morire così le piacerebbe, diventando una nota della musica che la inebria, e non troppo tardi, è vivere male la vera crudeltà.

Rientra nel finto spogliatoio. Ripulisce gli stivali, conserva i guanti, getta la mascherina. E recuperati gli abiti appesi, se ne va.

Mentre si dirige verso lʼuscita del campo di concentramento, come un kapò che ha degli incarichi da eseguire allʼesterno, volge lo sguardo allʼedificio di cui si è innamorata allʼistante. Il primo ascolto è stato una rivelazione. Appena ne ha avuto la possibilità, ha registrato la sinfonia del tritacarne, per averla sempre con sé, scoprendo però che lʼeffetto era più blando. Per raggiungere lʼestasi deve esserne lʼimpulso scatenante, e già freme per la replica di domani.

Nessuno degli svaghi che ha provato è mai riuscito a darle il minimo piacere. Lo sport è ridicolo, il cinema è bugiardo, disegnare è frustrante, le escursioni sono deprimenti. In questo periodo sta testando videogiochi e pornografia. Con i primi spara, distrugge e ammazza chiunque, senza capirne lo scopo. Con la seconda guarda splendide ninfomani che si fanno di tutto, senza mai eccitarsi, così si sofferma sulle scenografie. Quella tenda è più attraente di me, pensa, quella sauna è più intrigante di me, quella Jacuzzi è più affascinante di me, quelle lenzuola sono più desiderabili di me.

Il suo edonismo risiede solo nel congegno che tritura quei pulcini maschi.

 

È di nuovo in autobus. Le vibrazioni sotto al sedile e il leggero dondolio nelle soste le danno sonnolenza. Le palpebre cedono. Appena sente nominare Venezia però si risveglia, come se fosse scattato un allarme.

Ricorda il treno che viaggiava su rotaie invisibili, con il mare a destra e a sinistra, in una suggestione di fantasia. Alla stazione, dopo un velo dʼombra simile a un sipario, sono apparsi canali, pontili, rii, imbarcazioni, filari di case basse e piantagioni di souvenir per turisti. Ne è rimasta stregata, si è detta che assuefarsi a quella meraviglia è impossibile, e ha contato quanti come lei erano rimasti in contemplazione: quindici.

È salita su un vaporetto, direzione Dorsoduro. Ha fissato per tutto il tragitto le gondole ormeggiate, mosse dalle onde, inconsolabili, e i segni dellʼacqua alta sui contorni, linee marcescenti e verdi muschi che le sono sembrati dei moniti. Ha sentito gemere le fondamenta delle architetture, di lamenti melmosi e ovattati. Ha annusato il profumo di un luogo che illude dʼimmutabilità, come una magnifica leggenda.

Si è inoltrata nei giardini di Caʼ Rezzonico, e ha proseguito per musei e antichi palazzi, passeggiando fino a piazza San Marco, senza che unʼocchiata di repulsione, o di commiserazione, le si posasse addosso. Indossava una bauta bianca e un cappello a tricorno con le piume. Era carnevale, nessuno faceva caso a lei.

Tra gli artisti del centro storico è il suonatore di calici ad averla rapita. Era un uomo corpulento, ma mentre le sue dita umide sfioravano quei bordi di vetro con la velocità e la grazia dei colibrì, lʼimpaccio della massa svaniva. Sprigionava la melodia dellʼinanimato, componendo motivi che le sembravano di un altro pianeta.

Dopo lo spettacolo serale avrebbe voluto vagare per le centinaia di isole e ponti di quella città dalla fragile naturalezza, che sprofonda per una fine poetica, in un futuro subacqueo chissà quanto lontano. Ma la folla era soffocante, ha ripiegato nellʼintimità di vicoli desolati, finché si è imbattuta in un ubriaco sconfitto, con la sua stessa maschera e un cappello identico, più un tabarro scuro e dei guanti eleganti, che gli ha portato via. Ha completato il suo costume e in una tasca interna di quel mantello ha trovato una cartolina dorata. Si è allontanata serafica, voltato lʼangolo ha visto uscire da un portone due gnaghe allegre, che parlavano di una festa folle. Ha aspettato che si aprisse di nuovo e si è imbucata.

Allʼingresso cʼera la sorveglianza. Le hanno chiesto lʼinvito e ha sfoggiato la cartolina. Era una casa sfarzosa, arredata in stile diciassettesimo secolo. Al centro della sala maggiore cʼera una piccola orchestra che suonava musica barocca, in quella successiva dominavano banchetti di pietanze pregiate e vini costosi, in tutte le altre cʼerano orge di sesso, bondage e cocaina. Si è aggirata tra quei corpi euforici come unʼinfiltrata, fantasticando di doverne analizzare i livelli di depravazione. Certuni ne sembravano succubi, altri la padroneggiavano con esperienza, e qua e là qualcuno la scambiava per la persona che aveva sostituito. Rispondeva con dei gesti e si defilava, sorseggiando champagne, ma lʼinganno non convinceva.

«Benvenuto nella prossima Atlantide, in cui dimorerà chi ha sangue diverso dagli esseri umani» le ha detto un medico della peste con accento slavo.

Quando ha provato a ripetere la tattica, quello lʼha afferrata per un polso e ha urlato: «Non conosci la risposta in codice perché sei un intruso».

Le ha ordinato di svelare la sua identità, ma lei non avrebbe mai rinunciato allʼanonimato. Non lʼha fatto neanche quando è stata legata a una cavallina da BDSM, a culo nudo, né quando lʼha avvisata delle conseguenze se non obbediva. Le ha spinto nellʼano tre uova sode, tra lʼesaltazione degli ospiti, e poi ha tolto la propria maschera, per mostrarle un volto che non doveva dimenticare. Quei lineamenti ruvidi, quegli occhi ferini e quella cicatrice da bocca a orecchio le tormentano ancora i sogni.

Appena ha ripreso a camminare bene è andata in unʼagenzia interinale. Le hanno offerto quel posto da inserviente, in mezzo a polli e galline. Ha accettato, dicendo che era ciò che meritava. A Venezia non è più tornata.

Riemersa dalle paludi della memoria, si accorge di essere scrutata da un bambino seduto davanti a lei, in una torsione elastica.

«Perché la tua faccia è così?» le domanda.

«Ho una malattia che si chiama sindrome di Treacher Collins».

«Ti fa male?»

«No».

«Puoi guarire?»

«Macché».

«Come ti sei ammalata?»

«Sono nata così».

«Tanto tempo fa?»

«Non direi, ho allʼincirca ventʼanni».

«Allʼincirca?»

«Non fa differenza se sono più o meno di venti».

«Perché?»

«Non cambia niente».

«Sei strana. Come ti chiami?»

«Non lo so più. Nessuno mi chiama mai per nome» e si alza, interrompendo lʼintervista. Deve scendere con un paio di fermate di anticipo, per comprare cartaculo e beveraggio a Vania; così le ha scritto per messaggio.

Ficca nel cestino gin, grappa, rum scuro, acqua tonica e carta igienica. Che si sfondi il fegato e caghi fino a morire, rimugina, se è questo che vuole niente glielo impedirà, tantomeno io. Poi cerca qualcosa per sé, ma la distraggono unʼanziana signora e la sua nipotina; sghignazzano come se fossero complici in uno scherzo, che vorrebbe capire quale sia.

«Menomale che nessuno ti vorrà mai, avrei odiato diventare nonna» le ha detto Vania nella sua ultima sbronza. Le ha bussato alla porta a notte fonda per farglielo sapere. Dopo è risalita, zoppicando e ridendo.

Averle confidato che è lesbica era stato inutile, non lʼaveva nemmeno ascoltata.

Sceglie carciofi, cipolle rosse, pomodori secchi, sapone liquido e un ammorbidente. Le servirebbe anche un bagnoschiuma, ma lʼeccessiva varietà la confonde. Distoglie lo sguardo per non perdersi in quegli scaffali, e tentando di ricordare quale ha comprato la volta scorsa, avvista qualcuno che le sembra familiare. Si avvicina per guardarlo meglio, senza farsi notare: è un signore di circa settantʼanni, tozzo, con la chierica, delle folte basette e una postura remissiva, da perdente. Crede che sia suo padre.

Non ne è certa, lʼha visto solo in qualche fotografia sbiadita. Se gli si parasse di fronte quello non avrebbe gli stessi dubbi, da queste parti nessuno è come lei. Ma non se la sente. Lo segue fra i reparti, alla cassa, per strada. Non ha la macchina, cammina da solo, così decide di pedinarlo, ignara della ragione.

Di quel genitore sa che è tornato dalla prima moglie, che vive nelle vicinanze e che ha spedito lʼassegno di mantenimento fino alla sua maggiore età. Nientʼaltro. Vania le ha detto anche che le ha abbandonate per colpa della sua orrenda fisionomia, la riteneva un castigo divino, ma sospetta che non sia la verità; non le ha mai dato motivi per fidarsi.

Gli va dietro con un paio di sacchetti. Svolta alla copisteria, poi alla clinica veterinaria, supera una piazzetta e aspetta fuori da unʼenoteca. Si domanda che lavoro facesse, se è in salute, se ha altri figli, se questi sappiano della sua esistenza, se lo hanno reso nonno, se detesta esserlo. Quando riappare, persevera con il pedinamento e le incognite.

Dopo unʼaltra decina di metri però quello si volta di scatto, facendo oscillare le sue provviste.

«Credi sul serio di poter passare inosservata?»

È questa la voce di mio padre?, sʼinterroga lei, è così raschiante? è con questo timbro cacofonico che si rivolgeva a me? oppure è stata tramutata dal tempo? Le sembra fatta di sabbia e sassi, dovrebbe appartenere a un uomo di pietra, non a un individuo comune.

«Che cosa vuoi?»

Lei vorrebbe unʼalba luminosa ogni mattino, dei soldi per aggiustare lo scooter, lavorare soltanto nellʼottavo capannone, la revoca allo stop dello sterminio dei pulcini, essere una buona mamma per le galline che nasceranno, infilare nel tritarifiuti gli eventuali maschi, fare sesso con le ragazze, imparare a suonare gli oggetti, scordare lo sfregiato e che la faccia di Vania diventi come la sua. Ma nessuna di queste risposte le pare corretta, così continua a tacere.

«Ti sei ingoiata la lingua, o sei sorda?»

È indecisa se dire che altri con la sua sindrome perdono lʼudito, e hanno problemi respiratori che possono ucciderli, ma a lei è andata bene. Oppure ribattere con un secco vaffanculo, un padre dovrebbe saperlo. Invece la attira un aroma. Sono davanti a una polleria. Dei polli allo spiedo girano sotto fiamme bluastre, in vetrina, come in una lenta danza di saggezza. Le rammentano che il presente conta più del passato. Deve controllare le uova nellʼincubatrice.

Rinuncia al confronto con il padre potenziale e prova a ripercorrere lo stesso tratto a ritroso. Volta da una parte, poi dallʼaltra, passa da un incrocio, attraversa una galleria, finché non sa più dove si trova; non è mai stata in questa zona. In giro cʼè ancora qualcuno, anche se è sera da un poʼ, ma di suscitare sconcerto chiedendo informazioni non le va. Accelera il passo, rimpiangendo di non avere prestato attenzione al percorso, alla ricerca di uno stralcio di senso dellʼorientamento, con la crescente convinzione che le uova abbiano bisogno di lei. E il boato di unʼesplosione terrorizza lʼintero isolato, e lʼonda dʼurto fa tremare ogni cosa, e un fumo catramoso appesta lʼatmosfera, mentre un blocco di muratura la sbalza contro unʼauto parcheggiata, facendole perdere conoscenza.

Rimane sul marciapiede, tramortita, a ricoprirsi di detriti e fuliggine, con gli abiti che bruciano e la spesa sparsa ovunque, ai piedi di una palazzina squarciata come se fosse di cartapesta.

 

Un acquazzone sta abbeverando terreni agricoli e vegetazione urbana, sta ripulendo stabilimenti, carreggiate e condomini, sta obbligando i passanti a proteggersi con gli ombrelli o a rintanarsi. Lei lo vede infrangersi contro la finestra della stanza dʼospedale, dove lʼilluminazione le trafigge i sentimenti.

Si sente imperniata a letto, con medicazioni, attrezzi chirurgici e terapie endovenose che le impediscono qualsiasi movimento, ed emicrania e acufene che le castrano ogni riflessione. Riesce a pensare solo agli analgesici, le sembrano dosati con avarizia. Immagina di stare là fuori e che quella sia una pioggia di morfina.

È rimasta in coma per un mese. Appena ha dimostrato di avere recuperato le capacità cognitive le è stato comunicato del trauma cranico, delle costole rotte, delle fratture alla clavicola, allʼomero e alla tibia, della perforazione di un polmone, delle ustioni di terzo grado su spalle, arti e viso, degli interventi operatori che ha subìto e di quelli a cui dovrà sottoporsi. Non sa se anche Vania ne è al corrente, è la prima volta che viene a trovarla, e non fa altro che stare seduta a sbevazzare da una fiaschetta.

«Fai più schifo di prima» le dice allʼimprovviso. E va via.

Non se la prende, sa che schiettezza spesso non fa rima con gentilezza, ed è sicura che non si sbagli. Non si è arrabbiata neppure quando le è stato raccontato del vecchio con la leucemia, che ha fatto scoppiare con il gas lʼappartamento in cui viveva insieme alla moglie malata di Alzheimer, per porre fine alle loro sofferenze; per una decisione che denota coraggio e amorevolezza prova rispetto, è la sfortuna che lʼha fatta essere lì nellʼattimo peggiore, e a quella è abituata. E per i pulcini che dovevano nascerle si è rammaricata, finché non ha realizzato che trasformare in un pollaio quel seminterrato era una bestialità. È lʼinsufficienza di antidolorifici che la fa schiumare di rancore, farebbe a pezzi qualunque cosa che le sta attorno e quel poco di sano che le è restato in corpo, se potesse. Ma può solo premere il pulsante per richiamare lʼinfermiera, sperando che le conceda un intermezzo di quiete, in quel lancinante supplizio che le fa desiderare di gettarsi in un tritacarne gigante.